Centro Diagnostico Con Debiti: Cosa Fare Per Difendersi

Il tuo centro diagnostico ha debiti e la situazione finanziaria sta diventando insostenibile?
Hai ricevuto cartelle esattoriali, pignoramenti, decreti ingiuntivi o solleciti da banche, fornitori, finanziarie o enti pubblici e temi che questo possa compromettere la continuità operativa e la tua reputazione professionale? In questi casi è fondamentale conoscere i tuoi diritti, agire legalmente per difenderti e utilizzare strumenti concreti per proteggere il patrimonio, la struttura e il rapporto con i pazienti.

Quando un centro diagnostico può trovarsi con debiti
– Quando ha contratto mutui, leasing o finanziamenti per l’acquisto di apparecchiature costose, software e arredi e non riesce più a sostenere le rate
– Quando ha accumulato debiti verso fornitori di reagenti, dispositivi e servizi essenziali
– Quando ha arretrati fiscali o contributivi verso Agenzia delle Entrate, INPS o altri enti
– Quando il calo della domanda, la concorrenza o ritardi nei pagamenti da parte di enti convenzionati hanno ridotto la liquidità
– Quando spese impreviste, contenziosi legali o aumenti nei costi di gestione hanno aggravato la situazione finanziaria

Cosa può accadere a un centro diagnostico con debiti
– Pignoramento dei conti correnti aziendali o personali, con blocco delle operazioni quotidiane
– Pignoramento presso terzi dei crediti verso assicurazioni, enti pubblici o convenzioni
– Iscrizione di ipoteche sugli immobili della struttura
– Revoca di affidamenti bancari e difficoltà ad accedere a nuova liquidità
– Perdita di fornitori e interruzione di forniture essenziali per l’attività
– Nei casi più gravi, rischio di chiusura forzata o avvio di procedure concorsuali

Cosa può fare un centro diagnostico per difendersi dai debiti
– Far verificare da un avvocato la natura e la legittimità dei debiti, individuando eventuali importi prescritti o contestabili
– Per i debiti fiscali e contributivi, valutare piani di rateizzazione, rottamazioni o saldo e stralcio
– Attivare procedure di composizione negoziata della crisi o concordato preventivo per ristrutturare i debiti e proseguire l’attività
– Negoziare con banche e fornitori piani di rientro sostenibili per ridurre interessi e penali
– Proteggere immobili, attrezzature e beni aziendali con strumenti giuridici legittimi
– Bloccare o sospendere azioni esecutive quando ci sono i presupposti di legge

Cosa può ottenere un centro diagnostico con la giusta assistenza legale
– La sospensione di pignoramenti, ipoteche e altre azioni esecutive
– La riduzione sostanziale del debito complessivo tramite accordi o procedure giudiziarie
– La tutela degli immobili, delle attrezzature e dell’avviamento aziendale
– La possibilità di ristrutturare i debiti senza interrompere l’attività
– Il recupero della stabilità economica e gestionale
– La salvaguardia della reputazione e del rapporto di fiducia con i pazienti

Attenzione: anche un centro diagnostico ben avviato può trovarsi in difficoltà finanziarie gravi. Tuttavia, esistono strumenti legali e strategie di difesa che possono evitare il tracollo e permettere di continuare a operare. Agire in tempi rapidi è fondamentale per salvaguardare l’attività.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa, tutela delle strutture sanitarie private e difesa del patrimonio – ti spiega cosa fare se il tuo centro diagnostico ha debiti, come proteggerti e come risolvere legalmente la crisi finanziaria.

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Introduzione

Gestire un centro diagnostico sommerso dai debiti richiede conoscenze giuridiche aggiornate e un approccio strategico. Negli ultimi anni l’Italia ha profondamente riformato la disciplina della crisi d’impresa con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.Lgs. 14/2019 e pienamente efficace dal 15 luglio 2022 dopo vari rinvii dovuti alla pandemia e al recepimento della Direttiva UE 2019/1023. Questo nuovo impianto normativo, modificato da successivi correttivi (D.Lgs. 147/2020, 83/2022 e 136/2024), ha sostituito la storica Legge Fallimentare del 1942, privilegiando la prevenzione e il risanamento rispetto alla mera liquidazione e incoraggiando l’emersione tempestiva delle difficoltà e soluzioni negoziali con i creditori.

Quando un’impresa sanitaria come un centro diagnostico entra in crisi, il primo rischio è la paralisi decisionale: non sapere da dove cominciare né a chi rivolgersi. Ma esistono strumenti legali per uscire dai debiti, salvare l’attività e spesso evitare fallimenti e pignoramenti. Occorre agire senza indugio: attendere passivamente peggiora tutto. Meglio confrontarsi subito con esperti e valutare piani di rientro o ristrutturazione del debito, anziché lasciare che i creditori (banche, fornitori, Erario) prendano l’iniziativa. Ogni situazione è diversa, ma alcune costanti valgono per tutti:

  • Forma giuridica e responsabilità: se il centro diagnostico è gestito da una società di capitali (es. S.r.l. o S.p.A.), vige la regola della responsabilità limitata – i debiti si pagano col patrimonio sociale e i soci/amministratori non rispondono in proprio, salvo abbiano prestato garanzie personali o commesso illeciti gestionali. Viceversa, se l’attività è svolta come ditta individuale o società di persone (S.n.c., S.a.s.), i titolari e soci illimitatamente responsabili rischiano tutti i loro beni personali per i debiti dell’impresa. Questa differenza incide molto sulle strategie di difesa e sugli strumenti da adottare.
  • Tipologia dei debiti: un centro diagnostico può accumulare vari tipi di debito – fiscali (verso Agenzia Entrate), contributivi (INPS/INAIL), bancari (mutui e leasing su macchinari, scoperti di conto), verso fornitori (materiali sanitari, reagenti, utenze), verso dipendenti (stipendi e TFR), ecc. – ciascuno con caratteristiche, garanzie e rimedi specifici. Occorre mappare i debiti e capire priorità e rischiosità di ciascuno, per evitare errori (ad esempio pagare prima un creditore meno pericoloso trascurando il Fisco, il che potrebbe aggravare la posizione).
  • Strumenti di legge disponibili: oggi l’ordinamento offre molteplici procedure per affrontare una crisi d’impresa: dalla composizione negoziata della crisi (strumento extragiudiziale con l’aiuto di un esperto indipendente) ai piani attestati di risanamento, dagli accordi di ristrutturazione del debito (con omologazione del tribunale) al concordato preventivo (con continuità aziendale o liquidatorio), fino a procedure “minori” per soggetti non fallibili (come il concordato minore o il piano del consumatore per i debiti personali). Ogni strumento ha presupposti e effetti differenti, e va scelto in base alla gravità della crisi, alla composizione del debito (quali creditori principali) e all’obiettivo del debitore (salvare l’attività in continuità o liquidare ordinatamente evitando guai peggiori).
  • Supporto professionale e istituzionale: affrontare una crisi complessa richiede l’assistenza di professionisti specializzati (avvocati d’impresa, commercialisti esperti in crisi) e spesso il coinvolgimento di organismi pubblici dedicati (Camere di Commercio per la composizione negoziata, Organismi di Composizione della Crisi per sovraindebitamento, sportelli delle associazioni di categoria). Il debitore in difficoltà non è solo: la legge stessa incoraggia a chiedere aiuto tempestivamente, offrendo procedure guidate e tutele temporanee. Al contrario, chi lascia che siano i creditori a iniziare azioni esecutive o istanze di fallimento rischia soluzioni più traumatiche.

In questa guida – aggiornata a luglio 2025 – forniremo un’analisi approfondita su come difendersi dai debiti per un centro diagnostico, con linguaggio tecnico-giuridico ma accessibile. L’ottica è quella del debitore (titolare o amministratore del centro) che vuole salvare la propria attività o chiuderla nel modo meno doloroso possibile, tutelando ove fattibile anche il patrimonio personale. I principali temi che affronteremo sono:

  • Tipologie di debito che un centro diagnostico può accumulare (erariali, previdenziali, bancari, commerciali, verso il personale, da leasing, ecc.), evidenziando per ciascuna le caratteristiche, le tutele del creditore (privilegi, garanzie) e le conseguenze del mancato pagamento.
  • Strumenti legali di gestione e risoluzione della crisi previsti dalla normativa italiana vigente, inclusi gli ultimi aggiornamenti del 2024: composizione negoziata della crisi, piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione dei debiti (anche nelle varianti introdotte dalla Direttiva Insolvency, come gli accordi estesi ai dissenzienti e il piano di ristrutturazione omologato – PRO), concordato preventivo (in continuità e liquidatorio), il nuovo concordato semplificato senza voto per liquidazione del patrimonio (introdotto nel 2021), la liquidazione giudiziale (il “fallimento” secondo il CCII) ed infine le procedure per sovraindebitamento dedicate a piccole imprese e privati (concordato minore, ristrutturazione del consumatore, liquidazione controllata). Vedremo anche come questi strumenti consentono trattamenti specifici dei debiti fiscali e contributivi (es. transazione fiscale e contributiva nelle varie procedure) e le condizioni per ottenere l’esdebitazione, ossia la liberazione dai debiti residui a fine procedura.
  • Differenze di approccio in base alla dimensione e settore dell’impresa: un centro diagnostico rientra spesso nelle PMI, ma può avere obblighi peculiari (p.es. mantenere standard sanitari e autorizzativi). Confronteremo brevemente le strategie applicate in altri settori (edilizia, commercio, servizi) per capire quali aspetti operativi considerare nel settore sanitario.
  • Tabelle riepilogative e schemi: forniremo schemi riassuntivi per le principali categorie di debiti e per il funzionamento comparato degli strumenti di crisi, così da facilitare la comprensione e l’uso pratico delle informazioni.
  • Domande frequenti (FAQ): una sezione Q&A chiarirà i dubbi più comuni – ad esempio se e quando il titolare risponde con beni propri dei debiti aziendali, cosa succede se non si pagano fisco o fornitori, come si possono ridurre i debiti, quanto durano e costano le procedure, ecc. – con risposte mirate basate su legge e giurisprudenza aggiornata.
  • Casi pratici (simulazioni): infine, due simulazioni pratiche mostreranno come applicare gli strumenti in concreto. Vedremo il caso di un centro diagnostico (società) gravato da debiti bancari e fiscali e quello di un piccolo imprenditore individuale sanitario oberato da debiti misti, seguendo passo passo le soluzioni adottate e l’esito (risanamento o liquidazione con esdebitazione).

Nota bene: Le informazioni che seguono si riferiscono al quadro normativo italiano vigente al 2025, con riferimenti a leggi, sentenze e prassi. Per semplicità espositiva useremo talvolta il termine “fallimento”, sebbene oggi si debba parlare di liquidazione giudiziale, e citeremo ancora la “Legge Fallimentare” dove rilevante per fatti del passato (R.D. 267/1942, abrogata ma utile per interpretazioni pregresse). Ogni strategia va calibrata sul caso concreto con l’ausilio di professionisti qualificati.

Tipologie di debiti di un centro diagnostico e loro caratteristiche

Una corretta strategia di risanamento parte dall’analisi della natura dei debiti del centro diagnostico. Diverse categorie di debito presentano infatti caratteristiche giuridiche e implicazioni diverse – priorità di pagamento, possibilità di negoziare o ridurre l’importo, conseguenze legali se non pagati, eventuali responsabilità personali, ecc. Di seguito esaminiamo i principali tipi di debiti che tipicamente gravano su un centro medico-diagnostico in Italia, evidenziando per ognuno i rischi per il debitore e gli strumenti di tutela.

Debiti fiscali (Erario: imposte e cartelle esattoriali)

I debiti fiscali comprendono tutte le imposte dovute allo Stato: ad esempio IVA (per le attività imponibili, anche se molti servizi sanitari accreditati sono esenti IVA), IRAP (imposta regionale sulle attività produttive, dovuta anche dalle strutture sanitarie private), IRES (imposta sul reddito societario, se il centro è una società), ritenute fiscali su stipendi dei dipendenti e compensi collaboratori, nonché eventuali accise o imposte locali. Se il centro diagnostico è gestito in forma individuale, includiamo anche IRPEF su redditi professionali non versata. In caso di mancato versamento spontaneo, queste somme vengono iscritte a ruolo e la riscossione è affidata all’Agenzia delle Entrate-Riscossione (ex Equitalia), che notifica le famose cartelle esattoriali. La cartella ingiunge il pagamento entro termini prefissati (di norma 60 giorni); se ignorata, l’Agente della Riscossione può avviare misure esecutive senza bisogno di un ulteriore giudizio.

Le principali azioni esecutive del fisco includono: fermi amministrativi sui veicoli intestati al debitore (impediscono di usare e vendere automezzi), ipoteche legali sugli immobili (anche su proprietà non direttamente legate all’attività, come la casa del titolare se ditta individuale), pignoramenti di conti correnti, pignoramenti presso terzi (ad es. blocco dei crediti verso clienti, rimborsi ASL dovuti al centro) e pignoramenti di beni mobili o attrezzature. Da notare che per debiti IVA e ritenute non versate oltre certe soglie scattano anche conseguenze penali: omesso versamento IVA (oltre €250.000 annui) e omesso versamento di ritenute certificate (oltre €150.000) sono reati punibili se non si regolarizza entro la scadenza della dichiarazione successiva. Inoltre, il solo accumulo di rilevanti debiti fiscali può far perdere al centro requisiti importanti: ad esempio il DURC fiscale (documento di regolarità) o autorizzazioni in caso di grossi inadempimenti tributari.

Un aspetto cruciale dei debiti tributari è che molti di essi godono di privilegi sui beni del debitore. In particolare, imposte come l’IVA dovuta negli ultimi 12 mesi e le ritenute non versate negli ultimi due anni sono assistite da privilegio generale mobiliare ex art. 2752 c.c. e privilegio speciale immobiliare ex art. 2777 c.c. (il c.d. “privilegio Erario”). Questo significa che, in caso di concorso con altri crediti, il Fisco viene soddisfatto con precedenza su tutti i crediti chirografari (non garantiti) e su molti altri privilegi di grado inferiore. Anche le sanzioni tributarie hanno un certo grado di privilegio (sebbene postergato ai tributi). Ciò rende i debiti fiscali particolarmente delicati nelle procedure concorsuali: vanno pagati almeno in parte per poter ottenere l’omologazione di piani e concordati, a meno di accordi specifici con l’Erario.

Dal punto di vista del debitore (centro diagnostico), ignorare o ritardare i debiti fiscali è molto pericoloso. Già piccoli arretrati IVA possono attivare segnalazioni di allerta: l’Agenzia Entrate invia avvisi se riscontra IVA scaduta oltre €5.000 per oltre tre mesi. Importi maggiori (esposizione a ruolo sopra €100.000 se società di capitali) permettono all’Agente di Riscossione di segnalare formalmente la situazione al debitore e (dal 2022) anche di attivare gli organi di crisi. Operativamente, un centro diagnostico con cartelle esattoriali impagate si vedrà preclusa ogni possibilità di ottenere un DURC regolare: ciò può impedirgli di partecipare a convenzioni col SSN o a bandi pubblici e mina la reputazione finanziaria. Inoltre, gli interessi e le sanzioni di mora fanno lievitare rapidamente l’importo dovuto.

Come difendersi dai debiti fiscali? In primo luogo, valutare le opzioni di pagamento dilazionato o agevolato previste dalla legge. L’Agenzia Entrate-Riscossione consente di ottenere una rateizzazione fino a 72 rate mensili (6 anni) per importi fino a €120.000 senza dover dare garanzie (basta una domanda) e piani fino a 120 rate (10 anni) per importi superiori o situazione di grave difficoltà comprovata. Inoltre, periodicamente il legislatore var varo provvedimenti di “definizione agevolata” (come le rottamazioni delle cartelle): ad esempio nel 2023-2024 è stata attiva la “Rottamazione-quater” che permetteva di estinguere le cartelle eliminando sanzioni e interessi. Il debitore deve monitorare queste opportunità e aderirvi se possibile, perché riducono il carico.

Nei casi di crisi più acuta, però, la sola rateizzazione può non bastare. Qui entrano in gioco i menzionati strumenti concorsuali: concordato preventivo, accordo di ristrutturazione e composizione negoziata. In tali procedure si può ricorrere alla transazione fiscale: il debitore propone al Fisco un pagamento parziale delle imposte con stralcio di interessi e sanzioni, garantendo comunque all’Erario un importo non inferiore a quello che otterrebbe in caso di liquidazione fallimentare. Se l’Agenzia delle Entrate aderisce (o se il giudice impone il cram-down fiscale quando ne ricorrono i presupposti), il piano può essere omologato e il debito fiscale ridotto nei limiti concordati. Dal 2024, grazie al D.Lgs. 136/2024, perfino nell’ambito della composizione negoziata stragiudiziale è diventato possibile concludere accordi di transazione fiscale e contributiva con il Fisco senza passare dal voto dei creditori: un’importante novità che consente di tagliare parte dei debiti tributari in via riservata, purché l’Agenzia Entrate sia consenziente e un esperto attesti che lo Stato riceve almeno quanto avrebbe in un fallimento. Questo strumento è volontario (il Fisco deve essere d’accordo) e non consente di “imporre” riduzioni se l’Erario dice no, ma rappresenta comunque un nuovo potente incentivo a trattare col Fisco prima di arrivare all’insolvenza conclamata.

Va infine ricordato che, grazie all’art. 88 comma 4-ter TUIR, le rinunce e riduzioni di debiti tributari concordate in sede concorsuale non generano imponibile fiscale aggiuntivo per l’azienda. Ad esempio, se in un concordato si ottiene lo stralcio del 50% di un debito IVA, quel 50% non verrà tassato come sopravvenienza attiva (ciò è stato chiarito anche dall’Agenzia Entrate – Risposta a interpello n. 222/2024 – estendendo l’esenzione persino ai piani attestati pubblicati). Questo evita il paradosso di dover pagare tasse su importi di cui in realtà si è stati esonerati.

Tabella riepilogativa – Debiti fiscali: caratteristiche e gestione

AspettoDescrizione
CreditoriStato (Erario), tramite Agenzia delle Entrate e Agenzia Entrate-Riscossione (per la riscossione coattiva). Coinvolti anche enti locali per tributi locali (TARI, IMU) che seguono regole simili.
Garanzie/PrivilegiPrivilegi generali e speciali ex artt. 2752 e 2770-2778 c.c. su IVA, ritenute e imposte dirette recenti. In caso di concordato, il Fisco è creditore prelatizio su buona parte del dovuto.
Conseguenze mancato pagamentoCartelle esattoriali; fermi amministrativi su veicoli; ipoteche su immobili; pignoramenti conti, crediti terzi. Per importi rilevanti: segnalazioni d’allerta (IVA > €5k); perdita DURC fiscale; eventuali denunce penali (omesso versamento IVA/ritenute sopra soglia).
Strumenti difensiviRateizzazione amministrativa fino a 6-10 anni. – Definizioni agevolate (rottamazione, saldo e stralcio) se previste da legge. – Transazione fiscale in concordato/accordo: possibile ridurre quota di imposte e azzerare sanzioni/interessi con omologa tribunale. – Transazione fiscale in composizione negoziata (dal 2024): accordo stragiudiziale col Fisco con autorizzazione giudice, se l’Erario acconsente. – Contenzioso tributario: se il debito è controverso (es. avvisi di accertamento non dovuti) si può fare ricorso in Commissione Tributaria, ma attenzione ai termini brevi e alla necessità di pagare intanto 1/3 in caso di ricorso (in sede di crisi spesso si preferisce transare).
NoteDebiti fiscali parzialmente inderogabili: IVA e ritenute possono essere falcidiate solo rispettando il best interest test (Erario prende ≥ rispetto a liquidazione). Possibile cram-down fiscale in concordato/accordo se Fisco dissenziente minoritario.

Debiti previdenziali (INPS, INAIL)

Questa categoria include i contributi obbligatori dovuti agli enti previdenziali e assicurativi, in primis INPS (contributi pensionistici e assicurativi dei dipendenti, contributi IVS artigiani/commercianti se il titolare è iscritto) e INAIL (premi assicurativi per gli infortuni sul lavoro). Un centro diagnostico con personale dipendente avrà versamenti mensili di notevole importo. Il mancato versamento di contributi comporta sanzioni civili (interessi di mora maggiorati) e soprattutto la perdita del DURC contributivo (Documento Unico di Regolarità Contributiva): senza DURC, l’azienda non può partecipare ad appalti pubblici e convenzioni con il SSN possono essere sospese. Inoltre, omissioni contributive prolungate innescano le segnalazioni d’allerta da parte dell’INPS: omessi versamenti > €15.000 con dipendenti (o > €5.000 se senza dipendenti) per oltre 3 mesi portano l’ente a inviare avviso formale all’imprenditore di attivarsi per la composizione della crisi.

Dal punto di vista sostanziale, i crediti contributivi dell’INPS godono per legge di privilegi analoghi a quelli tributari: privilegio generale sui mobili del debitore (per gli ultimi 2 anni di contributi dovuti) e speciale sugli immobili (artt. 2753 e 2778 c.c.). Inoltre, in caso di insolvenza, alcuni soggetti rispondono personalmente: i soci di società di persone e l’imprenditore individuale sono responsabili illimitatamente anche per i debiti contributivi verso INPS. Ciò significa che, ad esempio, se un SNC o un titolare ditta non paga i contributi dei dipendenti, l’INPS può agire anche sui beni personali dei soci/titolare, indipendentemente dall’apertura di procedure concorsuali. Nelle società di capitali (Srl/SpA) invece vige la limitazione di responsabilità: i soci non rispondono dei contributi aziendali con il loro patrimonio, salvo abbiano prestato fideiussioni personali o emergano condotte specifiche di mala gestio. Un esempio: il liquidatore di una società, che durante la liquidazione paga altri debiti e lascia insoluti i contributi, può essere ritenuto personalmente obbligato fino alla concorrenza di quanto distratto, ai sensi dell’art. 2495 c.c. e 36 D.P.R. 602/73.

Le azioni esecutive dell’INPS/INAIL sono in buona parte simili a quelle dell’Erario (tramite cartella esattoriale e Agente Riscossione): si va dall’iscrizione a ruolo dei contributi omessi, al pignoramento di beni e crediti, fino all’insinuazione nelle eventuali procedure concorsuali. Un effetto collaterale gravoso per l’impresa è che senza DURC l’attività rischia di bloccarsi: ad esempio, i fornitori di dispositivi medici o le ASL potrebbero sospendere i pagamenti o i contratti se l’azienda non è in regola con i contributi.

Gestione e soluzioni: analogamente ai debiti fiscali, anche per i contributi esistono strumenti di rateizzazione amministrativa (l’INPS consente dilazioni fino a 24 rate mensili, prorogabili in casi eccezionali) e recentemente il legislatore ha equiparato la transazione previdenziale a quella fiscale. In un concordato preventivo o accordo di ristrutturazione, oggi l’impresa può proporre il pagamento parziale/dilazionato dei crediti INPS con le stesse condizioni previste per i tributi (ovvero dimostrando che l’INPS riceve almeno quanto otterrebbe in caso di liquidazione fallimentare). Dal 2024, questa possibilità è esplicitamente ammessa anche in composizione negoziata: l’INPS dunque può formalmente concordare una riduzione del credito contributivo persino fuori dal tribunale, durante le trattative con l’esperto. Ciò rappresenta un avanzamento notevole, perché prima l’INPS poteva al massimo aderire informalmente (ad es. a una dilazione), mentre ora ha base legale per accettare stralci contributivi in un accordo stragiudiziale.

Resta fermo che, in mancanza di un accordo o procedura, l’ente previdenziale tutelerà integralmente il proprio credito: potrà rivalersi su tutti i beni aziendali e, come detto, su quelli personali dei responsabili illimitati. Inoltre, va ricordato che gli stipendi non pagati ai dipendenti generano due tipi di crediti: la retribuzione in sé (che è credito del lavoratore, privilegiato ex art. 2751-bis c.c.) e i contributi su quelle retribuzioni (crediti INPS). In un’eventuale procedura, i crediti dei lavoratori sono soddisfatti con priorità persino sugli altri privilegi (vedi oltre), mentre i contributi INPS seguono il loro rango proprio (privilegio generale). Tuttavia, lo Stato interviene a tutela dei lavoratori anche sul fronte contributivo: in caso di fallimento o concordato liquidatorio, l’INPS – attraverso il Fondo di Garanzia – paga ai dipendenti il TFR e le ultime tre mensilità arretrate, insinuandosi poi al posto loro (quindi il centro deve il relativo importo all’INPS, non più al dipendente). Questo meccanismo non vale se si evita la liquidazione giudiziale: in un accordo o concordato in continuità, sarà l’azienda a doversi far carico di pagare i dipendenti in misura adeguata, altrimenti il piano non viene omologato.

In sintesi, i debiti verso INPS/INAIL, pur meno visibili di quelli fiscali, vanno affrontati con la stessa urgenza: minano la prosecuzione dell’attività (DURC negativo) e possono comportare responsabilità personali. Spesso nelle ristrutturazioni sono equiparati ai debiti fiscali sia come priorità di pagamento sia come opportunità di stralcio tramite transazione previdenziale.

Debiti bancari e finanziari (mutui, finanziamenti, leasing)

Le banche e gli intermediari finanziari sono frequentemente tra i principali creditori di un centro diagnostico, specie se l’impresa ha fatto investimenti importanti in immobili o macchinari (pensiamo a mutui per l’acquisto della sede o di apparecchiature diagnostiche costose come RMN e TAC) oppure se ha operato con scoperti di conto corrente e fidi bancari per finanziare il circolante. Tipicamente, possiamo avere: mutui ipotecari su immobili (clinica, poliambulatorio), leasing finanziari su macchinari medicali, finanziamenti agevolati (es. con garanzia MCC o Confidi) per l’acquisto di attrezzature, anticipo fatture/accrediti (se il centro lavora con ASL e ha crediti verso il SSN), carte di credito aziendali e altre esposizioni minori.

Il debito bancario ha alcune peculiarità chiave:

  • Spesso è assistito da garanzie reali o personali: ipoteche su immobili, pegno su macchinari o su quote societarie, privilegio speciale su beni d’impresa (per finanziamenti agevolati, ex art. 46 D.lgs 385/93), e molto comunemente fideiussioni dei soci o dei garanti terzi. Nel settore sanitario è prassi che i soci/amministratori rilascino garanzie personali su mutui e leasing. Inoltre, a volte consorzi di garanzia fidi (Confidi) hanno garantito parte dei prestiti. Queste garanzie implicano che, in caso di insolvenza, la banca può escutere direttamente il bene in garanzia o il garante: ad esempio, se non si pagano le rate del mutuo ipotecario, la banca agirà sul bene ipotecato (pignoramento e vendita), e se resta un’insufficienza potrà aggredire il fideiussore. Nelle procedure concorsuali, i crediti bancari ipotecari o pignoratizi sono privilegiati fino a concorrenza del valore del bene dato in garanzia (prelazione). Ciò significa che nel riparto avranno priorità di pagamento sul ricavato di quel bene.
  • I contratti di finanziamento bancario prevedono clausole che, al manifestarsi della crisi, aggravano la posizione del debitore. Ad esempio, clausole di decadenza dal beneficio del termine o covenant finanziari: se l’azienda ritarda i pagamenti o peggiora certi indici di bilancio, la banca può revocare gli affidamenti e chiedere rientro immediato. Questo può scatenare la “spirale” della crisi: un lieve ritardo porta la banca a chiudere i fidi, causando ulteriore mancanza di liquidità (“effetto pull the plug”), che a sua volta porta ad altri insoluti.
  • Sul piano “morale”, il Codice della Crisi richiama il principio di merito creditizio: le banche hanno l’onere di valutare attentamente l’affidabilità del debitore all’atto di concedere credito. Se un centro diagnostico è sovraindebitato, si presume che anche i finanziatori abbiano colpe se hanno concesso credito in modo irresponsabile. Questo si riflette ad esempio nel fatto che, nelle procedure di sovraindebitamento del consumatore, la legge punisce le banche negligenti (es. non permettendo loro di opporsi al piano del consumatore). È una filosofia di matrice europea che mira a responsabilizzare gli enti finanziatori.

Le conseguenze di un default bancario sono immediate: alla prima insolvenza rilevante (rata mutuo non pagata, sconfino non rientrato), la banca attiva la messa in mora formale; trascorsi i termini contrattuali (spesso 60-90 giorni) senza rientro, il contratto viene risolto e si passa all’azione esecutiva. Per i mutui ipotecari, come detto, si va al pignoramento immobiliare (tribunale, vendita all’asta della proprietà ipotecata); per i fidi/scoperti non garantiti, la banca otterrà un decreto ingiuntivo e poi pignorerà beni mobili o crediti (es. crediti verso ASL, apparecchiature non vincolate). Se ci sono fideiussori, questi ricevono richieste di pagamento e, in mancanza, subiscono pignoramenti sui loro beni personali. Inoltre, la banca segnala l’esposizione “a sofferenza” in Centrale Rischi di Banca d’Italia, danneggiando la reputazione creditizia sia dell’azienda che dei garanti (rendendo impossibile ottenere altri finanziamenti in futuro, almeno finché la posizione rimane insoluta).

Possibilità di difesa e ristrutturazione del debito finanziario: la buona notizia è che le banche – a differenza del Fisco – sono interlocutori più flessibili sul piano negoziale privato, se intravedono convenienza in una soluzione concordata. Spesso, infatti, la banca preferisce rinegoziare il credito piuttosto che avventurarsi in lunghe cause o aste dall’esito incerto. Le leve negoziali possibili includono: allungamento dei piani di ammortamento (riducendo l’importo delle rate), periodi di pre-ammortamento (sospensione temporanea dei pagamenti del capitale), consolidamento di linee a breve in finanziamenti a medio termine, accordi a saldo e stralcio (sconto sul dovuto in cambio di pagamento immediato di una parte). Tali accordi possono avvenire in via stragiudiziale se la crisi non è troppo grave e coinvolge pochi creditori: ad esempio, il centro può presentare alle banche un piano di risanamento credibile e convincerle a diluire i crediti invece di aggredire i beni.

In contesti più complessi, l’alveo ideale è quello delle procedure di ristrutturazione formali: accordi di ristrutturazione del debito omologati o concordato preventivo. In un concordato, ad esempio, le banche costituiranno una o più classi di creditori e potranno subire una riduzione parziale del credito (sui crediti chirografari) se la maggioranza approva il piano. Il CCII prevede strumenti particolari per evitare che una singola banca dissenziente blocchi tutto: l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa ai creditori finanziari dissenzienti (art. 61 CCII, ex art. 182-septies L.F.). Se almeno il 75% degli istituti di credito (in valore) aderisce a un accordo, il tribunale può estenderne gli effetti alle banche rimaste fuori. Ciò evita la sindrome del “creditore holdout” (che tiene in ostaggio la ristrutturazione sperando di essere pagato per intero).

Un altro aspetto rilevante nelle ristrutturazioni è la possibilità di ottenere nuova finanza per rilanciare l’attività. La legge incentiva gli apporti di liquidità “fresca” prevedendo per essi la prededuzione nelle eventuali procedure concorsuali successive: in pratica, i nuovi finanziamenti autorizzati dal giudice in pendenza di un concordato o accordo, oppure concessi durante la composizione negoziata col beneplacito dell’esperto, saranno rimborsati con precedenza assoluta e non potranno essere soggetti a revocatoria. Ad esempio, se un investitore fornisce 100.000 € di cassa al centro diagnostico in crisi per portare a termine il concordato, quella somma (se autorizzata) verrà rimborsata prima dei creditori concorsuali e non potrà essere revocata se il concordato fallisce. Questo meccanismo rassicura banche e soci nell’iniettare capitali in situazioni difficili.

In definitiva, per i debiti bancari il debitore deve porsi due domande: (1) l’azienda è risanabile con un intervento di ristrutturazione finanziaria? (allungando debiti, ottenendo nuova finanza) – se sì, meglio perseguire accordi negoziali con le banche, magari in composizione negoziata; (2) in caso contrario, occorre una soluzione concorsuale ordinata (concordato o liquidazione) in cui comunque le banche saranno soddisfatte almeno parzialmente col ricavato dei beni in garanzia. Da evitare assolutamente è lasciare che le banche agiscano singolarmente: se una banca pignora il macchinario di risonanza magnetica, ad esempio, il centro potrebbe perdere uno strumento essenziale per lavorare, compromettendo la continuità e quindi le chance di ripagare anche gli altri creditori. Meglio prevenire questi scenari coinvolgendo tutte le banche in un piano unitario.

Debiti verso fornitori e altri creditori chirografari

I debiti verso fornitori sono gli importi dovuti ai fornitori di beni e servizi utilizzati dal centro diagnostico. Esempi: forniture di reagenti di laboratorio, acquisti di materiale sanitario e dispositivi medici monouso, bollette di utenze (energia elettrica, gas medicinali), servizi di pulizia e smaltimento rifiuti sanitari, e consulenze esterne (ad es. medici radiologi a contratto, se fatturano periodicamente). Tipicamente, questi debiti sono chirografari (non garantiti da collaterali) e frammentati su molti creditori, con scadenze brevi (30-90 giorni). In situazioni di stress finanziario, l’azienda tende a ritardare i pagamenti ai fornitori come “valvola di sfogo” della liquidità: paga in ritardo reagenti e bollette per far fronte magari agli stipendi o alle rate urgenti. Tuttavia, ciò può innescare reazioni a catena: fornitori non pagati potrebbero sospendere forniture essenziali (pensiamo ai reagenti di laboratorio, senza i quali le analisi si fermano) oppure intraprendere azioni legali.

Anche un singolo fornitore insoddisfatto, infatti, può presentare un decreto ingiuntivo e ottenere un pignoramento di beni o crediti aziendali (esempio: il fornitore di apparecchiature per radiologia potrebbe pignorare i crediti che l’ASL deve al centro, bloccando incassi futuri). Nei casi peggiori, un creditore può addirittura chiedere il fallimento (oggi liquidazione giudiziale) dell’azienda debitrice se ritiene che lo stato d’insolvenza sia conclamato. In Italia qualunque creditore non soddisfatto ha legittimazione a presentare istanza di fallimento, anche per importi relativamente modesti, purché i debiti scaduti siano significativi e l’insolvenza sia oggettiva. Questo rende i debiti verso fornitori pericolosi: bastano poche fatture impagate e un fornitore “agguerrito” per trascinare il centro in tribunale. Vale la pena sottolineare che imprese sanitarie e fornitrici spesso hanno rapporti di filiera importanti: un laboratorio di analisi dipende dalle forniture di reagenti; se il fornitore li blocca, l’attività cessa immediatamente. Dunque i fornitori strategici vanno gestiti con attenzione.

In caso di procedura concorsuale, i fornitori senza garanzie vengono trattati come creditori chirografari: saranno soddisfatti solo dopo il pagamento integrale dei privilegiati e garantiti, e spesso ricevono percentuali modeste (in un fallimento, a volte zero). Pertanto, paradossalmente, il fornitore potrebbe avere convenienza a venire a patti, se ciò evita il collasso dell’azienda cliente. Ad esempio, un fornitore preferirà forse accettare un pagamento parziale ma mantenere il cliente in attività, piuttosto che spingerlo al fallimento e perderlo del tutto.

Come gestire i debiti fornitori: la chiave è la comunicazione tempestiva e trasparente. In una situazione di tensione finanziaria, il debitore dovrebbe contattare i fornitori critici prima che la pazienza si esaurisca, cercando di scaglionare i pagamenti, proporre piani di rientro graduali o altre garanzie (es. cambiali, riconoscimenti di debito). Spesso un fornitore importante preferisce un “standstill” (sospensione temporanea delle azioni legali) con pagamento dilazionato, piuttosto che far fallire il cliente e recuperare poco o nulla. Ad esempio, il fornitore di reagenti potrebbe concordare che il centro gli paghi il 50% delle fatture arretrate subito e il restante 50% in 6 mesi, pur di continuare la fornitura.

Strumenti come la composizione negoziata possono aiutare in questo dialogo: attivando le misure protettive, il centro può congelare temporaneamente le azioni esecutive dei fornitori (per alcuni mesi) mentre l’esperto negozia con loro soluzioni di ristrutturazione. Inoltre, in un contesto protetto l’esperto può far valere un principio di equità: tutti i fornitori saranno trattati allo stesso modo, evitando preferenze che potrebbero indurre qualcuno a sentirsi discriminato.

Nei piani di ristrutturazione e concordati, è possibile coinvolgere i fornitori in modi creativi. Ad esempio, proporre la conversione di parte dei loro crediti in capitale sociale (i fornitori diventano piccoli azionisti dell’azienda risanata) o in strumenti finanziari partecipativi (come titoli legati ai futuri utili). Soluzioni simili sono state adottate in grandi ristrutturazioni (es. nell’industria auto, fornitori che accettano equity per mantenere il committente in vita), ma sono rare nelle PMI: richiedono fornitori strutturati e disposti a investire nella continuità del cliente, scenario poco frequente per un centro diagnostico locale.

Infine, è fondamentale – anche da un punto di vista etico e reputazionalegestire con correttezza i fornitori durante la crisi: evitare disparità di trattamento ingiustificate (pagare solo alcuni e lasciare altri a bocca asciutta senza criterio può generare ricorsi per bancarotta preferenziale in caso di fallimento) e tenere informati i partner sulle iniziative intraprese (piani, procedure in corso). Un centro diagnostico che riesce a risanarsi finanziariamente ma si è “bruciato” tutti i fornitori con comportamenti scorretti, avrà difficoltà a riprendere l’operatività per mancanza di fiducia nella filiera. Al contrario, se i fornitori percepiscono buona fede e un trattamento equo, saranno più propensi a continuare il rapporto dopo la crisi.

Debiti verso dipendenti (retribuzioni e TFR)

I debiti verso i dipendenti includono stipendi non pagati, ferie maturate e non godute, tredicesime, straordinari, TFR (Trattamento di Fine Rapporto) maturato e non versato al Fondo Tesoreria INPS o al fondo pensione, ed eventuali indennità accessorie. In un centro diagnostico, il costo del personale (medici specialisti, tecnici di laboratorio, tecnici di radiologia, infermieri, amministrativi) è una voce rilevante; se la crisi porta a ritardi nel pagare gli stipendi, le tensioni interne diventano altissime.

I crediti dei lavoratori godono di una tutela privilegiata massima nell’ordinamento. Sul piano civile, infatti, i crediti per retribuzioni degli ultimi 12 mesi e per TFR (entro un limite di importo, oggi circa €50.000 per dipendente) hanno privilegio generale mobiliare di primo grado ex art. 2751-bis n.1 c.c.. Inoltre, le retribuzioni degli ultimi tre mesi godono di privilegio speciale immobiliare sui beni dell’impresa ex art. 2776 c.c.. Ciò significa che, in caso di fallimento o concordato, i dipendenti devono essere soddisfatti prima degli altri creditori privilegiati di grado inferiore e, ovviamente, dei chirografari, almeno entro quei limiti di importo privilegiato. È uno dei rarissimi casi in cui addirittura l’Erario viene postergato: ad esempio, i contributi INPS (privilegio di grado inferiore) saranno pagati solo dopo aver saldato le ultime 3 mensilità ai lavoratori.

Non solo: in caso di insolvenza conclamata, interviene il già citato Fondo di Garanzia INPS per tutelare i lavoratori. Se l’azienda fallisce (o è ammessa a liquidazione giudiziale, concordato o altra procedura concorsuale assimilata) e non può pagare stipendi e TFR, l’INPS subentra e corrisponde ai lavoratori: l’intero TFR maturato e non versato, e fino a 3 mensilità di stipendio arretrate. Poi si insinua al posto loro nella procedura. Questo strumento garantisce che i dipendenti ricevano almeno una parte significativa di quanto dovuto anche nei casi peggiori.

Nelle procedure concorsuali diverse dal fallimento (concordati, accordi), il legislatore impone vincoli a tutela dei lavoratori: ad esempio, in un concordato preventivo il piano deve prevedere il pagamento di almeno il 100% delle retribuzioni impagate dei 3 mesi antecedenti la domanda e almeno il 40% del TFR maturato (salvo che i lavoratori espressamente accettino una soddisfazione inferiore). Questo è stabilito dall’art. 109 CCII e riflette la natura “alimentare” di tali crediti: i dipendenti, per legge, hanno diritto a un trattamento di favore rispetto agli altri creditori concorsuali.

Oltre all’aspetto civilistico, vi sono profili penali e amministrativi: il mancato pagamento delle retribuzioni entro i termini (generalmente il giorno 10 del mese successivo) integra un illecito amministrativo punito dall’Ispettorato del Lavoro con sanzioni pecuniarie. In casi estremi, se il datore di lavoro sfrutta la situazione di bisogno dei dipendenti minacciando di licenziarli per costringerli ad accettare ritardi o rinunce, potrebbe configurarsi il reato di estorsione contrattuale (art. 629 c.p. applicato in ambito lavorativo), sebbene sia una casistica rara e difficile da provare. In ogni caso, per il buon nome dell’azienda e per motivi etici, lasciare il personale senza stipendio è l’ultima risorsa disperata.

Gestione durante la crisi: non pagare i dipendenti mina la continuità operativa – una forza lavoro non retribuita difficilmente continuerà a lavorare con impegno, e aumentano assenteismo, scioperi o dimissioni di massa. Dunque, se ciò avviene, significa che la crisi è molto grave. In ottica di risanamento, i debiti verso il personale vanno considerati prioritari: spesso, appena si reperisce nuova finanza o arrivano incassi, la prima destinazione è pagare almeno in parte gli stipendi arretrati, per “ricompattare” la squadra. Nei concordati in continuità, è prassi chiedere al tribunale di pagare subito (in prededuzione) almeno le mensilità arretrate essenziali per ripristinare la pace sociale, lasciando eventualmente a falcidia solo il TFR o voci differite.

Una particolarità: se il concordato preventivo prevede la continuazione dell’attività, il tribunale autorizza tale continuità solo se l’impresa è in grado di pagare regolarmente le retribuzioni correnti durante la procedura. Se smette di pagare i salari mentre è in concordato, il giudice può revocare l’autorizzazione alla continuità. Insomma, i lavoratori godono di una posizione protetta. Se invece si arriva a liquidazione giudiziale, come detto interviene l’INPS (Fondo di Garanzia) a coprire TFR e tre mensilità, e i lavoratori possono accedere alla NASpI (indennità di disoccupazione) dopo il licenziamento collettivo.

In fase di ristrutturazione, se sono necessari esuberi di personale, è opportuno gestirli con strumenti di sostegno: la legge prevede la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) per crisi aziendale o cessazione, che può coprire fino a 12 mesi di stipendio in parte, evitando licenziamenti immediati. Oppure, se si cede l’azienda a un terzo, l’art. 2112 c.c. tutela i lavoratori nel passaggio (nel concordato in continuità diretta, i contratti di lavoro proseguono automaticamente con l’acquirente; in fallimento invece l’acquirente può scegliere chi assumere, ma di solito ci sono trattative sindacali per salvare il più possibile). Il CCII ha anche semplificato le procedure di licenziamento collettivo in ambito concorsuale, equiparandole ai casi di cessazione attività: ciò significa che in un concordato liquidatorio il Commissario può licenziare i dipendenti con una procedura accelerata autorizzata dal Ministero.

In sintesi, i dipendenti non necessariamente perdono il lavoro se l’azienda è in crisi: se si riesce a salvarla, i posti di lavoro si salvano; se l’azienda viene ceduta, i lavoratori possono transitare al nuovo acquirente; se invece si chiude, esistono ammortizzatori sociali per attenuare l’impatto e i loro crediti privilegiati vengono in buona parte soddisfatti (dall’azienda o dall’INPS). Dal punto di vista del debitore, però, la perdita di dipendenti chiave per fuga o malcontento può essere un colpo di grazia: quindi è fondamentale mantenere un dialogo onesto col personale e, se possibile, coinvolgerli nel piano di risanamento (anche con accordi sindacali per ridurre temporaneamente l’orario o i costi, o piani di incentivazione se il rilancio riesce).

Debiti da leasing, affitti e altre esposizioni specifiche

Debiti da leasing finanziario: molti centri diagnostici acquisiscono costose apparecchiature (TAC, risonanze, ecografi) tramite leasing. Il leasing è un contratto in cui una società di leasing acquista il bene e lo fa utilizzare all’impresa utilizzatrice, in cambio di canoni periodici; al termine c’è un’opzione di acquisto del bene pagando un riscatto. Se l’impresa non paga i canoni, la società di leasing può risolvere il contratto e riprendersi il bene (di solito con procedura semplificata, essendo proprietaria). Inoltre, il leasing prevede clausole per cui i canoni pagati restano acquisiti dal lessor, e può essere richiesto dall’utilizzatore insolvente il pagamento a titolo risarcitorio di parte dei canoni residui (dedotto il valore ricavato dal reimpiego del bene). In caso di fallimento, la legge consente al Curatore di sciogliersi dai contratti di leasing non scaduti, restituendo i beni; la società di leasing si insinuerà al passivo per il suo credito (con un privilegio speciale sul ricavato della eventuale vendita del bene, fino a concorrenza del valore del bene stesso).

Impatti pratici: per un centro diagnostico, la perdita di beni in leasing può essere drammatica. Ad esempio, se viene revocato un contratto di leasing su una risonanza magnetica per mancato pagamento, la macchina viene ritirata dal leasing: il centro non può più offrire quel servizio, perdendo pazienti e fatturato, e riducendo le chance di ripresa. Pertanto, in un piano di ristrutturazione, è spesso prioritario garantire la continuità dei leasing: si cerca di proseguire i contratti (pagando regolarmente i canoni correnti e magari concordando una dilazione per gli arretrati) oppure di rinegoziare il debito residuo (ad esempio trasformando il valore residuo in un finanziamento a condizioni diverse). In un concordato preventivo, l’impresa può chiedere al tribunale di essere autorizzata a pagare i canoni leasing in corso in prededuzione, se l’utilizzo del bene è essenziale per l’attività. Questo di solito viene concesso per non interrompere servizi critici.

Debiti per affitto di immobili o rami d’azienda: molti centri diagnostici operano in locali in locazione (ambulatori, poliambulatori). Il mancato pagamento di canoni d’affitto per più mensilità consente al locatore di risolvere il contratto e ottenere uno sfratto per morosità, costringendo l’azienda a lasciare i locali. Per un centro medico, perdere la sede (specie se attrezzata con autorizzazioni sanitarie) può significare dover chiudere o trasferirsi con costi e perdita di clientela. Nelle procedure di crisi, anche qui il legislatore ha introdotto tutele: l’art. 95 CCII consente all’impresa in concordato di sciogliersi o sospendere i contratti di locazione in essere con autorizzazione del tribunale, se ciò è funzionale al piano. Ad esempio, un centro potrebbe chiudere una sede periferica in perdita, sciogliendo il relativo contratto d’affitto senza incorrere nelle penali (il locatore rimane con un credito concorsuale per indennizzo). Viceversa, se i locali servono, il piano di concordato dovrà includere il pagamento dei canoni scaduti (di solito come crediti chirografari) e assicurare il pagamento regolare di quelli correnti, per mantenere il contratto. Il locatore, in caso di concordato, potrà insinuarsi per i canoni scaduti e un’eventuale indennità di occupazione per il periodo di procedura.

Debiti verso soci finanziatori: se i soci del centro diagnostico hanno in passato finanziato l’azienda (prestiti soci) invece di apportare capitale, quei debiti verso soci sono giuridicamente postergati (subordinati) per legge nelle S.r.l. (art. 2467 c.c.) e per analogia anche in SpA. Significa che, in caso di crisi, i soci vengono rimborsati solo dopo che tutti gli altri creditori sono stati soddisfatti integralmente. Di fatto, i crediti dei soci sono “ultimi in fila” e spesso finiscono integralmente assorbiti dalle perdite. In piani di risanamento seri, è prassi che i finanziamenti soci vengano convertiti in capitale o comunque rinunciati dai soci: questo sia per rispettare la legge (postergazione) sia come segnale di impegno dei proprietari (per dare l’esempio ai creditori terzi che anche i soci sopportano perdite). Quindi, se il centro ha debiti verso i propri soci, non conti su di essi come leva per abbattere il monte debiti: un euro dovuto al socio non può essere trattato alla pari di un euro dovuto a fornitori o banche.

Altre esposizioni particolari: si possono citare alcune tipologie meno comuni ma possibili:

  • Debiti verso l’Agenzia delle Dogane: se il centro importa reagenti o apparecchiature extra-UE, può avere dazi doganali o accise non pagate. Sono assimilati ai debiti tributari (anche qui privilegio). Inoltre, un grosso debito doganale potrebbe comportare problemi sulle licenze d’importazione.
  • Sanzioni amministrative: ad esempio multe per violazioni in materia di privacy sanitaria o sicurezza sul lavoro, o sanzioni covid (nei periodi passati). Tali sanzioni pecuniarie non sono falcidiabili tramite transazione fiscale ordinaria perché formalmente non tributi, ma possono essere ridotte in sede di concordato come crediti chirografari (le sanzioni “punitive” per la legge non sono esdebitabili, ma in concordato falliscono insieme all’ente debitore). Resta il fatto che l’ente pubblico che ha erogato la multa (Comune, ASL) spesso non ha strumenti per accordare uno stralcio fuori dalle procedure.
  • Debiti da risarcimenti danni: ipotesi ad es. condanne per malpractice medica o cause civili perse. Se derivano da fatto illecito, possono avere un privilegio ex art. 2767 c.c. se vi è stato sequestro conservativo sui beni (non raro in cause di responsabilità medica, in cui il paziente chiede sequestro cautelativo). Altrimenti sono chirografari. Se il fatto illecito è doloso, quei debiti potrebbero non essere coperti da esdebitazione personale (lo vedremo: il CCII esclude la liberazione dei debiti verso vittime di reati dolosi).
  • Debiti verso fornitori esteri: se il centro ha comprato macchinari da fornitori esteri, questi potrebbero agire da altre giurisdizioni. Nell’ambito di una procedura italiana, i crediti esteri sono trattati come quelli nazionali (salvo che se si applica il Regolamento UE Insolvenza, il fornitore estero potrebbe chiedere la procedura nel proprio paese se il centro ha lì la sede principale, ma in genere per PMI vale la procedura nello Stato di registrazione). Va anche considerato il rischio cambio se i debiti sono in valuta: forti oscillazioni potrebbero aumentare l’importo in euro.

In generale, conoscere la natura di ciascun debito consente di elaborare piani di risanamento efficaci, tenendo conto di chi ha priorità su cosa, quali debiti possono essere oggetto di accordo transattivo e quali no (ad esempio, per molto tempo l’IVA era considerata non falcidiabile se non col consenso erariale – oggi è possibile ridurla ma con limiti e solo in ambito concorsuale). Nel prossimo capitolo passeremo in rassegna tutti gli strumenti legali per gestire e risolvere la crisi d’impresa, evidenziando per ciascuno come possono essere trattati i vari tipi di debiti analizzati.

Strumenti di gestione e risoluzione della crisi d’impresa

Il quadro normativo italiano offre molteplici procedure per far fronte a un eccesso di debiti e a uno stato di crisi o insolvenza di un’impresa. Questi strumenti spaziano dalle soluzioni stragiudiziali volontarie a procedure concorsuali giudiziali vere e proprie, fino ai percorsi riservati alle micro-imprese e ai debitori civili (sovraindebitamento). La scelta corretta dipende dalla gravità della crisi, dalla composizione del debito (tipologie di creditori coinvolti, ad esempio se prevalgono banche o Fisco) e dall’obiettivo finale: risanare e proseguire l’attività, oppure liquidare tutto evitando conseguenze peggiori. Il CCII incoraggia innanzitutto soluzioni precoci e negoziate, riservando la liquidazione giudiziale come extrema ratio.

Prima di illustrare i singoli strumenti, è opportuno menzionare i meccanismi di allerta precoce e prevenzione introdotti dalla riforma, che fungono da “segnali d’allarme” e primo tassello della gestione della crisi.

Allerta precoce e obbligo di assetti adeguati

Il nuovo Codice della Crisi ha posto grande enfasi sull’emersione tempestiva dello stato di difficoltà. Due pilastri in particolare:

  • Assetti organizzativi adeguati (art. 2086 c.c. novellato): ogni imprenditore collettivo (società) deve dotarsi di assetti amministrativi, contabili e organizzativi adeguati alla natura e dimensioni dell’impresa, funzionali a rilevare gli squilibri e i segnali di crisi. In pratica significa monitorare costantemente indicatori come indici di liquidità, rapporti di indebitamento, flussi di cassa prospettici, perdite di bilancio, ecc. per intervenire prima che l’insolvenza diventi conclamata. L’organo amministrativo (p.es. il CdA di una srl) e l’eventuale organo di controllo (sindaci o revisore) hanno l’obbligo di attivarsi non appena colgano indizi di crisi, pena responsabilità personali per eventuali aggravamenti del dissesto. Ad esempio, se gli amministratori continuano a contrarre debiti sapendo che l’impresa è decotta, possono rispondere di mala gestio e i creditori potrebbero agire contro di loro.
  • Segnalazioni dei creditori pubblici qualificati: come anticipato, il CCII prevede un sistema di allerta esterna da parte di Agenzia Entrate, INPS e Agente Riscossione. Se il centro diagnostico accumula debiti fiscali o contributivi sopra soglie prestabilite e li mantiene per alcuni mesi, questi enti devono inviare una comunicazione ufficiale invitando l’imprenditore a intervenire. Ad esempio: IVA non versata oltre €5.000 genera segnalazione dall’Agenzia Entrate; contributi INPS omessi >€15.000 (con dipendenti) genera segnalazione INPS; cartelle esattoriali oltre €500.000 (per società di capitali) con ritardo >90 giorni genera segnalazione dall’Agente Riscossione. Tali segnalazioni, oltre a mettere in guardia l’imprenditore, lo obbligano entro 90 giorni a chiedere l’ausilio di un OCC o di attivare la composizione negoziata, pena il rischio di conseguenze negative in eventuale procedura (perdita di benefici, valutazione di comportamento negligente). Già dal 2024 risultano partite le prime PEC di allerta da Agenzia Entrate e INPS.

L’idea è che nessuna crisi esplode “all’improvviso”: ci sono sempre segnali premonitori. Un centro diagnostico, ad esempio, può accorgersi dal calo di liquidità o dall’aumento dei tempi medi di pagamento fornitori che sta entrando in difficoltà. Il dovere legale è attivarsi subito. A questo scopo il CNDCEC (commercialisti) ha elaborato indici di allerta settoriali, e il CCII all’art. 13 prevedeva anche strumenti di allerta interna (indicatori di crisi). Tali indici non sono obbligatori per legge oggi (la loro applicazione è stata attenuata dal correttivo), ma restano un utile strumento di autodiagnosi.

In sintesi, allerta e prevenzione sono il primo step: l’imprenditore diligente non aspetta di finire in insolvenza irreversibile, ma cerca di giocare d’anticipo sulla crisi. Se i “sensori” segnalano pericolo (perdite rilevanti, esposizioni scadute, calo del fatturato), dovrebbe subito consultare esperti e valutare gli strumenti di seguito descritti.

Vediamo ora, uno per uno, gli strumenti principali previsti per regolare la crisi d’impresa.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

La Composizione Negoziata per la soluzione della crisi d’impresa è una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale introdotta in emergenza nel 2021 (D.L. 118/2021, conv. L. 147/2021) e poi confluita nel Codice della Crisi (artt. 17–25-septies CCII). Rappresenta uno degli strumenti cardine del nuovo sistema, finalizzato a facilitare la ristrutturazione dell’impresa prima che questa scivoli in insolvenza irreversibile. La composizione negoziata crea un tavolo di trattative tra il debitore e i creditori, sotto la guida di un esperto indipendente, per trovare soluzioni concordate alla crisi.

Chi può accedervi e quando: qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione, può chiedere di accedere alla composizione negoziata se si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che fanno presagire la crisi o l’insolvenza, ma l’azienda appare risanabile. Non è necessario attendere l’insolvenza conclamata (anzi, è preferibile muoversi prima). Si può attivare la procedura anche se l’impresa è già insolvente, purché l’insolvenza sia reversibile (per es. carenza di liquidità temporanea in un’azienda con buone potenzialità di ripresa). La volontarietà è un elemento essenziale: la domanda può essere presentata solo dall’imprenditore stesso (amministratore della società o titolare), mai dai creditori né d’ufficio dal tribunale. Questo distingue nettamente la composizione negoziata dalle procedure concorsuali tradizionali (dove i creditori possono chiedere il fallimento, ad esempio).

Come funziona in breve: l’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica dedicata (gestita dalle Camere di Commercio in coordinamento con Unioncamere e Ministero Giustizia). Alla domanda va allegata una panoramica della situazione aziendale (bilanci, situazione debitoria, piano finanziario provvisorio) e indicati gli obiettivi di risanamento. Un’apposita Commissione (istituita presso la CCIAA) nomina un esperto indipendente – tipicamente un commercialista o un altro professionista iscritto all’albo degli gestori della crisi – scelto da elenchi di esperti con specifiche competenze in risanamenti. L’esperto accetta l’incarico e convoca subito l’imprenditore. Da quel momento si apre una fase di trattative riservate: non c’è pubblicità legale della procedura (salvo si chiedano misure protettive, vedi dopo), l’azienda continua a operare normalmente, e l’esperto aiuta a negoziare con i creditori. La durata base è 180 giorni prorogabili di altri 180.

Strumenti e tutele durante la composizione: durante questo periodo negoziale, l’impresa può chiedere al tribunale di emettere misure protettive che sospendono o impediscono azioni esecutive e cautelari dei creditori sul patrimonio aziendale. In pratica, un’ordinanza di “stay” (simile all’automatic stay del Chapter 11 americano) che congela i pignoramenti e le ipoteche per un periodo iniziale fino a 4 mesi, prorogabile. Ciò evita che mentre si tratta, qualche creditore porti via asset cruciali. Le misure possono essere estese a tutti i creditori o solo alcuni; sono concesse dal giudice se ritiene che le trattative abbiano possibilità di esito positivo e che l’azienda non stia abusando della protezione. Inoltre, come già accennato, eventuali finanziamenti ponte ottenuti durante la composizione – se autorizzati dall’esperto – godono di protezioni: non sono revocabili e saranno rimborsati in prededuzione in caso di successivo fallimento (art. 25-bis CCII). Questo incentiva banche e terzi a supportare l’impresa durante i negoziati. Importante: l’imprenditore resta alla guida dell’azienda (non c’è alcuno spossessamento né commissario), ma deve cooperare lealmente con l’esperto, informandolo di atti di straordinaria amministrazione e seguendone le indicazioni.

Esiti possibili: la composizione negoziata può concludersi in vari modi:

  • Accordo stragiudiziale con i creditori: è l’esito ideale (ma non sempre raggiungibile). In pratica l’azienda ottiene intese private con i creditori principali: ad esempio un accordo di moratoria con le banche, uno saldo e stralcio con alcuni fornitori, un accordo con il Fisco per rateizzare (ora possibile anche stragiudizialmente). Possono essere più accordi bilaterali o un unico accordo quadro. L’esperto redige una relazione finale attestando che gli accordi presi risolvono la crisi e sono idonei a evitare l’insolvenza. Con tale relazione, l’imprenditore può chiedere al tribunale di chiudere la procedura; il tribunale può “ratificare” gli accordi, ad esempio emanando un decreto che esenta da azioni revocatorie i pagamenti eseguiti in esecuzione degli accordi (art. 23 co. 4 CCII). In sostanza, si esce dalla composizione negoziata con una soluzione concordata privatamente, senza necessità di voto dei creditori né procedure formali ulteriori.
  • Piano attestato di risanamento: se non è stato possibile (o opportuno) ottenere un accordo formale con tutti i creditori, una via d’uscita è confezionare un piano di risanamento unilaterale attestato (ex art. 56 CCII). L’esperto potrebbe suggerire questa strada qualora la maggior parte dei creditori sia disponibile ma non voglia impegnarsi in accordi scritti. In tal caso, l’imprenditore – parallelamente o subito dopo la composizione – fa predisporre da un professionista indipendente un piano di risanamento, che viene attestato (asseverato) nella sua veridicità e fattibilità da tale professionista. Il piano attestato viene poi pubblicato nel Registro Imprese per dargli data certa. Il vantaggio del piano attestato è che, grazie all’art. 56 CCII (già art. 67 L.F.), gli atti, pagamenti e garanzie compiuti in esecuzione del piano non sono soggetti a revocatoria fallimentare. Ciò protegge i creditori che collaborano: es. se durante l’attuazione del piano pago un fornitore al 50% di quanto dovuto e poi l’azienda fallisce lo stesso, il Curatore non potrà fargli restituire quei soldi perché erano parte di un piano attestato pubblicato. In pratica, con la composizione negoziata si “testano” le disponibilità dei creditori, dopodiché si cristallizza tutto in un piano attestato che l’azienda eseguirà nel tempo. Non serve omologa del tribunale, quindi è una soluzione molto leggera in termini giudiziari, ma fragile se restano creditori dissenzienti significativi (perché chi non ha aderito resta libero di agire).
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD) omologato: un altro esito possibile è che, grazie al lavoro dell’esperto, l’imprenditore raccolga il consenso di una parte consistente dei creditori (almeno il 60% dei crediti) e decida di formalizzare un accordo di ristrutturazione ex artt. 57 e 60 CCII. In tal caso, le trattative confluiscono nella stesura di un accordo vincolante che viene sottoposto al tribunale per l’omologazione. Si passa quindi a una fase giudiziale semplificata: il tribunale, verificati legalità e convenienza, omologa l’accordo rendendolo efficace anche verso eventuali creditori aderenti dissenzienti (gli estranei restano fuori formalmente, ma come vedremo con possibili effetti di cram-down). L’accordo omologato ha il vantaggio di avere forza di legge tra le parti e, in alcune varianti, di poter “agganciare” anche creditori che non hanno firmato, con meccanismi di estensione (ne parleremo nella sezione sugli ARD).
  • Concordato preventivo: se la situazione lo richiede (ad es. troppi creditori eterogenei, necessità di imporre sacrifici anche ai dissenzienti, bisogno di moratorie lunghe), l’esito può essere il deposito di una domanda di concordato preventivo. La composizione negoziata può fungere da preludio al concordato: l’esperto aiuta a strutturare un piano che poi viene posto al voto dei creditori secondo le regole concorsuali ordinarie. Spesso l’esperto, nella relazione finale, dichiara fallite le trattative ma individua nell’avvio di un concordato l’unica via percorribile, magari avendo già delineato un piano di massima o trovato un investitore interessato. Il debitore può allora depositare ricorso per concordato entro 60 giorni dalla chiusura della composizione negoziata (usufruendo di alcune agevolazioni, ad esempio è esonerato dal versare il contributo unificato se il concordato segue immediatamente la composizione).
  • Concordato “semplificato” per la liquidazione: novità assoluta introdotta dall’art. 25-sexies CCII nel 2021, già accennata. Se la composizione negoziata si conclude senza accordo e l’esperto attesta che non esistono soluzioni di risanamento ma solo la liquidazione, l’imprenditore – entro 60 giorni – può richiedere al tribunale l’apertura di un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, senza votazione dei creditori. È un “paracadute” per evitare la liquidazione giudiziale pura: il debitore propone un piano di liquidazione dei beni (spesso con vendita in blocco dell’azienda a un terzo individuato), i creditori possono solo fare osservazioni scritte, e il tribunale decide di omologare se ritiene che i creditori ricevano almeno quanto avrebbero dal fallimento. Non c’è voto né classi. Questo strumento permette, ad esempio, di vendere rapidamente l’azienda a un compratore serio, evitando la dispersione tipica del fallimento e pur senza poter pagare percentuali elevate ai creditori. Si tratta di una procedura eccezionale, utilizzabile solo in seguito a composizione negoziata fallita. Ne riparleremo in dettaglio più avanti.
  • Esito negativo – liquidazione giudiziale: infine, può accadere che la composizione negoziata fallisca completamente: nessun accordo, creditori intrattabili, situazione irreversibile. In tal caso l’impresa è destinata alla liquidazione giudiziale (fallimento), su istanza dei creditori o d’ufficio. Purtroppo, sebbene la composizione negoziata miri a prevenirlo, questo rimane il destino delle imprese non risanabili. Almeno, attraverso la composizione, il debitore avrà guadagnato un po’ di tempo protetto per tentare tutto il possibile.

Un importante aggiornamento normativo: il “Correttivo-ter” (D.Lgs. 136/2024) ha introdotto la transazione fiscale e contributiva anche nell’ambito della composizione negoziata. Dal 28 settembre 2024, dunque, l’imprenditore può proporre ad Agenzia Entrate, Agenzia Riscossione e Agenzia Dogane un accordo di stralcio dei debiti fiscali direttamente in composizione negoziata, senza dover passare per un concordato o un accordo omologato. In sostanza, oggi è consentito fare un “mini-concordato” col Fisco in via stragiudiziale: ad esempio, offrire di pagare il 50% di un debito fiscale in 6 anni, ottenendo il placet dell’esperto e l’attestazione di un professionista che ciò è conveniente rispetto al fallimento, e poi farsi autorizzare dal tribunale a perfezionare l’accordo. Non c’è cram-down (serve il consenso dell’Agenzia) e sono richieste perizia di un esperto indipendente e relazione del revisore sui dati, ma è un notevole passo avanti. L’accordo autorizzato dal giudice ex art. 23 co.7 CCII può includere qualsiasi debito tributario o contributivo (compresa l’IVA, un tempo tabu) – restano fuori solo i tributi locali per cui si attendono norme ad hoc.

Questa innovazione rende la composizione negoziata ancora più efficace: ora può affrontare a 360° sia i debiti verso creditori privati sia quelli verso lo Stato. Rimane però un limite intrinseco: è volontaria, quindi se un creditore chiave non vuole aderire, non c’è modo di imporgli la soluzione in questa sede (bisognerà eventualmente passare a un concordato per forzare la mano). Inoltre, le trattative vanno condotte con ritmo serrato: non possono trascinarsi all’infinito – serve l’impegno attivo dell’imprenditore e dell’esperto in quei mesi di lavoro.

Vantaggi della composizione negoziata: riservatezza (nessuna iscrizione immediata al Registro Imprese, a parte l’eventuale decreto di misure protettive), flessibilità (si possono costruire soluzioni su misura, miste, coinvolgere solo alcuni creditori), costi contenuti (non c’è un organo commissariale, l’esperto ha un compenso calmierato). Limiti: nessuna certezza di risultato – la riuscita dipende dal consenso dei creditori; se anche uno strategico rifiuta, potrebbe far naufragare tutto. E richiede trasparenza e buona fede: i creditori devono fidarsi della figura dell’esperto e della lealtà dell’imprenditore nel fornire informazioni (purtroppo non sempre scontato). Nei primi anni di applicazione (2021-2023) la composizione negoziata ha dato risultati alterni: alcune imprese risanate con successo, altre che l’hanno abbandonata per il concordato. Con il rafforzamento normativo del 2024, ci si attende un utilizzo crescente, soprattutto tra le PMI, man mano che lo strumento diventa più conosciuto e “collaudato”.

Tabella riepilogativa – Composizione negoziata

CaratteristicheDettagli
AccessoVolontario, su istanza dell’imprenditore (società o ditta individuale). Disponibile per tutte le imprese (anche sotto soglia, anche agricole). Stato: crisi probabile, crisi o insolvenza reversibile. Non accessibile se già pendono procedure concorsuali (salvo precisazioni: p.es. se pende una domanda di fallimento, la nomina esperto può avvenire ma con condizioni di legge).
NaturaStragiudiziale e riservata (non è un procedimento giudiziario, salvo eventuale richiesta misure protettive). Nessuno spossessamento: l’imprenditore resta in carica. Esperto indipendente guida le trattative. Durata base 6 mesi prorogabili fino a 12.
Tutele disponibiliMisure protettive dal tribunale: sospensione pignoramenti e altre azioni per max 4+4 mesi. – Finanziamenti prededucibili: nuovi crediti autorizzati dall’esperto protetti da revocatoria e rimborsabili in prededuzione. – Esenzione revocatoria: pagamenti e atti compiuti in composizione sono esentati se autorizzati (o se parte di accordo finale attestato).
Esiti possibili1) Accordi stragiudiziali plurilaterali con creditori (con relazione finale esperto); 2) Piano attestato di risanamento ex art.56 CCII; 3) Accordo di ristrutturazione omologato (≥60% consensi); 4) Concordato preventivo (se necessario, entro 60 gg da chiusura); 5) Concordato semplificato liquidatorio (entro 60 gg, se nessun accordo e insolvenza irreversibile); 6) Liquidazione giudiziale (fallimento) se tutto fallisce.
Novità 2024Introduzione transazione fiscale e contributiva nell’ambito negoziato: possibile stralciare debiti fiscali con accordo stragiudiziale autorizzato dal tribunale (art. 23 co.2-bis CCII).
VantaggiRiservatezza (mantenuta confidenzialità, niente stigma pubblico); costi ridotti (solo esperto); flessibilità totale (soluzioni tailor-made); possibili misure protettive immediate; preserva valore azienda (no stop attività).
LimitiEsito non garantito (nessuna imposizione ai creditori dissenzienti); richiede cooperazione e trasparenza dall’imprenditore; durata limitata (non adatta a ristrutturazioni lunghissime); rischio di aggravare esposizione se non si arriva ad una soluzione (si guadagna tempo ma può crescere il debito).

Piani attestati di risanamento

Il piano attestato di risanamento è lo strumento di risanamento più snello e totalmente extragiudiziale previsto dalla legge. È disciplinato dall’art. 56 CCII (già art. 67, co.3, lett. d) della vecchia L.F.). Consiste in un piano predisposto dall’imprenditore – tipicamente con l’ausilio di consulenti finanziari – che dettaglia le azioni da intraprendere per riequilibrare la situazione economico-patrimoniale dell’impresa, e che viene attestato (asseverato) da un professionista indipendente riguardo alla veridicità dei dati aziendali e alla fattibilità del piano stesso. L’attestatore deve essere un esperto iscritto all’albo ministeriale dei gestori della crisi e fornisce una garanzia di terzietà sul piano.

Caratteristica cruciale: il piano attestato non richiede omologazione né passa dal tribunale, è un accordo puramente privatistico. Non vincola i creditori dissenzienti: ciò significa che il debitore non può, con questo piano, imporre ristrutturazioni ai creditori senza il loro consenso esplicito. Se alcuni creditori non aderiscono, restano liberi di agire. Pertanto, un piano attestato funziona solo se l’imprenditore ha già ottenuto un accordo (anche informale) con tutti i principali creditori. Ad esempio, può funzionare bene per una PMI indebitata principalmente con 2-3 banche: si siede con ciascuna, negozia nuove scadenze o uno stralcio parziale, poi formalizza tutto in un piano attestato che ingloba quegli accordi firmati con le banche.

Il beneficio principale del piano attestato, come anticipato, è la protezione dalle azioni revocatorie: gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano non potranno essere revocati in caso di successivo fallimento. Questo scudo (previsto dall’art. 56 CCII) è fondamentale per incentivare i creditori a collaborare: sanno che, se aderiscono al piano e prendono ad es. pagamenti parziali, non dovranno restituirli qualora l’azienda fallisse in seguito. La condizione per beneficiare di questa protezione è che il piano sia pubblicato nel Registro delle Imprese, il che conferisce data certa e opponibilità ai terzi (il contenuto può restare riservato, ma la pubblicazione certifica che il piano esiste al tal giorno).

Contenuto tipico del piano attestato: è molto variabile a seconda dei casi, ma in genere prevede un insieme di misure quali:

  • Ristrutturazione del debito su base privata: es. conversione di debiti in capitale (debt equity swap per i creditori consenzienti), dilazione dei pagamenti, remissione parziale di crediti da parte di alcuni creditori chiave. Nel contesto di un centro diagnostico, potrebbe significare che le banche accettano di allungare i mutui, qualche fornitore chiave accetta un taglio del credito in cambio di restare fornitore, ecc.
  • Ricerca di finanza fresca: nuovi apporti di capitale dai soci o da terzi investitori; cessione di beni non strategici per fare cassa; ottenimento di linee di credito aggiuntive garantite, ecc.. Lo scopo è iniettare liquidità per pagare parte dei debiti e sostenere il rilancio. Ad esempio, i soci del centro immettono €100.000, oppure si vende un immobile secondario per ridurre l’indebitamento.
  • Riorganizzazione aziendale: taglio di rami d’azienda in perdita, riduzione costi fissi (affitti, personale in eccesso tramite accordi), investimenti in efficienza operativa (nuovi software, migliore schedulazione esami) – con un piano economico-finanziario che mostri il ritorno in bonis entro un certo periodo. Nel caso di un centro medico, potrebbe voler dire chiudere una sede poco redditizia e concentrare le attività altrove, ridurre i costi amministrativi magari esternalizzando servizi, ecc.
  • Trattamento dei debiti fiscali e contributivi: un piano attestato può prevedere di pagare integralmente i debiti tributari/previdenziali oppure di gestirli tramite le misure amministrative disponibili (es. adesione a rottamazione cartelle se attiva, richiesta di rateizzazione). Non è possibile imporre uno stralcio al Fisco nel piano attestato senza accordo formale: se l’impresa ha debiti fiscali rilevanti, dovrà negoziare separatamente col Fisco (chiedere dilazioni, sfruttare eventuali definizioni agevolate in corso) o comunque garantire il pagamento integrale di quelle imposte col cash flow generato dal piano. Storicamente questo era un limite significativo: molti piani attestati fallivano se c’erano troppi debiti fiscali, perché l’Agenzia Entrate non poteva “aderire” a stralci extra-procedurali. Oggi, grazie alla transazione fiscale in composizione negoziata, c’è un canale in più: l’impresa potrebbe prima ottenere un accordo fiscale nella composizione negoziata e poi tradurlo nel piano attestato. In pratica, l’esperto negozia col Fisco uno sconto, e il piano attestato riflette quell’accordo.
  • Misure “tecniche” collegate alla composizione negoziata: ad esempio, in base al D.L. 118/21 (ormai incorporato nel CCII), l’esperto nominato nella composizione negoziata poteva “benedire” un piano attestato rilasciando un nulla osta che esentava da revocatoria certi pagamenti (art. 11 DL 118). Nel CCII questa figura è meno rilevante perché la pubblicazione del piano già offre esenzione ex lege, ma è un retaggio storico.

Un esempio pratico: Alfa S.r.l. (industria manifatturiera, 5 milioni di debiti: 3 verso banche e 2 verso fornitori) elabora un piano attestato in cui: i soci apportano €500k di nuova finanza; vende un capannone per €1 milione; con queste risorse paga i fornitori al 50% (che accettano); le banche concordano di allungare i mutui di 5 anni e una banca converte €200k di credito in una quota di capitale. Un professionista indipendente assevera che, con queste misure, Alfa tornerà redditizia e potrà ripagare le banche secondo il nuovo piano. Tutti i principali creditori hanno sostanzialmente aderito. Il piano viene pubblicato e si inizia l’esecuzione. Se tutto va bene, l’impresa evita procedure concorsuali, con costi minimi e poca pubblicità negativa. Se invece qualcosa va storto e Alfa fallisce comunque, i pagamenti fatti e le ipoteche date secondo il piano non saranno revocati dal Curatore perché coperti dall’art. 56 CCII.

Limiti del piano attestato: come già sottolineato, non offre alcuna “forzatura” legale sui creditori non collaborativi. Un piccolo creditore che non firmi l’accordo potrebbe comunque agire autonomamente (anche chiedere il fallimento). Perciò, per aziende con molti creditori eterogenei, il piano attestato puro è rischioso: basta una “pecora nera” per mandare tutto all’aria. In quei casi spesso si abbina la predisposizione del piano a qualche strumento protettivo: ad esempio, alcune imprese presentano una domanda di concordato “in bianco” solo per ottenere lo stay dei creditori, poi durante quei mesi finalizzano ed eseguono un piano attestato e infine rinunciano al concordato (una manovra borderline ma talvolta vista in prassi). In generale, il piano attestato è indicato per imprese con pochi creditori principali e consenso quasi unanime già costruito, non per situazioni conflittuali o con centinaia di fornitori.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD)

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (abbreviati ARD), disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, sono uno strumento ibrido tra il piano puramente negoziale e la procedura concorsuale vera e propria. In sostanza, l’impresa debitrice raggiunge un accordo contrattuale con una parte significativa dei creditori, e poi lo fa omologare dal tribunale per conferirgli efficacia verso tutti i partecipanti e – in certi casi – anche verso alcuni creditori dissenzienti.

Caratteristiche chiave degli ARD:

  • Consenso qualificato: è necessario ottenere l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. Attenzione: non il 60% dei creditori per testa, ma il 60% dell’ammontare complessivo dei debiti. Questo implica che l’imprenditore deve convincere i maggiori creditori (per importo) a firmare l’accordo. Raggiunto il 60%, l’accordo può essere sottoposto a omologazione.
  • Contenuto flessibile: l’accordo può prevedere qualunque forma di ristrutturazione del debito concordata – riduzioni (stralci) di credito, dilazioni di pagamento, conversioni debito/capitale, cessione di beni ai creditori, ecc. – purché il piano risultante sia sostenibile e l’accordo non leda diritti indisponibili. È un contratto, quindi dipende dalla volontà delle parti.
  • Creditori non aderenti: quelli che restano fuori (non firmano) non sono vincolati dall’accordo, in linea di principio. Mantengono i loro diritti per intero e potrebbero, in teoria, continuare azioni esecutive. Per questo, di solito il debitore contestaulmente al deposito chiede al tribunale misure protettive analoghe a quelle del concordato (sospensione azioni) per il periodo necessario all’omologazione. Una volta omologato, l’accordo vincola formalmente solo i creditori aderenti, ma come vedremo vi sono eccezioni per alcune categorie di dissenzienti.
  • Ruolo del tribunale: il tribunale, investito della domanda di omologazione, non entra nel merito contrattuale (non c’è voto dei creditori come nel concordato) ma verifica la legalità e fattibilità dell’accordo. Si assicura che siano rispettati i requisiti di legge: ad esempio, che i creditori estranei non risultino pregiudicati oltre quanto sopporterebbero in un fallimento, e che un professionista indipendente attesti veridicità dei dati e fattibilità del piano (serve comunque un’attestazione asseverata, come per il concordato). Se tutto è a posto e non ci sono opposizioni fondate, omologa con decreto.

Gli ARD negli ultimi anni sono stati oggetto di evoluzioni normative importanti, specie per recepire la direttiva UE. Da segnalare:

  • Transazione fiscale negli accordi: oggi l’art. 63 CCII consente espressamente di includere nell’accordo una transazione sui debiti tributari e previdenziali. Ciò era dibattuto in passato (non era chiaro se il Fisco potesse aderire a uno stralcio in un semplice accordo privato); ora è legittimato. Significa che nel “pacchetto” concordato col 60% di crediti possono partecipare anche Fisco e INPS, a cui si offre pagamento parziale/dilazionato. Se tali enti aderiscono, sono vincolati come gli altri firmatari. Se non aderiscono, restano formalmente estranei (ma vedi oltre cram-down).
  • Flessibilità nel rispetto dei privilegi: a differenza del concordato preventivo, dove i crediti privilegiati devono essere soddisfatti almeno per il valore di liquidazione e c’è una rigida graduatoria, in un ARD le regole concorsuali del par condicio non si applicano rigidamente – purché i titolari di quei crediti abbiano acconsentito. In pratica, se un creditore privilegiato (es. una banca ipotecaria, o lo stesso Fisco) firma l’accordo, può accettare di ricevere meno di quanto gli spetterebbe per privilegio. L’accordo essendo un contratto tra le parti, può derogare all’ordine delle prelazioni con il consenso interessato. Ad esempio, si potrebbe concordare di pagare integralmente le banche ipotecarie ma solo il 50% dei debiti IVA (chirografari): scenario che in un concordato sarebbe possibile solo con classi e voto, mentre in un accordo è sufficiente l’assenso dell’Agenzia Entrate.
  • Cram-down sui dissenzienti minoritari: formalmente i creditori non aderenti restano fuori, ma il CCII prevede meccanismi per estendere gli effetti dell’accordo a certe categorie di dissenzienti. Un primo caso, già esistente dal 2015, è l’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari dissenzienti: se almeno il 75% (ora 50% dopo direttiva) delle banche aderisce, l’accordo può essere esteso coattivamente alle banche non aderenti della stessa categoria. L’art. 61 CCII regola questa ipotesi: occorre che il 50% di tutti i crediti finanziari aderisca, e che le banche dissenzienti non siano discriminate e prendano almeno quanto avrebbero in un concordato o liquidazione (best interest test). Questa è la versione aggiornata del vecchio art. 182-septies L.F., pensata per evitare che una banca minoritaria rovini l’accordo. Inoltre, il recepimento della direttiva UE ha introdotto la possibilità di cram-down fiscale anche negli accordi: se il Fisco non aderisce, ma il suo voto non sarebbe determinante per raggiungere il 60%, il tribunale può omologare comunque coinvolgendo il Fisco dissenziente, a patto che il piano gli dia almeno quanto il realizzo in caso di fallimento. Esempio: escluso il Fisco, gli altri creditori raggiungono il 60%; l’Erario è contrario ma col piano otterrebbe il 30% contro il 10% che prenderebbe in un fallimento – il giudice può ugualmente omologare estendendo l’accordo al Fisco. Questo è un cambiamento radicale: prima se il Fisco diceva no l’accordo saltava quasi sempre (vedi Cass. Sez. Un. 8500/2021, che però aveva già indicato il giudice fallimentare come sede di impugnazione). Ora c’è margine per bypassare il veto fiscale minoritario.
  • Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): introdotto nel 2022 recependo la direttiva UE 2019/1023, è uno strumento a sé ma concettualmente vicino agli ARD. Consente di omologare un piano anche con adesioni ridotte (≥30%) attraverso un cram-down “sulle classi” di creditori formate ad hoc. Ne parleremo in seguito, ma si può considerare un ponte tra accordi e concordato: un accordo con pochi consensi iniziali che però, grazie all’intervento del tribunale e alla formazione di classi, può diventare vincolante erga omnes (anche qui se certi requisiti sono soddisfatti). Il PRO arricchisce la gamma di opzioni in mano al debitore.

Procedimento di omologazione: l’impresa deposita l’accordo firmato dai creditori aderenti in tribunale, allegando tutta la documentazione contabile e la relazione dell’attestatore. Se ci sono creditori estranei, come detto può chiedere misure protettive per evitare che nel frattempo partano esecuzioni individuali. Il tribunale fissa un’udienza e normalmente non nomina alcun commissario giudiziale, a differenza del concordato (salvo casi complessi in cui ritenga di dover vigilare). All’udienza, eventuali creditori non aderenti possono proporre opposizione all’omologazione se ritengono che l’accordo li pregiudichi (devono dimostrare p.es. che riceverebbero meno che in liquidazione). Il giudice valuta queste opposizioni e la regolarità dell’accordo. Se tutto è regolare e i dissenters non hanno ragione, emette decreto di omologazione. Da quel momento l’accordo diviene vincolante per le parti: i creditori aderenti rinunciano formalmente alla parte di credito tagliata e si impegnano a rispettare i termini pattuiti; i creditori estranei restano con il loro credito originario, ma di fatto se l’accordo riesce verranno comunque pagati magari in misura simile agli aderenti (spesso per equità l’impresa nel piano prevede di soddisfare anche gli estranei in pari percentuale, pur se non obbligata, per evitare contestazioni).

Vantaggi degli ARD rispetto al concordato:

  • Rapidità e minore pubblicità: non c’è una fase di voto generale né una gestione commissariale lunga. Se le trattative erano a buon punto, dall’istanza all’omologa possono bastare pochi mesi (3-6 mesi spesso). Inoltre, anche se l’omologazione viene iscritta al Registro Imprese, l’intera procedura è percepita come meno “infamante” di un concordato o fallimento, perché viene vista come un accordo volontario. L’azienda può spesso mantenere migliori rapporti con i clienti e fornitori, perché comunica loro che c’è un accordo con la maggior parte dei creditori, invece di un concorso formale.
  • Meno intrusivo: di regola, nel ARD non viene nominato un commissario giudiziale (solo se il tribunale lo reputa necessario per casi complicati). L’imprenditore rimane in pieno controllo durante l’esecuzione dell’accordo. Non ci sono classi di voto, né il rito formale dell’adunanza dei creditori. Ciò significa meno burocrazia e costi inferiori (non si pagano i compensi di un commissario o del giudice delegato come nel concordato).
  • Maggiore tutela dei contratti in essere: negli ARD non scatta automaticamente lo stay generale come nel concordato (va richiesto), e non ci sono gli effetti tipici del concorso (come la cristallizzazione dei debiti, il divieto di pagare creditori estranei, etc.), se non quelli che le parti stesse concordano. Questo può aiutare a mantenere i rapporti di fornitura e i contratti in corso più fluidamente, senza l’alone di “azienda in procedura concorsuale” che spesso spaventa i partner nel concordato.

Gli svantaggi o limiti degli ARD:

  • La necessità di consenso iniziale elevato (60% dei crediti): non sempre facile da raggiungere, specie se ci sono molti creditori frammentati. Se l’impresa ha centinaia di piccoli creditori, il concordato può paradossalmente essere più semplice (basta la maggioranza dei votanti), mentre l’accordo richiede comunque che quasi 2/3 del valore aderiscano espressamente.
  • La gestione dei creditori estranei: finché non c’è omologa, un creditore non firmatario potrebbe creare problemi (da qui la necessità di misure protettive). Dopo l’omologa, i non aderenti restano formalmente creditori per l’intero, quindi potrebbero teoricamente agire se non vengono pagati per intero (ma l’impresa normalmente li tratterà come gli altri per evitare cause). In ogni caso, se ce ne sono molti, il concordato che li vincola tutti sarebbe più definitivo.
  • Nessun effetto esdebitativo automatico: a differenza del fallimento (dove a fine procedura il debitore può ottenere l’esdebitazione residua), nell’accordo l’impresa continua, ma se rimangono debiti verso estranei non soddisfatti al 100%, questi restano. Dunque l’accordo è più adatto se si riesce a includere quasi tutti i creditori. Se rimane fuori ad esempio il 30% di crediti con gente che rifiuta, si rischia che dopo l’accordo costoro chiedano il fallimento per la loro parte. Il CCII mitiga questo rischio col cram-down visto prima.

Accordo di ristrutturazione agevolato e accordo ad efficacia estesa: piccola nota, il CCII prevede varianti particolari di ARD, come l’accordo agevolato con soglia ridotta al 30% (se si offre almeno il 20% ai chirografari) e l’accordo ad efficacia estesa a tutti i creditori di certe categorie (non solo finanziari). Sono innovazioni del 2022, ancora poco sperimentate.

In conclusione, gli ARD sono strumenti utili quando l’impresa ha già un nucleo duro di creditori disposti a collaborare e vuole evitare la complessità del concordato. Per un centro diagnostico, ad esempio, se 3 banche e i principali fornitori (che insieme rappresentano il 70% dei debiti) accettano un piano, conviene formalizzarlo in un ARD: i partner si sentono maggiormente impegnati (perché firmano un accordo) e l’azienda evita la pubblicità di un concordato. Viceversa, se c’è eccessiva frammentazione e nessun accordo di massima, tanto vale procedere col concordato.

Tabella riepilogativa – Accordo di ristrutturazione vs Concordato preventivo

ConfrontoAccordo di ristrutturazioneConcordato preventivo
Consenso necessario60% dei crediti (possibile omologa con 50% in alcuni casi – es. accordo esteso banche). Creditori non firmatari estranei (salvo cram-down settoriali).Maggioranza del passivo votante (50%+1 crediti ammessi al voto) e per classi (maggioranza classi). Vincola anche dissenzienti se maggioranza approva (tutti i creditori concorsuali inclusi di regola).
ProceduraExtragiudiziale fino alla firma; poi ricorso per omologazione (senza voto). Udienza con eventuali opposizioni creditori estranei. No Commissario di regola. Omologa con decreto.Giudiziale dall’inizio: ricorso di ammissione (possibile “in bianco” con riserva di piano). Nomina Commissario Giudiziale che sorveglia. Adunanza creditori e votazione. Omologa con eventuale giudizio di opposizione.
Strumenti protettiviMisure protettive discrezionali, su richiesta: sospensione azioni esecutive durante trattative e omologa (simili al concordato).Automatic stay appena presentato il ricorso: blocco delle azioni esecutive e cautelari per legge (dalla data di ammissione, se in bianco su provvedimento iniziale).
Effetti sui creditoriSolo chi aderisce è vincolato dall’accordo (salvo estensioni mirate). Creditori estranei mantengono diritto per intero, ma non possono impedire l’omologa se ricevono ≥ scenario liquidatorio. Dopo omologa, estranei fuori dall’accordo (ma spesso pagati pariteticamente per prassi).Tutti i creditori anteriori sono vincolati dall’esito: i privilegiati se hanno votato, i chirografari secondo il piano omologato. Il concordato, una volta omologato, sostituisce le obbligazioni precedenti (anche dei dissenzienti, salvo eccezioni per pegno/ipoteca se best interest test non rispettato). I creditori non possono agire individualmente e le loro pretese si regolano nel piano.
Fattibilità e attestazioneRichiede attestazione di veridicità dati e fattibilità come il concordato. Non obbligo classi né par condicio se creditori privilegiati consenzienti accettano trattamento inferiore.Necessarie classi se trattamento differenziato creditori; rispetto ordine prelazioni (salvo voto classi inferiori) obbligatorio. Attestazione di fattibilità necessaria. Cram-down legale per dissenzienti (art.112 CCII) se best interest test ok.
Durata indicativaRelativamente breve: negoziazione privata (variabile) + fase omologa ~4-6 mesi. Totale da inizio trattative: 6-12 mesi tipicamente (se accordo semplice).Più lunga: preparazione piano (o fase “bianco” fino 6 mesi) + fase procedura (ammissione -> voto -> omologa) ~8-12 mesi. Esecuzione piano può durare anni (procedura aperta fino ad esecuzione completa).
CostiInferiori: costi professionisti per trattative + attestatore. No organi nominati (salvo casi con Commissario ad hoc). Contributo unificato di rito ridotto (€[indicativamente]) e compensi giudiziali minimi.Maggiori: oltre a advisor e attestatore, Commissario con compenso (in base all’attivo/passivo); contributo unificato €1000-2000 (ma esente se successivo a comp. negoziata); spese procedure (bollo, ecc.).

Concordato preventivo (ordinario)

Il concordato preventivo è la più nota e “collaudata” delle procedure concorsuali italiane di regolazione della crisi d’impresa. Previsto dagli artt. 84-120 CCII, è l’erede moderno del vecchio concordato della Legge Fallimentare. In un concordato, l’imprenditore in stato di crisi o insolvenza propone ai creditori un accordo concorsuale sotto il controllo del tribunale, volto a evitare la liquidazione giudiziale e a regolare in modo ordinato i debiti. In pratica è un patto collettivo: il debitore offre un certo piano (di solito pagamento parziale e/o dilazionato delle varie categorie di debiti, oppure altre soluzioni come ristrutturazioni societarie), i creditori votano se accettarlo; se la maggioranza approva e il tribunale verifica la legalità, il concordato viene omologato ed eseguito, sostituendo le obbligazioni originarie dei creditori. I creditori dunque rinunciano a parte dei loro diritti in cambio dell’esecuzione del piano concordatario.

Il concordato preventivo può avere due forme principali:

  • Concordato in continuità aziendale: quando prevede che l’attività d’impresa prosegua, sia in forma diretta (il debitore continua a gestire l’azienda durante e dopo la procedura) sia in forma indiretta (es. cessione o conferimento dell’azienda a un terzo che la porta avanti). L’obiettivo qui è duplice: salvaguardare la continuità aziendale – quindi posti di lavoro, valore dell’avviamento, rapporti con pazienti e fornitori – e soddisfare i creditori con i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività (in misura concordata). Esempio: un concordato in continuità tipico può prevedere che il centro diagnostico resti aperto e operi, che i creditori chirografari vengano pagati poniamo al 40% grazie agli utili futuri in 5 anni, e magari l’ingresso di un nuovo socio investitore che apporta capitale fresco. Durante la procedura, l’impresa continua ad operare sotto la vigilanza del Commissario e del tribunale.
  • Concordato liquidatorio: quando invece il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio, con distribuzione del ricavato ai creditori. In sostanza l’impresa chiude, ma lo fa in modo ordinato: spesso vendendo l’azienda in blocco o gli asset in maniera organizzata, per massimizzare il valore (evitando le svendite tipiche delle aste fallimentari) e/o prevedendo l’apporto di risorse esterne da parte del debitore o di terzi. Il fine è dare ai creditori una soddisfazione migliore di quella che avrebbero nel fallimento. Ad esempio, concordato liquidatorio del centro diagnostico: si vende tutte le attrezzature e la licenza a un altro operatore sanitario ottenendo, supponiamo, €500k, che viene distribuito ai creditori; oppure il socio conferisce €50k personali per rendere l’offerta più appetibile.

Il CCII esprime una chiara preferenza per la continuità aziendale: infatti ha introdotto soglie rigide solo per il concordato liquidatorio, per scoraggiarlo quando non offre vantaggi. In particolare, un concordato liquidatorio è ammissibile solo se garantisce ai creditori chirografari almeno il 20% di soddisfazione e prevede un apporto di risorse esterne (denaro fresco o beni non dell’attivo già esistente) pari ad almeno il 10% dell’attivo liquidabile. Questi requisiti (art. 84 co. 3 CCII) servono a evitare concordati meramente liquidatori peggiori di un fallimento: si vuole che chi liquida in concordato offra qualcosa in più. Ad esempio, se Beta S.r.l. – centro diagnostico – vuole fare un concordato liquidatorio, deve garantire che i chirografari prendano almeno 20 centesimi per euro di credito e deve far entrare risorse nuove pari ad almeno il 10% dell’attivo (mettiamo, il socio apporta un immobile proprio). Se non rispetta queste condizioni, il tribunale non ammetterà la proposta (preferendo a quel punto la liquidazione giudiziale).

Un concordato in continuità, invece, non ha soglie di pagamento minima ai chirografari (teoricamente potrebbero prendere anche meno del 20%, se giustificato), perché si presume che mantenere viva l’azienda porti benefici indiretti. Ovviamente resta il vincolo generale che ogni concordato dev’essere conveniente per i creditori rispetto alla liquidazione: tramite la relazione dell’attestatore e le valutazioni del tribunale, si verifica che nessun creditore riceva meno di quanto otterrebbe in caso di fallimento (c.d. best interest test, ora normato all’art. 112 CCII).

Procedura del concordato preventivo: può essere divisa in varie fasi:

  1. Domanda di concordato: l’imprenditore presenta ricorso al tribunale. Può presentare un ricorso “con riserva” (detto anche concordato in bianco) oppure completo di piano e proposta. Nel concordato con riserva, chiede l’ammissione indicando che depositerà il piano dettagliato entro un termine (fino a 120 giorni + proroga 60). Questa opzione è spesso usata in urgenza: consente di bloccare subito i creditori (appena presentato il ricorso in bianco, il tribunale normalmente emette i provvedimenti per sospendere le azioni esecutive) e guadagnare tempo per redigere il piano. Nel ricorso (bianco o meno) devono essere indicati almeno i tratti essenziali della crisi e le misure ipotizzate.
  2. Ammissione alla procedura: se si deposita il piano subito, il tribunale lo esamina prima facie. Se si era in bianco, una volta depositato il piano nei termini, si passa all’esame. Il tribunale verifica i requisiti di ammissibilità: esistenza dello stato di crisi o insolvenza, regolarità formale dei documenti, rispetto delle soglie (20%+10% se liquidatorio), fattibilità del piano in senso generale (non entra troppo nel merito, ma controlla che non sia chiaramente irrealistico), assenza di cause di inammissibilità (p. es. proposta in frode ai creditori). Se tutto regolare, emette decreto di ammissione al concordato e nomina un Commissario Giudiziale (solitamente un commercialista esperto) che avrà funzioni di vigilanza e informazione dei creditori. Il tribunale fissa anche la data dell’adunanza dei creditori per il voto, di solito 4-6 mesi dopo (tempo nel mezzo per raccogliere le adesioni, depositare le attestazioni del Commissario, ecc).
  3. Fase intermedia (gestione in concordato): dal decreto di ammissione fino al voto, l’azienda opera sotto la protezione del tribunale. Scatta il divieto di azioni esecutive individuali (automatic stay). L’imprenditore rimane in possesso dei beni (“debtor in possession”), ma deve gestire l’attività secondo le autorizzazioni del tribunale e sotto la vigilanza del Commissario. Non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione. I contratti in corso continuano (salvo richiesta di scioglimento/sospensione di quelli onerosi art. 95 CCII, es. contratti di affitto di ramo da chiudere). Il Commissario nelle prime settimane raccoglie le domande di insinuazione presentate dai creditori (ognuno dichiara il proprio credito, specie se contestato dall’azienda), forma un elenco provvisorio dei crediti ammessi al voto e redige una relazione particolareggiata per i creditori, valutando la proposta. Se è un concordato in continuità, l’attività prosegue: l’azienda deve pagare regolarmente le nuove obbligazioni (es. fornitori per merci consegnate post ammissione, stipendi correnti) come crediti prededucibili, altrimenti il tribunale potrebbe revocare l’esercizio. Se è un concordato liquidatorio, di solito l’impresa cessa l’attività e il patrimonio è conservato in attesa di liquidazione post omologa (talvolta il tribunale può autorizzare vendite anticipate di beni per non perderne valore, ma con cautele).
  4. Adunanza dei creditori e votazione: avviene all’udienza fissata (o anche per via telematica/cartecea, il CCII è flessibile). I creditori votano sulla proposta secondo regole di maggioranza:
    • Se i creditori sono suddivisi in classi (opzione obbligatoria se ci sono creditori con posizioni giuridiche diverse o trattamenti differenziati), serve il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto in ogni classe e della maggioranza delle classi (per classi si intende almeno metà più una delle classi deve votare sì). Inoltre serve comunque la maggioranza complessiva in valore (maggioranza del totale dei crediti ammessi al voto, considerando i sì).
    • Se non ci sono classi (creditori votano tutti insieme), serve il sì del 50% + 1 del valore dei crediti votanti (sono esclusi dal voto i privilegiati se vengono pagati per intero; votano solo se rinunciano a parte del loro privilegio).
    • I creditori privilegiati o muniti di garanzia reale votano solo se la proposta prevede che non siano soddisfatti integralmente (altrimenti si dà per implicito che sono favorevoli, perché prendono 100%). Se votano, il loro voto si conta come classe a sé di solito.
    Il meccanismo è un po’ complesso: l’idea è che serva una partecipazione attiva e un largo consenso perché il concordato incide sui diritti. Se le maggioranze non sono raggiunte, il concordato è bocciato e normalmente si apre la via al fallimento (salvo si possa convertire in amministrazione straordinaria se grande impresa, ecc). Se la votazione dà esito positivo, si passa alla fase finale.
  5. Omologazione: il tribunale, ricevuti gli esiti del voto, tiene conto di eventuali opposizioni. I creditori dissenzienti (o astenuti) possono fare opposizione all’omologazione sostenendo che il concordato viola la legge o li danneggia oltre misura. Tipici motivi: contestazione sul valore di liquidazione calcolato, sulla correttezza del trattamento di una classe, su possibili atti in frode. Il tribunale esamina queste opposizioni in udienza, magari nomina un C.T.U. per valutare contestazioni di valore, e infine decide se omologare. Può anche succedere che qualche classe di creditori o qualche creditore privilegiato abbia votato contro. In tal caso, il debitore può chiedere il cram-down: l’omologazione nonostante il voto contrario di una o più classi, purché sia rispettato il requisito di legge che a quei creditori dissenzienti viene comunque riconosciuto almeno il valore di realizzo che avrebbero in liquidazione. Questo è il best interest test: se un creditore ipotecario vota no ma col piano prende comunque il valore dell’immobile ipotecato, il tribunale può imporgli il concordato (perché non è pregiudicato). Le norme CCII art. 112 e 48 recepiscono la giurisprudenza sul cram-down erariale e interclassi. Se il tribunale ritiene tutto ok – maggioranze valide, trattamento conforme alla legge, opposizioni infondate – emette il decreto di omologazione. Da quel momento il concordato è efficace erga omnes: sostituisce le obbligazioni precedenti.
  6. Esecuzione del piano: il concordato omologato viene poi eseguito sotto la vigilanza del Commissario (che diventa Commissario liquidatore se liquidatorio). Nei concordati in continuità, l’imprenditore gestisce l’impresa e progressivamente effettua i pagamenti ai creditori secondo scadenze e percentuali previste; il commissario relaziona periodicamente al giudice delegato. Nei concordati liquidatori, si passa alla vendita dei beni o all’attuazione delle operazioni straordinarie previste (ad esempio cessione dell’azienda all’investitore). I creditori ricevono i pagamenti o altri atti esecutivi (es. attribuzione di strumenti partecipativi se il piano lo prevedeva). La procedura di concordato rimane aperta finché il piano non è stato eseguito integralmente, il che può richiedere anni. Il CCII ha introdotto possibilità di chiudere anticipatamente se restano attività marginali, ma in linea di massima la procedura si chiude con il decreto di soddisfazione finale emesso dal tribunale. Dopo di che, l’azienda torna ad operare “normalmente” fuori procedura, avendo però ormai cancellato la parte di debiti falcidiati.

Vantaggi del concordato preventivo:

  • Vincolatività universale: è l’unico strumento (oltre alla liquidazione giudiziale) che consente di regolare tutti i debiti con effetto definitivo anche verso i creditori dissenzienti o non coinvolti in trattative. Una volta omologato, il debitore è protetto da pretese ulteriori sui crediti anteriori (se non soddisfatti per intero, la parte falcidiata è cancellata).
  • Stay automatico: appena ammesso (o già dal ricorso se in bianco), i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive né cautelari contro il patrimonio. Questo dà respiro all’impresa.
  • Gestione ordinata sotto controllo: c’è la supervisione di un organo terzo (Commissario) e del giudice, che garantisce trasparenza e correttezza delle operazioni. Ciò aumenta la fiducia nel processo (ad es. banche e creditori vedono garanzie formali).
  • Strumenti di cram-down: come detto, possibilità di imporre la soluzione anche a Erario dissenziente (cram-down fiscale ammesso da Cass. SU 272/2019, recepito in art. 112 CCII) e a classi votanti contro (purché non peggiorative rispetto a fallimento).
  • Esdebitazione post-concordato per le persone fisiche: il CCII conferma che il debitore persona fisica (imprenditore individuale) ha diritto all’esdebitazione residua una volta eseguito il concordato (anche se nel concordato in teoria i creditori insoddisfatti resterebbero con la parte falcidiata, la legge prevede che dopo l’adempimento integrale del piano il debitore sia liberato anche da quelle, analogamente all’esdebitazione post-fallimentare).

Svantaggi:

  • Lentezza e costo: come si è visto, un concordato richiede molte formalità e tempo (di rado meno di 1 anno per arrivare all’omologa, e altri anni per eseguirlo). Inoltre, coinvolge costi significativi: compenso del Commissario e del giudice delegato (ricompresi nelle spese di procedura), contributo unificato, eventuali spese per atti (notai, perizie), e i costi professionali di avvocati e consulenti. Si stima che tra il 5% e l’8% dell’attivo spesso venga eroso dalle spese di procedura e professionisti. Il CCII richiede che tali costi siano indicati nel piano e coperti preferenzialmente, quindi i creditori ne sopportano il peso in termini di minore percentuale.
  • Pubblicità negativa: l’apertura di un concordato è pubblica, iscritta al Registro Imprese; fornitori, pazienti, partner commerciali lo vengono a sapere. Questo può causare perdita di fiducia. Ad esempio, alcuni pazienti potrebbero temere a versare anticipi a un centro diagnostico “in concordato” per paura di disservizi, o i fornitori potrebbero pretendere pagamento anticipato rigoroso per continuare le forniture. La reputazione può soffrirne (anche se certamente meglio del fallimento, porta comunque un’ombra temporanea).
  • Rigidità: una volta ammessi al concordato, ci sono meno margini di manovra. Ad esempio, i pagamenti di debiti antecedenti non consentiti dal piano sarebbero atti in frode; l’impresa non può abbandonare il concordato facilmente (pena fallimento). È un percorso “impegnativo”.
  • Rischio di esito negativo: se il concordato non viene votato favorevolmente o omologato, l’effetto tipico è la dichiarazione di fallimento (liquidazione giudiziale) di ufficio o su istanza di creditori. Quindi è un po’ un salto senza rete: bisogna essere abbastanza sicuri di ottenere i consensi.

In un centro diagnostico, la scelta tra concordato e accordo dipenderà dalla platea dei creditori: se abbiamo tanti fornitori piccoli e non c’è tempo/via di negoziarli uno per uno, il concordato può aggregarli e imporre loro la soluzione approvata dalla maggioranza. Inoltre, se è fondamentale continuare l’attività (per mantenere autorizzazioni e convenzioni sanitarie, o per non perdere la clientela in un territorio), un concordato in continuità può essere l’unico modo per ottenere un quadro di protezione e insieme non interrompere il servizio. Ad esempio, un laboratorio analisi potrà dire ai suoi pazienti: “siamo in concordato ma continuiamo a lavorare regolarmente, come autorizzato dal tribunale, e c’è un piano in corso”. Potrà mantenere i contratti in essere (con l’ASL ad esempio, previa autorizzazione ex art. 94-95 CCII). Certo bisognerà rispettare i vincoli (pagare stipendi correnti, etc.). Se invece i soci hanno deciso che vogliono cessare l’attività e magari vendere la struttura a un competitor, e c’è già un’offerta concreta, potrebbe essere più efficiente fare un concordato liquidatorio (ammesso rispettino il 20%+10%), oppure anche un concordato semplificato se sono passati da composizione negoziata senza successo.

Prima di passare al concordato semplificato e alla liquidazione, diamo uno sguardo comparativo ai principali strumenti fin qui discussi (composizione negoziata, piano attestato, accordo e concordato):

  • Se immaginassimo un continuum da minima a massima ingerenza: Piano attestato (minimo intervento giudice, massimo consenso volontario richiesto) → Accordo di ristrutturazione (ingerenza moderata: serve buon consenso, ma poi interviene il giudice a omologare) → Concordato preventivo (ingerenza forte: coinvolge tutti i creditori con un iter giudiziale e un commissario).
  • In pratica, le imprese tenteranno il piano attestato se possono (nessuna pubblicità, nessun organo terzo), se no proveranno l’accordo (negoziazione privata + timbro giudice per efficacia), e se no andranno di concordato (procedura concorsuale completa).
  • Oggi, aggiungiamo che prima di tutto ciò sta la composizione negoziata: che può sbocciare in un piano attestato se va bene, in un accordo se va abbastanza bene, o in un concordato se va male.

Concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio

Introdotto dal D.L. 118/2021 e ora stabilizzato nell’art. 25-sexies CCII, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio è – come accennato – una procedura speciale priva di votazione dei creditori. Ne può beneficiare esclusivamente il debitore che abbia prima svolto una composizione negoziata senza successo. È dunque una uscita di sicurezza prevista dal legislatore per evitare che un tentativo di risanamento andato a vuoto finisca direttamente in fallimento: si offre la chance di una liquidazione concordata semplificata.

Come si svolge: entro 60 giorni dalla conclusione infruttuosa della comp. negoziata, il debitore deposita il piano di concordato semplificato. Il piano deve essere necessariamente liquidatorio: prevede cioè la vendita di tutti i beni e la distribuzione del ricavato ai creditori secondo le regole legali (rispetto dei privilegi). Spesso si concretizza in un’offerta di acquisto in blocco dell’azienda o di suoi rami, emersa magari durante le trattative. Il tribunale, ricevuto il ricorso, nomina un Commissario Giudiziale (anche qui) che analizza la proposta e redige una relazione per i creditori. I creditori vengono informati e possono presentare osservazioni o opposizioni scritte. Non c’è un voto formale. Si va all’udienza di omologazione in cui il giudice valuta il piano e le eventuali opposizioni. Può omologare se ritiene che il piano non sia pregiudizievole per i creditori dissenzienti – in pratica, ancora una volta, che essi ricevano almeno quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale standard. Se omologa, si procede all’attuazione: di solito il commissario o un liquidatore nominato vende i beni secondo il piano e ripartisce il ricavato secondo l’ordine delle cause di prelazione.

Caratteristiche particolari:

  • Non richiede le soglie 20% + 10% tipiche del concordato liquidatorio ordinario, proprio perché è pensato come strumento eccezionale. Teoricamente, si potrebbe omologare un concordato semplificato che paga ai chirografari percentuali molto basse, se il giudice valuta che comunque in fallimento avrebbero preso zero e l’offerta attuale è l’unica possibile. Ovviamente, se propone percentuali irrisorie i creditori potranno opporsi e il giudice valuterà il rischio di abuso.
  • È destinato a casi estremi: serve ad evitare che dopo mesi di comp. negoziata l’esito sia solo il fallimento, offrendo la chance di una chiusura più guidata. Ad esempio, se c’è un investitore pronto a pagare X per rilevare l’azienda, il concordato semplificato consente di trasferire l’azienda libera dai debiti a quell’investitore, distribuendo X ai creditori, il tutto senza attendere il fallimento (che magari sarebbe più lungo e svaluterebbe l’attività).
  • Dato che i creditori non votano, il loro controllo avviene solo tramite le opposizioni e il giudice. Questo ha destato un po’ di malumore tra i creditori istituzionali (che vedono privarsi del diritto di voto), ma la logica è che se si è arrivati a questo punto è proprio l’ultima spiaggia per evitare dispersione di valore. Il tribunale fa da garante del loro interesse.

L’esperienza pratica 2022-2024 mostra che ci sono stati pochi concordati semplificati omologati, ma alcuni casi di successo: tipicamente piccole società senza speranza di risanamento che però, grazie all’esperto della comp. negoziata, hanno trovato un compratore per l’azienda. Il tribunale, viste le relazioni, ha omologato per massimizzare la soddisfazione dei creditori (che magari hanno preso una percentuale bassa ma subito, meglio che zero in fallimento). Naturalmente, il semplificato non può essere usato furbescamente: se l’esperto fiuta che l’imprenditore ha fatto la comp. negoziata solo pro forma per poi saltare al semplificato (magari per evitare il voto dei creditori), lo segnalerà al giudice e la mala fede porterebbe a negare l’omologa.

In conclusione, il concordato semplificato è un istituto di nicchia ma importante nel mosaico della crisi d’impresa: completa il percorso negoziale offrendo un epilogo concordato anche laddove gli accordi non sono stati possibili. Per un centro diagnostico, potrebbe entrare in gioco se, dopo aver tentato la negoziazione, l’unica soluzione è vendere tutto (macchinari, pacchetto pazienti, convenzioni) a un concorrente: invece di fallire, si può fare questa vendita controllata via concordato semplificato, ottenendo un realizzo migliore e chiudendo la vicenda senza procedure lunghe.

Liquidazione giudiziale (ex fallimento)

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale liquidatoria che ha preso il posto di quello che in passato era denominato fallimento. Rappresenta la soluzione giudiziale per le imprese in stato di insolvenza irreversibile, quando non vi siano alternative praticabili di risanamento. Non a caso, nel sistema del CCII la liquidazione giudiziale è posta come ultima ratio da attivare solo se tutte le altre strade (accordi, concordati, ecc.) falliscono.

Presupposti: lo stato di insolvenza attuale dell’imprenditore, inteso come impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 121 CCII). La liquidazione giudiziale può essere richiesta dallo stesso debitore (autofallimento), da un creditore, o dall’ufficio del Pubblico Ministero (nei casi di particolare rilevanza pubblica, p.es. insolvenza di società quotate o con reati). Esistono soglie di “non fallibilità”: restano esonerati gli imprenditori minori sotto certi parametri (attivo annuo < €300k, ricavi < €200k, debiti < €500k), i quali rientrano nelle procedure di sovraindebitamento (concordato minore, ecc.). Dunque un piccolo studio radiologico individuale potrebbe essere non fallibile e destinato ad altra procedura.

Effetti principali: con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale (ex sentenza dichiarativa di fallimento), si producono i seguenti effetti:

  • L’imprenditore è spossessato dei suoi beni e della gestione: subentra il Curatore nominato dal tribunale, che amministra e liquida il patrimonio a beneficio dei creditori. Nel caso di società, gli amministratori decadono e la società viene gestita dal Curatore; nel caso di ditta individuale, l’imprenditore perde la disponibilità dei propri beni.
  • I creditori non possono più agire individualmente: scatta l’automatic stay generale, tutte le esecuzioni in corso sono sospese e i creditori devono partecipare al concorso collettivo presentando domanda di insinuazione al passivo. Si cristallizzano le posizioni debitorie alla data di apertura: da lì in poi maturano interessi solo per i crediti privilegiati (se l’attivo li copre) e le sanzioni amministrative pecuniarie (multe) restano sospese e di solito insoddisfatte.
  • I contratti in corso di esecuzione (non ancora completamente eseguiti da entrambe le parti) possono essere sciolti o proseguiti dal Curatore, a seconda dell’utilità per la massa dei creditori (art. 172 CCII). Ad esempio, se il centro diagnostico ha un contratto di affitto per 5 anni della sede, il Curatore deciderà se subentrare (se conviene magari mantenere l’azienda in esercizio provvisorio per vendere meglio) o scioglierlo (se l’affitto è oneroso e non serve, generando però un credito da indennizzo per il locatore).

La procedura di liquidazione giudiziale consiste in:

  • La formazione dello stato passivo: i creditori presentano domanda entro termini stabiliti; il Giudice Delegato (magistrato nominato per sovrintendere) esamina le domande in un’udienza, con l’ausilio del Curatore, e forma l’elenco dei crediti ammessi, con indicazione di eventuali privilegi, esclusioni, ecc. (ci possono essere opposizioni e correzioni).
  • La liquidazione dell’attivo: il Curatore predispone un programma di liquidazione che il GD approva; quindi procede a vendere i beni mobili, immobili, crediti e quanto altro (spesso con procedure competitive d’asta), eventualmente proseguendo temporaneamente l’esercizio dell’impresa se autorizzato (esercizio provvisorio). Il ricavato viene periodicamente distribuito ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione (parziali riparti in corso e riparto finale).

Durata e chiusura: storicamente i fallimenti duravano anche molti anni. Il CCII ha fissato l’obiettivo di chiudere le liquidazioni giudiziali entro 3 anni, salvo casi eccezionali (ad es. contenziosi pendenti). Ci sono procedure che comunque sforano (specialmente se ci sono cause legali in corso). Ad ogni modo, a fine procedura il tribunale emette decreto di chiusura. Importante: se con l’attivo si è riusciti a soddisfare tutti i creditori chirografari almeno al 20%, la chiusura comporta l’esdebitazione di diritto del debitore persona fisica (cioè l’ex fallito è automaticamente liberato dai debiti residui). Se invece hanno preso meno del 20%, il debitore persona fisica può chiedere ugualmente l’esdebitazione a certe condizioni (meritevolezza, cooperazione, ecc.), che il tribunale può concedere con decreto apposito. Per le società, l’esdebitazione non ha senso perché la società una volta chiusa cessa di esistere (non c’è più un soggetto da liberare dai debiti).

Effetti sul debitore: per le società, la liquidazione giudiziale comporta lo scioglimento e poi l’estinzione della società dopo la chiusura (salvo rare riaperture se emergono attivi imprevisti). Per gli imprenditori individuali, in passato comportava pesanti limitazioni (il fallito non poteva intraprendere nuova attività per 5 anni, era interdetto dai pubblici uffici, ecc.). Il CCII ha eliminato le pene automatiche: oggi, durante la procedura, l’ex imprenditore non può ovviamente disporre dei suoi beni e ha qualche limitazione (non può gestire patrimoni altrui, ad es.), ma non appena ottiene l’esdebitazione è riabilitato completamente. Lo stigma del termine “fallito” è stato attenuato cambiando la terminologia e riducendo queste preclusioni. L’idea è passata da “punizione del fallito” a “strumento ordinato per chiudere una vicenda sfortunata e ripartire”.

Rapporti con i reati e responsabilità: il Curatore ha l’obbligo di segnalare al PM eventuali reati di bancarotta o altri reati fallimentari emersi. Gli amministratori colpevoli di distrazioni o irregolarità possono subire processi penali (bancarotta fraudolenta o semplice, preferenziale, ecc. – artt. 322-323 CCII, ex artt. 216-217 L.F.). In passato la sentenza di fallimento comportava di per sé l’interdizione dai pubblici uffici e il divieto di esercitare impresa per alcuni anni; ora tali pene accessorie non scattano automaticamente, ma possono essere applicate dal giudice penale in caso di condanna per reati concorsuali.

Confronto con altre procedure: la liquidazione giudiziale è analoga, per struttura, alla liquidazione controllata prevista per i debitori non fallibili (sovraindebitati) – di cui diremo nella prossima sezione. La differenza sta nei soggetti coinvolti (qui imprese fallibili, lì piccoli o privati) e in qualche semplificazione procedurale in quelle “minori”. In entrambi i casi c’è un liquidatore (Curatore o Gestore OCC) che vende i beni e distribuisce secondo i privilegi. Per i creditori e per il debitore, l’aspetto importante è la possibilità, a fine procedura, di ripartire puliti dai debiti residui grazie all’esdebitazione.

In breve, la liquidazione giudiziale è la soluzione ultima quando un centro diagnostico è irrimediabilmente insolvente e non vi sono piani praticabili. Non è auspicabile perché di solito porta a recuperi molto bassi per i creditori chirografari (spesso poche lire per euro, dopo anni) e azzera l’attività (con impatto su dipendenti, pazienti, fornitore locale, ecc.). Tuttavia, talvolta è inevitabile – ad esempio in caso di dissidi tra soci che impediscono qualsiasi accordo, o di totale assenza di proposte migliorative. Anche in questi casi, comunque, oggi la legge mira a che il debitore onesto possa liberarsi dei debiti rimanenti, e il termine “fallimento” non appare più nelle comunicazioni, proprio per ridurne lo stigma.

Procedure di sovraindebitamento per micro-imprese e persone (concordato minore, piano del consumatore, liquidazione controllata)

Il CCII dedica un apposito Titolo (Titolo IV) alle procedure per i soggetti non fallibili – tipicamente: piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli (che per legge non falliscono), professionisti, start-up innovative (anch’esse non fallibili per legge), enti non profit con debiti, e le persone fisiche consumatrici (non imprenditori). Queste procedure, originariamente introdotte dalla L.3/2012, sono state modificate e rinominate dal CCII. Esse includono:

  • Il concordato minore (artt. 74-83 CCII), erede del vecchio accordo di composizione della crisi ex L.3/2012, destinato ai debitori non fallibili che svolgono attività d’impresa o professionale (o comunque non qualificabili come “consumatori”). Tipico per il piccolo imprenditore sotto soglia o il socio illimitatamente responsabile di società non fallibile.
  • La ristrutturazione dei debiti del consumatore (artt. 67-73 CCII), evoluzione del piano del consumatore della L.3/2012, riservata alle persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale (famiglie, privati).
  • La liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII), che sostituisce la liquidazione del patrimonio della L.3/2012. È applicabile a qualsiasi sovraindebitato (consumatore o piccolo imprenditore) che voglia liquidare tutti i beni per soddisfare i creditori.
  • Una particolare novità: l’esdebitazione del debitore incapiente (art. 278 CCII), di cui diremo dopo, che consente in casi estremi di liberare dai debiti residui un debitore persona fisica meritevole che non abbia nessun patrimonio liquidabile.

Caratteristiche comuni: queste procedure sono gestite con l’ausilio di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) nominato dal tribunale, oppure di un professionista gestore nominato ad hoc. Il debitore sovraindebitato (così si chiama) presenta un ricorso al tribunale competente (di solito il tribunale del luogo di residenza, se persona fisica) con l’assistenza di un organismo o di un professionista. Le procedure sono più semplificate rispetto al concordato preventivo: costi minori, tempi più brevi e non c’è un comitato dei creditori (o è eventuale). I creditori spesso non votano (tranne nel concordato minore possono essere chiamati ad esprimersi, ma non c’è sempre una votazione formale se non se lo chiede il 20% crediti, in CCII).

Vediamole in dettaglio dal punto di vista di un centro diagnostico di piccole dimensioni o del suo titolare:

Concordato minore: rivolto come detto al piccolo imprenditore sotto soglia, al socio illimitatamente responsabile, al professionista, imprenditore agricolo, ecc., insomma al debitore non fallibile che ha però un’attività economica. Funziona in modo analogo al concordato preventivo, ma in scala ridotta:

  • Il debitore propone un piano che può prevedere la continuità aziendale (se vuole proseguire l’attività) oppure la liquidazione parziale dei beni. L’importante è che risulti superabile lo stato di sovraindebitamento e che il piano offra ai creditori quanto ottenibile o di più rispetto a una liquidazione controllata.
  • I creditori vengono informati tramite il Gestore nominato dall’OCC, che redige una relazione su proposta e fattibilità (simile al Commissario). Non c’è di regola una votazione, salvo che lo richiedano creditori rappresentanti almeno il 20% dei crediti (art. 78 CCII). In assenza di voto, decide il giudice se omologare, valutando eventuali opposizioni dei creditori e sentito il Gestore.
  • Se c’è il voto (su richiesta), servirebbe la maggioranza del 50% dei crediti ammessi (ma è raro). In ogni caso, anche senza voto, il tribunale può omologare d’ufficio purché siano rispettati i requisiti e i creditori non subiscano un trattamento peggiorativo rispetto alla liquidazione controllata.
  • Una volta omologato, il concordato minore vincola tutti i creditori anteriori, come nel concordato preventivo. L’esecuzione è vigilata dal Gestore nominato.

Questa procedura è ideale per, ad esempio, un titolare di laboratorio analisi in proprio (ditta individuale) che non può fallire ma ha debiti sia di impresa che personali. Supponiamo un tecnico di radiologia con piccolo centro diagnostico, debiti totali €300k: con un concordato minore può continuare l’attività, offrire ai creditori magari il 30% in 5 anni grazie ai proventi futuri, ottenere l’omologa e poi, a fine esecuzione, l’esdebitazione sui residui. I creditori non potrebbero agire individualmente e sarebbero soddisfatti secondo il piano.

Ristrutturazione dei debiti del consumatore: destinata alle persone fisiche non imprenditori (o che hanno chiuso l’attività da oltre un anno) che hanno debiti per ragioni personali (es. prestiti, mutui casa, bollette, fideiussioni personali). Qui tipicamente non c’è un’attività da salvare, è più simile a una “procedura di solvibilità personale”:

  • Il consumatore (ad esempio un medico dipendente di ospedale con debiti personali, oppure un ex imprenditore ora pensionato) propone un piano di ristrutturazione in cui si impegna a pagare una certa quota dei debiti in un periodo (di solito 4-5 anni) utilizzando il proprio reddito disponibile, conservando magari i beni essenziali (prima casa protetta se certi requisiti).
  • I creditori non votano affatto in questa procedura. Il tribunale, sentito il Gestore OCC e valutata la meritevolezza del consumatore (che non deve aver colposamente creato il sovraindebitamento, art. 69 CCII), omologa il piano se i creditori non subiscono un pregiudizio rispetto all’alternativa liquidatoria e se il piano è fattibile. L’eventuale opposizione di creditori viene valutata ma non c’è voto.
  • Esempio: un consumatore con debiti €100k, propone di pagare €30k in 5 anni (rate €500/mese) grazie al suo stipendio, e dimostra che in una liquidazione del suo (scarso) patrimonio i creditori prenderebbero meno. Il tribunale omologa, i creditori ricevono le rate tramite l’OCC e a fine piano il debitore è esdebitato dal resto. Questo ricalca il caso reale di Mario elettricista della simulazione (che in parte era consumatore, in parte imprenditore minore).

Liquidazione controllata: se il debitore sovraindebitato non è in grado di proporre un piano di ristrutturazione credibile (ad esempio perché non ha un reddito sufficiente) o se lo preferisce, può optare per la liquidazione di tutti i suoi beni, analoga al fallimento ma per non fallibili. Viene nominato un Liquidatore (di regola l’OCC stesso), si vendono i beni e si ripartisce il ricavato. La procedura dura meno del fallimento di solito (patrimoni minori, spesso chiusa in 2-3 anni). A fine, il debitore persona fisica può chiedere l’esdebitazione per liberarsi dei debiti non soddisfatti. La novità del CCII è che l’esdebitazione è concessa di diritto se i creditori chirografari hanno preso almeno il 20%; se meno, su richiesta con valutazione.

Esdebitazione del debitore incapiente: è un istituto nuovissimo (art. 278 CCII) che consente al debitore persona fisica meritevole e privo di beni di ottenere la cancellazione dei debiti residui senza dare nulla ai creditori. Applicabile una sola volta e solo se: il debitore non ha attivo liquidabile, non ha soddisfatto i creditori per cause a lui non imputabili, non può pagare neppure in futuro (disoccupato, reddito minimo), e non ha beneficiato di altre esdebitazioni negli ultimi 4 anni. In pratica è la “fresh start” puro per il povero onesto. Il tribunale cancella i debiti chirografari (restano esclusi però debiti per mantenimento, debiti da risarcimenti per illecito e sanzioni, come già visto in FAQ). Se nei 4 anni successivi l’incapiente migliora la situazione reddituale, deve pagare ai vecchi creditori una parte (sopra una soglia). Questa misura è pensata per casi socialmente delicati, e raramente riguarda imprese, più individui.

In sintesi, per un piccolo centro diagnostico non fallibile o il suo titolare, esistono queste procedure “light” che permettono di comporre i debiti similmente alle maggiori, ma con meno formalità. Ad esempio, se un centro diagnostico è gestito da un medico come ditta individuale e ha debiti 200k, potrà accedere al concordato minore: proporrà ai creditori un pagamento parziale, l’OCC attesterà la fattibilità e il tribunale omologherà senza bisogno di voti, se è equo. Se invece quell’imprenditore ha anche molti debiti personali (carta di credito, mutuo casa) e la distinzione tra affari e vita privata è confusa, è possibile gestire tutto insieme (il CCII consente di includere anche debiti personali nel concordato minore se connessi). Alternativamente, come nel caso di Mario della simulazione, se una parte rilevante sono debiti personali, si può scegliere la ristrutturazione del consumatore per inglobare tutto, come fatto (Mario in quanto artigiano sotto soglia poteva accedere al piano del consumatore includendo i debiti personali e d’impresa).


Abbiamo così completato la panoramica degli strumenti. Nella pratica, la scelta è delicata: un centro diagnostico con debiti bancari e fiscali magari tenterà una composizione negoziata, se ha prospettive di rilancio, oppure un accordo di ristrutturazione se ha il sostegno delle banche; uno ormai destinato a chiudere userà un concordato (semplificato se possibile) per vendere il business a terzi; uno molto piccolo userà il concordato minore per dilazionare e liberarsi dai debiti.

Nel capitolo seguente risponderemo ad alcune domande frequenti che sorgono a debitori e operatori, poi vedremo dei casi pratici per concretizzare questi concetti.

Domande frequenti (FAQ)

D.1: L’imprenditore risponde con i propri beni personali dei debiti dell’azienda?
R: Dipende dalla forma giuridica e dalle circostanze. Se il centro diagnostico è una società di capitali (S.r.l., S.p.A.), vige la regola della responsabilità limitata: i debiti sociali si pagano solo col patrimonio della società. I soci normalmente non rischiano la casa o i beni personali, a meno che abbiano prestato garanzie personali (fideiussioni) o ricorrano particolari responsabilità per atti illegittimi. Ad esempio, se i soci/amministratori hanno commesso mala gestio (distrazione di beni, prosecuzione abusiva dell’attività aggravando il dissesto), potrebbero essere chiamati a risponderne con azioni di responsabilità o addirittura penali (bancarotta). Oppure, il socio unico di S.r.l. che non abbia versato i conferimenti di capitale potrebbe dover rispondere fino a concorrenza di quanto non versato. In generale però, i creditori della società possono rifarsi solo sui beni della società e su eventuali garanti personali.

Se invece l’azienda è una società di persone (S.n.c., S.a.s.) o una ditta individuale, l’imprenditore e – nelle S.a.s. – i soci accomandatari rispondono illimitatamente: tutti i beni personali presenti e futuri possono essere aggrediti per i debiti dell’impresa. Ciò significa che, se il patrimonio aziendale non basta, i creditori possono cercare soddisfazione nella casa dell’imprenditore, nei conti personali, ecc. (fatte salve le limitazioni di legge, ad esempio la prima casa del socio illimitatamente responsabile non è impignorabile di per sé, può essere pignorata a certe condizioni). Anche dopo un eventuale fallimento, i creditori non soddisfatti possono proseguire contro il socio illimitatamente responsabile (salvo che quest’ultimo ottenga a sua volta un concordato minore o un’esdebitazione personale). Va aggiunto che spesso i titolari di piccole S.r.l. firmano fideiussioni alle banche o ad altri creditori: in tal caso, pur essendo formalmente società di capitali, di fatto i soci diventano garanti personali e quindi escutibili se la società non paga.

In sintesi: scegliere una S.r.l. o S.p.A. offre protezione del patrimonio personale, ma attenzione che nelle crisi gravi quasi sempre i soci amministratori hanno firmato garanzie (banche, locazioni, fornitori strategici le chiedono), quindi quella protezione si riduce. Inoltre comportamenti scorretti (pagare alcuni creditori e non altri deliberatamente, distrarre asset) possono portare a responsabilità personali (vedi bancarotta preferenziale punita anche in crisi). Per i piccoli imprenditori individuali o società di persone, purtroppo non c’è distinzione tra patrimonio aziendale e personale agli occhi dei creditori (salvo costituire un fondo patrimoniale o trust, ma con efficacia limitata e non opponibile per debiti d’impresa). In caso di sovraindebitamento, possono però ricorrere alle procedure ad hoc (piano del consumatore, concordato minore) e ottenere l’esdebitazione finale, liberandosi dei debiti residui e ripartendo.

D.2: Cosa succede se l’azienda non paga i debiti fiscali e previdenziali?
R: I debiti verso Erario e INPS sono tra i più pericolosi da ignorare. L’Agenzia Entrate-Riscossione emetterà cartelle esattoriali e, se non vengono saldate, attiverà misure come ipoteche su immobili aziendali, fermi amministrativi su veicoli e pignoramenti di crediti verso terzi o del conto corrente. Inoltre, il mancato pagamento di IVA e ritenute oltre soglie rilevanti costituisce reato penale (omesso versamento) se non viene regolarizzato entro determinati termini. Sul fronte INPS, un grave arretrato contributivo fa perdere il DURC (documento di regolarità contributiva), impedendo ad esempio di partecipare ad appalti pubblici o convenzioni; anche l’INPS può pignorare conti, beni e segnalare il caso agli organi di crisi. Intanto, su tutte queste somme maturano interessi e sanzioni che fanno lievitare l’importo dovuto.

Va anche considerato che Fisco e INPS sono creditori “qualificati”: se i debiti superano certe soglie (ad es. oltre €100k affidati all’Agente Riscossione, o €15k di contributi non versati) scatta la segnalazione di allerta di cui si diceva. In positivo, la legge consente di gestire questi debiti con strumenti quali: la rateizzazione amministrativa (72 o 120 rate), e soprattutto la transazione fiscale e contributiva nelle procedure concorsuali (concordato, accordo, e ora anche composizione negoziata). Tramite la transazione, è possibile ottenere la riduzione di sanzioni e interessi e anche di parte del capitale d’imposta, purché si garantisca all’Erario almeno il valore che otterrebbe liquidando i beni (principio del best interest). Quindi, se l’azienda non paga spontaneamente, Fisco/INPS possono mettere in serio pericolo la continuità aziendale con pignoramenti e perdite di abilitazioni; è prioritario coinvolgerli subito in un piano di risanamento o accordo. L’inerzia completa porta quasi sempre al fallimento o alla cessazione forzata dell’attività.

D.3: Si possono ridurre o cancellare i debiti verso fornitori e banche?
R: Sì, ma di norma solo attraverso un accordo negoziato o una procedura concorsuale. Al di fuori di queste ipotesi, un debito è dovuto per intero e il creditore può pretendere il pagamento integrale (salvo accordi transattivi privati). Se però l’impresa è in difficoltà, può proporre ai creditori privatamente un accordo a saldo e stralcio: pagare subito una percentuale del dovuto (es. 30-50%) in cambio della rinuncia al resto. Ciò richiede la volontaria accettazione del creditore – spesso possibile se il creditore teme che, insistendo, otterrebbe ancor meno con un fallimento. Ad esempio, un fornitore potrebbe accettare €7.000 su €10.000 di credito se pensa che in fallimento prenderebbe forse €1.000 dopo anni. Questi accordi stragiudiziali hanno efficacia contrattuale (meglio formalizzarli per iscritto) e liberano l’azienda dall’obbligo per la parte stralciata.

Nelle procedure concorsuali invece l’azienda può formalmente proporre un pagamento parziale e i creditori vengono vincolati dalla volontà della maggioranza. In un concordato preventivo, i debiti chirografari vengono solitamente ridotti (es. offrire il 20-30%) come previsto nel piano, e se la maggioranza dei creditori approva, tutti i chirografari (anche i dissenzienti) sono obbligati ad accettare quella percentuale. Ad esempio, se il piano propone 30%, una volta omologato il concordato ogni creditore con 100€ di credito potrà pretendere al massimo 30€, e i restanti 70€ saranno inesigibili. Le banche o i fornitori chirografari dissenzienti devono subire la falcidia se il piano è approvato e rispetta i requisiti di legge (tra cui il best interest test, per cui nessuno prende meno di quanto avrebbe in liquidazione). Anche in un accordo di ristrutturazione omologato, se si raggiunge l’adesione del 60% dei crediti, l’accordo può prevedere pagamenti parziali e i creditori che hanno aderito vi rinunciano alla parte stralciata; quelli non aderenti formalmente restano con il loro credito nominale, ma spesso l’accordo prevede che siano pagati nella stessa percentuale per equità e per evitare opposizioni. Dunque sì: il taglio dei debiti finanziari e commerciali è uno degli scopi primari delle procedure di crisi. Occorre però convincere i creditori che la percentuale offerta è il meglio possibile nelle circostanze (mostrando ad es. che in un fallimento prenderebbero ancora meno). Una volta omologato un concordato o completato un accordo, la parte di debito non pagata viene cancellata definitivamente. E, come visto, per favorire ciò, l’art. 88 TUIR esenta queste sopravvenienze attive da tasse se il piano/accordo è omologato o attestato.

Una nota: per i debiti bancari garantiti (ipoteche, pegni, fideiussioni), la riduzione è possibile ma richiede attenzione: la banca potrebbe rivalersi sulla garanzia per la differenza. Di solito, in un concordato, se si intende ridurre un credito ipotecario, serve il consenso della banca oppure bisogna assicurare che percepirà almeno il valore della garanzia (altrimenti il concordato non sarebbe approvabile dal tribunale per violazione del best interest test). Spesso infatti i crediti ipotecari vengono pagati integralmente fino al valore dell’immobile, e solo l’eventuale parte eccedente il valore viene falcidiata come chirografa (questa è la regola art. 84 co. 7 CCII).

D.4: Come variano le soluzioni in base al settore di attività?
R: Il settore influisce soprattutto sugli aspetti operativi della crisi più che sulle regole legali (che sono uniformi). Alcuni esempi:

  • Nel settore edile: è fondamentale mantenere il DURC regolare per proseguire lavori pubblici. Quindi un’impresa edile in concordato deve assicurarsi di pagare correntemente INPS/Cassa Edile o di attivare CIG per non far decadere gli appalti. Inoltre, se ha appalti pubblici in corso, deve comunicarne l’apertura della procedura alla stazione appaltante; il Codice Appalti permette, in caso di concordato, la continuazione del contratto su autorizzazione, eventualmente affiancata da un’azienda terza (istituto dell’avvalimento).
  • Nel commercio al dettaglio (retail): la criticità sta nei contratti di affitto dei locali. Molti concordati di catene commerciali prevedono la chiusura dei punti vendita in perdita e la conservazione di quelli redditizi. Grazie alle norme (art. 95 CCII) si possono sciogliere i contratti d’affitto dei negozi non profittevoli pagando solo un’indennità minima al locatore (credito concorsuale). Così, la rete di punti vendita viene rinegoziata: quelli in utile restano, gli altri chiudono senza gravare oltremodo.
  • Nel settore dei servizi tecnologici o consulenziali: un problema è la fuga dei clienti alla notizia della crisi, in quanto il valore dell’impresa sta nelle relazioni e nella fiducia. Qui la riservatezza della composizione negoziata è preziosa per evitare allarmismi. Se poi si deve ricorrere al concordato, l’azienda deve investire in comunicazione verso i clienti per assicurare la continuità del servizio e che la crisi è gestita.
  • Nel manifatturiero: se l’azienda ha commesse in corso, un vantaggio del concordato in continuità è proteggere da pretese di terzi su beni in possesso dell’azienda. Ad esempio, fornitori che hanno venduto macchinari con patto di riservato dominio (proprietà non trasferita finché non pagati integralmente) non possono riprendersi i beni se il tribunale autorizza l’azienda in concordato a trattenerli per proseguire la produzione. Questo è cruciale per non fermare l’attività.
  • Settori come agroalimentare (specialmente con merci deperibili) necessitano di procedure rapidissime: spesso si opta per pre-pack sale, ovvero un concordato con contestuale cessione dell’azienda a un competitor, per salvare l’avviamento prima che i prodotti vadano a male.
  • Nel settore sanitario (diagnostica, cliniche): se il centro è accreditato col SSN, bisogna considerare che la perdita della regolarità contributiva/fiscale può portare problemi con l’accreditamento regionale. Un centro diagnostico convenzionato in concordato deve tendenzialmente continuare a erogare servizi per non perdere le convenzioni; se subentra un nuovo investitore, occorre prevedere il trasferimento delle autorizzazioni sanitarie. Operativamente, la continuità assistenziale ai pazienti è un valore da preservare. Spesso i centri sanitari in crisi cercano soluzioni di affitto d’azienda a terzi operatori (continuità indiretta) per garantire i servizi. Dal punto di vista legale, però, non ci sono norme speciali: valgono quelle generali, con l’attenzione che l’autorità sanitaria (Regione/ASL) potrebbe intervenire se la crisi mina la capacità di garantire standard (ad es. potrebbe chiedere un piano di rientro per i contributi, pena sospensione convenzione). Dunque nel settore sanitario è essenziale coinvolgere anche gli enti regolatori: comunicare trasparentemente alla Regione il ricorso a strumenti di crisi e come si intende assicurare il servizio ai cittadini. Se fatto bene, la Regione può supportare trovando altri gestori per subentrare (ci sono casi di cliniche salvate con l’intervento di ASL e nuovi investitori).
  • Nel settore artigianato locale (officine, laboratori): qui conta molto la reputazione personale dell’imprenditore nella comunità. Molti artigiani preferiscono evitare il fallimento anche solo per lo stigma. Le procedure di sovraindebitamento, più riservate e con nomi meno infamanti, sono un salvagente per chi vuole risolvere i debiti ma poi continuare a operare nel territorio mantenendo la fiducia dei clienti.

In sintesi, le norme sono uguali per tutti, ma un piano di crisi efficace deve tener conto del “contesto” specifico: quali licenze o permessi si rischia di perdere (es. autorizzazioni sanitarie, licenze di trasporto se si va in concordato?), quali contratti chiave vanno assolutamente preservati (es. convenzioni con la Regione per un centro diagnostico), quali stakeholder vanno rassicurati (fornitori strategici, committenti pubblici, clienti fidelizzati). Ad esempio, il CCII consente accordi di continuità indiretta: vendere l’azienda a un soggetto più solido anche durante il concordato, così i clienti/commesse passano al soggetto nuovo in bonis e non vanno perduti. Questo è usato in settori dove i committenti non tollerano fornitori “in procedura” (es. nell’automotive: se una fabbrica di componenti entra in concordato, le case auto spesso la tolgono dalla supply chain; per evitarlo, si trova un investitore che rileva l’attività e i contratti passano a lui – il concordato liquida il vecchio debitore e i creditori vengono soddisfatti col prezzo). Nel sanitario, analogamente, se il SSN non vuole avere rapporti con un ente in concordato, si può predisporre la cessione a un altro operatore sanitario disponibile a subentrare, garantendo così la continuità del servizio ai pazienti.

D.5: Quanto dura una procedura concorsuale?
R: I tempi variano molto a seconda del tipo di procedura e della complessità del caso:

  • Composizione negoziata: per legge la durata standard è 6 mesi prorogabili di altri 6, quindi massimo 1 anno per concludere (con accordo o con esito negativo). Spesso se un accordo è raggiungibile, lo si ottiene entro 6-8 mesi; se no, non serve prolungare inutilmente.
  • Accordo di ristrutturazione: il tempo dipende prevalentemente dalle negoziazioni private (che possono durare mesi o anni, in casi complessi con molte banche). Una volta depositato l’accordo in tribunale, l’omologa di solito avviene entro 4-6 mesi, salvo opposizioni. Quindi se le trattative sono già fatte, dal deposito al decreto finale può passare mezzo anno.
  • Concordato preventivo: la legge cerca di contenerne la durata entro circa 1 anno dall’ammissione all’omologa. Indicativamente: 2-4 mesi per la fase di ammissione (soprattutto se c’è concordato in bianco con termine per presentare il piano), poi 4-6 mesi per arrivare al voto e all’omologa. Totale 8-12 mesi per la fase giudiziale principale. Tuttavia, l’esecuzione del piano poi può durare anni: ad es., un concordato può prevedere pagamenti in 5 anni, quindi i creditori vedranno i soldi nel corso di quel periodo. La procedura rimane aperta finché il piano non è completamente eseguito, anche se la fase acuta (dal ricorso all’omologa) dura circa un anno.
  • Liquidazione giudiziale (fallimento): il CCII ha fissato l’obiettivo di chiusura in 3 anni. È un termine ambizioso e non perentorio; in pratica, se ci sono molti beni da vendere o contenziosi, può richiedere più tempo. Ci sono ancora liquidazioni che durano 5-6 anni o più, specie per grandi imprese con cause legali in corso. Comunque, la tendenza è a velocizzare con vendite telematiche, ecc. (Infatti, storicamente c’erano fallimenti che duravano 10-15 anni, oggi più rari).
  • Liquidazione controllata (sovraindebitati): essendo patrimoni piccoli e procedure semplificate, spesso si chiudono in 2-3 anni.
  • Amministrazione straordinaria (grandi imprese): quella può durare molto di più – alcuni casi famosi (Alitalia, Ilva, ecc.) sono rimasti aperti oltre 10 anni, con proroghe normative ad hoc.

Riassumendo: le procedure di ristrutturazione (accordi, concordati) durano circa 1 anno per la definizione + n anni per la loro esecuzione; le procedure di liquidazione (fallimenti) vanno da 2-3 anni (per i piccoli) fino a 5 anni o oltre (per i grandi e complessi) per la chiusura definitiva.

D.6: Quali sono i costi di queste procedure?
R: Ci sono costi professionali (compensi di esperti, attestatori, avvocati, notai se servono atti) e costi giudiziali (contributo unificato, bolli) che variano a seconda dello strumento:

  • Nella composizione negoziata, l’esperto ha un compenso fissato per legge su parametri ministeriali (dipende dal fatturato dell’azienda e dalla durata dell’incarico): per una PMI può essere qualche migliaio di euro, per aziende grandi può arrivare a decine di migliaia. Questo costo è spesso molto inferiore a quello di consulenti privati che avrebbero lo stesso ruolo: è volutamente calmierato.
  • Nel concordato e negli accordi, occorre un attestatore indipendente: il suo compenso è libero, di mercato, ma in genere proporzionato alla dimensione dell’impresa (per un’azienda media può essere nell’ordine di €20-30k). Inoltre c’è il contributo unificato di procedura (circa €1000-2000 a seconda dell’attivo, esente se il concordato segue una comp. negoziata). In caso di concordato, va considerato il compenso del Commissario/Curatore e di eventuali membri del comitato creditori: per legge è calcolato a percentuale sull’attivo e sul passivo realizzato (a scaglioni decrescenti). Tipicamente può andare dall’1% al 4-5% sugli attivi a seconda della consistenza, più qualcosina sul distribuito. Nei concordati di piccole dimensioni il commissario prende comunque poco (perché l’attivo rimane in mano al debitore, lui svolge solo vigilanza; molto dipende dall’opera prestata). In un fallimento invece, se il curatore recupera tanto attivo, il suo compenso può essere significativo (ma giustificato dal lavoro).
  • Gli OCC e gestori nelle procedure minori (sovraindebitamento) hanno compensi stabiliti per legge, spesso qualche migliaio di euro a carico del debitore se c’è attivo, altrimenti a carico dello Stato fino a un massimo (casi di nullatenenti).

In parole semplici: procedure come composizione negoziata e sovraindebitamento sono pensate per costare il meno possibile; il concordato è più oneroso (un’azienda media può spendere decine di migliaia in attestazioni e commissioni). Tuttavia, la legge permette di porre tali costi come spese prededucibili nel piano, cioè di pagarli preferenzialmente con le risorse dell’impresa. Se l’esito è poi la liquidazione, i costi vengono prelevati per primi per pagare curatori e organi. Dunque, dal punto di vista del debitore, spesso i costi vengono sopportati a fine procedura prelevandoli dall’attivo aziendale (il che comunque è un sacrificio per i creditori, che ricevono un po’ meno).

Esempio: in un concordato con attivo €1.000.000, si può stimare un 5-8% di spese procedurali totali (commissari, spese giustizia, professionisti), quindi €50-80k assorbiti dai costi. Va visto come un investimento per risolvere la crisi: se senza la procedura i creditori avrebbero preso 0, con la procedura prendono magari il 30% e qualcosa va a coprire i costi tecnici.

D.7: Un imprenditore può aprire una nuova attività dopo un fallimento o un concordato?
R: Sì, in generale può, ma con qualche riserva:

  • Se l’imprenditore persona fisica è stato soggetto a fallimento (liquidazione giudiziale), un tempo c’erano forti limitazioni: l’interdetto fallimentare non poteva intraprendere nuova impresa per 5 anni. Con il CCII queste pene automatiche sono state eliminate. Oggi, dopo la chiusura della liquidazione giudiziale, l’ex fallito può tecnicamente avviare una nuova impresa subito; però pragmaticamente incontrerà difficoltà di credito e fiducia nel mercato. Ottenere l’esdebitazione (la cancellazione dei debiti residui) aiuta a migliorare la situazione perché lo “stigma” giuridico scompare e i vecchi creditori non potranno importunarlo oltre. Dunque, dal punto di vista legale, finita la procedura (e concessa l’esdebitazione) l’ex fallito riacquista la piena capacità di fare impresa.
  • Se invece l’imprenditore è passato per un concordato preventivo o un accordo e la procedura si è chiusa regolarmente, non ci sono preclusioni legali a iniziare nuove attività. Anzi, può succedere che durante un concordato in continuità l’imprenditore costituisca una newco per proseguire il business ristrutturato: ad esempio scorpora il ramo sano e lo affida a una nuova società pulita, con l’autorizzazione del tribunale (questo è ammesso, purché fatto correttamente e nell’interesse dei creditori). Bisogna però stare attenti: se la nuova attività è troppo simile e serve solo a spostare asset per sottrarli ai creditori, si incorre in illecito (fenomeno della phoenix company, trasferimento illecito d’azienda). Legalmente però, dopo la chiusura della procedura e l’adempimento del piano, l’imprenditore è libero. Anche un ex fallito, con l’esdebitazione concessa, ritrova piena capacità.
  • Diverso è per chi ha commesso reati concorsuali: se condannato ad es. per bancarotta fraudolenta, il giudice penale può applicare l’interdizione dall’esercizio d’impresa per un certo periodo (pene accessorie). Ma parliamo di casi di frode conclamata. Per il debitore onesto, la filosofia attuale è di incoraggiare un nuovo inizio (fresh start). Dunque, non c’è più un casellario dei “falliti inibiti” come una volta.

Ad esempio, un artigiano individuale che chiude i suoi debiti col concordato minore e viene esdebitato, può immediatamente aprire una nuova partita IVA e ripartire. Naturalmente dovrà riconquistare la fiducia del mercato e probabilmente inizialmente avrà porte chiuse dalle banche per un po’, ma legalmente può farlo.

D.8: Come vengono trattati i dipendenti dell’azienda in crisi? Perdono il lavoro?
R: La tutela dei lavoratori è uno degli obiettivi delle procedure di risanamento. In caso di continuità aziendale, l’idea stessa di un concordato o accordo è salvare l’impresa e con essa i posti di lavoro. Durante un concordato in continuità, i contratti di lavoro proseguono regolarmente; i dipendenti devono essere pagati per l’attività corrente come crediti prededucibili (a meno che non si attivi la cassa integrazione). Se ci sono arretrati stipendi pre-procedura, questi formano crediti privilegiati da soddisfare secondo le regole (spesso integralmente o in alta percentuale grazie all’intervento del Fondo di Garanzia INPS per TFR e ultime 3 mensilità).

In caso di liquidazione o di ristrutturazione che comporti esuberi, i dipendenti possono perdere il lavoro, ma si cerca di gestire la cosa in modo ordinato. Ad esempio, l’azienda può chiedere la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) per crisi o cessazione, che copre fino a 12 mesi di integrazione salariale mentre la procedura si svolge, evitando licenziamenti immediati. Oppure, se c’è trasferimento d’azienda a un acquirente, spesso nell’offerta si prevede il passaggio di parte dei dipendenti al compratore (ex art. 2112 c.c. se continuità; se vendita in fallimento, la legge consente all’acquirente di scegliere quali lavoratori assumere, ma di solito c’è una trattativa sindacale per tutele).

Se invece si arriva a liquidazione giudiziale (fallimento), l’attività cessa e i lavoratori vengono licenziati, però possono accedere al Fondo di Garanzia INPS per TFR e stipendi arretrati, e alla NASpI (indennità di disoccupazione). Nelle procedure minori (concordato minore, piano del consumatore), se c’è un’impresa con dipendenti, valgono strumenti analoghi: cassa integrazione straordinaria se possibile, o licenziamento collettivo semplificato.

Da notare: il CCII ha semplificato la procedura di licenziamento collettivo in concordato/fallimento, equiparandola a quella per cessazione attività. Quindi, i dipendenti di un’azienda in concordato liquidatorio possono essere licenziati dal commissario con autorizzazione ministeriale semplificata (non serve lunga consultazione sindacale, essendo caso di cessazione).

In sintesi, non è automatico che i dipendenti perdano il lavoro: se l’azienda si salva, anche i loro posti si salvano; se l’azienda viene ceduta, c’è speranza di continuità occupazionale almeno per una parte (il compratore spesso assorbe i dipendenti principali); se l’azienda chiude, allora scattano le reti di protezione sociale (INPS, NASpI). Sicuramente i loro crediti salariali (stipendi, ferie, TFR maturato) sono privilegiati di grado massimo e tendenzialmente vengono pagati (o dal datore nel piano, o dall’INPS Fondo Garanzia se fallimento). Il danno maggiore per i lavoratori è la perdita del posto di lavoro, ma le procedure cercano di minimizzarla compatibilmente con la realtà economica.

D.9: Che differenza c’è tra piano attestato, accordo di ristrutturazione e concordato preventivo?
R: In breve sintesi:

  • Piano attestato: soluzione privata e unilaterale. Il debitore fa un piano e un esperto indipendente ne attesta la fattibilità. Non richiede percentuali legali di adesione né omologhe. Serve però il consenso pratico dei principali creditori, altrimenti non regge (perché i dissenzienti restano liberi di agire). È rapido e confidenziale ma fragile, perché basta un creditore fuori accordo per farlo saltare (non offre protezione contro azioni individuali se qualcuno non collabora).
  • Accordo di ristrutturazione: soluzione contrattuale con base legale. Serve un consenso qualificato (60% dei crediti) e poi interviene il giudice ad omologare. Vincola i consenzienti e può legare anche alcuni dissenzienti per legge (es. banche minoritarie, Erario se minoritario, come visto col cram-down). È meno intrusivo del concordato (niente voto generale a maggioranza qualificata, niente commissario di regola) ma richiede di negoziare con successo con la maggior parte dei creditori prima. Insomma è a metà: volontario ma con l’ombrello del tribunale.
  • Concordato preventivo: soluzione collettiva giudiziale. Coinvolge tutti i creditori (di regola) con un meccanismo di votazione a maggioranza e un forte controllo del tribunale (commissario nominato, autorizzazioni, ecc.). È il più “solido”: una volta omologato, vincola tutti, anche chi non era d’accordo, ed è un provvedimento giudiziario. Ma è anche il più oneroso e lungo, e comporta pubblicità e potenziale perdita di controllo per il debitore (specie in liquidatorio, dove il curatore liquida).
  • Inoltre esiste il PRO (Piano di Ristrutturazione Omologato) che è un ibrido: un concordato senza voto, basato su un accordo parziale + imposizione giudiziale a classi dissenzienti (diciamo un mix tra accordo e concordato). E la composizione negoziata che è un percorso di aiuto prima di arrivare a questi, modulabile in vari esiti come visto.

In pratica, se facessimo un continuum dal minimo intervento al massimo:
Piano attestato (minima ingerenza tribunale, massimo consenso volontario richiesto) → Accordo ristrutturazione (ingerenza moderata, serve già buon consenso) → Concordato preventivo (ingerenza forte, consenso costruito formalmente in procedura).

Le imprese tenteranno il piano attestato se possono (zero pubblicità, zero attori esterni); se no, proveranno l’accordo (negoziazione privata + timbro giudice); se no, vanno di concordato (via giudiziale completa). In pratica, come detto, spesso si passa per la composizione negoziata che può sbocciare in un piano attestato se va bene, in un accordo se va abbastanza bene, o in un concordato se va male.

D.10: Quali debiti non si possono cancellare nemmeno col fallimento o con le procedure?
R: Alcuni debiti rimangono a carico del debitore anche dopo le procedure e l’eventuale esdebitazione. Ad esempio:

  • Sanzioni penali e amministrative di natura punitiva (multe, ammende): non sono esdebitabili (art. 279 CCII). Se la società fallisce, la sanzione amministrativa pecuniaria rimane nel passivo ma spesso non viene soddisfatta per mancanza attivo – per la persona fisica, la multa penale resta a suo carico anche post esdebitazione. Quindi, ad esempio, una multa per violazione normativa medica grave resterebbe dovuta dal titolare anche dopo la chiusura della procedura.
  • Debiti per alimenti e mantenimento: es. assegni divorzili, obblighi di mantenimento verso figli o ex coniuge – questi restano dovuti, non c’è procedura concorsuale che li abbatta.
  • Debiti da risarcimento per fatti illeciti dolosi: il CCII esclude dall’esdebitazione (art. 278) quelli derivanti da dolo, nonché quelli verso persone che il debitore ha danneggiato con fatti penalmente rilevanti (es. risarcimento a una vittima di reato). Quindi, se un amministratore ha truffato qualcuno e deve risarcirlo, quel debito non viene cancellato dalla procedura.
  • IVA: un tempo si diceva non falcidiabile in concordato; ora lo è, ma comunque l’IVA non pagata interamente potrebbe rimanere a carico se la procedura non va a buon fine (e penalmente c’è responsabilità). Tuttavia, se il concordato è omologato, la parte non pagata è esdebitata per definizione. Quindi IVA oggi non è più eccezione vera, salvo mal gestione (se uno non esegue il piano, ovviamente la parte non pagata “rivive”).
  • Responsabilità personali di liquidatori ex art.2495 c.c. e 36 DPR 602/73: se il liquidatore di una società di capitali paga alcuni creditori e lascia tributi non pagati all’estinzione, può restarne obbligato personalmente. Non è un “debito non cancellato dalla procedura”, ma un debito che la legge ascrive a lui direttamente, quindi non rientra nel concorso.
  • Debiti per aiuti di Stato illegittimi: in teoria, se un’impresa deve restituire aiuti ricevuti considerati illegali dall’UE, non possono essere falcidiati (vincoli di diritto UE) – caso di nicchia comunque.

In generale, però, debiti commerciali, bancari, fiscali, contributivi, verso fornitori, ecc., sono cancellabili attraverso la procedura concorsuale e l’esdebitazione finale. Il CCII ha voluto includere anche il Fisco in questo (mentre prima era più restrittivo su IVA, come visto con Corte Cost. 6/2015 che aveva aperto la strada). Quindi ciò che sicuramente rimane sono: le multe e ammende, e i famosi debiti di giustizia (spese processuali penali a carico del condannato, che restano vita natural durante, non esdebitabili).

D.11: A chi ci si può rivolgere per attivare queste procedure?
R: Per avviare un percorso di risanamento o liquidazione, l’imprenditore o il privato dovrebbe coinvolgere professionisti specializzati (avvocati d’affari, commercialisti esperti in crisi, consulenti del lavoro per la parte occupazionale). Tuttavia, esistono anche organismi pubblici e associazioni di categoria che aiutano. Ad esempio:

  • Le Camere di Commercio, tramite la piattaforma di composizione negoziata (online sul sito di Unioncamere), forniscono istruzioni e nominano l’esperto una volta presentata istanza. Dunque un imprenditore in crisi può presentare autonomamente domanda sulla piattaforma e sarà seguito dall’esperto nominato; ovviamente dovrà predisporre i documenti con l’aiuto magari di un suo commercialista di fiducia.
  • Gli Organismi di Composizione della Crisi (OCC), istituiti presso ordini professionali, enti pubblici o anche associazioni di consumatori convenzionate, offrono consulenza e gestiscono le procedure di sovraindebitamento. Quindi il piccolo imprenditore o il consumatore possono rivolgersi a un OCC territoriale: questi organismi (spesso presso i tribunali, i comuni, le Camere di Commercio) nominano un gestore della crisi che aiuta a predisporre il piano e lo presenta al giudice.
  • L’Agenzia delle Entrate e l’INPS hanno sezioni dedicate a transazioni e rateizzazioni: se si tratta solo di chiedere una rateizzazione, il contribuente può farlo anche attraverso i canali web (sul sito dell’Agenzia Riscossione) senza bisogno di un legale. Ovviamente, per procedure più complesse conviene farsi assistere, ma per un’istanza di dilazione standard (72 rate sotto soglia) è un iter amministrativo.
  • Le associazioni di categoria (es. Confartigianato, Confcommercio, CNA, Confindustria Piccola Impresa) spesso hanno convenzioni con esperti per assistere le imprese associate in crisi, a costi calmierati o come servizio incluso. Conviene informarsi presso la propria associazione di settore.
  • Infine, se la situazione è di insolvenza conclamata e i creditori hanno già agito (decreti ingiuntivi, istanze di fallimento), inevitabilmente bisognerà passare per il tribunale fallimentare. In tal caso, la nomina di un avvocato è necessaria per difendersi (ad es. nell’istruttoria prefallimentare) o per presentare una domanda di concordato “in extremis”. Ad esempio, se arriva una citazione in tribunale su istanza di fallimento, si può reagire proponendo un concordato prima della sentenza: ma ci vuole un legale per predisporre gli atti in pochi giorni.

In generale, è consigliabile muoversi prima che i creditori lo facciano: l’imprenditore proattivo che chiede aiuto (in Camera di Commercio, all’OCC, al proprio consulente) ha più chance di salvare l’attività o almeno evitare guai penali. Al contrario, chi aspetta la notifica dell’istanza di fallimento subisce soluzioni più traumatiche e ha margini ridottissimi per gestire la situazione.


Dissipati i dubbi principali, passiamo ora a due casi pratici per vedere sul campo come un centro diagnostico (o un piccolo imprenditore in analoga situazione) può difendersi dai debiti utilizzando gli strumenti descritti.

Casi pratici

Vediamo ora due simulazioni semplificate di gestione della crisi, per capire come si applicano concretamente gli strumenti illustrati:

Caso 1: Centro diagnostico di medie dimensioni con debiti bancari e fiscali

La società Beta Diagnostica S.p.A. gestisce un centro diagnostico polispecialistico, con 20 dipendenti. Negli ultimi anni, complici investimenti costosi in macchinari e un calo di richieste, ha accumulato circa €2 milioni di debiti così composti: €800k mutui e leasing con banche (garantiti da ipoteche sul capannone e sulle principali apparecchiature), €300k scoperto di c/c bancario, €400k debiti verso fornitori (reagenti di laboratorio, manutenzione macchinari, utenze), €300k debiti verso il Fisco (IVA e ritenute non versate), €200k altri debiti (INPS e un paio di contenziosi legali persi). L’azienda ha ancora buon mercato (pazienti e convenzioni ASL) ma scarsa liquidità. Le banche minacciano di revocare i fidi; l’Agenzia Entrate-Riscossione ha appena iscritto ipoteca sull’immobile per cartelle non pagate e inviato PEC di allerta. Cosa fare?

  • Fase 1 – analisi e allerta: Gli amministratori di Beta, su suggerimento del Collegio Sindacale, attivano subito la Composizione negoziata tramite la piattaforma online. Ottengono dal tribunale misure protettive (sospensione delle azioni esecutive) che congelano un pignoramento bancario già minacciato e impediscono nuovi attacchi sui beni. Un esperto indipendente viene nominato dalla Camera di Commercio.
  • Fase 2 – trattative: L’esperto analizza la situazione. Capisce che Beta è in crisi ma non insolvente irreversibile: se si allevia il peso del debito bancario e fiscale, l’azienda può riprendersi grazie ad alcuni nuovi contratti in arrivo. Convoca separatamente i creditori chiave: le 2 banche principali e l’Agenzia delle Entrate. Con le banche, si discute di rinegoziare i mutui (allungare la durata, magari abbassando la rata) e convertire lo scoperto di c/c in un mutuo a 5 anni; con la società di leasing, di restituire un macchinario poco utilizzato per cancellare la parte residua di leasing su di esso (evitando di pagare canoni futuri inutili). L’esperto suggerisce anche di vendere un immobile secondario (un magazzino inutilizzato) per fare cassa di €300k. Con l’Agenzia Entrate e l’INPS, grazie alla nuova norma 2024, propone una transazione fiscale nell’ambito negoziato, offrendo: pagare il 100% dell’IVA dovuta (perché Beta era inadempiente solo per l’ultimo anno su IVA, €100k) e il 50% di IRAP e contributi, stralciando sanzioni e interessi, il tutto dilazionato 5 anni. L’offerta è corredata da relazione asseverata di un professionista che mostra che in caso di fallimento l’Erario prenderebbe forse il 20% di quei crediti. È un’offerta convincente: l’Agenzia Entrate aderisce, preferendo incassare €150k su €300k in 5 anni piuttosto che attendere un fallimento dall’esito incerto. I fornitori: l’esperto coinvolge le associazioni di categoria per convincere i fornitori minori ad uno stralcio del 30%: Beta pagherà il 70% dei loro crediti in 12 mesi in cambio della loro pazienza. Molti di questi fornitori dipendono da Beta come cliente (ad esempio il laboratorio di analisi è uno dei maggiori acquirenti di reagenti in zona), quindi accettano per mantenerla in vita e continuare il rapporto.
  • Fase 3 – esito: Dopo 4 mesi intensi di negoziazioni, Beta S.p.A. raggiunge un accordo stragiudiziale plurilaterale:
    • Le banche firmano un accordo di ristrutturazione (non omologato ma contrattuale) per allungare i mutui di 5 anni e ridurre in parte i tassi; inoltre convertono lo scoperto di c/c in un finanziamento rateale.
    • L’Agenzia Entrate firma l’accordo transattivo (autorizzato dal tribunale) accettando il piano proposto su IVA/IRAP.
    • I fornitori sottoscrivono singoli patti di saldo e stralcio al 70%.
    L’esperto conclude la procedura attestando che l’accordo complessivo risolve la crisi. Il tribunale, su istanza di Beta, autorizza formalmente l’accordo fiscale e dichiara chiusa la composizione negoziata. Risultato: Beta evita il fallimento, riprende a pagare i debiti ridefiniti secondo gli accordi. I dipendenti restano tutti al lavoro (forse sono stati posti in CIG per 3 mesi durante la negoziazione, per ridurre i costi immediati). Due anni dopo Beta torna in utile; in 5 anni adempie regolarmente gli accordi, col Fisco nuovamente in regola. Nessuna pubblicità negativa è apparsa: tutta la procedura è rimasta riservata (a parte le comunicazioni ai creditori interessati).

(Se le trattative fossero fallite, l’esperto avrebbe magari indirizzato Beta verso un concordato preventivo: ipotesi, vendere l’azienda a un concorrente per €1,2M e offrire ai creditori il ricavato, raggiungendo il 40% ai chirografari – se i creditori avessero approvato, concordato omologato; se no, fallimento. Nel nostro caso, invece, la negoziazione precoce ha permesso un successo maggiore.)*

Caso 2: Piccola ditta individuale con troppi debiti personali e aziendali

Mario è un elettricista titolare di una ditta individuale, che negli anni ha aperto un piccolo negozio/laboratorio. Ha accumulato €100k di debiti così suddivisi: €30k con fornitori di materiali elettrici, €20k con una banca (prestito artigiano), €15k di cartelle esattoriali (IVA e contributi INPS non pagati), €10k di affitto arretrato del negozio, €5k di bollette insolute, e €20k di debiti personali (prestito auto, carte di credito). Il calo di lavoro e alcune fatture non incassate lo hanno travolto. Non è soggetto a fallimento per dimensioni (fatturato e debiti sotto soglia), ma i creditori lo assillano: un fornitore ha ottenuto decreto ingiuntivo, l’Agenzia Entrate ha pignorato 1/5 del suo conto in banca, il proprietario del negozio minaccia sfratto per morosità. Mario non possiede immobili (vive in affitto) né grandi attrezzature (ha solo un furgone e gli utensili da elettricista). Però ha una clientela e buona reputazione, e potrebbe guadagnare sui €2k netti al mese se riuscisse a ristrutturare l’attività (magari specializzandosi in impianti fotovoltaici, c’è domanda). Cosa fare?

  • Mario si rivolge all’OCC locale tramite la sua associazione di categoria (es. Confartigianato). Un gestore della crisi esamina il caso. Rileva che Mario è in parte consumatore (ha debiti privati) e in parte piccolo imprenditore sotto soglia, quindi può accedere o al concordato minore o al piano del consumatore. Poiché la sua attività è molto legata a lui come persona e ci sono diversi debiti privati, decidono di procedere con la ristrutturazione dei debiti del consumatore (così includono anche i debiti personali in un unico piano).
  • Il gestore OCC raccoglie i documenti e prepara un piano per il tribunale: Mario propone di pagare €600 al mese per 5 anni ai creditori, cioè €36.000 in totale, da ripartire proporzionalmente. Ciò significa che i creditori chirografari (fornitori, banca, crediti personali) prenderanno circa il 30% dei loro crediti; l’Agenzia Entrate e l’INPS (che hanno parte privilegiata su IVA/contributi) prenderanno forse il 50% di quelle somme; il proprietario del negozio, che ha un privilegio per le ultime mensilità di affitto, prenderà una percentuale intermedia. Il gestore attesta che il piano è fattibile (Mario può sostenere €600/mese stringendo sulle spese familiari) e che i creditori non sarebbero trattati meglio da un’alternativa liquidatoria – se vendessero il furgone e gli attrezzi in una liquidazione otterrebbero forse €5k totali, dunque il piano è nettamente più conveniente.
  • Il tribunale fissa udienza, ma nessun creditore si oppone (molti non si presentano nemmeno, confidano nell’analisi dell’OCC). Il giudice omologa il piano del consumatore rilevando la meritevolezza di Mario (ha avuto sfortuna, non ci sono atti dolosi, e la convenienza per i creditori è dimostrata: 36k€ è meglio di quasi zero). Le eventuali opposizioni dei creditori vengono rigettate (nel nostro scenario non ce ne sono).
  • A questo punto Mario inizia a eseguire il piano: ogni mese versa €600 all’OCC, che li distribuisce ai creditori secondo quanto stabilito (prima i privilegiati, poi il resto pro quota). Mario continua la sua attività di elettricista con il fiato un po’ sospeso (per 5 anni dovrà stare attento a rispettare i pagamenti; eventuali nuovi debiti dovrà gestirli cash perché non può fallire questo piano, altrimenti non avrà altre chance). Nel frattempo, il proprietario del negozio ottiene lo sfratto per la morosità pregressa (procedimento già avviato), ma quell’affitto arretrato è incluso nel piano e sarà pagato parzialmente. Mario si trasferisce in un laboratorio più piccolo in subaffitto per risparmiare. I fornitori, vedendo che ha avviato un percorso di rientro, accettano di continuare a fornirgli materiale ma solo a pagamento anticipato, almeno finché non riconquistano fiducia.
  • Esito: Mario completa i 5 anni di pagamenti, versa tutti i €36k previsti. Il tribunale emette il decreto di attestazione di avvenuto adempimento e dichiara Mario esdebitato dal residuo debiti di circa €64k. Questi debiti sono cancellati: i creditori non potranno più pretenderli. Mario ha dunque un “fresh start”: ha ancora il suo lavoro e ora è libero dai debiti, anche se ci sono voluti 5 anni di sforzi. Durante la procedura, tra l’altro, è rimasto padrone del suo furgone e degli strumenti perché il piano prevedeva che li tenesse per continuare a lavorare (i creditori chirografari hanno accettato di non far vendere tutto subito in cambio di quel 30% guadagnato con il suo lavoro – un principio di vantaggio reciproco).
  • Nota: se Mario non fosse riuscito e fosse “fallito” del tutto (ipotizziamo: nessun piano, i creditori avrebbero pignorato il furgone e chiuso l’attività; Mario sarebbe finito disoccupato e pieno di debiti, forse costretto al lavoro nero). Con la procedura di sovraindebitamento, invece, si è ottenuto un risultato bilanciato: i creditori hanno incassato qualcosa in più che in fallimento e Mario ha potuto tornare a contribuire all’economia (e pagare tasse future).

Questi due casi mostrano come, opportunamente utilizzati, gli strumenti legali possano trasformare situazioni disperate in soluzioni gestibili e relativamente eque per tutti.

Nel Caso 1, un centro diagnostico ha evitato il default grazie a una procedura tempestiva e a un mix di accordi, conservando il valore aziendale e i posti di lavoro. Nel Caso 2, un piccolo imprenditore ha potuto liberarsi dai debiti mantenendo la propria professionalità, laddove un fallimento l’avrebbe escluso dal circuito regolare.

Ogni situazione reale ha ovviamente le sue complessità, ma la morale è: non aspettare passivamente, bensì attivarsi presto, con l’aiuto di professionisti esperti, per scegliere la via giusta (dal negoziato informale alla procedura giudiziale adeguata). La legge oggi offre molte opportunità per ristrutturare, salvare l’attività o chiudere senza rovinare il patrimonio personale – ma vanno colte per tempo e con competenza.

Fonti normative, giurisprudenziali e siti utili (aggiornate al 2025)

Principali norme di legge:

  • Codice Civile: art. 2086 c.c. (obbligo di assetti adeguati per rilevare la crisi); artt. 2446-2447 c.c. (riduzione capitale per perdite, spesso precursore di crisi societarie); art. 2467 c.c. (postergazione dei finanziamenti soci nelle S.r.l.).
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, entrato in vigore il 15/7/2022 dopo vari rinvii, come modificato dai decreti correttivi: D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022 (attuazione Direttiva UE 2019/1023) e D.Lgs. 136/2024. Esso contiene:
    • Misure di allerta e prevenzione (artt. 12-25 CCII) – es. art. 15 (indicatori di crisi), art. 16 (strumenti informatici per segnalazioni), art. 25-octies/novies (segnalazioni dei creditori pubblici qualificati: Agenzia Entrate, INPS, ecc.).
    • Composizione negoziata (artt. 17-25-septies CCII) – introdotta da D.L. 118/2021; art. 23 co.2-bis aggiunto dal D.Lgs.136/2024 consente la transazione fiscale nella composizione negoziata.
    • Strumenti di regolazione stragiudiziale: art. 56 CCII (piano attestato di risanamento, esenzione revocatoria); artt. 57-64 CCII (accordi di ristrutturazione dei debiti, con varianti: art. 60-bis accordi agevolati 30%, art. 61 accordi ad efficacia estesa ai creditori finanziari dissenzienti, art. 63 transazione fiscale negli accordi); art. 64-bis e segg. (Piano di Ristrutturazione Omologato – PRO, con cram-down interclasse).
    • Concordato preventivo: art. 84 CCII (definizioni e condizioni, co.3 requisiti concordato liquidatorio 20% + 10% apporto esterno); art. 85 (suddivisione in classi); art. 86-88 (contenuto piano, possibilità di transazione fiscale anche nel concordato); art. 94 (voto per maggioranze); art. 112 (omologazione con cram-down per classi dissenzienti, best interest test).
    • Concordato semplificato liquidatorio: art. 25-sexies CCII (senza voto creditori, post composizione negoziata).
    • Liquidazione giudiziale: art. 121 (presupposti insolvenza); art. 2 lett. c (definizione di “debitore minore” sotto soglie fallibilità); art. 153 (esdebitazione automatica se soddisfatti almeno 20% chirografari).
    • Sovraindebitamento (Crisi da sovraindebitamento): art. 2 lett. b CCII (definizione di sovraindebitamento come squilibrio patrimoniale del debitore non soggetto a liquidazione giudiziale); artt. 65-66 (presupposti accesso sovraindebitati); artt. 67-73 (ristrutturazione dei debiti del consumatore); artt. 74-83 (concordato minore); artt. 268-277 (liquidazione controllata del sovraindebitato); art. 278 (esdebitazione persona incapiente, requisiti).
    • Disposizioni penali: rinvia ad altre leggi, ma art. 324-341 CCII contengono i reati concorsuali (bancarotta fraudolenta, semplice, ecc.), coordinati col D.Lgs. 74/2000 per i reati tributari (es. modifica soglie e termini per omesso versamento IVA).
  • Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) – formalmente abrogata dal CCII dal 2022, ma rilevante per fatti anteriori e per consolidata interpretazione giurisprudenziale pregressa. Molti concetti (es. art. 160 L.F. concordato, art. 182-bis e 182-ter L.F. accordo e transazione fiscale) vengono ancora richiamati in decisioni su casi iniziati prima del 2022; sostanzialmente sono confluiti nei nuovi articoli del CCII (es. la transazione fiscale ex art. 182-ter L.F. ora è nell’art. 63 CCII).
  • Legge 3/2012 (sovraindebitamento) – anch’essa abrogata e inglobata nel CCII, ma i casi pendenti pre-2022 ancora seguono quelle regole. Ad esempio, la valutazione di “meritevolezza” nel piano del consumatore avviato prima del CCII si faceva ex art. 12 L.3/2012; oggi c’è disciplina analoga nel CCII (art. 69).
  • Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, D.P.R. 917/1986) – art. 88 comma 4-ter TUIR: le sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti in procedure concorsuali non concorrono a formare reddito imponibile, se la procedura rientra tra quelle previste (concordato omologato, accordo omologato, piano attestato pubblicato). Questa norma è stata interpretata estensivamente dall’Agenzia Entrate: ad es. Risposta AE n. 222/2024 ha confermato che anche i piani attestati ex art. 56 CCII (già ex art. 67 L.F.) pubblicati godono di esenzione. Dunque, riferimento chiave per il debitore: il “guadagno” derivante dal taglio dei debiti non viene tassato, altrimenti sarebbe un paradosso (si aiutano le imprese a risanarsi e poi gli si farebbe pagare tasse sul debito condonato).
  • Leggi speciali:
    • D.Lgs. 270/1999 e D.L. 347/2003 (conv. L.39/2004): Amministrazione Straordinaria grandi imprese insolventi. Procedura concorsuale extra CCII riservata ad aziende >200 dipendenti o di rilevanza strategica. Non integrata nel CCII (che esplicitamente la esclude dal proprio campo di applicazione).
    • L. 297/1982 e succ. mod.: intervento del Fondo di Garanzia INPS per TFR e ultime retribuzioni in caso di insolvenza del datore di lavoro (vale per fallimento, concordato, liquidazione controllata).
    • D.Lgs. 74/2000 (reati tributari): art. 10-bis e 10-ter (omesso versamento ritenute e IVA) – soglie €150k e €250k di punibilità; D.Lgs. 8/2016 ha depenalizzato l’omesso versamento di contributi sotto €10k.
    • Codice Penale: artt. 216-217 (bancarotta fraudolenta e semplice, per società fallite – ora trasfusi in art. 322-323 CCII reati concorsuali), art. 641 c.p. (insolvenza fraudolenta, reato contrattuale).
    • Normativa lavoro: L. 223/1991 integrata dal D.Lgs. 148/2015 per CIGS in caso di procedure concorsuali; D.L. 109/2018 (tutela occupazionale in cessione rami da fallimenti).
    • Direttiva (UE) 2019/1023 (Insolvency Directive): base del D.Lgs. 83/2022 che ha introdotto PRO, transazione fiscale in composizione negoziata, esdebitazione incapiente, ecc..

Giurisprudenza rilevante (selezione):

  • Giurisdizione su transazione fiscale: Cass. Sez. Unite 8500/2021 e più di recente Cass. 34865/2023 – hanno stabilito che le controversie sul diniego dell’Agenzia Entrate di aderire a una transazione fiscale in concordato spettano al giudice fallimentare ordinario, non al giudice tributario. Significa: se il Fisco rifiuta una proposta nel concordato, il debitore può ricorrere al tribunale fallimentare per ottenere il cram-down, non in Commissione Tributaria. Questo ha risolto un conflitto di giurisdizioni (conforme a art. 48 CCII).
  • Omologazione concordato con cram-down fiscale: Cass. Sez. Unite 272/2019 – ha sancito l’ammissibilità di omologare concordati anche senza adesione del Fisco se soddisfatte le condizioni di legge. Ha superato un contrasto interpretativo precedente. Questo principio è ora recepito negli artt. 48 e 112 CCII (il tribunale può omologare forzatamente se l’Erario dissente ma prende almeno quanto in liquidazione).
  • Meritevolezza consumatore: Cass. 18609/2019 – ha definito che la “grave colpa” nell’indebitamento (es: ricorrere al credito in modo sproporzionato rispetto alle proprie capacità) può portare al rigetto di un piano del consumatore. Il CCII poi ha introdotto un criterio di merito creditizio che punisce anche le banche incoscienti (cioè se queste hanno concesso credito irresponsabilmente, il giudice può tenerne conto), bilanciando colpa del debitore e del creditore nella valutazione.
  • Sopravvenienze da esdebitazione d’impresa: Cass. 262/2021 (Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado Lombardia) e varie Commissioni Tributarie – hanno confermato la non imponibilità fiscale delle riduzioni di debiti in concordato, anche per IVA, riconoscendo la prevalenza della norma TUIR 88(4-ter). In pratica, hanno chiarito che la falcidia dell’IVA in concordato (ora lecita) non genera imponibile. Questo riflette prassi AE espressa poi nella risposta 222/2024.
  • Concordato semplificato – prime applicazioni: Tribunale di Roma 22/3/2022; Tribunale di Vasto 11/12/2024 – quest’ultimo ha omologato un accordo di ristrutturazione con cram-down fiscale (caso citato perché innovativo). La giurisprudenza sul semplificato è ancora scarsa (pochi casi, perché nuovo).
  • Reati concorsuali: Cass. Pen. 12039/2022 – ha affermato che la crisi d’impresa non esime dall’elemento soggettivo nei reati di bancarotta: ad es., se l’amministratore in crisi paga solo alcuni creditori preferendoli ad altri, può configurarsi bancarotta preferenziale con dolo eventuale (il fatto che la crisi lo “costringa” non lo giustifica penalmente). Cass. Pen. 3455/2020 – ha affermato che la convenienza del concordato per il Fisco (cioè il Fisco prende di più col concordato) non esclude comunque il reato di omesso versamento IVA se tutti gli elementi sono integrati. Però, se il debitore effettua il ravvedimento operoso (paga il dovuto) durante la procedura, ciò può escludere la punibilità (come causa di non punibilità sopravvenuta).
  • Sentenza Corte Cost. 6/2015 – dichiarò illegittimo il divieto di falcidia dell’IVA nei concordati, aprendo la via alle novità normative successive. Questa sentenza è stata fondamentale per permettere oggi di includere l’IVA nelle transazioni e nei concordati (prima era intoccabile).
  • Giurisprudenza europea: Corte di Giustizia UE, causa C-198/17 (Feniks) – sul riconoscimento di un trust polacco come procedura concorsuale (irrilevante qui, ma nelle procedure cross-border può emergere). Più interessante, la Direttiva 2019/1023 genererà in futuro pronunce su cross-class cram down e ristrutturazioni preventive, ma essendo recepita di recente, è un cantiere aperto.

Siti ufficiali e utili:

  • Portale di Composizione Negoziata – Unioncamere: piattaforma online dove presentare l’istanza di nomina dell’esperto, con normative e FAQ (raggiungibile tramite sito Unioncamere o Camere di Commercio). Permette anche di calcolare gli indici per l’allerta e accedere agli elenchi esperti.
  • Portale “Procedura Composizione della Crisi” – Ministero Giustizia: sezione dedicata con modulistica, linee guida, elenco OCC, registro dei gestori crisi.
  • Elenco OCC presso Ministero della Giustizia: lista degli Organismi di Composizione accreditati, per trovare quello territorialmente competente (spesso tribunale, comuni capoluogo o ordini professionali).
  • Agenzia Entrate Riscossione – Sportello digitale: servizio online per richiedere rateizzazioni standard delle cartelle, verificare la propria situazione debitoria (estratto di ruolo). Comodo per predisporre piani attestati.
  • INPS – Servizio VE.R.A.: portale INPS per ottenere la Certificazione dei debiti contributivi (art. 363 CCII), necessaria ad esempio quando si deposita un concordato o accordo (il tribunale spesso chiede l’elenco ufficiale dei debiti INPS). Aggiornato al 2025.
  • Guide e Massimari Cassazione: il sito ufficiale della Corte di Cassazione (www.cortedicassazione.it) pubblica massime e relazioni su novità (es. Relazione illustrativa al D.Lgs. 136/2024); inoltre banche dati come ilcaso.it, ilfallimentarista.it per approfondimenti.
  • Portale Giustizia Civile – Procedure Concorsuali Telematiche: per professionisti, consente il deposito telematico degli atti e consultare i fascicoli (ormai tutte queste procedure sono gestite via PEC/PCT).
  • ADR Commissione Tributaria e Fallimentare: siti come il Massimario Fiscale DEF Finanze pubblicano le sentenze tributarie su concordati (ad es. def.finanze.it la sentenza Cass.8500/21).

Centro diagnostico con debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Il tuo centro diagnostico sta affrontando debiti fiscali, contributivi o verso fornitori e banche?
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Anche centri diagnostici ben avviati possono trovarsi in crisi economica a causa di investimenti in macchinari costosi, aumento dei costi di gestione, ritardi nei pagamenti da parte di enti pubblici o assicurazioni, oppure contenziosi fiscali. In queste situazioni, la legge mette a disposizione strumenti concreti per proteggere l’attività, bloccare i creditori e ristrutturare i debiti.


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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto nella tutela di strutture sanitarie e diagnostiche in crisi economica

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Conclusione
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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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