Come Si Esce Da Una Crisi Aziendale

Hai un’azienda in difficoltà e cerchi una via d’uscita?
Hai accumulato debiti, perso clienti, registri perdite costanti e non riesci più a far fronte agli impegni con banche, fornitori o dipendenti? In questi casi è fondamentale capire come si esce da una crisi aziendale in modo strutturato, evitando errori e salvaguardando il futuro dell’impresa.

Quando si può parlare di crisi aziendale?
– Quando i ricavi non coprono più i costi fissi e operativi
– Quando i debiti superano la capacità dell’azienda di rientrare in tempi ragionevoli
– Quando hai subito un calo rilevante di clientela, ordini o liquidità
– Quando non riesci a ottenere credito o sei stato segnalato come cattivo pagatore
– Quando ci sono ritardi nei versamenti fiscali o contributivi
– Quando la continuità aziendale è a rischio e serve un intervento urgente

Come si esce da una crisi aziendale?
Analizzando la causa della crisi, con il supporto di consulenti esperti (interni o esterni)
Elaborando un piano di risanamento, realistico e sostenibile, con obiettivi chiari e misurabili
Riducendo i costi fissi e riorganizzando i processi produttivi o gestionali
Rinegoziando i debiti con banche, fornitori e fisco, tramite strumenti legali come la composizione negoziata o l’accordo di ristrutturazione
Accedendo a strumenti di agevolazione fiscale (rottamazione, saldo e stralcio, rateizzazioni)
Individuando nuove fonti di ricavi, attraverso la diversificazione, l’innovazione o il riposizionamento sul mercato
Coinvolgendo un team di professionisti, legali e finanziari, che ti guidino in ogni fase della gestione della crisi

Quali strumenti legali e fiscali puoi utilizzare?
– Composizione negoziata della crisi, anche per PMI e ditte individuali
– Accordi di ristrutturazione dei debiti o piani attestati di risanamento
– Transazione fiscale e contributiva con Agenzia delle Entrate e INPS
– Rottamazione quater o rateizzazioni straordinarie
– Procedure da sovraindebitamento, se sei un imprenditore individuale o un libero professionista
– Liquidazione controllata, se l’attività non può più essere salvata e serve uscire in modo ordinato

Cosa puoi ottenere con un piano di uscita ben strutturato?
– La riduzione del carico fiscale e la sospensione delle azioni esecutive
– Il recupero di equilibrio finanziario e il salvataggio dell’attività
– Il ritorno alla continuità operativa e alla fiducia dei partner commerciali
– L’accesso a nuovi finanziamenti o contributi pubblici
– La tutela del patrimonio personale, se sei anche garante o imprenditore individuale
– L’uscita senza fallimento, se la crisi è irreversibile

Attenzione: uscire da una crisi aziendale è possibile, ma servono competenze, tempestività e decisioni mirate. Le soluzioni esistono, ma vanno attivate prima che la situazione degeneri.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi aziendale, risanamento e ristrutturazioni del debito ti spiega passo dopo passo come affrontare la crisi, quali strumenti usare e come tornare a far crescere la tua impresa.

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Introduzione

La crisi d’impresa è definita dalla legge come uno stato del debitore che rende probabile l’insolvenza, manifestandosi di regola con squilibri patrimoniali o finanziari tali da far prevedere che, in assenza di interventi, l’impresa non sarà in grado di far fronte alle proprie obbligazioni nei successivi dodici mesi. Si tratta dunque di una fase prognostica e reversibile, diversa dalla insolvenza vera e propria, che invece è lo stato in cui il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente i propri debiti ed è evidenziato da inadempimenti o altri fatti esteriori (ad esempio mancati pagamenti sistematici). In altri termini, la crisi è un campanello d’allarme – un presagio di insolvenza – mentre l’insolvenza conclamata rappresenta il punto di non ritorno in cui l’impresa non può più onorare stabilmente le obbligazioni. Vi è infine la nozione di illiquidità transitoria, che indica una carenza temporanea di liquidità superabile nel breve termine (ad esempio con nuova finanza o dismissioni) e che non coincide necessariamente con la vera insolvenza.

Negli ultimi anni l’ordinamento italiano ha profondamente innovato la disciplina della crisi d’impresa. Il vecchio impianto della legge fallimentare del 1942 è stato sostituito dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) introdotto con il D.Lgs. 14/2019 (in vigore dal 15 luglio 2022 dopo vari rinvii). Il Codice unifica in un testo unico sia le procedure concorsuali tradizionali (fallimento, concordato preventivo, etc.) sia le procedure minori per debitori non fallibili (la crisi da sovraindebitamento ex L.3/2012). Contestualmente sono stati introdotti nuovi strumenti prevenzione e composizione precoce della crisi, in attuazione anche della direttiva UE 2019/1023 (c.d. Direttiva Insolvency). Il filo conduttore della riforma è il favor rei: privilegiare, ove possibile, la continuità aziendale e il salvataggio dell’impresa in crisi, ricorrendo alla liquidazione solo come estrema ratio. Da un lato, dunque, si impone agli imprenditori un dovere più stringente di emersione tempestiva della crisi; dall’altro lato, si mettono a disposizione procedure flessibili (anche stragiudiziali) per ristrutturare il debito e uscire dalla crisi evitando il tracollo e la dispersione del valore aziendale.

In questa guida analizzeremo in prospettiva giuridico-operativa come un’impresa debitrice può affrontare ed uscire da una situazione di crisi. Illustreremo gli strumenti di allerta precoce e di composizione negoziata introdotti di recente, per poi approfondire le procedure di regolazione della crisi, sia giudiziali sia stragiudiziali (dai piani di risanamento agli accordi di ristrutturazione, fino al concordato preventivo e alla liquidazione giudiziale). Verranno richiamate le principali novità normative aggiornate a luglio 2025 – inclusi gli ultimi correttivi al Codice della crisi (D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024) – e la giurisprudenza più recente, con riferimenti a sentenze di legittimità e di merito rilevanti. Il taglio è avanzato ma con intento divulgativo: i temi saranno trattati in modo chiaro e sistematico, attraverso anche tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti e simulazioni pratiche riferite al contesto italiano. Il punto di vista adottato è quello del debitore: ci concentreremo dunque sugli obblighi, sulle scelte strategiche e sulle tutele a disposizione dell’imprenditore in difficoltà (inclusi i piccoli imprenditori e i privati). L’obiettivo finale è fornire una guida completa su come si esce da una crisi aziendale, indicando percorsi giuridici concreti per il risanamento o, quando necessario, per una liquidazione il più possibile ordinata e indolore.

(Segue un approfondimento in sezioni: dalla rilevazione tempestiva della crisi agli strumenti di composizione, dalle procedure concorsuali alle FAQ e casistiche pratiche.)

Rilevazione tempestiva della crisi e obblighi del debitore

Il primo passo per uscire da una crisi aziendale è riconoscerla in tempo. La legge impone all’imprenditore (soprattutto se operante in forma societaria) di dotarsi di assetti adeguati a rilevare precocemente i segnali di difficoltà e di attivarsi senza indugio per adottare le misure necessarie. L’art. 2086 c.c., modificato nel 2019, stabilisce infatti che l’organo amministrativo deve istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. Ciò significa dotarsi di sistemi di controllo di gestione, monitoraggio dei flussi di cassa prospettici e indicatori finanziari che possano far emergere squilibri prima che diventino insanabili. Tali “adeguati assetti” non sono meri adempimenti formali: in caso di omissione, gli amministratori possono andare incontro a responsabilità civili verso società e creditori per i danni causati da una gestione tardiva o imprudente della crisi.

Accanto agli obblighi organizzativi interni, il Codice della crisi (art. 3 CCII) elenca una serie di segnali di allerta che servono a facilitare l’individuazione precoce della crisi. Dopo le modifiche del correttivo ter (D.Lgs. 136/2024), è stato chiarito che tali segnali sono indicatori prospettici, finalizzati alla previsione e prevenzione della crisi prima che essa si manifesti. In particolare, gli indici (elaborati dal CNDCEC, l’Ordine dei commercialisti, come previsto dall’art. 13 CCII) mirano a intercettare sintomi come patrimonio netto negativo, indice di liquidità insufficiente, indebitamento eccessivo rispetto al cash-flow, reiterati ritardi nei pagamenti e così via. Se questi indizi superano le soglie di allerta, l’organo di controllo societario (collegio sindacale) è tenuto a segnalarli formalmente agli amministratori e a sollecitare interventi correttivi immediati. La legge concede agli amministratori 30 giorni per riferire sulle soluzioni intraprese; se entro 60 giorni non vengono adottate misure idonee, il collegio sindacale (o il revisore) deve informare l’Organismo preposto (in origine l’OCRI, ora sostituito dalle nuove procedure di composizione). Questo meccanismo doveva costituire la “procedura di allerta” formale, volta a coinvolgere un organo terzo nel tentativo di composizione assistita della crisi. Tuttavia, l’entrata in vigore dell’allerta esterna è stata dapprima sospesa e poi abrogata con la riforma del 2022, sostituita da strumenti di emersione volontaria (la composizione negoziata di cui diremo oltre). In ogni caso, resta fermo l’obbligo di segnalazione interna: i sindaci e i revisori devono spronare gli amministratori ad attivarsi, e tale segnalazione tempestiva rileva anche ai fini di una possibile esenzione o attenuazione della loro responsabilità in caso di insolvenza conclamata. Il correttivo ter 2024 ha ulteriormente chiarito che anche il revisore esterno (oltre all’organo di controllo interno) è obbligato a segnalare per iscritto al management l’esistenza di uno stato di crisi o insolvenza, ai fini dell’eventuale avvio della composizione negoziata. Tale segnalazione, per essere tempestiva, va effettuata entro 60 giorni da quando il soggetto segnalante (sindaco o revisore), esercitando con diligenza le proprie funzioni, ha avuto conoscenza effettiva dello stato di crisi. In sintesi, il legislatore pretende che la red flag della crisi sia alzata il prima possibile, all’interno della governance societaria, per evitare che si perdano mesi preziosi in inerzie colpose.

Un ulteriore presidio di allerta è affidato ai creditori pubblici qualificati. A partire dal 2024, infatti, sono pienamente operative le norme che obbligano enti come l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della Riscossione a monitorare i debiti dell’impresa e a segnalare tempestivamente determinati scostamenti significativi. In particolare: se l’impresa accumula un debito IVA superiore al 30% del volume d’affari dell’ultimo periodo di liquidazione IVA, l’Agenzia Entrate invia una comunicazione di allerta; se vi sono contributi INPS arretrati da oltre 6 mesi per un importo eccedente la metà dei contributi dovuti nell’anno precedente e comunque oltre 50.000 €, l’INPS è tenuta a segnalare il caso; infine, se i debiti iscritti a ruolo e scaduti da oltre 90 giorni superano 500.000 € (per imprese individuali) o 1.000.000 € (per società), l’Agente della Riscossione attiva la segnalazione. Queste soglie di allerta sono state aggiornate e rese operative nel 2024, in modo da ampliare il monitoraggio anche alle PMI tradizionalmente più vulnerabili. La segnalazione dei creditori pubblici avviene con una comunicazione al debitore (e, in teoria, all’OCRI quando esisteva) invitandolo a reagire; se il debitore non regolarizza la posizione né attiva strumenti di composizione entro un certo termine, possono seguire iniziative più incisive (ad es. sollecitazioni per la composizione o istanze di insolvenza, a seconda dei casi). L’idea di fondo è prevenire il fallimento attivando un intervento prima che la situazione diventi irreversibile.

Dal punto di vista del debitore, tutto ciò si traduce in un onere preciso: non ignorare i sintomi della crisi. L’imprenditore che rilevi (o riceva comunicazione di) indizi di crisi ha il dovere di attivarsi senza indugio per evitare il peggioramento della situazione. Ciò significa coinvolgere eventualmente i soci finanziatori, consultare professionisti esperti di ristrutturazione, tagliare costi o alienare asset non strategici, e soprattutto valutare l’accesso agli strumenti di composizione della crisi previsti dall’ordinamento (dai piani di risanamento alle procedure concorsuali). Agire tempestivamente è fondamentale anche perché il Codice prevede alcune misure premiali per chi interviene presto: ad esempio, se il debitore presenta domanda di composizione negoziata o concordato preventivo entro pochi mesi dall’emersione della crisi, può beneficiare di attenuazione di alcune sanzioni ed evitare le penalizzazioni per il ritardo (come la postergazione dei finanziamenti soci o conseguenze negative in caso di successive azioni di responsabilità). Al contrario, l’inerzia può aggravare la posizione dell’imprenditore: non solo si riducono le chance di salvataggio, ma aumentano i rischi di responsabilità personale. In caso di insolvenza conclamata, l’apertura della liquidazione giudiziale (il nuovo “fallimento”) comporta la cristallizzazione dello stato di dissesto a una certa data e l’accertamento di eventuali condotte di mala gestio anteriori. Gli amministratori che hanno aggravato il buco patrimoniale continuando attività imprudenti o dilatorie possono essere chiamati a rispondere dei danni verso i creditori (azione di responsabilità ex art. 2486 c.c. e art. 378 CCII), oltre a rischiare sanzioni penali per bancarotta semplice o fraudolenta nei casi più gravi. Dunque, uscire dalla crisi passa anzitutto per una diagnosi tempestiva e un atteggiamento proattivo e collaborativo da parte del debitore.

Strumenti di allerta e composizione negoziata della crisi

Per gestire efficacemente una crisi aziendale in fase iniziale, il legislatore ha previsto innovativi strumenti di allerta precoce e di composizione negoziata. Si tratta di percorsi in cui, prima di arrivare alle procedure concorsuali giudiziarie, l’impresa in difficoltà può tentare di risanarsi attraverso accordi volontari con i creditori, eventualmente assistita da esperti indipendenti, il tutto in modo riservato e con minima pubblicità. Questi strumenti, introdotti con il D.L. 118/2021 (convertito nella L. 147/2021) e ora confluiti nel Codice della crisi (Titolo II, come modificato dal D.Lgs. 83/2022), rappresentano la risposta italiana alla direttiva europea sui “quadri di ristrutturazione preventiva”. Esaminiamo i principali:

  • Segnalazioni di allerta interna ed esterna: come visto, costituiscono il trigger iniziale. Un debitore avveduto non dovrebbe attendere l’attivazione formale da parte di sindaci o Fisco, ma può autonomamente prendere atto dei segnali di crisi (es. tensioni di liquidità, rating peggiorati, fornitori in agitazione) e decidere di avviare un percorso di composizione. La riforma 2022 ha abolito le procedure di allerta “obbligatoria” (che prevedevano l’intervento dell’OCRI), optando per un modello più flessibile e volontario. Oggi quindi, quando emergono difficoltà, la palla torna principalmente nel campo dell’imprenditore: sta a lui attivarsi chiedendo aiuto attraverso gli strumenti predisposti (segnatamente la composizione negoziata), prima che i creditori perdano fiducia e si arrivi a provvedimenti d’urgenza (pignoramenti o istanze di fallimento).
  • Composizione negoziata della crisi: è lo strumento centrale di allerta e risanamento introdotto dal D.L. 118/2021. Si tratta di un percorso volontario, riservato e stragiudiziale in cui l’imprenditore in condizioni di squilibrio (patrimoniale o finanziario) può richiedere la nomina di un Esperto indipendente che lo assista nel tentativo di trovare un accordo con i creditori. La domanda si presenta tramite una piattaforma telematica nazionale gestita dalle Camere di Commercio; un’apposita Commissione nomina l’esperto (spesso un commercialista o un professionista di ristrutturazioni) che, dopo aver analizzato la situazione, avvia con l’impresa e i creditori una trattativa strutturata. La composizione negoziata è volontaria: i creditori non sono obbligati a partecipare né ad accordare dilazioni, ma spesso la presenza di un esperto terzo facilita il dialogo e l’elaborazione di soluzioni equilibrate. Durante le trattative, l’imprenditore rimane in carica e non perde la gestione dell’azienda, impegnandosi però ad operare in buona fede e a non aggravare la situazione (pena la responsabilità e la possibile revoca delle protezioni). Uno dei vantaggi chiave è infatti la possibilità di ottenere dal Tribunale, su richiesta, delle misure protettive temporanee: in sostanza un “ombrello” di moratoria che blocca le azioni esecutive e cautelari dei creditori durante la negoziazione (tipicamente per 2-4 mesi). Questo automatic stay non è automatico ma deve essere espressamente richiesto dal debitore e concesso dal giudice, il quale verifica sommariamente la situazione e fissa un’udienza entro circa 45 giorni. Le misure protettive, una volta pubblicate nel Registro Imprese, sospendono i pignoramenti e impediscono ai creditori di acquisire prelazioni sul patrimonio del debitore, così da congelare lo status quo mentre si cerca l’accordo. Esse possono essere revocate in qualsiasi momento se emergono condotte dilatorie o fraudolente del debitore. La durata complessiva delle protezioni non può superare 12 mesi anche sommando eventuali proroghe o rinnovi, inclusi quelli già utilizzati in una precedente composizione negoziata. La composizione negoziata si conclude, entro pochi mesi, in uno dei seguenti modi: (a) con un accordo stragiudiziale tra debitore e uno o più creditori (ad esempio un piano di rientro, una moratoria sui debiti, o accordi bilaterali di ristrutturazione); (b) con un contratto con uno o più creditori che può essere facoltativamente autenticato o pubblicato per conferirgli data certa; (c) con la proposta di un accordo di ristrutturazione dei debiti o un concordato preventivo, qualora le trattative lo rendano possibile (in tal caso la procedura negoziata funge da anticamera per la successiva omologazione in tribunale); oppure (d) con esito negativo, nel caso non si riesca a trovare alcuna intesa praticabile. In quest’ultimo scenario, l’esperto redige una relazione finale attestando le cause del fallimento delle trattative. È importante sottolineare che il solo accesso alla composizione negoziata non impedisce ai creditori di chiedere il fallimento se l’insolvenza è già grave; tuttavia, la legge incoraggia una commistione virtuosa: se durante la negoziazione il debitore individua la necessità di una procedura concorsuale, può passare al concordato preventivo beneficiando di termini più ampi (ad esempio può ottenere fino a 120 giorni per presentare il piano di concordato, invece dei 60 standard, grazie all’extra-time concesso se aveva tentato la via negoziata). Inoltre, in caso di successiva procedura, il tribunale terrà conto positivamente del tentativo esperito, ad esempio escludendo (in certi casi) sanzioni per il tardivo deposito. La composizione negoziata è dunque concepita come un percorso snello e confidenziale per cercare soluzioni di mercato: non prevede votazioni di creditori né omologazioni giudiziali, se non quando sfocia in uno degli istituti del Codice. Il suo successo dipende dalla volontà delle parti di trovare un equilibrio. Significativo è che nei primi anni di applicazione questo strumento abbia conosciuto una rapida crescita: secondo l’Osservatorio Unioncamere, le istanze di composizione negoziata presentate sono passate da poche decine nel 2021 a quasi 600 nel 2023, fino a ben 1.089 nel 2024. Nel 2024, per la prima volta, le composizioni negoziate avviate hanno superato numericamente i concordati preventivi (762 nello stesso anno), segno che le imprese e i professionisti stanno privilegiando questo approccio negoziale per tentare il risanamento. Sebbene non tutte queste istanze si traducano in accordi conclusi, il dato conferma la centralità crescente dello strumento nel panorama delle crisi d’impresa italiane.
  • Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: è una procedura concorsuale speciale, introdotta in via sperimentale nel 2021 e poi recepita dal Codice (artt. 25-sexies e 25-septies CCII), riservata ai casi in cui la composizione negoziata non abbia portato a soluzioni. In pratica, se le trattative falliscono, l’imprenditore in crisi può proporre al tribunale un concordato “semplificato” di sola liquidazione, senza necessità di approvazione dei creditori. È una sorta di paracadute finale: l’accesso è consentito solo all’esito negativo di una composizione negoziata (attestato dalla relazione dell’esperto che dichiara irrisolvibile la crisi). Nel concordato semplificato, a differenza del concordato preventivo ordinario, non si tiene alcuna votazione dei creditori: il piano liquidatorio proposto dal debitore viene comunicato ai creditori i quali possono solo formulare opposizione davanti al tribunale, ma non votare. Il tribunale omologa il concordato se ritiene soddisfatti alcuni requisiti stringenti: in particolare, deve verificare l’assenza di pregiudizio per i creditori rispetto all’alternativa liquidatoria (cioè che il piano non dia ai creditori meno di quanto otterrebbero nel fallimento) e che il piano offra una qualche utilità a ciascun creditore, anche non necessariamente in forma di pagamento monetario (un’“utilità” potrebbe consistere anche in una maggiore rapidità di realizzo, in garanzie aggiuntive o altre forme, purché i creditori non siano danneggiati). In sostanza, il concordato semplificato deve garantire il rispetto del principio di par condicio e una convenienza economica non inferiore al fallimento. La giurisprudenza ha chiarito che la mancanza di un peggioramento per i creditori (cd. absolute priority, nessuno deve stare peggio che in liquidation) e la rapidità del soddisfacimento possono essere elementi sufficienti a giustificare l’omologa, anche se il dividendo percentuale offerto è solo equivalente a quello fallimentare. Non è invece richiesto il rispetto del limite del 20% o l’apporto di risorse esterne (requisiti previsti invece per il concordato preventivo liquidatorio ordinario, come si vedrà). Il concordato semplificato prevede la nomina di un liquidatore che gestisce la vendita dei beni e la distribuzione, analogamente a quanto avviene in liquidazione giudiziale, con la differenza che qui l’iter è stato avviato su istanza del debitore e sulla base del suo piano (seppur senza consenso dei creditori). Occorre segnalare che, trattandosi di una figura nuova, l’applicazione pratica è stata finora limitata: nel 2023 si contavano appena 69 domande di concordato semplificato e 85 nel 2024, numeri abbastanza contenuti rispetto alle altre procedure. Ciò può essere dovuto sia ai criteri restrittivi di accesso (bisogna aver tentato la composizione negoziata in modo corretto e trasparente), sia alla naturale preferenza per soluzioni concordatarie “ordinarie” quando vi sia spazio per coinvolgere i creditori in un voto. In ogni caso, il concordato semplificato resta un importante strumento di chiusura: consente al debitore onesto, che abbia inutilmente cercato il dialogo, di evitare l’onta del fallimento ricorrendo a una liquidazione controllata dal tribunale ma su proposta propria, ottenendo in cambio alcune esenzioni (ad esempio non è prevista l’azione di responsabilità del curatore ex art. 115 CCII per atti di mala gestio precedenti, salvo rimedi generali). In prospettiva, la dottrina sottolinea che l’uso di questo istituto potrebbe crescere, specie per PMI i cui creditori principali siano istituti finanziari poco propensi a votare piani: il timore, però, è che interpretazioni restrittive possano svuotarlo di efficacia. Ad esempio, alcune decisioni (come quella della Corte d’Appello di Venezia del 28/3/2024) hanno evidenziato la necessità che il debitore non abusi della composizione negoziata come mero passaggio formale verso il concordato semplificato, ma la utilizzi secondo buona fede e trasparenza. In definitiva, il takeaway è: tentare seriamente la via negoziale non preclude comunque la possibilità di un concordato liquidatorio successivo, anzi la rende disponibile come exit strategy con minori formalità.

(Segue – dopo aver esaminato gli strumenti di allerta e negoziazione – l’analisi delle soluzioni per uscire dalla crisi tramite le procedure di regolazione del debito, giudiziali e stragiudiziali, destinate a imprese di varie dimensioni.)

Soluzioni stragiudiziali per il risanamento del debito

In molti casi, un’impresa in crisi può uscirne senza ricorrere immediatamente a una procedura concorsuale giudiziale, ma attraverso strumenti stragiudiziali di risanamento del debito. Questi strumenti, se attuati correttamente, consentono di ristrutturare le passività con il consenso (totale o parziale) dei creditori, evitando il fallimento e garantendo all’azienda la continuità operativa. Vediamo le principali opzioni previste dall’ordinamento italiano, in ordine crescente di intervento dell’autorità giudiziaria:

  • Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII): è lo strumento più informale e interamente contrattuale. Consiste in un piano di risanamento aziendale, redatto dall’imprenditore con l’ausilio di professionisti, volto a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa. Il piano deve contenere le iniziative di ristrutturazione (rifinanziamento, rimodulazione dei debiti, dismissioni di rami d’azienda, etc.) e gli atti necessari per attuarlo. Ciò che qualifica il piano attestato è la presenza di una attestazione da parte di un esperto indipendente circa la fattibilità del piano e la ragionevole capacità dello stesso di assicurare il risanamento dell’impresa e il pagamento dei creditori nei termini previsti. L’attestatore – solitamente un commercialista o revisore – verifica i dati aziendali e la sostenibilità delle ipotesi formulate, rilasciando una relazione professionale. Il piano di per sé è un accordo privato fra il debitore e i creditori che vi aderiscono: non richiede alcuna omologazione da parte del tribunale e non coinvolge i creditori dissenzienti. La legge, però, gli attribuisce un importante effetto protettivo: se il piano, completo di attestazione, viene pubblicato nel Registro delle Imprese, gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del piano non sono soggetti ad azione revocatoria in caso di successivo fallimento. In pratica, il piano attestato offre al debitore e ai creditori che collaborano una zona franca entro cui realizzare il risanamento senza il timore che, se il piano dovesse poi fallire, un curatore fallimentare possa far annullare ex post gli atti compiuti (come pagamenti di arretrati, cessioni di beni, ecc.). Ciò incentiva soprattutto i nuovi finanziatori o i fornitori a supportare l’impresa in turnaround. Il limite del piano attestato è che richiede l’adesione integrale di tutti i creditori interessati dalle modifiche: non c’è infatti alcuno strumento coercitivo per imporre tagli o dilazioni a creditori non consenzienti. Dunque funziona bene quando l’indebitamento è concentrato in poche banche o soci disposti a sostenerlo, oppure quando l’impresa non è tecnicamente insolvente ma necessita solo di tempo e ridefinizione del debito. È una soluzione relativamente rapida e riservata (l’eventuale pubblicazione avviene a cose fatte e non divulga i dettagli) e consente di evitare lo stigma di procedure concorsuali. Dal punto di vista pratico, un esempio di uscita dalla crisi tramite piano attestato potrebbe essere il seguente: Alfa S.r.l., impresa manifatturiera con temporanea crisi di liquidità, elabora un piano con l’advisor prevedendo la cessione di un immobile non strategico e la rinegoziazione dei debiti bancari su 5 anni; un esperto attesta che il piano è credibile e sufficiente a ripagare tutti i creditori. Le banche, convinte dall’attestazione indipendente, firmano un accordo bilaterale di standstill e riscadenzamento del debito secondo il piano. Il piano viene poi pubblicato con attestazione: se per sfortuna Alfa dovesse comunque fallire più tardi, le banche non perderebbero le somme incassate nel frattempo né le garanzie eventualmente ricevute durante l’esecuzione del piano, grazie alla protezione anti-revocatoria. Alfa in tal caso avrebbe quantomeno preso tempo e tentato il risanamento senza le complicazioni di un concordato.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII): è un istituto intermedio tra il piano puramente contrattuale e il concordato preventivo. L’accordo di ristrutturazione (“AdR”) è un accordo giuridicamente vincolante tra il debitore e una parte qualificata dei creditori, che viene poi omologato dal tribunale ed esteso (in misura limitata) anche ai creditori dissenzienti. In sostanza, il debitore negozia con i creditori le condizioni per ristrutturare il debito – ad esempio una riduzione (stralcio) di alcune posizioni, una moratoria, conversione di debiti in strumenti finanziari, ecc. – e deve ottenere l’adesione di almeno una percentuale minima di creditori prevista dalla legge. La soglia ordinaria è il 60% dei crediti totali: se i creditori rappresentanti il 60% dell’importo totale dei debiti sottoscrivono l’accordo, il debitore può chiedere al tribunale l’omologazione. Dopo la riforma del 2022, esistono però varianti “agevolate”: in particolare l’accordo di ristrutturazione agevolato che richiede il consenso ridotto di almeno il 30% dei crediti (anziché 60%). Questa forma “light” consente al debitore di proporre un accordo con una minoranza qualificata di creditori, purché il piano offra garanzie adeguate per i restanti (ad esempio integrale pagamento dei dissenzienti, o comunque nessun pregiudizio per loro). Un’altra variante è l’accordo ad efficacia estesa: se il debitore raggiunge l’accordo con una certa maggioranza di creditori finanziari (ad es. banche che detengono 75% dei crediti finanziari), può chiedere che l’accordo sia esteso anche alle banche dissenzienti della stessa categoria. Similmente, con riferimento ai debiti fiscali e contributivi è prevista la transazione fiscale nell’ambito dell’accordo: l’adesione dell’Agenzia Entrate e degli enti previdenziali è necessaria per falcidiare tali crediti, ma dal 2021 la legge consente al tribunale di cramdown (superare) il dissenso del Fisco qualora il piano offra comunque alla Pubblica Amministrazione una soddisfazione non inferiore a quella ricavabile dalla liquidazione. Una recentissima sentenza della Cassazione (n. 27782/2024) ha confermato questo principio, sancendo che il tribunale può omologare l’accordo o il concordato preventivo anche in presenza di voto contrario dell’erario, purché il piano proposto garantisca ai creditori pubblici un trattamento migliore dell’alternativa liquidatoria (nell’esempio di quella causa, il piano prevedeva il pagamento del 40% dei crediti fiscali contro un 8% stimato in caso di fallimento). Ciò ha rappresentato una svolta decisiva nel superare le rigidità precedenti che permettevano il cram-down fiscale solo in caso di mancata espressione di voto del Fisco. Tornando alla procedura: l’accordo di ristrutturazione, una volta raggiunte le adesioni richieste, viene sottoposto al tribunale. È necessario presentare una relazione di un esperto indipendente che attesti la idoneità dell’accordo a assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei entro 120 giorni dalla scadenza dei crediti a termine (o 120 giorni dall’omologa per i crediti già scaduti). Il tribunale, verificati i requisiti formali e la fattibilità dell’accordo, omologa con decreto, rendendolo vincolante per tutti i creditori aderenti. I creditori che non hanno aderito restano estranei (possono agire separatamente), salvo che per alcune categorie nelle varianti ad efficacia estesa come detto. Tuttavia, l’omologa comporta degli effetti protettivi generali: dalla data di deposito della domanda, il debitore può chiedere misure protettive analoghe a quelle del concordato (sospensione delle azioni esecutive); inoltre l’omologazione impedisce ai creditori dissenzienti di iniziare o proseguire azioni individuali esecutive per i crediti ristrutturati secondo accordo. In pratica, l’AdR è meno invasivo di un concordato: l’impresa rimane in mano all’imprenditore e non interviene un commissario giudiziale, ma al contempo offre maggiore certezza rispetto a un piano attestato, perché una volta omologato in tribunale mette al riparo il debitore da iniziative ostili (i creditori coinvolti sono obbligati a rispettare i termini concordati, pena far decadere i benefici dell’accordo per tutti). Per esempio, un possibile scenario: Beta S.p.A., azienda commerciale indebitata con 10 banche, negozia un accordo in base al quale 7 di esse (che rappresentano il 70% dell’esposizione complessiva) accettano di allungare le scadenze e ridurre il tasso di interesse. Raggiunta la soglia del 60%, Beta presenta l’accordo al tribunale con la relazione di un esperto. Il tribunale verifica che le altre 3 banche (dissenzienti) potranno comunque essere pagate per intero alle nuove scadenze (come previsto dal piano, ad esempio grazie a nuova finanza) e che l’erario riceverà almeno quanto avrebbe in un fallimento (è inclusa anche una transazione fiscale). Omologa quindi l’accordo. Da quel momento, le 7 banche sono vincolate nei nuovi termini, mentre le 3 dissenzienti – essendo garantite al 100% nel piano – non possono pretendere di meglio e dovranno attendere le nuove scadenze (non possono accelerare escussioni). Beta così evita il fallimento e risolve la crisi con uno strumento negoziale ma legalmente efficace erga omnes. Si noti che gli accordi di ristrutturazione sono abbastanza diffusi e considerati un’alternativa snella al concordato: nel 2024 se ne sono avuti 326 casi omologati (più di 300 all’anno costantemente). La riforma ha cercato di incentivarli ulteriormente abbassando le soglie (30% per accordi agevolati) e allineando la disciplina del cram-down a quella del concordato preventivo. Un elemento di flessibilità introdotto è anche il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO), di cui parliamo a parte.
  • Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): è un istituto nuovo, inserito nel Codice nel 2022 (artt. 64-bis, 64-ter, 64-quater CCII) per recepire compiutamente la direttiva UE sui quadri di ristrutturazione preventiva. Si tratta di una figura “ibrida” tra l’accordo e il concordato: in sostanza è un piano di ristrutturazione proposto dal debitore che diventa vincolante per tutti i creditori grazie all’omologazione del tribunale, pur senza passare per un voto assembleare come nel concordato. Il PRO è utilizzabile solo da imprese medio-grandi (soggette a fallimento, escluse le imprese minori sotto soglia e gli imprenditori agricoli). Può essere presentato sia in situazione di crisi reversibile sia in insolvenza già conclamata, e può prevedere sia la continuità aziendale sia la liquidazione del patrimonio (quindi è flessibile nell’obiettivo). La caratteristica del PRO è che il debitore suddivide i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi omogenei (similmente a un concordato) e raccoglie il consenso all’interno di ciascuna classe: se tutte le classi votano favorevolmente, il piano viene omologato e i creditori dissenzienti (eventualmente presenti dentro le classi) sono comunque legati dall’esito positivo nella loro classe. In pratica, il PRO consente di derogare alle regole ordinarie di parità di trattamento e graduazione dei crediti, purché vi sia un consenso qualificato espresso dai creditori suddivisi per categorie. La legge richiede infatti che il piano sia approvato da tutti i soggetti interessati in ciascuna classe di voto: ciò implica che all’interno di ogni classe deve aderire il 100% dei crediti (o comunque non vi siano opposizioni di membri di quella classe). Se questa unanimità di classe è raggiunta (magari con classi costituite in modo strategico, includendo separatamente chi è d’accordo), il tribunale può omologare il piano anche se magari, su base aggregata, non tutti i creditori totali erano favorevoli. In caso invece di dissenso di un’intera classe (quindi classe non approvata all’unanimità), il PRO non può essere omologato e viene “convertito” in una procedura di concordato preventivo ordinario, oppure – specularmente – un concordato pendente può essere convertito in PRO se emergono le condizioni. Il vantaggio del PRO è di offrire un meccanismo più snello rispetto al concordato: non vi è la complessa procedura di voto formale con maggioranze, né la necessità di soddisfare rigidi requisiti come il 20% minimo ai chirografari (a meno che lo imponga l’articolazione delle classi). Esso consente quindi di attuare ristrutturazioni mirate con l’accordo dei creditori cruciali, evitando lungaggini. Ad esempio, se un’azienda ha 5 banche finanziatrici di cui 4 disponibili a una forte ristrutturazione e 1 contraria per principio, col PRO si potrebbero mettere le 4 banche consenzienti in una classe, l’ultima in un’altra: la classe delle 4 approva (unanimità) e viene trattata secondo il piano; la classe dell’unica banca dissenziente ovviamente non approverà e il PRO non potrebbe procedere, salvo che il debitore in tal caso opti per convertire la procedura in un concordato preventivo (dove quella banca dissenziente può essere cramdownata se il tribunale la ritiene soddisfatta almeno quanto in liquidazione). Dunque il PRO è uno strumento da costruire con attenzione nella suddivisione in classi, e non garantisce di per sé l’omologa se anche un solo gruppo omogeneo di creditori si oppone compattamente. La sua utilità tuttavia si è vista, ad esempio, in situazioni in cui tutti i creditori finanziari (banche) erano d’accordo su una certa ristrutturazione che però infrangeva la parità di trattamento (magari prevedeva che una banca convertisse credito in equity e altre no, ecc.): col PRO, se tutte le banche in quella classe accettano, si possono sovvertire le regole ordinarie sui privilegi e trattamenti differenziati. In sede di omologazione, il tribunale verifica comunque la legalità e fattibilità del piano e la correttezza delle informazioni fornite. È prevista la nomina eventuale di un ausiliario o commissario in caso di particolare complessità, ma generalmente la procedura rimane in mano al debitore (nessun organo concorsuale pieno come nel concordato). Il PRO può prevedere anche esso misure protettive analoghe (richiedibili ex art. 54 CCII, come per il concordato). Essendo strumento recente, non vi sono ancora statistiche numeriche consolidate sul suo utilizzo; le prime applicazioni nel 2023-2024 mostrano qualche incertezza interpretativa (ad esempio sul calcolo delle maggioranze nelle classi, che però la norma impone unanimi). Il CNDCEC ha emanato linee guida e documenti di ricerca per chiarirne l’ambito. Da un punto di vista comparatistico, il PRO rappresenta l’equivalente italiano del “Scheme of Arrangement” di matrice anglosassone o del “Plan de Sauvegarde” francese, ovvero un piano concordato con le parti principali e reso vincolante con minima intrusione del giudice. Per il debitore, avere a disposizione questo arsenale di strumenti – piani attestati, accordi omologati, PRO, ecc. – significa poter scegliere la via di uscita dalla crisi più adatta alla specifica struttura del debito e alla tempistica: se c’è larga condivisione tra i creditori, si può optare per soluzioni contrattuali semplici; se serve un sigillo legale e la protezione dagli estranei, l’accordo di ristrutturazione è la via; se la situazione è più complessa e frammentata, si può arrivare al concordato preventivo (o al PRO come scorciatoia, ove possibile). L’importante è agire in un quadro di legalità e buona fede, perché ogni strumento richiede trasparenza e rispetto di certe regole (es. attestazioni veritiere, informazioni complete ai creditori, ecc.), pena il rischio di invalidazione o di conseguenze anche penali.

Tabella riepilogativa – Strumenti stragiudiziali e “ibridi” per il risanamento:

StrumentoNaturaIntervento del tribunaleSoglia di consensoVincolativitàGestione azienda
Piano attestato di risanamentoStragiudiziale puro (contratto)Nessuno (solo eventuale deposito per protezione anti-revoca)100% creditori coinvolti (accordo volontario)Vincola solo aderenti (nessun effetto sui dissenzienti)Rimane al debitore
Accordo di ristrutturazioneStragiudiziale con omologaSì, omologa del tribunale (verifica fattibilità e rispetto dei minimi)≥ 60% dei crediti totali (30% se “agevolato”)Vincola aderenti; estranei pagati per intero ma possono subire moratoria; possibili cram down fisco e banche dissenzientiRimane al debitore
PRO (Piano ristrutt. omologato)Procedura ibrida (preventiva)Sì, omologa del tribunale (senza voto formale)Unanimità all’interno di ciascuna classe di creditoriVincola tutti i creditori delle classi che hanno approvato unanimemente (dissenzienti interni alle classi sono legati dall’approvazione)Rimane al debitore (possibile ausiliario)
Composizione negoziataPercorso assistito stragiudizialeNon per l’accordo in sé (solo per misure protettive o se sfocia in concordato)Nessuna soglia legale (accordi su base volontaria caso per caso)Vincola solo chi conclude accordi individuali; nessun effetto su chi non partecipaRimane al debitore (affiancato da Esperto)
Concordato semplificatoProcedura concorsuale specialeSì, tribunale omologa (no voto creditori)Nessun voto, decide il giudice su proposta debitoreVincola tutti i creditori (possono solo fare opposizione)Debitore propone piano; liquidatore nominato per attuazione
(Confronta con soluzioni concorsuali ordinarie nel seguito)

Il concordato preventivo (procedura concorsuale ordinaria)

Se la crisi aziendale non è risolvibile con i soli accordi stragiudiziali – ad esempio perché il dissesto è troppo grave o vi è disaccordo tra troppi creditori – lo strumento principe per evitare la liquidazione fallimentare è il concordato preventivo. Il concordato preventivo è una procedura concorsuale giudiziale che consente al debitore di proporre ai creditori un piano di ristrutturazione o liquidazione, sotto il controllo del tribunale e con effetti vincolanti per tutti i creditori una volta omologato. In altre parole, è l’istituto che permette all’impresa in crisi di “concordare” coi creditori un esito diverso dal fallimento, sacrificando solo parzialmente i loro crediti secondo un piano regolato dalla legge.

Tipologie di concordato: il nuovo Codice della crisi prevede essenzialmente due tipi di piano concordatario possibili: il concordato in continuità aziendale e il concordato liquidatorio. La differenza sta nel fatto che nel primo caso l’impresa (o parte di essa) prosegue l’attività – sia pure sotto vigilanza e con eventuale ristrutturazione del debito – mentre nel secondo caso l’impresa cessa l’attività e tutto il patrimonio viene liquidato per pagare i creditori. Esistono anche forme miste (continuità parziale e liquidazione di asset non strategici), ma rientrano comunque in una delle due categorie a seconda dell’aspetto prevalente.

  • Concordato in continuità aziendale: il piano prevede che l’azienda continui la sua operatività (direttamente dal debitore o tramite un assuntore) e che i creditori vengano soddisfatti con i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività, eventualmente integrati da finanza esterna o cessione di beni non essenziali. Il fine è rilanciare l’impresa preservando i valori produttivi (posti di lavoro, know-how, avviamento) nella convinzione che ciò possa massimizzare il recupero per i creditori rispetto a una liquidazione immediata. La legge richiede che nel concordato in continuità sia assicurato il rispetto della graduazione delle cause di prelazione sui valori di liquidazione dei beni, ma consente ad esempio di derogare temporaneamente alla regola del pagamento integrale dei privilegiati se ciò è funzionale al risanamento (è il caso di moratorie di un anno sui crediti muniti di privilegio, possibili ex art. 86 CCII). Non esiste un dividendo minimo obbligatorio per i chirografari nella continuità, se non quello risultante dalla valutazione di convenienza: in pratica, il piano in continuità può anche pagare percentuali basse ai creditori chirografari, purché dimostri che questa percentuale è comunque superiore a quanto otterrebbero in una liquidazione fallimentare (principio del best interest of creditors). Spesso i concordati in continuità propongono pagamenti dilazionati e parziali ai chirografari (es. 10-15%) ma giustificati dal fatto che il mantenimento in vita dell’impresa consente quel ritorno, mentre in caso di chiusura dell’attività il realizzo sarebbe prossimo a zero. La normativa incoraggia la continuità con vari incentivi: ad esempio la possibilità di ottenere finanza interinale autorizzata dal tribunale (prestiti prededucibili per sostenere l’attività corrente), la possibilità di sciogliersi o sospendere contratti in corso gravosi con autorizzazione (art. 94 CCII), e soprattutto l’assenza – come detto – di soglie rigide di soddisfacimento minimo dei creditori chirografari (diversamente dai concordati liquidatori). Un concordato in continuità può anche prevedere la cessione dell’azienda a un terzo (c.d. continuità indiretta): in tal caso l’azienda viene trasferita durante la procedura a un acquirente che si impegna a proseguire l’attività, e il ricavato va a beneficio dei creditori concordatari. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di piani in continuità indiretta, equiparandoli a quelli in continuità diretta quanto a trattamento di privilegi e altro (purché vi sia l’obiettivo di salvaguardare i livelli occupazionali e produttivi, anche se sotto nuova proprietà).
  • Concordato liquidatorio: il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione controllata di tutti i beni dell’impresa, al fine di distribuire il ricavato ai creditori. In sostanza, è una liquidazione concorsuale concordata: il debitore offre ai creditori una determinata percentuale sui loro crediti, risultante dalla stima di realizzo del patrimonio, eventualmente incrementata da apporti di terzi, in cambio dell’esdebitazione (liberazione dai debiti residui). Poiché il concordato liquidatorio di per sé non conserva l’azienda come complesso produttivo, la legge ne consente l’accesso solo a certe condizioni più severe, per evitare concordati “al ribasso” rispetto al fallimento. In particolare, l’art. 84, comma 4 CCII stabilisce due requisiti fondamentali: (i) la proposta di concordato liquidatorio deve assicurare ai creditori chirografari un pagamento pari ad almeno il 20% dei loro crediti; (ii) tale soddisfacimento del 20% deve essere garantito anche grazie ad apporti di risorse esterne che incrementino la massa attiva di almeno un 10% rispetto a quanto i creditori otterrebbero in una liquidazione giudiziale. In pratica, se il patrimonio del debitore in ipotesi di fallimento avrebbe fruttato ad esempio il 15% per i chirografari, il debitore per poter accedere al concordato deve trovare risorse aggiuntive (da soci o terzi) che portino il dividendo proposto almeno al 20%. Se invece il patrimonio già da solo permetterebbe il 25%, comunque il debitore deve offrire non meno di 25% (rispettando il minimo del 20). Questo meccanismo è pensato per evitare concordati liquidatori “opportunistici” che darebbero ai creditori meno di quanto spetterebbe loro in un fallimento ordinario: il debitore deve mettere sul piatto qualcosa in più (fresh money o altri beni non già destinati ai creditori) per rendere la proposta appetibile e legittima. L’interpretazione esatta della soglia del 10% di apporto esterno ha generato dibattito (ad es., se l’attivo fallimentare stimato è molto basso, il 10% va calcolato come incremento percentuale o assoluto?), ma la regola pratica è che mai si possa scendere sotto il 20% complessivo. Un esempio: Gamma S.r.l. presenta concordato liquidatorio offrendo ai chirografari il 25%. Se in caso di fallimento questi avrebbero preso 15%, Gamma deve dimostrare che quel +10% (fino a 25) deriva da soldi nuovi o valori aggiuntivi (es. un socio che conferisce liquidità). Se in fallimento avrebbero preso 5%, Gamma comunque deve arrivare a 20% perché sotto tale soglia il concordato non sarebbe ammissibile (dovrebbe quindi apportare un +15%). La presenza di questo minimo garantito tutela i creditori ma comporta che molte piccole imprese fortemente insolventi non possano accedere a un concordato liquidatorio, a meno di trovare investitori disposti a colmare il gap – il che spesso non è realistico, motivo per cui il concordato liquidatorio è divenuto relativamente raro in epoca recente, se non come sbocco della composizione negoziata tramite il concordato semplificato dove tali soglie non si applicano.

Procedura e effetti del concordato preventivo: indipendentemente dalla tipologia (continuità o liquidazione), il concordato preventivo si svolge come segue. Il debitore, tramite avvocato, deposita in tribunale una domanda di concordato, allegando una proposta dettagliata ai creditori e un piano (attestato da un professionista indipendente) che espone modalità e tempi di attuazione. È possibile anche presentare una domanda di concordato “con riserva” (cosiddetto concordato in bianco), cioè una domanda iniziale priva di piano e proposta definitiva, chiedendo al tribunale un termine per depositarli. Il Codice consente ancora questo strumento (per prevenire iniziative dei creditori e guadagnare tempo), ma ne ha ristretto la durata: oggi il termine concesso è dai 30 ai 60 giorni, prorogabile al massimo di altri 60 (180 giorni totali solo se c’è stato prima un tentativo di composizione negoziata, come visto). Il tribunale, alla presentazione della domanda con riserva, nomina un commissario giudiziale provvisorio e concede il termine; entro 10 giorni il debitore deve pagare un acconto sulle spese. Una volta depositato il piano definitivo, o se il debitore ha presentato subito domanda completa, il tribunale valuta l’ammissibilità del concordato: verifica la completezza dei documenti, la fattibilità giuridica ed economica (quest’ultima ora espressamente rimessa al giudice, superando il precedente orientamento che limitava il controllo alla sola fattibilità giuridica). Se il tribunale ammette la procedura, emette un decreto di apertura del concordato preventivo: con esso nomina il Commissario giudiziale (un professionista terzo, diverso dall’attestatore, che vigilerà sull’impresa durante la procedura), stabilisce le date per il deposito del rapporto del commissario e per l’adunanza dei creditori (udienza di discussione e voto sul concordato). Da notare che l’ammissione al concordato comporta il sorgere di uno stato di insolvenza in senso lato controllato: da quel momento, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (c’è un automatic stay per legge, integrato dalle misure protettive ex art. 54 CCII eventualmente chieste sin dalla domanda). L’impresa continua ad operare sotto la gestione del debitore (debtor in possession), ma le decisioni straordinarie sono soggette ad autorizzazione del tribunale e vi è la supervisione del commissario. I contratti pendenti possono proseguire (salvo diversa richiesta), ma i crediti anteriori restano congelati e potranno essere soddisfatti solo in sede concordataria secondo il piano. I dipendenti rimangono in forza e i relativi stipendi in corso sono pagati come crediti prededucibili. In sintesi, l’apertura del concordato crea una sorta di “ombrello protettivo” attorno all’impresa, simile al fallimento ma con la differenza che l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria. Segue la fase di voto: i creditori vengono suddivisi in classi se vi sono posizioni giuridiche differenziate o interessi economici differenti (è obbligatorio classare se previsto trattamento diversificato, e sempre per creditori con privilegio degradato o parziale). I creditori privilegiati di solito sono soddisfatti integralmente o nei limiti della capienza dei beni su cui vantano garanzia; se il piano ne prevede la falcidia oltre il valore del bene (scenario raro in continuità, più frequente in liquidazione se privilegio > valore bene), tali creditori votano anch’essi per la parte falcidiata. I creditori chirografari votano sempre. Si tiene un’adunanza in cui il commissario relaziona sulla fattibilità del piano e i creditori possono discutere ed eventualmente dichiarare il loro voto (favorevole o contrario). Dopo l’adunanza, è lasciato un termine di 20 giorni per raccogliere voti mancanti per posta o PEC. Per l’approvazione del concordato, serve il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Se i creditori sono divisi in classi, la maggioranza si calcola in ogni classe e la condizione per l’omologa è che la maggioranza delle classi abbia detto sì (oltre a una maggioranza numerica globale) – con possibilità di cram down delle classi dissenzienti se il tribunale ritiene il trattamento equo e non inferiore a quello liquidatorio (principio di cross-class cram down recepito dal 2022). Una volta ottenuta la maggioranza necessaria, il tribunale fissa udienza per l’omologazione. I creditori dissenzienti hanno facoltà di proporre opposizione all’omologa, deducendo ad esempio violazioni di legge, mancanza di requisiti, frodi, ecc. Il tribunale, istruite le eventuali opposizioni, decide con sentenza (non più decreto) se omologare il concordato. Se omologa, il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori, compresi i dissenzienti (anche di eventuali classi contrarie, purché siano soddisfatte le condizioni di legge per il cram-down). Da quel momento il debitore – sotto il controllo del Commissario che di solito diventa Liquidatore giudiziale per la fase esecutiva se c’è da liquidare dei beni – esegue il piano: paga le percentuali stabilite, eventualmente cede beni ai creditori o ad un assuntore, ecc. A esecuzione ultimata, viene dichiarato il concordato eseguito e il debitore è liberato dai debiti residui conformemente all’omologa. Se invece la proposta non viene approvata dai creditori, o il tribunale nega l’omologa (ad es. per infeasibilità, frode ai creditori, violazione di norme), il tribunale dichiara il fallimento (liquidazione giudiziale) dell’impresa. Anche durante la procedura, se emergono cause di annullamento o si verifica un aggravamento tale da rendere il piano manifestamente irrealizzabile, il tribunale può interrompere il concordato e aprire d’ufficio la liquidazione. È quindi fondamentale proporre piani realistici e mantenere una condotta corretta.

Vantaggi e svantaggi dal lato del debitore: il concordato preventivo rappresenta spesso l’ultima spiaggia per evitare la perdita totale dell’azienda. Il suo principale vantaggio è la capacità di imporre sacrifici anche ai creditori dissenzienti, purché la maggioranza sia d’accordo e il piano rispetti i requisiti di legge. Ciò consente di ridurre l’indebitamento in modo definitivo (con cram down delle quote non pagate) e di liberare l’impresa dal peso dei debiti pregressi, eventualmente continuando l’attività. Inoltre, la procedura blocca le azioni esecutive individuali e concentra la soluzione della crisi in un contesto ordinato, evitando il “far west” dei pignoramenti multipli. Sono possibili soluzioni creative come la ristrutturazione in continuità sotto controllo giudiziale, vendite di rami d’azienda con “pre-pack” concordatari (si può presentare un concordato con già un acquirente individuato per l’azienda, in modo da vendere in tempi rapidi e sotto migliori condizioni rispetto all’asta fallimentare). Dal lato del debitore vi è anche il beneficio reputazionale: un concordato approvato dai creditori implica che essi hanno ritenuto la proposta accettabile; questo spesso consente ai fornitori di continuare il rapporto (magari chiedendo pagamento anticipato per un po’), ai clienti di avere fiducia nella continuità, etc. Rispetto al fallimento, il concordato evita al debitore conseguenze personali negative quali l’incapacità civile (che nel nuovo codice peraltro è limitata) e soprattutto consente agli amministratori di evitare le sanzioni penali tipiche del fallimento (bancarotta fraudolenta): se il concordato va a buon fine, l’azienda non è formalmente “fallita” e quindi i comportamenti precedenti degli amministratori non sono inquadrati come bancarotta (restano ovviamente possibili altri reati se commessi, ma non quello di bancarotta che è legato alla sentenza dichiarativa di fallimento). Il concordato funge quindi anche da esdebitazione legale dell’impresa commerciale: l’azienda paga quanto stabilito e viene liberata dai debiti eccedenti, potendo proseguire la sua esistenza (nel concordato in continuità) o venendo cancellata una volta liquidata (nel concordato liquidatorio). Di contro, gli svantaggi non sono trascurabili. Il concordato è una procedura complessa e costosa: bisogna predisporre una montagna di documenti, pagare le spese di giustizia (il contributo unificato e un fondo spese per commissario e altri ausiliari, spesso decine di migliaia di euro anticipati), e sottoporsi a una lunga procedura pubblica (i concorrenti, i clienti e i media possono venire a conoscenza della situazione dall’albo pretorio o da notizie di mercato). Inoltre, dall’apertura della procedura, l’imprenditore perde una parte dell’autonomia decisionale: ogni atto eccedente l’ordinaria amministrazione dev’essere autorizzato, e in genere l’impresa subisce un’inevitabile perdita di credibilità commerciale durante il periodo concordatario (nessuno concede nuovo credito se non in prededuzione autorizzata, i fornitori richiedono pagamento anticipato, i clienti potrebbero dubitare delle capacità future di fornitura, ecc.). Il concordato incide anche su soci e terzi garanti: i soci vedono spesso azzerato il proprio capitale in piani che prevedono ricapitalizzazioni o interventi di terzi; i fideiussori dell’impresa verso banche potrebbero trovarsi escussi per la parte di debito tagliata dal concordato (poiché il concordato non libera i coobbligati se non previsto). Dunque è una soluzione da adottare quando strettamente necessario e con una robusta preparazione tecnica.

Dati di utilizzo: come già accennato, negli ultimi anni il concordato preventivo è stato utilizzato meno frequentemente rispetto al passato, anche complice l’emergere della composizione negoziata. I dati Unioncamere mostrano che si è passati dai circa 1.067 concordati del 2021 a 678 nel 2023, con un piccolo rialzo a 762 nel 2024. Il trend è comunque calante rispetto al decennio precedente, segno che il concordato viene visto sempre più come soluzione di ultima istanza o per casi complessi, mentre nelle crisi più gestibili si tenta la via extragiudiziale. È da notare che il numero di liquidazioni giudiziali (fallimenti), dopo una flessione dovuta alla pandemia (moratorie, ecc.), è tornato a salire: nel 2024 in Italia si sono aperte ben 9.203 liquidazioni giudiziali, in netto aumento dai 7.685 del 2023. Ciò indica che molte imprese, specie PMI, stanno finendo direttamente in fallimento senza passare per un concordato – forse perché le dimensioni ridotte e la mancanza di asset recuperabili rendono poco praticabile un concordato con le soglie minime richieste. Infatti, il concordato liquidatorio con soglia 20% spesso è fuori portata per micro-imprese molto indebitate. In tali casi, però, viene in aiuto la disciplina del sovraindebitamento (vedi oltre), pensata apposta per i debitori minori non fallibili.

Caso pratico (concordato in continuità): Delta S.p.A., azienda nel settore moda con 100 dipendenti, a causa di un calo di fatturato e investimenti errati accumula 10 milioni di debiti (5 verso banche, 3 verso fornitori, 2 verso Erario). La crisi è grave ma l’azienda è ancora operativa con un marchio di valore. Delta tenta dapprima una composizione negoziata ma le banche non accettano senza un taglio del debito che altre parti rifiutano. Decide quindi per un concordato preventivo in continuità: propone di pagare integralmente debiti fiscali e contributivi in 5 anni, pagare le banche al 70% (con nuovo finanziatore esterno che apporta liquidità in cambio di equity) e pagare fornitori al 25%. Il piano prevede che l’azienda prosegua l’attività, implementando un nuovo business plan per tornare redditizia. L’attestatore certifica che il piano è fattibile e che in caso di fallimento i fornitori prenderebbero probabilmente 5%, le banche 50%, ergo il concordato è nettamente più conveniente per loro. I creditori vengono classati in tre classi: banche, fornitori chirografari, Fisco/INPS (che per legge non votano nel concordato preventivo ma aderiscono separatamente via transazione fiscale). Nella votazione, le banche (classe 1) approvano all’unanimità (70% meglio che affrontare incognita fallimento); i fornitori (classe 2) in maggioranza votano sì, anche se alcuni contrari, perché percepiscono comunque 25% invece del quasi zero prospettato; la classe Erario non vota ma ha aderito alla transazione fiscale al 100%. Il concordato viene dunque approvato e omologato dal tribunale. Delta S.p.A. prosegue l’attività, esegue il piano (pagamenti come da tempi concordati) sotto la vigilanza del commissario che poi cessa. L’azienda esce dalla procedura risanata: i debiti vengono considerati chiusi secondo l’accordo, i soci originari hanno perso parte delle quote a favore del nuovo investitore ma l’impresa è salva, i posti di lavoro mantenuti. Se invece i creditori avessero bocciato la proposta, Delta sarebbe stata dichiarata fallita e probabilmente liquidata con spezzatino dei marchi, con danno molto maggiore per tutti.

La liquidazione giudiziale (già “fallimento”)

Quando nessuno strumento di risanamento ha avuto successo, o quando l’insolvenza è troppo profonda per consentire soluzioni concordate, la crisi aziendale esita nella liquidazione giudiziale. Questo è il nome che il nuovo Codice dà alla procedura un tempo denominata “fallimento”: un procedimento giudiziario concorsuale volto a liquidare il patrimonio dell’imprenditore insolvente e distribuire il ricavato ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. In estrema sintesi, la liquidazione giudiziale rappresenta la “messa in liquidazione coatta” dell’azienda da parte del Tribunale: l’imprenditore viene espropriato della disponibilità dei beni, un Curatore nominato dal giudice prende in carico la gestione, e sotto la supervisione del Giudice Delegato e del Comitato dei creditori procede a vendere i cespiti, riscuotere i crediti attivi e poi ripartire le somme tra i creditori ammessi al passivo.

Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale è naturalmente l’evento più traumatico: comporta la perdita totale del controllo sull’azienda e sul patrimonio. L’apertura della procedura viene dichiarata con sentenza del tribunale (su istanza di un creditore, o del debitore stesso, o del PM) accertando lo stato di insolvenza. Da quel momento, gli amministratori delle società decadono (o l’imprenditore individuale perde la gestione) e subentra il Curatore, che ha il compito di amministrare e liquidare l’attivo nell’interesse dei creditori. Tutte le azioni esecutive individuali vengono bloccate, così come maturano gli effetti classici: i contratti in corso possono proseguire o sciogliersi secondo convenienza per la massa, i dipendenti vengono licenziati salvo riassunzioni temporanee per l’esercizio provvisorio, i crediti anteriori restano cristallizzati. In molti casi l’attività d’impresa cessa subito; in altri, se vi è convenienza, il tribunale può autorizzare un esercizio provvisorio per preservare valore durante la ricerca di un acquirente (ad es. far proseguire la produzione per qualche mese in attesa di vendere l’azienda intera o rami di essa). In sede di liquidazione giudiziale, i creditori devono presentare domanda di insinuazione al passivo; il Curatore forma lo stato passivo e il Giudice Delegato lo verifica in udienza, ammettendo o escludendo i crediti secondo cause di prelazione e contestazioni varie. Segue la fase di realizzo: il Curatore vende i beni mobili e immobili (di regola tramite procedure competitive), riscuote i crediti della fallita, può esercitare azioni revocatorie (per recuperare pagamenti o atti di disposizione compiuti prima del fallimento lesivi della par condicio) e azioni di responsabilità verso gli amministratori precedenti (se hanno causato danni ai creditori con mala gestio). Le somme raccolte confluiscono in un attivo da distribuire: prima si pagano le spese di procedura, poi i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegi generali) secondo i rispettivi gradi, e se resta capienza i chirografari in percentuale. Spesso, soprattutto nei fallimenti di PMI, i creditori chirografari non ricevono nulla o molto poco, perché l’attivo basta a malapena a onorare i privilegiati in parte. Le statistiche passate indicavano dividendi medi ai chirografari sotto il 10% nella maggioranza dei casi. La procedura si chiude con il riparto finale e la cancellazione dell’impresa dal Registro delle Imprese.

La liquidazione giudiziale ha conseguenze anche personali per l’imprenditore (specie se individuale): con la sentenza viene dichiarato l’incapacidad ad administrare i propri beni (che passano alla procedura) e, per le società, di fatto segna la fine dell’ente (che verrà cancellato al termine). Inoltre – ciò è molto rilevante – la dichiarazione di liquidazione giudiziale attiva la giurisdizione penale fallimentare: condotte illecite degli amministratori o del fallito precedenti al fallimento possono integrare reati di bancarotta (fraudolenta se vi sono distrazioni di beni, falsificazioni di bilancio, ecc., o semplice se vi sono colpose cause del dissesto). Anche omessi versamenti di IVA o ritenute non pagate, se superano soglie penalmente rilevanti, restano perseguibili (il fatto che l’azienda sia in fallimento non estingue i reati tributari). Quindi la liquidazione giudiziale è accompagnata spesso da una fase penale in cui gli organi della procedura segnalano eventuali fatti di reato al PM.

Esistono comunque degli aspetti di tutela del debitore onesto: il Codice della crisi ha rafforzato l’istituto dell’esdebitazione. Già con la legge fallimentare era previsto che il fallito persona fisica, soddisfatti alcuni requisiti (aver cooperato, non aver commesso irregolarità gravi, ecc.), potesse ottenere dal tribunale – a fine procedura o anche anticipatamente – la cancellazione dei debiti residuali non pagati, salvo quelli di natura personale (alimentari etc.). Il nuovo CCII ha reso l’esdebitazione più ampia e accessibile: non è più richiesto aver pagato una parte dei creditori (prima si diceva “in parte soddisfatti”), eliminando qualsiasi soglia quantitativa. La Cassazione ha confermato che ai fini dell’esdebitazione non serve un pagamento minimo dei creditori chirografari. Ciò significa che un imprenditore individuale che fallisce incolpevolmente (cioè senza frodi, con comportamento diligente durante la procedura) può essere liberato dai debiti residui anche se i creditori non hanno ricevuto nulla, spostando l’attenzione sulla meritevolezza soggettiva del debitore più che sull’attivo ricavato. Inoltre, per i casi di sovraindebitamento personale estremo (nullatenenti in buona fede), è previsto l’esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII) che consente una volta ogni vita di cancellare i debiti non soddisfatti neppure parzialmente, con alcune eccezioni, pur senza liquidazione formale – ma questo riguarda i privati civili più che l’impresa. Dunque, mentre la liquidazione giudiziale è una soluzione di dissoluzione dell’azienda, l’ordinamento offre al debitore persona fisica la chance di un fresh start, liberandolo dall’oppressione dei debiti insoddisfatti per poter ripartire. Nel caso di società di capitali, l’esdebitazione opera in capo ai soci illimitatamente responsabili (nelle SNC ad es.) o ai fideiussori personali eventualmente tramite procedure ad hoc.

Procedura di liquidazione controllata per piccole imprese (sovraindebitamento): occorre precisare che non tutte le imprese insolventi vengono sottoposte a liquidazione giudiziale. Le imprese minori (che non superano determinati parametri dimensionali definiti dall’art. 2 CCII, come attivo di €300.000, ricavi €200.000, debiti €500.000) e altre categorie come imprenditori agricoli, professionisti e consumatori non sono soggetti a liquidazione giudiziale, ma alle procedure di sovraindebitamento. In tali casi, l’equivalente del fallimento è la liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII), che funziona in modo simile: viene nominato un liquidatore (di solito un OCC, Organismo di Composizione della Crisi locale), si forma il passivo, si liquidano i beni e poi su istanza il debitore può essere esdebitato. La ratio è analoga, ma la procedura è semplificata e calibrata per piccole realtà. Per gli imprenditori minori dunque “uscire dalla crisi” in senso liquidatorio significherà spesso attivare tale procedura presso l’OCC, piuttosto che un fallimento in tribunale.

Dati e conclusione sulla liquidazione giudiziale: come detto, i numeri delle aperture di liquidazioni giudiziali nel 2024 sono tornati elevati (oltre 9 mila), segno che la crisi economica generale e la fine delle moratorie Covid stanno producendo insolvenze, e che molte imprese non riescono a trovare soluzioni alternative. La liquidazione giudiziale resta la via inevitabile quando manca qualunque prospettiva di risanamento. Dal punto di vista del debitore, l’obiettivo dev’essere considerarla come ultima risorsa e, qualora ci si arrivi, collaborare lealmente con gli organi della procedura: la collaborazione può facilitare l’ottenimento dell’esdebitazione a fine procedura e ridurre i profili di responsabilità personali. Se invece il debitore ostacola la procedura o occulta beni, non solo rischia conseguenze penali ma può vedersi negata l’esdebitazione. Va ricordato che con la chiusura della liquidazione, se persona fisica, il fallito può “rinascere” economicamente (salvo eccezioni per debiti alimentari, da illecito extracontrattuale e pochi altri non esdebitabili). In tal senso, l’ordinamento bilancia l’esigenza di tutela dei creditori con quella di non condannare a vita il debitore onesto ma sfortunato.

Procedure minori: la composizione delle crisi da sovraindebitamento (privati e piccoli imprenditori)

Abbiamo accennato alle procedure di sovraindebitamento, che meritano un approfondimento a parte. Sotto questa categoria rientrano le soluzioni previste per i debitori non fallibili, ossia: i privati consumatori, i professionisti, gli imprenditori sotto soglia (imprenditori minori), le start-up innovative, gli agricoltori e in generale tutti i soggetti esclusi dall’area di applicazione del fallimento (art. 2, comma 1, lett. d CCII). Per questi soggetti, sin dal 2012 esisteva la Legge 3/2012 (c.d. legge “salva suicidi”), integrata ora nel Codice della crisi, che offre tre possibili strumenti per uscire da una crisi da sovraindebitamento:

  • Il piano di ristrutturazione del debito del consumatore (piano del consumatore): riservato alle persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale (es. famiglie indebitate, privati). Consiste in una proposta di ristrutturazione dei debiti che il consumatore presenta al tribunale, assistito dall’OCC. Non è richiesto il voto dei creditori: il giudice può omologare il piano anche senza il consenso dei creditori, valutando però che il consumatore abbia agito con meritevolezza (ad esempio non abbia assunto debiti con colpa grave o dolo) e che il piano offra ai creditori una soddisfazione non inferiore a quella ottenibile in una liquidazione. È uno strumento molto potente perché il debitore meritevole può ottenere la dilazione o il taglio di debiti (anche fiscali, nei limiti di legge) su misura, imponendolo ai creditori. Ad esempio, una famiglia sommersa da debiti per bollette, prestiti e mutuo può proporre di pagare il 50% in 5 anni con l’aiuto di parenti, se il tribunale ritiene che i creditori comunque non avrebbero miglior sorte aggredendo la casa (che magari è già ipotecata a capienza del mutuo). Il piano richiede la meritevolezza del debitore e la fattibilità (attestata da un OCC).
  • Il concordato minore: è simile concettualmente al concordato preventivo, ma per i debitori minori non fallibili (piccoli imprenditori, startup, imprenditori agricoli, ecc., nonché i professionisti). Richiede il raggiungimento di majoranza dei crediti (almeno il 50% dei crediti ammessi al voto) in sede di adunanza dei creditori, dopodiché il tribunale omologa. Nel concordato minore non vige il limite del 20% minimo ai chirografari (che è proprio solo del concordato “grande”), ma deve comunque assicurare ai creditori una utilità non inferiore alla liquidazione e tener conto dei loro interessi. Anche qui serve un OCC/attestatore e si applicano, in linea di massima, regole analoghe al concordato preventivo ridotte in formalità. È pensato per piccole realtà imprenditoriali che vogliono evitare la liquidazione e continuare magari su scala ridotta. Ad esempio, una piccola società artigiana con 4 dipendenti e 300k € di debiti potrebbe proporre un concordato minore offrendo il 30% ai creditori (grazie a un supporto del confidi), pagandolo in 4 anni, mantenendo l’attività: se i creditori (magari la banca e alcuni fornitori locali) accettano a maggioranza, l’azienda si risana e continua a operare.
  • La liquidazione controllata del sovraindebitato: è l’equivalente del fallimento per i non fallibili. Può essere chiesta dal debitore (anche il creditore potrebbe chiederla in certi casi, come l’Agenzia Entrate Riscossione per importi rilevanti). Si svolge come già descritto: un liquidatore nominato dal giudice vende i beni e distribuisce il ricavato. Al termine, il debitore persona fisica è ammesso all’esdebitazione di diritto (salvo revoca se emergo condotte maliziose). Un elemento in più previsto per incoraggiare l’emersione è l’esdebitazione del debitore incapiente: se il soggetto proprio non ha beni liquidabili e non può offrire nulla, può rivolgersi al giudice per essere ugualmente liberato dai debiti, a patto di essere meritevole (non deve aver frodato creditori, deve dimostrare di non poter pagare nulla). Questa esdebitazione di grazia non copre però debiti per mantenimento, da malefatte gravi, multe, etc., e ha come condizione che nei 4 anni successivi, se sopravvengono miglioramenti di reddito, una parte vada comunque ai vecchi creditori (meccanismo di “clawback” della fortuna improvvisa).

In tutti questi casi di sovraindebitamento, un ruolo cruciale è svolto dagli Organismi di Composizione della Crisi (OCC), istituiti presso gli Ordini professionali o enti pubblici, che forniscono assistenza ai debitori, nominano gestori esperti per elaborare piani, certificare la situazione e vigilare sulle procedure. Si tratta di un sistema più leggero e accessibile, calibrato su soggetti non strutturati (si pensi al consumatore sovraindebitato per cessione del quinto, o al piccolo agricoltore sommerso dai debiti delle stagioni andate male). L’accesso a queste procedure è spesso accompagnato da costi ridotti o modulati sul reddito del debitore, proprio per incentivarne l’utilizzo.

Novità giurisprudenziali rilevanti (2024-2025): la Corte di Cassazione ha emesso pronunce importanti anche su queste procedure. Oltre alla menzionata sentenza n. 27562/2024 sull’eliminazione di qualsiasi soglia minima per l’esdebitazione, va ricordata una recente sentenza (Cass. 9549/2025) sul piano del consumatore che ha confermato la possibilità per il giudice di omologare piani con moratoria e falcidia di creditori privilegiati (es. banche con ipoteca) se ciò è necessario e il creditore ipotecario ottiene comunque l’intero valore di realizzo del bene sottostante (in pratica, consentendo ad es. di posticipare il pagamento di rate di mutuo e magari ridurre interessi, purché il capitale garantito sia soddisfatto). Questo approccio flessibile evita che un solo creditore garantito contrario faccia saltare piani che invece salvano il debitore dalla rovina. In generale, i giudici di merito mostrano una tendenza a favorire l’omologazione dei piani del consumatore e concordati minori se essi appaiono più vantaggiosi del fallimento e se non emergono abusi. L’idea è di realizzare il favor debitoris di matrice europea, concedendo ai sovraindebitati onesti una via d’uscita ordinata.

Conclusione sul sovraindebitamento: dal punto di vista dell’imprenditore “minore” o del privato, queste procedure rappresentano strumenti fondamentali per uscire dalla crisi senza attendere passivamente l’aggressione dei creditori. Possono sembrare complesse (richiedono anch’esse piani e attestazioni), ma garantiscono risultati concreti: dalla riduzione del debito alla cancellazione totale dei debiti residui post-liquidazione. Molti piccoli imprenditori italiani non erano consapevoli di queste opportunità e in passato finivano strangolati dai debiti a vita, anche dopo aver chiuso l’attività: oggi, grazie alla pubblicità data alla L.3/2012 e al nuovo CCII, c’è maggiore conoscenza. Ad esempio, un artigiano individuale che ha chiuso bottega con 200k € di debiti può liquidare i (pochi) beni disponibili e poi essere liberato dal carico residuo, potendo così ripartire da zero senza debiti pregressi (il cosiddetto fresh start). Ciò riflette una scelta di civiltà economica: consentire al fallito di rientrare nel circuito produttivo, piuttosto che restare emarginato nell’economia sommersa.

Domande frequenti (FAQ) dal punto di vista del debitore

1. Qual è la differenza tra crisi e insolvenza?
La crisi è lo stadio iniziale di difficoltà, in cui l’impresa comincia a mostrare squilibri economico-finanziari ma può ancora risanarsi. Si manifesta tipicamente con carenza di liquidità prospettica: i flussi di cassa previsti non coprono le uscite future a 6-12 mesi. L’insolvenza, invece, è lo stadio conclamato in cui l’impresa non è più in grado di pagare regolarmente i debiti ed emergono inadempimenti e altri fatti esteriori sintomatici. In pratica, nella crisi l’impresa può ancora riorganizzarsi e prevenire il default; nell’insolvenza ormai non paga più e deve ricorrere a procedure concorsuali (concordato o liquidazione). Si può dire che la crisi è reversibile (se affrontata) mentre l’insolvenza è normalmente irreversibile senza un intervento esterno.

2. Quali obblighi ho quando la mia impresa è in crisi o insolvente?
L’imprenditore (specie se societario) ha l’obbligo di dotarsi di assetti organizzativi adeguati per rilevare tempestivamente la crisi (ex art. 2086 c.c.) e, ai primi segnali negativi, di attivarsi senza indugio per adottare uno degli strumenti di superamento della crisi previsti dalla legge. Ciò significa: monitorare costantemente la situazione contabile e finanziaria; se emergono indizi di crisi (perdite, ritardi nei pagamenti, ecc.), informare gli eventuali soci e l’organo di controllo; valutare subito le opzioni come la composizione negoziata o il concordato preventivo, tenendo conto che la legge incentiva chi si muove entro 3-6 mesi dall’inizio della crisi (misure premiali). Se l’impresa è già in stato di insolvenza conclamata, l’obbligo primario dell’imprenditore è non aggravare ulteriormente il dissesto e prepararsi alla procedura concorsuale inevitabile (tipicamente la liquidazione giudiziale), collaborando con le autorità. In pratica: dovere di iniziativa e di lealtà. Non fare nulla o attendere sperando in un miracolo può esporre a gravi responsabilità.

3. Cosa succede se vengo dichiarato insolvente (liquidazione giudiziale)?
In caso di apertura della liquidazione giudiziale (ex fallimento), l’imprenditore perde il controllo dell’azienda e dei suoi beni. Il tribunale nomina un Curatore che gestisce e liquida il patrimonio. Tutti i conti bancari, gli immobili, le merci in magazzino, ecc. confluiscono in una massa attiva sotto il controllo del curatore. I creditori non possono più agire individualmente ma devono insinuarsi al passivo della procedura. Il debitore imprenditore non può più compiere atti di gestione: ogni vendita o operazione sui beni viene effettuata dal curatore con l’autorizzazione degli organi della procedura. In sostanza, l’azienda viene liquidata forzatamente: l’attività cessa (salvo esercizio provvisorio breve), i dipendenti sono licenziati, e si procede a vendere asset e recuperare crediti per ripartire il ricavato secondo i privilegi legali. Per l’imprenditore ciò significa la fine dell’attività e, nel caso di impresa individuale, la perdita del patrimonio personale. Inoltre, la dichiarazione di insolvenza può aprire la strada a responsabilità civili e penali: ad esempio, gli amministratori di società fallita possono essere citati in giudizio per mala gestione (azione di responsabilità) e, se hanno commesso irregolarità gravi (distrazione di beni, false scritture), possono subire un procedimento penale per bancarotta. Va però ricordato che, a fine procedura, l’imprenditore persona fisica onesto può chiedere l’esdebitazione, liberandosi dai debiti residui e avendo così l’opportunità di ripartire da capo senza il peso delle obbligazioni pregresse.

4. Qual è la differenza tra composizione negoziata e concordato preventivo?
Entrambe sono procedure di soluzione della crisi prima del fallimento, ma differiscono per il grado di intervento giudiziario e di formalità. La composizione negoziata è un percorso extragiudiziale e volontario: il debitore negozia con i creditori assistito da un Esperto indipendente, senza ricorrere al tribunale (se non eventualmente per misure protettive). Non ci sono votazioni formalizzate né omologazioni: l’esito dipende dalla volontà di trovare un accordo. Vantaggi: è riservata (non pubblica, tranne l’eventuale provvedimento per la moratoria), flessibile e poco costosa; offre anche alcune agevolazioni come esenzioni da alcune responsabilità e protezioni temporanee se richieste. Svantaggi: non vincola i creditori dissenzienti – se uno o più creditori importanti non aderiscono, l’accordo non li riguarda e potrebbero comunque agire contro il debitore, e l’intero tentativo potrebbe fallire. Il concordato preventivo, invece, è una procedura giudiziale: si deposita un ricorso in tribunale, si sottopone un piano ai creditori che votano (maggioranza >50% del passivo) e infine il tribunale omologa rendendo il concordato obbligatorio per tutti (anche per eventuali creditori che hanno votato no, purché la maggioranza sia raggiunta). Offre strumenti potentissimi come il blocco generale delle azioni esecutive, la possibilità di ridurre i debiti unilateralmente (se il piano è approvato, si possono tagliare le pretese dei creditori) e una continuità aziendale protetta da legge. Di contro, è una procedura lenta, costosa e complessa: implica la nomina di un commissario, l’intervento del tribunale in varie fasi, oneri formali elevati e pubblicità (diventa di dominio pubblico che l’azienda è in concordato). In sintesi: la composizione negoziata è una chance informale e confidenziale di risanamento, senza maggioranze imposte; il concordato è la via formale da imboccare se si ha bisogno di imporre la soluzione ai dissenzienti o di protezione giudiziaria forte, accettandone complessità e costi. Molte imprese tentano prima la composizione; se fallisce, ripiegano sul concordato.

5. Che rischi corre un amministratore che non segnala né affronta tempestivamente la crisi?
Gli amministratori di società hanno precisi doveri di monitoraggio e intervento. Se omettono colpevolmente di rilevare e segnalare i segnali di crisi – ad esempio continuando ad indebitare la società nonostante evidenti squilibri – possono essere chiamati a risarcire i danni cagionati ai creditori per il deterioramento del patrimonio sociale (azione di responsabilità per gestione imprudente ex art. 2486 c.c. e art. 378 CCII). In altre parole, i creditori o il curatore del fallimento potranno chiedere agli amministratori di rimettere i soldi persi a causa del ritardato intervento. Inoltre, nei casi più gravi può configurarsi responsabilità penale: ad esempio, l’amministratore che prosegue l’attività dissipando risorse e aggravando il buco può incorrere nella bancarotta semplice (per imprudenza) o addirittura bancarotta fraudolenta se compie atti distrattivi o dolosi nel tentativo di nascondere la crisi. Il Codice prevede anche sanzioni specifiche: ad esempio, l’art. 25 CCII esclude o riduce i benefici premiali per quei debitori che ritardano ingiustificatamente l’accesso agli strumenti di composizione (penalizzando chi arriva tardi al concordato). In sintesi, un amministratore diligente deve agire appena vede segnali di squilibrio: se aspetta che la situazione precipiti, rischia di risponderne in proprio. È preferibile convocare i soci, ristrutturare subito o portare i libri in tribunale, piuttosto che tirare avanti facendo finta di nulla: diversamente, la “finzione di continuità” sarà sanzionata a posteriori. La giurisprudenza recente è severa con chi “nasconde la polvere sotto il tappeto”, mentre tende a premiare (anche solo evitando sanzioni) chi dimostra di aver fatto il possibile per salvare l’azienda o limitare i danni.

6. Posso evitare il fallimento se ho avviato una composizione negoziata?
Avviare la composizione negoziata è sicuramente utile, ma non costituisce di per sé garanzia di evitare la liquidazione giudiziale. Durante la composizione negoziata, se non sono state attivate misure protettive dal tribunale, i creditori conservano il diritto di presentare istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) se sussiste lo stato d’insolvenza. In teoria, quindi, un creditore impaziente potrebbe rivolgersi al tribunale anche mentre l’esperto sta tentando di trovare un accordo. Tuttavia, in pratica i tribunali tendono a sospendere o rinviare la decisione sull’istanza di fallimento se vedono che è in corso un serio tentativo di composizione negoziata – specie se al debitore sono state concesse misure protettive che bloccano le azioni esecutive. Inoltre, il Codice incoraggia il debitore che negozia in buona fede: ad esempio, se dalla composizione negoziata si passa al concordato preventivo, il debitore può ottenere termini più ampi e un trattamento di maggior favore (le cosiddette misure premiali di cui all’art. 25-bis CCII). Quindi, pur non garantendo automaticamente immunità dal fallimento, la composizione negoziata riduce il rischio di fallire, a patto che poi il debitore converta quel percorso in una soluzione concreta (accordo o concordato). Se la composizione negoziata fallisce (nessun accordo) e nel frattempo i creditori non sono stati soddisfatti, è probabile a quel punto che uno di essi (o lo stesso debitore per onestà) attivi la liquidazione giudiziale. Vale la pena notare però che tentare la via extragiudiziale non è mai tempo perso: anche in caso di esito negativo, ha spesso l’effetto di chiarire la situazione, facilitare la predisposizione di un successivo concordato e dimostrare che il debitore ha agito in correttezza. La legge infatti premia chi “ci ha provato” in modo genuino: ad esempio, se un imprenditore passa da composizione negoziata a concordato, può chiedere la proroga del termine di deposito del piano fino a 180 giorni totali (il doppio del normale), e in sede di eventuale azione di responsabilità gli amministratori potranno eccepire di aver diligentemente attivato l’esperto quando c’era crisi (schermandosi da accuse di inerzia). In breve: avere una composizione negoziata in corso non impedisce a un giudice di dichiarare il fallimento se la situazione è disperata, ma in generale costituirà un elemento a favore del debitore nella valutazione complessiva.

7. Posso ridurre anche i debiti fiscali e contributivi nel mio piano di risanamento?
Sì, i debiti verso il Fisco e gli enti previdenziali possono essere inclusi nei piani di ristrutturazione (accordi o concordati) attraverso l’istituto della transazione fiscale e contributiva. In sostanza, il debitore può proporre all’Agenzia delle Entrate e all’INPS di stralciare in parte i rispettivi crediti o di dilazionarli oltre i termini ordinari. Ad esempio, può offrire di pagare il 50% del debito IVA in 5 anni. Questi enti, seguendo le proprie linee guida, valuteranno la convenienza rispetto a un fallimento: se il piano offre più di quanto stimano di incassare in caso di liquidazione coatta, in genere aderiscono. Un tempo, se l’Erario votava no, il piano non poteva essere omologato (c’era un potere di veto). Oggi però, dopo le riforme e una fondamentale sentenza di Cassazione nel 2024, il voto contrario del Fisco non blocca necessariamente l’omologazione. Il tribunale può infatti forzare l’omologa (cram down) anche senza il consenso dell’Agenzia Entrate, a condizione che al Fisco venga garantito almeno ciò che otterrebbe in caso di fallimento. Questo è molto importante: significa che il debitore può comunque ottenere la riduzione dei debiti fiscali se dimostra che la proposta è equa. Ad esempio, se in fallimento l’Agenzia recupererebbe solo il 5% (magari come chirografo residuo), una proposta che offra il 20% giustifica ampiamente il superamento del diniego del Fisco. Lo stesso vale per l’INPS. Naturalmente occorre seguire le formalità della transazione fiscale (che va specificamente richiesta indicando quali tributi o contributi si falcidiano e in che misura). In composizione negoziata, non essendoci omologa, si potrà trovare un accordo informale col Fisco solo se rientra nelle possibilità (ad esempio sfruttando istituti di legge come rateizzazioni e definizioni agevolate). Ma in un accordo di ristrutturazione o concordato, il debitore può certamente includere il taglio dei debiti tributari/contributivi. Attenzione però: non tutti i debiti fiscali sono falcidiabili. L’IVA e le ritenute non versate, ad esempio, possono essere dilazionate ma non ridotte nell’importo capitale (perché considerati “tributi costituenti risorse proprie UE” e per ragioni penal-tributarie). Tuttavia, sanzioni e interessi possono essere stralciati integralmente. Dunque una transazione tipica è: pagamento 100% dell’IVA in 5 anni, con stralcio del 100% di sanzioni e interessi. Oppure pagamento parziale di altre imposte non prioritarie, se consentito. In conclusione, sì: i piani di uscita dalla crisi possono includere anche il Fisco, e grazie alle norme attuali e alla giurisprudenza, è fattibile ridurre l’esposizione fiscale all’interno di un concordato/accordo, rispettando però i paletti (no falcidia IVA, ecc.) e garantendo al Fisco un trattamento “ragionevolmente conveniente” rispetto alle alternative.

8. Quali responsabilità penali mi minacciano se la mia azienda fallisce?
In caso di fallimento (liquidazione giudiziale), scatta la disciplina dei reati fallimentari prevista dal R.D. 267/1942 (ancora in vigore per la parte penale, ora coordinata con gli articoli del CCII per rinvio). I reati principali sono le varie forme di bancarotta. La più grave è la bancarotta fraudolenta (art. 322 CCII, già art. 216 l.fall.), che punisce con la reclusione fino a 10 anni l’imprenditore (o gli amministratori/sindaci) che, prima o durante il fallimento, abbiano distratto o sottratto beni dell’azienda, occultato o falsificato i libri contabili, o comunque commesso atti dolosi volti a recare pregiudizio ai creditori. Ad esempio, se prima di fallire l’amministratore ha venduto a prezzo vile un immobile a un prestanome per non farlo prendere ai creditori, oppure ha tenuto la contabilità in modo da non far capire dove sono finiti i soldi, commette bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale. Vi è poi la bancarotta semplice (art. 323 CCII, già art. 217 l.fall.) che punisce con pene più lievi (fino a 2 anni) taluni comportamenti di imprudenza grave che hanno contribuito al dissesto, come aver aggravato la situazione per spese personali eccessive, aver fatto operazioni manifestamente azzardate, o non aver tenuto i libri in ordine per negligenza grave. Inoltre, azioni come il ricorso abusivo al credito (continuare a indebitarsi sapendo di essere insolventi) possono rilevare come bancarotta preferenziale o altre figure. Oltre ai reati fallimentari in senso stretto, reati societari o tributari commessi in precedenza possono concorrere: ad esempio, se l’amministratore aveva falsificato il bilancio, ciò può costituire reato di false comunicazioni sociali e al contempo bancarotta fraudolenta documentale; se non ha versato l’IVA oltre 250k € per anno, è reato tributario che sussiste a prescindere dal fallimento (ma durante il fallimento l’Erario segnalerà la cosa). In sintesi: la dichiarazione di fallimento apre un faro giudiziario sulle condotte del debitore negli anni precedenti. Laddove emergano irregolarità, il Curatore redige una relazione al tribunale e questa va alla Procura della Repubblica. Se il debitore ha tenuto comportamenti fraudolenti o dolosi, è molto probabile l’apertura di un procedimento penale con possibili misure (anche custodia cautelare nei casi più gravi di bancarotta fraudolenta). Per l’imprenditore quindi è cruciale, se vede avvicinarsi il rischio fallimento, astenersi da qualunque atto distrattivo o preferenziale e anzi dimostrare trasparenza: consegnare tutti i documenti al Curatore, non nascondere nulla. Una condotta collaborativa può evitare l’imputazione per bancarotta fraudolenta (ad esempio se i libri contabili sono in ordine, non c’è reato documentale; se non ci sono distrazioni, la bancarotta è solo semplice o addirittura nessun reato se il dissesto è stato causato da sfortuna e non aggravato). In caso di concordato preventivo, invece, formalmente non c’è “fallimento” e quindi non scatta la bancarotta. Però attenzione: se poi il concordato fallisce e si tramuta in fallimento, anche atti compiuti durante il concordato possono essere valutati (ad esempio pagamenti non autorizzati durante il concordato potrebbero configurare bancarotta impropria).

9. Cosa succede ai debiti che rimangono non pagati dopo una procedura di concordato o fallimento?
Dipende dal tipo di procedura e dal soggetto. Nel concordato preventivo, i debiti vengono rimodulati secondo la proposta omologata: i creditori ricevono l’importo previsto (ad es. 30%) e perdono definitivamente la quota residua. L’omologazione del concordato libera il debitore da tutti i debiti anteriori eccedenti quanto stabilito nel piano. Quindi non rimangono, per definizione, debiti insoddisfatti (a meno che il concordato non si risolva per inadempimento, nel qual caso si potrebbe riaprire la possibilità di azioni dei creditori, ma è un’ipotesi di risoluzione). Nel fallimento (liquidazione giudiziale), invece, è raro che i creditori vengano pagati integralmente. In genere, soprattutto per chirografari, rimane una parte cospicua di credito insoddisfatto al termine della procedura. Formalmente, dopo la chiusura del fallimento, la società debitrice viene cancellata (quindi i creditori non hanno più un soggetto giuridico da inseguire – la persona giuridica cessa). Se il debitore era una persona fisica (imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile), i debiti residui sussistono nei suoi confronti, ma qui interviene l’esdebitazione: l’ordinamento consente al fallito persona fisica di essere esdebitato, cioè dichiarato libero dai debiti non soddisfatti, su decisione del tribunale. Col nuovo Codice, l’esdebitazione è quasi automatica: il tribunale la concede salvo che il debitore abbia tenuto comportamenti fraudolenti o gravemente scorretti. Non è più richiesto che i creditori siano stati parzialmente soddisfatti (neppure l’1%). Quindi, nella maggior parte dei casi, l’ex fallito onesto esce a debiti zero. Questo vale per i debiti civili e commerciali. Fanno eccezione alcuni debiti di natura personale: obblighi di mantenimento, debiti da risarcimento di danni per lesioni o morte, multe penali o amministrative non rientrano nell’esdebitazione (art. 282 CCII). Quelli rimangono, ma spesso sono marginali. Importante: l’esdebitazione post-fallimentare non copre le garanzie personali di terzi. Se ad esempio un familiare aveva garantito un debito bancario dell’impresa, la banca anche dopo la chiusura del fallimento può escutere il garante per la parte non pagata. Il fallimento e l’esdebitazione liberano il debitore fallito, ma non tolgono l’obbligo ai fideiussori. Per loro, tuttavia, esiste la possibilità di avvalersi a propria volta di procedure di sovraindebitamento (se sono privati) per gestire la loro esposizione. In sintesi: dopo un concordato, non esistono più debiti residui (la percentuale falcidiata è giuridicamente cancellata per effetto dell’omologa vincolante); dopo un fallimento, i debiti residui di norma non sono più esigibili contro il debitore (persona fisica) perché viene esdebitato – ad eccezione di specifici debiti esclusi e, ovviamente, dei coobbligati che non sono stati parte della procedura. Nel caso di società, la questione del residuo non si pone perché la società viene estinta, cessando i crediti (se i soci non avevano responsabilità illimitata).

10. La mia azienda è molto piccola e non “fallisce”: come posso sistemare i debiti?
Le imprese sotto le soglie di fallibilità (art. 2 lett. d CCII) – ad esempio la ditta individuale o la SNC con pochi dipendenti e fatturato modesto – non possono accedere al concordato preventivo né vengono assoggettate a liquidazione giudiziale. Ciò però non significa che debbano tenersi i debiti a vita o accordarsi solo informalmente. Al contrario, il Codice della crisi ha integrato gli strumenti del sovraindebitamento proprio per queste situazioni. In particolare, l’imprenditore minore (che non supera 300k € di attivo, 200k € di ricavi, 500k € di debiti) ha a disposizione: il concordato minore, l’accordo di composizione (piano del consumatore) se i debiti sono misti privati, e la liquidazione controllata. Facciamo un esempio: una piccola impresa familiare (snc) ha chiuso con 400 mila euro di debiti verso fornitori e banche. Non può essere dichiarata fallita perché è sotto soglia. Se nulla viene fatto, i creditori potrebbero inseguire i soci illimitatamente responsabili, pignorando beni personali per anni. Ebbene, i soci possono rivolgersi a un OCC (presso la Camera di Commercio locale, ad esempio) e proporre un concordato minore offrendo, poniamo, di pagare il 40% in 4 anni vendendo un immobile e usando utili futuri. I creditori voteranno (non tutti magari, ma basta la maggioranza del 50% dei crediti) e se il tribunale omologa, quel piano vincola tutti – e la società verrà liberata dal restante 60%. Se invece la situazione è disperata (nessuna capacità di pagare), i soci possono optare per la liquidazione controllata: in pratica, consegnano i beni (magari qualche attrezzatura, un furgone, poco altro) a un liquidatore nominato dal giudice, il quale li venderà e dividerà il ricavato (magari irrisorio) tra i creditori. Dopodiché chiederanno l’esdebitazione e, salvo abbiano agito in malafede, otterranno la cancellazione del debito residuo e potranno ricominciare senza più quei 400 mila euro sulle spalle. In entrambi i casi, pur essendo “troppo piccoli per fallire”, esiste una via d’uscita ordinata e legale dal sovraindebitamento. Per i consumatori privati, come detto, c’è uno strumento ancora più vantaggioso: il piano del consumatore, dove nemmeno serve il voto dei creditori – il giudice decide in base alla meritevolezza. Ad esempio, una persona fisica non imprenditore, indebitata per prestiti e carte di credito per 100k €, può proporre di pagarne 30k € grazie all’aiuto di parenti, e il giudice può omologare anche se le finanziarie fossero contrarie, liberando la persona dal resto. In conclusione, anche se la Sua azienda è piccola e non “fallisce”, può comunque far ricorso alle procedure di sovraindebitamento presso gli OCC: sono procedure più snelle, pensate per la dimensione familiare/artigianale, e offrono soluzioni come il taglio concordato dei debiti o la cancellazione totale dopo liquidazione dei pochi beni. L’importante è attivarsi e utilizzare questi strumenti con l’ausilio di professionisti specializzati, perché sono opportunità spesso sottoutilizzate ma molto efficaci per voltare pagina.

Tabelle riepilogative

Di seguito, proponiamo due tabelle che riassumono le principali differenze tra alcuni degli strumenti trattati, e gli effetti delle procedure concorsuali sui diversi attori:

Tabella 1 – Confronto tra principali strumenti di regolazione della crisi (debitoriali)

CaratteristicaComposizione negoziataAccordo di ristrutturazioneConcordato preventivo
NaturaStragiudiziale assistito (volontario, riservato)Stragiudiziale con omologazione giudizialeGiudiziale concorsuale (procedura pubblica)
AvvioIstanza del debitore alla CCIAA, nomina EspertoAccordo negoziato con ≥60% creditori, poi ricorso in Tribunale per omologaRicorso in Tribunale con proposta e piano (o “in bianco” con riserva)
Gestione aziendaRimane al debitore, con affiancamento dell’Esperto (consulenza)Rimane al debitore durante trattative; dopo omologa nessun organo concorsualeDebitore in possesso ma sotto vigilanza del Commissario giudiziale; atti straordinari con autorizzazione
Ruolo dei creditoriVolontario: negoziazione libera, nessun voto formale né classiAderiscono ≥60% (o 30% agevolato) del passivo; i dissenzienti rimangono estranei (ma vanno pagati per intero entro 120 gg)Voto formale per classi: serve maggioranza ≥50% crediti (per classi, maggioranza classi o cram-down); omologa vincola tutti i creditori anteriori
VincolativitàSolo per chi aderisce agli accordi (non vincola dissenzienti)Vincolante per aderenti; dissenzienti esclusi ricevono pagamento integrale o comunque possono subire moratoria se misure protettive concesseVincola tutti i creditori anteriori (dissenzienti compresi, purché abbiano avuto diritto di voto/opposizione)
Protezione da azioni esecutiveSolo se debitore richiede misure protettive al tribunale (moratoria max 4+4 mesi)Sì, il debitore può chiedere misure protettive all’atto del deposito dell’accordo per l’omologaSì, automatic stay dalla pubblicazione del ricorso; blocco delle esecuzioni e dei pignoramenti (art. 54 CCII)
Possibilità di ridurre i debitiDipende dagli accordi consensuali raggiunti (nessuna imposizione)Sì, si può prevedere stralcio percentuale dei crediti aderenti; Fisco e INPS con transazione fiscale (cram-down fiscale possibile in omologa)Sì, tramite classi e voto si possono falcidiare crediti chirografari e anche privilegiati entro i limiti di legge; cram down fiscale e tra classi applicabile dal tribunale
EsitoSe accordo: piano di risanamento contrattuale (eventuale preludio a accordo ex art.57 CCII o aumento capitale, ecc.) – Se fallimento trattative: può sfociare in concordato semplificato (liquidatorio) o direttamente in liquidazione giudizialeSe omologa accordo: il piano diventa vincolante per i firmatari; l’impresa prosegue secondo nuovi termini (es. scadenze allungate, pagamenti parziali) – Se no omologa: creditore può avviare istanza fallimento; debitore può ripiegare su concordato preventivoSe omologa: esecuzione del piano sotto controllo (commissario/giudice); adempimento e liberazione dai debiti residui una volta eseguito – Se non approvato: probabilissima dichiarazione di liquidazione giudiziale (fallimento) – Se non omologato per opposizioni: possibile apertura liquidazione oppure raramente conversione in amministrazione straordinaria (grandi imprese)

Tabella 2 – Effetti delle procedure concorsuali sugli attori principali

Attori / EffettiConcordato preventivoLiquidazione giudiziale (fallimento)Sovraindebitamento (es. liquidazione controllata)
Debitore (impresa)Continua attività (se in continuità) sotto tutela; se liquidatorio cede beni secondo piano ma mantiene ruolo proponente; – Post procedura: se esegue il piano, rimane attiva (in continuità) o si estingue (se ha liquidato tutto); azienda può essere venduta a terzi (continuità indiretta)Perde gestione; curatore liquida tutto; – Post procedura: impresa viene cancellata dal registro imprese (cessa esistenza giuridica); se ditta individuale, imprenditore prosegue come persona fisica senza aziendaSe concordato minore: simile a concordato preventivo ma dimensioni ridotte; se liquidazione controllata: simile a fallimento ma con liquidatore OCC; – Post procedura: impresa individuale può proseguire solo se concordato con continuità, altrimenti cessa; per società minore, liquidazione porta a estinzione
Imprenditore / amministratoriMantengono poteri ordinaria amministrazione; nominato un Commissario che supervisiona; Devono collaborare e seguire piano. Se concordato omologato e adempiuto, amministratori in carica (nelle società) non subiscono azioni di responsabilità dai creditori per debiti anteriori (sono “purghati” dal concordato); evitano conseguenze penali da bancarotta (non c’è dichiarazione di fallimento).Imprenditore (o gli admin) spossessati dai beni sociali dall’inizio; decadono cariche; Possibili azioni di responsabilità promosse dal curatore (verso amministratori di società); possibili misure cautelari personali (es. divieto espatrio) e inevitabile procedura penale per eventuali bancarotte. NB: L’onesto però può contare sull’esdebitazione (se persona fisica).Più benevoli: – Se concordato minore, simil-c. preventivo: l’imprenditore tiene gestione ordinaria; – Se liquidazione controllata, l’imprenditore individuale cede l’attivo al liquidatore ma mantiene in mano eventuali beni impignorabili (es. stipendio minimo vitale). In generale meno stigma e raramente implicazioni penali (a meno di reati comuni). Esdebitazione quasi sempre concessa post-chiusura.
CreditoriDevono rispettare stay (stop azioni esecutive); partecipano al voto per classi; Subiscono eventuali falcidie secondo il piano omologato: dopo omologa, non possono più pretendere la parte falciata (è legalmente cancellata). I privilegiati conservano prelazioni nel concordato salvo diverso accordo e gradazioni imposte per legge.Tutti i crediti anteriori alla sentenza vengono cristallizzati al passivo; I creditori presentano domanda di insinuazione e attendono riparti dal curatore. Subiscono spesso forti decurtazioni di fatto (dipende da attivo realizzato). Dopo chiusura fallimento, se il debitore è società, non hanno più titolo (società estinta); se debitore persona fisica, possono rivalersi solo se negata esdebitazione (altrimenti crediti cancellati). Garanti/avalli esterni restano obbligati: il fallimento del debitore non libera fideiussori.Nei concordati minori, creditori simili a concordato: votano e ricevono percentuali secondo piano (spesso inferiori al 100%). Nelle liquidazioni controllate, creditori presentano domanda all’OCC e ricevono riparti dal liquidatore OCC; generalmente recuperano poco. Dopo: debitore individuo esdebitato = creditori chirografari non possono più agire per residui. Se debitore era società non fallibile e si estingue, creditori non soddisfatti restano insoddisfatti salvo azioni verso soci se responsabili.
Fisco e contributiPossono essere inclusi in transazione fiscale: possibile stralcio di sanzioni e interessi e dilazione imposte, talora anche parziale falcidia tributi (eccetto IVA/ritenute). Devono esprimere voto (nel concordato) sul piano fiscale; se dissentono, tribunale può cramdown se trattamento ≥ scenario liquidatorio. Dopo concordato omologato, il debitore è liberato anche dai debiti erariali per la quota eccedente pagata (lo Stato rinuncia a riscuoterla).Crediti fiscali e contributivi si insinuano al passivo: privilegiati (IVA, ritenute, contributi) di solito soddisfatti parzialmente in ragione dell’attivo; chirografari (es. sanzioni) prendono quota bassa come gli altri. Dopo chiusura fallimento, se persona fisica esdebitata: anche il Fisco è in genere incluso nell’esdebitazione (lo conferma Cass. 2024, non serve pagamento parziale), salvo debiti per sanzioni pecuniarie per reati (non esdebitabili).Nel concordato minore, trattamento simile al concordato: possibile transazione fiscale. Nella liquidazione controllata, Fisco come creditore concorsuale: partecipa ai riparti secondo privilegio (spesso su imponibili modesti). Dopo, con l’esdebitazione del debitore onesto, lo Stato non può più perseguire i crediti residui (in pratica equiparata a condono post-fallimentare).
DipendentiCrediti per stipendi, TFR ecc. sono privilegiati di alto grado, spesso pagati integralmente (o comunque non meno del 80% se TFR, grazie a fondo di garanzia INPS). Nel concordato in continuità, contratti di lavoro proseguono; possibili esuberi gestiti con autorizzazione del tribunale (licenziamenti collettivi in concordato). Nel concordato liquidatorio, dipendenti normalmente licenziati all’inizio procedura, ma possono accedere al Fondo di Garanzia per TFR e ultime 3 mensilità.Se impresa cessa, i dipendenti vengono tutti licenziati dal curatore appena (o già dal pre-fallimentare). Possono ottenere dal Fondo di Garanzia INPS il TFR e le ultime retribuzioni impagate. Si insinuano per differenze retributive, ferie non godute ecc.: sono crediti privilegiati da soddisfare prima di altri chirografari. Spesso prendono buona parte (dipende dall’attivo). Hanno anche priorità processuale (esame dello stato passivo in prededuzione per crediti lavoro).Nel concordato minore in continuità, i rapporti di lavoro possono proseguire se l’attività continua. Nel liquidatorio, scenario come fallimento: risoluzione dei rapporti e accesso a Fondo di garanzia. Procedure semplificate: l’OCC/liquidatore spesso collabora con INPS per attivare tempestivamente le tutele per i dipendenti.

(Le tabelle sopra semplificano alcuni aspetti complessi; in casi specifici, occorre fare riferimento puntuale alle norme applicabili e alle interpretazioni giurisprudenziali più aggiornate.)

Simulazione pratica: il caso di una PMI debitrice (scenario esemplificativo)

Scenario: XYZ S.r.l. è una PMI industriale (40 dipendenti) produttrice di componenti meccanici. Negli ultimi due anni ha perso commesse importanti e si trova in crisi di liquidità. Ha debiti per 2 milioni €: 800k con banche (mutui e fidi), 500k con fornitori, 300k con Erario/INPS (IVA non versata e contributi), 400k altri (leasing, finanziarie). Patrimonio: capannone ipotecato, macchinari, magazzino. I flussi di cassa attuali non coprono le rate e fornitori sono in attesa da mesi.

Passo 1 – Emersione: L’amministratore nota indici allarmanti (patrimonio netto in erosione, indice DSCR <1). Attiva subito il commercialista per valutare opzioni, ottemperando all’art. 2086 c.c. Installano un controllo di gestione mensile e informano il CdA delle perdite. (→ Adeguati assetti e rilevazione tempestiva in atto).

Passo 2 – Composizione negoziata: Su consiglio dei consulenti, XYZ presenta istanza di composizione negoziata sulla piattaforma online. Viene nominato un Esperto indipendente. Dopo analisi, l’Esperto riscontra che l’azienda ha chance di risanamento se riduce l’indebitamento e diluisce i pagamenti; prepara con l’azienda un piano di risanamento preliminare. Si convocano i creditori principali (banche e alcuni fornitori strategici) a un tavolo negoziale. XYZ richiede al tribunale misure protettive: il giudice le concede per 3 mesi, sospendendo un pignoramento in corso su conti bancari. Durante le trattative, XYZ propone: pagamento integrale dei fornitori strategici in 12 mesi, pagamento parziale (70%) delle banche allungando i mutui, stralcio del 50% dei debiti leasing, e un nuovo investitore che apporta 200k € in equity. Offre inoltre al Fisco una dilazione su 5 anni (tramite futura transazione fiscale). Le parti trattano; alcune banche paiono disponibili a rinunciare al 30% purché incassino subito il 70% (magari grazie all’apporto del nuovo socio). L’INPS chiede che il debito contributivo sia pagato integralmente ma con calma. Dopo 2 mesi, però, due banche minoritarie rifiutano qualsiasi decurtazione e un fornitore grande, rimasto fuori dal tavolo iniziale, fa pressing con decreto ingiuntivo. L’Esperto comprende che non c’è unanimità sufficiente per un accordo stragiudiziale globale. Redige quindi una relazione finale attestando che le trattative sono state svolte con correttezza ma non hanno portato a un accordo completo (alcuni creditori chiave restano dissenzienti). (→ Esito negativo composizione negoziata.)

Passo 3 – Concordato preventivo in continuità: Preso atto dello stallo, XYZ decide di passare a una procedura concorsuale. Presenta domanda di concordato preventivo con riserva al tribunale, ottenendo immediatamente il beneficio del blocco azioni esecutive (che sostituisce la scadenza delle misure protettive negoziate). Grazie all’art. 44 CCII e al fatto di aver tentato la composizione, il tribunale concede 120 giorni per presentare il piano definitivo. XYZ già disponeva di un piano di massima: ora, con l’aiuto di un attestatore (revisore nominato), lo rifinisce. Il piano di concordato prevede: contributo di 200k € dal nuovo investitore, continuazione dell’attività mantenendo 30 dipendenti su 40 (10 saranno purtroppo licenziati – con autorizzazione del giudice – per ridurre i costi); pagamento integrale dei debiti verso Erario/INPS in 5 anni (nessuna falcidia su IVA e contributi, solo dilazione); pagamento di tutti i fornitori chirografari al 30% in 2 anni; pagamento delle banche ipotecarie al 80% (grazie alla vendita del capannone, stimato capiente per l’80% del credito – inoltre viene offerto un consolidamento ipotecario a chi accetta di rifinanziare); pagamento leasing al 50%; mantenimento dei contratti essenziali con fornitori strategici (pagati come detto al 100% fuori dal concordato – li classifica come creditori estranei soddisfatti integralmente così non votano). Il tutto con la prospettiva che, ridotto il debito, XYZ tornerà in utile dal secondo anno. L’attestatore valuta i numeri: conferma che in ipotesi di fallimento i chirografari prenderebbero forse 5-10%, mentre col concordato proposto avranno 30%, e che il piano è fattibile (assumendo la nuova finanza e la cessione capannone realizzabile). Il tribunale ammette XYZ al concordato. Viene nominato un Commissario giudiziale che verifica le operazioni. In assemblea dei creditori, si formano 3 classi: (1) banche ipotecarie; (2) chirografari (fornitori non strategici, leasing, finanziarie); (3) erario/INPS (che però non votano formalmente, dando solo adesione alla transazione fiscale). Al voto: la classe (1) banche approva, perché l’alternativa fallimento darebbe loro meno (valutano che incasserebbero forse 60% in asta forzata, meglio 80% concordato); la classe (2) chirografari approva con il 75% del credito (alcuni leasing si astengono sperando di rivalersi sui garanti, ma la maggioranza di fornitori è favorevole visto che 30% è più di 0% atteso in caso di default); la classe (3) Fisco formalmente non vota, ma Agenzia Entrate ed INPS aderiscono alla proposta di pagamento integrale dilazionato (nessun sacrificio di capitale per loro, solo di interessi e sanzioni condonate). Il tribunale quindi omologa il concordato. Un paio di creditori finanziari avevano fatto opposizione lamentando che 30% è basso, ma il giudice rigetta notando che avrebbero preso molto meno in liquidazione (quindi il concordato rispetta il loro best interest). Si apre così la fase di esecuzione: XYZ vende il capannone (con l’assenso delle banche ipotecarie che prenderanno l’80% ciascuna dalla vendita), l’investitore versa i 200k € destinati in parte a soddisfare i fornitori chirografari (30%) e in parte a capitalizzare l’azienda per la ripartenza. Il Commissario vigila che i pagamenti concordatari avvengano secondo le percentuali. In 18 mesi, XYZ esegue tutte le obbligazioni del concordato: i creditori ottengono le somme previste. A questo punto, il tribunale dichiara adempiuto il concordato e chiude la procedura. XYZ S.r.l. continua la propria attività (seppure ridimensionata), libera dai vecchi debiti (che sono stati cancellati nella misura del 70% per i fornitori e del 20% per le banche grazie all’effetto esdebitativo del concordato). I fornitori insoddisfatti residualmente hanno perso il diritto ad agire per la differenza, poiché il concordato ha efficacia remissoria. I rapporti con i fornitori strategici, pagati al 100%, proseguono regolarmente e l’azienda torna ad avere credito sul mercato. Gli amministratori hanno evitato tanto il fallimento quanto azioni di responsabilità: anzi, la condotta diligente (attivazione tempestiva dell’esperto, soluzione concordataria) li mette al riparo da accuse di tardività. Dal punto di vista penale, nessun reato di bancarotta essendoci stato concordato e non fallimento. In definitiva, XYZ è uscita dalla crisi grazie a un mix di strumenti: allerta interna, negoziazione assistita e concordato, salvaguardando la continuità aziendale e pagando quanto possibile ai creditori.

(Naturalmente ogni caso reale presenta variabili proprie; lo scenario sopra illustrato è semplificato a fini didattici per mostrare lo step-by-step decisionale di un debitore e l’intreccio degli istituti.)

Conclusione

Uscire da una crisi aziendale è un percorso complesso che richiede la combinazione di misure gestionali e legali. L’ordinamento italiano, allineandosi alle migliori pratiche internazionali, offre oggi una gamma articolata di strumenti per affrontare ogni fase della crisi: dalla prevenzione tempestiva (adeguati assetti, allerta interna, indicatori) alla composizione negoziata assistita, fino alle procedure concorsuali vere e proprie (concordati, liquidazioni) e alle soluzioni per i debitori minori (piani del consumatore, concordati minori). Il filo rosso è incentivare il risanamento quando c’è anche una minima chance di salvare l’impresa o parte di essa, ma al contempo garantire un “secondo inizio” al debitore sfortunato ma onesto, anche attraverso l’esdebitazione. Dal punto di vista pratico, un’impresa debitrice dovrebbe: monitorare costantemente la propria salute finanziaria, non isolarsi (coinvolgere consulenti esperti di crisi appena emergono segnali di difficoltà), dialogare con creditori e stakeholder in modo trasparente e tempestivo, e utilizzare senza timore gli strumenti legali predisposti (ricorrere per tempo a composizione negoziata, accordi o concordato se necessario – ricordando che la legge favorisce chi agisce presto e in buona fede). Le recenti riforme (D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024) hanno ulteriormente affinato le regole, introducendo flessibilità come il cram down fiscale, rafforzando la centralità delle soluzioni negoziate e chiarendo obblighi e responsabilità (ad esempio dei revisori nel segnalare la crisi). Anche la giurisprudenza di legittimità ha fornito indicazioni importanti, ad esempio confermando l’orientamento “perdonista” sull’esdebitazione senza soglie e validando l’operatività del concordato semplificato con i suoi presupposti di convenienza per i creditori.

Per il professionista che assiste imprese in crisi (avvocato o commercialista), è fondamentale conoscere a fondo queste evoluzioni normative e giurisprudenziali, così da consigliare al meglio il debitore su quale strada intraprendere. Per l’imprenditore e il privato, è rassicurante sapere che esiste una via d’uscita legale anche dalle situazioni finanziarie più difficili: non tutto è lasciato al mero negoziato di mercato – dove a volte vince il creditore più forte – ma c’è un quadro normativo che bilancia gli interessi, offrendo soluzioni eque. In ultimo, va sottolineato il principio della responsabilità: il sistema premia l’imprenditore che agisce correttamente (che affronta la crisi con trasparenza, rispetta la par condicio e non sottrae beni ai creditori) e allo stesso tempo sanziona duramente chi abusa degli strumenti o procrastina colposamente. Uscire dalla crisi aziendale, in definitiva, è un processo che richiede tempismo, competenza e buona fede: tempismo nell’attivarsi subito, competenza nel scegliere e gestire lo strumento adatto, buona fede nel perseguire una soluzione sostenibile rispettando diritti altrui. Seguendo questi principi e con l’ausilio delle procedure descritte, anche situazioni che un tempo avrebbero condotto inevitabilmente al fallimento rovinoso possono oggi essere governate in modo ordinato, minimizzando le perdite per i creditori e spesso garantendo una continuità (seppur ridimensionata) dell’attività d’impresa o, quantomeno, una rapida ricollocazione delle sue parti sane nel tessuto economico. In ogni caso, il debitore che esce da una crisi attraverso un percorso legale avrà la possibilità – dopo aver pagato il possibile e sacrificato il dovuto – di ripartire senza lo spettro dei debiti passati, coerentemente con lo spirito “fresh start” promosso anche a livello europeo.


Fonti

Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, aggiornato 2022-2024) – disposizioni rilevanti: art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza); art. 3 (assetti e indicatori); art. 25-octies (segnalazioni obbligatorie organi di controllo); art. 54 (misure protettive); art. 84 (tipi di concordato e requisiti: continuità vs liquidatorio 20%+10%); art. 115-116 (azioni di responsabilità in concordato); art. 25-sexies, 25-septies (concordato semplificato: presupposti e norme generali); art. 282-283 (esdebitazione del debitore civile e incapiente).

Corte d’Appello di Venezia, Sez. I – sentenza 28/03/2024 (concordato semplificato), massimata su Unijuris – Osservatorio Giurisprudenza Fallimentare (20/05/2024).

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Conclusione

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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