Accertamento Inps Contributi Non Versati: Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento dall’INPS per contributi non versati?
Ti contestano il mancato pagamento di contributi previdenziali come lavoratore autonomo, artigiano, commerciante, professionista o socio d’impresa? In questi casi è fondamentale capire se l’obbligo contributivo sussiste davvero, se gli importi richiesti sono corretti e come difendersi per evitare sanzioni, iscrizioni a ruolo e pignoramenti.

Quando può arrivare un accertamento INPS per contributi non versati?
– Se hai aperto una partita IVA e sei stato iscritto d’ufficio alla gestione artigiani o commercianti
– Se hai svolto un’attività anche occasionale ma riconducibile a un’attività abituale e professionale
– Se sei stato amministratore o socio di società e ti viene contestato un obbligo contributivo alla Gestione Separata
– Se non hai versato i contributi minimi obbligatori o hai presentato la dichiarazione fiscale senza calcolare i dovuti contributi previdenziali
– Se ci sono state denunce o segnalazioni incrociate con Agenzia delle Entrate, INAIL o altri enti

Cosa può contenere un accertamento INPS o un avviso di addebito?
– L’indicazione degli importi richiesti per contributi, sanzioni e interessi
– Il dettaglio degli anni contestati e della gestione interessata (artigiani, commercianti, Gestione Separata)
– Il riferimento all’attività da cui deriverebbe l’obbligo contributivo
– L’invito a pagare entro un termine preciso, pena iscrizione a ruolo e avvio della riscossione forzata
– Le istruzioni per presentare memorie difensive, istanze di riesame o ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria

Come puoi difenderti da un accertamento INPS per contributi non versati?
– Verifica se l’attività contestata era effettivamente svolta o se sei stato iscritto d’ufficio in modo errato
– Controlla se avevi già cessato l’attività, ma la chiusura non è stata recepita dall’INPS
– Se sei stato titolare solo formalmente di un’attività, dimostra di non aver percepito reddito e di non aver avuto alcun ruolo operativo
– Se l’obbligo è presunto e non fondato, presenta una memoria difensiva ben documentata
– Se il debito è reale ma non puoi pagare, valuta una rateizzazione, un saldo e stralcio, o l’accesso alla procedura da sovraindebitamento
– Se l’avviso è illegittimo o prescritto, puoi presentare ricorso e chiedere l’annullamento

Cosa puoi ottenere con la giusta strategia?
– L’annullamento del debito, se dimostri che l’obbligo contributivo non sussiste o è stato prescritto
– La riduzione dell’importo dovuto, se contesti la base imponibile o le annualità
– La sospensione delle azioni esecutive, se presenti ricorso o richiesta motivata
– La rateizzazione del debito, per evitare blocchi dei conti, pignoramenti o iscrizioni ipotecarie
– La tutela della tua posizione previdenziale, evitando danni futuri anche sul piano pensionistico

Attenzione: molti accertamenti INPS derivano da automatismi, iscrizioni d’ufficio o presunzioni errate. Ma anche in presenza di un debito reale, è possibile difendersi, trattare e regolarizzare la situazione in modo sostenibile.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contributi previdenziali, contenzioso con l’INPS e difesa del contribuente ti spiega cosa fare in caso di accertamento per contributi non versati, come opporsi e come proteggere il tuo reddito e il tuo patrimonio.

Hai ricevuto un avviso di addebito o un accertamento per contributi non versati all’INPS?
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Introduzione

Ricevere una richiesta dall’INPS per contributi previdenziali non versati può risultare un evento assai preoccupante, sia per imprenditori che per professionisti o privati. L’“accertamento” dell’INPS sui contributi omessi si concretizza tipicamente in atti formali – come l’avviso di addebito immediatamente esecutivo – con cui l’Istituto reclama somme dovute a titolo di contributi previdenziali o assistenziali non pagati. Dal 1° gennaio 2011, l’avviso di addebito INPS ha infatti sostituito la cartella esattoriale quale strumento di riscossione dei crediti contributivi, divenendo fin da subito un titolo esecutivo che consente all’INPS (per il tramite dell’Agente della Riscossione) di avviare fermo amministrativo, ipoteca o pignoramento senza bisogno di un previo decreto ingiuntivo. Ciò rende evidente come, una volta notificato un simile atto, i tempi per reagire siano stringenti e le procedure complesse.

Dal punto di vista del debitore, è fondamentale conoscere come difendersi: valutare se l’atto inviato dall’INPS sia legittimo, se la pretesa contributiva sia fondata e attuale, e quali strumenti giuridici possono essere utilizzati per opporsi o regolarizzare la propria posizione. La normativa previdenziale italiana – tra leggi, regolamenti e circolari – delinea un quadro articolato, arricchito da una giurisprudenza recente molto significativa. In questa guida (aggiornata a luglio 2025) esamineremo in dettaglio tutti gli aspetti rilevanti: dal procedimento di accertamento e riscossione dei contributi omessi, alle cause di nullità degli atti (vizi formali e sostanziali), dai termini di decadenza e prescrizione alle modalità per impugnare efficacemente un avviso INPS dinanzi al giudice. Saranno illustrate le soluzioni difensive – sia amministrative che giudiziarie – con riferimento a norme vigenti e pronunce giurisprudenziali aggiornate. Non mancheranno tabelle riepilogative dei principali termini e rimedi, esempi pratici di situazioni comuni e una sezione finale di domande e risposte per chiarire i dubbi più frequenti. Il taglio dell’esposizione sarà giuridico ma divulgativo, di livello avanzato: adatto sia a professionisti legali (avvocati, consulenti del lavoro) sia ai debitori stessi (imprenditori o privati cittadini) che vogliano comprendere a fondo la materia e tutelare al meglio i propri diritti.

1. Obblighi contributivi e conseguenze dell’omissione: quadro normativo

Prima di analizzare come difendersi, occorre inquadrare il contesto normativo degli obblighi contributivi e capire cosa accade quando tali contributi non vengono versati. In Italia, il versamento dei contributi previdenziali obbligatori (all’INPS per la generalità dei lavoratori dipendenti, autonomi e iscritti a Gestioni speciali, nonché all’INAIL per i premi assicurativi obbligatori contro gli infortuni) è sancito dalla legge. Ad esempio, l’art. 2115 c.c. impone al datore di lavoro il pagamento dei contributi agli enti previdenziali, e svariate leggi speciali (come il D.lgs. 9 luglio 1997 n.241 e successive modifiche) disciplinano modalità e scadenze.

In caso di mancato versamento, la legge prevede una serie di conseguenze e strumenti di tutela per l’ente previdenziale:

  • Sanzioni civili e interessi: sul debitore gravano sanzioni per omesso o ritardato pagamento (c.d. sanzioni civili), consistenti in somme aggiuntive calcolate in percentuale sull’importo dovuto e crescenti col ritardo, oltre agli interessi di mora dovuti per legge. Tali somme possono aumentare sensibilmente l’ammontare del debito contributivo.
  • Iscrizione a ruolo ed esecuzione forzata: l’INPS ha facoltà di iscrivere i crediti contributivi a ruolo affidandoli all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) per il recupero coattivo. Dal 2011, come anticipato, l’iscrizione a ruolo avviene tramite l’emissione del Avviso di Addebito immediatamente esecutivo, che ha valore di titolo esecutivo e sostituisce la cartella esattoriale. Trascorsi i termini di legge, l’Agente potrà attivare procedure esecutive sul patrimonio del debitore (pignoramenti, fermi amministrativi, ipoteche – si veda §6).
  • Sanzioni penali in casi specifici: l’ordinamento punisce penalmente solo l’omesso versamento di talune tipologie di contributi entro certi limiti. In particolare, l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti (quindi la quota trattenuta al lavoratore) eccedenti €10.000 annui integra reato contravvenzionale (art. 2, co. 1-bis D.L. 463/1983, conv. in L. 638/1983), mentre per importi fino a €10.000 annui costituisce illecito amministrativo sanzionato pecuniariamente. Attenzione: il datore di lavoro che si trovi in tale situazione può evitare conseguenze penali provvedendo al pagamento entro i termini di legge (normalmente entro 3 mesi dall’accertamento); in caso contrario, rischia l’arresto fino a 3 anni o l’ammenda. È bene precisare però che la gran parte delle omissioni contributive (es. mancato versamento della quota a carico del datore o contributi di artigiani, commercianti, gestione separata) non rileva penalmente, ma solo sul piano civile ed amministrativo.

In sintesi, la legge riconosce all’INPS poteri incisivi per recuperare i contributi non versati, nell’interesse pubblico alla tutela delle future prestazioni pensionistiche e assistenziali. D’altro canto, pone anche dei limiti temporali all’azione di recupero: gli strumenti come la decadenza dai termini di notifica degli atti e la prescrizione dei crediti contributivi (di cui diremo dettagliatamente più avanti, §3) servono ad assicurare certezza nei rapporti e tutelare il debitore da pretese tardive. Orientarsi in questo complesso di norme è fondamentale per impostare una strategia difensiva efficace.

2. Procedimento di accertamento e riscossione dei contributi omessi

L’iter che porta un credito contributivo dall’inadempimento iniziale fino all’esecuzione forzata si articola in più fasi. Comprendere queste fasi – e gli atti che l’INPS adotta in ciascuna di esse – è il primo passo per sapere quando e come è possibile intervenire a propria difesa. Vediamo dunque il procedimento tipico di accertamento e riscossione dei contributi non versati.

2.1 Verifica, invito al pagamento e avviso bonario

Il punto di partenza è, naturalmente, l’omesso versamento di contributi dovuti. Ciò può avvenire in diverse situazioni, ad esempio: un datore di lavoro che non versa i contributi dovuti per i propri dipendenti entro le scadenze; un lavoratore autonomo o titolare di ditta individuale che non paga i contributi alla gestione di appartenenza; oppure contributi evasi emersi a seguito di un’ispezione sul lavoro “in nero” o su irregolarità contributive.

Come viene rilevata l’omissione? L’INPS dispone di banche dati e flussi di comunicazione obbligatori (UniEMens, DM10, dichiarazioni dei redditi, ecc.) che gli consentono di individuare discrepanze tra il dovuto e il versato. Inoltre, attraverso l’Ispettorato del Lavoro e i propri funzionari, possono essere effettuati accertamenti ispettivi nelle aziende e verifiche incrociate con i dati fiscali dell’Agenzia delle Entrate. Quando emerge un mancato pagamento, la prassi prevede innanzitutto un primo sollecito verso il debitore: spesso si tratta di un avviso o invito bonario (comunicazione di irregolarità).

L’avviso bonario è una comunicazione preliminare con cui l’INPS informa il contribuente dell’omissione e lo invita a regolarizzare entro un termine (di solito 30 giorni) evitando così conseguenze più gravi. Ad esempio, in ambito fiscale un avviso bonario precede l’iscrizione a ruolo; analogamente l’INPS, prima di emettere l’avviso di addebito esecutivo, “può richiedere il pagamento mediante avviso bonario” in caso di contribuzione omessa ma già denunciata dal contribuente stesso. In sostanza, l’INPS comunica l’importo dovuto (comprensivo di interessi e sanzioni ridotte) e avverte che, in caso di mancato pagamento entro il termine indicato, seguirà l’emissione dell’avviso di addebito. Si tratta di un importante strumento deflattivo del contenzioso: pagando subito, il debitore evita l’aggravio di spese successive e l’avvio di procedure esecutive. Viceversa, la mancata adesione all’avviso bonario comporta l’iscrizione a ruolo del debito contributivo e l’affidamento all’Agente della Riscossione.

Va precisato che non sempre l’INPS invia un avviso bonario: questo passaggio è tipico quando il contribuente ha dichiarato gli importi ma non li ha versati (omissione da liquidazione). In altri casi – ad esempio omissioni accertate d’ufficio o da ispezioni – il primo atto formale può essere direttamente il verbale o la diffida accertativa di cui diremo a breve. In ogni caso, se è stato inviato un invito bonario e il debitore non paga entro il termine, l’INPS passerà alla fase successiva (avviso di addebito). È utile sapere che un avviso bonario ben dettagliato (con indicazione del periodo, importi e causali) costituisce già un atto interruttivo della prescrizione ai sensi dell’art. 24 D.lgs. 46/1999, purché rechi tutti gli elementi del credito.

Accertamenti ispettivi e diffida – Quando il mancato versamento emerge da un’attività ispettiva o da un controllo d’ufficio (ad esempio contributi evasi su lavoro irregolare, o differenze contributive rilevate su salari non dichiarati), l’INPS adotta un procedimento leggermente diverso. In tali ipotesi, viene redatto un verbale di accertamento che quantifica i contributi dovuti. Al termine dell’accertamento, l’Istituto notifica al datore di lavoro inadempiente una lettera di diffida a pagare i contributi evasi. Secondo le disposizioni vigenti, al contribuente viene intimato di adempiere entro 90 giorni dalla notifica dell’atto di accertamento o diffida. Questo intervallo di 90 giorni costituisce una sorta di “ultima chiamata” prima dell’iscrizione a ruolo: se il pagamento non avviene nei termini, l’INPS procederà ad emettere l’avviso di addebito esecutivo. Anche questa diffida, dunque, è un passaggio pre-contenzioso fondamentale (ed anch’essa rilevante per la decorrenza dei termini di impugnazione e di prescrizione).

Riassumendo, nella fase pre-ruolo il debitore potrebbe ricevere:

  • Un invito o avviso bonario (per omissioni dichiarate): non obbligatorio per legge in ogni caso, ma previsto come prassi; non è impugnabile come atto autonomo, ma pagando entro il termine indicato si beneficia di sanzioni ridotte e si blocca sul nascere la procedura.
  • Un verbale di accertamento e diffida (per omissioni accertate dall’INPS o da altri enti ispettivi): atto che quantifica il dovuto e dà 90 giorni per pagare. In genere, se si ritiene infondato l’accertamento, si potrà successivamente impugnarne gli effetti insieme all’avviso di addebito che verrà emesso (talora è possibile presentare osservazioni o memorie in sede amministrativa all’INPS prima che scada il termine, ma ciò non sospende il decorso).

Tabella 1 – Avviso bonario vs. Diffida accertativa: caratteristiche principali

Atto preliminareQuando viene emessoContenutoEffetti per il debitore
Avviso bonario INPSOmesso versamento di contributi dichiarati ma non pagati (omissione da liquidazione); casi di mancato pagamento spontaneo entro le scadenze.Importo dovuto (capitale + interessi/sanzioni ridotte); invito a pagare entro ~30 gg per evitare conseguenze.Facoltativo (previsto da prassi interna). Se si paga entro il termine: nessun ulteriore atto, sanzioni ridotte. Se non si paga: si passa all’iscrizione a ruolo (avviso di addebito esecutivo). L’avviso bonario, se completo, interrompe la prescrizione.
Verbale di accertamento con diffidaOmesso versamento di contributi accertati d’ufficio o tramite ispezione (es. contributi evasi su lavoro irregolare; differenze contributive emerse ex post).Descrizione dell’accertamento (periodi, lavoratori, importi evasi) e diffida a pagare entro 90 gg dal ricevimento.Obbligatorio in caso di accertamento ispettivo. Se si paga entro 90 gg: la posizione viene regolarizzata (eventuali sanzioni civili possono essere ridotte in base al tempestivo adempimento). Se non si paga: emissione dell’avviso di addebito esecutivo decorso il termine di legge (ulteriori 60 gg per pagare dall’avviso). La diffida interrompe la prescrizione.

2.2 Avviso di Addebito INPS immediatamente esecutivo

L’avviso di addebito è l’atto cardine attraverso cui l’INPS iscrive a ruolo i contributi non versati e ne avvia la riscossione coattiva. Come anticipato, a partire dal 2011 questo strumento ha sostituito la cartella esattoriale tradizionale per i crediti previdenziali, in forza dell’art. 30 del D.L. 78/2010 (conv. in L. 122/2010). Si tratta dunque di un atto amministrativo emesso dall’INPS, che tuttavia ha efficacia di titolo esecutivo al pari di una sentenza o di un decreto ingiuntivo definitivo. Analizziamone le caratteristiche principali:

  • Contenuto obbligatorio – L’avviso di addebito deve indicare in modo dettagliato tutti gli elementi essenziali del credito. In base alla normativa (art. 30 co. 1 D.L. 78/2010 e disciplina collegata) esso deve contenere, a pena di nullità: il codice fiscale del soggetto tenuto al pagamento; il periodo di riferimento del credito; la causale (tipo di contributo o premio dovuto); gli importi addebitati con distinzione tra quota capitale, sanzioni e interessi eventualmente dovuti; l’indicazione dell’Agente della Riscossione competente in base al domicilio fiscale del debitore; la data di formazione dell’avviso. Inoltre, deve riportare l’intimazione ad adempiere il pagamento entro 60 giorni dalla notifica e l’avvertimento che, in mancanza, l’Agente indicato procederà ad esecuzione forzata con i poteri e le modalità previste per la riscossione a mezzo ruolo. Non ultimo, l’avviso deve essere sottoscritto (anche con firma elettronica) dal responsabile dell’ufficio INPS che lo emette, e contenere l’indicazione del responsabile del procedimento (in applicazione della L. 241/1990 sul procedimento amministrativo).
  • Notifica – L’avviso di addebito viene notificato dall’INPS al debitore secondo le procedure previste per gli atti della riscossione. In via prioritaria la notifica avviene tramite Posta Elettronica Certificata (PEC) all’indirizzo risultante dai registri ufficiali (per imprese e professionisti); in mancanza, può essere eseguita tramite messi comunali o agenti di polizia municipale, oppure mediante invio di raccomandata A/R. La notifica via PEC è ritenuta valida solo se effettuata all’indirizzo PEC ufficiale del destinatario (Registro Imprese, INI-PEC, Indice PA, ecc.) e con messaggio conforme; in caso contrario, il vizio può comportare la nullità o addirittura l’inesistenza della notifica. Ad esempio, la Cassazione civile ha chiarito che l’INPS può notificare validamente l’avviso tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, equiparando tale modalità a quella utilizzata per le cartelle esattoriali. D’altro canto, si segnala che una recente pronuncia (Cass. civ. n. 1261/2023) ha ritenuto inesistente la notifica via PEC inviata ad un indirizzo non risultante dagli elenchi legali – in quel caso, la comunicazione telematica non rispettava i requisiti di legge. Pertanto, è sempre importante verificare la regolarità della notifica (data, mezzo, indirizzo utilizzato): un vizio di notifica può impedire all’atto di produrre effetti, dando modo al debitore di farlo annullare o di impugnarlo tardivamente (si veda §5 e Q&A).
  • Esecutività immediata e termini – Ciò che caratterizza l’avviso di addebito INPS è la sua efficacia immediatamente esecutiva: fin dalla notifica l’atto costituisce titolo per avviare l’esecuzione forzata. Questo non significa che l’Agente della Riscossione procederà subito al pignoramento, perché per legge deve attendere il decorso di alcuni termini di garanzia per il debitore. In particolare, l’avviso di addebito concede al debitore 60 giorni dalla notifica per effettuare il pagamento spontaneo. Il pagamento va eseguito utilizzando il bollettino RAV allegato all’avviso stesso, o tramite altre modalità indicate (di solito sono consentiti anche pagamenti online o presso sportelli convenzionati). Se il debitore paga entro 60 giorni, l’avviso si considera definito e non si procede oltre (il debito si estingue, salvo successive verifiche su eventuali difformità).

Trascorsi i 60 giorni senza che vi sia stato pagamento integrale, l’avviso diviene esecutivo a tutti gli effetti: l’INPS affida telematicamente l’estratto dell’avviso all’Agente della Riscossione perché proceda al recupero coattivo. È bene notare che, contestualmente alla notifica al contribuente, l’avviso viene già trasmesso all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione): quest’ultimo resta però inerte durante il termine di 60 giorni, pronto ad attivarsi appena decorso tale periodo in assenza di pagamento. Durante i 60 giorni, il debitore non subisce azioni esecutive (fermo, pignoramento, ecc.), ma se ritiene illegittimo o infondato l’avviso, dispone di un termine ancor più breve – 40 giorni – per proporre opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria competente. Su questo aspetto cruciale (l’impugnazione giudiziale) torneremo ampiamente nel §4; basti per ora ricordare che 40 giorni dalla notifica è il termine perentorio per contestare l’avviso di addebito davanti al Giudice del Lavoro (Tribunale in funzione di giudice del lavoro), analogamente a quanto avviene per opporsi a un decreto ingiuntivo. Se entro 40 giorni non viene promosso ricorso, il debito contributivo indicato nell’avviso è da considerarsi definitivo.

Nota: L’avviso di addebito INPS fino al 2021 comportava, oltre a interessi e sanzioni, anche l’addebito di un aggio di riscossione (compenso dovuto all’Agente della Riscossione) pari al 3% dell’importo se pagato entro 60 giorni, o al 6% se pagato oltre tale termine. Dal 1° gennaio 2022, per effetto dell’art. 1 co. 15 L. 234/2021 (Legge di Bilancio 2022) che ha modificato l’art. 17 D.lgs. 112/1999, è stata abolita la quota di aggio a carico del debitore per gli avvisi di addebito affidati dal 2022 in poi. Pertanto oggi il debitore dovrà pagare solo l’importo dei contributi dovuti più le sanzioni civili ed eventuali spese vive di notifica ed esecuzione, ma non più l’ulteriore 6%. Un alleggerimento dei costi di riscossione, seppur parziale.

  • Effetti dell’impugnazione pendente su atti presupposti – Un tema peculiare è quello degli avvisi di addebito emessi sulla base di accertamenti di altri enti già impugnati altrove. Si pensi al caso in cui l’Agenzia delle Entrate effettui un accertamento fiscale dal quale emergano maggiori compensi o retribuzioni: l’INPS, venutane a conoscenza, potrebbe emettere avvisi per contributi sui redditi accertati. Ma cosa accade se il contribuente ha impugnato l’atto fiscale davanti al giudice tributario? In linea generale, la giurisprudenza ha affermato che l’INPS non può riscuotere contributi basati su un accertamento non definitivo. In particolare, la Cassazione (Sez. Lav.) con sentenza n. 4032/2016 ha statuito – riprendendo un principio già espresso in Cass. 8379/2014 – che “l’iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali è subordinata […] all’emissione di un provvedimento esecutivo del giudice ove l’accertamento su cui la pretesa si fonda sia impugnato davanti all’autorità giudiziaria”, senza distinguere se l’accertamento impugnato provenga dall’INPS stesso o da Agenzia Entrate. Ne consegue che, se la pretesa contributiva si basa su un accertamento fiscale ancora sub iudice, l’INPS deve attendere l’esito del contenzioso prima di avviare la riscossione; qualora invece emetta ugualmente avviso di addebito, questo è suscettibile di annullamento in giudizio per illegittimità. Numerosi provvedimenti di merito hanno confermato tale orientamento: ad esempio il Tribunale di Cassino (sent. 7 marzo 2019) e il Tribunale di Catania (sent. n. 669/2019) hanno annullato avvisi INPS emessi su crediti derivanti da accertamenti fiscali impugnati e non definitivi, richiamando appunto l’art. 24 D.lgs. 46/1999 e la giurisprudenza di legittimità sopra citata. In altre parole, un avviso di addebito emesso “prematuramente” – mentre è pendente un giudizio sull’atto presupposto da cui il credito origina – può essere considerato giuridicamente nullo per impedimento legale.
  • Altri vizi formali o sostanziali – Oltre al caso particolare appena visto, esistono numerose cause di nullità dell’avviso di addebito che il debitore può far valere. Approfondiremo nel §4 come eccepirli in sede di ricorso; qui basti elencare i principali vizi dell’atto:
    • Difetto di motivazione o indeterminatezza: se l’avviso non contiene l’indicazione chiara della fonte del credito e del calcolo degli importi, oppure rinvia a documenti non allegati e non conoscibili dal destinatario, viola l’obbligo di motivazione (L. 241/1990) e può essere annullato. Ad esempio, la Cassazione n. 1095/2022 ha confermato l’annullamento di un avviso che rinviava “per relationem” ad un verbale ispettivo non reperito, risultando indecifrabile nel dettaglio dei contributi pretesi. Allo stesso modo, omissioni di dati essenziali (periodi, inquadramento, basi di calcolo) rendono l’atto affetto da indeterminatezza assoluta.
    • Mancata indicazione del responsabile o firma mancante: se l’avviso non riporta il nominativo del responsabile del procedimento o non è sottoscritto digitalmente dall’incaricato, può esserne inficiata la validità per violazione di legge (obblighi ex art. 21-octies L. 241/1990).
    • Notifica irregolare o inesistente: come detto, una notifica effettuata a soggetto o indirizzo errato, o con mezzi non consentiti, può comportare nullità insanabile. Una notifica inesistente non fa decorrere i termini di impugnazione, consentendo al destinatario di reagire anche tardivamente appena ne abbia conoscenza di fatto.
    • Mancato invio di atti presupposti obbligatori: se per legge o regolamento interno era previsto un avviso preventivo (ad es. diffida ispettiva) e questo non è stato inviato, l’intero procedimento potrebbe essere viziato. In alcuni giudizi si è sostenuto che l’assenza di un previo avviso bonario nelle omissioni da DM10 potrebbe costituire vizio (anche se, come visto, l’avviso bonario è facoltativo in molti casi). Più solida è l’eccezione se manca la notifica del verbale di accertamento in caso di ispezione: l’avviso basato su un accertamento non notificato correttamente al datore potrebbe essere contestato.
    • Prescrizione del credito: questo è un vizio “sostanziale” fondamentale, al punto che lo tratteremo separatamente nel §3. Se i contributi richiesti erano già prescritti al momento della notifica dell’avviso, il debitore può far valere la prescrizione per far dichiarare non dovuto il pagamento.
    • Decadenza dall’azione di riscossione: anche questo aspetto verrà approfondito più avanti (§3.2). Esso attiene al mancato rispetto, da parte dell’INPS, dei termini per iscrivere a ruolo i crediti. Un avviso emesso oltre i termini di legge può essere impugnato eccependo la decadenza dell’ente dal potere di riscossione tramite tale atto.

Queste ipotesi, e le relative strategie difensive, saranno approfondite in seguito. Per ora, basti evidenziare che non tutti gli avvisi di addebito sono insindacabili: molti possono presentare vizi di legittimità (formali o sostanziali) che, se individuati tempestivamente, permettono al debitore di ottenere l’annullamento totale o parziale dell’atto e quindi di evitare il pagamento di somme non dovute.

2.3 Cartella esattoriale e altre forme di intimazione

Nel linguaggio comune si parla spesso di “cartella esattoriale” anche per i contributi INPS. Come abbiamo visto, però, dopo il 2010 l’INPS non emette più cartelle di pagamento per i nuovi crediti, avendo introdotto l’avviso di addebito. Tuttavia, è possibile che un debitore si imbatta ancora in cartelle esattoriali riguardanti contributi previdenziali in alcune circostanze: ad esempio, cartelle notificate prima del 2011 e non ancora pagate integralmente; oppure cartelle relative a contributi di altri enti (es. casse professionali, o contributi assistenziali locali) eventualmente iscritti a ruolo. Inoltre, la procedura esecutiva attivata dall’avviso di addebito può comprendere atti come l’intimazione di pagamento da parte dell’Agente della Riscossione, che somigliano ad una cartella per forma e contenuto.

È importante chiarire che una cartella esattoriale INPS (emessa, ad esempio, da Equitalia per crediti affidati dall’INPS fino al 2010) aveva natura ed effetti in parte analoghi all’avviso di addebito odierno: conteneva l’ingiunzione a pagare i contributi iscritti a ruolo, con 60 giorni di tempo, ed era anch’essa impugnabile. La differenza principale era procedurale: la cartella era un atto del concessionario (Equitalia/Agenzia Riscossione) emesso in base a un ruolo formale trasmesso dall’INPS; l’avviso invece è emesso direttamente dall’INPS. Di conseguenza, la giurisdizione competente per le controversie sui crediti contributivi non cambia: sia le cartelle INPS sia gli avvisi di addebito vanno impugnati davanti al giudice ordinario (Tribunale) – sezione lavoro, trattandosi di materia di previdenza obbligatoria (art. 442 c.p.c.). In passato vi sono stati dubbi in casi di cartelle “miste” (contenenti sia tributi che contributi), ma la giurisprudenza ha chiarito che le parti relative a contributi seguono le regole del contenzioso previdenziale, distinte da quelle tributarie. Pertanto, ad esempio, una cartella INPS notificata oggi (magari relativa a un debito antecedente) dovrà essere impugnata entro 40 giorni innanzi al Tribunale (Lavoro) e non in Commissione Tributaria, pena l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione.

D’altra parte, l’Agente della Riscossione può emettere – successivamente all’avviso di addebito – alcune comunicazioni che è bene conoscere:

  • Intimazione di pagamento (art. 50 DPR 602/1973): è un sollecito che l’Agente deve notificare al debitore prima di procedere ad esecuzione forzata, qualora sia trascorso più di un anno dalla notifica dell’avviso (o della cartella) senza che si sia agito. L’intimazione dà ulteriori 5 giorni per pagare. Nell’ambito contributivo, se l’Agente non avvia il pignoramento entro un anno dall’avviso, dovrà prima notificare un’intimazione; questa è impugnabile dal debitore solo per vizi propri entro 20 giorni (vedi §6).
  • Preavvisi di fermo o ipoteca: come vedremo (§6), prima di iscrivere fermo su un veicolo o ipoteca su un immobile, l’Agente notifica al debitore un preavviso che concede (di regola) 30 giorni per pagare o contestare. Anche questi atti non determinano nuove scadenze di 40 giorni, ma possono essere oggetto di ricorso immediato se il debito sottostante è stato già pagato, annullato o sospeso.

In definitiva, la cartella esattoriale tradizionale è oggi un atto residuale per i crediti INPS, ma le sue funzioni (notificare il debito e avviare la riscossione) sono state assunte dall’avviso di addebito. Ciò che il debitore deve ricordare è che tutti questi atti (avvisi, cartelle, intimazioni) fanno parte di un unico percorso di riscossione e sono tra loro concatenati: conoscerne tempistiche e modalità permette di intervenire al momento giusto con lo strumento più adeguato (pagamento, ricorso, richiesta di sospensione, ecc.). Nel prossimo capitolo affronteremo proprio i termini di decadenza e prescrizione, cruciali per valutare la legittimità della pretesa contributiva.

3. Termini di decadenza e prescrizione dei contributi non versati

Quando si parla di “difendersi” da un accertamento contributivo, un aspetto fondamentale riguarda i termini temporali entro cui l’INPS può validamente pretendere il pagamento. In ambito contributivo vi sono due concetti giuridici distinti da tenere presenti: la decadenza (termine entro cui l’ente deve compiere determinati atti, pena la perdita del potere di usare quelle specifiche forme di riscossione) e la prescrizione (termine oltre il quale il diritto al pagamento del contributo si estingue definitivamente, se nel frattempo non è stato esercitato o non ha subito interruzioni). Approfondiamo entrambe le nozioni, poiché spesso costituiscono le linee di difesa principali per il debitore.

3.1 Prescrizione dei crediti contributivi (5 anni)

La prescrizione è l’istituto giuridico per cui un diritto si estingue se il titolare non lo esercita entro un certo tempo. Nel caso dei contributi previdenziali obbligatori, la legge di riferimento è l’art. 3, comma 9, della Legge 8 agosto 1995 n. 335 (riforma del sistema pensionistico). Tale disposizione, innovando il regime precedente, stabilisce che “i contributi previdenziali e assistenziali obbligatori si prescrivono in cinque anni”, salvi i casi di atti interruttivi posti in essere dall’ente o dal debitore. In altre parole, il diritto dell’INPS di riscuotere un contributo omesso si estingue dopo 5 anni dal momento in cui il contributo era esigibile, a meno che entro tale termine non si verifichi un evento che ne interrompa il decorso.

Vediamo più in dettaglio gli elementi chiave della prescrizione contributiva:

  • Decorrenza (dies a quo): il termine di 5 anni inizia a decorrere dalla data in cui sorge l’obbligo contributivo. In generale, ciò coincide con il periodo di paga: ad esempio, per i lavoratori dipendenti, dal momento in cui la retribuzione è dovuta (non pagata, ma “spettante” secondo contratto) si genera l’obbligo di versare i contributi su di essa. Non conta che il datore possa non aver ancora corrisposto quella retribuzione o che vi sia un contenzioso: come chiarito dalla Cassazione (Sez. Un. n. 5076/2015 e successive, v. Cass. 21371/2018) il rapporto contributivo è autonomo rispetto a quello retributivo e nasce con la prestazione lavorativa, sulla base della retribuzione dovuta ex lege o CCNL, anche se non effettivamente erogata. Perciò, se un lavoratore matura diritto a €X di paga a gennaio 2020, i contributi su quella somma sono esigibili agli obblighi mensili del 2020 e da lì decorre la prescrizione (non da eventuale sentenza futura che riconoscerà differenze retributive). Per gli autonomi, analogamente, la prescrizione parte dal giorno successivo alla scadenza di pagamento del contributo (es. scadenze trimestrali per artigiani/commercianti, acconto o saldo per gestione separata su redditi).
  • Interruzione e sospensione: entro i 5 anni l’INPS può compiere atti che interrompono la prescrizione, facendo ripartire il termine da capo. Quali atti? La norma (art. 3 co.9 L.335/95) richiama l’art. 2943 c.c., pertanto qualsiasi atto formale di costituzione in mora o richiesta di adempimento rivolto al debitore interrompe la prescrizione, così come il riconoscimento del debito da parte del debitore stesso. Ad esempio: una lettera raccomandata dell’INPS che intima il pagamento di specifici contributi, la notifica di un avviso bonario dettagliato, la notifica di una cartella o di un avviso di addebito, l’atto di citazione o il decreto ingiuntivo (nelle ipotesi in cui l’INPS agisca in sede giudiziale), ecc., sono atti interruttivi. Dopo ciascun atto interruttivo, inizierà a decorrere un nuovo periodo di 5 anni. Importante: secondo la Cassazione, la sentenza ottenuta dal lavoratore contro il datore (es. che accerta differenze paga) non interrompe la prescrizione verso l’INPS, perché il lavoratore è un soggetto terzo rispetto al rapporto contributivo. Solo un’azione diretta del lavoratore contro datore e INPS potrebbe avere effetti, ma in generale il lavoratore non è legittimato a pretendere il versamento (se non nei modi particolari di cui diremo oltre, e comunque la sua azione non incide sul termine quinquennale per l’INPS).
    Nota: In passato, la legge prevedeva un termine di prescrizione decennale per i contributi evasi in presenza di fatto penalmente rilevante. Tale eccezione è stata di fatto superata dalla riforma del 1995 e dalla successiva depenalizzazione per importi minori. Oggi, l’orientamento consolidato (confermatissimo da Cass. Sez. Un. n. 23397/2016) è che cinque anni sia il termine applicabile in ogni caso ai crediti contributivi sorti dopo l’entrata in vigore della L.335/95, a prescindere dall’eventuale rilevanza penale del mancato versamento. I contributi antecedenti il 1996 possono aver avuto gestioni diverse, ma ormai quella è storia passata in termini di prescrizione.
  • Sospensione della prescrizione: eventi eccezionali possono sospendere temporaneamente il decorso (es. moratorie legislative, stati di forza maggiore). Ad esempio, durante il periodo di emergenza Covid alcune scadenze di pagamento e correlativamente di prescrizione sono state sospese per legge. Ma in via ordinaria, non vi sono cause di sospensione legate alla pendenza del rapporto di lavoro (diversamente dai crediti retributivi, per i quali la prescrizione decorre solo dalla fine del rapporto in taluni casi): per i contributi la prescrizione corre anche durante il rapporto di lavoro in corso, e anzi il lavoratore non può fare molto per impedirlo (non avendo titolo diretto per versare al posto del datore).
  • Effetti della prescrizione: Trascorsi i 5 anni senza atti interruttivi validi, il diritto dell’INPS si estingue. Significa che il contributo non può più essere richiesto né con avvisi né con azioni giudiziarie; l’eventuale credito viene annullato d’ufficio se rilevato, oppure, se l’INPS erroneamente notifica un avviso per contributi prescritti, il debitore potrà far valere l’estinzione in sede di ricorso per ottenerne l’annullamento. È fondamentale comprendere che la prescrizione non opera automaticamente: il giudice non la dichiara d’ufficio, ma dev’essere eccepita dal debitore. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha di recente affermato che, trattandosi di materia previdenziale, la prescrizione quinquennale dei contributi è rilevabile d’ufficio dal giudice qualora sia evidente dagli atti, in quanto presidiata da interessi di ordine pubblico (principio discusso in alcune pronunce del 2022-2023). In ogni caso, è buona prassi per il debitore evidenziare sempre l’eventuale decorso dei termini.

Nel contesto difensivo, l’eccezione di prescrizione è spesso vincente poiché di immediata verifica: basta confrontare la data in cui il contributo era dovuto e la data di notifica del primo atto interruttivo ricevuto (avviso bonario, diffida, avviso di addebito). Ad esempio, se un avviso di addebito notificato nel 2025 pretende contributi relativi a periodi anteriori al 2020 e nel frattempo il debitore non ha mai ricevuto alcuna comunicazione formale dall’INPS, con ogni probabilità quei crediti sono già prescritti (oltre 5 anni). In tal caso, si potrà chiedere in autotutela all’INPS l’annullamento dell’avviso, oppure si proporrà ricorso al giudice eccependo la prescrizione quinquennale e ottenendo l’annullamento del debito.

Va ricordato che la prescrizione può colpire anche solo parte del credito: se ad esempio un avviso ingloba contributi dal 2017 al 2021 notificato nel 2025, saranno prescritti quelli del 2017 (se nessun atto interruttivo c’è stato prima), mentre quelli dal 2018 in poi no. Il giudice potrà quindi annullare parzialmente l’avviso limitatamente alle somme prescritte, lasciando dovuto il resto.

Rimedi per il lavoratore in caso di prescrizione – Dal lato opposto, giova menzionare che la perdita del diritto contributivo per prescrizione non intacca comunque il diritto del lavoratore alle prestazioni pensionistiche per i periodi lavorati. L’art. 2116 c.c. garantisce al lavoratore la copertura pensionistica anche se il datore non ha versato i contributi, salvo che egli non possa ottenere (in via eccezionale) la costituzione di una rendita vitalizia o il risarcimento del danno dopo la pensione. Questo significa che, anche se l’INPS non può più riscuotere dal datore per prescrizione, al momento della pensione il lavoratore non dovrebbe rimetterci in termini di diritti, dovendo l’INPS riconoscere comunque il periodo assicurativo (fermo restando che, in pratica, un’omissione contributiva prescritta può creare difficoltà burocratiche e spesso il lavoratore è costretto a far causa al datore per ottenere risarcimenti o versamenti volontari). Questa situazione paradossale – in cui il datore “si salva” dal pagamento e l’ente non può più esigere, mentre il lavoratore potrebbe subire pregiudizio – è all’origine di un interessante sviluppo recente: il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 31 marzo 2025, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione se la prescrizione quinquennale dei contributi sia compatibile col diritto europeo, ipotizzando che tale termine e la sua irrimediabilità possano “limitare eccessivamente la tutela del lavoratore” in materia di diritti pensionistici. Sarà quindi la CGUE a doversi esprimere sulla legittimità comunitaria di questa normativa italiana. Per ora, comunque, la legge nazionale è chiara: cinque anni, e il datore non paga più – uno scenario che un abile difensore del debitore può sfruttare, ma che il difensore del lavoratore vede come un ostacolo.

3.2 Decadenza dall’iscrizione a ruolo (art. 25 D.lgs. 46/1999)

Accanto alla prescrizione (che incide sul diritto sostanziale), esiste un termine di decadenza procedurale che l’INPS deve rispettare nell’attivare la riscossione tramite ruolo (avviso di addebito). Tale termine è previsto dall’art. 25 del D.lgs. 46/1999. In sintesi, la norma stabilisce che i crediti contributivi devono essere iscritti a ruolo entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui il credito è divenuto esigibile, salvo alcuni casi particolari (crediti da accertamenti ispettivi, o oggetto di dilazione, per cui si considerano altri termini). Ad esempio, per contributi relativi all’anno 2023, non versati alle scadenze, l’INPS dovrebbe emettere l’avviso di addebito (o il ruolo) entro il 31 dicembre 2024. Se non lo fa, incorre in decadenza rispetto a quella forma di riscossione.

È importante sottolineare che, secondo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, questa decadenza ex art.25 D.lgs.46/99 ha natura processuale e non sostanziale. Cosa significa? Che il mancato rispetto del termine non estingue il debito contributivo in sé (come farebbe la prescrizione), ma preclude solo l’utilizzo della cartella/avviso di addebito come strumento di riscossione. In altre parole, l’INPS decaduto dal termine non può più avvalersi del ruolo quale titolo esecutivo, ma conserva il diritto di agire per recuperare il credito con altri strumenti, ad esempio promuovendo un’azione ordinaria di accertamento del credito davanti al giudice. La Cassazione, ord. n. 27726/2019, ha proprio ribadito che l’art. 25 citato prevede una decadenza solo processuale: “l’iscrizione a ruolo è solo uno dei meccanismi che la legge accorda all’INPS per il recupero dei crediti contributivi” e l’inosservanza del termine comporta “soltanto l’impossibilità di avvalersi del titolo esecutivo, ma non fa decadere l’INPS dal diritto di chiedere l’accertamento […] del proprio credito”.

Per il debitore, comunque, la decadenza può essere fatta valere per ottenere l’annullamento dell’avviso tardivo: se l’INPS iscrive a ruolo un credito oltre il termine dell’anno successivo, l’avviso di addebito (o la cartella) risulterà viziato. In giudizio, molti si sono chiesti se la decadenza dovesse essere eccepita dal debitore o rilevata d’ufficio: trattandosi di termine per l’esercizio del potere, la giurisprudenza tende a richiedere l’eccezione di parte, ma è prudente sollevarla esplicitamente nel ricorso. Ad esempio, immaginiamo un contributo dovuto a febbraio 2022: l’INPS doveva emettere avviso entro dicembre 2023; invece lo notifica a marzo 2024. In tal caso, l’atto è decaduto. Il debitore potrà impugnarlo entro 40 giorni eccependo la violazione dell’art.25 D.lgs.46/99 e il giudice annullerà l’avviso. L’INPS, a quel punto, potrebbe ancora citare in giudizio il debitore per vedersi riconoscere il credito (purché la prescrizione non sia maturata nel frattempo), ma perderebbe il vantaggio del titolo esecutivo immediato: dovrebbe provare il credito nel processo e ottenere una sentenza. Spesso, per importi non elevati, l’INPS rinuncia ad azioni ordinarie se decade dal ruolo, specie se magari i documenti probatori sono incerti.

Si noti che negli anni passati vi sono state alcune proroghe normative che hanno esteso i termini di decadenza per particolari situazioni. Ad esempio, l’art. 38, co. 12 del D.L. 78/2010 (citato nella causa decisa dalla Cass. 27726/2019) aveva concesso una finestra temporale più ampia per ruoli emessi nel 2010-2011 in fase di transizione al nuovo sistema. Oppure, nel 2020 vi sono state sospensioni dovute al Covid. In generale, quando si solleva la decadenza bisogna verificare se vi siano state norme speciali che l’hanno differita per il periodo considerato.

Differenze tra prescrizione e decadenza – Ricapitolando, prescrizione e decadenza operano su piani diversi:

  • La prescrizione quinquennale è un limite sostanziale: estingue il diritto alla contribuzione se l’ente resta inerte per 5 anni. Va calcolata sul singolo credito e può essere interrotta da atti validi dell’INPS. È generalmente opposta dal debitore come difesa nel merito (“il contributo X non è più dovuto perché prescritto”).
  • La decadenza annuale ex art.25 è un limite procedurale: invalida lo specifico atto di riscossione tardivo, ma l’INPS può ancora recuperare il credito per vie ordinarie entro l’ulteriore limite della prescrizione. Si calcola rispetto all’anno successivo a quando il credito è sorto/esigibile. L’eccezione di decadenza mira a far caducare l’avviso o la cartella, senza negare in assoluto l’esistenza del debito (che però, a quel punto, l’ente dovrà perseguire diversamente).

Dal punto di vista pratico del debitore, entrambe sono armi difensive efficaci per far annullare l’atto impugnato. Infatti, anche se la decadenza non cancella il debito, impedendo l’uso del ruolo costringe l’INPS a un’azione giudiziaria ordinaria: scenario in cui spesso l’ente preferisce lasciar perdere, specie se il debitore nel frattempo è nullatenente o se il rischio prescrizione è prossimo. E se anche intraprendesse causa, il giudice dovrebbe valutare nel merito l’esistenza del credito, offrendo al debitore un nuovo spazio di difesa (ad esempio contestando la fondatezza del credito stesso, cosa non più possibile se l’avviso fosse divenuto definitivo).

Riassunto delle tempistiche chiave: per chiarire, proponiamo uno schema cronologico esemplificativo. Immaginiamo contributi dovuti per il 2022 non pagati:

  • 1° gennaio 2023: inizia a decorrere la prescrizione quinquennale dei contributi 2022 (salvo atti interruttivi). Scadrà il 31/12/2027 se nulla accade.
  • 31 dicembre 2023: termine di decadenza per l’INPS per emettere avviso di addebito relativo ai contributi 2022. Se entro questa data l’avviso (o cartella) non è stato formato, l’INPS è decaduto dall’uso del ruolo.
  • marzo 2024 (es.): l’INPS notifica un avviso per i contributi 2022. -> Decadenza: l’atto è stato emesso oltre il 2023, quindi impugnabile per decadenza. Prescrizione: non essendo trascorsi 5 anni (solo 2 anni circa), il credito non è prescritto.
  • marzo 2024 + 40 giorni: scadenza per il ricorso. Se il debitore impugna e ottiene annullamento per decadenza, l’INPS può ancora agire in giudizio ordinario fino al 2027. Se non impugna, l’avviso tardivo comunque diviene definitivo (in pratica la decadenza deve essere fatta valere, altrimenti l’atto rimane valido!).
  • 2025-2026: ipotesi di causa ordinaria promossa dall’INPS (se avviso annullato). L’INPS deve notificare atto di citazione entro fine 2027 per evitare prescrizione.
  • 1° gennaio 2028: se fino al 2027 nessun atto interruttivo, il credito 2022 è prescritto e non più esigibile.

Come si vede, i due istituti convivono: la decadenza anticipa un possibile “colpo di spugna” procedurale, la prescrizione è l’ultimo limite definitivo. Un bravo difensore li verificherà entrambi: talora un credito non è prescritto ma è decaduto, altre volte è viceversa (pensiamo a contributi 2015 con avviso nel 2016: decadenza rispettata, ma se il 2015 fu l’ultimo atto e l’avviso notificato non fu impugnato, la prescrizione dal 2016 al 2021 può comunque far estinguere il credito, salvo atti nel frattempo).

Tabella 2 – Prescrizione vs Decadenza: differenze principali

AspettoPrescrizione contributi (L.335/1995)Decadenza iscrizione a ruolo (art.25 D.lgs.46/1999)
Durata del termine5 anni (quinquennale) dal momento in cui il contributo è esigibile.Termine variabile: di regola entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di esigibilità del credito (≈ 1 anno).
NaturaSostanziale (estintiva del diritto).Processuale/procedurale (incide sul potere di usare il ruolo come titolo).
DecorrenzaDal giorno in cui nasce l’obbligo contributivo (es.: data di paga dovuta, scadenza di versamento). Può decorrere anche durante il rapporto di lavoro in corso.Dalla fine dell’anno di competenza del credito. Es.: contributi 2022 → termine al 31/12/2023. (Termini diversi per accertamenti notificati: in tal caso un anno dall’accertamento definitivo).
Interruzione/SospensioneInterrotta da atti di costituzione in mora dell’INPS (avvisi bonari, diffide, richieste scritte) o riconoscimento del debitore; sospesa in casi eccezionali di legge.Non è soggetta a interruzione (è perentoria una tantum). Eventuali proroghe o sospensioni possono essere disposte da norme speciali (es. moratorie).
Effetto del mancato rispettoEstinzione definitiva del credito: l’INPS perde il diritto di esigere le somme. L’atto emesso su credito prescritto è nullo in parte qua. Deve essere eccepita dal debitore (di regola), ma tendenzialmente riconosciuta se palese.Invalidità dell’atto di riscossione tardivo: l’avviso/cartella emessi oltre termine sono annullabili su eccezione del debitore. L’INPS mantiene però il diritto di far accertare il credito in giudizio ordinario (fino a prescrizione).
RilevabilitàTradizionalmente su eccezione di parte; di recente alcune pronunce tendono a ritenerla rilevabile d’ufficio in materia previdenziale (per tutela di interessi pubblicistici). In ogni caso, prudente eccepirla.Deve essere eccepita dal debitore nel ricorso contro l’atto (il giudice non la rileva d’ufficio in automatico perché è una facoltà disponibile dell’ente, che può optare per via giudiziale).
Esempio di applicazioneAvviso INPS notificato nel 2025 richiede contributi 2019 senza atti intermedi: contributi 2019 prescritti (5 anni scaduti), l’atto va annullato per prescrizione.Avviso INPS per contributi 2019 notificato nel 2022: prescrizione non maturata, ma decadenza sì (doveva essere entro 31/12/2020), l’atto è annullabile per tardività; l’INPS potrebbe ancora agire in tribunale per quei contributi entro il 2024 (prescrizione).

In sintesi: il debitore che riceve un accertamento di contributi omessi deve sempre controllare da quando decorrono quei contributi e se vi sono stati avvisi precedenti. Se l’INPS ha lasciato passare troppo tempo, potrebbe aver perso la possibilità di riscuotere: 5 anni per l’oblio totale del credito (prescrizione) oppure già 1-2 anni per l’invalidità del metodo di riscossione scelto (decadenza dal ruolo). Nel prossimo capitolo vedremo come far valere concretamente queste e altre difese, attraverso gli strumenti previsti (autotutela, ricorsi al giudice, ecc.).

4. Strumenti di difesa del debitore: come reagire all’accertamento INPS

Una volta ricevuto un avviso di addebito (o un altro atto di recupero contributivo), il debitore ha davanti a sé essenzialmente due strade: pagare (eventualmente avvalendosi di strumenti di sollievo come rateazioni o sanatorie) oppure impugnare l’atto per contestarne la legittimità o la fondatezza. Vi è poi la possibilità di agire in sede amministrativa (c.d. autotutela) chiedendo all’ente di correggere o annullare spontaneamente l’atto, quando vi siano evidenti errori. In questa sezione esamineremo in dettaglio tutti i principali strumenti difensivi a disposizione del contribuente-debitore, dando risalto alle procedure da seguire, ai tempi e agli effetti di ciascuno. L’obiettivo è permettere a chi riceve un accertamento INPS di scegliere consapevolmente la strategia più adatta alla propria situazione.

4.1 Autotutela amministrativa: istanza di annullamento o sgravio

Il primo strumento da valutare, soprattutto in presenza di errori materiali o documentali, è l’autotutela. Con questo termine si indica il potere dell’amministrazione (INPS, in questo caso) di rettificare o annullare d’ufficio i propri atti quando risultino illegittimi o infondati, senza bisogno di attendere il giudice. In concreto, il debitore che ritenga l’avviso di addebito errato può presentare una istanza di annullamento in autotutela all’INPS, chiedendo il cosiddetto sgravio totale o parziale del debito.

Quando ricorrere all’autotutela? Alcuni esempi tipici:

  • Errore di persona o di calcolo: l’avviso è stato indirizzato al soggetto sbagliato, oppure contiene errori palesi nel calcolo degli importi (doppia conteggiatura, importi mai dovuti, etc.).
  • Contributi già versati: il debitore ha in realtà pagato i contributi (magari con modello F24) ma per un disguido burocratico l’INPS non ne ha tenuto conto. Inviando le ricevute di pagamento, si può ottenere l’annullamento.
  • Prescrizione evidente: se l’avviso è arrivato oltre 5 anni senza atti intermedi, come visto il credito è estinto. Spesso in tali casi l’INPS stesso, a fronte di una segnalazione, provvede a sgravare la posizione (anche perché in giudizio la perderebbe).
  • Vizi formali immediatamente riconoscibili: ad esempio, manca la firma del funzionario, oppure l’atto non riporta il periodo cui si riferisce il credito. In teoria l’INPS potrebbe riconoscere l’errore e ritirare l’atto (correggendolo eventualmente).

Come procedere: l’istanza di autotutela va presentata preferibilmente in forma scritta (PEC, raccomandata A/R o tramite gli appositi canali telematici dell’INPS, come il servizio online “Richiesta di annullamento/sospensione Avviso di Addebito” presente nel Cassetto Previdenziale). Nell’istanza bisogna indicare i dati dell’avviso impugnato, esporre i motivi per cui si chiede l’annullamento (allegando eventuale documentazione probante, es. ricevute) e richiedere espressamente l’annullamento totale o parziale. L’INPS, ricevuta la richiesta, può accoglierla e annullare il debito (emettendo un provvedimento di sgravio, comunicato anche all’Agente della Riscossione) oppure rigettarla (esplicitamente o tacitamente, non dando riscontro).

Pro e contro: L’autotutela ha il vantaggio di essere informale e gratuita. Inoltre, non vi sono termini preclusivi stringenti: si può chiedere lo sgravio anche dopo i 40 giorni, o perfino a procedura esecutiva avviata (in tal caso però l’INPS di solito pretende comunque le spese maturate). Tuttavia, presenta due grossi limiti: (1) non sospende i termini di legge – in primis il termine di 40 giorni per fare ricorso giudiziario. Ciò significa che, se il contribuente presenta autotutela, ma l’INPS non risponde entro 40 giorni (o risponde negativamente), egli rischia di vedersi preclusa la possibilità di ricorrere in tribunale. Pertanto, l’autotutela va utilizzata con cautela: è consigliabile presentarla contestualmente al ricorso giudiziario, oppure se si è ancora in tempo ottenere dall’INPS un provvedimento espresso di sospensione nel frattempo (ma non sempre l’ente lo fa). (2) Non è un diritto esigibile – L’INPS non è obbligato a accogliere l’istanza di autotutela, neppure di fronte a un evidente errore; il contribuente non può costringere l’ente ad annullare l’atto se questo ritiene (magari a torto) di avere ragione. In giudizio non si può lamentare il mancato esercizio dell’autotutela. Dunque, è uno strumento utile ma non risolutivo in assoluto.

Detto ciò, nella pratica gli uffici INPS, in presenza di errori chiari (pagamenti documentati, doppie iscrizioni, prescrizione conclamata), tendono a procedere con annullamenti in autotutela, anche per evitare spese di giudizio. Ad esempio, qualora il debitore invii prova del versamento già effettuato di tutte le somme richieste, l’INPS emetterà verosimilmente un provvedimento di sgravio totale dell’avviso, comunicandolo all’Agente della Riscossione che così fermerà la procedura. Se invece solo parte delle somme erano indebitamente richieste, verrà disposto uno sgravio parziale e l’avviso rimarrà valido per la differenza (contro la quale, eventualmente, il debitore potrà ancora ricorrere per altri motivi).

In conclusione, l’autotutela è il primo canale da tentare quando l’atto presenti evidenti illegittimità. Può far risparmiare tempo e risorse, evitando un contenzioso. Ma non bisogna farvi eccessivo affidamento in situazioni complesse o borderline: in caso di inerzia dell’INPS, occorre comunque essere pronti ad agire per via giudiziaria entro i termini.

4.2 Pagamento agevolato: rateazione del debito contributivo

Se l’avviso di addebito è formalmente regolare e la pretesa contributiva risulta sostanzialmente dovuta (ad esempio, non si hanno motivi validi di contestazione nel merito, oppure si preferisce non impugnare per evitare aggravi), il debitore può optare per il pagamento, cercando però di alleviarne l’impatto economico. Lo strumento principale a tal fine è la rateizzazione del debito. La normativa consente infatti al contribuente in difficoltà di diluire il pagamento in comode rate mensili, evitando così l’esborso in un’unica soluzione e soprattutto sospendendo le azioni esecutive durante il periodo di dilazione (finché si rispettano le scadenze delle rate).

Come funziona la rateazione con l’Agente della Riscossione (AdER): Una volta ricevuto l’avviso di addebito, la competenza per la riscossione passa in mano all’Agenzia Entrate-Riscossione (ex Equitalia). È a quest’ultima che bisogna rivolgersi per chiedere un piano di dilazione. In pratica:

  • Il debitore può presentare una domanda di rateizzazione ad AdER (anche online tramite il portale, area riservata o PEC) indicando l’atto ricevuto e l’ammontare dovuto.
  • Importo minimo e numero di rate: di regola la legge prevede piani ordinari fino a 72 rate mensili (6 anni) per importi fino a determinate soglie, elevabili fino a 120 rate (10 anni) in caso di comprovata grave e temporanea difficoltà economica del debitore. Ad esempio, per debiti sopra €60.000 occorre documentare la situazione di difficoltà per ottenere più di 72 rate. La rata minima generalmente è €50 per privati e €100 per imprese (ma tali importi possono variare in base a disposizioni attuative).
  • Tempi di richiesta: È consigliabile presentare l’istanza di dilazione entro i 60 giorni dalla notifica dell’avviso, ossia durante il periodo in cui il debito non è ancora passato in fase esecutiva, così da attivare subito il piano ed evitare che scaduto il 60° giorno partano atti di pignoramento. Ad ogni modo, la domanda può essere accolta anche successivamente (purché prima che intervenga un pignoramento definitivo su beni, perché dopo diventerebbe complicato). Spesso viene suggerito di farla addirittura entro 30 giorni dalla notifica, per avere margine di correzione di eventuali errori, ma ciò non è un obbligo di legge.
  • Effetti della rateazione: Una volta concessa la rateazione, vengono sospese le azioni esecutive da parte dell’Agente della Riscossione. Ciò significa niente fermi amministrativi, ipoteche o pignoramenti ulteriori, a condizione che le rate vengano pagate regolarmente. Se però erano già stati iscritti fermo o ipoteca prima della domanda, questi rimangono in essere (possono essere rimossi solo a pagamento completato o se la legge prevede sospensioni). Inoltre, la rateizzazione comporta che eventuali procedure esecutive in corso siano congelate (ad es. un pignoramento avviato verrà sospeso appena ottenuto il piano).
  • Decadenza dalla rateazione: se il debitore non paga 5 rate anche non consecutive, perde il beneficio del termine: l’intero debito residuo torna esigibile in un’unica soluzione e l’Agente può riprendere le azioni esecutive. Le soglie di decadenza possono variare (in passato erano 8 rate, ora 5 per le nuove dilazioni). È sempre raccomandato dunque rispettare rigorosamente i pagamenti.
  • Interessi di dilazione: sul debito rateizzato maturano interessi legali di rateazione, calcolati al tasso previsto (aggiornato periodicamente, negli ultimi anni intorno al 2-4% annuo). Sono comunque molto inferiori alle sanzioni civili che continuerebbero a maturare su un debito non definito – e che infatti vengono “congelate” nel piano di dilazione.

La rateizzazione e il contenzioso: Un punto delicato è il rapporto tra richiesta di rateazione e impugnazione dell’atto. Si teme spesso che chiedere la dilazione implichi riconoscere il debito e quindi precluda la possibilità di far ricorso (c.d. “acquiescenza”). In passato alcune pronunce avevano interpretato la domanda di rateazione come un riconoscimento di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c., che interrompe la prescrizione e soprattutto comporta rinuncia alle contestazioni. Tuttavia, la giurisprudenza più recente della Cassazione ha chiarito che la rateizzazione non costituisce di per sé accettazione definitiva del debito, né rinuncia all’impugnazione. In particolare, con la sentenza n. 3347/2017 la Suprema Corte ha affermato che “la rateizzazione chiesta dal ricorrente non costituisce acquiescenza”, escludendo che il solo fatto di dilazionare il pagamento significhi ammettere la fondatezza della pretesa. Dunque, è possibile richiedere la rateazione e contemporaneamente proporre ricorso (se si è nei termini), senza incorrere in decadenze. Naturalmente, occorre essere coerenti: se da un lato si chiede di annullare l’atto in giudizio, e dall’altro si paga anche solo una parte con le rate, c’è il rischio di inviare un segnale contraddittorio. Ma in diritto, finché il ricorso è pendente, il fatto di aver iniziato a pagare non impedisce al giudice di annullare l’atto (in caso di vittoria, il contribuente avrebbe diritto alla restituzione di quanto versato in eccedenza). Attenzione: quello che invece la rateazione può implicare è la rinuncia ad eccepire eventuali vizi formali di notifica. Se, ad esempio, non hai mai ricevuto l’avviso ma lo scopri successivamente e chiedi rateazione, stai in pratica ammettendo di essere a conoscenza dell’atto; difficilmente poi potrai far valere un vizio di notifica per riaprire i termini. In generale, comunque, la linea attuale è di favorire la compliance: non penalizzare chi mostra buona volontà iniziando a pagare.

In definitiva, quando conviene rateizzare? Quando il debito è di importo elevato e il contribuente non ha motivi solidi di contestazione (es.: il credito è corretto e non prescritto) oppure preferisce non affrontare un’incerta causa. La rateazione evita misure aggressive immediate e consente di pianificare i pagamenti. Anche in corso di causa, volendo, si può chiedere una rateazione “con riserva”: qualora il giudizio duri a lungo e si tema un pignoramento, si può domandare un piano rateale per congelare l’azione esecutiva, senza rinunciare a proseguire la causa (è prudente però comunicarlo al giudice, specie se si è chiesta anche una sospensione dell’atto).

Riassumendo i passi pratici:

  1. Verifica dell’importo e delle proprie capacità finanziarie;
  2. Presentazione istanza ad AdER (indicando se si opta per il massimo di rate possibili);
  3. Attesa dell’accoglimento (solitamente automatico per debiti sotto soglie, altrimenti richiederanno ISEE o bilanci per 120 rate);
  4. Pagamento della prima rata nei termini indicati (la dilazione si perfeziona col versamento iniziale);
  5. Proseguire coi pagamenti periodici.

La rateazione è dunque un utile strumento deflattivo: non risolve in radice il debito, ma lo rende sostenibile e blocca i procedimenti coattivi finché rispettata. Nel §6 vedremo più in dettaglio come la rateazione incide sulle eventuali misure come fermi/ipoteche.

4.3 Definizioni agevolate e “pace fiscale”: rottamazione e saldo-stralcio

Oltre alla normale rateizzazione, negli ultimi anni i governi hanno introdotto misure di definizione agevolata dei carichi affidati all’Agente della Riscossione, note colloquialmente come “rottamazione delle cartelle” o “pace fiscale”. Queste misure, sebbene concepite in origine per i tributi, hanno incluso quasi sempre anche i crediti INPS iscritti a ruolo (dunque cartelle e avvisi di addebito). Approfittare di tali disposizioni speciali può consentire al debitore di ridurre notevolmente l’importo dovuto, soprattutto abbattendo sanzioni e interessi.

Ecco le principali iniziative succedutesi e applicabili fino a luglio 2025:

  • “Rottamazione” delle cartelle (Definizione agevolata): la prima rottamazione è stata introdotta nel 2016 (D.L. 193/2016), poi replicate con vari provvedimenti (rottamazione-bis nel 2017, ter nel 2018, e la più recente rottamazione-quater nel 2023). In sostanza, queste misure permettono di estinguere i debiti a ruolo (fiscali e contributivi) versando solo il capitale e una parte degli interessi (talvolta gli interessi legali e le spese esecutive), con stralcio integrale delle sanzioni e degli interessi di mora. Ad esempio, la rottamazione-quater prevista dalla L. 197/2022 (Bilancio 2023) consente di definire i debiti affidati all’Agente della Riscossione dal 2000 al 30 giugno 2022 pagando solo l’importo residuo di capitale e interessi da dilazione (senza sanzioni, senza interessi di mora né aggio) in un massimo di 18 rate spalmate fino al 2027. Rientrano in questa definizione anche gli avvisi di addebito INPS affidati all’Agente entro la data suddetta. Dunque, se un avviso INPS del 2021 è ancora insoluto, aderendo alla rottamazione il debitore pagherà solo i contributi e le somme aggiuntive già incluse, risparmiando le sanzioni civili ulteriormente maturate e qualunque altra penalità. L’adesione richiede domanda entro una certa scadenza (per la quater era il 30 giugno 2023, poi prorogato al 30 settembre 2023) e il pagamento puntuale delle rate secondo il calendario di legge.
    • Vantaggi: riduzione significativa del dovuto; possibilità di rateizzazione (nei limiti fissati dalla legge); sospensione di tutte le azioni esecutive al momento della presentazione della domanda (l’Agente non può proseguire i pignoramenti, anche se fermi e ipoteche in essere restano fino al saldo).
    • Svantaggi: bisogna rinunciare ai contenziosi relativi a quei debiti (la domanda implica impegno a ritirare i ricorsi pendenti per le somme rottenate). Inoltre, se non si paga anche solo una rata nei termini, si decade dalla definizione e tornano dovuti tutti gli importi originari (dedotti gli eventuali pagamenti come acconto).
  • “Saldo e stralcio” per contribuenti in difficoltà: misura una-tantum del 2019 (L. 145/2018) destinata a persone fisiche con ISEE sotto una soglia, che consentiva di estinguere i debiti (anche contributivi) pagando solo una percentuale ridotta del dovuto (dal 16% al 35% a seconda dell’ISEE). Era riservata a situazioni di grave crisi e non è stata ripetuta in seguito, se non in forme settoriali.
  • Stralcio dei mini-debiti: la Legge di Bilancio 2023 ha previsto l’annullamento automatico dei debiti di importo residuo fino a €1.000 affidati a riscossione dal 2000 al 2015 (con alcune esclusioni). Molte cartelle/avvisi di piccolo importo, anche contributivi, relativi a quegli anni sono stati quindi cancellati d’ufficio al 31 marzo 2023. Se il proprio debito rientrava in tale casistica, ci si sarà visti sollevare dall’obbligo senza pagare nulla. Attenzione però: restano dovuti gli importi eventualmente versati prima dell’annullamento (non sono rimborsati) e lo stralcio non si applica a somme dovute per recupero aiuti di Stato, multe, e altre eccezioni minori.
  • “Pace fiscale 2025?”: Al momento (luglio 2025) si discute di una possibile rottamazione-quinqies o nuove misure di saldo e stralcio per i carichi affidati nel 2023-2024, ma nulla di definitivo è stato approvato. Il Governo in carica ha mostrato apertura a proseguire con strumenti di definizione agevolata selettivi, ma bisognerà attendere la Legge di Bilancio o provvedimenti dedicati. Conviene quindi restare aggiornati, perché un debito oggi ostico potrebbe essere oggetto di condono parziale domani.

Come incide la definizione agevolata sulla strategia difensiva?
Se c’è una rottamazione in corso di validità, spesso conviene aderirvi se: (a) il debito è effettivamente dovuto e non ci sono possibilità di annullarlo totalmente per vizi; (b) l’agevolazione fa risparmiare molto (tipicamente tutte le sanzioni) e si è in grado di sostenere le rate con certezza. Ad esempio, un’impresa che abbia contributi non versati per €50.000 comprensivi di €10.000 di sanzioni potrà, aderendo, eliminare quei €10.000 di sanzioni – un beneficio concreto. Durante la pendenza della definizione, inoltre, il contenzioso è sospeso: se c’è già un ricorso in tribunale, lo si può sospendere in attesa di vedere l’esito della rottamazione; se poi si perfeziona pagando tutto, il ricorso va dichiarato estinto (per cessata materia del contendere). Se invece non si perfeziona (es. non si paga la prima rata), il contenzioso riprende come prima.

Va però valutata anche la controindicazione: aderire significa rinunciare a discutere nel merito del debito. Quindi se il contribuente ha ottime chance di far annullare l’atto in toto per un vizio (ad es. prescrizione) potrebbe preferire la via giudiziaria anziché pagare comunque il capitale in rottamazione. È una scelta caso per caso, dove entrano in gioco l’importo, la convenienza economica e il grado di rischio nel giudizio.

In sintesi, la “pace fiscale” è un’opportunità da cogliere per chi vuole chiudere la partita con l’INPS pagando il meno possibile, senza intraprendere cause lunghe. È un compromesso: l’ente incassa almeno il capitale, il contribuente evita ulteriori aggravii. In un’ottica difensiva, rientra negli strumenti deflattivi perché evita il contenzioso o lo chiude anticipatamente.

4.4 Conciliazione giudiziale e altri strumenti transattivi

Nel caso in cui si arrivi ad un contenzioso giudiziario (vedi §4.5), esistono comunque strumenti che permettono di chiudere in via transattiva la lite, evitando di attendere la sentenza. Uno di questi è la conciliazione giudiziale in tribunale: prevista dal processo del lavoro (artt. 410 e 420 c.p.c.) e applicabile anche alle controversie previdenziali. In sostanza, in qualsiasi momento della causa le parti (il debitore e l’INPS, eventualmente con l’intervento dell’Agente della Riscossione se interessa) possono accordarsi per una soluzione bonaria, ad esempio convenendo il pagamento di una parte del dovuto con rinuncia al resto. La conciliazione può essere formalizzata in udienza: il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo sui termini pattuiti e chiude la controversia definitivamente.

Tuttavia, va detto che l’INPS raramente accetta conciliazioni che comportino uno sconto sul capitale dei contributi dovuti. Questo perché i contributi hanno natura indisponibile: l’ente è tenuto per legge a riscuoterli integralmente, trattandosi di risorse destinate alle prestazioni sociali. Diverso è il discorso per sanzioni civili e somme aggiuntive: su quelle l’INPS ha un margine maggiore. In alcuni casi, specialmente se c’è incertezza sull’esito del giudizio, l’INPS può concordare di ridurre le sanzioni o di concedere una dilazione come parte dell’accordo transattivo, in cambio del pagamento integrale del capitale contributivo. Ad esempio, potrebbe conciliarsi sulla base: “Il datore versa tutti i contributi omessi entro tot tempo, e l’INPS rinuncia alle sanzioni di mora maturate”. Tale accordo verrebbe poi omologato dal giudice.

Oltre alla conciliazione “tradizionale”, nel 2023-2024 sono state introdotte alcune novità normative per favorire la definizione delle liti, ma riguardano soprattutto il contenzioso tributario. Per le controversie previdenziali non vi è, ad oggi, un istituto di mediazione obbligatoria o simili. Permane però la possibilità della transazione previdenziale nell’ambito delle procedure concorsuali (concordato preventivo, ristrutturazione dei debiti): un’azienda in crisi, secondo l’art. 63 del Codice della Crisi (già art. 182-ter L.F.), può proporre all’INPS un pagamento parziale dei contributi nell’ambito di un piano concordatario, e se c’è l’omologazione del tribunale, l’INPS è vincolato a quella soluzione (anche se spesso l’INPS vota contro piani con falcidia dei contributi, ma se la maggioranza li approva, la transazione è imposta). Questo è un caso particolare, che esula dal contenzioso ordinario e rientra nelle procedure concorsuali.

In sostanza, al di fuori delle definizioni agevolate di legge e delle rateazioni, lo spazio per accordi con l’INPS in sede giudiziaria è limitato. Ciò non toglie che il dialogo con gli uffici legali dell’INPS possa talora portare a soluzioni pragmatiche: ad esempio, l’INPS potrebbe accettare di chiudere un occhio su piccole differenze se il debitore versa il grosso del dovuto, oppure – qualora emergano durante il processo nuovi documenti del debitore – la stessa INPS potrebbe decidere di desistere dalla pretesa (rinunciando in giudizio, con conseguente estinzione). Tali evenienze però sono più che altro frutto di valutazioni specifiche.

4.5 Impugnazione giudiziale: ricorso al Tribunale (Giudice del Lavoro)

Arriviamo allo strumento principale di difesa in caso di accertamento INPS: l’impugnazione in sede giudiziaria dell’atto, al fine di ottenerne l’annullamento (totale o parziale). Questa è la via da percorrere quando si ritiene che l’avviso di addebito (o la cartella/atto di riscossione) sia illegittimo o infondato nel merito e si voglia far valere i propri diritti davanti a un giudice terzo.

Ecco gli aspetti fondamentali da conoscere per impostare correttamente il ricorso:

  • Giurisdizione e competenza: come accennato, le controversie in materia di obblighi contributivi verso l’INPS rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario e precisamente nella competenza per materia del Tribunale in funzione di giudice del lavoro (art. 442 c.p.c. e D.lgs. 46/1999 art.24). Ciò vale sia se il ricorrente è un’azienda/datore di lavoro, sia se è un lavoratore autonomo o altro soggetto tenuto al versamento. Quindi, diversamente dalle imposte erariali (che vanno in Commissione Tributaria, ora Corte di Giustizia Tributaria), per i contributi INPS il giudice è quello civile-lavoro. La competenza territoriale di regola è quella del luogo dove ha sede l’ufficio INPS che ha emesso l’avviso (spesso coincidente col luogo di residenza/sede del debitore). Ad esempio, un avviso emesso dalla sede INPS di Milano andrà impugnato al Tribunale di Milano – Sezione Lavoro.
  • Forma dell’atto introduttivo: il procedimento è quello lavoristico di cui agli artt. 409 e seguenti c.p.c. Pertanto, si introduce con ricorso depositato in tribunale (non con citazione), entro i termini che diremo. Il ricorso deve contenere i fatti, i motivi di diritto (es. “prescrizione”, “difetto di motivazione”, etc.), l’indicazione dell’atto impugnato e le conclusioni (richiesta di annullamento dell’avviso e delle somme). Deve essere notificato (o quanto meno comunicato) all’INPS convenuto e all’Agente della Riscossione se parte in causa – su questo, nota bene: l’avviso di addebito forma oggetto di un ricorso in opposizione a ruolo ex art. 24 D.lgs.46/99, che per giurisprudenza consolidata vede come litisconsorti necessari sia l’INPS (ente impositore) sia l’Agente della Riscossione (che è il soggetto che procede alla riscossione). È quindi opportuno notificare il ricorso ad entrambi. In mancanza, la giurisprudenza ha avuto orientamenti altalenanti: alcuni tribunali dichiaravano inammissibile il ricorso non notificato all’Agente, altri ammettevano la chiamata in causa successiva. Per sicurezza, meglio coinvolgere subito sia l’INPS che l’Agenzia Entrate-Riscossione, ciascuno per la parte di propria competenza. Questo garantisce che l’eventuale sentenza sia efficace erga omnes (anche nei confronti dell’Agente per bloccare la riscossione).
  • Termine per proporre ricorso: 40 giorni dalla notifica dell’avviso di addebito. Si tratta di un termine perentorio di decadenza (per assimilazione a quello dei decreti ingiuntivi che è 40 giorni). La mancata impugnazione entro tale termine rende definitivo l’accertamento contributivo. La giurisprudenza dominante conferma la perentorietà del termine di 40 giorni decorrenti dalla notifica. L’atto va dunque depositato in Tribunale entro 40 giorni, altrimenti è tardivo e inammissibile, salvo il caso in cui si eccepisca un vizio di notifica dell’avviso stesso (in tal caso, i 40 giorni decorrono dal momento in cui si ha conoscenza effettiva dell’atto, tipicamente quando l’ente avvia l’esecuzione: si pensi a un avviso mai ricevuto e scoperto solo tramite un pignoramento – il debitore potrà fare opposizione tempestivamente da quel momento, eccependo la nullità della notifica originaria).
  • Motivi di ricorso: Nel ricorso il debitore deve articolare le ragioni di opposizione. Queste possono essere di due tipi principali:
    1. Motivi di merito (opposizione all’esecuzione): contestazioni inerenti l’inesistenza del debito contributivo o la sua entità. Esempio: “non devo quei contributi perché il lavoratore non era iscritto all’INPS ma ad altra gestione”, oppure “ho già versato in data X l’importo richiesto, come da ricevuta”, oppure “la somma richiesta è calcolata erroneamente, i contributi dovuti sarebbero minori”. Rientra qui anche l’eccezione di prescrizione, che fa venir meno il diritto sostanziale dell’ente. Questi motivi mirano a negare in tutto o in parte la pretesa contributiva.
    2. Motivi di legittimità formale (opposizione agli atti esecutivi): riguardano vizi dell’atto o del procedimento. Ad esempio: nullità della notifica, difetto di motivazione, mancata indicazione del responsabile, decadenza dall’iscrizione a ruolo, violazione del contraddittorio (quando previsto), ecc. Sono aspetti procedurali che, se fondati, comportano l’annullamento dell’atto indipendentemente dal merito del credito.
    Nel processo del lavoro tuttavia non vi è la netta separazione che c’è nel processo di esecuzione tra opposizione a esecuzione (art.615 c.p.c.) e opposizione ad atti (617 c.p.c.): il ricorso ex art.24 D.lgs.46/99 è un unico atto in cui si possono cumulare entrambi i tipi di doglianza. Il Tribunale esaminerà sia i vizi formali sia quelli sostanziali. Se ad esempio si eccepisce prescrizione e difetto di motivazione, il giudice potrebbe accogliere anche uno solo dei due motivi e annullare l’atto, assorbendo l’altro.
  • Sospensiva: L’impugnazione non sospende automaticamente l’esecuzione dell’avviso. Ciò significa che, scaduti i 60 giorni dalla notifica, l’Agente della riscossione potrebbe legittimamente iniziare le procedure di recupero forzato anche se il debitore ha presentato ricorso entro i 40 giorni. Per evitare che ciò accada, il debitore deve chiedere espressamente al tribunale un provvedimento di sospensione dell’esecuzione. L’art. 24 D.lgs.46/99 prevede che il giudice del lavoro può sospendere l’esecuzione dell’avviso di addebito, su istanza del ricorrente, valutati i presupposti. In pratica, nel ricorso iniziale conviene inserire subito una richiesta di sospensiva e motivarla (ad es. “si chiede di sospendere la efficacia esecutiva dell’avviso impugnato, attesa la fondatezza prima facie delle eccezioni svolte – es. prescrizione – e il pericolo di un pregiudizio grave derivante da eventuali atti di pignoramento nel frattempo”). Il giudice fisserà un’udienza in tempi brevi (di solito qualche settimana) per discutere la sospensiva. Se la concede, emetterà un’ordinanza di sospensione che il ricorrente dovrà poi notificare prontamente all’Agente della Riscossione affinché questi blocchi le procedure. Se non la concede, la riscossione proseguirà: in tal caso, può ancora essere utile accordarsi con l’Agente per una rateazione (anche durante la causa) per evitare nel frattempo i pignoramenti.
  • Svolgimento del giudizio: Il processo seguirà il rito del lavoro, quindi con udienza di comparizione delle parti fissata (spesso dopo qualche mese), eventuale tentativo di conciliazione iniziale (raramente fruttuoso con l’INPS, come detto), poi trattazione nel merito. L’INPS si costituirà in giudizio depositando memoria difensiva e documenti (spesso il fascicolo previdenziale o il verbale ispettivo alla base dell’avviso). Il giudice esaminerà i documenti e può disporre eventualmente CTU contabile se ci sono questioni di conteggi. Nella maggior parte dei casi, trattandosi di questioni documentali e giuridiche (prescrizione, decadenza, vizi formali), la decisione avverrà sulla base degli atti. L’onere della prova nel merito spetta solitamente all’INPS: ad esempio, se il debitore contesta di dovere contributi per un certo lavoratore, sarà l’INPS a dover provare che quel lavoratore era alle dipendenze e che le somme non risultano versate. Tuttavia, il debitore ha l’onere di allegare puntualmente i fatti estintivi (pagamenti eseguiti, prescrizione compiuta, ecc.) e possibilmente provarli (p.es. esibire le ricevute F24).
  • Esito: Il Tribunale, con sentenza, potrà:
    • Accogliere il ricorso, annullando l’avviso impugnato (in tutto o in parte). In caso di accoglimento parziale (es. prescrizione per alcuni anni), dichiarerà non dovute le somme corrispondenti e potrà eventualmente rideterminare il dovuto residuo. La sentenza va notificata all’Agente della Riscossione per ottenere lo sgravio formale del debito. Se nel frattempo il debitore aveva pagato (in tutto o in parte), avrà diritto al rimborso di quanto non doveva (solitamente si fa istanza all’INPS stessa allegando la sentenza passata in giudicato).
    • Rigettare il ricorso, confermando la legittimità dell’avviso. In tal caso, l’atto diviene definitivo ed esecutivo: l’Agente potrà procedere (se non l’ha già fatto) con pignoramenti, e il debitore dovrà pagare includendo ulteriori interessi maturati medio tempore. Inoltre, il soccombente potrebbe essere condannato a rifondere le spese legali all’INPS (e Agente) secondo le tariffe forensi.
    • Pronunce intermedie: il giudice potrebbe anche dichiarare il ricorso inammissibile (ad es. per tardività oltre 40 gg), oppure improcedibile (se manca una notifica essenziale, come quella all’Agente, e non sanabile), oppure cessata materia del contendere (se ad esempio l’INPS nel frattempo ha annullato in autotutela l’avviso o se il debitore aderisce a una rottamazione che chiude il debito).

Da notare che contro la sentenza del Tribunale è ammesso appello (Corte d’Appello sez. lavoro) e successivamente ricorso per Cassazione. Tuttavia, raramente le controversie su avvisi di addebito arrivano fino in Cassazione se l’importo non è elevato, per via dei costi. L’INPS tende ad appellare quando la questione di diritto è importante (es. sentenze di merito che creano precedenti a suo sfavore – v. vicenda prescrizione quinquennale, passata attraverso molte Cassazioni).

Opposizioni in fase esecutiva: Fin qui abbiamo parlato del ricorso principale entro 40 giorni. Ma può accadere che il debitore si attivi dopo, quando già è partito un pignoramento o un fermo amministrativo. In tal caso, la difesa cambia sagoma: se l’avviso non è stato impugnato nei termini, il debitore è precluso dal contestare nel merito il debito (in sostanza quel che doveva fare entro 40 gg non lo può più fare dopo). Può però ricorrere alle opposizioni esecutive classiche:

  • Opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.: per contestare il diritto di procedere ad esecuzione, ma solo per fatti sopravvenuti o vizi del titolo di tipo inesistenti (es. estinzione del debito per prescrizione maturata dopo la notifica dell’avviso; pagamento intervenuto; nullità radicale della notifica del titolo che impedisce di considerarlo valido). Se l’avviso era regolarmente notificato e non impugnato, non si possono più opporre motivi precedenti (come l’erroneità del credito o la prescrizione precedente). Si può però opporre ad esempio la prescrizione sopravvenuta: se sono passati più di 5 anni dalla notifica dell’avviso senza che l’Agente abbia compiuto atti interruttivi, anche il titolo definitivo si prescrive e il pignoramento iniziato successivamente può essere contestato. L’opposizione 615 va proposta al giudice dell’esecuzione (Tribunale del luogo dell’esecuzione). In materia contributiva, per coerenza, la competenza dovrebbe restare del giudice del lavoro, ma trattandosi di fase esecutiva, è prassi di incardinarla sempre al Tribunale ordinario (sezione esecuzioni). Su questo aspetto c’è dibattito, ma non addentriamoci.
  • Opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.: riguarda vizi formali degli atti del procedimento esecutivo (non del titolo). Ad esempio, un pignoramento notificato senza il rispetto dei termini, o un difetto nel precetto (che nell’esecuzione da avviso coincide con l’intimazione, se necessaria). Il termine è breve (20 giorni dalla notifica dell’atto che si vuole opporre).

In ogni caso, la miglior difesa è quella giocata subito entro i 40 giorni, perché consente di far valere tutto in un unico giudizio e bloccare la riscossione sul nascere. Agire dopo, in emergenza su un pignoramento in corso, è possibile ma molto più limitato.

4.6 Fase esecutiva: difendersi da fermi, ipoteche, pignoramenti

Se il debitore non paga volontariamente e non impugna l’atto (oppure lo impugna ma non ottiene sospensione), trascorsi i termini l’Agente della Riscossione procederà con la fase esecutiva per recuperare coattivamente il credito. È fondamentale conoscere come funziona questa fase e quali strumenti di difesa residuano per il debitore.

Iter della riscossione forzata (schematico):

  1. Decorso di 60 giorni dalla notifica dell’avviso/cartella senza pagamento né ricorso con sospensiva.
  2. L’Agente della Riscossione invia, se necessario, una intimazione di pagamento (art.50 DPR 602/73) dando ulteriori 5 giorni. Non obbligatoria se l’azione inizia entro 1 anno dalla notifica del titolo, ma spesso viene inviata comunque.
  3. Dopodiché può avviare le azioni cautelari/esecutive: tipicamente, per importi piccoli avvia il fermo su veicoli; per importi medio-grandi notifica il pignoramento (presso terzi su conti correnti o stipendi, oppure immobiliare se ci sono beni immobili di valore).
  4. Fermo amministrativo: è un atto con cui l’Agente iscrive al PRA un vincolo su un autoveicolo del debitore, vietandone la circolazione (usato come leva di pressione). Per legge (art. 86 DPR 602/73), può farlo previa notifica di un preavviso e se il debitore non paga entro 30 gg. Attualmente, è previsto che non si possa iscrivere fermo per debiti complessivi sotto €1.000 (norma introdotta nel 2013). Quindi solo se il debito supera tale soglia l’Agente può procedere al fermo di un’auto/moto. Il debitore, ricevuto il preavviso di fermo, ha 30 giorni per saldare o chiedere rateazione (o dimostrare che il mezzo serve per la sua attività lavorativa primaria, circostanza che talvolta l’Agente considera per evitare il fermo). Se scade, viene iscritto il fermo e notificato. Il fermo non realizza denaro, ma impedisce di usare/vendere l’auto: per ottenere la cancellazione il debitore deve pagare l’intero importo o almeno ridurlo sotto soglia (di solito vuole l’integrale).
  5. Ipoteca: per debiti a partire da €20.000 complessivi, l’Agente può iscrivere ipoteca su beni immobili del debitore. Anche qui prima invia un preavviso (30 gg per pagare). Se procede, l’ipoteca viene iscritta a garanzia del credito, per un importo fino al doppio del dovuto. Non porta immediata espropriazione ma vincola l’immobile (impossibile venderlo liberamente). Se il debitore persiste nel non pagare, per debiti sopra €20.000 l’Agente può anche espropriare l’immobile (ma con limiti: prima casa non di lusso e residenza del debitore è impignorabile dal 2013, mentre altri immobili sì, con soglia debito > €120.000).
  6. Pignoramento presso terzi: la forma più rapida di esecuzione è colpire crediti o disponibilità del debitore. L’Agente invia un ordine di pagamento diretto alla banca (pignoramento del conto corrente) oppure un atto di pignoramento al datore di lavoro/pensioni (pignoramento di stipendi/pensioni entro 1/5), oppure altri crediti (fitti, clienti, etc.). Il pignoramento presso terzi può scattare anche per somme non altissime (basta qualche migliaio di euro in conto, e l’Agente, avendo accesso all’Anagrafe dei conti, sa dove colpire). Avviene senza preavviso specifico (l’avviso di addebito e l’eventuale intimazione sono già di per sé l’avvertimento). Il contribuente di solito se ne accorge quando la banca gli comunica il blocco del conto o quando riceve l’atto. A quel punto ha solo le opposizioni esecutive come rimedi (artt.615/617 c.p.c., visti prima) o può cercare un accordo last minute col fisco per sbloccare (spesso se chiede rateazione anche a questo stadio, l’Agente sospende il trasferimento delle somme pignorate in attesa che paghi le rate).
  7. Pignoramento immobiliare: meno comune perché l’Agente preferisce altre vie, ma possibile su immobili non prima casa se debito > €20.000. Dopo iscritta ipoteca e intimazione, può notificare atto di pignoramento immobiliare e procedere in tribunale alla vendita forzata. Il debitore può opporsi in tribunale se ci sono vizi o cercare di pagare prima dell’asta (riscattando il bene, con aggravio di costi significativi).

Difese nella fase esecutiva:

  • Pagamento/Rateazione tardiva: Finché non si è conclusa la vendita o l’assegnazione dei beni pignorati, il debitore può sempre salvare il salvabile pagando. Ad esempio, se subisce un pignoramento dello stipendio, può ancora chiedere all’Agente una rateazione del residuo per liberare il quinto (l’Agente sospende il pignoramento attivo se concede dilazione). Se c’è un’asta fissata su un immobile, può pagare tutto (capitale, interessi, spese) prima dell’incanto e ottenere la cancellazione del pignoramento. Certo, a quel punto paga anche molti costi aggiuntivi di procedura.
  • Opposizione 615/617: come sopra accennato, se vi sono motivi sopravvenuti o vizi formali degli atti esecutivi. Ad esempio, se l’Agente non avvisò prima del fermo o ipoteca (mancato preavviso), il debitore può ricorrere al giudice civile per far dichiarare nullo il fermo/ipoteca. Spesso i giudici di merito annullano fermi senza preavviso, perché la legge lo impone a pena di nullità (anche se su questo c’è stato dibattito, ormai l’orientamento è favorevole al contribuente). Analogamente, un pignoramento su conto oltre il limite del dovuto (a volte vengono bloccati più soldi del necessario) può essere contestato. Oppure, se l’Agente viola proporzionalità (ma è dura far valere quest’ultimo concetto, la legge non prevede un vero principio di proporzionalità codificato come nei tributi locali).
  • Sospensione giudiziale dell’esecuzione: Il debitore che faccia opposizione può chiedere al giudice dell’esecuzione di sospendere in via d’urgenza il processo esecutivo (ad es. sospendere l’asta immobiliare) se ci sono gravi motivi. È un rimedio cautelare analogo a quello visto per la fase precedente ma davanti al giudice dell’esecuzione.
  • Contestazione dei calcoli: Spesso, anni dopo l’iscrizione a ruolo, gli importi lievitano per interessi/sanzioni. Il contribuente ha diritto di ottenere dall’Agente il dettaglio. Se crede ci siano errori, può segnalarli o, se arrivano a esecuzione, farli valere in opposizione come “precetto eccessivo” (anche se tecnicamente l’avviso contiene già tutto, ma in caso di pagamento parziali fatti e non sottratti correttamente, etc., si può far correggere).

In ogni caso, nella fase esecutiva l’obiettivo del debitore è spesso prendere tempo per reperire le somme o trovare un accordo. Quindi, l’arma tattica a volte è usare ogni spiraglio di opposizione (fondato) per rallentare la procedura. Ad esempio, eccepire un vizio di notifica del titolo può convincere il giudice ad arrestare l’esecuzione e rinviare le parti sul merito a un giudizio ordinario, guadagnando mesi o anni.

Va però evidenziato che arrivati all’esecuzione, i costi lievitano: verranno addebitate le spese di ufficiali giudiziari, compensi di avvocati dell’Agente, diritti vari, che possono aggiungere un 5-10% al debito. Pertanto, se possibile, è sempre preferibile agire prima, ossia in sede di avviso o cartella, per evitare di giungere a questo stadio.

DURC e altre conseguenze: A completamento, si segnala un’altra “difesa indiretta” che a volte il debitore tenta: l’INPS in caso di contributi non versati segnala l’irregolarità contributiva e nega il DURC regolare (Documento Unico Regolarità Contributiva). Senza DURC, le aziende non possono partecipare ad appalti pubblici o ottenere certi benefici. Per il debitore, quindi, risolvere in fretta il contenzioso contributivo è importante anche per riottenere il DURC regolare. In pendenza di ricorso giudiziario, la norma (D.M. 30/1/2015) consente un DURC “sospeso” se c’è provvedimento di sospensione dell’atto impugnato: con l’ordinanza di sospensione del giudice, l’INPS rilascia un DURC provvisorio in attesa del giudizio. Senza sospensione, l’irregolarità risulta e il DURC sarà negativo. Questa è un’ulteriore ragione per chiedere subito la sospensiva quando si ricorre: salvaguardare la continuità lavorativa dell’impresa.

5. Giurisprudenza recente e casi pratici rilevanti

Nel panorama degli accertamenti contributivi INPS, la giurisprudenza – soprattutto di legittimità – gioca un ruolo fondamentale nel chiarire l’interpretazione delle norme e nell’indirizzare la difesa dei debitori. Negli ultimi anni (2022-2025) sono numerose le sentenze della Corte di Cassazione che hanno affrontato questioni chiave in materia di avvisi di addebito, prescrizione, notifiche, motivazione degli atti, ecc. In questa sezione esamineremo alcune delle pronunce più significative, che rappresentano precedenti autorevoli cui far riferimento in sede di contenzioso. Inoltre, passeremo in rassegna qualche caso pratico emblematico, utile per comprendere come i principi di diritto si traducano in soluzioni concrete.

5.1 Nullità dell’avviso per vizi di motivazione e prova del credito – Cass. civ. Sez. Lavoro, n. 1095/2022

Principio affermato: Un avviso di addebito privo di una adeguata esposizione dei fatti e dei dati a supporto della pretesa contributiva è illegittimo per difetto di motivazione. In particolare, è nulla la pretesa che risulti indeterminata o che rinvii a elementi esterni non messi a disposizione del destinatario. Inoltre, in sede di giudizio, l’INPS ha l’onere di produrre tutta la documentazione su cui si fonda il credito: se non lo fa, il giudice non può “sanare” la carenza istruttoria e deve annullare l’atto.

Dettagli: Nella causa in oggetto, un contribuente eccepiva che l’avviso INPS fosse estremamente generico: indicava somme dovute ma “rinviava per relationem a un verbale ispettivo non rinvenuto e forse inesistente”, oltre a non quantificare chiaramente alcune differenze contributive minori. La Cassazione ha confermato la decisione di merito che aveva annullato l’avviso, sottolineando che la motivazione per relationem è legittima solo se l’atto richiamato è conosciuto o allegato, altrimenti lascia il destinatario nell’impossibilità di comprendere la pretesa. Inoltre, la Suprema Corte ha ribadito che in giudizio l’INPS non può supplire alle carenze dell’atto con documenti tardivi e non comunicati: il giudice non può ricostruire d’ufficio ciò che l’ente non produce. In definitiva, ogni elemento essenziale (periodi, aliquote, basi di calcolo, provvedimenti di sgravio eventualmente revocati, ecc.) dev’essere portato a conoscenza del debitore, pena la nullità. Applicazione pratica: per il debitore, questa sentenza è un’arma nei casi in cui l’avviso risulti oscuro o monco di spiegazioni – specie se l’INPS fa riferimento a verbali o note che non allega. Si potrà invocare la nullità per difetto di motivazione e pretendere che l’INPS esibisca in giudizio tutto: se non lo fa, il ricorso verrà accolto.

5.2 Avviso di addebito in pendenza di giudizio tributario – Cass. civ. Sez. Lav., n. 4032/2016 e giurisprudenza conforme

Principio affermato: L’INPS non può procedere alla riscossione contributiva (mediante iscrizione a ruolo) basata su accertamenti fiscali o previdenziali ancora sub iudice. L’iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali è condizionata, ove l’accertamento sottostante sia stato impugnato in sede giudiziaria, al previo ottenimento di un titolo giudiziale definitivo. Pertanto, l’emissione di un avviso di addebito quando l’accertamento da cui origina il credito è tuttora oggetto di contenzioso è illegittima.

Dettagli: Il caso tipico è quello già discusso al §2.2: un’azienda contesta davanti al giudice tributario un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate; nondimeno l’INPS procede a chiedere contributi aggiuntivi sulla scorta di quell’accertamento fiscale. La Cassazione, con la sent. n. 4032/2016 (e precedenti conformi n.8379/2014), ha sancito che l’ente previdenziale deve attendere l’esito del giudizio sull’accertamento prima di iscrivere a ruolo quei contributi. Diversi tribunali hanno applicato il principio: ad es., Tribunale di Cassino 2019 e Trib. Catania 2019 hanno annullato avvisi di addebito emessi dall’INPS “in pendenza di ricorso tributario”, proprio perché prematuri. Nel 2023 la Cassazione (ord. n. 16423/2023) ha ulteriormente ricordato che l’INPS non può ignorare un contenzioso in corso: anche se l’INPS non era a conoscenza formale del ricorso, ciò non conta, l’impugnazione rappresenta un “impedimento legale” all’azione esecutiva. Applicazione pratica: qualora il debito contributivo derivi da un accertamento fiscale (o anche da un provvedimento amministrativo impugnato in altra sede, es. un provvedimento INAIL contestato), il debitore potrà opporsi all’avviso di addebito sostenendo che esso è stato emesso in violazione di legge, e invocando queste pronunce. È un motivo di ricorso formale (violazione art. 24 D.lgs.46/99 e principi di buona amministrazione) che può portare all’annullamento integrale dell’avviso con rinvio dell’accertamento contributivo al dopo la definizione dell’altra lite.

5.3 Validità della notifica a mezzo posta A/R – Cass. civ., ord. n. 16423/2023

Principio affermato: La notifica dell’avviso di addebito mediante raccomandata con avviso di ricevimento è perfettamente valida, equiparabile a quella effettuata tramite messo notificatore, purché eseguita agli indirizzi previsti e con le cautele di legge. Non è quindi necessario che l’avviso sia consegnato da un ufficiale giudiziario o da un messo comunale: l’invio diretto con posta raccomandata è conforme alla normativa vigente e sufficiente a radicare la conoscenza legale dell’atto.

Dettagli: La questione nasceva dal fatto che l’art. 30 D.L. 78/2010, pur prevedendo la notifica a mezzo PEC come prioritaria, non dettaglia la figura del notificante in caso di posta cartacea. L’INPS comunemente invia gli avvisi tramite raccomandata semplice (non attraverso gli ufficiali giudiziari). Alcuni debitori avevano eccepito l’inesistenza della notifica postale perché non affidata a un “ufficiale notificatore”. La Cassazione con l’ordinanza 16423/2023 ha fugato il dubbio, richiamando la legislazione speciale (L. 890/1982) e asserendo che l’avviso di addebito può essere notificato con raccomandata A/R come le cartelle esattoriali. Nel caso di specie, il destinatario contestava la regolarità, ma la Corte ha confermato che è una modalità lecita e che l’avviso era stato correttamente notificato. Applicazione pratica: per il debitore, è importante sapere che non può contestare la notifica solo perché avvenuta per posta ordinaria: se ha firmato la ricevuta o un familiare lo ha fatto, la notifica è valida. Potrà piuttosto eccepire vizi specifici (es: invio a indirizzo errato, firmatario non autorizzato, mancato invio di seconda raccomandata in caso di compiuta giacenza, ecc.), ma non il mezzo in sé. D’altra parte, il fatto che Cassazione convalidi la raccomandata come strumento notorio pone l’onere sul debitore di essere diligente nel gestire la propria corrispondenza (aggiornare domicilio, ritirare le raccomandate in giacenza in posta, ecc.), pena vedersi notificare validamente atti anche in propria assenza.

5.4 Notifica via PEC e conseguenze di irregolarità – Cass. civ., ord. n. 1261/2023

Principio affermato: La notifica dell’avviso di addebito tramite PEC (Posta Elettronica Certificata) è valida solo se effettuata all’indirizzo PEC risultante dagli appositi registri legali (Registro Imprese per società, INI-PEC per professionisti, Indice PA per enti pubblici). Qualora l’INPS invii la PEC ad un indirizzo non ufficiale o non attivo, la notifica è da considerarsi inesistente e l’atto non produce effetti. Inoltre, la notifica PEC deve rispettare i requisiti tecnici (firma digitale valida, formato .p7m, allegazione integrale dell’atto): difetti in questi aspetti possono comportare nullità.

Dettagli: La sentenza 1261/2023 (ordinanza) della Cassazione ha trattato un caso in cui l’INPS aveva inviato l’avviso via PEC ad un indirizzo non indicato nei pubblici elenchi come domicilio elettronico del destinatario. La Corte ha ritenuto tale notifica inesistente (non sanabile neppure con la costituzione tardiva del destinatario) perché mancante di un elemento essenziale: l’utilizzo dell’indirizzo corretto. Ha richiamato il principio generale secondo cui la notifica telematica è possibile solo agli indirizzi ufficiali, pena appunto l’inesistenza (che è eccezione più grave della nullità, non sanabile se non con conoscenza di fatto piena e accettazione). Applicazione pratica: se un’impresa o professionista cambia PEC e l’INPS invia all’indirizzo vecchio (non più attivo in registro) l’avviso, quella notifica è come mai avvenuta. Il debitore potrà quindi fare opposizione appena ne viene a conoscenza (anche tardivamente) eccependo l’inesistenza della notifica originaria, e il giudice dovrà dichiarare che l’avviso non è divenuto definitivo. Per proteggersi, comunque, il debitore deve mantenere aggiornata la propria PEC in Camera di Commercio o albo: se la colpa è del destinatario (casella piena, PEC scaduta per mancato rinnovo), la giurisprudenza tende a non tutelarlo. Diverso se l’errore è dell’INPS (es. invio a pec sbagliata, refuso nel nome dominio, ecc.). Questa pronuncia, unita a quelle sul cartaceo, tratteggia l’importanza della notifica: è il momento cruciale in cui si gioca la tempestività della difesa.

5.5 Prescrizione quinquennale anche su crediti da accertamento – Cass. civ., Sez. Lav., ord. n. 21371/2018 e Cass. SU 23397/2016

Principio affermato: La regola della prescrizione quinquennale dei contributi (L.335/95) si applica in ogni caso, anche a contributi che emergono da accertamenti successivi o da sentenze. Non esiste più nel nostro ordinamento una prescrizione decennale per contributi “non denunciati”: il termine è sempre di 5 anni dal momento in cui il contributo era esigibile, indipendentemente dal fatto che la sua quantificazione avvenga più tardi. Il riconoscimento giudiziale di differenze retributive non sposta il dies a quo della prescrizione contributiva.

Dettagli: Queste pronunce sono importanti per contrastare un vecchio orientamento secondo cui, se il datore occultava la base imponibile e solo in un momento successivo (es. a seguito di ispezione o causa di lavoro) si accertavano le retribuzioni dovute, il termine di prescrizione per i relativi contributi potesse decorrere dalla scoperta (in analogia con i tributi evasi). La Cassazione, includendo Sez. Un. 23397/2016 e poi Cass. 21371/2018, ha spazzato via quell’idea residua affermando che 5 anni è il termine fisso, e che l’obbligo contributivo nasce “con il rapporto di lavoro” e sulla “retribuzione spettante per legge/contratto, anche se non corrisposta”. Inoltre, hanno chiarito che le sentenze tra datore e lavoratore non hanno efficacia interruttiva verso l’INPS: se il lavoratore ottiene una sentenza nel 2020 per differenze sul 2015-2016, l’INPS non può pretendere contributi su 2015-2016 nel 2020 perché ormai prescritti (avrebbe dovuto pretenderli entro 2021 contando dal 2016; in quel caso specifico la disputa era se decorresse dalla sentenza o dal 2015 – la Cassazione ha detto dal 2015). Applicazione pratica: per il debitore questo significa che se l’INPS tenta di chiedere contributi oltre i 5 anni sostenendo che “non li avevamo potuti calcolare prima”, tale pretesa non regge. Anche situazioni come contributi da accertamenti fiscali: l’Agenzia scopre redditi 2014 non dichiarati, la sentenza tributaria arriva nel 2021 che conferma; l’INPS nel 2022 chiede contributi su 2014. Ebbene, quei contributi del 2014 erano esigibili nel 2015 (anno di versamento ordinario), dunque nel 2022 sono prescritti comunque, benché il contribuente li avesse occultati. La difesa sarà l’eccezione di prescrizione quinquennale. Attenzione però: la Cassazione ammette la rinuncia alla prescrizione da parte del datore se riconosce il debito. Se un datore, come in alcuni casi avviene, sottoscrive verbali di riconoscimento o piani di recupero contributivo, quell’atto può valere come riconoscimento ex art.1988 c.c. e dunque far decorrere la prescrizione da capo (ma per non confondersi: questo è diverso dal dire “da 10 anni”, resta 5 anni ma riparte dal riconoscimento). Quindi mai firmare nulla che attesti debiti prescritti, se si vuol mantenere la difesa.

5.6 Decadenza da ruolo e sorte del credito – Cass. civ., ord. n. 27726/2019

Principio affermato: Come già spiegato nel §3.2, la Cassazione ha definitivamente chiarito che la decadenza ex art.25 D.lgs.46/99 (mancato rispetto del termine per emettere il ruolo/avviso) non estingue il credito contributivo, ma impedisce solo all’INPS di riscuoterlo con quella procedura. L’INPS conserva il diritto di far accertare il credito per via giudiziaria ordinaria. Ciò significa che il debitore, se fa annullare l’avviso per decadenza, non può ritenersi automaticamente libero dal debito (che potrebbe essergli richiesto in altra forma), anche se in pratica l’ente deve attivarsi e non è detto che lo faccia.

Dettagli: L’ordinanza 27726/2019 (già esaminata) spiega che la decadenza è processuale e non sostanziale. Numerose altre pronunce – Cass. 5963/2018; Cass. 19708/2017; Cass. 15211/2017 – hanno consolidato tale interpretazione. Applicazione pratica: per il debitore, sollevare la decadenza conviene comunque perché fa annullare l’atto esecutivo, fermando la riscossione. Tuttavia, deve essere consapevole che l’INPS potrebbe poi citarlo in tribunale autonomamente. Ad esempio, se l’importo è grosso e meritevole, l’INPS può emettere un decreto ingiuntivo o una citazione e, avendo già pronti i documenti, vincere la causa (fatti salvi altri vizi). Spesso però i crediti che sfuggono al ruolo per decadenza sono frammentati o datati, e l’INPS preferisce non inseguirli. In pratica, quindi, far valere la decadenza è quasi sempre vantaggioso: riduce la pressione immediata e, se l’ente non reagisce, di fatto il debitore la fa franca (specie se poi maturano anche prescrizioni, ecc.). Come scrive la Cassazione, “un eventuale vizio formale della cartella o il mancato rispetto del termine di decadenza comporta soltanto l’impossibilità per l’Istituto di avvalersi del titolo esecutivo”: ecco, quella “impossibilità” spesso è sufficiente a scoraggiare l’INPS.

5.7 Ulteriori casi pratici e tendenze giurisprudenziali

  • Omesso avviso bonario: Sebbene non vi sia una pronuncia ad hoc, alcuni giudici di merito hanno annullato avvisi se non preceduti dall’avviso bonario quando questo era espressamente previsto da norme amministrative. Ad esempio, se da procedure interne INPS risultava l’obbligo di invio di un preavviso (specie per gli artigiani/commercianti con debiti da dichiarazione), la sua omissione è stata qualificata come violazione di norme procedimentali e difesa del contribuente. Non è però una regola generale: la Cassazione in ambito fiscale ha detto che l’avviso bonario non è sempre obbligatorio. Quindi sul piano contributivo, l’argomento “mancato preavviso” può essere speso ma con esiti incerti, a meno che una circolare INPS non lo imponesse in quel caso specifico.
  • Sanzioni civili e riduzioni: Un altro tema di contenzioso è la natura delle sanzioni civili (somme aggiuntive per omesso versamento). La Cassazione ha chiarito che sono di natura risarcitoria e non afflittiva, quindi non si applica loro la L.689/81 sulle sanzioni amministrative. Ciò significa che il principio del favor rei (riduzione in caso di norme sopravvenute) non si applica automaticamente. Tuttavia, spesso in giudizio si discute se l’importo delle sanzioni sia calcolato correttamente: l’INPS deve motivare anche su questo e talvolta errori di calcolo portano all’annullamento parziale (es. se pretende sanzioni oltre il tasso soglia di legge).
  • Soci di SRL e responsabilità: Ci sono sentenze (Cass. 25284/2017 ad es.) su casi in cui l’INPS cerca contributi da soci ritenendoli lavoratori occulti. Non attinenti alla procedura dell’avviso, ma importanti sul merito. In generale, la Cassazione è rigida: se un socio lavora nell’azienda, è comunque tenuto a iscrizione gestione commercianti e contributi (anche se prende solo utili).
  • Crediti INPS in compensazione: Non giurisprudenza ma prassi: non è ammesso compensare contributi a ruolo con crediti fiscali tramite F24 (dopo che il ruolo è passato all’Agente, eventuali crediti vanno usati con procedure specifiche, es. istanza di compensazione ruoli con crediti d’imposta ex art. 28-ter DPR 602/73, rara). Dunque, sostenere in giudizio di aver “compensato” il debito con crediti non pagandolo non è difesa valida, a meno che la compensazione fosse effettivamente autorizzata (in genere non lo è per contributi in fase coattiva).
  • Reato di omesso versamento ritenute >10k: Sul fronte penale, la Cassazione penale ha affrontato la questione se l’avvenuta estinzione del debito per prescrizione amministrativa incida sul reato: la risposta è no, la prescrizione del credito non estingue il reato di omesso versamento (che si perfeziona trascorsi i 3 mesi dal termine se soglia superata). Quindi un datore che “scampa” al pagamento per prescrizione civile può tuttavia essere sanzionato penalmente se quella prescrizione è maturata dopo i 3 mesi. Il reato però è estinguibile pagando il dovuto tardivamente (prima del giudizio, se la norma attuale lo consente con oblazione). In sintesi, chi si difende sul piano civile con la prescrizione potrebbe ancora dover affrontare noie penali se aveva ritenute non versate sopra soglia.

Con questa rassegna giurisprudenziale, risulta evidente come molti aspetti siano in evoluzione interpretativa. Il difensore del debitore dovrà tener presente gli orientamenti attuali: ad esempio, puntare su prescrizione quinquennale (sempre), su nullità formali (motivazione, notifica PEC) se vi sono, e sapere che decadenza gli dà chance di scampo parziale. L’orizzonte 2025 ci dirà poi se la Corte di Giustizia UE interverrà modificando lo scenario (v. la questione sollevata dal Tribunale di Napoli sulla compatibilità della prescrizione breve col diritto UE, §3.1). Un ulteriore elemento da monitorare saranno eventuali riforme normative interne: è possibile che il legislatore in futuro estenda a 10 anni la prescrizione contributiva per tutelare di più i lavoratori (qualora la CGUE ritenesse la disciplina interna lesiva di diritti comunitari). Al momento però la legge è quella qui esposta.

6. Domande frequenti (FAQ) su accertamenti INPS e difesa del debitore

Di seguito proponiamo una serie di domande e risposte che riepilogano in forma sintetica i principali dubbi che possono sorgere a chi si trova ad affrontare un accertamento per contributi non versati. Questa sezione ha lo scopo di fornire un rapido riferimento pratico, chiarendo i concetti chiave esposti nella guida con un linguaggio semplice ma preciso.

D: Che cos’è esattamente un “accertamento INPS per contributi non versati”?
R: Si tratta dell’insieme delle attività con cui l’INPS verifica la mancanza di contributi dovuti e ne richiede il pagamento. In senso stretto, l’“accertamento” si concretizza in un atto formale – oggi l’avviso di addebito INPS immediatamente esecutivo – con cui l’ente intima al debitore di versare una certa somma a titolo di contributi omessi (più sanzioni e interessi). Può essere preceduto da fasi interlocutorie (avvisi bonari, verbali ispettivi). Comunemente, quando si riceve una comunicazione dall’INPS che richiede contributi arretrati, si parla di “accertamento contributivo”.

D: Qual è la differenza tra un avviso bonario, un avviso di addebito INPS e una cartella esattoriale?
R: L’avviso bonario è una lettera di cortesia (non un atto esecutivo) con cui l’INPS invita a pagare spontaneamente entro un termine, per regolarizzare un’omissione senza ulteriori sanzioni. L’avviso di addebito INPS è invece l’atto formale (introdotto dal 2011) con valore di titolo esecutivo: notifica il debito contributivo e se non si paga entro 60 giorni, l’Agente della Riscossione può procedere a pignoramenti ecc. La cartella esattoriale è lo strumento che veniva usato prima (e tuttora per altri enti o per vecchi crediti): è emessa dall’Agente della Riscossione su incarico dell’ente creditore. Per i contributi INPS, l’avviso di addebito ha preso il posto della cartella, quindi oggi raramente si riceverà una “cartella” dall’INPS. In sintesi: avviso bonario = invito informale (non obbligatorio); avviso di addebito = atto esecutivo ufficiale dell’INPS; cartella = atto esecutivo dell’Agente (ormai superato per INPS, salvo vecchie pendenze).

D: Se ricevo un avviso di addebito INPS, quanto tempo ho per reagire?
R: 40 giorni dalla data di notifica per presentare ricorso giudiziario al Tribunale (sez. lavoro). Questo è il termine perentorio per impugnare l’atto. Inoltre, entro 60 giorni dalla notifica bisogna pagare, altrimenti l’Agente della Riscossione può iniziare la riscossione forzata. Quindi, ricapitolando: entro 40 gg si può depositare ricorso in tribunale (ed eventualmente chiedere sospensione), entro 60 gg si può evitare il pignoramento pagando o ottenendo rateazione. Se non si fa nulla entro 60 giorni, passato quel termine il debito va in esecuzione.

D: Davanti a quale giudice devo impugnare l’avviso di addebito? Devo rivolgermi al giudice tributario?
R: No, le controversie sui contributi INPS non vanno dal giudice tributario. La competenza è del Tribunale ordinario – Sezione Lavoro, territorialmente competente per sede dell’INPS (o domicilio del debitore). Si segue il rito del lavoro (ricorso ex art.442 c.p.c.). Questo vale per datori di lavoro, lavoratori autonomi, artigiani, professionisti, ecc.: tutte le liti previdenziali obbligatorie sono di competenza del giudice del lavoro.

D: Cosa succede se non faccio opposizione entro 40 giorni?
R: L’avviso di addebito diventa definitivo. Ciò significa che non potrai più contestare in giudizio l’esistenza o l’ammontare di quel debito (salvo pochi casi eccezionali, ad esempio notifica nulla che ti ha impedito di sapere dell’atto). Inoltre, dopo 60 giorni l’Agente della Riscossione potrà attivare procedure esecutive (pignoramenti, fermi, ipoteche). In pratica, dopo i 40 giorni perdi la possibilità di far valere motivi di merito o vizi dell’atto in sede giudiziaria ordinaria. Potrai solo eventualmente agire in extremis con opposizioni esecutive per questioni sopravvenute (come prescrizioni maturate dopo, ecc., v. oltre), ma la maggior parte delle difese viene preclusa. Quindi è fondamentale rispettare il termine di 40 giorni.

D: L’INPS mi ha notificato l’avviso a un indirizzo dove non risiedo più e l’ho saputo tardi: posso impugnarlo oltre i 40 giorni?
R: Se la notifica è stata effettuata presso un indirizzo errato (non più attuale e non comunicato nei registri) ed effettivamente non hai avuto conoscenza dell’atto nei termini, puoi far valere questo vizio. Tecnicamente, una notifica a indirizzo vecchio potrebbe essere nulla (o inesistente) e se ne prendi conoscenza solo casualmente più tardi (ad es. quando ti arriva un pignoramento), potrai presentare opposizione sostenendo che i 40 giorni decorrono dalla conoscenza effettiva. Occorre però convincere il giudice che la notifica era irregolare: es. se c’è stata compiuta giacenza a un indirizzo dove non abitavi, o PEC inviata a casella non tua, ecc. In tali casi, il termine di 40 gg può essere considerato riaperto dal momento in cui sei venuto a conoscenza dell’atto. È una situazione delicata: conviene muoversi immediatamente appena scopri l’esistenza dell’avviso, senza ulteriori indugi, e sollevare formalmente la nullità/inesistenza della notifica pregressa. Se invece l’avviso era stato notificato regolarmente (per esempio alla tua PEC risultante dall’albo) ma tu l’hai ignorato, non potrai giustificare un’opposizione tardiva.

D: I contributi che l’INPS mi chiede non erano già stati dichiarati; si applica comunque la prescrizione di 5 anni?
R: Sì. Anche se i contributi omessi derivano da importi che non hai mai denunciato (ad es. retribuzioni in nero o redditi non dichiarati), il termine di prescrizione è quinquennale dalla data in cui avresti dovuto versarli. La Corte di Cassazione ha confermato che “anche i contributi non dichiarati godono del termine di prescrizione quinquennale a partire dalla data dell’omesso versamento”. Quindi, non esiste più una prescrizione decennale per evasione contributiva: 5 anni per tutti i contributi (post 1995). Solo se l’INPS ha compiuto atti interruttivi nel frattempo il termine si “allunga” (ripartendo da ogni atto). In sintesi: devi verificare l’ultimo atto valido che hai ricevuto dall’INPS prima dell’avviso; se tra la data di scadenza dei contributi e il primo avviso che li richiede sono passati oltre 5 anni senza intimazioni, puoi eccepire prescrizione.

D: Come si calcola esattamente questo termine di 5 anni?
R: Si calcola dal giorno in cui il contributo doveva essere pagato. Ad esempio: contributi di gennaio 2020 di un dipendente, con scadenza ordinaria 16/02/2020 (versamento tramite F24), vanno in prescrizione il 16/02/2025 se nessun atto li interrompe prima. Per contributi periodici vale la scadenza di legge (mensile/trimestrale); per contributi accertati dopo, comunque dalla data di esigibilità originaria (la Cassazione ha chiarito che una causa di lavoro conclusa dopo non sposta il dies a quo). Ogni volta che l’INPS ti notifica qualcosa di scritto e specifico sul debito (es. sollecito, diffida, avviso bonario dettagliato, ecc.), la prescrizione si interrompe e i 5 anni ricominciano da capo dal giorno dopo. Anche un tuo atto di riconoscimento (ad es. chiedere rateazione) interrompe la prescrizione. Bisogna poi considerare eventuali sospensioni straordinarie (es. norme Covid che hanno congelato termini per alcuni mesi nel 2020). Ma in via generale: 5 anni pieni senza atti = prescrizione compiuta.

D: L’avviso di addebito INPS deve elencare nel dettaglio come si compone il debito? Quello che ho ricevuto ha solo l’importo totale.
R: , l’avviso di addebito per legge deve riportare tutti i dettagli essenziali: periodo di riferimento, causale del credito, importo distinto tra contributi, sanzioni e interessi, l’agente di riscossione competente e la data di formazione. Deve anche contenere l’intimazione a pagare entro 60 gg e l’avvertimento delle conseguenze, e la firma del responsabile. Se manca qualcuno di questi elementi, soprattutto quelli che incidono sulla comprensibilità (periodi, causali, importi), l’atto può essere dichiarato nullo. Ad esempio, se c’è un importo globale e non sai a quali mesi o quali lavoratori si riferisca, l’avviso è indeterminato. La Cassazione ha confermato annullamenti in casi simili. Quindi puoi impugnare per difetto di motivazione. Nel tuo caso, se davvero l’avviso non dettaglia nulla, è una grave irregolarità. Spesso però alcuni dati sono riportati in allegati o in codici: assicurati di leggere bene tutto il plico. Se proprio non c’è modo di capire, avvaliti di questo vizio nel ricorso.

D: L’avviso che mi è arrivato fa riferimento a un verbale ispettivo che però non mi è stato allegato. È valido?
R: In linea di principio, se l’avviso motiva “per relationem” rinviando cioè ad altro documento, tale documento dovrebbe esserti stato notificato o allegato. Se così non è, l’avviso risulta viziato per carenza di motivazione, perché non ti permette di conoscere le ragioni della pretesa. La Cassazione (Cass. 1095/2022) ha proprio affrontato un caso simile, confermando la nullità di un avviso che rimandava a un verbale ispettivo non reperito. Dunque, puoi eccepire che l’atto è immotivato. In sede di giudizio, l’INPS cercherà magari di produrre quel verbale: tu potrai contestare che è tardivo e che comunque avresti dovuto averlo prima. Il giudice di solito ti darà ragione su questo se effettivamente eri all’oscuro del contenuto del verbale.

D: Posso chiedere all’INPS di rateizzare il debito indicato nell’avviso di addebito?
R: , hai la possibilità di ottenere una rateizzazione dal’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione). Dopo la notifica dell’avviso (che viene contestualmente inviato all’Agente), puoi presentare domanda di dilazione. In genere, l’istanza va rivolta ad Agenzia Entrate-Riscossione (anche tramite il loro sito) indicando il numero dell’avviso e l’importo. Se il debito è fino a €120.000, di solito concedono 72 rate mensili automaticamente; per importi maggiori o situazioni di grave difficoltà, si può chiedere fino a 120 rate presentando i documenti finanziari. Attenzione: per bloccare le azioni esecutive, conviene fare la richiesta entro 60 giorni dalla notifica, così l’avviso non scade e viene direttamente “messo a rate” evitando pignoramenti. Anche se sei oltre i 60 gg ma non è ancora iniziato nulla, puoi chiedere dilazione: se l’Agente l’accetta, sospende le procedure. Tieni presente che con la rateazione pagherai interessi di dilazione, ma non matureranno ulteriori sanzioni di mora. La prima rata va pagata appena accettano il piano.

D: Se chiedo la rateizzazione sto ammettendo il debito? Posso ancora fare ricorso?
R: La Cassazione ha affermato che la richiesta di rateizzazione non costituisce acquiescenza né rinuncia al ricorso. Quindi, in teoria, puoi fare entrambe le cose: proporre ricorso entro 40 giorni e parallelamente chiedere rateazione per sospendere i riscossione. Questo perché la domanda di dilazione viene interpretata come un’adesione al pagamento in via transattiva, non un riconoscimento incondizionato del debito (specialmente se la fai “con riserva di contestazione”). Tuttavia, c’è da essere prudenti: se paghi varie rate e poi in giudizio sostieni di non dovere nulla, può essere poco coerente. Ma legalmente non perdi il diritto al ricorso. In passato c’era incertezza, ora con Cass. 3347/2017 è chiarito che non preclude l’impugnazione. Quindi, la risposta è: no, la rateazione non ti preclude il ricorso. Ma ricordati di presentare il ricorso nei termini comunque, e magari di far presente all’Agente (quando chiedi rate) che non intendi rinunciare alle tue difese. Se il ricorso poi avrà esito positivo (debito annullato o ridotto) potrai interrompere i pagamenti e chiedere sgravio/rimborso delle rate versate in eccedenza.

D: Che succede se l’INPS ha perso il termine di decadenza per emettere l’avviso?
R: Se l’avviso di addebito è stato emesso oltre il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui i contributi erano dovuti (termine di cui all’art.25 D.lgs.46/99), allora l’INPS è decaduto dalla facoltà di riscuotere tramite ruolo quel credito. Ciò vuol dire che l’avviso è annullabile per tardività. Tu puoi eccepirlo e il giudice dovrebbe annullare l’avviso. Attenzione però: la decadenza non cancella il debito in sé – l’INPS potrebbe ancora portarti in tribunale per chiedere quei contributi con un’azione ordinaria. Di fatto però, spesso l’INPS non lo fa, soprattutto se sono passati anni. Diciamo che, in concreto, far valere la decadenza ti libera dell’avviso e blocca la riscossione attuale. Se poi l’INPS vorrà agire diversamente, dovrà farlo entro i limiti di prescrizione e dimostrare il credito ex novo. Spesso i crediti decaduti sono prossimi anche alla prescrizione, quindi l’ente li abbandona. Quindi: l’avviso tardivo = vittoria per il debitore sul piano procedurale (niente più ruolo esecutivo); l’INPS resta creditore ma solo su carta (dovrebbe fare causa per farti condannare a pagare).

D: Ricevuto un preavviso di fermo amministrativo per un debito INPS: cosa posso fare?
R: Il preavviso di fermo ti dà 30 giorni per reagire. In questi 30 giorni puoi: pagare il debito; chiedere una rateizzazione; oppure contestare formalmente se il debito non è dovuto (ma a questo punto avresti dovuto già opporre l’avviso a suo tempo). Il fermo scatterà solo se trascorrono i 30 gg senza che tu faccia nulla. Se ritieni che il debito sia errato o già annullato, puoi inviare all’Agente della Riscossione una comunicazione con le prove (es: “ho una causa in corso, sospendete il fermo”; oppure “il debito è prescritto, l’INPS ha annullato l’atto, etc.”). L’Agente non sempre ascolta: se procede comunque e iscrive il fermo, a quel punto puoi fare ricorso al giudice di pace o al tribunale chiedendo l’annullamento del fermo per mancanza di presupposti. Tieni presente che la soglia attuale per il fermo è 1.000 €: se il tuo debito totale è sotto, il fermo è illegittimo. Inoltre, se quel veicolo ti serve per lavorare (unico mezzo per attività professionale), segnala questa circostanza all’Agente: a volte soprassiedono per non arrecare pregiudizio eccessivo. La mossa più pragmatica se il debito è effettivo, comunque, è rateizzare/pagare per evitare il fermo.

D: Mi hanno pignorato il conto in banca per i contributi INPS senza avvertimento! È regolare?
R: Sì, purtroppo è possibile. Dopo l’avviso di addebito e l’eventuale intimazione (che è l’ultimo “avvertimento” di 5 gg se il titolo ha più di 1 anno), l’Agente può procedere direttamente al pignoramento presso terzi (conti correnti) senza ulteriori notifiche preventive. Lo strumento tipico è l’ordine di pagamento diretto alla banca (ai sensi dell’art.72-bis DPR 602/73): la banca blocca le somme e le trasferirà all’Erario trascorsi 60 gg. Appena vieni a conoscenza del blocco, hai poche opzioni: se il debito è giusto, l’unica è pagare integralmente o chiedere urgente una rateazione prima che la banca versi i soldi. Se ottieni la rateazione, l’Agente sospende la procedura e sblocca il conto (di solito comunica alla banca di liberare le somme). Se pensi che il pignoramento sia illegittimo (ad esempio perché il debito era già stato pagato o l’avviso mai notificato), puoi proporre un’opposizione all’esecuzione al tribunale (art.615 c.p.c.) chiedendo anche la sospensione immediata. Ma devi avere un motivo solido (es. prova di pagamento o difetto radicale di notifica). Il consiglio è di monitorare sempre la propria PEC e la posta per non arrivare a questo stadio a sorpresa. Comunque, una volta pignorato, il margine di manovra per evitare la perdita delle somme è strettissimo nel tempo: muoviti immediatamente contattando l’Agente per un piano o depositando ricorso in tribunale se c’è qualche vizio importante.

D: L’omesso versamento di contributi può portarmi problemi penali?
R: Dipende dal tipo di contributi. In generale, non è reato il mancato pagamento dei contributi dovuti dal datore di lavoro per la propria parte o per lavoratori autonomi. L’unico caso che rileva penalmente è l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti (cioè la quota contributi a carico del lavoratore, trattenuta in busta paga). Se in un anno le ritenute non versate superano €10.000, scatta un reato contravvenzionale punito con arresto fino a 3 anni o multa (art. 2, comma 1-bis D.L. 463/1983). Sotto €10.000 annui, non è più reato ma illecito amministrativo (sanzione pecuniaria). Va anche detto che il reato è estinguibile se il datore paga tutte le ritenute dovute prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (in pratica, se paghi prima del processo penale). Sul piano pratico: se hai trattenuto contributi ai dipendenti e non li hai versati, oltre agli atti INPS rischi una segnalazione alla Procura. La soglia di €10.000 si calcola sull’anno solare. Ad esempio, se nel 2024 non versi 15.000 € di ritenute dipendenti, commetti reato dopo il 16 febbraio 2025 (scadenza di versamento di dicembre 2024) e sarai perseguibile; se l’importo era 8.000 €, sarà illecito amministrativo (sanzionato dall’INPS con ingiunzione). Per i contributi diversi (quota datore, gestione separata, artigiani ecc.) nessun penale, solo sanzioni civili.

D: Ho una causa di lavoro con un dipendente sulle mansioni: se perdo dovrò pagargli differenze di stipendio e l’INPS mi chiederà anche i contributi. Posso aspettare l’esito o devo pagarli subito?
R: In questi casi, visto che i contributi maturano sull’importo spettante anche se contestato, dovresti versarli man mano secondo la retribuzione dovuta per legge. Tuttavia, normalmente i datori aspettano l’esito della causa. Se la causa finisce con condanna a differenze retributive, l’INPS ti chiederà i contributi corrispondenti (aumentati di sanzioni civili per tardivo versamento). Purtroppo, come evidenziato dalla giurisprudenza, il fatto che ci fosse una lite non sospende la prescrizione dei contributi. Questo significa che, se la causa dura molti anni, alcuni contributi potrebbero cadere in prescrizione senza che l’INPS li abbia chiesti. A tutela del lavoratore, esiste la possibilità di una rendita vitalizia a carico tuo ex art.13 L.1338/1962 per coprire i periodi prescritti, o il lavoratore può chiederti danni ex art.2116 c.c. (ma solo a pensione maturata). Insomma è un tema complesso. Dal tuo punto di vista di debitore, puoi attendere l’esito ma sappi che l’INPS potrà chiederti arretrati fino a 5 anni addietro. Se la causa è durata di più, i primi anni saranno prescritti e non dovrai contributi per quelli – il lavoratore però non li vedrà accreditati e potrà rivalersi su di te. Per evitare guai, alcuni datori prudenti pagano sub iudice i contributi minimi sulle somme rivendicate (così interrompono prescrizione e evitano sanzioni grosse), ma non è prassi comune. In sintesi: puoi attendere, ma non lamentarti poi se ti arrivano avvisi INPS retroattivi (saranno dovuti). Se qualcosa andrà in prescrizione, ciò ridurrà il tuo esborso verso INPS ma potrebbe aprire un altro fronte col dipendente (risarcimento danno pensionistico).

D: Posso compensare i debiti contributivi con crediti verso la Pubblica Amministrazione?
R: La compensazione non è facile in questi casi. Se hai crediti d’imposta o verso la PA, non puoi semplicemente compensarli in F24 con importi iscritti a ruolo per contributi: la legge lo vieta espressamente (i crediti erariali possono compensare solo debiti erariali non a ruolo oltre una certa soglia). Esiste però una procedura (art. 28-quater DPR 602/73) per compensare crediti commerciali certificati verso la PA con debiti iscritti a ruolo, contributivi inclusi. In pratica, se lo Stato ti deve dei soldi per appalti e tu devi contributi a ruolo, puoi chiedere di compensare (c’è una piattaforma al MEF per questo). Ma sono casi specifici. Se invece intendi crediti fiscali (rimborsi da 730, ecc.), quelli lo Stato li trattiene automaticamente in conto ruoli: ad esempio, se attendevi un rimborso IRPEF e hai debiti INPS a ruolo, l’Agenzia delle Entrate Riscossione può trattenere il rimborso e girarlo a copertura del debito (procedura di compensazione automatica art. 28-ter DPR 602/73). Tu non devi fare nulla, se ne occupano loro (ti arriverà comunicazione di sgravio per compensazione). In generale dunque, non contare su facili compensazioni autonome: o avvengono d’ufficio (pignorando rimborsi) o devi seguire iter appositi.

D: Dopo aver pagato l’avviso di addebito, fra quanto tempo avrò il DURC regolare?
R: Il DURC (Documento Unico Regolarità Contributiva) torna “pulito” non appena il tuo cassetto contributivo risulta senza posizioni irregolari. Se paghi tutto in un’unica soluzione, nel giro di qualche giorno dalla registrazione del pagamento l’INPS aggiorna lo stato e puoi ottenere DURC online immediatamente. Se hai fatto ricorso e ottenuto sospensione, l’INPS nel frattempo ti emette un DURC provvisorio regolare fino alla decisione. Se stai rateizzando, il DURC è regolare man mano che rispetti le rate (l’INPS rilascia DURC positivo dopo approvazione della prima rata, con validità temporale e controlli periodici che tu sia in pari con i versamenti rateali). Quindi: pagato = DURC ok subito (salvo tempi tecnici 1-2 sett); rate = DURC ok finché sei in regola con rate; ricorso in corso senza sospensione = DURC irregolare, con sospensione = DURC regolare temporaneamente. Se hai urgenze, a volte le sedi INPS rilasciano DURC in anticipo se mostri la quietanza, ma ormai è tutto automatizzato.

D: Riassumendo, quali sono le principali strategie di difesa per un debitore di contributi INPS?
R: Le possiamo così riassumere:

  • Verificare la prescrizione: è il primo punto. Se il debito è oltre 5 anni e non ci sono stati atti interruttivi, impostare la difesa principalmente su questo motivo.
  • Controllare i vizi formali: notifica corretta? Contenuto dell’avviso completo? Motivazione chiara? Responsabile e firma presenti? Preavvisi rispettati? Ogni irregolarità è un’arma.
  • Valutare decadenza: l’avviso è arrivato tardissimo rispetto ai periodi? Allora eccepire decadenza (sapendo che in teoria l’INPS può rifarsi, ma intanto quell’atto salta).
  • Autotutela: se ci sono errori evidenti (pagamenti effettuati non considerati, scambi di persona, ecc.), contattare subito l’INPS chiedendo annullamento in autotutela. Magari risolvono senza processo.
  • Ricorso giudiziario tempestivo: se il debito non è risolvibile bonariamente, presentare ricorso entro 40 giorni al Tribunale, con richiesta di sospensione. In sede di ricorso, far valere tutti i punti di cui sopra in fatto e in diritto.
  • Sospensiva e comunicazione all’Agente: se il giudice sospende l’esecuzione, notificare l’ordinanza all’Agenzia Riscossione subito.
  • Rateizzazione o definizione agevolata: parallelamente, se l’importo è alto e non sei certo dell’esito del ricorso, considera di chiedere un piano di rate per congelare le azioni esecutive (con riserva di proseguire il ricorso). Oppure, se c’è una rottamazione disponibile e il tuo scopo è solo risparmiare, valuta l’adesione (rinunciando alla lite).
  • Attenzione alla fase esecutiva: non trascurare eventuali atti successivi (preavvisi di fermo/ipoteca, intimazioni): se perdi la sospensiva e non hai rateizzato, preparati a possibili pignoramenti. In tal caso resta l’opposizione esecutiva come ultima difesa, ma meglio non arrivarci.

D: Questa procedura vale anche per i contributi INAIL?
R: Per sommi capi, sì. I premi INAIL (assicurazione infortuni) seguono un percorso analogo: omissione, avviso bonario, poi cartella/avviso di addebito (credo che anche l’INAIL usi l’avviso di addebito esecutivo ora). Anche lì il ricorso è al giudice del lavoro, 40 giorni, prescrizione 5 anni (stessa L.335/95). Quindi molte difese sono parallele. Una differenza: l’omesso pagamento premi INAIL non ha riflessi penali come le ritenute INPS, ma attenti che l’INAIL applica sanzioni civile e interessi in modo simile. Quindi, se il tuo caso riguarda INAIL, puoi applicare gran parte di quanto detto adeguandolo (es. normative specifiche INAIL, che però sono in buona parte armonizzate con INPS).


Fonti e riferimenti normativi

  • Normativa di legge e di prassi:
    • Art. 3, comma 9, Legge 8 agosto 1995 n. 335 (riforma Dini) – Termine di prescrizione quinquennale dei contributi obbligatori.
    • Artt. 24-25, D.Lgs. 26 febbraio 1999 n. 46 – Iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali e termini di decadenza.
    • Art. 30, D.L. 31 maggio 2010 n. 78, conv. in L.122/2010 – Introduzione dell’avviso di addebito INPS come titolo esecutivo dal 2011.
    • D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 (riscossione): art. 50 (intimazione di pagamento); art. 72-bis (pignoramento presso terzi su conti); art. 86 (fermo amministrativo); art. 91 (compensazione crediti imposte con ruoli) ecc.
    • L. 689/1981: depenalizzazione omesso versamento contributi (oggi soglia €10.000 per reato).
    • Codice di procedura civile: artt. 442 e segg. (rito lavoro per previdenza); art.615, 617 (opposizioni esecutive).
    • Codice penale: Art. 37 L. 24/11/1981 n. 689 modificato da D.Lgs. 8/2016 – Omesso versamento ritenute: soglia e sanzioni.
    • Circolare INPS n. 168/2010 e Messaggio INPS n. 3881/2011 – Istruzioni attuative su avviso di addebito (contenuti, termini).
    • Legge 234/2021 (Legge di Bilancio 2022), art.1 co.15 – Eliminazione aggio di riscossione per avvisi dal 2022 in poi.
    • D.M. 30 gennaio 2015 – Disciplina DURC online (effetti di contenzioso e sospensione su regolarità contributiva).
  • Giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione):
    • Cass. civ. Sez. Lav., 15 marzo 2016 n. 5076 (SS.UU.) – L’obbligo contributivo sorge con il rapporto di lavoro, su retribuzione dovuta, indipendente dal pagamento effettivo.
    • Cass. civ. Sez. Lav., 27 febbraio 2014 n. 8379 – Necessità di titolo giudiziale per iscrizione a ruolo se accertamento impugnato (principio ripreso da Cass.4032/2016).
    • Cass. civ. Sez. Lav., 3 marzo 2016 n. 4032 – Illegittimità avviso INPS emesso mentre accertamento fiscale presupposto è sub iudice.
    • Cass. civ. Sez. Lav., 19 gennaio 2022 n. 1095 – Nullità avviso INPS per indeterminatezza e difetto di motivazione (rinvio a verbale non comunicato).
    • Cass. civ. Sez. Lav., 23 maggio 2023 n. 16423 – Validità notifica avviso INPS tramite raccomandata A/R, equipollenza a notifica cartella.
    • Cass. civ. Sez. Lav., 17 gennaio 2023 n. 1261 – Notifica PEC avviso: valida solo se a indirizzo PEC risultante da pubblici registri; altrimenti inesistenza.
    • Cass. civ. Sez. Lav., 30 dicembre 2024 n. 34897 – Decorrenza prescrizione contributi da momento esigibilità retribuzione (conferma principi SU e 2018).
    • Cass. civ. Sez. Lav., 11 settembre 2018 n. 21371 – Prescrizione quinquennale anche per contributi da differenze retributive accertate successivamente.
    • Cass. civ. SS.UU., 17 novembre 2016 n. 23397 – Unificazione a 5 anni della prescrizione contributi dopo L.335/95; natura decadenziale art.25 D.lgs.46/99.
    • Cass. civ. Sez. Lav., 29 ottobre 2019 n. 27726 – Decadenza ex art.25 D.lgs.46/99 processuale, vizio cartella non estingue credito sostanziale.
    • Cass. civ. Sez. VI, 8 febbraio 2017 n. 3347 – La richiesta di rateizzazione della cartella/avviso non costituisce acquiescenza né rinuncia al ricorso.
    • Cass. civ. Sez. II, 20 novembre 2017 n. 27417 – Necessità preavviso 30gg per fermo/ipoteca; mancato invio preavviso rende nullo atto (orientamento di merito consolidato).
    • Cass. pen. Sez. III, 11 gennaio 2018 n. 5480 – Omesso versamento contributi previdenziali: soglia €10.000 annui, natura reato omissivo istantaneo, estinzione per pagamento integrale prima del dibattimento.
  • Giurisprudenza di merito (Tribunali):
    • Tribunale di Cassino, sent. 7 marzo 2019 – Annullato avviso per illegittimità (emesso su accertamento fiscale impugnato).
    • Tribunale di Catania, sent. 2019 n. 669 – Avviso nullo se pendenza contenzioso tributario sul presupposto (richiama Cass.2016).
    • Tribunale di Napoli, ord. 31 marzo 2025 – Questione pregiudiziale a CGUE su compatibilità prescrizione contributi quinquennale con tutela diritti UE (effettività diritto pensione).
    • Corte Appello Firenze, sent. 28 nov 2013 (confermata da Cass. 27726/2019) – Decadenza ex art.25 D.lgs.46/99 preclude iscrizione a ruolo se superato termine, anche con sospensione DL 78/2010 non applicabile retroattivamente.

Accertamento INPS Contributi Non Versati: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento dall’INPS per presunti contributi non versati? Ti contestano omessi versamenti come lavoratore autonomo, titolare di impresa, professionista o ex socio?

L’INPS può richiedere contributi anche dopo anni, spesso basandosi su dati fiscali, verbali ispettivi o presunzioni. Ma non sempre le richieste sono legittime: errori formali, iscrizioni d’ufficio e cartelle notificate in ritardo sono all’ordine del giorno. E con la difesa giusta puoi opporti.

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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in diritto previdenziale, tributario e riscossione contributiva
  • ✔️ Specializzato nella difesa da accertamenti INPS per autonomi, soci e imprese cessate
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Conclusione

Un accertamento INPS per contributi non versati può colpirti anche dopo la chiusura dell’attività. Ma non è sempre dovuto. Con un’azione mirata puoi bloccare la richiesta o ridurre drasticamente l’importo da pagare.

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