Hai ricevuto un avviso di accertamento per costi indeducibili o beni ritenuti non inerenti?
L’Agenzia delle Entrate ti contesta la deduzione di spese sostenute nell’ambito della tua attività professionale o d’impresa, ritenendole non pertinenti o non giustificate? In questi casi è fondamentale capire cosa ti viene contestato, se la ripresa a tassazione è legittima e come difendersi per evitare il recupero di imposte, sanzioni e interessi.
Quando arriva un accertamento per costi indeducibili o beni non inerenti?
– Se l’Agenzia rileva spese che non risultano direttamente connesse all’attività esercitata
– Se hai dedotto costi legati a beni a uso promiscuo (es. auto, telefono, immobili) senza dimostrare un utilizzo prevalente per finalità aziendali
– Se le fatture presentano elementi non chiari, sono intestate a soggetti terzi o risultano riferite a operazioni non tracciate
– Se i costi sono sproporzionati rispetto al volume d’affari o agli indicatori economici del settore
– Se durante un controllo viene contestato l’acquisto di beni ritenuti di natura personale e non strumentale
Cosa può contenere l’avviso di accertamento?
– L’elenco dettagliato dei costi contestati e il motivo per cui vengono ritenuti indeducibili
– Il calcolo delle maggiori imposte dovute a seguito della ripresa a tassazione
– L’applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione o indebita deduzione
– L’invito a fornire chiarimenti, aderire all’accertamento o presentare una memoria difensiva entro 60 giorni
– L’avvertimento che, in assenza di risposta, l’accertamento diventerà definitivo e sarà iscritto a ruolo
Come puoi difenderti da un accertamento per costi indeducibili?
– Verifica se i costi contestati sono realmente riconducibili alla tua attività e se ne esiste una giustificazione documentale
– Prepara una memoria difensiva, allegando documenti che provano l’inerenza dei beni o delle spese (es. contratti, relazioni tecniche, foto, report interni, registro cespiti)
– Dimostra, in caso di utilizzo promiscuo, che la spesa è stata sostenuta in prevalenza per finalità aziendali
– Se si tratta di un errore formale o di un’interpretazione soggettiva da parte dell’Agenzia, valuta l’adesione per chiudere la posizione con sanzioni ridotte
– Se ritieni che l’accertamento sia infondato o viziato, puoi presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria nei termini previsti
Cosa puoi ottenere con una strategia difensiva efficace?
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento se dimostri la reale inerenza dei costi
– La riduzione delle imposte e delle sanzioni in caso di adesione o di buon esito del ricorso
– La possibilità di rateizzare il dovuto se l’importo richiesto è elevato
– La tutela della tua posizione fiscale e della tua affidabilità come contribuente
– La prevenzione di accertamenti futuri, regolarizzando la gestione documentale e contabile
Attenzione: l’inerenza delle spese è una delle contestazioni più frequenti e più soggettive negli accertamenti fiscali. Ma anche in presenza di rilievi apparentemente fondati, puoi difenderti efficacemente se agisci per tempo e con una strategia ben costruita.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in accertamenti fiscali, contenzioso tributario e difesa del contribuente ti spiega cosa fare in caso di contestazione per costi indeducibili o beni non inerenti, come rispondere, quando aderire e come tutelare la tua attività.
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Introduzione
Ricevere un avviso di accertamento dal Fisco per costi indeducibili dovuti a un bene non inerente può mettere in allarme imprenditori, professionisti e privati. L’Ufficio contesta, in questi casi, la deducibilità di alcuni costi sostenuti dal contribuente, ritenendo che tali spese non abbiano inerenza con l’attività d’impresa o professionale. In altre parole, si afferma che i costi riguardano beni o attività estranei all’esercizio dell’impresa, e pertanto non possono ridurre il reddito imponibile. L’obiettivo di questa guida è fornire un quadro normativo avanzato e aggiornato a luglio 2025 su come difendersi efficacemente da tali contestazioni, dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta).
Affronteremo il concetto di inerenza dei costi nel diritto tributario italiano, con riferimenti alle norme vigenti e alle più recenti sentenze della Corte di Cassazione. Esamineremo poi le strategie difensive sia in sede amministrativa (strumenti deflattivi come reclamo e mediazione, accertamento con adesione) sia in sede contenziosa (ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, ex CTP e CTR). Saranno analizzati casi particolari – ad esempio quando il “bene non inerente” è un immobile, un veicolo aziendale o altri beni di natura speciale (imbarcazioni, aeromobili, beni di lusso) – con indicazione delle tecniche difensive specifiche.
Il taglio sarà giuridico ma divulgativo: verranno utilizzati termini tecnici con le dovute spiegazioni, in modo da risultare utile sia per i professionisti legali e fiscali sia per i privati cittadini e gli imprenditori direttamente coinvolti. Troverete inoltre tabelle riepilogative che riassumono i punti chiave, una sezione di domande e risposte frequenti e perfino esempi di simulazioni di memorie difensive o stralci di atti processuali, per comprendere in concreto come impiegare i principi illustrati. Tutte le fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali utilizzate saranno elencate in fondo alla guida, per consentire eventuali approfondimenti. Procediamo dunque a capire cos’è l’inerenza e perché la sua mancanza può portare all’indeducibilità di un costo, e come il contribuente può far valere le proprie ragioni.
Inerenza dei costi e indeducibilità: quadro normativo e principi generali
Inerenza è il concetto chiave attorno a cui ruota la contestazione dei “costi indeducibili” per beni non inerenti. In ambito fiscale, per inerenza si intende la correlazione tra un costo sostenuto e l’attività esercitata dall’impresa (o dal professionista) che produce il reddito. In altre parole, una spesa è considerata inerente se è sostenuta nell’esercizio dell’impresa o per i fini della stessa; viceversa, un costo che attiene a una sfera estranea all’attività d’impresa è non inerente e quindi non può essere dedotto dal reddito imponibile.
Il riferimento normativo implicito è l’art. 109, comma 5, del TUIR (D.P.R. 917/1986), il quale stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”. Questa disposizione introduce il principio di correlazione tra costi deducibili e produzione del reddito d’impresa. La giurisprudenza della Cassazione ha elaborato su tale base la definizione di inerenza come criterio qualitativo: ciò che conta è la natura del costo in relazione all’attività, non la sua quantità o la resa economica immediata.
In effetti, la Suprema Corte ha più volte affermato che “l’inerenza esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità”. Ciò significa che un costo può essere inerente anche se non produce un vantaggio economico tangibile o immediato per l’impresa – infatti il giudizio sull’inerenza è qualitativo, non quantitativo. Ad esempio, investimenti preparatori o spese in vista di futuri sviluppi dell’attività possono essere inerenti anche se nell’immediato non generano ricavi. La Cassazione ha chiarito che non è necessario un nesso di causalità diretto tra un singolo costo e uno specifico ricavo, bensì una coerenza tra il costo e l’attività d’impresa nel suo complesso, anche in una proiezione potenziale o futura. Sono quindi inerenti anche costi relativi a iniziative che si collocano in una prospettiva programmatica o potenziale dell’attività imprenditoriale, “senza che sia necessario verificarne la correlazione con i ricavi dell’impresa, né valutarne la congruità”.
D’altro canto, se una spesa riguarda ambiti non coerenti o estranei all’oggetto sociale e all’attività d’impresa, essa non è inerente e non può essere dedotta. In questo senso, l’inerenza funge da spartiacque tra costi deducibili e costi che restano a carico del contribuente (in quanto relativi a esigenze personali o comunque extra-impresa). Ad esempio, le spese per beni ad uso personale dell’imprenditore o dei soci, prive di connessione con l’attività aziendale, non sono inerenti e vengono recuperate a tassazione.
Un profilo importante da considerare è l’onere della prova dell’inerenza. In base ai principi generali (art. 2697 c.c. e normativa tributaria sui componenti negativi), spetta al contribuente dimostrare che i costi dedotti possiedono i requisiti di certezza, competenza e appunto inerenza all’impresa. Ciò implica documentare l’esistenza del costo (fatture, contratti, pagamenti) e fornire evidenze del collegamento con l’attività d’impresa o una sua finalità economica. La Cassazione ha affermato che “la prova dell’inerenza deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché è onere del contribuente dimostrare e documentare l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perché correlato all’attività imprenditoriale”. In sostanza, l’azienda deve poter giustificare perché quella spesa è stata sostenuta e in che modo essa si ricollega all’esercizio dell’impresa (anche indirettamente o in prospettiva futura).
Un altro tema collegato è quello dell’antieconomicità e del rapporto tra costo e utilità. Come detto, di per sé la legge e la giurisprudenza escludono che si debba misurare l’inerenza sul metro dell’“utilità” o della congruità economica della spesa: un costo elevato o che non ha generato profitti può comunque essere inerente se effettuato per scopi imprenditoriali. Il Fisco non può sindacare le scelte imprenditoriali nel merito economico, né negare la deduzione solo perché “la spesa è eccessiva” rispetto al risultato, salvo casi eccezionali. La Cassazione ha infatti sancito che “l’inerenza non integra un nesso utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo e attività di impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile”. Pertanto non è ammessa una valutazione di merito sulla convenienza o la congruità della spesa da parte dell’amministrazione finanziaria.
Fanno eccezione quelle situazioni in cui la macroscopica antieconomicità di un costo possa costituire indizio di una sua non inerenza reale. Ad esempio, se un’impresa sostiene un costo enormemente sproporzionato e del tutto anomalo rispetto alla sua attività, ciò potrebbe rivelare che la spesa in realtà persegue finalità estranee (ad es. il trasferimento occulto di utilità a terzi, o uno scopo personale). In questi casi, la giurisprudenza ammette che l’antieconomicità evidente possa essere valutata come sintomo di non inerenza. Come esplicitato in una recente sentenza, “un giudizio di tipo quantitativo sul rapporto tra il costo sostenuto e il vantaggio conseguito assume rilevanza, in tema di imposte sui redditi, solo qualora evidenzi una evidente incongruità dell’operazione, ossia la sua antieconomicità […]. La sproporzione tra i due valori assume valore sintomatico, rivelatore del fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto non è correlato alla produzione, ma assolve ad altre finalità, difettando così il requisito dell’inerenza”. In sintesi: normalmente il Fisco non può disconoscere un costo solo perché ritiene che “sia troppo alto” o “poco utile”, a meno che non possa provare che quella spesa non abbia alcuna ragionevolezza economica ed occulta invece finalità personali o estranee all’impresa. In tale evenienza eccezionale, l’abnormità del costo sarebbe la spia di una mancanza di collegamento con l’attività economica, autorizzando il Fisco a negarne l’inerenza.
Riassumendo i principi generali sul tema inerenza e costi indeducibili:
- Inerenza = collegamento qualitativo costo-attività: un costo è inerente se riferibile all’attività d’impresa, anche solo in funzione potenziale o futura, e non se è estraneo o personale. Non serve un legame con uno specifico ricavo, basta la coerenza con l’oggetto sociale o le attività dell’azienda.
- Nessuna prova di utilità richiesta: non occorre che il costo sia “produttivo” o redditizio. Anche spese che non hanno prodotto ricavi (o sostenute in periodi senza fatturato) possono essere inerenti, purché fatte per l’impresa. Ad esempio, la Cassazione ha respinto pretese del Fisco basate sul fatto che in certi anni la società aveva pochi o zero ricavi, ribadendo che l’inerenza non si misura sui risultati di periodo.
- Onere della prova: è a carico del contribuente provare l’inerenza, documentando la spesa e spiegandone la correlazione con l’impresa. D’altro canto, se il Fisco intende contestare un costo per difetto di inerenza, deve indicarne le ragioni e gli elementi su cui basa la presunta estraneità all’attività. Una contestazione generica o apodittica potrebbe rendere l’accertamento viziato per difetto di motivazione (il che è un possibile motivo di difesa, come vedremo).
- Antieconomicità come sintomo: il semplice giudizio di scarsa convenienza della spesa non legittima l’ufficio a negare la deduzione. Solo una antieconomicità macroscopica, comprovata e tale da evidenziare un intento extra-economico, può costituire indizio probatorio che sposta l’ago verso la non inerenza. In tal caso sarà però l’Agenzia delle Entrate a dover dimostrare la sussistenza di tale carattere abnorme e la conseguente estraneità del costo all’attività.
- Documentazione impeccabile: oltre all’inerenza, tutti i costi deducibili devono rispettare i requisiti di certezza e precisione documentale (art. 109, comma 1 TUIR). Se la documentazione è carente o irregolare, il costo può essere disconosciuto anche a prescindere dall’inerenza. Ad esempio, la Cassazione nel 2025 ha ritenuto indeducibili costi per carburante non perché non inerenti (erano inerenti all’attività di autotrasporto), ma perché le relative fatture erano irregolari (mancava l’indicazione delle targhe dei veicoli riforniti) e i consumi risultavano incompatibili con i chilometri effettivamente percorsi. In tal caso, la contestazione verte sulla certezza e veridicità del costo (ex art. 2697 c.c. e art. 109 TUIR) più che sulla sua inerenza. Dunque, tenere una documentazione accurata e rispettare gli obblighi formali (es. indicare tutti i dati richiesti in fattura) è il primo passo per evitare – o eventualmente vincere – un accertamento su costi indeducibili.
Tabella 1: Principi di inerenza dei costi (Cassazione)
Principio chiave | Descrizione | Riferimenti giurisprudenziali |
---|---|---|
Inerenza qualitativa | Un costo è deducibile se correlato all’attività d’impresa, indipendentemente dall’utilità o dal risultato economico immediato. L’inerenza è un rapporto qualitativo costo-attività, non costo-ricavo. | Cass. 450/2018; Cass. 18904/2018 (richiamate da Cass. 12588/2025). |
Estraneità all’impresa | Costi riferibili a finalità personali o comunque estranee all’attività d’impresa non sono inerenti e quindi non deducibili. Esempio: bene acquistato dall’azienda ma usato a scopi privati. | Cass. 4365/2023 (barca ad uso privato socio: costi indeducibili). |
Nessun nesso utilitaristico | Non serve provare un beneficio economico diretto dal costo; anche spese senza ricavo immediato possono essere inerenti, se sostenute nell’interesse dell’impresa. | Cass. 6426/2025 (spese deducibili anche in anni senza ricavi, se funzionali all’oggetto sociale). |
Antieconomicità ≠ non inerenza (salvo eccezioni) | Il fisco non può negare la deduzione basandosi solo sulla congruità o convenienza economica. Solo una spesa macroscopicamente antieconomica può suggerire mancanza di inerenza, ma va provata come indice di estraneità. | Cass. 12588/2025: “inerenza non può essere esclusa in base a un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’AF ne dimostri la macroscopica antieconomicità, indicativa di estraneità all’impresa”. |
Onere della prova | Il contribuente deve provare (e documentare) l’inerenza: esistenza del costo, scopo e collegamento con l’attività produttiva. Il Fisco deve motivare chiaramente perché ritiene il costo non inerente. | Cass. 12588/2025: onere al contribuente di dimostrare la natura e destinazione del costo all’attività d’impresa. |
Documentazione | La deducibilità richiede idonea documentazione. Fatture incomplete o incongruenze (es. consumi non coerenti) fanno perdere il diritto alla deduzione anche se la spesa sarebbe inerente. | Cass. 13764/2025: costi carburante non deducibili per fatture senza targa e consumi anomali (mancanza di certezza del costo). |
In base a questi principi, nelle sezioni seguenti analizzeremo come difendersi quando il Fisco contesta che uno o più costi non siano inerenti e, quindi, li considera indeducibili. Ma prima di passare alle strategie difensive, è opportuno inquadrare cosa si intende per “bene non inerente” e quali sono le situazioni tipiche che danno origine a tali contestazioni, con i relativi riferimenti normativi specifici.
“Bene non inerente”: definizione e casi tipici
L’espressione “bene non inerente” indica, nel linguaggio dei controlli fiscali, un bene aziendale (materiale o immateriale) che secondo l’Amministrazione finanziaria non è effettivamente destinato all’attività dell’impresa, ma viene impiegato per fini estranei (tipicamente finalità personali dell’imprenditore, dei soci o dei familiari). In pratica, il Fisco sostiene che l’impresa ha portato in deduzione costi relativi a un certo bene, ma tale bene non è strumentale né funzionale alla produzione del reddito d’impresa, bensì serve a vantaggi privati. Di conseguenza, tutti i costi correlati a quel bene (spese di acquisto, leasing, manutenzione, ammortamenti, carburante, ecc.) vengono disconosciuti in sede di accertamento e ritenuti indeducibili dal reddito d’impresa, in quanto non inerenti.
I casi classici di “bene non inerente” emersi nella prassi riguardano:
- Autovetture e altri veicoli aziendali utilizzati promiscuamente o prevalentemente per scopi personali (dell’amministratore, soci o dipendenti), oltre i limiti previsti dalla legge.
- Immobili intestati alla società ma adibiti a uso abitativo privato (ad esempio immobili concessi in uso gratuito a soci/amministratori, oppure immobili di lusso non strumentali all’attività).
- Beni di lusso o voluttuari acquistati dall’azienda apparentemente per l’impresa ma di fatto a disposizione personale: es. imbarcazioni da diporto, aeromobili privati, quote di circoli sportivi o beni artistici usati a scopi non aziendali, etc.
- Altri beni strumentali solo di nome: ad esempio costi di licenze, marchi o brevetti mai effettivamente utilizzati nell’attività, oppure macchinari e attrezzature comprati e poi destinati ad usi extra-aziendali.
Dal punto di vista normativo, oltre al generale principio di inerenza già esaminato, esistono disposizioni specifiche mirate proprio a prevenire l’uso di beni d’impresa a fini personali con conseguente indebito risparmio d’imposta. Tali norme, di seguito illustrate, possono essere richiamate dall’Amministrazione per sostenere l’indeducibilità dei costi e, al contempo, prevedono effetti fiscali collaterali (come tassazione di un reddito diverso in capo al beneficiario del bene o limiti forfettari di deducibilità):
- Beni concessi in godimento a soci o familiari dell’imprenditore (art. 2, commi 36-terdecies e segg., D.L. 138/2011): introdotta dal 2011, questa norma anti-elusiva dispone che se un’impresa concede un proprio bene (es. auto, immobile, imbarcazione) in uso a un socio o familiare a condizioni di favore (senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore di mercato), scattano due conseguenze: (1) per l’utilizzatore persona fisica il vantaggio goduto è tassato come reddito diverso (pari alla differenza tra valore di mercato del godimento e quanto eventualmente pagato); (2) i costi relativi a tale bene per l’azienda non sono in alcun caso deducibili dal reddito imponibile. In altri termini, se un bene d’impresa è di fatto goduto privatamente da soci/familiari senza un adeguato pagamento, la società perde la deducibilità di tutti i costi su quel bene. Questa norma punta chiaramente a evitare che beni personali vengano fatti figurare nell’impresa per dedurne i costi. Esempio: un’auto aziendale data in uso all’amministratore senza addebito: la società non potrà dedurre spese e ammortamenti di quell’auto, e l’amministratore sarà tassato su un reddito diverso pari al valore normale di quell’uso minus quanto eventualmente corrisposto. La regola vale per qualsiasi bene (auto, case, barche, ecc.) concesso in godimento ai soci/familiari. Vi è inoltre un obbligo di comunicazione annuale all’Agenzia delle Entrate per tali situazioni, a fini di monitoraggio. In difesa, l’unica strada per la società è dimostrare che il bene non è stato concesso a titolo gratuito o sotto-valore, ovvero che il socio ha pagato un corrispettivo in linea con il mercato (in tal caso la normativa non si applica e la deduzione sarebbe ammessa in teoria).
- Autovetture e veicoli aziendali (art. 164 TUIR): il TUIR stabilisce forti limiti forfettari di deducibilità per le spese relative alle auto aziendali non utilizzate esclusivamente come beni strumentali nell’attività. In particolare:
- Per le autovetture ad uso promiscuo (veicoli non assegnati a dipendenti per la maggior parte del periodo d’imposta, né utilizzati come oggetto dell’attività tipica) la deducibilità è limitata al 20% dei costi (fino a un tetto di spesa annuale per singolo veicolo).
- Se l’auto è assegnata in uso promiscuo a un dipendente per la maggior parte del periodo d’imposta (fringe benefit), la deducibilità sale al 70% dei costi (sempre con tetto massimo di spesa imponibile).
- Per gli agenti e rappresentanti di commercio, la deducibilità è più elevata (90% con limiti) per via della natura strumentale dell’auto nella loro attività.
- Solo le autovetture utilizzate esclusivamente come beni strumentali nell’attività propria dell’impresa (es. autoscuola, noleggio auto, taxi) sono deducibili al 100%.
- Analoghe limitazioni percentuali valgono per la detraibilità IVA (in genere 40% salvo veicoli strumentali al 100%).
- Immobili abitativi intestati a società (art. 90 TUIR): il TUIR prevede un regime particolare per gli immobili che non costituiscono beni strumentali per l’esercizio dell’impresa (i cosiddetti “immobili patrimoniali”, tipicamente le abitazioni possedute da società che svolgono attività immobiliare di locazione o comunque non utilizzati direttamente nell’attività produttiva). Per tali beni, i costi relativi al loro possesso non sono deducibili dal reddito d’impresa. In pratica, se una società possiede immobili abitativi non utilizzati come beni strumentali, essa deve dichiarare un reddito d’impresa pari al reddito fondiario (rendita catastale rivalutata, o canone di locazione percepito, con riduzione forfettaria 15% per manutenzioni ordinarie) e al contempo non può dedurre le spese di gestione di quegli immobili (ammortamenti, manutenzioni, imposte, ecc.). Questa regola impedisce alle cosiddette “società di comodo immobiliari” di dedurre costi sulle case; il reddito imponibile minimo è ancorato al valore catastale indipendentemente dalle spese. Un aspetto peculiare riguarda gli interessi passivi su mutui per immobili abitativi: una norma di interpretazione autentica (L. 244/2007) ha stabilito che non rientrano tra le “spese relative agli immobili” indeducibili ex art.90 TUIR gli interessi sui finanziamenti contratti per l’acquisto o costruzione di detti immobili. Quindi gli interessi su mutuo per comprare l’immobile rimangono deducibili (salvo le ordinarie limitazioni generali sugli interessi, art.96 TUIR), mentre gli interessi per finanziamenti legati alla semplice gestione sono indeducibili in quanto assimilati alle spese di mantenimento. Al di là di art.90, se l’immobile in realtà è usato a scopi personali (es. villa ad uso dell’amministratore), interviene anche la norma sui beni a soci vista sopra: in tal caso l’immobile è de facto “bene ad uso privato”, e oltre a essere indeducibili i costi, genera un reddito diverso in capo al socio/utilizzatore. Per difendersi su questo terreno, la società dovrebbe provare che l’immobile è strumentale all’attività (es. è una sede, un ufficio, un negozio, un magazzino, oppure una casa per il custode dipendente, etc.), oppure – se locato a terzi – rientrare nelle società il cui oggetto è locare immobili (immobiliari di gestione) in modo che i costi siano considerati deducibili in sede di determinazione del reddito d’impresa (regime peculiare soggetto a varie condizioni normative). In assenza di tali elementi, i margini di manovra sono pochi poiché l’art.90 TUIR è esplicito: si tassano i redditi fondiari e i costi relativi non si deducono.
- Beni di lusso e altri beni extra-aziendali: su beni come imbarcazioni da diporto, aerei da turismo, residenze di lusso, opere d’arte, gioielli etc., non esistono articoli del TUIR specifici (fatta eccezione per barche e aeromobili in regime IVA, che hanno limitazioni alla detraibilità). Tuttavia, se tali beni sono intestati all’impresa e i relativi costi portati in deduzione, l’onere di provarne l’inerenza è assai gravoso. Il Fisco tende a contestare che si tratti di “beni ad utilità socio-ricreativa” per amministratori o soci, piuttosto che veri beni strumentali. Si ricade quindi sul principio generale: se l’azienda dimostra ad esempio che l’imbarcazione è utilizzata per noleggio a terzi nell’attività (es. società di charter nautico) allora i costi sono inerenti; se invece emerge che la barca è usata dal socio per vacanze, i costi verranno disconosciuti. Caso esemplare: una società aveva preso in leasing una barca a vela formalmente per l’attività, ma l’Agenzia scoprì che di fatto veniva usata personalmente da un socio e famiglia. L’avviso di accertamento recuperò i costi dedotti (leasing, spese di ormeggio, ecc.) come indeducibili per difetto di inerenza, ravvisando anzi una frode fiscale tramite interposizione fittizia (la società fungeva solo da schermo per far godere al socio la barca con oneri a carico della società). In giudizio, i giudici di merito (CTP e CTR) confermarono la tesi del Fisco, qualificando il tutto come elusione fiscale e negando la natura imprenditoriale dell’uso del bene. La Cassazione nel 2023 (sent. n. 4365/2023) ha avallato l’indeducibilità di quei costi in quanto la barca era estranea all’attività dell’impresa – poco importando se vi fosse o meno un contratto fittizio, bastava la constatazione fattuale che l’uso era personale per escludere l’inerenza. La Suprema Corte ha sottolineato che “l’utilizzo della barca era comunque estraneo all’attività dell’impresa”, e che l’inerenza va intesa in senso qualitativo come riferibilità all’impresa senza dover valutare l’utilità economica. Di conseguenza, i costi relativi a quel bene (leasing, spese) sono stati confermati indeducibili. Un punto però favorevole al contribuente in quella pronuncia è stato il riconoscimento di un principio di coerenza: la Cassazione ha infatti affermato che, una volta riconosciuta l’estraneità del bene all’attività (quindi costi non deducibili), anche gli eventuali componenti positivi originati da quel bene vanno esclusi dal reddito d’impresa. Nel caso della barca, la società ogni tanto la noleggiava e aveva dichiarato ricavi da noleggio: l’ufficio li aveva tassati (pur disconoscendo i costi). Cassazione ha invece stabilito che se la barca è un bene personale (non inerente), allora i ricavi ottenuti dal suo utilizzo vanno parimenti eliminati dall’imponibile dell’azienda, non essendo frutto di attività d’impresa. Questo per evitare un controsenso (costi non deducibili ma ricavi tassati). Dunque il contribuente in quella vicenda ha ottenuto almeno lo sgravio dei ricavi relativi al bene non inerente. Ciò suggerisce, in ambito difensivo, di verificare sempre se l’ufficio abbia “dimenticato” di espungere dal reddito anche eventuali proventi collegati al bene contestato: in sede di ricorso si potrà eccepire che, se si considera il bene estraneo all’impresa, va coerentemente rettificato anche il lato dei ricavi, in base al principio affermato dalla Cassazione.
In sintesi, un “bene non inerente” è un bene che l’impresa ha acquistato o possiede, ma che non è effettivamente impiegato per lo scopo imprenditoriale. Le spie più comuni per il Fisco sono: uso personale da parte di figure interne, mancanza di un legame evidente con l’attività esercitata, incongruità macroscopica (bene di lusso in un contesto di attività ordinaria), non utilizzo del bene nell’operatività aziendale. Di fronte a tali contestazioni, le difese possibili consistono nel dimostrare il contrario, cioè provare che il bene in realtà serve all’impresa, oppure, se ciò è difficile, almeno argomentare per attenuare le conseguenze (ad es. mostrando che il bene ha generato ricavi tassati da stornare, o che la quantificazione dell’indebito è eccessiva).
Va ricordato che bene non inerente non implica per forza malafede o evasione deliberata: talora l’imprenditore potrebbe avere ritenuto in buona fede che un bene fosse utile all’impresa (es: una startup compra un immobile per futura sede, ma l’Agenzia dice che finché non parte l’attività l’IVA non è detraibile; la Cassazione però ha dato ragione alla società spiegando che l’inerenza va valutata sul progetto imprenditoriale complessivo). Quindi ogni caso va valutato nel merito concreto. In qualunque scenario, è fondamentale predisporre una linea difensiva solida, supportata da documenti e riferimenti normativi/giurisprudenziali, come vedremo nelle sezioni seguenti.
Di seguito una tabella riepilogativa dei principali casi di beni potenzialmente non inerenti, con il relativo trattamento fiscale e i rischi in caso di accertamento:
Tabella 2: Beni aziendali e rischi di indeducibilità per difetto di inerenza
Tipo di bene | Trattamento fiscale ordinario (se inerente) | Contesto di contestazione (bene non inerente) | Norme e sentenze rilevanti |
---|---|---|---|
Autovettura aziendale ad uso non esclusivamente strumentale (uso promiscuo) | Deducibilità limitata: 20% dei costi (IRES/IRPEF) entro certi limiti di valore. IVA detraibile al 40%. Se assegnata a dipendente (fringe benefit) deducibile 70%. Se agente di commercio: 80%-90% deducibile. | Rischio di contestazione totale se l’auto è utilizzata quasi esclusivamente per fini privati (socio/amministratore) senza adeguata giustificazione aziendale. L’ufficio può ritenere il bene estraneo all’impresa e disconoscere tutti i costi. Inoltre, se l’auto è concessa a socio senza adeguato corrispettivo, scatta la regola beni a soci: costi indeducibili in ogni caso. | Art. 164 TUIR: limiti 20% etc.. Cass. 11791/2024: limite 20% non vale per IRAP (base da bilancio). DL 138/2011 art.2 c.36-quinquies: beni a soci, costi indeducibili se uso personale senza prezzo di mercato. |
Immobile abitativo intestato alla società (non strumentale) | Reddito d’impresa determinato su base fondiaria: rendita catastale o canone di locazione ridotto del 15% (per ordinarie). Costi di gestione e ammortamento indeducibili ex lege. Interessi passivi su mutuo acquisto: deducibili (non considerati “costi relativi” ai sensi art.90). | Se l’immobile è utilizzato di fatto come abitazione personale di socio/amministratore: oltre al regime art.90 (nessuna deduzione costi), i controlli possono contestare un bene a soci in godimento. Il socio dovrebbe essere tassato su un reddito diverso (beneficio abitativo) e la società perde eventuali deduzioni (che comunque art.90 già nega). Difese possibili: provare che l’immobile è realmente strumentale (es. ufficio) oppure che c’è un canone di mercato pagato dal utilizzatore. | Art. 90 TUIR: immobili patrimonio, indeducibilità costi. Cass. 7369/2012: conferma indeducibilità costi immobili abitativi non strumentali (principio generale). Circolare 47/E 2008: chiarimenti su interessi mutuo (acquisto vs gestione). Norma beni ai soci 2011 applicabile se uso personale senza canone di mercato. |
Imbarcazione da diporto (yacht, barca a vela) intestata all’azienda | Deducibile solo se utilizzata per attività commerciale dell’impresa (es. noleggio nautico, scuola vela). IVA detraibile se usata per operazioni imponibili (es. locazione breve imponibile). Se usata per attività esenti o fuori campo, IVA non detraibile. | Alta probabilità di contestazione se l’utilizzo è personale (socio/amministratore). L’Agenzia considera il bene estraneo e disconosce leasing, carburante, ormeggio, ecc. Possibile accusa di evasione/elusione (uso privato mascherato). Sanzioni amministrative elevate e, se provata frode, rischi penali (dich. fraudolenta). Inoltre, in caso di uso privato gratuito, applicabile norma beni ai soci (costi indeducibili ex lege). | Cass. 4365/2023: barca usata dal socio, costi indeducibili per difetto di inerenza; correlati ricavi da noleggio da escludere dal reddito d’impresa. Art. 2 DL 138/2011: beni a soci (se applicabile al caso). Corte Cass. 9560/2014: no deducibilità costi yacht ad uso privato (precedente giurisprudenziale). |
Aeromobile da turismo (aereo, elicottero leggero) intestato a società | Come per la barca: deducibile solo se inerente (es. società di lavoro aereo, servizi di volo commerciali). Altrimenti costi non deducibili. IVA detraibile limitata (spesso indetraibile per beni non strumentali core). | Contestazione per uso personale (voli privati di soci). L’Agenzia può riqualificare i costi come extraconto. Beni a soci se l’utilizzo non remunerato. Difesa difficile senza attività specifica: questi beni di lusso in genere non trovano giustificazione in aziende non di settore. | Giur. di merito: vari casi di società con elicottero per diletto contestati come costi indeducibili (non inerenti). Norme ENAC e Codice della Navigazione: se l’impiego non è commerciale, l’impresa non può dedurre costi personali. (Si consiglia di predisporre contratti di noleggio a terzi per provare l’uso imprenditoriale). |
Altri beni “di prestigio” (es. opere d’arte, gioielli, quote club) | Deducibilità possibile solo se il bene serve all’attività (es. opera d’arte esposta nei locali sociali aperti al pubblico – potrebbe qualificare come spesa di rappresentanza o investimento). Spesso spese del genere rientrano nelle spese di rappresentanza, deducibili entro limiti (5% ricavi o simili, art. 108 TUIR). | Contestazione tipica: l’opera o il bene è per abbellimento personale dell’ufficio privato o addirittura a casa del socio => non inerente. In caso di verifica, l’onere è dimostrare che il bene è usato per l’attività (es. sala riunioni accessibile ai clienti, immagine aziendale). Se non convincente, costi indeducibili. | Art. 108 TUIR: spese di rappresentanza (limitate nella deduzione). Principio generale inerenza: se il bene non è collegato all’attività, costi non deducibili. Cass. 34474/2019: spese per arredi di lusso deducibili solo se funzionali a impressionare clienti (rappresentanza) e comunque nei limiti normativi. |
Nota: in tutti i casi sopra, se un bene aziendale viene utilizzato da un socio/amministratore a titolo personale, si ricordi l’obbligo di comunicazione al Fisco e la disciplina dei beni in godimento (introdotta nel 2012) che prevede la tassazione del bene in capo all’utilizzatore e la indeducibilità automatica dei relativi costi per la società. Questa normativa “paracadute” rende quasi inevitabile la sconfitta del contribuente in giudizio se ricorrono i presupposti (bene effettivamente usato a fini privati senza un congruo corrispettivo). In tal caso, più che difendere la deduzione (impossibile per legge), ci si può concentrare su riduzione delle sanzioni o irregolarità procedurali dell’accertamento.
Dopo aver delineato quando e perché il Fisco potrebbe contestare costi come indeducibili per difetto di inerenza, passiamo ora a esaminare come difendersi, ossia quali strumenti e strategie adottare dal momento in cui si riceve l’avviso di accertamento fino all’eventuale fase di contenzioso davanti al giudice tributario.
Cosa fare quando arriva l’accertamento: strumenti difensivi pre-contenzioso
Ricevuto l’avviso di accertamento che recupera a tassazione i costi ritenuti non inerenti, il contribuente ha un tempo limitato per reagire e deve decidere come impostare la propria difesa. In genere, dalla notifica dell’avviso decorrono 60 giorni per presentare un ricorso al giudice tributario (art. 21, D.Lgs. 546/92), salvo che intervengano sospensioni o si attivino procedure deflattive. Prima di arrivare al contenzioso vero e proprio, esistono alcune opzioni “pre-contenziose” che l’interessato può valutare:
- Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997) – È una procedura di confronto con l’ufficio che consente, presentando apposita istanza, di discutere l’atto e tentare una definizione concordata. L’adesione non implica ammissione di colpa: è uno strumento per eventualmente trovare un accordo su una riduzione della pretesa e chiudere la lite prima del giudice. Vantaggi: si ottiene subito la sospensione del termine per ricorrere (per 90 giorni) e, in caso di accordo, le sanzioni vengono ridotte ad 1/3 del minimo previsto. Nel merito, nel contraddittorio si può far valere la documentazione e le ragioni a favore della deducibilità, sperando che l’Ufficio riveda parzialmente la propria posizione. Ad esempio, si potrebbe convincere l’ufficio a rinegoziare: forse non riconoscerà l’intero costo, ma potrebbe accettare una deduzione parziale o almeno ridurre le sanzioni applicate. Se si trova un accordo, si sottoscrive un atto di adesione e si paga il dovuto (imposte rideterminate e sanzioni ridotte a 1/3) entro 20 giorni. Se non si raggiunge accordo, si può comunque fare ricorso entro i termini (60 gg + 90 gg di sospensione). Strategia: l’adesione può essere utile se la posizione del contribuente è debole e si punta a limitare i danni (riducendo sanzioni e importi) oppure se emergono errori evidenti nell’atto su cui l’ufficio può cedere. In tema di inerenza, se la questione è opinabile, l’ufficio talvolta propone di mantenere l’imponibile ma ridurre la sanzione. Va valutato caso per caso. Importante: presentare l’istanza di adesione prima della scadenza dei 60 giorni dal ricevimento dell’accertamento, per usufruire della sospensione dei termini.
- Acquiescenza parziale o definizione agevolata delle sanzioni (art. 15 D.Lgs. 218/97 e art. 17 D.Lgs. 472/97) – Se il contribuente ritiene di non voler contestare nel merito (magari perché la violazione è evidente o la documentazione insufficiente) ma vuole alleggerire le sanzioni, può considerare l’acquiescenza: pagando le maggiori imposte entro 60 giorni, ha diritto alla sanzione ridotta ad 1/3 di quella irrogata. In alternativa, esiste la possibilità di definire le sole sanzioni: pagando 1/3 delle sanzioni entro 60 giorni, si chiude la partita sanzionatoria ma si può comunque impugnare l’atto sul merito delle imposte. Questa seconda opzione, introdotta dall’art.17 comma 2 D.Lgs. 472/97, può essere utile proprio in casi di interpretazione incerta: il contribuente, per sicurezza, versa il terzo della sanzione (così se perde in giudizio non dovrà pagare il resto e ha risparmiato qualcosa) e poi fa ricorso per farsi annullare l’imposta contestata. Se vince sul merito, non recupera però la sanzione versata (sacrificando quella parte per stare tranquillo). Queste vie vanno ponderate: l’acquiescenza chiude tutto il contenzioso (non si può impugnare poi), mentre la definizione sanzioni parziale lascia aperto il merito.
- Istanza di autotutela – Consiste in una richiesta all’ufficio di annullare o correggere in via di autotutela l’avviso, senza bisogno di giudice. È totalmente discrezionale per l’amministrazione. Ha senso presentarla solo se ci sono errori palesi nell’atto (ad es: scambio di persona, doppia imposizione già pagata, errori di calcolo, o se si forniscono prove schiaccianti non valutate). Sulle questioni di inerenza (che sono valutative/fattuali), difficilmente l’Agenzia accoglie l’autotutela, a meno di un evidente abbaglio (es: il funzionario non aveva visto un documento cruciale). Comunque, l’istanza di autotutela non sospende i termini di ricorso né quelli di pagamento. Può essere fatta anche dopo i 60 giorni, ma conviene farla tempestivamente. Nella difesa del contribuente, l’autotutela può servire a creare un documento da esibire poi al giudice per dimostrare la propria buona fede e la collaborazione (es: “avevo già spiegato all’ufficio, ma non mi hanno ascoltato”). Raramente però risolve il problema senza contenzioso.
È importante sottolineare un cambiamento normativo recente: fino al 2023, per le controversie di valore non eccedente €50.000 era previsto l’istituto del reclamo/mediazione tributaria (art. 17-bis D.Lgs. 546/92) che imponeva, prima di accedere al giudice, di presentare un reclamo all’ufficio e tentare una mediazione. Tale procedura era obbligatoria e il ricorso produceva effetti di reclamo, con incentivi in caso di accordo (sanzioni ridotte al 35% del minimo). Dal 2024 questa fase è stata abrogata: la riforma della giustizia tributaria (D.Lgs. 130/2022 attuato dal D.Lgs. 209/2022 e D.Lgs. 220/2023) ha eliminato l’obbligatorietà del reclamo-mediazione per gli atti notificati dal 1° gennaio 2024. Ciò significa che oggi il contribuente – anche per importi sotto 50.000 – può ricorrere direttamente in Commissione (ora Corte di Giustizia Tributaria) senza dover presentare reclamo. Resta comunque la possibilità di una mediazione volontaria: le parti possono accordarsi anche dopo l’instaurazione del giudizio, mediante conciliazione (vedi oltre). In questa guida useremo pertanto il termine generale “ricorso” per indicare l’atto introduttivo in Commissione Tributaria (per gli avvisi attuali non c’è distinzione reclamo/ricorso). Tuttavia, se avete ricevuto un avviso nel 2023 o prima, potreste essere ancora soggetti alla vecchia disciplina: in tal caso bisognava presentare un reclamo e aspettare 90 giorni prima di poter proseguire (oggi queste sono situazioni in esaurimento). Assicuratevi sempre di controllare la data di notifica dell’atto e la normativa vigente in quel momento.
In vista del ricorso giudiziario, è opportuno sin da subito raccogliere tutte le prove documentali e predisporre una linea difensiva chiara. Ad esempio: procurarsi contratti, delibere societarie che giustificano l’acquisto del bene contestato (per provare l’intento aziendale); predisporre eventuali perizie o relazioni tecniche (es. per dimostrare la congruità parziale dell’uso aziendale); raccogliere sentenze favorevoli (che vedremo più avanti) da poter citare come precedenti. Una volta scaduto il termine di 60 giorni (o 150 se c’è stata adesione senza esito), l’accertamento diventa definitivo e, salvo casi eccezionali di revoca in autotutela, l’unica via è il contenzioso tributario.
Il ricorso in Commissione/Corte di Giustizia Tributaria: impostazione della difesa in giudizio
Se non si è definito in via precontenziosa, occorre presentare ricorso davanti al giudice tributario di primo grado, denominato oggi Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (in precedenza Commissione Tributaria Provinciale). Vediamo i punti fondamentali per impostare al meglio la difesa in questa sede.
1. Termini e modalità di ricorso: Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla data di notifica dell’atto impugnato (avviso di accertamento), a meno che non sia intervenuta la sospensione feriale (1-31 agosto) che sposta in avanti la scadenza, o una sospensione per adesione. Come detto, l’adesione sospende per 90 giorni il termine, quindi in tal caso il ricorso va fatto entro 60+90 = 150 giorni. La notifica del ricorso può avvenire a mezzo PEC (se l’ufficio ha un domicilio digitale) o tramite ufficiale giudiziario/posta. Dopo la notifica, il ricorrente deve costituirsi in giudizio depositando il fascicolo presso la segreteria della Corte tributaria entro 30 giorni. Contestualmente, si paga il contributo unificato dovuto (che dipende dal valore della causa). Ricordarsi di indicare nel ricorso se si intende chiedere la sospensione dell’atto: di default infatti l’accertamento è esecutivo, e l’Agenzia può già iscrivere a ruolo 1/3 delle imposte contestate anche se pende il ricorso (il restante 2/3 sono sospesi ex lege fino a sentenza di primo grado). Se il contribuente subisce un pregiudizio grave da quel 1/3 (o dall’intera pretesa se oltre il primo grado), può chiedere al tribunale tributario la sospensione cautelare totale dell’atto. Nel nostro caso, se l’importo recuperato è ingente, valutare una richiesta di sospensione può essere sensato, allegando documenti che provino il danno (es. difficoltà finanziaria a pagare).
2. Strutturare i motivi di ricorso: Nel ricorso bisogna indicare i motivi di impugnazione, ossia tutti i vizi dell’atto che si intendono far valere. Per una contestazione di costi indeducibili/inerenza, i motivi tipici possono includere:
- Vizi formali o procedurali: ad es. difetto di motivazione dell’avviso (se l’atto non spiega adeguatamente perché il costo è ritenuto non inerente, violando l’obbligo di motivazione ex art. 42 DPR 600/73), oppure violazione del contraddittorio (in alcuni casi di verifiche, se dovuto, o mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni dalla chiusura verifica – art. 12 L.212/2000 – se applicabile). Questi aspetti vanno valutati con attenzione: ad esempio, nella sentenza Cass. 12588/2025 si evidenzia come la CTR avesse sottolineato il “silenzio” del contribuente in appello sull’inerenza, quasi a suggerire un difetto originario di contestazione. Occorre dunque che nel nostro ricorso sia chiarissimo l’oggetto del contendere e la contestazione puntuale di ogni rilievo. Se l’avviso è generico (“costo non inerente” senza spiegazioni), potremo lamentare nullità per motivazione insufficiente.
- Merito – inerenza dei costi: qui si spiega perché, in fatto e in diritto, i costi contestati erano in realtà deducibili. Si articolerà quindi che il bene era inerente all’attività, supportando con documenti e con la corretta interpretazione giuridica del concetto di inerenza. Ad esempio: “Contrariamente a quanto asserito dall’ufficio, i costi relativi all’immobile X sono inerenti, poiché tale immobile, pur di natura abitativa, è stato destinato dalla società a foresteria per ospitare clienti e dipendenti in trasferta, come da delibera del CDA del … (doc. X). L’utilizzo del cespite è quindi funzionale all’attività d’impresa. Si richiama il principio espresso dalla Cassazione secondo cui l’inerenza si ha anche senza nesso con specifici ricavi, essendo sufficiente la potenzialità produttiva nell’ambito dell’oggetto sociale. Nel caso di specie, la destinazione a foresteria aziendale di detto immobile rientra chiaramente nell’oggetto sociale (accoglienza clienti e formazione dipendenti), sicché i relativi costi sono deducibili ai sensi dell’art. 109 TUIR” – e così via.**
- Merito – altre questioni: ad esempio, la sproporzione della sanzione (se fosse stata calcolata male), oppure la carenza di prova da parte dell’ufficio. In tema di costi non inerenti, può essere efficace sostenere che l’ufficio non ha fornito concreti elementi per qualificarli come personali. Se il tutto si basa su presunzioni labili, si può contestare la mancanza di prova adeguata (ricordando però che, di base, è il contribuente a dover provare l’inerenza – ma se lui porta elementi e il fisco nulla oltre l’assunto, il giudice potrebbe ritenere assolto l’onere dal contribuente e carente la controparte).
Un punto da sfruttare è proprio la recente Cassazione: ad esempio, se l’ufficio ha disconosciuto costi perché l’attività quell’anno era in perdita o non aveva ricavi, citeremo Cass. 6426/2025 che stigmatizza la tesi Agenzia basata su rapporto costi/ricavi esigui. Se hanno detto “non hai usato quel marchio quindi le royalties non sono inerenti”, citeremo Cass. 12588/2025 che ha cassato la decisione della CTR che aveva escluso l’inerenza di royalties per marchi mai utilizzati, ribadendo che la valutazione va fatta su destinazione potenziale e non su utilità effettiva. In pratica, è fondamentale portare all’attenzione del giudice di primo grado i principi giurisprudenziali consolidati a favore: spesso le Commissioni accolgono tesi in diritto ben argomentate, specie se corroborate da pronunce di legittimità.
3. Prove da offrire: La fase contenziosa davanti al giudice tributario è prevalentemente documentale. Significa che bisogna allegare al ricorso ogni documento utile a dimostrare i fatti. Nel nostro scenario, quali prove possono essere determinanti?
- Documenti societari interni: delibere, verbali, budget, contratti, email aziendali che attestino la destinazione del bene contestato ad attività d’impresa. Esempio: per un’auto, un registro delle uscite o un contratto di assegnazione al dipendente; per un immobile, un regolamento interno che lo destina a foresteria; per un marchio inutilizzato, il contratto di licenza e magari un piano marketing che ne prevedeva l’uso (anche se poi non concretizzato). Queste prove servono a mostrare la bona fide e il nesso con l’attività.
- Prove contabili: estratti contabili che evidenziano come il bene sia registrato tra gli immobilizzi strumentali, come sono stati trattati eventuali ricavi derivanti, etc., per dimostrare coerenza di comportamento. Ad esempio, se l’azienda ha tassato come ricavi figurativi gli utilizzi personali (es. addebitando un fringe benefit in busta paga), ciò va messo in luce per attenuare la posizione.
- Testimonianze e perizie: nel processo tributario tradizionalmente non è ammessa la prova testimoniale orale. Tuttavia, è possibile produrre dichiarazioni scritte di terzi (es. una dichiarazione giurata di un cliente che attesta di aver effettivamente ricevuto un servizio sul bene in contestazione, come un viaggio sulla barca per ragioni promozionali). Il valore è libero, ma può influire. Le perizie di parte possono spiegare aspetti tecnici (es. per confutare l’antieconomicità, un perito può dire che il costo rientra nei valori di mercato, quindi non è sintomo di frode).
- Giurisprudenza e circolari: come detto, allegare copie delle sentenze chiave citate (specie Cassazione) e di eventuali circolari interpretative. Per esempio, una Circolare dell’Agenzia potrebbe aiutarci: nel 2012 l’Agenzia stessa chiarì alcuni dubbi sui beni ai soci (Circolare 36/E/2012); se un punto ci favorisce (es. definizione di valore di mercato), citiamolo. Anche risoluzioni ministeriali se pertinenti. Questi materiali giuridici servono più nella memoria legale ma è utile averli nel fascicolo.
4. Richieste al giudice: Nel ricorso si chiede in sostanza l’annullamento (totale o parziale) dell’atto impugnato. Non dimentichiamo di chiedere anche l’annullamento o la riduzione delle sanzioni in caso di soccombenza parziale: i giudici tributari infatti possono, nell’accogliere parzialmente il ricorso, rideterminare le sanzioni. Si può invocare l’art. 7 D.Lgs. 472/97 che consente al giudice di dichiarare non dovute (o ridurre) le sanzioni se ricorre “obiettiva condizione di incertezza” sulla norma o i fatti. Nel nostro contesto, se ad esempio l’inerenza era controversa e di interpretazione non univoca, potremmo chiedere di non applicare sanzioni per incertezza normativa (non sempre le Commissioni lo riconoscono, ma va tentato). In subordine, chiedere almeno la riduzione al minimo edittale, se già non applicato. Inoltre, se si è definita la sanzione in adesione o in acquiescenza parziale (1/3), segnalare al giudice che la sanzione è già definita onde evitare confusione.
5. Svolgimento del processo e decisione: Dopo il deposito del ricorso, l’Ufficio si costituirà con memoria difensiva (entro 60 giorni dal ricevimento, in pratica) controbattendo i nostri argomenti. Potremo a nostra volta depositare memorie aggiuntive fino a 10 giorni prima dell’udienza, per replicare. L’udienza può essere pubblica o, se tutte le parti lo chiedono, a trattazione scritta (anche in teleconferenza nelle nuove norme). In udienza – specie se pubblica – il nostro difensore (se siamo assistiti da avvocato/comm.dott) farà un intervento per rimarcare i punti cruciali a favore. La decisione del collegio arriverà con una sentenza depositata di norma entro 30 giorni dalla discussione (ma in pratica a volte anche dopo mesi).
Se la sentenza di primo grado ci è sfavorevole, si potrà proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza. L’appello riesaminerà la questione di fatto e di diritto. In materia di inerenza, spesso la battaglia può proseguire fino in Cassazione, dato che sono questioni di principio. Nel valutare se proseguire dopo il primo grado, incideranno l’importo in gioco e la solidità dei motivi.
6. Conciliazione in corso di causa: Anche una volta avviato il ricorso, è possibile trovare un accordo con l’Agenzia ed evitare di attendere la sentenza. Si può infatti ricorrere alla conciliazione giudiziale (art. 48 D.Lgs. 546/92). Le parti – contribuente e ufficio – concordano una soluzione (es. riconoscere metà del costo dedotto, condonare sanzioni in parte) e la sottopongono al giudice, il quale, se la approva, emette un decreto che chiude la causa. Il vantaggio per il contribuente è che le sanzioni in conciliazione sono ulteriormente ridotte: al 40% del minimo in caso di conciliazione in primo grado, al 50% in appello. Questo incentivo può spingere a trattare. Nel nostro esempio, magari dopo aver presentato ricorso l’ufficio si rende conto che qualcosa può concedere (specie se abbiamo portato nuove prove): potrebbe proporre di lasciare indeducibile il 50% del costo contestato e ridurre la sanzione al 40%. Accettare o meno dipende dalla forza della nostra posizione. La conciliazione è facoltativa ma da non dimenticare come opzione, perché con un buon negoziato si può risparmiare tempo e ottenere un risultato certo (evitando anche il rischio delle spese di giudizio e degli interessi di mora che maturano durante la lite).
Riassumiamo alcune caratteristiche chiave delle fasi difensive in una tabella di riferimento rapido:
Tabella 3: Strumenti di difesa e fasi del procedimento tributario
Fase | Strumento difensivo | Termini | Vantaggi | Riferimenti |
---|---|---|---|---|
Pre-contenzioso | Accertamento con adesione (istanza all’Agenzia) | Entro 60 gg da notifica accertamento (sospende termini ricorso per 90 gg) | Possibile riduzione imponibile in accordoSanzioni ridotte 1/3Termini ricorso sospesi (più tempo per preparare difesa) | D.Lgs. 218/1997, artt. 6-7. Se accordo: atto adesione + pagamento in 20gg. |
Pre-contenzioso | Acquiescenza (pagamento con sanzioni ridotte) | Entro 60 gg da notifica avviso | Chiude subito la pendenzaSanzioni ridotte a 1/3 del minimo (se paghi imposta + interessi) | D.Lgs. 218/1997, art. 15 (come modif. da DL 50/2017). |
Pre-contenzioso | Definizione agevolata solo sanzioni (art.17 c.2 472/97) | Entro 60 gg da notifica avviso | Sanzioni ridotte a 1/3 senza dover pagare subito le imposteSi può comunque ricorrere sul merito imposte | D.Lgs. 472/1997, art. 17 c.2. (paghi 1/3 sanzioni entro termini ricorso). |
Pre-contenzioso | Reclamo/MEDIAZIONE (obbligatorio fino al 2023) | (Abolito dal 2024) Presentazione reclamo entro 60 gg; mediazione 90 gg | Poteva evitare il giudizio con accordoSanzioni ridotte 35% se mediazione riuscita (Non più obbligatorio dal 2024) | Art. 17-bis D.Lgs. 546/92 (introdotto 2011, soglia 50k aumentata da DL 50/2017, abrogato da D.Lgs. 130/2022). |
Contenzioso I grado | Ricorso alla Corte Giustizia Tributaria (primo grado) | Entro 60 gg (o 150 se adesione pendente) da notifica avviso | Giudizio indipendente sul merito e legittimità attoPossibilità di ottenere sospensione esecuzione atto | D.Lgs. 546/92, art. 2 e 21 (termine ricorso), art. 47 (sospensione provvisoria). NB: denominazione “CGT primo grado” dal 2023 (prima CTP). |
Durante il processo | Conciliazione giudiziale (accordo con Agenzia in corso di causa) | Entro la prima udienza o comunque entro la decisione (anche in appello) | Definizione concordata lite: fine immediata del processoSanzioni ridotte 40% (se conciliazione in primo grado) o 50% (in secondo grado)Niente spese di giudizio | D.Lgs. 546/92, art. 48 (conciliazione fuori udienza) e art. 48-bis (in udienza). Riduzione sanzioni ex art. 48 c.5. |
Contenzioso II grado | Appello alla CGT secondo grado (ex CTR) | Entro 60 gg dalla notifica sentenza di primo grado | Seconda valutazione sul fatto e dirittoPossibilità di nuove prove documentali se indispensabili | D.Lgs. 546/92, artt. 51-63 (disciplina appello). Denominazione “CGT secondo grado” dal 2023. |
Contenzioso legittimità | Ricorso per Cassazione (Suprema Corte) | Entro 60 gg dalla notifica sentenza d’appello (o 6 mesi se non notificata) | Verifica solo su vizi di diritto (violazione di legge o motivazione nulla)Uniforma interpretazione norme (importante per principi generali come l’inerenza) | Art. 360 c.p.c. motivi ricorso; art. 62 D.Lgs. 546/92 (rinvio alle norme CPC). Necessaria assistenza avvocato cassazionista. |
Con la presentazione del ricorso e l’avvio del contenzioso, entriamo nel vivo della difesa tecnica sulla questione dei costi indeducibili per difetto di inerenza. Nel prossimo capitolo analizzeremo dettagliatamente quali argomentazioni sostanziali mettere in campo a sostegno della deducibilità dei costi e come replicare alle tesi dell’ufficio, anche con l’ausilio di massime giurisprudenziali recenti. Inoltre, vedremo delle simulazioni pratiche di estratti di memorie difensive, per capire come tradurre in scritti legali i concetti discussi sinora.
Difesa nel merito: argomentazioni a sostegno dell’inerenza e casi pratici
In sede contenziosa (sia nel ricorso iniziale, sia nelle memorie successive), la difesa del contribuente deve mirare a smontare le argomentazioni dell’ufficio e a convincere i giudici che i costi contestati erano in realtà deducibili. Affrontiamo i punti chiave attorno a cui costruire le argomentazioni di merito in tema di inerenza, integrandoli con esempi pratici e riferimenti giurisprudenziali da citare.
Sostenere l’inerenza qualitativa del costo
La prima linea di difesa è ribadire che la natura del costo è connessa all’attività d’impresa, anche se l’ufficio sostiene il contrario. Bisogna spiegare perché il bene/servizio in questione è (o era) funzionale all’attività. Qui è utile richiamare il concetto di inerenza qualitativa avallato dalla Cassazione. Si può ad esempio scrivere:
Esempio (frammento di memoria difensiva):
“Deve preliminarmente ribadirsi il corretto criterio giuridico di valutazione: l’inerenza di un costo non richiede un nesso diretto con specifici ricavi né una misurazione in termini di utile conseguito, bensì attiene alla strumentalità anche solo potenziale del costo rispetto all’attività d’impresa. La Suprema Corte ha recentemente affermato che ‘l’inerenza non integra un nesso utilitaristico tra costo e ricavo, ma si sostanzia nella correlazione tra costo e attività d’impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile’ (Cass., Sez. Trib., ord. n. 13882/2018 cit. in Cass. 6426/2025). Pertanto, la circostanza evidenziata dall’Ufficio – ossia che il costo in esame non avrebbe generato un proporzionale incremento di ricavi – risulta giuridicamente irrilevante ai fini della deducibilità, dovendo piuttosto verificarsi se esso sia coerente con l’oggetto sociale e con le attività svolte dall’impresa.
Questo approccio “educa” il giudice a guardare alla destinazione del costo e non al suo rendimento. Dopo aver esposto il principio, si applica al caso concreto: ad esempio, se la società ha comprato un automezzo di rappresentanza ma quell’anno non ha concluso affari, si dirà che comunque l’auto serviva alle potenziali trasferte commerciali, e che l’inerenza sussiste perché l’impresa (magari nuova) era in fase di promozione. In parallelo, si può citare un caso analogo favorevole:
“…Si richiama a tal proposito la vicenda decisa dalla Cassazione con l’ordinanza n. 6426 dell’11/3/2025, in cui l’Agenzia negava l’inerenza di spese in anni privi di fatturato; la Corte ha respinto tale tesi, ricordando che l’assenza di ricavi non esclude l’inerenza, potendo i costi collocarsi in una fase preparatoria, futura o potenziale dell’attività imprenditoriale. Nel nostro caso, similmente, le spese di cui si controverte erano finalizzate ad uno sviluppo futuro dell’attività (come da piano industriale prodotto sub doc. 5), e non possono essere disconosciute solo perché nello stesso esercizio non si sono tradotte in maggiori ricavi immediati.”
L’obiettivo è fornire al giudice un paradigma interpretativo più favorevole (qualitativo) in contrasto a quello suggerito dal Fisco (spesso quantitativo/utilitaristico). Se il giudice sposa il nostro paradigma, valuterà i fatti nella luce giusta.
Evidenziare la coerenza del bene con l’oggetto sociale e l’attività
È fondamentale collegare il bene contestato con l’attività dichiarata della società. Se l’oggetto sociale comprende, anche marginalmente, l’utilizzo di quel bene, sottolinearlo. Ad esempio: l’atto costitutivo prevede “attività turistico-ricettiva”? Allora l’immobile di cui si deducono i costi poteva essere destinato a casa vacanze o alloggi per ospiti. Se la società ha per oggetto “servizi pubblicitari”, l’auto di rappresentanza per portare i clienti in visita è plausibile, e così via.
Si può fare una elencazione delle possibili utilità del bene per l’azienda. Esempio, per un’auto: spostamenti del personale, consegna rapida di prodotti, immagine aziendale. Per un immobile: sede di rappresentanza, investimento patrimoniale (che produce canoni tassati), benefit ai dipendenti (se è foresteria), ecc. Più usi aziendali (anche potenziali) si indicano, più difficile per l’ufficio sostenere che è soltanto un bene personale. Naturalmente bisogna essere credibili e supportare con evidenze se possibile (ad es., contratti di locazione a terzi per quell’immobile: allora non è rimasto solo personale, ha prodotto reddito d’impresa).
Un richiamo normativo opportuno è proprio l’art. 109 co.5 TUIR: mostrare che letteralmente la norma parla di costi “riferibili ad attività o beni da cui derivano ricavi”. Quindi se dal bene sono derivati ricavi, evidenziamolo: “il bene ha prodotto ricavi (o altri proventi) che concorrono a formare il reddito, e pertanto, in base all’art. 109, comma 5, TUIR, i relativi costi sono deducibili”. Ad esempio, se un immobile ha generato un fitto attivo (anche tassato come fondiario), è un argomento: difficile dire che è completamente estraneo se comunque l’impresa ne ha tratto un provento (certo, se è tassato come fondiario, la deduzione non spetta per legge su quel reddito, ma almeno demolisce l’idea di bene totalmente personale).
All’opposto, come visto, se il Fisco ha inserito a tassazione proventi del bene (noleggi, affitti) ma negato i costi, evidenziare la contraddizione chiedendo che in subordine vengano eliminati i proventi (coerentemente a Cass. 4365/2023). Questo almeno mette il giudice di fronte a un’alternativa: o riconosce i costi come inerenti, oppure, se li nega, dovrebbe comunque togliere i ricavi. È un ragionamento win-win dal nostro lato: se il giudice è equo, non vorrà far tassare ricavi senza costi o viceversa, dunque sarà portato a risolvere a nostro favore o almeno a non farci pagare sul “netto per differenza” peggiorativo (in diritto tributario vige il principio di tassazione del reddito netto, quindi tassare ricavi ma non ammettere costi di produzione di quei ricavi è concettualmente scorretto, a meno che costi siano fittizi). Porre l’accento su questo può far breccia.
Confutare l’accusa di utilizzo personale / spiegare eventuali apparenze fuorvianti
Se l’ufficio ha basato la contestazione su fatti come: “l’auto era guidata dal socio anche nei weekend”, “nell’immobile ci risiede l’amministratore”, “la barca era ormeggiata vicino alla villa del socio”, ecc., bisogna affrontarli. Le strade sono due: negare i fatti (se possibile, con prove contrarie) oppure contestualizzarli diversamente.
Ad esempio, se dicono che il socio abitava nella casa sociale, ma in realtà aveva un regolare contratto di locazione con la società pagando un affitto (anche se modico): allora quel fatto non era occulto, e comunque c’è corrispettivo (discutere magari se equo, ma in tal caso far valere che i costi dovrebbero essere deducibili in proporzione al canone pagato). Se l’auto appare usata per scopi personali, portare eventualmente documenti su un rimborso spese chilometrico versato dal socio all’azienda per gli usi extra (se è stato fatto), o far notare che il fringe benefit era stato conteggiato in busta paga (se vero).
In assenza di elementi del genere (spesso non ce ne sono perché magari effettivamente l’uso personale c’è stato), conviene puntare su soluzioni intermedie: ad esempio, ammettere che una parte dell’uso è stata personale ma sostenere che la maggior parte era aziendale, e quindi invocare semmai una deduzione parziale. Anche se la legge (tranne che per le auto con la forfettizzazione del 20-70%) non disciplina l’inerenza frazionata, in giudizio può essere un esito equitativo: alcune Commissioni potrebbero decidere di “salvare” una percentuale di costi se ritengono provato un uso misto.
Ad esempio, se si tratta di bollette di un immobile dove metà è ufficio e metà abitazione, documentare la metratura e chiedere di dedurre il 50% delle spese. Ci sono stati casi giurisprudenziali in cui i giudici hanno attribuito una parte deducibile e una no. Certo, l’Agenzia sostiene giustamente “o è strumentale o non lo è”, ma in situazioni borderline un giudice potrebbe optare per la via di mezzo. Fornire basi per un eventuale giudizio di “quota deducibile” può essere saggio: ad esempio con una perizia tecnica che quantifichi l’utilizzo aziendale vs personale (ore di utilizzo macchina per lavoro, stanze dell’immobile ad uso ufficio vs abitativo, etc.).
Utilizzare precedenti giurisprudenziali pertinenti
Abbiamo già inserito riferimenti a Cassazioni rilevanti. In un giudizio di merito, citare sentenze di Cassazione recenti ha spesso un forte impatto, perché orienta i giudici sull’interpretazione corretta e li rassicura (nessun giudice di CTP/CGT vuole emettere decisioni che verranno cassate in futuro). Ecco alcune massime chiave da inserire nelle nostre memorie:
- Cass. 12588/2025: “L’inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e attività d’impresa”. (Questa serve a dire: finché il Fisco non prova un’antieconomicità clamorosa, non può negarmi il costo solo perché ‘secondo lui è troppo alto’).
- Cass. 4365/2023: “Il bene estraneo all’attività commerciale dell’imprenditore comporta indeducibilità dei relativi costi e al contempo l’esclusione dal reddito d’impresa dei corrispondenti componenti positivi derivanti dall’utilizzo di quel bene”. (Utile da citare se abbiamo chiesto la eliminazione dei ricavi correlati).
- Cass. 6426/2025: “Il principio d’inerenza non integra un nesso di tipo utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo e attività d’impresa, anche solo potenzialmente produttiva di reddito imponibile; nelle imposte dirette, a differenza dell’IVA, l’antieconomicità di una spesa – ossia la sproporzione quantitativa – può costituire sintomo significativo di non inerenza”. (Questa è completa: afferma sia il concetto qualitativo sia l’eccezione dell’antieconomicità come sintomo. Da usare magari all’inizio della parte di diritto come cappello).
- Cass. 13764/2025: (il caso carburanti) – si può citare per rimarcare che il nostro caso non è come quello: “Diversamente da Cass. 13764/2025 (dove la non deducibilità derivava da fatture irregolari prive di targa e consumi incongrui), nel presente giudizio l’amministrazione non contesta la certezza o la competenza dei costi, né l’effettività delle fatture, ma solo l’inerenza: i costi sono reali, documentati e di competenza, e l’unica disputa è sul loro collegamento all’impresa. Pertanto, la questione è squisitamente giuridica e di merito economico, non vi sono profili di inesistenza oggettiva o soggettiva dei costi.” Questo serve per escludere nel giudice il dubbio che il caso nasconda frodi. Se invece ci fossero sospetti di fatture false, la difesa cambia registro (ma usciamo dal perimetro della domanda, che riguarda inerenza).
- Cass. 11791/2024: se serve nel contesto veicoli/IRAP (ad esempio, se l’ufficio ha anche rettificato IRAP erroneamente), citare: “I limiti di deducibilità del 20% di cui all’art. 164 TUIR valgono per IRES, ma non si estendono all’IRAP la cui base imponibile è determinata dall’art.5 D.Lgs. 446/97”. (Questa è molto specifica ma potrebbe aggiungere punteggio se l’atto comprende anche IRAP).
- Cass. 450/2018 e 18904/2018: (già incluse nella massima in Cass. 12588/2025) – per rinforzare, magari si possono aggiungere note a piè di pagina (nel testo reale del ricorso, qui in guida basta citare Cass. 12588 che li include).
Minimizzare le sanzioni e prospettare buona fede
Nel sostenere la difesa, è bene far emergere la buona fede e l’assenza di volontà evasiva. Ciò non solo aiuta sul piano psicologico con il giudice, ma anche giuridicamente per l’aspetto sanzionatorio. Ad esempio, se la normativa era incerta (magari per casi nuovi), enfatizzare che il contribuente ha adottato una certa condotta interpretando la legge, e che se anche fosse considerata errata, c’erano valide ragioni per quella interpretazione (magari avallo del proprio consulente, prassi, ecc.). Si può, in conclusione, chiedere espressamente al giudice di valutare l’art. 6, comma 2, D.Lgs. 472/97, che esclude sanzioni per obiettiva incertezza normativa. Nel nostro contesto, l’inerenza è più fatto che diritto, però a volte c’è incertezza interpretativa (es: deducibilità costi immobili delle immobiliari di gestione – area non semplicissima; oppure in passato incertezza se la norma beni ai soci valesse anche per l’amministratore non socio – la circolare 36/E/2012 poi incluse gli amministratori non soci? bisognerebbe controllare, ma insomma situazioni così). Se ci sono margini, sfruttarli.
All’atto pratico, molti giudici se danno torto su tutto poi riducono almeno le sanzioni al minimo. Quindi come difesa “di riserva” conviene sempre richiedere: “In via ulteriormente gradata, laddove fosse comunque confermata la ripresa a tassazione, si chiede disporsi la non applicazione delle sanzioni amministrative per obiettiva incertezza sulla portata applicativa del principio di inerenza nel caso di specie (art. 6, c.2, D.Lgs. 472/97) ovvero la loro riduzione al minimo edittale, ricorrendo le circostanze attenuanti del caso”. Questo può portare a un beneficio economico non trascurabile (ad es. sanzione dal 90% al 90% ridotta a 90% al minimo, che in certi casi vuol dire dimezzarla, perché di solito l’ufficio mette più verso il massimo se pensa a comportamenti scorretti).
Simulazione di memoria difensiva: estratto esemplificativo
Di seguito proponiamo un estratto simulato di un atto difensivo in un caso reale, per dare un’idea di come combinare i vari elementi discussi:
Estratto simulativo di Ricorso – Motivi di diritto
…OMISSIS…
In diritto, l’avviso di accertamento impugnato è illegittimo e infondato per violazione di norme di legge e per erronea valutazione dei fatti, sotto i profili che seguono:
1) Violazione dell’obbligo di motivazione dell’atto impositivo (art. 42 D.P.R. 600/73) – L’avviso si limita ad affermare che “i costi relativi all’imbarcazione Alpha non sono deducibili poiché il bene non risulta inerente all’attività della società”, senza fornire ulteriori spiegazioni. Nessun elemento concreto è indicato (ad es. utilizzi extra aziendali specifici, dati o fonti) a sostegno di tale affermazione. In tal modo l’atto non esplicita le ragioni giuridiche e fattuali della pretesa, impedendo al contribuente una compiuta comprensione per approntare le proprie difese. Giova ricordare che la motivazione dell’accertamento deve rendere chiaro “quale sia il presupposto impositivo” e l’iter logico seguito dall’Ufficio (Cass. n. 25942/2014). Nel caso di specie, l’assunto dell’Ufficio è tautologico: si dichiara non inerente il bene perché non inerenti sarebbero i costi, senza descrivere perché l’uso di detto bene sarebbe estraneo all’attività d’impresa. Tale carenza rende nullo l’atto impugnato.
2) Erronea applicazione dell’art. 109, comma 5, TUIR e del principio di inerenza dei costi – Nel merito, la pretesa fiscale risulta illegittima in quanto i costi sostenuti per l’imbarcazione Alpha sono pienamente inerenti all’attività d’impresa svolta dalla società. Si rammenta che la società ha per oggetto sociale, tra l’altro, “l’organizzazione di eventi promozionali e turistici” (cfr. statuto, doc. 3); in tale contesto, l’imbarcazione in oggetto è stata impiegata quale mezzo per effettuare escursioni marine destinate a clienti e potenziali partner commerciali, con finalità di rappresentanza e promozione (v. elenco eventi svolti a bordo nell’anno, doc. 7). I relativi costi (leasing, ormeggio, equipaggio) sono dunque spese di rappresentanza o marketing, certamente riconducibili all’attività d’impresa svolta, volta ad accrescere contatti d’affari nel settore turistico. L’Ufficio, al contrario, ha apoditticamente qualificato il bene come “non inerente”, pare sottointendendo – ma senza esplicitarlo – un utilizzo privatistico da parte degli amministratori. Tale impostazione è giuridicamente e fattualmente errata. In diritto, come chiarito dalla Suprema Corte, “l’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio qualitativo, che prescinde da valutazioni utilitaristiche o quantitative” (Cass., sez. trib., n. 18904/2018, richiamata da Cass. 12588/2025). Pertanto non è richiesto che il costo produca uno specifico ricavo, essendo sufficiente che esso sia sostenuto nell’esercizio dell’impresa per perseguirne i fini. Nel nostro caso, i costi in questione soddisfano tale requisito, essendo volti a creare opportunità di business (turismo esperienziale marittimo legato agli eventi aziendali). Non spetta certo all’Amministrazione sindacare l’efficacia di tale scelta imprenditoriale – efficacia peraltro comprovata dal fatto che, a seguito degli eventi organizzati a bordo, la società ha acquisito 3 nuovi clienti (v. contratti allegati, doc. 9).
In fatto, la pretesa dell’Ufficio secondo cui l’imbarcazione sarebbe stata usata privatamente è smentita dalle prove: la documentazione prodotta mostra un calendario dettagliato di utilizzo aziendale del bene; nessun elemento concreto di usi estranei è stato addotto dall’Ufficio (non risultano verifiche né fotografie di usi personali, né addebiti di costi a soci). In assenza di prove, l’affermazione fiscale resta nel campo delle mere supposizioni. Si rammenta che, in tema di accertamento, “grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di allegare elementi anche presuntivi idonei a dimostrare l’asserita non inerenza, qualora il contribuente abbia assolto al proprio onere di documentare la natura del costo e la sua destinazione all’attività” (cfr. Cass. n. 26490/2019). Nella presente controversia, la società ha fornito documentazione completa attestante la natura imprenditoriale del costo (fatture intestate alla società, contratti con clienti per eventi su yacht, report fotografici degli eventi, ecc.), soddisfacendo quindi l’onere probatorio su di essa incombente. L’Ufficio non ha allegato elementi di segno contrario, per cui le sue deduzioni restano assertive e vanno disattese.
3) In subordine, erronea determinazione della pretesa per incoerenza tra componenti positivi e negativi – Qualora, per mera ipotesi, si ritenesse che l’imbarcazione Alpha fosse effettivamente un bene non inerente all’impresa (ipotesi che si nega), l’accertamento risulterebbe comunque errato e da annullare/riformare almeno parzialmente, poiché l’Ufficio ha omesso di espungere dal reddito d’impresa i componenti positivi correlati a detto bene. In particolare, la società ha dichiarato, per l’anno oggetto di accertamento, ricavi per €50.000 derivanti da noleggio occasionale dell’imbarcazione (voce “Altri ricavi”), che l’Agenzia non ha minimamente considerato. Eppure, se davvero – come sostiene l’Ufficio – la barca era estranea all’attività d’impresa, allora anche i proventi derivanti dal suo utilizzo avrebbero dovuto essere esclusi dal reddito d’impresa. Ciò in applicazione del medesimo principio di inerenza, che opera simmetricamente sui componenti negativi e positivi: ce lo insegna la Cassazione, la quale ha affermato che il riconoscimento dell’estraneità di un bene all’attività comporta “l’indeducibilità dei costi relativi e dovrebbe comportare l’esclusione dal reddito d’impresa dei corrispondenti componenti positivi derivanti dall’utilizzo di quel bene” (Cass. 4365/2023). L’Ufficio invece ha assunto una posizione incoerente (costi fuori, ricavi dentro), che produce un reddito tassato artificiosamente elevato di €50.000. Pertanto, almeno per tale importo, l’accertamento va ridotto. In altri termini, o il bene è considerato inerente (e allora vanno dedotti i costi), o è estraneo (e allora vanno esclusi i ricavi): tertium non datur, se non violando la logica prima ancora che le norme tributarie sull’imposizione del reddito netto.*
…OMISSIS…
In via conclusiva, si chiede quindi che codesta On.le Corte voglia annullare l’atto impugnato, riconoscendo la piena deducibilità dei costi contestati, e in subordine voglia ridurre l’imponibile come sopra argomentato. Si chiede inoltre disporsi l’integrale disapplicazione delle sanzioni amministrative, ricorrendo quantomeno l’obiettiva incertezza su una questione interpretativa complessa, oggetto di evoluzione giurisprudenziale (come testimoniato dalle citate pronunce della Cassazione emesse solo di recente).”
Come si nota nell’esempio, sono state incorporate le linee difensive menzionate: la motivazione, la reinterpretazione dell’inerenza, la confutazione fattuale e la questione dei ricavi. Naturalmente ogni caso avrà specificità diverse, ma la logica di fondo è: attaccare il ragionamento dell’ufficio su più fronti (legale e fattuale), fornire pezze d’appoggio (documenti e sentenze) e proporre anche soluzioni subordinate ragionevoli.
Giurisprudenza aggiornata e casi emblematici
A supporto di quanto discusso, riepiloghiamo alcune delle pronunce più recenti (aggiornate al 2023-2025) in tema di costi indeducibili per difetto di inerenza, con un breve commento sul principio di diritto enucleato in ciascuna. Queste sentenze possono essere richiamate nelle difese per conferire autorevolezza alle argomentazioni:
- Cassazione, Sez. V, sent. 13 febbraio 2023 n. 4365 – Bene aziendale ad uso personale (barca): costi indeducibili e corrispondenti ricavi da escludere. – La Corte ha confermato l’indeducibilità dei costi di leasing e gestione di un’imbarcazione da diporto utilizzata privatamente da un socio, rilevando il difetto di inerenza in quanto “l’utilizzo della barca era estraneo all’attività dell’impresa”. Importante, la Corte ha affermato che, riconosciuta l’estraneità del bene, anche i proventi conseguiti dal suo utilizzo (noleggi percepiti) vanno esclusi dal reddito d’impresa per coerenza. Questo costituisce un precedente fondamentale sul trattamento simmetrico costi/ricavi per beni non inerenti.
- Cassazione, Sez. V, ord. 12 agosto 2024 n. 22664 – Detraibilità IVA beni in start-up (immobile non ancora utilizzato). – Sebbene riguardi l’IVA, questa pronuncia tocca il concetto di inerenza: la Corte ha stabilito che è detraibile l’IVA sull’acquisto di beni strumentali anche se effettuati prima dell’avvio effettivo dell’attività, purché gli acquisti siano “effettivamente inerenti all’attività imprenditoriale complessiva”. Nella vicenda, un immobile acquistato da una start-up era stato dato in locazione a terzi in attesa di avviare la produzione; l’Agenzia negava la detrazione per difetto di inerenza/strumentalità (5 anni di gap). La Cassazione ha invece dato ragione alla società, sottolineando che l’inerenza va valutata sul progetto imprenditoriale: non è necessario che l’attività sia già operativa al momento dell’acquisto, se il bene è funzionale all’organizzazione futura. Questo principio è traslabile anche alle imposte dirette, a sostegno di costi sostenuti in una fase preparatoria.
- Cassazione, Sez. V, ord. 11 marzo 2025 n. 6426 – Antieconomicità e inerenza: costi ammessi se proiezione futura dell’attività. – Caso già citato: l’Agenzia disconosceva costi perché in due anni l’impresa non aveva ricavi. La Cassazione ha respinto la tesi erariale, ribadendo che l’assenza o esiguità di ricavi non implica non inerenza. Ha ricondotto l’inerenza all’art.109 co.5 TUIR e affermato che i costi sono inerenti se riferiti all’oggetto sociale o a utilità per l’impresa, anche solo potenzialmente e in prospettiva futura. Ha però precisato (richiamando Cass. 13588/2018) che nell’ambito delle imposte dirette l’antieconomicità marcata di una spesa può essere sintomo di non inerenza. Questa ordinanza è importante perché fornisce un compendio della giurisprudenza nomofilattica sull’inerenza post-2018, che è decisamente pro-contribuente sulla qualitatività, pur lasciando quello spiraglio per le spese abnormi.
- Cassazione, Sez. V, sent. 12 maggio 2025 n. 12588 – Royalties per marchi non utilizzati: inerenza non esclusa per mancato uso. – Vicenda: una società aveva dedotto costi di royalties su marchi che poi non aveva impiegato; l’ufficio (e i giudici di merito) li avevano disconosciuti perché “non avevano prodotto effetti” (marchi decaduti per non uso). La Cassazione ha cassato la decisione di merito, affermando che la CTR aveva applicato un criterio errato: aveva valutato la spesa in base alla sua utilità concreta, mentre avrebbe dovuto considerarne la riferibilità, anche indiretta o potenziale, all’attività d’impresa. In pratica, la Cassazione ha detto che il fatto che quei marchi non siano stati poi utilizzati non esclude l’inerenza ex ante del costo sostenuto per acquistarne l’uso, se quell’operazione rientrava nelle potenziali strategie d’impresa. La sentenza richiama espressamente il principio che un giudizio ex post di utilità è sbagliato: l’inerenza va valutata ex ante, in base allo scopo perseguito al momento della spesa e alla sua coerenza con l’oggetto sociale. Inoltre, contiene la massima già citata sul non escludere l’inerenza salvo macroscopica antieconomicità. Questo precedente è utile per difendere costi che magari non hanno avuto l’esito sperato (investimenti andati male, tentativi non fruttuosi) ma che all’origine avevano motivo economico lecito.
- Cassazione, Sez. V, ord. 22 maggio 2025 n. 13764 – Documentazione irregolare: costi carburante non deducibili per incertezza del costo. – Anche questa già vista: la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia contro una CTR che aveva dato ragione a un’autotrasportatore per costi carburante. La motivazione della Corte è stata che non era in discussione l’inerenza (il carburante per i camion è inerente per definizione), bensì la certezza e determinabilità del costo, messa in dubbio da fatture incomplete (mancava l’indicazione delle targhe dei mezzi riforniti) e dal fatto che i litri dichiarati non quadravano coi chilometri percorsi. È un monito sul fatto che se la pezza giustificativa ha difetti, la deduzione salta a prescindere dall’inerenza. Come difesa, se abbiamo situazioni simili (documenti non perfetti), possiamo cercare di supplire con altri mezzi (registri interni, schede carburante, ecc.) per convincere i giudici che il costo è comunque reale. Ma se la lacuna documentale è grave, la battaglia è persa in partenza.
- Cassazione, Sez. V, ord. 6 maggio 2024 n. 12081 – Costo fittizio e IVA indetraibile: bene non inerente. – Non trattata sopra, ma merita menzione: riguarda l’ipotesi di operazione inesistente (soggettivamente o oggettivamente). Se il Fisco dimostra che un costo è fittizio (fattura per operazione inesistente) o gonfiato ad arte, chiaramente manca qualsiasi inerenza. Ad esempio, in quell’ordinanza n.12081/2024 (richiamata anche in riviste), la Cassazione affronta un caso di IVA indebitamente detratta su beni non inerenti all’attività e conferma che è corretto negare sia la deduzione del costo sia la detrazione IVA se si prova che l’acquisto era fuori dal perimetro dell’impresa (o che era simulato). È un estremo (evasione conclamata) che esula dalle difese ordinarie, se c’è prova di frode non c’è appello.
- Giurisprudenza di merito: oltre alle pronunce della Cassazione, esistono molte sentenze di Commissioni Tributarie (ora CGT) locali che hanno affrontato specifici casi (es. deducibilità parziale di immobili ad uso promiscuo, ecc.). Se se ne trovano di favorevoli e simili al proprio caso, citarle può aiutare (anche se non vincolano i giudici, mostrano un orientamento). Ad esempio: CTP Milano sent. XYZ/2019 che ha ammesso deduzione 50% spese casa-socio perché uso in parte aziendale; CTR Lombardia 2020 su auto aziendale di lusso dedotta parzialmente. Queste non sono facilmente reperibili in letteratura pubblica, ma se un difensore ne dispone è bene usarle.
In ogni caso, appare chiaro come dal 2018 in poi la Cassazione abbia consolidato una linea interpretativa: inerenza = nesso qualitativo costo/attività, niente test di redditività, salvo costo abnorme come indizio di usi estranei. Questo è ciò che un difensore deve far emergere al giudice di merito, che magari era abituato a ragionamenti più semplicistici (tipo “niente ricavi = non inerente”). Avere le sentenze aggiornate del 2023-2025 da esibire può fare la differenza.
Domande frequenti (FAQ) su accertamenti per costi indeducibili e beni non inerenti
D1: Cosa significa esattamente “bene non inerente” ai fini fiscali?
R: Si tratta di un bene di proprietà dell’azienda (o un bene utilizzato dall’azienda) che non è effettivamente utilizzato nell’attività imprenditoriale o professionale. In altre parole, un bene considerato “non inerente” è un bene estraneo all’esercizio dell’impresa, spesso impiegato per finalità personali dei soci o dell’amministratore e non per produrre reddito d’impresa. Ad esempio, un’auto aziendale usata dal socio per le vacanze, un appartamento intestato alla società ma usato come abitazione privata, una barca di lusso acquistata dalla società ma non collegata all’attività: sono tutti casi di bene non inerente. Se un bene è ritenuto non inerente, il Fisco negherà la deducibilità di tutti i costi relativi (ammortamenti, spese di gestione, manutenzioni, ecc.) e – come da ultimi orientamenti – dovrebbe anche escludere dall’imponibile eventuali ricavi derivanti da tale bene. In sintesi, “non inerente” equivale a dire che quel bene non c’entra nulla con l’impresa e dunque non può influire sul reddito tassabile (né in positivo né in negativo).
D2: Quali sanzioni si rischiano se il Fisco contesta costi indeducibili per difetto di inerenza?
R: In genere, la contestazione di costi indeducibili comporta l’accertamento di un maggior reddito e quindi di maggiori imposte dovute (IRES o IRPEF, più eventuale IRAP se pertinente). Su queste maggiori imposte si applica la sanzione per dichiarazione infedele, salvo che il Fisco configuri ipotesi più gravi. La sanzione per dichiarazione infedele (art. 1, c.2 D.Lgs. 471/97) è pari al 90% della maggior imposta non versata (può salire al 135% se l’imposta evasa supera 3% del dichiarato e 30k €, ma non è comune in questi casi; oppure ridotta a 1/3 se rientra in cause di non punibilità). Dunque se, ad esempio, vengono recuperati 50.000 € di imponibile IRES, imposta 24% = 12.000 €, la sanzione base sarebbe 10.800 € (90%). A questa vanno aggiunti gli interessi di mora (al tasso legale, maturati dal momento in cui l’imposta sarebbe stata dovuta). In casi estremi, se la vicenda configura una frode fiscale – ad esempio costi fittizi per coprire prelievi di utili – potrebbero scattare sanzioni più gravi: amministrative (fino al 200% in caso di fatture false, art. 2 c.3 D.Lgs. 471/97) e persino penali. Il penale tributario però interviene solo se l’imposta evasa supera certe soglie (per dichiarazione fraudolenta o infedele): nel caso di costi fittizi, se l’importo evaso supera €100.000 può configurarsi il reato di dichiarazione fraudolenta (art. 2 D.Lgs. 74/2000) se usate fatture false, oppure dichiarazione infedele (art. 4) se superata soglia €150.000 di imposta evasa. Ma nei casi di “mera inerenza” difficilmente si configura il dolo frodatorio, a meno che non emerga un impianto simulato (come nella vicenda della barca, dove ipotizzarono contratti simulati in frode: lì avrebbero potuto contestare il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). In pratica, per un’azienda media che deduce costi poi ripresi, lo scenario tipico è: pagamento della maggiore imposta + sanzione 90% + interessi. La sanzione può essere ridotta se si definisce l’atto (adesione 1/3, conciliazione 40%, ecc.) oppure in giudizio il giudice può ridurla al minimo (se non lo era) o non applicarla in caso di buona fede. Non ci sono sanzioni penali se non nei casi di abuso macroscopico con dolo.
D3: Il Fisco può sindacare l’importo di un costo dedotto, sostenendo che è troppo alto rispetto all’utilità ottenuta (antieconomicità)?
R: In linea di massima, no, non può. La scelta di quanto spendere per un certo acquisto o investimento è discrezionale dell’imprenditore e il Fisco non può sostituirsi nel valutare la convenienza economica. Finché il costo è vero e attinente all’attività, anche se fosse eccessivo o non necessario, rimane deducibile. La Cassazione lo ha chiarito: “l’inerenza esprime una correlazione qualitativa tra costo e impresa, prescinde da valutazioni di congruità”. Quindi, ad esempio, se un’azienda spende 100.000 € in pubblicità e ottiene pochi clienti, l’Agenzia non può negare la deduzione dicendo “avete speso troppo per ciò che ne è venuto”. Tuttavia, come già spiegato, c’è un’eccezione: se la spesa è talmente abnorme o priva di logica economica da far sospettare che nasconda altro (es. un’utilità personale), allora l’Amministrazione può usarla come indizio di non inerenza e indagare. Ma dovrà provare che quell’antieconomicità è sintomo di estraneità all’impresa, non basta dire “hai speso troppo”. In pratica: la sproporzione può far scattare un approfondimento, ma alla fine la deduzione si può negare solo se si dimostra che la spesa non aveva alcun motivo aziendale (ma un motivo diverso). In assenza di tale dimostrazione, il costo rimane deducibile anche se “alto”. La giurisprudenza recita: “il giudizio quantitativo di incongruità rileva solo se evidenzia che l’operazione è estranea all’impresa”. Quindi è una soglia probatoria alta.
D4: Se un bene aziendale ha ogni tanto un utilizzo personale (es. l’auto aziendale usata saltuariamente dal titolare per scopi privati), si perde del tutto la deducibilità?
R: Non necessariamente. Molto dipende da come viene gestita e documentata questa promiscuità d’uso. Se l’utilizzo personale è occasionale e marginale, in genere non si mette in discussione l’inerenza prevalente del bene: di solito non arrivano neanche a contestarlo se è irrilevante (es. il titolare usa l’auto aziendale per andare in vacanza un weekend l’anno – formalmente non corretto, ma improbabile che scoprano o contestino una tantum così). Se invece l’uso personale è significativo, occorre regolarizzarlo: ad esempio, per le auto, la normativa prevede l’assegnazione in uso promiscuo al dipendente (o amministratore) con tassazione di un fringe benefit e deducibilità al 70%. In quel caso, si mantiene la deducibilità parziale prevista dalla legge e si tassano in capo all’utilizzatore i km personali forfettizzati. Se l’utilizzatore è un socio non dipendente, bisogna fargli pagare un corrispettivo di mercato per l’uso del bene; così il bene non ricade nella fattispecie penalizzante dei “beni a soci” (che richiede uso a prezzo inferiore al mercato). Quindi, per rispondere: se c’è un uso misto, la deducibilità può essere limitata (come per autoveicoli 20% o 70% a seconda dei casi), ma non necessariamente azzerata. Sarà azzerata solo se l’uso personale è tale da far considerare di fatto il bene ad uso esclusivamente privato. Ad esempio, un appartamento che la società affitta ad un socio a canone simbolico: qui l’uso aziendale è nullo e quello personale 100%, quindi i costi sono tutti indeducibili per legge (più scatta la tassazione in capo al socio). Se invece c’è una quota parte di utilizzo aziendale rilevante, in giudizio si può cercare di far riconoscere almeno la deduzione pro-quota. Il consiglio pratico è: se l’imprenditore vuole usare un bene aziendale anche per sé, meglio predisporre contrattualmente una formula (comodato con rimborso spese, fringe benefit, noleggio, ecc.) e seguire le regole fiscali (pagare eventuali tasse su quel benefit). Così il bene rimane (almeno in parte) deducibile e si evita l’accusa di “bene extracontabile”.
D5: Come posso documentare al meglio l’inerenza di un costo, per prevenire o contrastare un accertamento?
R: Ecco alcune buone pratiche di documentazione:
- Narrare il collegamento business: accompagnare ogni spesa significativa con documenti che ne spieghino lo scopo aziendale. Esempio: se acquistate un bene insolito (un’auto di lusso, un’opera d’arte), redigete un verbale interno (CDA o nota) in cui dichiarate l’uso previsto (auto per rappresentanza con i clienti, quadro da esporre in sala riunioni per migliorare l’immagine). Così, in caso di verifica, avete un documento coevo che mostra la finalità imprenditoriale.
- Contratti e policy interne: se un bene aziendale è utilizzato da persone interne, stipulate un contratto. Per un’auto assegnata all’amministratore, fate una delibera che stabilisce l’assegnazione come fringe benefit secondo le norme, oppure un contratto di noleggio tra lui e la società. Per un immobile dato al socio, un contratto di locazione a valore di mercato. Questi atti formalizzano l’uso e ne danno veste regolare.
- Registri di utilizzo: soprattutto per veicoli, tenere un logbook (registro) dei chilometri, con indicate le trasferte lavorative. Oggi con gli strumenti digitali (gps, app) è facile tracciare. Se poi l’Agenzia chiede perché quell’auto ha fatto 10.000 km l’anno e come, potete esibire il registro con date, tragitti e scopi (es. 200 km visita cliente X). Analogo per altri beni: un immobile foresteria – tenere un registro degli ospiti (chi è stato ospitato e perché).
- Documenti giustificativi: collegare la spesa ai ricavi se possibile. Esempio: la spesa di viaggio per un convegno – conservare il programma del convegno e magari i biglietti da visita raccolti (a riprova che era per business). Oppure, avete comprato una barca per eventi marketing – conservate foto degli eventi, brochure, lista invitati, contratti generati dopo l’evento. Più si crea un dossier su ogni asset, più facile difendersi se contestato.
- Consulenze preventive o interpello: se la situazione è borderline, si può anche chiedere un interpello all’Agenzia delle Entrate (ordinario o probatorio ex art.11 L.212/2000) per avere conferma del trattamento fiscale. Non sempre rispondono in modo utile su inerenza (che è molto fattuale), però tentar non nuoce. Oppure farsi fare una consulenza scritta da un esperto prima di dedurre un costo dubbio: se poi viene contestato, esibirete il parere come prova che eravate in buona fede e avevate motivi per ritenere lecito il vostro operato.
- Fatture dettagliate: assicurarsi che le fatture riportino descrizioni chiare. Ad esempio, se una fattura è per “consulenza”, far aggiungere “consulenza di marketing per progetto XY (inerente l’attività…)”. Così non sembrerà generica. E, banalmente, evitare errori formali sulle fatture (vedi il caso delle targhe mancanti) per non dare appigli su aspetti formali.
Tutta questa documentazione sarà preziosa in caso di accertamento: andrete a dimostrare l’inerenza non a chiacchiere ma con pezze d’appoggio.
D6: La mia società immobiliare possiede un appartamento che affitta: posso dedurre le spese di manutenzione e le tasse relative?
R: Dipende dal tipo di immobile e dall’uso. Se è un immobile abitativo (categoria catastale A) detenuto come investimento (dato in affitto o magari sfitto), ricadi in quel regime particolare dell’art. 90 TUIR: i costs relativi all’immobile non sono deducibili dal reddito d’impresa. In pratica, tu dichiarerai un reddito pari al canone di affitto (ridotto forfettariamente del 15% se manutenzioni) e non potrai dedurre né ammortamento, né IMU, né manutenzioni ecc. (oltre quel 15%). Quindi no, non puoi dedurle se è un’abitazione patrimoniale. Se invece l’immobile è strumentale (es. un ufficio, o un capannone industriale), allora i costi li deduci eccome, come qualunque spesa di impresa. A parità di immobile, la differenza la fa la categoria: A/2 o A/3 (abitazioni) seguono art.90 = costi indeducibili; categorie C (negozi, magazzini) o A/10 (uffici) sono strumentali se usati nell’attività e quindi costi deducibili. Nel tuo caso hai detto società immobiliare: se affitta appartamenti, è proprio quell’ambito di art.90. L’unica cosa che puoi dedurre, come accennato prima, sono gli interessi passivi sul mutuo per acquisto: la norma interpretativa del 2007 li ha esclusi dal divieto. Quindi gli interessi li deduci (anche se poi hai il limite generale 30% ROL, ma vabbè), ma tutte le altre spese no. Per completare: se quell’appartamento lo destinassi a ufficio tuo o showroom (quindi cambi la destinazione d’uso di fatto), allora potrebbe diventare strumentale e dedurresti i costi, ma perderesti il regime catasto (dovresti imputare un affitto figurativo se uso promiscuo, insomma complicato). Infine, attenzione: l’IMU comunque non è mai deducibile dal reddito d’impresa per gli immobili abitativi (mentre per quelli strumentali oggi è deducibile al 100% dall’IRES). Quindi su quell’appartamento l’IMU resta un costo fuori dal reddito (anche se è a bilancio, è indeducibile extracontabilmente).
D7: La società mi ha concesso l’uso personale di un bene (auto, casa, etc.) ma io pago un certo importo per questo utilizzo: in tal caso la società può dedurre i costi?
R: Se il corrispettivo che tu paghi è almeno pari al valore di mercato del diritto di godimento, allora sì, la società può dedurre i costi, in quanto non si applica la penalizzazione dei “beni concessi in godimento” (che richiede appunto un corrispettivo inferiore al valore normale). In pratica, se paghi a prezzo pieno, è come se la società ti stesse vendendo/affittando il bene a condizioni di mercato: i ricavi che ottiene sono tassati e i costi inerenti restano deducibili. Facciamo un esempio: la società ti fa usare un’auto aziendale chiedendoti 500 € al mese, che è circa il valore di mercato del noleggio di quell’auto. In tal caso, la società dichiarerà quei 500€ come ricavo (noleggio auto) e potrà dedurre tutti i costi auto (ammortamento, carburante, assicurazione) senza incorrere nel blocco. Tu non hai redditi diversi tassati (perché paghi già il valore normale). Diverso se paghi poco o nulla: poniamo paghi 100€ simbolici al mese per un’auto che ne varrebbe 500. Allora scatta la norma: la differenza (400€ al mese) per te è reddito diverso, e tutti i costi auto per la società diventano indeducibili. Dunque, per evitare problemi, è fondamentale che il corrispettivo sia allineato al valore di mercato. Come determinare questo valore? Ci sono i parametri dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) per gli affitti di case, o le tabelle ACI per l’uso auto (fringe benefit standard). Ad esempio, se dai in uso l’auto a un amministratore e vuoi farlo a valore normale, puoi prendere come riferimento il fringe benefit fiscale annuo (che l’agenzia calcola su 15mila km). Se gli fai pagare quello importo, dovresti essere a posto. Analogamente per un immobile: guardi affitti di mercato in zona e applichi quello. Attenzione: devi formalizzare il tutto con un contratto scritto e fatturare/certificare i corrispettivi (es. l’amministratore ti paga l’uso auto, la società dovrebbe emettere fattura di locazione senza IVA se è bene aziendale con regime particolari, ma insomma registrare incasso). Se fai tutto correttamente, in caso di controllo l’ufficio non applicherà la pesante norma anti-elusiva e tratterà il bene come “a valore di mercato” quindi senza penalizzazioni. In breve: sì, pagare l’uso aiuta la società a dedurre i costi, ma solo se il pagamento è adeguato (e ovviamente tracciabile, non in nero!).
D8: In caso di verifica, l’onere della prova di dimostrare che un costo non è inerente spetta al Fisco o a me contribuente?
R: C’è una sorta di doppio binario: in linea generale, quando si tratta di componenti negativi dedotti, il contribuente deve poter dimostrare di averne diritto (principio di autodeterminazione dell’imposta in dichiarazione). Quindi inizialmente sei tu che devi aver tenuto documenti e elementi a supporto dell’inerenza. Tuttavia, l’Ufficio, per emettere un accertamento, deve avere a sua volta un minimo di elementi per contestare; non può dire “non mi convince, quindi aggiungo reddito” senza niente in mano. In giudizio, si può dire che spetta al contribuente provare i fatti costitutivi (esistenza del costo e legame con attività), ma se lui lo fa (presenta fatture e spiega l’uso), allora l’onere passa sull’Ufficio di dimostrare eventuali fatti contrari (ad esempio, che quell’uso è falso, o che il bene in realtà serviva ad altro). Secondo la Cassazione: “è onere del contribuente provare l’inerenza (esistenza, natura e destinazione alla produzione); una volta fornita tale prova, un’eventuale antieconomicità macroscopica va dimostrata dall’Amministrazione”. Insomma, tu devi predisporti per primo con le prove a favore; se lo fai, l’Agenzia per vincere dovrà smontarle con sue prove. Se tu non fornisci nulla, è probabile che vinca l’Ufficio in quanto la mancanza di prova a tuo favore avvalora la sua tesi. Quindi in pratica: l’onere iniziale è tuo, poi diventa dell’ufficio se tu l’hai soddisfatto. Ad esempio, se deduci spese di “consulenza” e arrivano i verificatori, devi mostrare i contratti, relazioni, output di quella consulenza per provarne l’inerenza; se presenti tutto e loro vogliono comunque negarla, dovranno trovare argomenti forti (tipo: la consulenza in realtà era per questioni personali del socio – e dovrebbero provarlo).
D9: Ho perso in primo grado contro l’Agenzia, il giudice ha dato ragione sul difetto di inerenza. Mi conviene fare appello/ricorso in Cassazione?
R: Dipende da vari fattori: l’importo in gioco, la solidità delle tue ragioni giuridiche e probatorie, e cosa è emerso in primo grado. Se parliamo di somme elevate e ritieni che il giudice di primo grado abbia ignorato prove o sbagliato diritto, certamente conviene proseguire in appello. Le Corti di secondo grado rivalutano tutto e spesso sono più tecniche su certe questioni. In materia di inerenza, molte sentenze di primo grado sfavorevoli sono state ribaltate in appello o Cassazione negli ultimi anni, proprio alla luce degli orientamenti più aggiornati. Per esempio, se il giudice di primo grado ha deciso applicando un concetto superato (tipo “manca correlazione costi-ricavi ergo non inerente”), in appello potrai far valere la giurisprudenza di Cassazione recente che smentisce quel criterio. Se però in primo grado è emerso un fatto negativo (es: è saltato fuori che l’amministratore usava l’immobile come residenza senza contratto) e su quello c’è poco da fare, l’appello rischia di confermare la sostanza. In Cassazione poi potrai solo far valere violazioni di legge o vizi di motivazione, non rivedere i fatti. Quindi: sì all’appello se ritieni che il giudice non abbia valutato correttamente documenti o norme; e sì alla Cassazione se c’è un principio di diritto da far valere (es: la CTR ti dà torto ignorando un principio di Cassazione consolidato – in Cassazione vinceresti quasi certo). In caso contrario (questioni fattuali sfavorevoli, importo modesto, costi legali alti rispetto al beneficio), può convenire chiudere magari aderendo a una definizione agevolata se il legislatore ne offre (es. pace fiscale). Da notare: nel 2023 c’è stata la possibilità di definizione liti pendenti con pagamento ridotto. Se ricapiterà, farci un pensiero. Infine, considera anche il rischio spese legali: se perdi anche in appello, paghi le spese del secondo grado all’Agenzia; idem in Cassazione. Se il trend giurisprudenziale è a tuo favore, comunque, spesso l’Agenzia stessa rinuncia in Cassazione o perde (vedi i casi discussi). Dunque, valuta con un legale esperto che esamini la sentenza di primo grado e ti dica le chance. Spesso i secondi gradi sono vinti dai contribuenti sulle questioni di inerenza, specie dopo le aperture giurisprudenziali.
D10: Come incide la recente riforma della Giustizia Tributaria (2023) su queste cause?
R: Dal punto di vista dei giudici e del processo, la riforma (L. 130/2022 e decreti attuativi) ha portato alcune novità: giudici tributari professionali (non più solo togati part-time), possibilità di prova testimoniale scritta (ma con molti limiti), e come detto eliminazione reclamo obbligatorio. Sul merito di inerenza, nulla è cambiato nelle norme sostanziali. Quello che potresti notare è che i nuovi giudici (Corti di Giustizia Tributaria, CGT) potrebbero essere più preparati e attenti ai precedenti di Cassazione, essendo la riforma mirata a migliorare la qualità delle sentenze. Questo in teoria avvantaggia chi ha buone argomentazioni di diritto (come gli orientamenti Cassazione pro-contribuente). Quindi sperabilmente meno decisioni “semplicistiche” di merito e più adesione alla giurisprudenza di legittimità. Altra novità: in Cassazione, ora, per ricorsi notificati dal 16/9/2022 in poi, c’è il rinvio preliminare alla Sezione Consultiva per la Giustizia Tributaria su questioni nuove o particolarmente importanti (art. 363-bis c.p.c. introdotto). L’interpretazione del concetto di inerenza è abbastanza consolidata, quindi non credo avremo rinvii su questo tema, ma mai dire mai se emergesse un contrasto. Per il resto, la riforma ha velocizzato un po’ i tempi e reso il processo digitale. Per te come parte, cambia poco se non che il linguaggio delle sentenze potrebbe evolvere.
In sostanza, la riforma non incide sui criteri con cui valutare inerenza o deducibilità; incide sulle procedure (niente mediazione obbligatoria – quindi ricorso immediato anche per importi bassi) e sulla professionalità dei giudici (auspicabilmente più uniformità con la Cassazione).
Conclusioni
Difendersi con successo da un avviso di accertamento che contesta costi indeducibili per difetto di inerenza richiede un mix di conoscenza tecnica, preparazione documentale e strategia processuale. In questa guida abbiamo approfondito il quadro normativo e giurisprudenziale attuale – a luglio 2025 – evidenziando come la giurisprudenza abbia ormai chiarito che l’inerenza va intesa come legame qualitativo del costo all’attività d’impresa, senza arbitrarie valutazioni di convenienza economica. Abbiamo anche visto che l’Amministrazione dispone di strumenti anti-abuso (come la disciplina sui beni concessi ai soci) per i casi palesi di utilizzo personale di beni sociali, ma al contempo il contribuente ha possibilità di tutela se mantiene comportamenti trasparenti e può dimostrare la validità imprenditoriale delle proprie scelte.
Il punto di vista del debitore (contribuente), adottato in questa trattazione, ci ha portati a enfatizzare gli aspetti difensivi: dall’importanza di colmare l’onere probatorio con evidenze concrete, alla necessità di far valere i più recenti orientamenti giurisprudenziali che gli sono favorevoli, senza dimenticare gli istituti deflattivi e le attenuanti sulle sanzioni.
In conclusione, di fronte a una contestazione di questo tipo, è bene:
- Agire tempestivamente, valutando le opzioni di adesione o definizione se il caso è debole, oppure preparando un ricorso solido se si hanno buone ragioni.
- Raccogliere tutta la documentazione utile a dimostrare l’uso aziendale dei beni contestati e la ragionevolezza (non fraudolenta) delle operazioni effettuate.
- Invocare la giurisprudenza di legittimità recente, che è un alleato prezioso per contrastare interpretazioni rigide o superate del concetto di inerenza.
- Analizzare criticamente l’atto impugnato per scovare eventuali vizi formali o incongruenze (es. motivazione insufficiente, mancata esclusione di ricavi correlati) da utilizzare a proprio favore.
- Valutare accordi con l’Ufficio quando possibile (conciliazioni, ecc.) per ridurre l’impatto in caso di incertezza sull’esito.
- Mantenere un approccio coerente e trasparente: se un bene è borderline, meglio dichiarare qualcosa in più (un ricavo figurativo, un fringe benefit) che farsi trovare con scheletri nell’armadio. Spesso ciò che viene punito è l’occultamento, più che l’utilizzo in sé.
Affrontare un accertamento fiscale è sempre stressante, ma con una preparazione adeguata – supportata anche dai professionisti del settore (avvocati tributaristi, commercialisti) – il contribuente ha buone chance di far valere le proprie ragioni o quantomeno di mitigare le conseguenze. I casi commentati mostrano che la difesa può vincere, soprattutto quando l’Ufficio è andato oltre i limiti (magari tassando ricavi ma negando costi, o pretendendo utilità impossibili). D’altronde, il nostro ordinamento mira a tassare il reddito effettivo dell’impresa, e se un costo è genuinamente sostenuto per l’impresa, nella maggior parte dei casi esistono gli strumenti giuridici per ottenerne il riconoscimento.
Nota: tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate nella guida sono riportate nella sezione seguente, per ulteriore approfondimento. È sempre consigliabile consultare direttamente testi di legge e sentenze integrali, specie in un ambito in evoluzione come quello tributario, in modo da cogliere tutte le sfumature utili al proprio caso concreto.
Fonti e riferimenti
- Cass., Sez. Trib., sent. n. 4365/2023 (dep. 13/02/2023): conferma indeducibilità costi di un’imbarcazione per difetto di inerenza e statuisce l’esclusione dei correlativi ricavi dal reddito d’impresa.
- Cass., Sez. V, sent. n. 11791/2024 (ud. 03/05/2024): principio di diritto: il limite forfettario 20% di deducibilità costi auto (art.164 TUIR) vale per IRES ma non per IRAP, la cui base imponibile segue regole proprie (art.5 D.Lgs.446/1997).
- Cass., Sez. V, ord. n. 13764/2025 (dep. 22/05/2025): accoglie ricorso Agenzia: la mancanza in fattura della targa del veicolo e l’incongruenza tra litri carburante e km percorsi incidono sulla certezza del costo, rendendolo indeducibile (pur essendo inerente in astratto).
- Cass., Sez. V, ord. n. 6426/2025 (dep. 11/03/2025): ribadisce che “l’inerenza non è nesso costo-ricavo, ma correlazione costo-attività d’impresa, anche solo in proiezione futura, senza necessità di riscontro utilitaristico”; afferma che l’antieconomicità quantitativa può costituire sintomo di non inerenza solo se indica estraneità all’oggetto sociale.
- Cass., Sez. V, sent. n. 12588/2025 (dep. 12/05/2025): chiarisce che il giudice di merito ha errato escludendo l’inerenza di costi di royalties per marchi non utilizzati; richiamati principi: onere contribuente provare fatti costitutivi del costo e sua destinazione produttiva; in tema IVA l’inerenza non si esclude per mancanza di utilità salvo prova di macroscopica antieconomicità come indizio di estraneità; criticato l’approccio utilitaristico della CTR (“ha valutato l’utilità derivata anziché la riferibilità, anche indiretta o futura, all’attività d’impresa”).
- Cass., Sez. V, ord. n. 22664/2024 (dep. 12/08/2024): riconosce il diritto a detrazione IVA per acquisto di un opificio industriale effettuato 5 anni prima dell’avvio attività, poi temporaneamente locato a terzi; afferma che l’inerenza/strumentalità va valutata sull’intera attività d’impresa, non è richiesto uso immediato, purché il bene sia destinato all’attività economica futura (esclusi solo acquisti chiaramente estranei).
- Agenzia Entrate – Circolare n. 36/E del 24/09/2012, “Beni concessi in godimento a soci o familiari” – (Chiarimenti su art. 2, commi 36-terdecies ss. DL 138/2011: per il concedente, i costi relativi ai beni concessi a soci/familiari a corrispettivo inferiore al valore normale sono indeducibili dal reddito imponibile; introdotto obbligo di comunicazione).
- Art. 2, commi 36-terdecies – 36-duodevicies, D.L. 13/08/2011 n. 138 (conv. L. 148/2011): disciplina anti-elusiva beni d’impresa a soci/familiari: tassazione beneficio in capo al utilizzatore (differenza canone di mercato – corrisposto) e indeducibilità in ogni caso dei relativi costi per la società concedente.
- D.P.R. 22/12/1986 n. 917 (TUIR), art. 109, c.5: principio generale di correlazione costi/redditi d’impresa (costi deducibili se si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi/proventi che concorrono al reddito); art. 90, cc.1-2: determinazione reddito d’impresa per immobili patrimonio (immobili non strumentali: redditi fondiari in capo alla società, costi indeducibili afferenti tali immobili); art. 164: limitazioni spese autoveicoli (deducibilità 20% per autovetture non strumentali, 70% se assegnate a dipendenti, ecc.).
- D.Lgs. 31/12/1992 n. 546, art. 17-bis (introdotto dal DL 98/2011, abrogato dal D.Lgs. 130/2022): disciplina del reclamo e mediazione tributaria obbligatori per liti fino a €50.000 (abrogati dal 2024); art. 47: sospensione provvisoria dell’atto impugnato; art. 48 e 48-bis: conciliazione giudiziale (riduzione sanzioni 40%/50%).
- MEF – Comunicato Stampa 4 gennaio 2024: annuncia la fine dell’istituto del reclamo-mediazione tributaria dal 1° gennaio 2024 in attuazione della riforma (Delega Fiscale L. 111/2023).
- D.Lgs. 18/12/1997 n. 472, art. 17, c.2: definizione agevolata delle sanzioni amministrative tributarie mediante pagamento di 1/3 entro il termine di ricorso (consente di contestare solo le imposte in sede giurisdizionale); art. 6, c.2: esclusione sanzioni se violazione dovuta a obiettive condizioni di incertezza normativa.
- D.Lgs. 19/06/1997 n. 218, art. 6-8: disciplina dell’accertamento con adesione (istanza, sospensione termini, sanzioni ridotte a 1/3); art. 15: acquiescenza (sanzioni ridotte 1/3 in caso di pagamento entro 60gg).
- Altri riferimenti giurisprudenziali citati: Cass. 18904/2018 e Cass. 13882/2018 (inerenza qualitativa e potenzialità futura); Cass. 13588/2018 (antieconomicità come sintomo di non inerenza); Cass. 450/2018 (nesso costo-attività, no nesso utilità); Cass. 23164/2017 (inerenza riferita a oggetto sociale, utilità obiettivamente determinabile).
- Normativa secondaria: Circolare Agenzia Entrate n. 47/E del 18/06/2008 (chiarimenti su interessi passivi relativi a immobili ex art.90 TUIR); Circolare AE n. 25/E del 19/06/2012 (chiarimenti su termine definizione sanzioni in caso di adesione, citata in Fiscal Focus).
- Testo di legge di riferimento: Statuto del Contribuente (L. 212/2000) – art. 12 c.7 (termine 60gg per osservazioni contribuente prima di accertamento, se verifica in loco), art. 10 (tutela affidamento e buona fede), eventualmente invocabili in difesa qualora pertinenti.
Avviso di Accertamento per Costi Indeducibili e Bene Non Inerente: Come Difendersi
Hai ricevuto un avviso di accertamento in cui l’Agenzia delle Entrate contesta la deducibilità di alcuni costi o ritiene non inerente un bene acquistato dalla tua attività?
Queste contestazioni sono frequenti nei confronti di professionisti, imprese individuali e società, e si basano sull’idea che una spesa non abbia un collegamento diretto con l’attività economica svolta. Ma non tutte le valutazioni del Fisco sono corrette: con una difesa tecnica e mirata puoi difendere la deducibilità dei costi sostenuti.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza l’avviso ricevuto, la motivazione dell’accertamento e la documentazione contabile
- 📌 Valuta l’inerenza delle spese contestate in base alla normativa e alla giurisprudenza
- ✍️ Redige memorie difensive o istanze di autotutela per bloccare o ridurre l’atto
- ⚖️ Ti rappresenta nel ricorso contro l’Agenzia delle Entrate davanti alla Corte di Giustizia Tributaria
- 🔁 Ti assiste anche nella definizione agevolata, nel pagamento rateale o nella gestione di eventuali sanzioni residue
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e contenzioso fiscale
- ✔️ Specializzato nella difesa da accertamenti per costi indeducibili e beni non inerenti
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Le contestazioni su spese non deducibili o beni ritenuti non inerenti possono avere un impatto pesante sul piano fiscale e patrimoniale. Ma con una strategia difensiva ben costruita puoi dimostrare la reale inerenza e tutelare i tuoi diritti.
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