Reati In Materia Di Imposte Dirette E Iva: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione per reati in materia di imposte dirette o IVA?
Se ti accusano di aver evaso imposte, omesso versamenti, presentato dichiarazioni fraudolente o falsificato documenti fiscali, è fondamentale capire quali sono i reati previsti dal D.Lgs. 74/2000, quando scatta la responsabilità penale e come difendersi efficacemente per evitare processi, condanne o misure cautelari.

Quali sono i principali reati tributari legati a imposte dirette e IVA
Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti falsi (art. 2)
Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3)
Dichiarazione infedele (art. 4)
Omessa dichiarazione (art. 5)
Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8)
Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10)
Omesso versamento di IVA (art. 10-ter)
Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis)
Indebita compensazione (art. 10-quater)

Quando un comportamento diventa penalmente rilevante
– Quando supera determinate soglie di imposta evasa o omessa, previste dalla legge
– Quando c’è intenzionalità fraudolenta, uso di fatture false, creazione di società cartiere o false dichiarazioni
– Quando l’omissione riguarda importi significativi e reiterati nel tempo
– Quando il Fisco trasmette il fascicolo alla Procura per le valutazioni penali
– Anche in presenza di accertamenti ancora in corso, se emergono elementi sufficienti a configurare un reato

Cosa rischi in caso di condanna per reato tributario
– Reclusione da 1 a 6 anni nei casi più gravi (frode fiscale, emissione di fatture false)
– Fino a 3 anni per omessa dichiarazione, dichiarazione infedele o omesso versamento di IVA
Confisca dei beni fino a concorrenza dell’imposta evasa
Sanzioni interdittive, come il divieto di esercitare attività d’impresa o amministrare società
Misure cautelari reali, come il sequestro preventivo di conti, immobili, quote societarie o beni personali

Come difendersi in caso di contestazione penale in materia tributaria
– Analizza con attenzione la fondatezza della contestazione fiscale, che è la base del procedimento penale
– Valuta se i fatti contestati rientrano effettivamente nelle soglie penalmente rilevanti
– Dimostra la mancanza di dolo, l’errore materiale, la buona fede o la responsabilità del consulente
– Se possibile, paga l’imposta o regolarizza la posizione: in molti casi, l’integrale pagamento può estinguere il reato o attenuare la pena
– Se il reato è solo fiscale (non patrimoniale), valuta il ricorso all’istituto della messa alla prova o della sospensione condizionale della pena
– Se sei in fase di indagine, prepara una memoria difensiva con un avvocato penalista e tributarista, per chiarire la tua posizione prima che venga chiesto il rinvio a giudizio

Cosa puoi ottenere con la giusta difesa
– L’archiviazione del procedimento penale, se dimostri l’insussistenza del reato
– Il proscioglimento in fase preliminare o all’udienza preliminare
– L’assoluzione in giudizio, se il fatto non sussiste o non è reato
– La sospensione del procedimento in caso di pagamento integrale delle somme
– L’evitamento della confisca e la tutela del patrimonio personale
– Una riduzione della pena o l’accesso a misure alternative (es. lavori di pubblica utilità)

Attenzione: i reati tributari sono reati veri e propri, con responsabilità penale personale. Non basta dire “pensava a tutto il commercialista” per evitare le conseguenze. Ma con l’assistenza giusta, puoi difenderti efficacemente, evitare la condanna e chiudere la questione anche prima del processo.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto penale tributario, contenzioso fiscale e difesa patrimoniale ti spiega quali sono i reati in materia di imposte dirette e IVA, cosa rischi e come costruire una difesa seria ed efficace.

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Introduzione

I reati tributari rappresentano le violazioni più gravi delle norme fiscali, punite non solo con sanzioni amministrative ma anche con pene detentive. La disciplina italiana dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto (IVA) è principalmente contenuta nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, più volte modificato nel corso degli anni. Questa normativa delinea una serie di delitti tributari che possono essere commessi da contribuenti (siano essi privati cittadini, imprenditori o legali rappresentanti di società) quando si superano determinate soglie di evasione o si realizzano condotte fraudolente nelle dichiarazioni fiscali o nei versamenti tributari.

Dal punto di vista del contribuente (o “debitore” fiscale), affrontare un’accusa di reato tributario richiede la comprensione sia degli elementi costitutivi del reato contestato sia degli strumenti di difesa previsti dall’ordinamento. Occorre sapere, ad esempio, quali soglie di imposta evasa fanno scattare la rilevanza penale, quali comportamenti integrano una frode fiscale o un’omissione punibile, e quali cause di non punibilità o attenuanti si possono invocare (ad esempio, il pagamento del debito tributario, l’assenza di dolo, la forza maggiore, ecc.).

È importante distinguere i reati tributari dalle semplici violazioni amministrative. Non ogni omissione o errore fiscale costituisce reato: di norma, scatta il penale solo per evasioni significative (oltre soglie di imposta evasa) o condotte caratterizzate da frode o falsità. Ad esempio, un lieve ritardo nel pagamento o un errore formale porteranno sanzioni amministrative, ma non configurano reato. Invece, la dichiarazione fraudolenta o l’omesso versamento di IVA oltre soglia possono condurre a un procedimento penale. Il sistema prevede dunque una sorta di “doppio binario”: sanzioni amministrative tributarie (come sovrattasse e multe) e, per i casi più gravi, sanzioni penali. Tali sanzioni possono coesistere, ma con l’obbligo di coordinamento per evitare la violazione del principio del ne bis in idem, come chiarito anche da recenti interventi legislativi e giurisprudenziali.

Negli ultimi anni, il legislatore ha più volte riformato questa materia per inasprire le pene nei confronti dei grandi evasori, ma anche per premiare i comportamenti riparatori di chi, pur avendo violato la norma, si attiva per pagare il dovuto. Ad esempio, con la riforma del 2015 (D.Lgs. 158/2015) molte soglie di punibilità furono innalzate (riducendo i casi di rilevanza penale), mentre con i provvedimenti più recenti del 2019-2020 (collegati alla cosiddetta “Legge PIF” – attuazione della direttiva UE sulla tutela degli interessi finanziari dell’Unione) e del 2023-2024 (delega fiscale), si assiste sia a un ampliamento dei reati presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti (D.Lgs. 231/2001) sia all’introduzione di nuove cause di non punibilità legate al pagamento del tributo. La guida che segue, aggiornata a luglio 2025, offre una panoramica completa di tutti i reati tributari in Italia, con un taglio avanzato ma dal tono divulgativo, dedicata a professionisti (avvocati, consulenti) ma anche a imprenditori e contribuenti consapevoli. Verranno illustrati gli strumenti di difesa e le strategie per difendersi da queste accuse – dalle soluzioni deflattive nel procedimento tributario (per ridurre o evitare il processo penale), fino alle strategie processuali penali (come eccepire l’assenza di dolo, sfruttare cause di non punibilità, interrogare la sussistenza degli elementi del reato, o ricorrere a riti alternativi come il patteggiamento).

Avvertenza sul linguaggio: parleremo spesso di “imposta evasa” e di “soglie di punibilità”. Per imposta evasa si intende, semplificando, la differenza tra quanto dovuto e quanto dichiarato (o versato) al fisco, che il contribuente ha indebitamente sottratto all’Erario. Le soglie di punibilità sono importi fissati dalla legge: al di sotto di essi la violazione resta nell’illecito amministrativo, al di sopra scatta il reato. Inoltre, menzioneremo spesso la “dichiarazione annuale”: ad esempio per l’IVA o le ritenute, la legge individua il momento consumativo del reato alla scadenza della dichiarazione annuale (non ai vari versamenti periodici), come chiarito anche dalla Cassazione. Questi aspetti tecnici saranno spiegati in dettaglio nelle sezioni seguenti.

Quadro generale dei reati tributari e soglie di punibilità

La normativa distingue diverse categorie di reati tributari, principalmente: reati dichiarativi, reati di emissione/uso di documenti falsi, reati di omesso versamento e reati di sottrazione fraudolenta al pagamento. La tabella seguente riepiloga i principali reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000, indicando per ciascuno la condotta tipica, la soglia di punibilità (ove prevista) e la pena edittale attualmente stabilita dalla legge:

Articolo (D.Lgs. 74/2000)Reato tributarioCondotta punitaSoglia di punibilitàPena prevista
Art. 2Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistentiInserire elementi passivi fittizi in dichiarazione (es. fatture false) al fine di evadere le imposte.Nessuna soglia minima di imposta evasa (reato punibile a prescindere dall’ammontare). Tuttavia, l’entità dell’evasione incide sulla pena concreta.Reclusione da 4 anni a 8 anni (aumentata rispetto al previgente 1½–6 anni dopo Dl 124/2019).
Art. 3Dichiarazione fraudolenta mediante altri artificiAttuare frode contabile o altri artifici ingannosi (es. simulazioni, operazioni fittizie) tali da ostacolare l’accertamento e indicare falsi elementi attivi/passivi al fine di evadere.Imposta evasa > €30.000 per periodo d’imposta (soglia introdotta dalla riforma 2015). Inoltre, elementi attivi sottratti > 5% del totale o > €1,5 mln (criteri quantitativi).Reclusione da 3 anni a 8 anni (aumentata da 1½–6 anni).
Art. 4Dichiarazione infedeleIndicare elementi attivi inferiori al reale o elementi passivi fittizi, senza frode attiva (quindi infedeltà “semplice”, non qualificata da artifici o fatture false).Imposta evasa > €100.000 e elementi attivi non dichiarati > 10% del totale o > €2 mln (dati per imposte dirette; criteri analoghi per IVA).Reclusione da 2 anni a 5 anni.
Art. 5Omessa dichiarazioneOmissione della presentazione della dichiarazione annuale (redditi o IVA) entro il termine di legge, con imposta evasa rilevante.Imposta evasa > €50.000 per singola imposta (soglia attuale). Se il contribuente presenta la dichiarazione entro il termine della successiva (ravvedendosi), il reato è escluso (si applica la non punibilità ex art. 13 c.2).Reclusione da 2 anni a 6 anni (pena aumentata da max 5 a 6 anni nel 2019).
Art. 8Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistentiEmettere o rilasciare fatture false (o altri documenti contabili falsi) al fine di permettere a terzi l’evasione (è il reato “speculare” all’art. 2, riferito all’emittente delle fatture fittizie).Nessuna soglia di importo: è punito qualsiasi importo di fatture false emesse (la gravità dell’importo incide poi sulla pena in concreto).Reclusione da 4 anni a 8 anni (anche qui aumentata dalla riforma).
Art. 10Occultamento o distruzione di documenti contabiliSottrarre o distruggere scritture contabili che si ha l’obbligo di tenere, in modo da impedire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.Nessuna soglia di importo: conta la condotta in sé. Il reato sussiste se l’occultamento/distruzione rende in tutto o in parte impossibile l’accertamento.Reclusione da 3 anni a 7 anni.
Art. 10-bisOmesso versamento di ritenute dovute o certificateNon versare entro il termine della dichiarazione annuale (Mod. 770) le ritenute operate come sostituto d’imposta, per importi elevati.Importo > €150.000 di ritenute certificate e non versate per ciascun periodo d’imposta. (NB: è necessario che le ritenute siano state certificate ai percipienti perché vi sia reato).Reclusione da 6 mesi a 2 anni. (Reato di natura omissiva istantanea, consumato al termine di presentazione del 770).
Art. 10-terOmesso versamento IVANon versare l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine di versamento (di regola il 16 marzo dell’anno successivo, prorogato ora al 31 dicembre).IVA non versata > €250.000 per periodo d’imposta. (Soglia aumentata nel 2015 da €50k a €250k). Consumazione al 31 dicembre dell’anno successivo alla dichiarazione (termine ora fissato dal D.Lgs. 87/2024).Reclusione da 6 mesi a 2 anni.
Art. 10-quater (comma 1)Indebita compensazione di crediti non spettantiUtilizzare in compensazione crediti d’imposta non spettanti, riducendo indebitamente i versamenti dovuti (ad es. crediti oltre il limite o in violazione delle modalità di legge).Importo > €50.000 di crediti non spettanti compensati indebitamente per ciascun anno (soglia attuale).Reclusione da 6 mesi a 2 anni. (Se il credito è non spettante, è prevista la non punibilità in caso di oggettiva incertezza su requisiti tecnico-normativi – v. infra).
Art. 10-quater (comma 2)Indebita compensazione di crediti inesistentiUtilizzare in compensazione crediti fiscali inesistenti, cioè creati artificiosamente (mai maturati realmente).Importo > €50.000 di crediti inesistenti utilizzati in compensazione, per anno.Reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni. (Trattamento più severo rispetto ai crediti “non spettanti”).
Art. 11Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposteCompiere atti fraudolenti (es. alienare simulatamente beni, creare artifizi) allo scopo di evitare il pagamento di imposte dovute o interessi/sanzioni, generando un pericolo per la riscossione.Importo > €50.000 di imposte/accessori il cui pagamento si tenta di evadere fraudolentemente (soglia per il debito tributario sottratto).Reclusione da 6 mesi a 4 anni (se l’importo sottratto > €50k), aumentata a 1–6 anni se importo > €100.000.

Nota: Oltre a questi, l’art. 6 D.Lgs. 74/2000 puniva la dichiarazione fraudolenta omettendo la dichiarazione Iva (casistica particolare, oggi di fatto assorbita dalle altre fattispecie), mentre l’art. 7 (compensazione con crediti fittizi IVA) è stato abrogato e le condotte rilevanti ora rientrano nell’art. 10-quater. L’art. 9 concerne il concorso di persone e la circostanza speciale del ravvedimento operoso, mentre gli artt. 12 e seguenti disciplinano aspetti procedurali, confisca e cause di non punibilità (come vedremo).

Questa panoramica evidenzia come i reati dichiarativi (artt. 2-5) siano graduati in base alla gravità della falsità: si va dalla frode più insidiosa (uso di fatture false, art. 2) all’infedeltà semplice (art. 4) fino alla mancata dichiarazione (art. 5). Allo stesso modo, i reati di omesso versamento (10-bis e 10-ter) colpiscono chi, pur avendo dichiarato e incassato dai contribuenti (nel caso delle ritenute) o dai consumatori (nel caso dell’IVA), non versa le somme dovute allo Stato. La legge punisce solo gli omessi versamenti più rilevanti (sopra soglia), mentre lascia ai soli illeciti amministrativi quelli di minore importo. Infine, l’art. 11 tutela la fase della riscossione, sanzionando manovre fraudolente che il debitore fiscale pone in essere per risultare nullatenente o per ostacolare il Fisco (ad es., intestare beni a terzi, simulare vendite, svuotare conti, ecc.).

**Importante: la maggior parte di questi reati richiede il dolo specifico, cioè la volontà non solo del fatto in sé, ma finalizzata ad evadere le imposte. Ciò significa che errori grossolani, negligenze o incomprensioni potrebbero non integrare gli estremi del reato se manca la consapevolezza e volontà di evadere. Ad esempio, la Corte di Cassazione ha ribadito che per i reati di dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3) è sempre necessario provare il fine specifico di evasione fiscale; il semplice rilievo di fatture inesistenti non basta, va dimostrato che l’imputato le ha utilizzate con dolo di evasione. Tuttavia, per i reati omissivi come l’omessa dichiarazione o il mancato versamento, è sufficiente il dolo generico (consapevolezza dell’omissione). In qualunque caso, la buona fede o l’assenza di volontà fraudolenta possono spesso essere valorizzate dalla difesa, talora escludendo il reato o quantomeno incidendo sull’entità della pena.

Nei prossimi capitoli approfondiremo ciascun gruppo di reati, evidenziando le strategie difensive e le ultime novità normative e giurisprudenziali – incluse le sentenze più recenti – utili a chi debba difendersi da una contestazione penale tributaria.

Reati tributari in materia di dichiarazione (artt. 2, 3, 4, 5 D.Lgs. 74/2000)

Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (Art. 2)

Descrizione del reato: È forse il più grave reato tributario in ambito dichiarativo. Si realizza quando un contribuente presenta una dichiarazione dei redditi o IVA fraudolenta, basata su documenti falsi. Tipicamente, consiste nell’utilizzare fatture false (o documenti analoghi) per operazioni inesistenti, con lo scopo di creare costi fittizi o crediti IVA fittizi e così abbattere l’imponibile o ottenere indebiti rimborsi IVA. Il classico esempio è l’azienda che contabilizza fatture per acquisti mai fatti, emesse da cartiere, per ridurre gli utili tassabili o detrarre indebitamente l’IVA. La norma punisce chiunque presenti una dichiarazione fraudolenta di tal tipo.

Soglia e configurabilità: Non è previsto un importo minimo di imposta evasa per la punibilità – il reato sussiste indipendentemente dall’ammontare dell’evasione. Ciò perché l’uso di fatture false è di per sé considerato un fatto di particolare disvalore (c’è l’attitudine ingannatoria intrinseca del documento fittizio). Va tuttavia provato il dolo specifico di evasione: la Cassazione ha chiarito che occorre la prova che l’agente avesse la volontà di evadere utilizzando quei documenti falsi. Ad esempio, nel caso di fatture soggettivamente false (operazioni reali ma con fornitori fittizi), può essere più complesso provare il dolo di evasione se l’imposta è stata comunque assolta dall’emittente (situazione che ricade però nel penale lo stesso, secondo la giurisprudenza maggioritaria, trattandosi di operazione soggettivamente inesistente).

Pena: La pena edittale è la reclusione da 4 a 8 anni (a seguito degli aumenti introdotti dal DL 124/2019). Ciò comporta, tra l’altro, tempi di prescrizione molto lunghi (oltre 8 anni, estensibili con atti interruttivi), e la non sospendibilità condizionale della pena in caso di condanna per importi elevati (spesso la pena inflitta supera i 2 anni minimi). È un reato presupposto della responsabilità amministrativa degli enti: se commesso nell’interesse o vantaggio di una società, anche la società può essere chiamata a rispondere ex D.Lgs. 231/2001, art. 25-quinquiesdecies, con pesanti sanzioni pecuniarie e interdittive. Ciò rende fondamentale, per le imprese, adottare modelli organizzativi idonei a prevenire frodi fiscali (un “Modello 231” efficace può esonerare dalla responsabilità).

Strategie difensive: Per difendersi da tale accusa, le possibili linee sono:

  • Negare l’inesistenza delle operazioni: dimostrare che le fatture contestate corrispondono in tutto o in parte a operazioni reali. Ad esempio, se il Fisco le ritiene false, portare prove che i beni/servizi sono stati effettivamente scambiati. Anche fatture “gonfiate” potrebbero ricondursi a operazioni reali (sebbene parzialmente sovrafatturate): in tal caso non si tratta di operazioni inesistenti in senso assoluto, e parte della contestazione potrebbe venire meno.
  • Contestare il dolo specifico: argomentare che non vi era l’intento di evadere. Magari l’imputato riteneva in buona fede di poter dedurre quei costi, o è stato tratto in inganno da terzi. Ad esempio, in strutture complesse, l’amministratore potrebbe difendersi sostenendo di non aver saputo che quelle fatture fossero false (assenza di consapevolezza), anche se va detto che l’ignoranza deve essere incolpevole e provata.
  • Errori procedurali e prove: esaminare se le prove delle falsità siano state acquisite lecitamente. In qualche caso, per ricostruire i ricavi non dichiarati il Fisco utilizza documentazione “extra-contabile” reperita durante perquisizioni; la Cassazione ha però chiarito che anche se un sequestro non è stato convalidato dal PM, ciò non rende automatica l’inutilizzabilità delle prove raccolte. Tuttavia, la difesa può verificare se tutta la documentazione è stata ritualmente acquisita in dibattimento. Anche questioni come la giurisdizione (competenza del tribunale) o la contestazione del capo di imputazione (esattezza dei periodi e importi) vanno scrutinate.
  • Ravvedimento operoso e pagamento del debito: benché per l’art. 2 non operi la causa di non punibilità piena (vale solo per reati omissivi, v. oltre), il pagamento integrale del dovuto prima del dibattimento consente di ottenere la speciale attenuante dell’art. 13-bis. Oggi, con la riforma 2024, il pagamento integrale entro la chiusura del dibattimento di primo grado comporta la riduzione della pena fino alla metà e l’esclusione delle pene accessorie. Inoltre, se il pagamento è in corso a rate, si può chiedere la sospensione del processo fino all’esito della rateazione. Quindi, se il cliente può economicamente farlo, salda il debito fiscale: questo è spesso decisivo per evitare o limitare la condanna (nei reati più gravi come questo si evita almeno il rischio di pene accessorie es. interdittive).

Giurisprudenza recente: È interessante segnalare una pronuncia di fine 2024 (Cass. pen. sez. III n. 44954/2024) che ha ribadito la necessità del dolo specifico per i reati ex art. 2, in particolare nei casi di fatture oggettivamente inesistenti. La Cassazione ha affermato che il giudice deve accertare l’intento fraudolento e non può darlo per scontato dalla sola inesistenza oggettiva dell’operazione: va provato che l’imputato sapeva della falsità e la utilizzava per evadere. Ciò può aprire spazi difensivi quando, ad esempio, l’amministratore delega la gestione contabile ad altri e sostiene di non aver controllato (sebbene questa difesa sia ardua: di solito si ritiene che chi firma la dichiarazione risponde, salvo provare manomissioni a sua insaputa).

Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (Art. 3)

Descrizione: Questa fattispecie punisce chi, con mezzi fraudolenti diversi dalle fatture false, simula o occulta attività in modo da ingannare il Fisco e presenta una dichiarazione infedele. Gli “artifici” possono consistere in manipolazioni contabili complesse: ad esempio, doppi bilanci, uso di false appostazioni di magazzino, operazioni simulate (come vendite fittizie intercompany), indicazioni di crediti fittizi, ecc., il tutto con lo scopo di ostacolare la verifica e evadere oltre soglia.

Soglie: A differenza dell’art. 2, qui la punibilità scatta solo se l’evasione supera certe soglie: attualmente €30.000 di imposta evasa per periodo d’imposta, e nello stesso tempo devono essere sottratti al fisco almeno il 5% dell’imponibile o €1,5 milioni di base imponibile non dichiarata. Ci vuole quindi una frode qualificata da un’evasione significativa. La ratio è distinguere l’inganno di entità rilevante dalle “furbizie” minori (sotto soglia rimane sanzione amministrativa). In ogni caso, come per l’art. 2, serve il fine di evasione.

Pena: La pena è la reclusione da 3 a 8 anni (anche qui aumentata nel 2019). La gravità è leggermente inferiore all’art. 2, ma comunque elevata. Anche questo reato rientra tra quelli presupposto per la responsabilità 231 dell’ente, quindi un’azienda coinvolta in simili frodi rischia sanzioni amministrative.

Difesa: Molte considerazioni sono analoghe a quelle viste per l’art. 2. La difesa può puntare a negare gli artifici (sostenendo ad esempio che non vi fu l’inganno atto ad ostacolare l’accertamento: se la contabilità era trasparente e accessibile, potrebbe escludersi l’artificio), oppure contestare il calcolo dell’imposta evasa sotto soglia. Su quest’ultimo punto, vi è una recente giurisprudenza molto interessante riguardo al computo dell’imposta evasa e dei costi non contabilizzati. Spesso, l’Ufficio ricostruisce ricavi nascosti (magari trovando una contabilità parallela) e calcola l’evasione senza considerare eventuali costi correlati non registrati. La Cassazione ha chiarito che anche nel penale vanno considerati i costi effettivamente sostenuti, ancorché “in nero”, purché vi siano elementi certi o almeno un ragionevole dubbio sulla loro esistenza. In una sentenza n. 2383/2025 la Suprema Corte ha cassato una condanna per dichiarazione infedele aggravata (art. 4, ma il principio vale anche qui) perché i giudici d’appello avevano ignorato i costi “in nero” emergenti da atti, limitandosi a dire che l’imputato non li aveva specificamente documentati. Invece, la Cassazione ha ribadito che se dai documenti (es. extra-contabili) emergono ricavi occulti, il giudice deve tenere conto di eventuali costi sostenuti per ottenerli, anche se non annotati, purché vi siano riscontri oggettivi o almeno allegazioni difensive concrete. Non si può presumere automaticamente che a maggiori ricavi occulti corrispondano costi occulti, ma nemmeno escluderlo a priori: la difesa può e deve segnalare l’esistenza di costi (personale pagato in nero, materie prime non fatturate, ecc.) e se ciò genera almeno un dubbio ragionevole, l’imposta evasa potrebbe scendere sotto soglia, escludendo il reato.

Dunque, un avvocato difensore, in casi di frodi complesse, lavorerà con consulenti contabili per ricostruire la reale base imponibile netta. Se l’accusa considera solo i ricavi evasi ma non i relativi costi, l’evasione “netta” potrebbe risultare inferiore al limite di legge. Questo è uno scenario frequente nelle cosiddette “doppie contabilità”: magari un ristoratore non dichiara €1 milione di incassi in nero, ma ha sostenuto €400k di costi in nero (materie prime e personale). L’IVA evasa si calcola sull’intero incasso, ma l’imposta sui redditi evasa va calcolata sull’utile sottratto, quindi al netto dei costi. La Cassazione ha espressamente detto che spetta anche al PM individuare i costi correlati, non potendo il giudice penale limitarsi a quanto fatto dall’accertamento fiscale. In pratica, l’avvocato difensore che porta elementi su costi non considerati può ottenere una riduzione dell’imposta evasa a fini penali, magari facendo cadere la soglia di punibilità.

Altre strategie difensive sono il far leva su eventuali vizi procedurali (es. se le operazioni di verifica fiscale hanno violato garanzie, come il diritto alla difesa durante l’accesso, o se c’è stato un abuso del procedimento) e naturalmente valutare il patteggiamento: per reati con pene così alte, un patteggiamento può ridurre di 1/3 e, combinato con attenuanti per pagamento, contenere la sanzione entro limiti gestibili. Va ricordato che per i reati dichiarativi (artt. 2,3,4,5) la causa di non punibilità piena scatta solo in caso di ravvedimento operoso molto tempestivo (v. infra art. 13): in pratica, se il contribuente corregge spontaneamente la dichiarazione infedele presentando quella successiva regolare e pagando tutto il dovuto prima di avere formale notizia di verifiche o indagini, allora non è punibile. Ma questo scenario implica che l’errore/frode sia riparato subito nell’anno seguente – situazione non comune nelle frodi organizzate. Più frequentemente, chi viene scoperto in frodi di solito non si era affatto ravveduto.

Dichiarazione infedele (Art. 4)

Descrizione: È il reato “residuale” che punisce le dichiarazioni mendaci non connotate da frode. Si configura quando nella dichiarazione annuale dei redditi o IVA si indicano elementi attivi inferiori a quelli reali o elementi passivi fittizi, senza che vi siano né fatture false né altri artifici fraudolenti. In pratica, l’infedeltà semplice può essere, ad esempio, sottofatturare vendite, omettere redditi percepiti, oppure dedurre costi non spettanti (ma documentati con ricevute o altri documenti non “falsi” in sé, magari solo impropri da dedurre). È un reato spesso definito come “evasione fiscale classica” non fraudolenta.

Soglie: Come visto, le soglie di punibilità sono abbastanza elevate: almeno €100.000 di imposta evasa e, contemporaneamente, oltre il 10% dell’imponibile non dichiarato (o €2 milioni). Ciò vuol dire che molti casi di infedeltà modesta (anche decine di migliaia di euro evasi) rimangono nell’illecito amministrativo. La ratio è concentrare il penale sulle dichiarazioni molto infedeli. Un esempio: se un professionista dichiara 70.000 euro di reddito anziché 200.000, evadendo mettiamo 50.000 € di IRPEF, non supera la soglia (50k di imposta è sotto 100k). Diverso se omette di dichiarare 1 milione su 1,2 mln (qui l’imposta evasa sarebbe magari 430k € e quindi reato).

Pena: Reclusione da 2 a 5 anni. È stata aumentata nel 2019 (prima max 3 anni). Il regime sanzionatorio più mite rispetto agli articoli 2 e 3 rispecchia l’assenza di fraudolenza. Conseguentemente, la prescrizione è più breve (tempo base 6 anni, estendibile a 7½ con atti interruttivi) – ciò fa sì che molte infedeltà datate possano cadere in prescrizione nel corso del processo, specie se i fatti non sono recenti. La difesa deve tenere d’occhio i termini di prescrizione: va calcolata dalla data di presentazione della dichiarazione (reato istantaneo che si consuma al momento della dichiarazione infedele, cioè normalmente al termine di presentazione, di solito fine novembre per i redditi). Ad esempio, una dichiarazione infedele presentata a novembre 2018 cade in prescrizione a novembre 2024 salvo atti interruttivi.

Difesa: La strategia difensiva nell’infedeltà consiste spesso nel contestare la quantificazione dell’imposta evasa, cercando di portarla sotto soglia. Vale quanto detto prima sul computo dei costi: l’infedeltà spesso emerge da accertamenti dove il Fisco recupera a tassazione ricavi non dichiarati e disconosce costi. La Cassazione (sentenza 2383/2025 citata) ha sancito che in sede penale il giudice deve determinare l’imposta evasa in modo autonomo, applicando sì le regole tributarie ma con la diversa regola di giudizio penale (“oltre ogni ragionevole dubbio”), il che implica considerare i costi deducibili provati o anche solo verosimili in base a elementi certi. In altre parole, se l’imputato porta documenti o testimonianze credibili di costi non considerati dal Fisco, il giudice penale deve tenerne conto – non può limitarsi a dire che l’imputato non li aveva contabilizzati e quindi non vale: se quei costi risultano da documenti (anche extra-contabili) sequestrati, vanno computati. Ad esempio, se Tizio ha vendite in nero per 1 milione ma emergono anche acquisti in nero per 800k, l’utile non dichiarato è 200k, non 1 milione (l’IVA evasa resta su 1 milione, ma l’IRPEF evasa è su 200k). Questa differenza può decidere il superamento o meno della soglia 100k.

Un’altra linea difensiva è invocare la causa di non punibilità per pagamento (art. 13, comma 2). Per dichiarazione infedele e omessa dichiarazione, la legge incentiva il ravvedimento: se il contribuente presenta la dichiarazione omessa (nel caso dell’art. 5) o integra quella infedele e paga tutto il dovuto (imposte, sanzioni, interessi) prima che abbia notizia di verifiche o indagini, non è punibile. Questa è una via di salvezza importante: immaginando un contribuente che si renda conto dell’infedeltà prima di essere scoperto, può correre ai ripari (presentare una dichiarazione integrativa per l’anno successivo, grazie ai termini di ravvedimento lunghi oggi ammessi, e saldare). Se ciò avviene spontaneamente e tempestivamente, il reato viene escluso. Attenzione: deve avvenire prima che il contribuente sappia di ispezioni o accertamenti in corso; inoltre, dev’essere integrale il pagamento. Questa clausola premiale è stata limitata, per infedele e omessa, al ravvedimento entro la dichiarazione successiva: quindi non basta pagare tardivamente dopo anni se nel frattempo è iniziata un’attività di verifica.

Se invece il pagamento avviene più tardi (es. quando oramai pende il processo penale), non c’è causa di non punibilità ma c’è l’attenuante di cui all’art. 13-bis: riduzione di pena fino alla metà e niente pene accessorie se il debito estinto prima della sentenza di primo grado. Inoltre, come già accennato, le ultime modifiche consentono di sospendere il processo per dare modo di completare le rate in corso. Quindi, anche in fase avanzata, se il cliente vuole evitare il carcere, pagare il dovuto resta la migliore strategia: nel peggiore dei casi, otterrà sensibili sconti di pena (spesso le condanne per infedele, se l’imputato paga e patteggia, possono ridursi a livelli compatibili con la sospensione condizionale, cioè ≤2 anni, mentre senza pagamento rischierebbe >2 anni e quindi l’esecuzione effettiva).

Giurisprudenza recente: Un tema dibattuto è il possibile bis in idem tra la sanzione amministrativa tributaria e la pena penale per infedele. In passato, si discuteva se, punendo due volte lo stesso fatto (evasione), vi fosse violazione del principio di ne bis in idem sancito dalla CEDU. La Cassazione penale, in una sentenza del 2021, ha escluso il bis in idem nel caso della dichiarazione infedele, ritenendo che il sistema italiano (doppio binario con coordinamento) sia compatibile e che la sanzione amministrativa tributaria non osti al processo penale. In ogni caso, la recente introduzione dell’art. 21-ter D.Lgs. 74/2000 impone al giudice penale e all’autorità amministrativa di tenere conto reciprocamente delle sanzioni già irrogate in via definitiva per lo stesso fatto, così da evitare un cumulo eccessivo. Quindi, se ad esempio per l’infedeltà Tizio ha già pagato una sanzione amministrativa molto salata, il giudice penale dovrà considerarla riducendo la pena per evitare una punizione duplicativa sostanzialmente sproporzionata. Ciò dà un ulteriore argomento alla difesa in sede di determinazione della pena.

Omessa dichiarazione (Art. 5)

Descrizione: Si configura quando il contribuente non presenta affatto la dichiarazione annuale dovuta (dei redditi, o IVA) entro il termine di legge (di solito, il 30 novembre dell’anno successivo per i redditi, o il 30 aprile per la dichiarazione IVA, termini poi unificati nell’attuale scadenza autunnale per tutte). È un reato di pura omissione, che tutela l’interesse dell’Erario ad avere la dichiarazione e, indirettamente, a riscuotere le imposte: infatti chi omette la dichiarazione nasconde completamente al fisco i propri redditi/operazioni.

Soglia: È punibile solo se l’imposta evasa supera €50.000. Questa soglia (introdotta già nel 2000 a 77 milioni di lire, oggi €50k) fa sì che, ad esempio, omettere la dichiarazione se si aveva un debito fiscale di poche migliaia di euro non costituisce reato (resta sanzione amministrativa per omessa dichiarazione, che peraltro è anch’essa pesante). Attenzione: per calcolare l’“imposta evasa” in caso di omessa dichiarazione, si considera l’imposta dovuta sulla base degli elementi effettivi, senza alcun importo dichiarato. Quindi se Caio non ha dichiarato nulla e doveva €60.000 di Irpef, commette reato; se doveva €40.000 no. Per l’IVA, analogamente.

Consumazione: Il reato si consuma allo spirare del termine per presentare la dichiarazione (solitamente, nel caso dei redditi 2023, il 30 novembre 2024). È quindi una omissione istantanea (non permanente): decorso quel termine, il reato è commesso e non è più evitabile, salvo rientrare nella causa di non punibilità del ravvedimento operoso. In pratica, se uno presenta la dichiarazione tardivamente entro 90 giorni dalla scadenza, la legge per l’amministrativo considera ancora valida (seppur sanzionata) la dichiarazione tardiva; ma ai fini penali, presentarla entro 90 giorni esclude il reato (perché l’art. 5 punisce l’omissione “oltre il termine di 90 giorni”). Dunque, chi presenta la dichiarazione con un ritardo entro tre mesi non è punibile penalmente (anche se paga sanzioni amministrative). Chi supera i 90 giorni incappa tecnicamente nel reato – però, l’art. 13 comma 2 offre scappatoie: se presenta la dichiarazione mancante prima della scadenza della dichiarazione dell’anno dopo e paga il dovuto, può fruire della non punibilità (simile a quanto visto per l’infedeltà).

Pena: Reclusione da 2 a 6 anni (pena base aumentata nel 2019 da max 5 a 6). Limiti edittali dunque pari a quelli dell’infedeltà, anche se l’omessa è in alcuni casi vista meno severa (paradossalmente omettere tutto e evadere 60k è punito come chi dichiara infedelmente evadendo la stessa cifra con malizia; ma la ratio è che l’omissione è un comportamento radicale che rende impossibile ogni controllo finché non viene scoperto).

Difesa: Innanzitutto, verificare se davvero la dichiarazione era dovuta: a volte possono esservi contestazioni errate (es. imputato non tenuto a dichiarare perché privo di obbligo, oppure dichiarazione presentata ma l’Agenzia per un disguido non l’ha recepita – casi rari ma da verificare in fatto). Se la dichiarazione fu effettivamente omessa, la difesa punta quasi sempre su:

  • Soglia: contestare l’importo dell’imposta evasa. Talvolta l’accertamento fiscale gonfia l’imposta dovuta con sanzioni o interessi, ma ai fini del reato contano solo le imposte. Si guarda anche qui all’imposta netta evasa. Se scende sotto €50k, niente reato. Anche qui possono giocare i costi deducibili non considerati: l’Agenzia magari ricostruisce un reddito imponibile e applica un’aliquota teorica. La difesa può portare elementi (anche in giudizio tributario parallelo) per far ridurre l’imposta. Una sentenza assolutoria recente merita nota: un Tribunale ha assolto un imputato perché, pur avendo omesso la dichiarazione, è intervenuto il fallimento della società prima della scadenza e quindi il legale rappresentante non era più obbligato (obbligo passato al curatore fallimentare). La Cassazione, con la sentenza n. 13135/2025, ha confermato questo principio: se la società fallisce prima del termine di presentazione, il reato non si configura a carico dell’amministratore, perché l’obbligo dichiarativo grava sul curatore. Inoltre, la stessa sentenza ha chiarito che il responsabile penale è colui che ha la carica di legale rappresentante alla scadenza del termine (anche se non era in carica durante l’anno fiscale in questione). Quindi un’eventuale difesa “non ero più amministratore” non vale se la cessazione è successiva alla scadenza; viceversa, se uno era amministratore nell’anno X ma si è dimesso prima del termine di presentazione, e la dichiarazione non viene presentata dal successore, non ne risponde lui penalmente. Questo delimita bene il perimetro della responsabilità individuale.
  • Ravvedimento operoso: se prima di qualsiasi verifica, il contribuente “si pente” e presenta la dichiarazione omessa (ad esempio presentandola insieme a quella dell’anno seguente) pagando le imposte, scatta la non punibilità ex art. 13 c.2. Quindi l’avvocato deve chiedere al cliente: “hai regolarizzato prima di sapere del controllo?” Se sì, proporre l’archiviazione perché il fatto non è più punibile. Se no, c’è comunque la possibilità di rimediare tardivamente con effetti attenuanti (art. 13-bis): pagamento integrale prima del dibattimento = attenuante fino a metà pena. Nel caso di omessa dichiarazione con debiti elevati, di nuovo pagare può fare la differenza tra carcere o sospensione condizionale.
  • Patteggiamento senza pagamento integrale: la giurisprudenza ha affrontato un dubbio: per reati come infedele o omessa dichiarazione, è ammissibile il patteggiamento se il debito non è pagato? Alcuni sostenevano che sarebbe una pena illegale perché il legislatore vuole il pagamento per estinguere il reato. In realtà, la Cassazione ha chiarito che il patteggiamento è consentito anche senza pagamento; semplicemente, l’imputato rinuncia al beneficio della non punibilità e accetta una condanna, ma ridotta per l’accordo. Dunque la difesa può comunque patteggiare (ottenendo la riduzione di un terzo sulla pena) anche se il cliente non ha potuto pagare tutto. Ad esempio, Cass. 48029/2019 ha sancito che non è illegittimo l’accordo di patteggiamento per omessa dichiarazione in assenza di pagamento, e la pena così applicata non è considerata “contraria a legge”. Ciò offre un’alternativa praticabile quando il debitore è insolvente: si negozia magari una pena attorno a 1 anno e mezzo o 2 (che potrebbe essere sospesa), evitando un lungo processo e magari un rischio di pena maggiore.

Giurisprudenza/novità: Oltre al caso del fallimento anticipato di cui sopra (che è un importante precedente a favore degli amministratori insolventi onesti), va menzionato che la Riforma Cartabia 2022 ha modificato le regole procedurali, rendendo procedibili con citazione diretta a giudizio anche reati come l’omessa dichiarazione (ossia senza udienza preliminare, per snellire i processi). Ciò incide poco sulla difesa sostanziale, ma sul piano tattico il difensore deve essere pronto a giocare le sue carte fin dall’udienza preliminare (quando c’è) o fin dalla prima udienza in caso di citazione diretta, perché i tempi si accorciano. Inoltre, va ricordato che se l’omessa dichiarazione riguarda più periodi d’imposta, abbiamo reati distinti per ogni anno, senza continuazione automatica (ma è possibile il concorso materiale con eventuale continuazione riconosciuta dal giudice in sentenza). Quindi una difesa integrata potrebbe puntare a unificare il trattamento sanzionatorio.

Reati in materia di documenti fiscali e di pagamento (artt. 8, 10, 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11)

In questo capitolo esaminiamo i reati che non si basano direttamente sulla dichiarazione infedele od omessa, ma su altre condotte illecite: l’emissione di documenti falsi, l’occultamento di scritture, gli omessi versamenti di imposte già dichiarate e la compensazione indebita di crediti, nonché la sottrazione fraudolenta al pagamento. Anche per essi analizzeremo le caratteristiche, le soglie e le possibili difese, con attenzione alle ultime novità normative del 2023-2024 che li riguardano in modo particolare.

Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (Art. 8)

Descrizione: Questo reato è, per così dire, il “complementare” dell’art. 2. Punisce chi emette o rilascia fatture false (o documenti equipollenti) per consentire ad altri di evadere. Quindi il focus è sul fornitore fittizio: ad esempio, l’amministratore di una cartiera che crea fatture di vendita mai avvenute, permettendo ai suoi “clienti” di dedurre costi inesistenti. La condotta rileva anche se non viene poi presentata alcuna dichiarazione: basta aver creato e consegnato i documenti falsi. È un reato comune frazionato: cioè, se Caio emette 100 fatture false per vari soggetti in un anno, si avrà un unico reato continuato o più reati a seconda dell’unità o pluralità di disegni criminosi (in genere, però, tutto l’operato di una cartiera viene contestato come un unico disegno criminoso continuato).

Soglie: Non vi sono soglie di importo. Qualsiasi fattura falsa emessa può integrare il reato, anche di modesto importo. Naturalmente, quantità e importi rileveranno sulla gravità, ma non sull’esistenza del reato. L’assenza di soglia discende anche qui dalla pericolosità intrinseca: la cartiera è punibile per se, anche se emette fatture per poche migliaia di euro.

Pena: La stessa dell’art. 2, ovvero reclusione 4-8 anni (dopo riforma). Anche questo è incluso nei reati 231 per la responsabilità degli enti, ma attenzione: qui l’ente responsabile sarebbe quello nel cui interesse il reo emetteva le fatture false. Spesso le cartiere sono entità fittizie o prestanome e di solito non si attiva un procedimento 231, ma in casi di frodi carosello più strutturate potrebbe succedere.

Difesa: Se si difende un soggetto accusato di essere l’emittente di fatture false, le possibili linee sono:

  • Negare la falsità delle operazioni: esempio, sostenere che le fatture erano per operazioni reali. Se vengono contestate come false soggettivamente (cioè società A fattura a B operazioni in realtà fatte da C), la difesa può dire che la norma punisce anche le false soggettive (lo sono, la giurisprudenza ha incluso anche quelle). Però, se l’operazione c’è stata, l’amministratore di A può argomentare di aver solo errato intestazione e non averlo fatto per frode. Non facile, ma dipende dalle prove.
  • Ruolo effettivo del imputato: spesso nelle cartiere i veri beneficiari sono altri, e l’emittente è un prestanome inconsapevole o parzialmente tale. Una difesa frequente è sostenere che l’imputato non aveva il controllo della società emittente, essendo un prestanome appunto, e che i documenti erano emessi da terzi a sua insaputa. Se credibile, può escludere il dolo.
  • Mancanza del fine di evasione per sé: va detto però che qui il dolo richiesto è di favorire l’evasione altrui. L’emittente può non evadere lui imposte (spesso non versa l’IVA indicata in fattura, ma quell’IVA non era mai dovuta perché l’operazione era finta). Tuttavia la giurisprudenza ritiene integrato il reato anche se l’emittente non trae vantaggio fiscale diretto (lo scopo di far evadere gli altri è sufficiente). Difendersi dicendo “non avevo motivi per far evadere Tizio” è difficile se c’è prova che le fatture erano false: il motivo in genere è un guadagno illecito (provisioni in nero). Ma tecnicamente l’accusa deve provare che sapeva del fine evasivo di chi avrebbe usato la fattura.
  • Circostanze attenuanti: come altrove, se l’imputato risarcisce il danno (che qui potrebbe consistere nel pagamento dell’IVA evasa dai destinatari, se non già recuperata) o collabora con la giustizia (es. indicando i beneficiari finali), può ottenere attenuanti generiche o specifiche (non ce ne sono di speciali salvo il pagamento attutisca eventuali confische).

Sul fronte pagamento debito tributario, l’art. 13 c.1 formalmente si riferisce a omessi versamenti e indebito uso crediti; non copre questo reato perché qui non c’è un “debito tributario” pagabile (le imposte evase sono a carico dei clienti, non dell’emittente). Quindi non c’è causa di non punibilità tramite ravvedimento. Tuttavia, riparare le conseguenze (es. aiutare il fisco a recuperare l’IVA evasa) può convincere il PM a concordare un patteggiamento mite.

Novità giurisprudenziali: Merita menzione la questione del cosiddetto danno all’immagine all’Erario. In alcune sentenze si è ritenuto che, in caso di condanna per reati tributari, l’Agenzia delle Entrate possa chiedere il risarcimento del danno d’immagine allo Stato. Ad esempio, per frodi fiscali rilevanti, c’è stata giurisprudenza che riconosce tale danno non patrimoniale (lesione all’immagine della PA) risarcibile in sede penale. Ciò può sembrare teorico, ma in processi grandi l’Avvocatura dello Stato si costituisce parte civile per l’Agenzia. La difesa potrebbe dover contestare la sussistenza e quantificazione di tale danno eventuale.

Occultamento o distruzione di documenti contabili (Art. 10)

Descrizione: Punisce l’imprenditore o il professionista che occulta o distrugge (in tutto o in parte) i documenti contabili obbligatori, in modo da rendere difficoltosa o impossibile la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari. È un reato di pericolo: non occorre che l’evasione si sia realizzata, basta la condotta idonea a pregiudicare i controlli. Tipico esempio: l’azienda sotto verifica brucia i registri contabili, o li nasconde e ne denuncia il falso furto, per non far scoprire il “nero”. Anche la tenuta di doppia contabilità può rientrare (se quella ufficiale è incompleta e i registri reali vengono occultati).

Soglie: Nessuna soglia di importo. Conta il fatto della sottrazione/distruzione e l’idoneità a impedire la ricostruzione fiscale. Se i verificatori riescono comunque a ricostruire, il reato sussiste lo stesso, è sufficiente il pericolo.

Pena: Reclusione da 3 a 7 anni. Pena significativa (aumentata nel 2015 da max 5 a 7 anni), segno che il legislatore considera molto grave chi “fa sparire i libri contabili”. Anche questo è reato-presupposto 231, quindi un’azienda i cui dirigenti distruggono conti potrebbe subire un procedimento ex D.Lgs. 231.

Difesa: Solitamente, si cerca di provare che non vi è stata occultamento doloso, ma ad esempio una perdita o distruzione accidentale. Se un’alluvione distrugge i registri, non c’è reato (sempre che la forza maggiore sia credibile). Oppure se i documenti vengono sequestrati da un’altra autorità e non disponibili al momento del controllo. Altro punto: non tutti i documenti sono rilevanti, solo quelli la cui mancanza impedisce la ricostruzione. Se mancano alcuni documenti secondari ma la situazione fiscale è ricostruibile da altri atti, manca l’elemento del reato. La difesa potrebbe quindi dire: “è vero che mancano alcune fatture, ma la GdF ha potuto ricostruire dai registri IVA e dagli estratti conto comunque i redditi”. Se convincente, potrebbe escludere il reato (perché la condotta non è idonea a impedire gli accertamenti).

Talora questo reato è contestato in concorso con la bancarotta fraudolenta documentale, se l’impresa fallisce: infatti distruggere libri è anche bancarotta. In tal caso, di solito prevale la bancarotta come reato più grave assorbente (ma dipende, c’è dibattito). Comunque la difesa in contesti del genere punta a unificare o escludere il concorso.

Non esistono cause di non punibilità legate al pagamento perché qui non si tratta di pagare un debito ma di un comportamento ostruzionistico. Quindi la miglior chance è dimostrare che non c’era dolo di evasione: ad esempio, i libri mancanti erano dovuti a negligenza, non a volontà di nascondere. O presentare tardivamente duplicati, copie di emergenza: se il soggetto collabora a ricostruire i dati (es. consegna copie elettroniche rimaste), ciò può ridurre la portata offensiva e portare magari a un proscioglimento per particolare tenuità (se il danno/potenziale evasione è modesto, l’offesa potrebbe essere tenue e non punibile ex art 131-bis c.p., soprattutto ora che il legislatore ha esteso espressamente la tenuità ai reati omissivi con certi criteri di valutazione). Per l’art. 10 non c’è un comma specifico sulla tenuità, ma nulla vieta di applicare l’art. 131-bis generale se i parametri sono rispettati (punibilità massima <5 anni e offesa tenue).

Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (Art. 10-bis)

Descrizione: Questo reato colpisce il sostituto d’imposta (tipicamente, il datore di lavoro) che, pur avendo operato le ritenute fiscali sui compensi ai dipendenti o collaboratori, non le versa allo Stato entro il termine previsto (che la riforma 2024 ha fissato al 31 ottobre dell’anno successivo alla certificazione – ma semplifichiamo: fine dell’anno successivo). In sostanza: l’azienda trattiene dalle buste paga l’IRPEF dei dipendenti, ma poi non versa quel denaro al Fisco. È considerato grave perché quei soldi, essendo già stati prelevati ai lavoratori, appartengono all’erario. L’omesso versamento di ritenute non operate (cioè se uno non ha proprio fatto le ritenute) non è punito da questa norma – qui si punisce solo se le ritenute sono dovute o certificate.

Elemento chiave – ritenute certificate: La giurisprudenza ha chiarito che il reato sussiste solo se le ritenute sono state effettivamente certificate ai percipienti. La mera indicazione dell’importo nel modello 770 non basta; occorre la prova che le certificazioni (CU, ex CUD) siano state consegnate ai dipendenti. Se non c’è prova di ciò, manca un presupposto del reato e l’imputato va assolto. Ad esempio, il Tribunale di Pescara nel 2025 ha assolto un datore perché l’accusa non ha dimostrato che le certificazioni furono rilasciate: l’azienda aveva dichiarato nel 770 un certo ammontare di ritenute, ma i dipendenti hanno negato di aver ricevuto le CU, quindi il giudice ha ritenuto non integrato l’art. 10-bis. La Cassazione ha confermato questo orientamento in varie pronunce, così come la Corte Costituzionale (sent. 175/2022) ha eliminato dalla legge una frase che estendeva la punibilità alle ritenute “dovute sulla base della stessa dichiarazione” anche senza certificazione, giudicandola illegittima. Dunque, per difendersi da un’accusa ex art. 10-bis, un check fondamentale per l’avvocato è: l’accusa ha le copie delle Certificazioni Uniche firmate dai dipendenti? Se no, sollevare la questione: potrebbe derivarne l’assoluzione perché il fatto non sussiste.

Soglia: €150.000 di ritenute non versate per anno. Sotto tale soglia è illecito amministrativo (sanzione del 30% circa e aggio). Sopra, reato. La soglia è piuttosto alta (dal 2015; prima era 50k). Quindi solo casi di mancati versamenti consistenti integrano il penale. Ad esempio, un’azienda con 10 dipendenti medi potrebbe arrivarci se ha stipendi alti; le PMI con alcuni dipendenti di solito stanno sotto soglia, a meno che accumulino più anni (ma attenzione: il reato è annuale, non si sommano anni diversi).

Consumazione e termine di versamento: La riforma del 2024 (D.Lgs. 87/2024) ha leggermente rivisto il termine entro cui il pagamento doveva avvenire, definendolo come il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione del 770. Di fatto, un’estensione rispetto al vecchio termine (che era il termine di presentazione del modello 770 stesso, cioè fine ottobre). Quindi per l’anno d’imposta 2023, ad esempio, il termine penalmente rilevante è 31/12/2025 per versare le ritenute certificate. Questo dà un po’ più di respiro ai debitori (ulteriore tempo per mettersi in regola prima di incorrere nel reato).

Pena: Reclusione 6 mesi – 2 anni. È un reato unisussistente e istantaneo: si realizza una volta per periodo d’imposta, al momento della scadenza finale. Ciò significa anche che il legale rappresentante in carica a quella data ne risponde. Se Tizio era amministratore per metà anno e poi si dimette, e il termine scade quando c’è Caio, sarà Caio (subentrato) a rispondere, come chiarito dalla Cassazione. Fa eccezione il caso di fallimento: se l’azienda fallisce prima del 31 dicembre (nuovo termine), l’obbligo passa al curatore fallimentare, quindi l’ex amministratore non risponde. Se fallisce dopo, l’amministratore risponde comunque per non aver versato entro il termine.

Difesa: Oltre alla già menzionata assenza di certificazione (che è la difesa tecnica più efficace se applicabile, facendo leva sulle pronunce come Cass. 18214/2024 e Corte Cost. 175/2022), la difesa può invocare cause di non punibilità per forza maggiore. Storicamente, la giurisprudenza era severa: la crisi di liquidità di solito non era considerata esimente, a meno di eventi eccezionali. Però la riforma del 2024 ha introdotto espressamente una nuova causa di non punibilità (art. 13 co.3-bis) proprio per i reati di omesso versamento quando “il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute al momento in cui ha trattenuto le ritenute”. In particolare, il giudice deve valutare se c’è stata una crisi di liquidità non transitoria dovuta a circostanze come: crediti insoluti verso terzi, mancati pagamenti da Pubbliche Amministrazioni, e impossibilità di trovare mezzi per superare la crisi. Tradotto: se l’imprenditore non ha versato le ritenute perché, ad esempio, il suo principale cliente è fallito senza pagarlo, generando un’insolvenza grave, e non ha potuto reperire fondi alternativi, potrebbe non essere punibile (a discrezione del giudice). Si tratta in pratica di recepire quanto alcune sentenze di Cassazione già affermavano: l’inadempimento è scusabile per forza maggiore solo se è dovuto a cause indipendenti dalla volontà, imprevedibili e inevitabili. La Cassazione n. 29176/2023 aveva evidenziato che la crisi di liquidità per essere causa di forza maggiore deve provenire da fatti non imputabili e insuperabili – ora il legislatore l’ha codificato con esempi concreti. Quindi, il difensore oggi può più agevolmente sostenere la non punibilità se ha evidenze (es. bilanci, procedure concorsuali) della situazione di insolvenza non colposa.

  • Pagamento tardivo/rateizzazione: L’art. 13 c.1 già prevedeva la non punibilità se prima dell’apertura del dibattimento di primo grado l’imputato paga integralmente il dovuto (imposta + sanzioni + interessi). Questa causa di non punibilità continua ad operare e riguarda i reati di omesso versamento (10-bis e 10-ter) e indebito credito non spettante. Quindi, se il cliente paga tutto prima del processo (fino all’inizio dibattimento), il reato è estinto. Anche durante il processo, come visto, si può ottenere la sospensione per completare pagamenti rateali e l’attenuante se paga entro il primo grado. Inoltre, la riforma 2024 ha introdotto una specifica disposizione: se il debito è in corso di rateizzazione, non scatta il reato (causa di non punibilità temporanea) e non si procede, a meno che il contribuente decada dalla rateazione. In caso di decadenza, però, il reato rivive solo se il residuo oltrepassa €50.000 (una soglia ridotta post-decadenza). Dunque, un consiglio pratico per difendersi è: chiedere e ottenere la dilazione (rateizzazione) del debito prima che scada il termine penale. Se la rate si svolgono regolarmente, non c’è punibilità. Questa è una novità pensata proprio per non criminalizzare chi, pur in difficoltà, ha avviato un piano di rientro col Fisco.

L’interazione fra procedura tributaria e penale è diventata stretta: è previsto ora (art. 20, comma 1-bis D.Lgs.74) che se c’è un accertamento definitivo o una sentenza tributaria sul fatto, venga acquisita come prova nel penale. Quindi, ad esempio, se in Commissione Tributaria avete dimostrato che le ritenute contestate non erano dovute (magari perché i lavoratori erano autonomi senza obbligo di ritenuta), tale decisione vincolerà il penale (in positivo per la difesa). Allo stesso modo, se nel processo penale si viene assolti perché il fatto non sussiste o non commesso, tale esito farà stato nel giudizio tributario. Questa recente normativa rafforza la necessità di una difesa coordinata sul doppio binario: penalista e tributarista devono lavorare insieme, perché l’esito dell’uno influenza l’altro.

In sintesi difensiva per art. 10-bis: Verificare se le certificazioni esistono (in caso negativo, puntare all’assoluzione immediata); se esistono ed il debito è reale, vedere se si può pagare (non punibilità ex art.13) o rateizzare (sospensione); se non si può pagare, documentare la forza maggiore (insoluti, crisi) per invocare la nuova esimente; sempre considerare patteggiamento per chiudere il caso con pena contenuta, salvo mirare all’assoluzione completa su base certificazioni. E ricordarsi di argomentare che il nostro assistito magari ha usato i soldi per pagare stipendi, preferendo i lavoratori al Fisco in un momento di crisi: umanizzare la scelta può aiutare in fase di determinazione pena.

Esempio illustrativo: Un imprenditore (sostituto d’imposta) deve versare le ritenute IRPEF trattenute ai dipendenti. Se non versa oltre €150.000, scatta il reato di cui all’art. 10-bis. Difendersi sarà possibile provando circostanze esimenti (ad es. grave crisi di liquidità non imputabile) o dimostrando la mancanza del presupposto (assenza di effettiva certificazione delle ritenute). Fonte: lentepubblica.it

Omesso versamento IVA (Art. 10-ter)

Descrizione: Sanziona il contribuente che non versa l’IVA dovuta risultante dalla dichiarazione annuale IVA, entro il termine stabilito (che con la riforma è stato anch’esso indicato nel 31 dicembre dell’anno successivo alla dichiarazione, allineato quindi col termine “penale” delle ritenute). In pratica, a fine anno, chi non abbia versato l’IVA dovuta per l’anno precedente, oltre una certa entità, commette reato. Questo è il tipico caso di omesso versamento d’imposta propria (non altrui come le ritenute).

Soglia: €250.000 di IVA non versata per anno. Soglia molto elevata (aumentata, era 50k ante 2015). Quindi coinvolge soprattutto aziende medio-grandi. Ad esempio, se un’impresa ha un debito IVA di €300k e non lo paga entro fine anno successivo, è reato; se ne ha €200k, no (anche se comunque le sanzioni amministrative del 30% e gli interessi sono dovuti).

Pena: come per le ritenute, reclusione 6 mesi – 2 anni.

Difesa: Molto simile all’art. 10-bis nelle dinamiche, con qualche differenza: qui non c’è l’elemento “certificate”, ovviamente, quindi la linea difensiva delle certificazioni mancanti non si applica. Tuttavia, c’è ugualmente la possibilità di allegare cause di forza maggiore. La nuova causa di non punibilità ex art. 13 c.3-bis vale anche per l’omesso versamento IVA, per cause non imputabili sopravvenute all’esigibilità dell’imposta. Esempio: se un’azienda non riesce a pagare l’IVA perché il suo unico committente pubblico non le paga fatture per milioni (caso di insolvenza PA), questo può essere valutato come causa di non punibilità. Va però dimostrato che l’impresa ha fatto il possibile (tipo: ha chiesto finanziamenti, fatto istanza di rimborso ecc.) senza successo, e rimane nella crisi non transitoria. Non è scontato, ma la norma aiuta l’imputato offrendo basi legali per tale difesa.

  • Pagamento e rateazione: Vale identico discorso: se prima del dibattimento paga tutto, niente reato; se rateizza prima della scadenza e rispetta le rate, niente reato (decade solo se poi salta le rate, e in quel caso reato se residuo > €75.000 – notare: soglia residua per IVA 75k). Quindi anche qui per difesa: incoraggiare il cliente a chiedere rateazione ex art. 3-bis D.Lgs. 462/97 e mantenerla attiva; ciò salva dal penale. Se è già imputato, presentare al giudice la prova della rateazione può condurre alla sospensione del procedimento in attesa dell’esito.
  • Calcolo dell’imposta dovuta: a volte c’è discussione su quanto IVA fosse realmente dovuta. Se il contribuente vantava crediti IVA o compensazioni, l’importo evaso potrebbe ridursi. Esempio: se nel dichiarare IVA a debito 260k, aveva crediti pregressi 20k non riconosciuti dal Fisco, l’avvocato può far valere che effettivamente l’IVA “dovuta” era 240k (sotto soglia). La soglia considera l’IVA “dovuta e non versata”: se c’è contenzioso sull’ammontare dovuto (es: il contribuente sosteneva di avere diritto a un credito IVA, magari disconosciuto dall’AdE successivamente), su quell’aspetto il processo tributario o la prova documentale è fondamentale. Anche qui la coordinazione col giudizio tributario (se pendente sull’accertamento IVA) è importante: l’art. 20 nuovo permette di acquisire l’esito definitivo del giudizio tributario nel penale. Dunque, se in Commissione viene riconosciuto un credito e ridotto il debito IVA sotto 250k, il penale dovrebbe concludersi con proscioglimento.

Caso pratico difensivo tipico: L’azienda in difficoltà che sceglie di non versare IVA per pagare stipendi e fornitori (auto-finanziandosi con l’IVA). La difesa qui di solito presenta bilanci e cash flow per mostrare che non c’erano i soldi per pagare l’IVA altrimenti sarebbero falliti subito. Non è di per sé una scusa legale (la legge non consente di scegliere di non pagare tasse), ma rientra nel discorso forza maggiore se quel mancato pagamento fu obbligato da circostanze esterne (p.es. banca che revoca fidi all’improvviso, cliente insolvente). Oggi si può presentare una perizia sullo stato di crisi non transitoria e provare i tre requisiti di cui sopra (crediti inesigibili, PA insolventi, impossibilità di rimedi). Il giudice valuterà caso per caso. Cass. 13135/2025 – nel medesimo giudizio citato – ha anche ribadito che la responsabilità penale per l’omesso versamento spetta all’amministratore in carica al termine di versamento e questi non può scusarsi dicendo “ho lasciato la carica prima del versamento mensile”: conta solo la scadenza finale. Quindi su eventuali cambi di governance, come detto, bisogna far attenzione ai tempi.

Indebita compensazione di crediti (Art. 10-quater)

Descrizione: Questo reato, introdotto nel 2011 e ritoccato nel 2015 e 2024, punisce chi compensa indebitamente crediti d’imposta nel modello F24, non versando quindi somme dovute. Si distinguono due ipotesi: compensazione di crediti non spettanti (cioè crediti esistenti ma usati oltre i limiti o in violazione delle regole) e compensazione di crediti inesistenti (crediti fittizi, creati artificiosamente).

  • Esempio di credito non spettante: ho un credito d’imposta reale (metti €100k) ma le norme dicono che ne posso usare max €50k all’anno; io ne compenso €100k in un anno, quindi €50k erano “non spettanti” per quell’anno. Oppure uso un credito in modo vietato (magari un credito d’imposta destinato a specifici pagamenti e invece lo uso per altro).
  • Esempio di credito inesistente: mi invento un credito falsificando una dichiarazione (ad es. dichiaro un’eccedenza IVA mai maturata, o un credito ricerca e sviluppo su spese mai sostenute) e lo compenso con debiti fiscali.

Soglie: Per entrambe le ipotesi la soglia è €50.000 di indebito compensato per anno. Cioè, se compenso crediti finti/non spettanti per 30k, non è reato (ma sanzione amministrativa 30% per indebita compensazione c’è).

Pena:Crediti non spettanti (art. 10-quater co.1): reclusione 6 mesi – 2 anni.

  • Crediti inesistenti (co.2): reclusione 1 anno e 6 mesi – 6 anni.

Quindi compensare crediti completamente fasulli è considerato ben più grave che usare male crediti veri (giustamente). Questa distinzione l’ha resa chiara anche la definizione normativa introdotta nel 2024: il D.Lgs. 87/2024 ha definito esattamente cosa si intende per crediti inesistenti e non spettanti, per chiarire ogni dubbio. Inesistenti sono quelli che mancano dei requisiti sostanziali previsti dalla norma, o basati su documenti falsi o artifici. Non spettanti invece sono crediti reali ma utilizzati in violazione di norme (limiti quantitativi, temporali, o casi in cui i fatti non rientrano nelle ipotesi agevolative se mancano certi requisiti aggiuntivi, o crediti usati senza aver fatto adempimenti richiesti).

Difesa: Qui la difesa innanzitutto può consistere nel contestare la qualificazione: spesso l’accusa bolla come “inesistente” un credito che invece era “non spettante” (meno grave) o addirittura spettante. Ad esempio, ci sono stati molti casi su crediti d’imposta complessi (ricerca e sviluppo, investimenti Sud, ecc.) in cui non era chiaro se il contribuente avesse diritto. La riforma ha previsto una specifica causa di non punibilità per i crediti non spettanti in caso di obiettiva incertezza. Se c’erano dubbi tecnici sull’interpretazione della norma agevolativa, e il contribuente in buona fede ha compensato un credito che poi risulta non dovuto, non verrà punito penalmente (limitatamente ai crediti non spettanti). La norma (nuovo art. 10-quater co.2-bis) esclude la punibilità quando “anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza sui requisiti o qualità che fondano la spettanza del credito”. Quindi, il legale può sostenere: “Il mio cliente riteneva spettante il credito X sulla base di consulenze, la norma era dubbia, c’era incertezza diffusa, quindi niente reato.” Ciò recepisce l’esperienza di molti contenziosi su crediti fiscali innovativi. Attenzione: questa scusa non vale per i crediti falsi creati con artificio (quelli inesistenti), lì c’è malafede palese.

Altre difese: se l’importo contestato supera di poco i 50k, valutare eventuali errori di calcolo. Oppure se una parte del credito era effettivamente spettante e una parte no, allora solo la parte non spettante rileva, e se quella sta sotto 50k, niente reato. Ad esempio: credito dichiarato 100k, AdE dice 30k non spettanti – allora reato no (perché 30k < soglia). Spesso in questi casi la questione è decisa in Commissione Tributaria: se lì il credito viene in parte riconosciuto, il residuo indebito può scendere sotto soglia. Quindi, ancora una volta, coordinare il contenzioso tributario e il penale. L’art. 20 D.Lgs. 74 ora facilita questo: la sentenza tributaria definitiva su quell’agevolazione sarà prova nel penale.

  • Pagamento del debito tributario: l’art. 13 c.1 include tra le cause di non punibilità il pagamento integrale del debito anche per l’indebita compensazione di crediti non spettanti (non per gli inesistenti però). Dunque, se Caio ha usato crediti non spettanti >50k, può evitare la punizione pagando poi quelle somme e relativi interessi e sanzioni prima del dibattimento. Per i crediti inesistenti invece, la logica è che è frode grave e la non punibilità non opera; può però beneficiare dell’attenuante del pagamento (art.13-bis) dimezzante la pena se paga comunque.
  • Ravvedimento operoso: se il contribuente si accorge di aver compensato indebitamente, può ravvedersi (entro la scadenza F24 successiva di regola) versando il dovuto con sanzioni ridotte. Se lo fa spontaneamente e integra il credito erroneo, di fatto non si concretizza nemmeno il reato (perché evita di superare la soglia a fine anno). Quindi la consulenza deve essere tempestiva: prevenire il penale con il ravvedimento è la miglior difesa (ma questo esula dal processo penale, è condotta pregressa).

Caso frequente: i crediti inesistenti da frode: qui la difesa è molto simile a quella di art. 2 (dichiarazione fraudolenta): contestare la frode, sostenere che il credito era reale (se possibile). Ad esempio, se imputano un credito IVA inesistente (frode carosello): il difensore può dire “no, quell’IVA a credito proveniva da fatture soggettivamente false ma oggettivamente c’era merce, dunque il credito era formalmente non spettante per irregolarità ma non completamente fittizio” – tentativo di derubricare a non spettante (punibilità minore). Non semplice, ma a volte le linee tra inesistente e non spettante sono sottili. La definizione normativa ora chiarisce che se c’è qualsiasi fraudolenza o simulazione a fondare il credito, è “inesistente”. Quindi quel tipo di difesa regge solo se si dimostra assenza di artificio, solo errore interpretativo.

Novità: Abbiamo detto del nuovo comma 2-bis che aiuta la difesa (obiettiva incertezza). Inoltre, il 2024 ha portato il già citato regime di non punibilità in caso di pagamento integrale (com’era già, confermato) e la rateizzazione sospensiva estesa anche qui tramite art.13 c.3 (il giudice può sospendere per 3+3 mesi il processo se c’è pagamento rateale in corso). Quindi, per reati di indebito credito non spettante (co.1), se stai pagando rate, conviene segnalarlo subito al tribunale per ottenere sospensione finché paghi. Se completi, estingui reato; se decadi, beh, a quel punto il residuo se >50k tornerà punibile.

In pratica, sul piano difensivo: se il tuo cliente ha compensato crediti dubbi, vedi se puoi far emergere incertezze normative (non punibile); se ha compensato fregando di proposito (es. ha comprato falsi crediti), allora lavora su risarcire (magari ha dei beni confiscabili, offri confiscazione del profitto – l’importo compensato – così da chiudere finanziariamente la partita e chiedere clemenza). Nota: i reati tributari comportano confisca obbligatoria del profitto o per equivalente, a meno che il debito sia estinto o in rateazione regolare. Nel 2024, si è limitata la possibilità di sequestro/confisca se c’è rateazione in corso e pagamenti regolari. Questo è un altro aspetto difensivo importante: se il cliente versa a rate, può chiedere il dissequestro dei beni sequestrati a garanzia, visto che la nuova norma lo prevede salvo pericolo concreto di dispersione. Quindi anche a livello di misure cautelari reali (sequestri) la condotta riparatoria paga.

Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (Art. 11)

Descrizione: È un reato trasversale, diverso dagli altri: qui non si tratta di come viene fatta la dichiarazione o se si paga, ma di atti dispositivi sul patrimonio volti a evitare che il Fisco recuperi crediti tributari già accertati (o in via di accertamento). Ad esempio, un imprenditore riceve un avviso di accertamento per €500k: per non pagare, trasferisce la sua casa a un familiare a titolo gratuito, oppure simula la vendita di macchinari ad altra società di comodo, così che quando il Fisco va a pignorare non trova nulla. Queste condotte di depauperamento fraudolento sono punite dall’art. 11, pensato per combattere i cosiddetti “nullatenenti di lusso”. Anche creare garanzie fittizie (tipo iscrivere ipoteche false) per ostacolare il Fisco rientra.

Soglia: L’ammontare delle imposte o sanzioni amministrative che si vuole evitare di pagare dev’essere > €50.000 (oppure, in alternativa, se si tratta di ottenere rimborsi non spettanti, soglia > €50k di rimborso). Quindi, vendere casa per non pagare un debito fiscale di €30k non è reato (resta potenzialmente revocabile come atto fraudolento in sede civile, ma non penale). Se invece è per 300k, sì.

Pena: Reclusione 6 mesi – 4 anni, aumentata a 1 – 6 anni se il debito > €100k. Questo reato quindi può avere pena fino a 6 anni (consentendo anche intercettazioni se necessario, etc., come reato di media gravità). È reato-presupposto 231 (in teoria, se una società commette atti simulati per sottrarsi a imposte – ma spesso qui i soggetti sono persone fisiche, comunque c’è nel catalogo 231).

Difesa: Ci sono varie possibili difese:

  • Mancanza di elemento fraudolento: trasferire beni non è reato di per sé. È punito solo se fatto fraudolentemente allo scopo di sottrarsi al pagamento. Se uno vende a prezzo di mercato e usa i soldi per pagare creditori vari, non è detto sia reato (c’è giurisprudenza al riguardo: la vendita a terzi a prezzo congruo, anche se riduce il patrimonio, non integra artificio se il ricavato rimane aggredibile o non c’è un intento specifico di evadere il fisco). La legge parla di “alienare simulatamente o compiere altri atti fraudolenti”. Quindi la difesa può dire: “Non c’è simulazione, la vendita è reale, il prezzo c’è stato, e non era destinata a occultare il bene”. Oppure: “L’ha venduto per pagare debiti urgenti con dipendenti, non per frodare il fisco” (cioè lo scopo non era quello, sebbene l’effetto sia ridurre la garanzia per il fisco). Distinguere motivazioni può aiutare a negare il dolo specifico di frode fiscale.
  • Debito tributario non definitivamente accertato: una questione è se il debito dev’essere certo. È sufficiente sia “dovuto, anche se non ancora iscritto a ruolo definitivo” (la norma copre anche imposte per le quali è iniziata attività di accertamento, per prevenire mosse anticipate). Però se poi quell’accertamento decade (perché il contribuente vince in Commissione), si discute se il reato resti. In genere, si ritiene serva almeno un accertamento serio in corso; se l’atto impositivo viene annullato, il difensore può far valere che mancava un debito in senso proprio. Su questo c’è stato contenzioso, ma prudenzialmente il penalista deve anche seguire l’esito del contenzioso fiscale: se l’accertamento viene annullato, il reato potrebbe “perdere l’oggetto”. Il nuovo art. 21-bis e 21-ter aiutano: un’assoluzione in penale su questi fatti, o un annullamento in tributario, si riflettono sull’altro procedimento.
  • Pagare il dovuto (o transare): Interessante, qui la legge non prevede espressamente una non punibilità se paghi (perché sarebbe un controsenso: pagare dopo aver cercato di frodare… però potrebbe essere visto come ravvedimento operoso tardivo). In difesa, però, pagare il debito o garantire il pagamento (es. fai comparire beni) può portare a una valutazione di minore gravità, magari all’applicazione della causa di particolare tenuità se il danno finale è evitato. Non c’è art. 13 applicabile all’art. 11, ma un giudice potrebbe considerare la condotta riparatoria come attenuante generica.
  • Particolare tenuità del fatto (131-bis c.p.): se l’importo era poco sopra soglia, e magari c’è stata restituzione parziale, si può chiedere la non punibilità per tenuità, data la pena edittale minima entro 2 anni (6 mesi). Non è escluso, specie per casi borderline (es. venduto auto da €60k per non pagare 55k di cartella – borderline).

I casi di art. 11 spesso emergono da indagini finanziarie o segnalazioni (es. sequestro per equivalente: notano che uno ha svuotato conti). La difesa può contestare il nesso temporale: se uno ha venduto i beni prima di sapere del debito, non c’è dolo (non “in vista di”). Se l’ha fatto dopo l’arrivo dell’avviso o della notifica, è più sospetto. Si analizza il timing: l’avvocato può sostenere che la vendita era programmata da tempo, non correlata al debito fiscale.

Giurisprudenza: Cass. Sez. Unite n. 1235/2011 affrontò un tema diverso ma correlato: escluse il concorso tra reati fiscali e truffa aggravata ai danni dello Stato quando l’evasione avviene con artifizi (cioè si applicano solo i reati tributari, non anche la truffa ai danni erario). Questo per dire: se l’Agenzia delle Entrate si costituisce parte civile, chiederà danni patrimoniali e d’immagine (quest’ultimi talvolta riconosciuti, vedi sopra). La difesa può citare che è già prevista confisca del profitto per evitare duplicazioni (non paghi due volte).

Strumenti deflattivi del contenzioso e strategie preventive

Oltre alle difese nel merito di ciascun reato, è fondamentale parlare degli strumenti deflattivi – cioè quelle procedure che possono evitare l’arrivo a una sanzione penale o comunque mitigare notevolmente le conseguenze. Alcuni li abbiamo già menzionati (ravvedimento operoso, pagamento del debito, rateizzazione). Qui li riassumiamo sistematicamente, dal punto di vista di chi, trovandosi in posizione irregolare, vuole regolarizzare prima di subire un procedimento penale, o vuole ridurre le pendenze tributarie per alleggerire anche la posizione penale.

Ravvedimento operoso e dichiarazione integrativa

Il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) è l’istituto cardine per regolarizzare spontaneamente violazioni tributarie amministrative con sanzioni ridotte. Ma ha rilevanza anche penale: come visto, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 premia chi si ravvede prima dell’inizio di verifiche con la non punibilità per infedele e omessa dichiarazione, e di fatto rende improbabile il penale per gli omessi versamenti se uno poi versa (perché la punibilità è condizionata all’inadempimento persistente). In pratica, se un contribuente si accorge di aver evaso o di non aver dichiarato qualcosa, più agisce presto per sanare, meglio è. Presentare una dichiarazione integrativa per correggere errori o omissioni e pagare l’imposta con sanzioni ridotte può chiudere la vicenda in sede amministrativa. Bisogna farlo:

  • Infedele/omessa dichiarazione: entro la dichiarazione dell’anno successivo (o comunque prima di notifica di controlli) per avere la non punibilità piena.
  • Omessi versamenti: entro l’apertura del dibattimento penale per avere almeno la non punibilità “postuma” ex art.13 c.1 (comunque questo non è ravvedimento in senso tecnico, perché ormai c’è procedimento, ma è assimilabile a un ravvedimento tardivo totale).

Strategia: Consulenti fiscali dovrebbero, appena rilevano possibili profili di reato (es. cliente che non ha versato IVA in scadenza oggi ed è settembre, e importo > soglia), attivare il cliente: “versiamo almeno parzialmente, chiediamo rate, non facciamo finta di nulla”. L’inerzia è nemica: se arrivano le Fiamme Gialle e trovano tutto non pagato, scatta la notizia di reato. Se invece il contribuente ha fatto passi per regolarizzare (anche un ravvedimento parziale, un’istanza di adesione etc.), ciò può perfino evitare la denuncia o comunque verrà valutato positivamente.

Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale

Questi sono strumenti del contenzioso tributario che possono riflettersi sul penale:

  • Accertamento con adesione: il contribuente, ricevuto un avviso di accertamento, può attivare un contraddittorio e trovare un accordo con l’Agenzia delle Entrate su imposte dovute e sanzioni (ridotte a 1/3). Se si chiude l’adesione e si paga quanto concordato, l’accertamento diviene definitivo. Come aiuta penalmente? Beh, definendo l’accertamento si cristallizza l’imposta evasa su un importo che magari è sotto soglia o, se sopra soglia, comunque il pagamento integrale di quell’accordo potrà permettere di invocare la non punibilità ex art.13. Inoltre, finché pende la procedura di adesione, tendenzialmente l’ufficio denuncia solo a chiusura (anche se legalmente potrebbe denunciare subito, spesso aspettano l’esito dell’adesione). E ora con la delega 2023 in parte attuata, se un debito è in via di definizione conciliativa e rateazione, si evita anche il sequestro. Quindi, se arriva un PVC (processo verbale) dalla GdF per infedele dichiarazione, attivare subito un’adesione prima dell’avviso può anche evitare il processo se l’esito è pagamento entro il dibattimento.
  • Conciliazione giudiziale: se il contribuente fa ricorso in Commissione Tributaria, può alla prima udienza conciliare con l’Ufficio pagando in parte il dovuto (sanzioni ridotte). Anche questo riduce l’imposta evasa accertata. Se col pagamento parziale l’imposta residua scende sotto soglia, il penale potrebbe non avere più oggetto (oppure resterebbe ma con importi minori). Inoltre, la conciliazione con pagamento può avvenire a rate, e come visto se rate in corso, niente sequestro penale e sospensione processo penale possibile.
  • Definizioni agevolate / “tregua fiscale”: nel 2023 il legislatore ha varato misure di definizione agevolata (condono parziale) di alcune liti e debiti. Ad esempio, lo stralcio di cartelle fino 1.000€ e la rottamazione quater (pagamento senza sanzioni). Tali misure, se utilizzate, comportano l’estinzione del debito tributario (almeno in parte). Il punto critico: se uno paga solo una parte (sfruttando uno sconto), il reato è estinto? La Cassazione in passato (su rottamazioni precedenti) ha detto che la rottamazione, non pagando sanzioni e interessi, comunque comporta pagamento integrale di quanto dovuto ex lege, quindi vale per l’art.13. Semplificando: se accedi a una sanatoria fiscale e paghi quel che ti chiedono, dal punto di vista penale hai estinto il debito tributario (perché lo Stato ha rinunciato a sanzioni, quindi quel non pagato non conta). Quindi conviene: se c’è una definizione agevolata accessibile, usarla. Ad esempio, nel 2023 la “definizione delle liti” poteva chiudere cause con sconto sulle sanzioni; il pagamento definisce il dovuto.
  • Transazione fiscale nel concordato preventivo: se l’imprenditore è in crisi d’impresa e ricorre al concordato con transazione fiscale (pagando solo una parte delle imposte), c’è un’interazione col penale? La legge non lo chiarisce pienamente. Ma la nuova causa di non punibilità per crisi non transitoria cita la crisi d’impresa ex D.Lgs.14/2019 come indice da valutare per tenuità. Inoltre, se un giudice omologa un concordato con pagamento parziale, quell’obbligo fiscale è ridotto ex lege. Potrebbe dunque sostenersi che il debito tributario residuo (dopo falcidia concordataria) è quello su cui misurare il danno. Non c’è giurisprudenza chiara su questo; ma un imputato in concordato può chiedere intanto la sospensione del processo penale (c’è un art. 20 D.Lgs.74 che prevede il coordinamento, e non dimentichiamo che l’art. 13-bis c.1 post-riforma menziona se il debito è in fase di estinzione anche tramite procedure concorsuali con pagamenti regolari, niente sequestro). Quindi, presentare un piano di concordato con pagamento (anche parziale) può quantomeno sospendere azioni di confisca.

In generale, la difesa del debitore dovrebbe avere un approccio proattivo: comporre bonariamente col fisco è la miglior difesa penale. Infatti, gli strumenti deflattivi hanno come effetto di ridurre l’evasione contestata e spesso di portare a non punibilità o almeno a attenuanti forti.

Domande frequenti (FAQ) e risposte

D1: Cosa succede se ho evaso tasse ma voglio rimediare spontaneamente? Evito il carcere?
R: Sì, il nostro ordinamento incentiva la regolarizzazione. Se correggi la dichiarazione infedele o presenti quella omessa e paghi il dovuto prima di essere scoperto, non sei punibile penalmente. Se invece sei già sotto controllo ma paghi tutto prima del processo, otterrai comunque benefici: per gli omessi versamenti la legge esclude il reato, per altri reati avrai un fortissimo sconto di pena (fino alla metà) e niente pene accessorie. Insomma, pagare conviene sempre. Anche chiedere la rateazione ti protegge: finché rispetti le rate, non sarai perseguito per omesso versamento. Quindi se ti accorgi di aver sbagliato, ravvediti subito e salda il Fisco; se non riesci, almeno attiva piani di rientro. Questo spesso evita del tutto il processo o porta all’archiviazione.

D2: Ho ricevuto un PVC della Guardia di Finanza per evasione IVA sopra soglia. Mi conviene fare ricorso tributario o aspetto il penale?
R: Ti conviene agire su entrambi i fronti in modo coordinato. Il ricorso tributario può ridurre o annullare l’accertamento (es. se hai ragione su alcuni costi dedotti). Con la nuova legge, se vinci in tributario, quell’esito vale anche nel penale. Quindi è importante fare un buon ricorso. Nel contempo, nel penale dovrai difenderti ma puoi chiedere eventualmente al giudice di attendere l’esito tributario (spesso il penale sospende in attesa di sapere cosa decide la Commissione sulle somme). Se invece il caso è chiaro e preferisci chiudere col Fisco, puoi usare l’adesione o la conciliazione in commissione, pagare qualcosa e ridurre il contenzioso. Valuta con un tributarista e un penalista insieme la strada migliore: se hai chance concrete di annullare l’accertamento, combatti in commissione; se no, meglio transare col Fisco e usare il pagamento a tuo favore nel penale.

D3: Sono amministratore di SRL. La società è in crisi, non ho versato IVA e ritenute per pagare stipendi. Ora ho debiti fiscali enormi. Rischio la prigione?
R: Rischi accuse di omesso versamento IVA (art.10-ter) e ritenute (10-bis) se i singoli anni superano le soglie (€250k IVA, €150k ritenute). Però la legge tiene conto delle crisi di liquidità non colpose. Se puoi dimostrare che la tua società aveva crediti non incassati, clienti insolventi, e che hai usato le risorse per pagare lavoratori non potendo fare altrimenti, il giudice può dichiararti non punibile. Devi però provare che la crisi era grave e indipendente dalla tua volontà (ad esempio fallimento di un grosso cliente, blocco pagamenti PA, ecc.). Inoltre, se stai risanando la situazione – ad es. hai chiesto un piano di rateazione e stai pagando – allora finché paghi non verrai punito. Ti suggerisco di formalizzare la crisi (es. ricorso alla composizione negoziata o al concordato se necessario), e di coinvolgere subito l’Erario chiedendo dilazioni. Anche a livello personale, dimostrare che non hai sottratto soldi a te (niente distrazioni a fini personali) aiuta a farti percepire come imprenditore in buona fede, il che incide sulla pena. In definitiva, il carcere si può evitare: se reagisci correttamente, paghi il più possibile e documenti che non sei un evasore “volontario” ma una vittima della crisi, hai ottime chance di evitare una condanna penale.

D4: Una verifica fiscale ha scoperto che ho usato fatture false per abbassare il reddito. Il mio consulente dice che rischio l’accusa di dichiarazione fraudolenta. Posso patteggiare?
R: Sì, il patteggiamento (applicazione pena su richiesta) è possibile per i reati tributari senza preclusioni. Anzi, spesso è la via scelta in questi casi per ridurre la pena di un terzo ed evitare il dibattimento pubblico. Devi però valutare se vuoi patteggiare dopo aver eventualmente sistemato il debito: se hai modo di pagare tutte le imposte evase e sanzioni, potresti puntare persino all’estinzione del reato per art.13 (ma per le fatture false ciò non evita il reato, solo lo attenua). Se non puoi pagare tutto, il patteggiamento è comunque fattibile – la Cassazione ha chiarito che non è necessario aver estinto il debito per patteggiare su infedele/omessa. Quindi, insieme al tuo avvocato, potrai proporre un accordo, magari riconoscendo le attenuanti del caso (ad esempio incensuratezza, collaborazione, pagamento parziale) per arrivare a una pena concordata magari sospesa (se ≤2 anni). Ricorda che patteggiando eviti pene accessorie come l’interdizione dai pubblici uffici e, in genere, chiudi la vicenda più velocemente. Tuttavia, valuta anche la prova del reato: se ci sono spiragli per l’assoluzione (es. dubbi sulla falsità delle fatture o sul dolo), potresti combattere. Il patteggiamento è consigliabile quando le prove sono solide e vuoi limitare i danni.

D5: La mia SRL è accusata di reato tributario (fatture false) ai sensi della legge 231/2001. Cosa significa?
R: Significa che anche la società, oltre a te personalmente, può essere sanzionata in sede di “responsabilità amministrativa degli enti” per quel reato commesso nel suo interesse. Dal 2019 infatti diversi reati tributari (fatture false, frodi dichiarative, omessa, infedele, ecc.) fanno scattare la responsabilità dell’ente. La Procura potrebbe contestare all’ente sanzioni pecuniarie elevate e misure interdittive (tipo esclusione da appalti, commissariamento). Come difendersi? La società può provare di avere adottato ed efficacemente attuato un Modello Organizzativo 231 idoneo a prevenire reati fiscali, e che il reato è avvenuto eludendo fraudolentemente i controlli. Se riesce, la società viene esente. In mancanza del modello, la società può cercare di attenuare le sanzioni collaborando, riparando (pagando il debito tributario ad esempio, il che è molto rilevante), ed eventualmente patteggiando anche essa (è possibile un patteggiamento 231 parallelo al tuo). Quindi, è importante coinvolgere anche un esperto di 231 nella difesa dell’azienda. L’adozione tardiva di un modello e la rimozione delle persone responsabili possono essere visti con favore. Ad ogni modo, tieni presente che le sanzioni 231 si aggiungono ma se tu paghi il debito e ottieni la non punibilità, questo di riflesso eviterà anche la condanna dell’ente (poiché se il reato base è non punibile, cade anche la responsabilità dell’ente).

D6: Il mio commercialista ha sbagliato e ora sono indagato per dichiarazione infedele. Posso difendermi dicendo che la colpa è sua?
R: In linea di principio, la responsabilità penale è personale. Se firmi tu la dichiarazione, ne rispondi tu, salvo casi di errore inevitabile. Se il commercialista ha commesso errori grossolani su cui tu non potevi accorgerti, potresti invocare l’assenza di dolo perché ti fidavi di un esperto. Però la giurisprudenza spesso dice che il contribuente, specie imprenditore, ha l’obbligo di verificare o di scegliere persone affidabili. Funzionerebbe se, ad esempio, il consulente ti ha falsificato i conti a tua insaputa e tu non avevi segnali di allarme. Devi dimostrare di non aver avuto consapevolezza dell’evasione né volontà. Se ci riesci, verrebbe meno il dolo. Magari potrebbe configurarsi una colpa del professionista (che risponderà semmai lui civilmente e talora penalmente per reati suoi se falsifica). Ci sono state assoluzioni in casi di contribuenti completamente all’oscuro di frodi architettate dai consulenti. Ma sono situazioni limite. Nella prassi, dire “è colpa del commercialista” non basta se comunque le false indicazioni ti avvantaggiavano e firmando avresti dovuto accorgerti (es. un enorme costo fittizio in contabilità dovevi vederlo). Quindi, può essere una linea difensiva sussidiaria per mitigare la posizione (ad esempio ottenere attenuanti per il tuo ruolo marginale). Puoi anche rivalerti sul commercialista: ma quella è altra sede. Nel penale, serve negare il dolo: se provi di aver agito senza volontà di evasione e in errore scusabile per affidamento sul tecnico, potresti evitare la condanna. È però una difesa con esito incerto, va valutata sul caso concreto.

D7: Se vengo assolto in sede penale perché “il fatto non costituisce reato”, devo comunque pagare le imposte evase?
R: Sì. L’assoluzione penale non cancella il tuo debito fiscale. Il penale giudica se c’è reato, non l’obbligo tributario. Potresti essere assolto perché ad esempio mancava il dolo o per un cavillo, ma l’Agenzia Entrate potrebbe ugualmente pretendere le imposte evase con sanzioni (a meno che tu abbia vinto anche in Commissione Tributaria sulle stesse questioni). Addirittura, se fossi assolto perché il fatto non sussiste (cioè non c’è evasione), teoricamente non dovresti pagare imposte (perché “fatto non sussiste” implica che non c’era base per tassazione). Quindi tutto dipende dal motivo. La nuova norma prevede che un’assoluzione piena per inesistenza del fatto o per non aver commesso il fatto, passata in giudicato, fa stato nel tributario: ciò significa che se vieni assolto perché il reddito era effettivamente dichiarato o non c’era evasione, il Fisco dovrà adeguarsi. Ma se l’assoluzione è per difetto di dolo, allora il fatto c’è ma non punibile come reato – in tal caso il debito d’imposta rimane. Insomma: il penale mira a punire condotte fraudolente, l’obbligazione tributaria segue le regole fiscali. È possibile non andare in carcere ma dover comunque pagare le tasse dovute. Viceversa, potresti pagare tutto e non essere punito (come visto).

D8: Quali sono le sentenze più importanti recenti che dovrei conoscere se sono imputato di reati fiscali?
R: Riassumo alcune milestones utili (alcune già citate):

  • Corte Cost. 175/2022: ha dichiarato illegittima la punibilità dell’omesso versamento ritenute basata sul solo dato formale della dichiarazione, richiedendo la prova della consegna delle certificazioni ai dipendenti. Ciò ha spinto la giurisprudenza a pretendere appunto la prova dell’avvenuta certificazione per l’art.10-bis (come la sentenza Trib. Pescara 115/2025 citata).
  • Cass. 18214/2024: ha confermato che inviare il modello 770 non equivale a certificare le ritenute ai singoli sostituiti. Molto rilevante per difendere i casi 10-bis.
  • Cass. 13135/2025: chiarisce la responsabilità del legale rappresentante alla scadenza per i reati omissivi e l’esclusione di responsabilità se subentra un curatore fallimentare prima del termine. Utile per chi ha fallimenti di mezzo.
  • Cass. 2383/2025: afferma che nel calcolo dell’imposta evasa vanno considerati anche costi in nero comprovati o credibili, e onere al PM di individuarli, non potendo presumere profitto senza costi. Ottima per difese su infedele e frodi con ricavi occulti.
  • Cass. 44954/2024: (menzionata in articoli) ribadisce la necessità del dolo specifico per dichiarazione fraudolenta con fatture false, non potendolo presupporre automaticamente.
  • Cass. Sez. Unite 27/03/2013 n.37424 (Caso “Gaetano”): ha stabilito che per i reati di omesso versamento l’inutile decorso del termine finale integra un reato istantaneo, non permanente, quindi la prescrizione decorre da allora e il pagamento tardivo non elimina il reato (solo lo estingue se prima del dibattimento) – principio consolidato.
  • Cass. SU 2010 n. 1235 “Tartaglia”: esclude concorso tra reati tributari e truffa ai danni Stato – importante per non duplicare contestazioni penali.
  • Cass. 21193/2023: ha chiarito che omesso versamento di ritenute previdenziali (reato diverso, ex art. 2 L. 638/83) non esime dal 10-bis se le fiscali erano certificate. (Questa è su previdenziali, ma chi ha dipendenti spesso vede entrambi, saperlo è utile: uno potrebbe pensare “ma sono fallito, non pagavo neanche i contributi, allora non pago retribuzioni – in tal caso i contributi hanno reato specifico con soglia €10k). Comunque…)
  • Cass. 2338/2022: evidenzia la rilevanza della consegna certificazioni (conforme con discorso sopra).

Tutte queste pronunce, assieme alle riforme normative del 2019 e 2024, formano un quadro in cui c’è tendenzialmente: maggiore severità per le frodi gravi, ma anche maggiori spazi di non punibilità per chi paga o chi è incolpevole a causa di circostanze avverse.


Conclusione: Difendersi dai reati tributari richiede un duplice approccio: tecnico-giuridico (conoscere norme e sentenze, sfruttare cause di non punibilità, contestare gli elementi del reato) e strategico-commerciale (interagire col Fisco per ridurre il danno, eventualmente saldare il debito). Dal punto di vista del debitore, è fondamentale mostrarsi collaborativo e trasparente, se si vuole evitare la sanzione penale: molti istituti (ravvedimento, adesione, pagamento rateale) sono lì apposta. In caso di processo, non perdere mai di vista gli aspetti fiscali sottostanti: spesso la soluzione del caso penale si trova pagando il giusto tributo o facendo emergere la verità contabile (che a volte è meno nera di come l’accusa la dipinge). Con un buon team composto da avvocato penalista, tributarista e commercialista forense, il contribuente può affrontare l’accusa in modo da far emergere la propria buona fede o, se del caso, rimediare all’errore, minimizzando le conseguenze. La legislazione attuale, aggiornata al 2025, pur rigida con i frodatori seriali, offre molte vie di uscita a chi dimostra responsabilità verso il Fisco dopo una violazione. Il consiglio finale è dunque: giocare d’anticipo, regolarizzare dove possibile, e nel contenzioso penale essere propositivi (pagamenti, piani di rientro, patteggiamenti) invece che attendere passivamente la sentenza. Questa è la chiave per difendersi efficacemente dai reati in materia di imposte dirette e IVA.

Fonti

  • Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n.74 e successive modifiche – Testo vigente (aggiornato con D.Lgs. 87/2024).
  • Riforma 2023-2024 (D.Lgs. 14 giugno 2024 n.87) – Introduzione cause di non punibilità e modifiche ai reati di omesso versamento e indebita compensazione; definizioni di crediti non spettanti/inesistenti.
  • Fonti normative istituzionali: relazioni illustrative D.Lgs. 87/2024 (legge delega 111/2023) e relazione Ministero Giustizia sulla L. 9/2023 (Cartabia) per aspetti procedurali.

Reati in Materia di Imposte Dirette e IVA: Come Difendersi Con Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di garanzia, un invito a comparire o sei indagato per reati fiscali legati a imposte dirette (IRPEF, IRES) o IVA? Ti contestano dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, emissione di fatture false o occultamento di documenti contabili?

I reati tributari sono disciplinati dal D.Lgs. 74/2000 e comportano sanzioni penali anche molto gravi, con pene che possono arrivare fino a 6 anni di reclusione. Ma la legge prevede anche strumenti di difesa e cause di non punibilità, soprattutto se si agisce per tempo.

⚖️ Principali reati fiscali previsti dal D.Lgs. 74/2000

  • Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art. 2)
  • Dichiarazione infedele (art. 4)
  • Omessa dichiarazione (art. 5)
  • Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10)
  • Omesso versamento IVA o ritenute (artt. 10-bis e 10-ter)

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  • 📂 Analizza il fascicolo penale e tributario per valutare la fondatezza delle accuse
  • 📌 Verifica la possibilità di cause di non punibilità, soglie di rilevanza penale o profili di irrilevanza del fatto
  • ✍️ Predispone memorie difensive, istanze, strategie tecniche e richiesta di archiviazione quando possibile
  • ⚖️ Ti rappresenta nel processo penale, anche in fase di indagini preliminari o interrogatorio davanti al PM
  • 🔁 Ti assiste in eventuali accordi di pagamento, ravvedimenti o definizioni agevolate che possono escludere la punibilità

🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in diritto penale tributario e difesa in reati fiscali
  • ✔️ Specializzato nella tutela di imprenditori, professionisti e società coinvolte in procedimenti penali per IVA e imposte dirette
  • ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia

Conclusione

Essere indagato per un reato tributario non significa essere colpevole. Con una difesa tempestiva e ben strutturata puoi evitare il processo, ottenere il proscioglimento o limitare le conseguenze penali ed economiche.

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