Avviso Di Accertamento Per Redditi Di Partecipazione: Cosa Fare

Hai ricevuto un avviso di accertamento per redditi di partecipazione?
L’Agenzia delle Entrate ti contesta la mancata dichiarazione o l’errata indicazione dei redditi derivanti da quote in società, imprese familiari, associazioni professionali o partecipazioni estere? In questi casi è fondamentale capire cosa ti viene contestato, da dove provengono i redditi e come difenderti per evitare sanzioni pesanti o l’apertura di un contenzioso tributario.

Quando può arrivare un avviso di accertamento per redditi di partecipazione?
– Se sei socio di una società di persone (snc, sas) o di un’impresa familiare e non hai dichiarato il tuo reddito pro quota
– Se partecipi a società a ristretta base familiare in cui l’Agenzia contesta ricavi sottratti a tassazione
– Se possiedi quote in società estere e non le hai dichiarate nel quadro RW o nel quadro RL
– Se l’Agenzia rettifica i redditi della società e attribuisce automaticamente a te il tuo reddito da partecipazione
– Se c’è una dichiarazione infedele o omessa da parte della società di cui sei socio o associato

Cosa contiene l’avviso di accertamento?
– Il dettaglio del reddito di partecipazione ritenuto non dichiarato
– Il riferimento alla percentuale di partecipazione risultante dai registri ufficiali
– Il calcolo delle imposte dovute, degli interessi e delle sanzioni
– L’invito a presentare osservazioni o aderire all’accertamento entro i termini previsti
– L’avvertimento che, in mancanza di risposta, l’atto diventa definitivo e sarà iscritto a ruolo

Cosa puoi fare se ricevi un avviso di accertamento per redditi di partecipazione?
– Verifica se il reddito ti è stato effettivamente attribuito in modo corretto e se la percentuale è aggiornata
– Controlla se la società ha presentato correttamente la dichiarazione e ha imputato i redditi in modo coerente
– Se i redditi contestati derivano da un accertamento alla società, valuta se quest’ultima ha impugnato o aderito
– Se c’è stato un errore formale, puoi correggere con dichiarazione integrativa e ravvedimento operoso
– Prepara una memoria difensiva documentata se ritieni che l’attribuzione del reddito sia errata o non dovuta
– Se l’accertamento è viziato, presenta ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria, anche in via autonoma

Cosa puoi ottenere con la giusta difesa?
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento, se mancano i presupposti
– La riduzione delle sanzioni, se aderisci spontaneamente o regolarizzi la posizione
– La rateizzazione del debito, per evitare il blocco dei conti o pignoramenti
– La tutela della tua posizione fiscale personale, anche se la società è in contenzioso
– La prevenzione di ulteriori controlli, se correggi tempestivamente anche gli anni successivi

Attenzione: i redditi di partecipazione vengono spesso contestati automaticamente, soprattutto in caso di accertamenti sulle società. Ma non sempre l’attribuzione è corretta o legittima, e puoi difenderti efficacemente con l’assistenza giusta.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario, redditi di partecipazione e fiscalità delle società ti spiega cosa fare se ricevi un avviso di accertamento, quando è opportuno aderire, quando impugnare e come proteggere la tua posizione fiscale.

Hai ricevuto un avviso per redditi da partecipazione non dichiarati o contestati?
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Introduzione

L’avviso di accertamento per redditi di partecipazione è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate rettifica il reddito imponibile di un contribuente in relazione a quote di partecipazione in società o enti. In pratica, il Fisco contesta a un socio di aver percepito redditi (pro quota) da una società o associazione che non sarebbero stati correttamente dichiarati. Questi redditi di partecipazione comprendono sia gli utili imputati ai soci di società trasparenti (società di persone, associazioni professionali, Srl in regime di trasparenza fiscale, ecc.), sia eventuali utili occultamente distribuiti ai soci di società di capitali a ristretta base.

È importante chiarire cosa si intende per redditi di partecipazione: sono i redditi che derivano dalla partecipazione del contribuente a organismi collettivi (es. società di persone, imprese familiari, associazioni fra professionisti e alcune Srl “trasparenti”), che per legge vengono imputati direttamente al socio in proporzione alla quota di possesso, indipendentemente dall’effettiva distribuzione. Inoltre, la giurisprudenza ha consolidato il principio che, nelle società di capitali a ristretta base (ad esempio una Srl con pochi soci legati da rapporti familiari), gli utili extra-contabili accertati in capo alla società si presumono distribuiti pro quota ai soci stessi. Ciò significa che, se una piccola società di capitali nasconde parte dei profitti, il Fisco può presumere che tali utili “in nero” siano finiti nelle tasche dei soci, tassandoli come reddito personale dei medesimi. Questa presunzione – pur non espressamente prevista da una norma di legge – è stata riconosciuta legittima dalla Corte di Cassazione e si applica regolarmente negli accertamenti. Resta comunque una presunzione iuris tantum, superabile dal contribuente con prova contraria (ad esempio dimostrando che gli utili extra-contabili sono rimasti investiti nella società e non distribuiti).

Dal punto di vista del contribuente (socio) che riceve un avviso di accertamento su redditi di partecipazione, trovarsi improvvisamente di fronte a una pretesa fiscale può essere allarmante. È fondamentale non farsi prendere dal panico ma attivarsi subito per capire la natura dell’accertamento, verificare la correttezza formale dell’atto e preparare una strategia di difesa. Questa guida, aggiornata a luglio 2025, fornirà un quadro avanzato – ma divulgativo – dell’argomento, con riferimenti normativi aggiornati, pronunce giurisprudenziali recentissime e strumenti pratici (tabelle riepilogative, domande-risposte, esempi). L’obiettivo è spiegare cosa fare quando si riceve un avviso di accertamento per redditi di partecipazione, esaminando tutte le tipologie di casi e le possibili strategie difensive dal punto di vista del contribuente debitore.

Cos’è l’avviso di accertamento per redditi di partecipazione

Un avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’Amministrazione finanziaria (tipicamente l’Agenzia delle Entrate) comunica al contribuente un maggiore reddito imponibile rispetto a quanto dichiarato, determinando maggiori imposte dovute. Nel caso specifico dei redditi di partecipazione, l’avviso mira a tassare in capo al socio i redditi derivanti dalla sua partecipazione a un’entità collettiva, che risultano non dichiarati o non correttamente dichiarati. In sostanza, può accadere che a seguito di controlli su una società (o altra entità) emergano componenti positivi di reddito non dichiarati dall’ente; allora il Fisco, oltre a tassare la società, “ribalta” tali maggiori utili sui soci, emettendo avvisi di accertamento a loro carico.

Esempi tipici di situazioni che danno luogo ad avvisi per redditi di partecipazione:

  • Soci di società di persone o soggetti “trasparenti”: le società di persone (S.n.c., S.a.s.) e assimilate non pagano direttamente l’IRPEF sul reddito d’impresa, ma imputano il reddito ai soci in proporzione alle quote (art. 5 TUIR). Se il reddito sociale dichiarato era inferiore al reale, l’accertamento ridetermina il reddito e la differenza viene imputata ai soci come maggior reddito di partecipazione da dichiarare. Ad esempio, se una S.n.c. aveva dichiarato €50.000 di utili ma da verifica risulta che gli utili effettivi erano €100.000, ciascun socio riceverà un avviso per tassare la sua quota della differenza (maggior utile non dichiarato). Analogamente, in un’associazione professionale (es. studio associato tra avvocati) o in una Srl trasparente (piccola Srl che ha optato per la tassazione per trasparenza), eventuali maggiori redditi accertati vengono ripartiti tra gli associati o soci e da questi tassati in sede IRPEF.
  • Soci di società di capitali a ristretta base: come anticipato, se una Srl/S.p.A. con pochi soci occulta ricavi o gonfia costi per ridurre l’utile, il Fisco può presumere che gli utili extra-contabili così generati siano stati distribuiti in nero ai soci. In tal caso notifica ai soci avvisi per “redditi di partecipazione occulti”, spesso qualificati come redditi di capitale non dichiarati. Ad esempio, se una Srl (3 soci) ha sottratto al fisco €90.000 di utili, ciascun socio al 33% potrebbe ricevere un avviso per €30.000 di dividendi presunti percepiti clandestinamente. Questa particolare fattispecie, come vedremo, è fondata su una presunzione giurisprudenziale (presunzione di distribuzione ai soci) ed è soggetta a importanti sviluppi giurisprudenziali sul piano probatorio.
  • Impresa familiare: nell’impresa familiare (art. 5 TUIR) il titolare imputa parte del reddito ai familiari che collaborano. Se il reddito dell’impresa familiare è accertato in aumento, anche i collaboratori familiari potrebbero ricevere avvisi per i corrispondenti maggiori redditi di partecipazione ad essi imputabili (salvo che abbiano già dichiarato il dovuto).
  • Soci occulti o di fatto: in alcuni casi l’Amministrazione può ravvisare l’esistenza di una società di fatto o di soci occulti non dichiarati. Ad esempio, due persone che esercitano congiuntamente un’attività senza forma societaria potrebbero essere considerati soci di fatto; se viene accertato un reddito non dichiarato dell’impresa “di fatto”, ciascun socio può essere tassato per la propria quota di partecipazione presunta. Allo stesso modo, se in una ditta individuale viene individuato un socio occulto che partecipa agli utili, il Fisco potrebbe emettere un avviso nei suoi confronti per la quota di utili attribuitagli.

In tutti questi casi, il denominatore comune è che il socio diventa destinatario di un avviso di accertamento non (solo) per redditi propri individuali, ma per redditi derivanti dalla sua posizione di partecipante in un’altra entità. Si tratta quindi di situazioni peculiari, in cui è essenziale comprendere il meccanismo di imputazione e le eventuali presunzioni utilizzate dal Fisco.

Quadro normativo di base

Prima di affrontare le strategie difensive, è utile richiamare sinteticamente le principali norme che regolano la materia, sia sostanziali che procedurali:

  • Art. 5 TUIR (D.P.R. 917/1986) – Dispone l’imputazione per trasparenza del reddito delle società di persone e associazioni professionali: il reddito d’impresa prodotto dalla società semplice, SNC, SAS (o da studi associati) “è imputato a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”. Ciò significa che i soci devono dichiarare i redditi di partecipazione anche se gli utili non sono stati materialmente distribuiti. In caso di accertamento, l’ufficio notifica avvisi sia alla società (rettificando il reddito globale) sia ai soci (per il maggior reddito di partecipazione di loro competenza). Spesso in questi giudizi si configura un litisconsorzio necessario tra società e soci: secondo la Cassazione l’accertamento del reddito sociale è unico e indivisibile, per cui società e tutti i soci devono essere parti del medesimo giudizio (ci sono eccezioni solo per contestazioni “personali” del singolo socio).
  • Art. 42 D.P.R. 600/1973 – Regola la forma e motivazione degli avvisi di accertamento. L’atto deve essere sottoscritto da un capo ufficio o altro funzionario delegato e motivato in modo da mettere il contribuente in grado di comprenderne le ragioni. Se la motivazione avviene “per relationem” (cioè rinviando a elementi contenuti in un altro atto, ad es. il PVC della Guardia di Finanza), questo atto presupposto deve essere allegato all’avviso se non già notificato o conosciuto dal contribuente. La violazione di tale obbligo comporta la nullità dell’atto. Ad esempio, se l’avviso al socio richiama le conclusioni dell’accertamento notificato alla società ma non ne allega copia, il socio può eccepire il vizio di motivazione per difetto di allegazione.
  • Art. 47 TUIR (D.P.R. 917/1986) – Stabilisce quali utili e proventi da partecipazione concorrono a formare il reddito imponibile del socio. Le regole ordinarie prevedono che i dividendi di società siano tassati nel periodo d’imposta in cui sono percepiti, con differenti regimi (parziale imponibilità per utili da partecipazioni qualificate fino al 2017; dal 2018 in poi, flat tax 26% sui dividendi per le persone fisiche). Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che tali regimi agevolati non si applicano agli utili extracontabili accertati: i cosiddetti utili in nero, non avendo scontato imposta in capo alla società, vanno tassati per intero in capo ai soci. Ad esempio, se una Srl (dal 2018) occulta utili per 100.000 €, tali somme, quando imputate ai soci per accertamento, non beneficiano dell’aliquota fissa 26% ma vengono assoggettate a IRPEF ordinaria sul 100% dell’importo. Questa differenza può incidere notevolmente sul debito fiscale personale del socio.
  • Art. 39 D.P.R. 600/1973 – Riguarda gli accertamenti analitico-induttivi del reddito d’impresa. Consente all’ufficio di determinare un reddito d’impresa maggiore di quello dichiarato basandosi su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, quando emergono inesattezze o irregolarità nelle scritture contabili (es. ricavi non contabilizzati, costi fittizi). Inoltre, il comma 2 autorizza l’accertamento induttivo puro (completamente presuntivo) se il contribuente non ha presentato la dichiarazione o ha tenuto contabilità inattendibile a livelli estremi. Nel contesto dei redditi di partecipazione, l’art. 39 legittima l’Agenzia a ricostruire utili extra-contabili della società mediante presunzioni e quindi, di riflesso, a imputarli ai soci. Ad esempio, se un accertamento induttivo trova ricavi in nero in un’azienda, l’ufficio li considera utili extra-bilancio e grazie all’art.39 può presumere che siano stati distribuiti ai soci (società di capitali a base ristretta) o li attribuirà comunque ai soci (società di persone).
  • Statuto del Contribuente, L. 212/2000, art. 7 – Ribadisce l’obbligo di completa motivazione degli atti impositivi e di allegazione degli atti richiamati, a tutela del diritto di difesa del contribuente. Ogni avviso di accertamento deve indicare il responsabile del procedimento e gli elementi di fatto e di diritto che giustificano la pretesa fiscale. La violazione di questi obblighi formali (motivazione carente, mancata indicazione del responsabile, omessa allegazione di documenti fondamentali) può dar luogo a nullità dell’atto, come affermato da numerose pronunce di Cassazione. Ad esempio, Cass. n. 4176/2019 ha annullato un avviso privo dell’allegato richiamato, ritenendo violato l’art. 7 Statuto (obbligo di trasparenza).
  • Norme sulla notifica degli atti tributari (art. 60 D.P.R. 600/1973) – Richiamano in parte le regole del Codice di procedura civile per la notifica degli atti amministrativi. La notifica può avvenire tramite ufficiale giudiziario o messo notificatore, con consegna al destinatario, a familiari o altri soggetti abilitati presso il domicilio fiscale, oppure a mezzo posta raccomandata. Dal 2017 in poi è stata introdotta anche la notifica tramite PEC (posta elettronica certificata) per i soggetti che hanno un domicilio digitale. Un avviso di accertamento oggi può quindi essere notificato via PEC all’indirizzo risultante dai registri ufficiali (per le imprese e professionisti è obbligatorio averlo; per i privati è facoltativo, ad esempio tramite l’INI-PEC o l’Indice INAD). Se la notifica PEC non è possibile (indirizzo mancante o inattivo), si procede con le modalità tradizionali. In sede di contenzioso occorre distinguere i vizi di notifica nulli (sanabili) da quelli inesistenti: secondo la Cassazione, è inesistente la notifica effettuata in un luogo o a persona totalmente estranei al destinatario, e ciò la rende insanabile; viceversa è nulla – ma sanabile – la notifica che, pur viziata, abbia comunque raggiunto lo scopo di portare a conoscenza l’atto al contribuente. Ad esempio, notificare l’avviso all’indirizzo sbagliato o a un soggetto privo di qualsiasi legame col contribuente configura inesistenza (atto inefficace); notificare invece all’indirizzo corretto ma con qualche irregolarità (es. mancata firma della relata, omessa seconda raccomandata informativa in caso di consegna a familiare, ecc.) può costituire nullità sanabile se il contribuente ha comunque avuto conoscenza dell’atto. La distinzione è cruciale perché, in caso di nullità, la notifica può essere sanata ex post (ad esempio dalla costituzione in giudizio del contribuente, che equivale a “presa di conoscenza” dell’atto), mentre l’inesistenza è insanabile e l’atto non produce effetti.
  • Novità 2023-2025 – Contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio: dal 18 gennaio 2024 è in vigore il nuovo art. 6-bis dello Statuto del Contribuente, introdotto dal d.lgs. 219/2023 in attuazione della delega fiscale. Questa norma prevede che tutti gli atti impugnabili dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria devono essere preceduti da un contraddittorio anticipato, effettivo e informato, a pena di annullabilità dell’atto, salvo alcune eccezioni (accertamenti meramente automatizzati o casi di particolare urgenza per rischio di perdita del gettito). In concreto, l’Agenzia delle Entrate deve comunicare al contribuente uno schema di accertamento (ad esempio un avviso in bozza), concedendogli almeno 60 giorni per presentare osservazioni e documenti prima di emettere l’atto definitivo. Se l’ufficio emette l’avviso senza aver attivato questo contraddittorio quando era dovuto, l’atto è annullabile su ricorso del contribuente. Si tratta di un cambiamento epocale: in precedenza il contraddittorio preventivo era obbligatorio solo in alcuni casi (accertamenti basati su studi di settore, operazioni IVA transnazionali per effetto di normative UE, ecc.), mentre ora diventa la regola generale. Dunque, per gli avvisi di accertamento notificati dal 2024 in avanti, il contribuente può eccepire la nullità dell’atto se non ha ricevuto un invito al contraddittorio con lo schema di accertamento, purché non rientri nelle eccezioni di legge. Ad esempio, se un avviso per redditi di partecipazione viene emesso senza previo invito a comparire e non è un mero accertamento automatico, il socio potrà far valere la violazione dell’art. 6-bis L.212/2000 davanti al giudice tributario per ottenere l’annullamento dell’atto.

Questo quadro normativo evidenzia come il diritto tributario italiano offra al contribuente vari strumenti di tutela (obbligo di motivazione, allegazione, contraddittorio, termini di decadenza, ecc.) che devono essere attentamente verificati in ogni avviso di accertamento. Nei paragrafi successivi esamineremo come utilizzare queste norme in concreto per difendersi dall’avviso, ma prima analizziamo le principali cause che possono portare all’emissione di un accertamento sui redditi di partecipazione.

Cause tipiche degli accertamenti sui redditi di partecipazione

L’emissione di un avviso di accertamento per redditi di partecipazione può scaturire da diverse tipologie di controlli e verifiche fiscali. Comprendere la causa dell’accertamento è importante per orientare la strategia difensiva, poiché ogni tipologia di accertamento ha caratteristiche e presupposti probatori specifici. Di seguito, focalizziamo l’attenzione su alcune cause frequenti:

Accertamento da “studi di settore” o ISA

Una causa storicamente frequente (per gli anni d’imposta fino al 2018) sono gli accertamenti basati sugli studi di settore. Gli studi di settore erano strumenti statistico-economici che stimavano un ricavo o reddito “congruo” per le imprese di un dato settore e dimensione. Se un contribuente dichiarava ricavi notevolmente inferiori a quelli stimati dallo studio di settore applicabile, poteva essere selezionato per un accertamento. Nel caso di società di persone, un accertamento basato sugli studi di settore avrebbe aumentato il reddito d’impresa dichiarato dalla società, con conseguente aumento dei redditi di partecipazione imputati ai soci. Tuttavia, è bene chiarire che lo scostamento dallo studio di settore da solo non è prova assoluta: la Cassazione ha ribadito che gli studi di settore costituiscono una presunzione semplice e non possono da soli fondare la pretesa fiscale senza adeguato contraddittorio col contribuente. In pratica, l’ufficio deve invitare il contribuente a giustificare lo scostamento in sede di contraddittorio: se il contribuente fornisce spiegazioni convincenti (ad es. calo di attività per crisi, malattia, spese straordinarie, ecc.), l’accertamento non dovrebbe essere emesso. Se invece il contraddittorio è assente o le giustificazioni sono giudicate insufficienti, l’ufficio può procedere all’accertamento rideterminando i ricavi. In giudizio, comunque, il giudice deve valutare caso per caso se gli indizi derivanti dallo studio di settore sono “gravi, precisi e concordanti” e se il contraddittorio è stato realmente svolto. Dal periodo d’imposta 2019 gli studi di settore sono stati sostituiti dagli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA), che però hanno funzione principalmente premiale o di selezione del rischio e non generano accertamenti automatici. È comunque possibile che bassi punteggi ISA (indice di affidabilità sotto certe soglie) portino a verifiche fiscali più approfondite, che in concreto si traducono poi in accertamenti induttivi similari a quelli da studi di settore. Pertanto, se l’accertamento nasce da una “non congruità” ai parametri/ISA, il contribuente (socio) potrà eccepire l’eventuale mancanza di contraddittorio preventivo e contestare la debolezza della presunzione, magari portando in giudizio le prove delle cause giustificative dello scostamento (documentazione contabile, andamento di mercato, ecc.).

Caso pratico: si consideri una SNC di ristorazione che nel 2018 ha dichiarato ricavi per €200.000, mentre lo studio di settore stimava almeno €300.000. In sede di verifica, i soci adducono che una parte del locale era rimasta chiusa per lavori e che la clientela era calata per la concorrenza. Se l’ufficio non ritiene valide le spiegazioni e accerta maggiori ricavi per €100.000, emetterà avviso alla SNC e ai soci per i relativi redditi di partecipazione (es.: due soci al 50%, +€50.000 di reddito ciascuno). In giudizio, i soci potranno far valere che l’accertamento si basa solo sullo scostamento statistico senza ulteriori prove, chiedendone l’annullamento perché la presunzione da studio di settore non raggiunge la soglia di gravità, precisione e concordanza richiesta.

Accertamenti da indagini finanziarie (conti correnti)

Un’altra causa frequente di accertamenti (specialmente personali) consiste nelle indagini finanziarie su conti correnti bancari. L’Agenzia delle Entrate può, nell’ambito di verifiche, acquisire i dati dei conti correnti di una società e dei suoi soci (previa autorizzazione). Dall’esame dei movimenti bancari, spesso emergono versamenti o prelevamenti non giustificati dalle scritture contabili ufficiali. La normativa fiscale (art. 32 D.P.R. 600/1973) prevede presunzioni importanti al riguardo:

  • Versamenti (entrate) su conti non giustificati si presumono ricavi tassabili non dichiarati. Questa presunzione è legale relativa: significa che per legge ogni accredito bancario che il contribuente non riesce a dimostrare essere di natura non reddituale (es. trasferimento di fondi propri, prestito ricevuto, giroconto, ecc.) viene considerato reddito evaso. L’onere di provare la provenienza non tassabile di quel denaro grava sul contribuente.
  • Prelevamenti (uscite) non giustificati, per i soggetti esercenti attività d’impresa, sono stati a lungo considerati indice di acquisti in nero, e quindi anch’essi ricavi non dichiarati se il contribuente non indica il beneficiario (questa presunzione ha subito limitazioni: la Corte Costituzionale ha escluso la sua applicabilità nei confronti dei lavoratori autonomi, sentenza n. 228/2014, e in generale oggi è circoscritta alle imprese, con limiti quantitativi introdotti dal 2016).

Nel contesto dei redditi di partecipazione, le indagini bancarie possono riguardare sia la società che i soci. Ad esempio, in una verifica a una SRL a base ristretta, l’ufficio analizzerà i conti societari per individuare ricavi non contabilizzati (versamenti sospetti) o utili distratti (prelievi anomali a favore dei soci). Contestualmente, potrebbe esaminare i conti personali dei soci: se trova, poniamo, versamenti sul conto del socio non coerenti coi suoi redditi ufficiali, può presumere che siano utili sociali in nero distribuiti a quel socio. In tal caso, l’avviso al socio sarà motivato proprio dai movimenti bancari: “sul conto personale n… sono affluiti €50.000 non giustificati, che si presumono utili extracontabili provenienti dalla Società X”.

Come difendersi in questi casi? Bisogna fornire una prova contraria puntuale per ciascun movimento contestato. Ad esempio, dimostrare che un versamento sul conto socio era in realtà un prestito da terzi (esibendo il contratto di mutuo o la provenienza da un altro conto personale già tassato), oppure che un prelievo dal conto societario serviva per pagamenti aziendali documentati e non per elargizioni al socio. È fondamentale predisporre in sede di contraddittorio una tabella analitica di riconciliazione dei movimenti finanziari con le causali lecite.

La giurisprudenza ha confermato che le risultanze dei conti correnti costituiscono gravi indizi e che la presunzione sui versamenti ingiustificati è pienamente legittima. Tuttavia, il contribuente può vincerla con prova documentale contraria (es. documenti che attestino trattarsi di redditi già tassati o somme esenti). È bene ricordare che eventuali carenze di prova in sede penale non eliminano la validità della presunzione in sede tributaria: la Cassazione ha affermato che l’assoluzione in un parallelo procedimento penale per insufficienza di prove non incide sull’accertamento fiscale basato su presunzioni bancarie. Dunque, anche se il socio non può essere penalmente sanzionato in mancanza di prova certa che quei soldi fossero utili sottratti, in sede tributaria egli rischia comunque la tassazione a meno che provi concretamente il contrario.

Accertamento sintetico (redditometro)

L’accertamento sintetico – noto anche come “redditometro” – è uno strumento con cui il Fisco può determinare induttivamente il reddito complessivo di una persona fisica in base alle spese sostenute e agli incrementi patrimoniali, prescindendo dalle singole fonti di reddito dichiarate. In altre parole, se un contribuente persona fisica manifesta un tenore di vita o investimenti non coerenti col reddito dichiarato, l’ufficio può presumere un maggiore reddito complessivo, lasciando al contribuente l’onere di dimostrare che le spese sono state finanziate con redditi esenti o risparmi pregressi.

Come si inserisce il redditometro nel tema dei redditi di partecipazione? In due modi principali:

  • Se un socio di società percepisce utili in nero non dichiarati, spesso tali somme emergono indirettamente attraverso beni o spese: ad esempio, l’acquisto di un immobile, di un’auto di lusso o altre uscite rilevanti a fronte di redditi dichiarati modesti. Il redditometro segnala l’anomalia e l’ufficio può ipotizzare che quelle spese siano state finanziate con redditi non dichiarati, possibilmente derivanti dalla sua partecipazione societaria. In tal caso l’accertamento sintetico andrà a colpire il socio per un reddito aggiuntivo “senza specifica fonte”, ma di fatto il collegamento coi redditi di partecipazione emergerà dal contesto (es. socio di società con utili occulti, che vive agiatamente senza redditi ufficiali). Il contribuente dovrà dimostrare che quelle spese sono state coperte con risorse diverse (redditi tassati di altri anni, disinvestimenti, donazioni, vincite, ecc.) per evitare la tassazione.
  • In altri casi l’accertamento sintetico può essere usato alternativamente all’accertamento societario. Ad esempio, invece di rettificare la contabilità di una società, l’ufficio potrebbe concentrare l’attenzione sui soci, specie se di minoranza, valutando se il loro profilo reddituale personale è compatibile con le quote societarie detenute. Se un socio dichiara redditi personali quasi nulli ma risulta proprietario di beni di lusso, si potrebbe dedurre che percepisce utili occulti dalla società. È una strada meno tipica (normalmente si preferisce partire dalla società), ma non impossibile.

Va detto che il “redditometro” di vecchia generazione è stato oggetto di modifiche normative e contestazioni sulla privacy; attualmente è previsto un nuovo tipo di accertamento sintetico basato sul c.d. “risparmio formatosi” (differenza tra reddito e spese in un triennio), più mirato e con maggior contraddittorio. Resta però ferma la logica: se le spese certe sostenute dal socio superano del 20% il reddito dichiarato per almeno due periodi d’imposta, scatta la possibilità di rideterminare sinteticamente il reddito (art. 38, c.4 D.P.R. 600/73). Il contribuente potrà difendersi esibendo la prova contraria sulle singole spese (dimostrando che sono coperte da redditi non imponibili o da patrimonio accumulato). Nel caso di soci, ciò può richiedere di dimostrare che non hanno ricevuto utili extra dalla società in quegli anni, magari incrociando i dati di bilancio sociale o evidenziando che altri soggetti (es. soci amministratori) avevano la disponibilità effettiva.

Esempio: Tizio è socio al 30% di una Srl e dichiara un reddito annuo di €20.000. Nell’anno X acquista un appartamento da €150.000 e un’auto da €40.000. Il redditometro lo segnala: l’Agenzia presume un reddito sintetico molto superiore (diciamo €100.000) e notifica accertamento per redditi non dichiarati. Pur non indicando formalmente la “fonte”, è chiaro che sospettano utili sociali in nero. Tizio, per difendersi, dovrà provare che l’appartamento è stato pagato vendendo titoli ereditati (non tassabili) e che l’auto è un acquisto in leasing intestato alla società, ecc., al fine di ricondurre quelle spese a fonti lecite già tassate o estranee al reddito dell’anno.

Altre fattispecie: omessa dichiarazione, utili in nero post-liquidazione, ecc.

Ulteriori situazioni che possono portare ad avvisi di accertamento per redditi di partecipazione includono:

  • Omessa dichiarazione dei redditi di partecipazione: se un socio non indica affatto in dichiarazione il reddito della propria quota (ad esempio perché la società non gli ha comunicato il dato, o per negligenza), l’Agenzia può procedere all’accertamento d’ufficio. Questo avviso sarà basato sul reddito risultante dalla dichiarazione della società (o dall’accertamento fatto alla società). È un caso più semplice, documentale: il socio potrà al limite eccepire errori nel calcolo, ma sostanzialmente l’imposta è dovuta. Le sanzioni in caso di omessa/infedele dichiarazione di redditi di partecipazione vanno dal 90% al 180% dell’imposta evasa.
  • Utili extra-contabili dopo cessazione della società: capita che una società venga posta in liquidazione o cancellata, e solo successivamente il Fisco scopra utili non dichiarati durante la vita sociale. In tal caso, non potendo più colpire l’ente estinto, l’Amministrazione notifica direttamente ai soci l’avviso per redditi di partecipazione occulti. La legge (art. 2495 c.c. e art. 8 D.L. 40/2010) prevede che i soci succedano nei debiti tributari della società estinta nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione. La Cassazione ha di recente confermato che la chiusura della società non salva i soci dall’accertamento degli utili in nero, anche se la responsabilità del socio è limitata alle somme ricevute. In pratica, se una SRL è stata cancellata e un anno dopo emerge un imponibile occulto di €100.000, l’ufficio può accertarlo a carico dei soci: ciascun socio dovrà versare IRPEF sulla sua quota, ma potrà opporre come limite il fatto di aver incassato, ad esempio, solo €10.000 dalla liquidazione (quindi non può essergli richiesto un pagamento oltre tale cifra, in base all’art. 2495 c.c.).
  • Soci percettori di compensi occulti: a volte l’Agenzia contesta ai soci non tanto utili societari, quanto compensi o benefit non dichiarati collegati al loro ruolo. Ad esempio: uso personale di beni aziendali (auto, immobili) senza adeguato fringe benefit tassato; rimborso spese fittizi; compensi all’amministratore occultati nelle scritture. Queste ipotesi sfociano in avvisi che qualificano i proventi come redditi diversi o redditi da lavoro del socio, ma sempre in connessione con la partecipazione sociale. Anche in tali casi valgono le considerazioni difensive generali: serve dimostrare la diversa natura delle somme (es. l’uso dell’auto aziendale era solo strumentale all’attività, non un benefit personale) o errori di calcolo del fisco.

Riassumendo, dietro un avviso per redditi di partecipazione c’è sempre un fatto generatorio individuato dal Fisco: un maggior utile aziendale scoperto, movimenti di denaro sospetti, incongruenze nei redditi dichiarati, o omissioni. Identificare con precisione la causa dell’accertamento (indicata nella motivazione dell’atto) è il primo passo per preparare una difesa mirata. Nella sezione seguente affronteremo gli aspetti procedurali (notifica dell’atto, termini, ecc.), quindi passeremo alle strategie di difesa vere e proprie.

Notifica dell’avviso di accertamento e vizi impugnabili

Quando si riceve un avviso di accertamento, una delle prime verifiche da fare riguarda la notifica dell’atto: essa deve essere effettuata secondo le regole di legge e entro termini precisi, pena la nullità o inefficacia dell’avviso. Di seguito analizziamo i punti chiave:

Modalità di notifica: posta, messo comunale, PEC

L’Agenzia delle Entrate può notificare l’avviso di accertamento tramite diverse modalità:

  • Notifica a mezzo posta: è la forma tradizionale. Un funzionario dell’ufficio postale (o un messo notificatore incaricato dall’Agenzia) consegna il plico tramite raccomandata con avviso di ricevimento. Può essere consegnato al destinatario in persona, oppure a persona di famiglia o addetta alla casa, ufficio o azienda, purché maggiore di 14 anni e non palesemente incapace (art. 139 c.p.c.). In mancanza, l’addetto alle poste può procedere con deposito dell’atto presso il Comune (cd. notifica ex art. 140 c.p.c.), affiggendo avviso alla porta e inviando raccomandata informativa. È importante controllare, in caso di consegna a terzi, che sia stata inviata la seconda raccomandata di cortesia prevista dall’art. 139 c.p.c.: la sua omessa spedizione costituisce vizio di notifica (nullità) sanabile.
  • Notifica tramite messo comunale o ufficiale giudiziario: l’ufficio può richiedere al comune (o all’UNEP) la notifica. La procedura è analoga: il messo cerca il destinatario all’indirizzo di residenza o domicilio fiscale e applica le regole del codice di procedura civile. Spesso i messi notificano in tempi rapidi, ma bisogna verificare che abbiano rispettato eventuali trasferimenti di residenza risultanti dagli atti (un errore di indirizzo potrebbe rendere nulla/inesistente la notifica). La notifica è valida anche se fatta ad un famigliare convivente o a un collaboratore nell’azienda del destinatario, purché poi il messo spedisca per raccomandata una comunicazione dell’avvenuta consegna (art. 139 co.4 c.p.c.).
  • Notifica via PEC (Posta Elettronica Certificata): oggi è molto diffusa. L’Agenzia invia l’avviso all’indirizzo PEC risultante dagli elenchi ufficiali: per le società e professionisti c’è obbligo di legge di avere un domicilio digitale (registro INI-PEC, ecc.); i privati cittadini possono volontariamente eleggere un domicilio digitale (es. registrandosi all’indice INAD). Se il contribuente ha una PEC attiva, l’atto di regola verrà inviato lì. La ricevuta di consegna PEC fa piena prova legale della notifica, con indicazione di data e ora. Alcune attenzioni particolari: la cartella o l’accertamento via PEC spesso arrivano come PDF allegato firmato digitalmente (.p7m) oppure come semplice PDF. La giurisprudenza ha chiarito che è valida la notifica via PEC di un documento PDF privo di firma digitale visibile, perché il sistema PEC garantisce l’autenticità e l’integrità del messaggio. Cassazione (ord. n. 30922/2024) ha affermato che non è necessario che l’allegato sia in formato .p7m: anche un PDF semplice è idoneo, in quanto la PEC già attesta provenienza e consegna. Dunque il contribuente non può eccepire la nullità solo perché l’atto ricevuto via PEC non reca firma digitale visibile. Un altro aspetto: se la casella PEC del destinatario è satura o non attiva, attualmente la prassi prevede un secondo tentativo; se fallisce, la notifica PEC si considera impossibile e l’ufficio ricorre alla notifica cartacea. Una recente pronuncia di Cassazione (Cass. 26682/2024) ha ritenuto valida la notifica PEC inviata all’indirizzo tratto dagli elenchi anche se poi il contribuente sostiene di non aver consultato la casella; il contribuente ha l’onere di mantenere attivo e funzionante il proprio domicilio digitale.

In caso di notifica PEC, è fondamentale controllare l’integrità del messaggio: se l’allegato fosse illeggibile o corrotto, si potrebbe eccepire l’inesistenza della notifica (poiché non si è ricevuto effettivamente l’atto). Se invece l’allegato è leggibile ma privo di attestazione di conformità (nel caso fosse una copia informatica di un originale cartaceo o viceversa), secondo la Cassazione si tratta di irregolarità non invalidante, a meno che il contribuente dimostri un concreto pregiudizio per la difesa. Ad esempio, Cass. n. 12997/2025 ha statuito che la notifica di una copia analogica dell’atto digitale senza attestazione di conformità non è nulla se il destinatario riesce comunque a verificarne l’autenticità e non subisce un vulnus difensivo.

Vizi di notifica e rimedi – Come accennato, se la notifica presenta vizi, il contribuente può farli valere tempestivamente. I vizi più gravi (notifica inesistente) comportano l’inesistenza dell’atto: ad esempio atto consegnato a un estraneo in luogo totalmente diverso → l’atto è come mai notificato e non decorrono termini per impugnare finché non avviene valida notifica. I vizi meno gravi (nullità) – es. omessa seconda raccomandata informativa, relata priva di firma, notifica PEC a indirizzo PEC diverso da quello registrato – sono sanabili: se il contribuente comunque impugna l’atto, la notifica nulla si considera sanata per raggiungimento dello scopo (la conoscenza dell’atto). Attenzione: ciò non impedisce di eccepire il vizio, ma il giudice potrebbe dichiararlo superato se non ha leso i diritti di difesa. Diverso è se il contribuente non ha saputo dell’atto in tempo utile a causa del vizio: ad esempio notifica a vecchio indirizzo non più valido – in tal caso l’atto potrebbe essere annullato per notifica inesistente, se provato che non è mai giunto a destinazione.

Un’altra verifica fondamentale è il rispetto dei termini di decadenza: l’Agenzia ha un tempo limite per notificare gli accertamenti. In generale (salvo raddoppi per reati), per i redditi d’imposta dal 2016 in poi l’avviso deve essere notificato entro il 5° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (entro il 7° se dichiarazione omessa) – ad es. per l’anno d’imposta 2019, termine al 31/12/2024; per il 2020, termine 31/12/2025. Se c’è raddoppio dei termini per contestazione di reati tributari (art. 43 co.3 DPR 600/73), l’ufficio può notificare entro il raddoppio ma solo se ha trasmesso la notizia di reato alla Procura entro il termine ordinario. La Cassazione ha chiarito che in giudizio il raddoppio non opera se poi il reato è risultato insussistente (es. archiviazione), però in fase amministrativa l’ufficio legittimamente lo applica in via cautelativa. Quindi va controllato anche se l’atto è stato emesso oltre il termine ordinario invocando un reato fiscale: in contenzioso, se il reato non c’è o non rientrava nei presupposti, l’accertamento tardivo va annullato.

Riassumendo, sul piano procedurale il contribuente deve esaminare con cura:

  • Chi ha firmato l’avviso (ha il potere di firma? es. direttore ufficio o delega valida).
  • Come e quando è stato notificato (data notifica e rispetto termini; modalità corretta; eventuali nullità/inesistenze).
  • La presenza di tutti gli allegati richiamati e la completezza della motivazione.
  • L’indicazione del responsabile del procedimento e altri requisiti formali ex L.212/2000.
  • Osservanza del contraddittorio (per atti dal 2024 in poi, verifica se c’è stato l’invito a comparire ex art. 6-bis Statuto; per atti precedenti, se il tipo di accertamento lo richiedeva – es. studi settore – verifica se c’è stato il contraddittorio endoprocedimentale).

Tutti questi profili costituiscono possibili motivi di ricorso. In particolare, la mancata allegazione dell’atto presupposto, la mancata attivazione del contraddittorio obbligatorio e la notifica viziata o tardiva sono vizi che, se ben documentati, possono condurre all’annullamento totale dell’avviso prima ancora di discutere il merito dell’accertamento. Pertanto, un controllo tecnico-formale è sempre il primo passo della difesa.

Strategie difensive e strumenti di tutela del contribuente

Affrontare un avviso di accertamento per redditi di partecipazione richiede un approccio strategico, combinando strumenti deflattivi del contenzioso (per evitare o ridurre il conflitto in tribunale) e, se necessario, il ricorso al giudice tributario. In questa sezione esamineremo le principali opzioni a disposizione del contribuente (socio) destinatario dell’atto:

1. Istanza di autotutela

L’autotutela è il potere/dovere dell’Amministrazione finanziaria di annullare o rettificare i propri atti quando risultino palesemente illegittimi o errati (art. 2-quater D.L. 564/1994, conv. in L. 656/1994). In pratica, il contribuente può presentare una istanza all’ufficio che ha emesso l’accertamento, esponendo i motivi per cui l’atto dovrebbe essere riesaminato (errori di persona, calcoli sbagliati, doppia imposizione, violazioni di legge evidenti, ecc.). Ad esempio, se l’avviso al socio scaturisce da un clamoroso errore (come attribuire al socio una percentuale di partecipazione sbagliata, o tassare un utile già dichiarato altrove), conviene immediatamente segnalare all’ufficio tali errori con documenti alla mano, chiedendo l’annullamento in autotutela.

Pro: L’autotutela può risolvere il problema rapidamente e senza costi, evitando il contenzioso, se l’ufficio riconosce l’errore. Non sospende formalmente i termini di ricorso, ma l’Agenzia spesso istruisce la pratica velocemente in caso di scadenze incombenti.

Contro: Non è un diritto esigibile: l’ufficio non è obbligato a rispondere positivamente. Se l’amministrazione ritiene valido l’accertamento, l’istanza verrà rigettata (o addirittura ignorata). Pertanto, mai fare affidamento solo sull’autotutela: bisogna comunque prepararsi a ricorrere entro 60 giorni se l’ufficio non annulla in tempo utile.

In sintesi, l’autotutela va utilizzata per far emergere errori macroscopici dell’avviso (così da convincere il Fisco a ritirarlo) oppure come mossa strategica per evidenziare le proprie ragioni all’ufficio, magari aprendo la porta a un successivo accordo. Ma non sospende i termini: il ricorso va predisposto ugualmente nel caso.

2. Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997)

L’accertamento con adesione è lo strumento principale di definizione pre-contenziosa della pretesa fiscale. Consente al contribuente e all’ufficio di “trattare” sull’accertamento, eventualmente concordando un importo inferiore, evitando il giudizio. Il vantaggio per il contribuente è una riduzione delle sanzioni e la possibilità di ottenere uno sgravio parziale del maggiore imponibile in un clima negoziale.

Come attivarlo: dopo la notifica dell’avviso, il contribuente ha 60 giorni per proporre istanza di adesione all’ufficio (se l’ufficio stesso, nell’avviso, non ha già inviato un invito al contraddittorio pre-accertamento). L’istanza va presentata per iscritto, indicando di voler definire in adesione l’atto (citando gli estremi). La presentazione dell’istanza sospende automaticamente i termini per fare ricorso per 90 giorni. L’ufficio convocherà il contribuente per un incontro, durante il quale si discuteranno i rilievi.

Possibili esiti: se le parti trovano un accordo, viene redatto un atto di adesione con l’indicazione dei nuovi importi concordati (imponibile e imposta); il contribuente firma e entro 20 giorni paga (o inizia a pagare) quanto dovuto. Le sanzioni vengono ridotte a 1/3 del minimo previsto (quindi ad es. infedele dichiarazione dal 90% passa al 30%). Se non si raggiunge un accordo, l’adesione si chiude con esito negativo e il contribuente può comunque proporre ricorso entro i successivi 30 giorni (che, sommati ai 90 di sospensione, danno 60+90+30, di fatto fino a 180 giorni dalla notifica al massimo).

Nel contesto dei redditi di partecipazione, l’accertamento con adesione può essere particolarmente utile quando: (a) vi sono aspetti della pretesa effettivamente fondati, e conviene puntare a ridurre sanzioni e trovare un compromesso; (b) il socio vuole magari limitare il danno perché un contenzioso lungo potrebbe costargli di più in termini di incertezza e interessi. Ad esempio, se un socio riconosce che parte degli utili contestati erano effettivamente non dichiarati ma contesta l’ammontare, tramite adesione può cercare di far ridurre la somma (dimostrando che l’utile occulto era inferiore) e intanto ottenere la forte riduzione delle sanzioni.

Attenzione: nell’adesione l’ufficio spesso “pretende” il pagamento immediato (o in poche rate). Se l’importo è elevato, valutare bene la sostenibilità. È comunque possibile rateizzare fino a 8 rate trimestrali (12 se importo > €50.000). Il mancato pagamento di una rata fa decadere i benefici.

Inoltre, firmando l’atto di adesione, il contribuente rinuncia al ricorso sul merito (l’atto si perfeziona con il pagamento). Quindi va intrapreso solo se si è convinti che la mediazione raggiunta sia accettabile. Se l’ufficio propone poca riduzione o non riconosce i nostri punti, può essere meglio lasciar decadere l’adesione e andare in contenzioso.

3. Definizione agevolata (acquiescenza)

L’acquiescenza è un’altra possibilità di chiudere la partita evitando il contenzioso, applicabile quando si decide di accettare l’accertamento così com’è (o con minime varianti). Consiste nel pagamento integrale delle somme dovute entro il termine per il ricorso (60 giorni), beneficiando però di una riduzione delle sanzioni ad 1/3 del minimo. In pratica, se il contribuente non presenta ricorso e paga subito, la sanzione viene tagliata (analogamente a quanto accade con l’adesione).

Questa opzione può essere ragionevole se: l’importo non è troppo alto, l’accertamento appare corretto (o comunque difficilmente contestabile), e si preferisce chiudere rapidamente sfruttando lo sconto sulle sanzioni. Ad esempio, se ad un socio viene accertato un reddito in più di €10.000 con imposta €4.300 e sanzione al 90% (€3.870), pagando in acquiescenza verserà imposta + sanzione ridotta ad un terzo (€1.290) + interessi. Si evita il contenzioso e la pretesa si esaurisce.

Occorre però che nessun ricorso venga presentato e che il pagamento (o la prima rata) avvenga entro 60 giorni dalla notifica. Anche qui, è prevista la possibilità di rateazione (in tal caso la definizione si perfeziona con il pagamento della prima rata). Se poi il contribuente non rispetta le rate successive, l’acquiescenza salta e l’ufficio iscrive a ruolo gli importi interi con sanzioni piene, ma quanto versato viene imputato a parziale pagamento.

In sintesi, l’acquiescenza è una scelta di convenienza economica: si paga meno sanzione in cambio della rinuncia a contestare. Va valutata quando le chance di vittoria in giudizio sembrano scarse o quando si vuole evitare spese e tempi della lite.

4. Ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni tributarie)

Se non si raggiunge una soluzione pre-contenziosa o se si ritiene l’accertamento infondato, il contribuente deve ricorrere al giudice tributario. Dal 2023, le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali sono state rinominate Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado (d.lgs. 130/2022). Il ricorso di primo grado va presentato alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio (in base alla sede dell’ufficio che ha emesso l’atto), entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, salvo sospensioni (es. il periodo dal 1 al 31 agosto è sospeso per legge, quindi allungando la scadenza di 31 giorni se cade in mezzo). Se si è presentata istanza di adesione, come detto, i 60 giorni decorrono ma sono sospesi tra la presentazione e la conclusione dell’adesione (max 90 gg), e riprendono per almeno 30 giorni dopo il termine della sospensione.

Il ricorso si propone con atto scritto motivato, contenente i motivi di diritto e di fatto per cui si chiede l’annullamento (totale o parziale) dell’atto. Nel ricorso si possono dedurre sia vizi formali/procedurali (es. notifica nulla, difetto di motivazione, violazione contraddittorio) sia contestazioni di merito (il fatto accertato non sussiste, la presunzione non è fondata, i calcoli sono errati, ecc.). È fondamentale allegare la documentazione probatoria fin da subito o indicare quella che si intende far valere. Nei giudizi relativi a redditi di partecipazione, spesso si allegheranno: bilanci e dichiarazioni della società, estratti conto bancari, verbali assembleari, documenti che mostrano la destinazione degli utili, eventuali perizie di parte, corrispondenza con l’ufficio (istanze, controdeduzioni fatte, ecc.).

Giudice monocratico: per le controversie di valore fino a €3.000 (imposta, al netto di sanzioni e interessi) il ricorso è deciso da un giudice unico tributario in primo grado, con procedimento semplificato, ma nel nostro caso (redditi di solito rilevanti) spesso il valore supera tale soglia e quindi il collegio giudicante è composto da 3 membri.

Una volta presentato il ricorso (telematicamente, tramite il Portale della Giustizia Tributaria, come oggi previsto), l’esecuzione dell’accertamento non è automaticamente sospesa. Significa che, trascorsi 60 giorni dalla notifica, l’atto diventa esecutivo: l’ufficio può iscrivere a ruolo 1/3 delle imposte contestate anche se pende giudizio (accertamento esecutivo ex art. 29 DL 78/2010), salvo che il contribuente chieda e ottenga la sospensione dal giudice. È quindi opportuno contestualmente al ricorso presentare istanza di sospensione dell’esecuzione (art. 47 D.Lgs. 546/92), se l’importo è rilevante e non si vuole pagare subito. Il giudice in 2-3 mesi decide sulla sospensiva, valutando se vi è fumus boni iuris (motivi fondati) e periculum (danno grave a pagare). Se accordata, la riscossione è bloccata fino alla sentenza di primo grado. Se negata, l’ufficio potrebbe procedere alla riscossione parziale (di solito invia una comunicazione e poi passa il carico all’agente della riscossione per emettere una cartella).

Il giudizio di primo grado si conclude con una sentenza che può accogliere (annullare l’atto, in tutto o parte) o respingere (confermare l’atto) oppure una soluzione intermedia (annullamento parziale, ad es. rideterminazione del reddito). Se il ricorrente ottiene l’annullamento totale, l’incubo finisce lì (salvo appello dell’ufficio). Se invece viene solo ridotto l’importo, e ancora non si concorda, si può appellare in secondo grado. Se il ricorso è respinto, il contribuente soccombente può appellare la sentenza sfavorevole alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado).

Appello: il secondo grado è un riesame del merito; si possono portare nuovi motivi relativi a quanto già dedotto in primo grado. In appello non è più ammesso introdurre nuovi documenti a meno che non si provi che non era stato possibile produrli prima. La sentenza d’appello, a sua volta, è impugnabile in Cassazione (entro 60 gg) solo per motivi di diritto. In Cassazione, conta molto la corretta applicazione di principi di legge: ad es. si può eccepire violazione di norme (Statuto contribuente, codici, ecc.) o contrasto tra sentenze su presunzioni, ma non si ridiscutono i fatti. La Cassazione può confermare o cassare con rinvio. In ogni caso, la definizione nei tre gradi può richiedere diversi anni.

Esecuzione provvisoria e pagamento in pendenza di giudizio: è importante sapere che, dopo la sentenza di primo grado, se il contribuente perde anche parzialmente, scatta l’obbligo di pagare una quota. In particolare, ai sensi dell’art. 68 D.Lgs. 546/92, se il contribuente è soccombente in CTP deve versare due terzi delle imposte accertate (al netto di quanto eventualmente già versato dopo l’avviso); se poi perde anche in CTR, deve integrare il versamento fino all’intero importo dovuto in base alla sentenza d’appello (per poter proseguire in Cassazione). Quindi, la sospensione è cruciale: se non ottenuta, dopo la sentenza di primo grado si rischia di dover pagare gran parte del debito anche se si intende appellare.

5. Reclamo e mediazione (abolito dal 2023)

Va segnalato che fino al 2023 esisteva un ulteriore passaggio obbligatorio per le liti di valore fino a €50.000: il reclamo-mediazione (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). Il contribuente doveva presentare il ricorso che fungeva anche da reclamo, e l’Agenzia poteva entro 90 giorni accoglierlo o proporre mediazione (con riduzione sanzioni al 35% in caso di accordo). Dal 1° gennaio 2024 tale istituto è stato abrogato (D.Lgs. 30 dicembre 2023 n. 220): pertanto, per i ricorsi notificati da questa data in poi, non è più richiesta la fase di reclamo e si ricorre direttamente in Commissione entro 60 giorni. Le liti minori possono comunque essere oggetto di conciliazione giudiziale (vedi punto seguente). Nella pratica attuale, dunque, il socio che impugna un avviso anche di modesto importo non deve più attendere i 90 giorni di mediazione ma può andare subito in giudizio; ovviamente rimane la possibilità di accordarsi con l’ufficio anche durante il giudizio.

6. Conciliazione giudiziale

Durante il processo tributario, le parti possono trovare un accordo transattivo chiamato conciliazione giudiziale. Può avvenire sia nel primo grado sia in appello. La conciliazione può essere totale (cessa la materia del contendere su tutto) o parziale (si ridiscute solo una parte dei rilievi). Vantaggi: le sanzioni vengono ulteriormente ridotte (in caso di conciliazione in primo grado, sanzioni al 40% del minimo; in secondo grado al 50%), e si chiude definitivamente la lite con sentenza che recepisce l’accordo.

Nel caso di redditi di partecipazione, la conciliazione può essere utile se emergono in giudizio elementi nuovi che consigliano di evitare un esito incerto. Ad esempio, se la CTR in appello prospetta sfavorevolmente la questione, il contribuente può proporre un accordo: paga magari la metà delle imposte e sanzioni al 50%, anziché rischiare di perdere tutto. L’ufficio spesso aderisce per chiudere la partita e incassare subito.

La conciliazione va formalizzata con un’istanza congiunta al giudice, contenente i termini dell’accordo, e il giudice emette decreto o sentenza che la recepisce. Dopo la conciliazione, il contribuente paga quanto concordato (anche qui possibile rateazione in 8 rate). Se non paga, l’accordo decade e si torna alla situazione di partenza, quindi va ponderata e onorata.

7. Tutela del socio nelle procedure esecutive e concorsuali

Dal punto di vista del debitore-socio, può essere rilevante anche sapere cosa accade se, pendente il contenzioso, l’Agente della riscossione avvia azioni esecutive (pignoramenti, fermi, ipoteche). Ottenuta una sospensiva dal giudice tributario, ogni atto esecutivo dell’Agenzia Riscossione basato su quell’avviso deve fermarsi. Se invece la sospensione non c’è, il socio potrebbe vedersi recapitare una cartella o un avviso di intimazione e successivamente subire pignoramenti. In tali casi restano esperibili le opposizioni in sede civile: ad esempio, se viene notificato un precetto o eseguito un pignoramento mentre il giudizio è in corso, il contribuente può proporre opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. presso il tribunale ordinario per far valere l’infondatezza del titolo (soprattutto se ha buone probabilità di vittoria tributaria). Si tratta però di strumenti da usare come extrema ratio, dati i costi e la complessità di aprire un parallelo contenzioso civile. È sempre preferibile ottenere la sospensione dal giudice tributario.

Un caso peculiare: se la società è fallita o in liquidazione, il socio potrebbe trovarsi a fronteggiare sia l’avviso di accertamento che le pretese dei creditori sociali. Ad esempio, per le società di persone, i soci sono illimitatamente responsabili dei debiti tributari sociali: l’Erario potrebbe iscrivere a ruolo il debito a nome del socio coobbligato. Serve in questa sede valutare con esperti se convenga insinuare il credito fiscale al passivo della società e attendere, oppure pagare come socio (con rivalsa eventuale).

Riassumendo le strategie difensive: conviene spesso adottare un approccio multiplo: iniziare (se opportuno) con un’istanza di adesione per esplorare una soluzione rapida, ma nel contempo prepararsi al ricorso; nel ricorso far valere sia i vizi formali (che sono spesso risolutivi se presenti) sia le ragioni di merito; chiedere sempre la sospensione; durante il giudizio, mantenere aperto il dialogo con l’ufficio (non raramente l’Agenzia, valutati i rischi in giudizio, accetta una conciliazione favorevole al contribuente). In ogni fase, il contribuente (specie se non esperto) dovrebbe farsi assistere da un professionista tributario, data la tecnicità della materia e l’evoluzione continua delle norme.

Focus: difesa del socio in caso di utili extracontabili presunti (base ristretta)

Vale la pena di approfondire, data la sua frequenza e complessità, il caso del socio di società di capitali a base ristretta colpito da avviso per utili extracontabili presunti. È uno scenario che sintetizza molte delle tematiche sopra trattate (presunzioni, onere della prova, strategie processuali) e su cui esiste giurisprudenza ricca.

Presunzione di distribuzione: Abbiamo visto che la Cassazione considera ormai consolidata la presunzione secondo cui, in una società di capitali con pochi soci legati da rapporti di fiducia, “accertati utili extra-contabili, si presume la loro distribuzione pro quota ai soci”. Sentenze recenti (Cass. 4861/2024, 21593/2024) hanno ribadito questo principio, qualificandolo come “massima d’esperienza” ossia un meccanismo inferenziale basato su regolarità empiriche. La presunzione opera senza che l’ufficio debba provare ulteriormente l’effettivo passaggio di denaro ai soci: l’accertamento al socio è legittimo già sulla base del fatto noto (utile occulto + compagine ristretta), senza dover individuare nei conti dei soci i movimenti corrispondenti. Ciò risponde alle obiezioni di “doppia presunzione”: la Cassazione ha escluso che si tratti di praesumptio de praesumpto vietata, in quanto il fatto base – la ristretta base sociale – è considerato certo, non presunto.

Onere della prova: Questa presunzione sposta l’onere della prova in capo al socio, il quale per vincerla deve fornire prova contraria concreta. Fino a qualche anno fa, la giurisprudenza era molto rigorosa nel definire questa prova: l’unica circostanza liberatoria pienamente accettata era dimostrare che i maggiori utili non erano stati affatto distribuiti ma reinvestiti nella società. In pratica, il socio doveva provare che l’utile occulto era rimasto nelle casse sociali (ad es. usato per pagare debiti, accantonato a riserva occulta, ecc.). Oggi però si riscontra una certa apertura: alcune Commissioni Tributarie e pronunce di Cassazione hanno ammesso che il socio possa provare di non aver partecipato alla gestione fraudolenta e di non aver percepito alcunché, pur se altri soci potrebbero averlo fatto. Ad esempio, un socio di minoranza estraneo alla gestione potrebbe difendersi provando che la gestione era completamente nelle mani di un altro socio e che lui era tenuto all’oscuro: verbali assembleari in cui magari dissentiva o non era presente, mancanza di deleghe operative, perfino situazioni personali (es. socio residente all’estero, o malato, che non poteva di fatto intascare utili). Anche se è difficile da provare, la Cassazione (ord. 18032/2013, 15824/2016) ha riconosciuto in linea teorica che se il socio dimostra di non aver avuto alcun ruolo e interesse agli utili occulti, la presunzione potrebbe essere superata. In un caso, addirittura, si è discusso se il socio potesse provare che i soldi se li era intascati solo l’amministratore infedele: la CTR accolse, ma la Cassazione ha cassato chiedendo rigore in tale valutazione. Dunque, la porta non è chiusa: molto dipende dalla credibilità e solidità delle prove difensive.

Difese tecniche tipiche: Il socio che impugna l’avviso da utili occulti solitamente imposta la difesa su più livelli:

  • Contestazione del presupposto societario: se il socio (o la società) ha impugnato anche l’accertamento verso la società, cercherà di dimostrare che l’utile extra-contabile non esiste o è inferiore. Se l’accertamento societario viene annullato, cade automaticamente quello al socio (venendo meno la base). È quindi importante il coordinamento tra difesa della società e del socio. Ad esempio, se la società aveva ricevuto un rilievo per fatture false per €100.000 ma riesce in giudizio a dimostrare che erano spese legittime, allora non c’è alcun utile occulto e l’avviso al socio dovrà decadere. È utile, a tal fine, chiedere la riunione dei giudizi di società e socio, o quantomeno comunicare al giudice del socio l’esito del giudizio sulla società. In giurisprudenza vige il principio dell’unitarietà dell’accertamento per società di persone (litisconsorzio necessario), mentre per le società di capitali formalmente i giudizi sono separati, ma logicamente connessi. Alcune Commissioni dispongono la riunione per connessione.
  • Vizi formali dell’avviso al socio: spesso l’atto del socio richiama quello societario. Il socio può eccepire la nullità se l’atto presupposto non è allegato (come già detto), oppure se la motivazione è generica (es. “utili extracontabili” senza dettagli), o se manca l’indicazione della percentuale di partecipazione e quindi del calcolo pro quota. Altra eccezione: se l’accertamento societario non è definitivo (ancora impugnabile o sub iudice) il socio potrebbe sostenere che l’avviso nei suoi confronti è prematuro. Su questo la Cassazione ha però detto che l’avviso al socio può essere emesso prima che sia definito quello societario, purché ne riporti gli elementi essenziali. Quindi non è nullo ipso iure se l’accertamento base è pendente, ma certamente la sua sorte dipende dall’altro. Per prudenza, comunque, molti uffici notificano al socio solo dopo aver chiuso (anche in adesione) la posizione della società.
  • Merito – prova contraria: qui entra il grosso del lavoro probatorio del socio. Come anticipato, dovrà raccogliere documenti che mostrino dove sono finiti gli utili extracontabili se non li ha presi lui. Documenti utili: estratti conto bancari personali che non evidenziano entrate anomale in quei periodi; verbali assembleari o bilanci da cui risulti che quegli utili (pur non dichiarati) furono impiegati in azienda (es. utilizzati per copertura di perdite pregresse, o movimentati su conti aziendali per investimenti); piani di liquidazione o atti societari che mostrino che nulla fu distribuito; eventuali denunce/querele contro amministratori infedeli (se il socio sostiene di essere vittima anch’egli di ammanchi); perizie contabili che ricostruiscano i flussi finanziari; testimonianze (limitatamente utilizzabili) che confermino il mancato arricchimento del socio. Più che su dichiarazioni orali, il giudice tributario si basa su riscontri oggettivi, quindi fondamentale è produrre carte. Si può anche cercare di dimostrare che il profilo finanziario personale del socio è incompatibile con l’aver ricevuto quei soldi: ad esempio, se mi accusano di aver percepito 100k utili in nero, ma posso mostrare che in quegli anni ero indebitato, o che non ho alcun bene acquistato, o che il denaro è rimasto tutto su conti intestati alla società, questo rafforza la mia tesi.
  • Aspetti penali: a latere, va ricordato che utili occulti di regola implicano anche un reato di infedele dichiarazione a carico di chi ha redatto la dichiarazione dei redditi societaria (tipicamente l’amministratore). Il socio potrebbe essere chiamato a testimoniare in un eventuale procedimento penale o addirittura essere imputato se aveva ruoli amministrativi. Ma penale e tributario viaggiano separati: come detto, anche se in sede penale non si dovessero trovare prove sufficienti per condannare qualcuno per quegli utili nascosti, l’accertamento tributario può andare avanti. Il socio imputato potrebbe patteggiare o essere assolto, ciò non influenza in automatico il suo avviso fiscale. Di positivo c’è che se in sede penale emergono prove (per esempio, in un processo penale l’amministratore confessa di aver distratto gli utili a proprio favore esclusivo), il socio può certamente usarle nel giudizio tributario a suo vantaggio.

Sanzioni: Al socio che viene accertato un reddito in più vengono contestate anche sanzioni per infedele dichiarazione (se aveva presentato la dichiarazione omettendo quel reddito) o per omessa dichiarazione (se proprio non l’aveva presentata, evenienza rara per un singolo reddito, di solito è infedele). Le sanzioni vanno dal 90% al 180% dell’imposta evasa. Nel caso di utili occulti, non esistendo una specifica attenuante, le sanzioni tendono ad essere applicate nella misura base (es. 100%). Tuttavia, se il contribuente aderisce o concilia come detto c’è la riduzione al 1/3 o 1/2 ecc., altrimenti in caso di ricorso si può chiedere al giudice di disapplicare parzialmente le sanzioni se ricorrono circostanze attenuanti (ad esempio, incertezza normativa, comportamento collaborativo, ecc.). Non è infrequente che le Commissioni riducano discrezionalmente le sanzioni se ritengono che l’errore del socio sia scusabile o di lieve entità.

In sintesi, la difesa del socio in questi casi è impervia ma non impossibile. Le sentenze più recenti confermano un orientamento rigoroso ma delineano anche margini di successo: ad esempio Cass. n. 2746/2024 ha ribadito che l’onere della prova resta a carico del contribuente in presenza di questa presunzione legale, nonostante le modifiche normative sul processo tributario. D’altro canto, pronunce di merito hanno riconosciuto talora le ragioni di soci minoritari “passivi”. È quindi fondamentale per il socio adoperarsi attivamente nella raccolta di ogni elemento utile a scardinare la presunzione o a evidenziarne i limiti nel caso concreto.

Di seguito, presentiamo una tabella riepilogativa dei principali strumenti di difesa e fasi del procedimento, con riferimenti normativi:

FaseStrumento di difesaRiferimenti normativi
Prima dell’avvisoContraddittorio endoprocedimentale – Invio osservazioni all’ufficio, esibizione documenti, accesso agli attiNuovo art. 6-bis L. 212/2000 (obbligatorio dal 2024); Art. 12, c.7 L. 212/2000 (diritto di essere sentiti, in genere)
All’atto di accertamentoEccezioni formali – Vizi di motivazione, mancata allegazione, vizio notifica, ecc.Art. 42 DPR 600/73; Art. 7 L. 212/2000; Art. 156 c.p.c. (nullità notifiche)
Entro 60 giorni dalla notificaAccertamento con adesione – Richiesta di definizione agevolata in via amministrativa (sospende termini 90 gg)D.Lgs. 218/1997, artt. 6-7 (procedura adesione); Art. 6, c.3 D.Lgs. 218/97 (sanzioni 1/3)
Entro 60 gg (se no adesione)Ricorso alla Corte Giustizia Trib. I grado – Impugnazione dell’avviso (motivi formali e sostanziali)D.Lgs. 546/1992, art. 19 (atti impugnabili) e art. 21 (termine 60 gg)
Contestuale al ricorsoIstanza di sospensione – Richiesta al giudice di sospendere la riscossione provvisoriaD.Lgs. 546/1992, art. 47 (sospensiva cautelare)
Primo grado (contenzioso)Produzione prove – Deposito documenti, perizie, deduzioni difensive sul meritoD.Lgs. 546/1992, art. 24 (poteri probatori); Codice Civ. art. 2729 (presunzioni semplici, gravità precisione concordanza)
Durante il giudizioConciliazione giudiziale – Accordo transattivo (riduzione sanzioni al 40%/50%)D.Lgs. 546/1992, art. 48 (conciliazione); D.Lgs. 218/97, art. 12 (effetti su sanzioni)
Sentenza C.G.Trib. I grado– (Eventuale appello) C.G.Trib. II grado – Impugnazione in secondo grado entro 60 ggD.Lgs. 546/1992, art. 51 (appello 60 gg); art. 52 (jus novorum limitato)
Sentenza appello– (Eventuale ricorso per Cassazione) – Entro 60 gg per soli motivi di legittimitàD.Lgs. 546/1992, art. 62 e 63 (ricorso in Cassazione)
Riscossione post sentenzaPagamento provvisorio – 1/3 dopo primo grado, 2/3 dopo secondo grado se contribuente soccombenteD.Lgs. 546/1992, art. 68 (esecuzione delle sentenze)
Ruolo (cartella di pagamento)Opposizione a ruolo – Impugnazione della cartella o atto della riscossione (vizi propri o pagamento avvenuto)DPR 602/1973, art. 19; D.Lgs. 546/92, art. 19 lett. d) (impugnabilità cartella)
Esecuzione forzataOpposizioni esecutive civili – se avviati pignoramenti, per vizi della notifica o inesistenza del titoloArt. 615 c.p.c. (opposizione all’esecuzione); Art. 617 c.p.c. (opposizione atti esecutivi)

Come si evince dalla tabella, la difesa del contribuente-socio richiede di presidiare ogni fase: prima dell’emissione (quando possibile, sfruttare il contraddittorio per chiarire la propria posizione), al momento della ricezione (scrutinare vizi formali), e durante il contenzioso (argomentare sul merito e valutare soluzioni transattive).

Simulazione pratica: accertamento da utili in nero e difesa del socio

Per concretizzare i concetti esposti, proponiamo di seguito una simulazione pratica di come può svilupparsi un accertamento per redditi di partecipazione da utili occulti e la relativa difesa.

Scenario ipotetico: Alfa Srl è una società a base ristretta, composta da 2 soci (A con quota 60%, B con 40%). Nel 2023 l’Agenzia delle Entrate effettua una verifica fiscale su Alfa Srl e scopre che:

  • La società ha contabilizzato fatture per €150.000 di costi fittizi (ad esempio da una “cartiera” per consulenze mai avvenute). In realtà tali costi sono inesistenti, inseriti solo per abbattere l’utile.
  • Eliminando i costi fittizi, emerge che l’utile d’esercizio reale della Srl sarebbe stato maggiore di €150.000 rispetto a quanto dichiarato (in pratica la società aveva occultato €150.000 di utili tramite quelle false spese).

Sviluppo dell’accertamento:

  1. Avviso di accertamento alla società – L’ufficio notifica ad Alfa Srl un avviso accertando un maggior reddito d’impresa di €150.000. Su tale importo richiede le imposte dovute: 24% IRES (ipotizziamo l’aliquota vigente, in realtà 24% per le società) e ~3,9% IRAP (aliquota ordinaria regionale). Quindi Alfa Srl si vede chiedere circa €36.000 di IRES aggiuntiva più circa €5.850 di IRAP, totale imposte €41.850 (oltre a sanzioni e interessi per la società). L’avviso è motivato indicando le fatture contestate e allegando il PVC della Guardia di Finanza che descrive l’operazione fittizia.
  2. Avvisi di accertamento ai soci – Contestualmente (o poco dopo), l’Agenzia invia avvisi di accertamento a A e B quali soci di Alfa Srl “a base ristretta”. Sulla base della presunzione di distribuzione, assume che i €150.000 di utili extra siano stati ripartiti tra i soci secondo le rispettive quote. Dunque: socio A (60%) avrebbe percepito €90.000 di utili in nero; socio B (40%) €60.000. Ciascun socio riceve un avviso che rettifica il suo reddito imponibile personale per l’anno in questione di tali importi, da tassare come redditi di capitale non dichiarati. Supponendo che entrambi i soci siano persone fisiche già al massimo scaglione IRPEF (43%), l’imposta IRPEF su €90.000 per A è di circa €38.700, per B su €60.000 è €25.800, oltre addizionali. L’Agenzia applica inoltre a ciascuno la sanzione del 90% per infedele dichiarazione su questi importi evasi (quindi ~€34.830 di sanzione ad A e €23.220 a B). Gli avvisi ai soci richiamano l’avviso alla società (come atto presupposto) e spiegano che, essendo Alfa una piccola compagine, i maggiori utili accertati “si presumono distribuiti ai soci”.
  3. Reazione dei contribuenti: Alfa Srl e i soci decidono di difendersi. La società Alfa Srl presenta ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria contro il suo avviso, sostenendo ad esempio che quei costi non erano fittizi oppure che la ripresa è infondata per questioni procedurali (ipotizziamo che Alfa sostenga che il PVC è nullo per un vizio). I soci A e B parimenti impugnano i propri avvisi davanti alla Corte di Giustizia, deducendo vari motivi: in primis chiedono la sospensione perché le cifre sono ingenti rispetto alle loro capacità. Nel merito, fanno presente che la contestazione ai soci dipende da quella alla società (chiedendo magari di sospendere il giudizio in attesa dell’esito di quello societario). A livello di merito sostanziale, depositano documenti: ad esempio estratti conto societari che mostrano che quei €150.000 non sono mai usciti dai conti aziendali verso di loro ma sono stati utilizzati per pagare fornitori reali; verbali assembleari straordinari che mostrano che la società, quell’anno, pur avendo extra-profitti li ha trattenuti in cassa per futuri investimenti; una perizia contabile asseverata che ricostruisce come i flussi finanziari dell’anno non evidenzino bonifici, prelievi o dividendi verso A e B per €90k/€60k; dichiarazioni giurate di B che evidenzia come egli fosse minoritario e non avesse potere di firma. Sollevano anche un vizio formale: l’avviso ai soci non allegava copia del PVC e dell’avviso ad Alfa (che essi non avevano ricevuto), violando l’art.42 DPR 600/73 e 7 L.212/2000.
  4. Esito ipotetico dei giudizi: poniamo che in primo grado la Corte Tributaria respinga il ricorso di Alfa Srl (ritenendo provati i costi fittizi) e quindi confermi l’utile extra di €150.000. Conseguentemente, i giudici respingono anche i ricorsi dei soci sul merito (perché l’utile occulto c’è stato). Tuttavia, ammettiamo che accolgano almeno in parte un motivo dei soci: ad esempio riconoscono la nullità per difetto di allegazione degli atti presupposti, ritenendo che i soci non avessero potuto pienamente conoscere l’accertamento societario (ipotesi non remota se i giudici applicano rigorosamente lo Statuto contribuente). In tal caso, le due sentenze relative ai soci potrebbero annullare gli avvisi per vizio formale, senza nemmeno entrare nel merito della presunzione. I soci A e B quindi vincerebbero in primo grado sul punto formale e, salvo appello dell’ufficio, sarebbero salvi.
  5. Strategia alternativa: immaginiamo invece che i giudici ritengano infondate le eccezioni formali dei soci. Allora considereranno il merito: qui, poniamo che A e B non siano riusciti a convincere il giudice sulla loro estraneità (magari le prove portate sono giudicate insufficienti). Le sentenze quindi confermano gli avvisi per intero, rigettando i ricorsi. In tal caso, i soci valuteranno l’appello. Durante l’appello, magari, l’ufficio potrebbe essere disponibile a una conciliazione: essendo trascorso del tempo, potrebbero offrire ai soci di chiudere facendo pagare loro solo il 50% delle imposte contestate e sanzioni ridotte al 40%. I soci, temendo di perdere anche in appello e volendo chiudere, accettano. Si concilia quindi: A pagherà imposta su €45.000 invece che €90.000, B su €30.000 invece che €60.000, con sanzioni al 40%. L’accordo viene omologato e i soci versano gli importi (magari a rate). Hanno comunque ottenuto un risparmio rilevante rispetto al rischio iniziale.

Considerazioni finali sulla simulazione: come si vede, la situazione può evolvere in vari modi. Ciò che conta è che il socio, sin dall’inizio, documenti dettagliatamente la sua posizione. Nel nostro esempio, la sorte dei soci era strettamente legata all’esito per la società. Non sempre è così lineare: se, ad esempio, la società non avesse fatto ricorso (magari avesse aderito pagando le imposte), i soci sarebbero stati gli unici a combattere in giudizio. Questo capita e non preclude la difesa: i soci possono contestare la presunzione anche se la società ha “ceduto”, ma certamente diventa più arduo perché l’utile occulto accertato ormai è definitivo.

Questa simulazione mostra quanto incisivo possa essere l’impatto di un accertamento di utili in nero per un socio: l’IRPEF personale su tali utili può essere assai onerosa (nel caso, quasi 39mila euro per A, 26mila per B), spesso superiore all’imposta che pagherebbe la società sugli stessi (specie dal 2018, con IRES al 24% e dividendi al 26%). Ciò giustifica una particolare attenzione difensiva in questi casi.

Domande frequenti (FAQ)

D: Cosa si intende esattamente per redditi di partecipazione?
R: Si intendono i redditi che una persona fisica percepisce in quanto parte di una collettività economica: tipicamente gli utili derivanti dalla qualità di socio di società di persone o di società di capitali “trasparenti”, nonché i proventi da associazioni tra professionisti e simili. In pratica, sono i redditi imputati al socio a seguito della partecipazione sociale. Ad esempio, l’utile annuale di una SNC viene imputato ai soci come reddito di partecipazione (che essi devono dichiarare anche se non distribuito in denaro). Nel gergo degli avvisi, rientrano nei redditi di partecipazione anche i dividendi occultamente distribuiti ai soci di società di capitali a base ristretta. Questi ultimi in realtà sarebbero redditi di capitale, ma vengono contestati tramite la figura del “reddito di partecipazione non dichiarato” dal socio.

D: Sono socio al 20% di una Srl, senza cariche amministrative. L’agenzia mi contesta utili extrabilancio distribuiti, ma io ero un socio di minoranza estraneo alla gestione. Posso evitare la tassazione?
R: Può provarci, ma non è semplice. La legge presume che anche il socio minoritario di una società ristretta sia consapevole degli utili in nero. Tuttavia, la giurisprudenza ammette che il socio presenti prova contraria. Dovrà dimostrare concretamente di non aver ricevuto nulla di quegli utili e magari di non aver avuto potere decisionale. Ad esempio, può produrre verbali in cui si opponeva alla gestione, provare che non aveva deleghe sui conti correnti, mostrare che le somme occultate sono rimaste su conti intestati all’amministratore o alla società stessa. La Cassazione ha riconosciuto che se il socio prova che gli utili furono reinvestiti in azienda e non distribuiti, l’accertamento al socio va annullato. Quindi, la strategia è: raccogliere ogni indizio che gli utili in nero non gli siano stati girati. Se però quelle somme sono uscite dalle casse sociali e non si sa dove siano finite, difendersi diventa arduo. In ultimo, se lei era completamente estraneo (es. socio solo di nome), potrebbe considerare un accordo transattivo per limitare il danno, piuttosto che rischiare l’intera pretesa in giudizio.

D: La società di persone di cui sono socio ha subito un accertamento e io non ero stato coinvolto. Ora mi arriva avviso per il mio reddito di partecipazione. È valido anche se non ho partecipato al primo processo?
R: Nelle società di persone vige il litisconsorzio necessario tra società e soci: significa che l’accertamento del reddito sociale è unico e devono partecipare al giudizio tutti i soci, altrimenti la sentenza può essere annullata. Se la società ha fatto ricorso senza chiamare in causa i soci, c’è un vizio di procedimento. In ogni caso, lei può sicuramente impugnare il suo avviso e far presente al giudice che esiste quella causa parallela. Di norma, le Commissioni riuniscono i giudizi. Se invece l’accertamento verso la società è già divenuto definitivo (perché la società non ha impugnato), lei ha margini stretti: non può più contestare il quantum dell’utile accertato (in quanto definitivo), ma potrebbe far valere motivi personali (vizi della notifica del suo avviso, oppure elementi che incidono solo sulla sua posizione). Ad esempio, se quell’utile era già stato dichiarato da lei (caso raro) o altre situazioni individuali. Purtroppo, se la società ha “perso il treno” del ricorso, il socio ne subisce gli effetti (ecco perché si insiste sul coordinamento delle difese).

D: Ho ricevuto l’avviso via PEC, ma il file era una semplice copia PDF dell’atto firmato digitalmente. Posso contestare che manca la firma in originale?
R: No, questo motivo da solo non è sufficiente. La notifica via PEC di atti tributari è valida anche se l’allegato è un PDF semplice, non una busta firmata digitalmente. Ciò che conta è che la PEC stessa certifichi provenienza e integrità. La Corte di Cassazione (ordinanza 30922/2024) ha chiarito che il contribuente non può eccepire la nullità solo perché non vede la firma digitale: il protocollo PEC garantisce l’autenticità. Potrebbe essere un problema solo se lei sostenesse che quel PDF non era integro o non corrisponde all’originale: ma dovrebbe provarlo e comunque l’ufficio potrebbe esibire l’originale digitale firmato per fugare i dubbi. In sintesi, la notifica PEC è da considerarsi valida, a meno che vi siano altri vizi (ad esempio invio all’indirizzo PEC sbagliato, o file illeggibile, ecc.). Se il file era leggibile e recava tutti i dati dell’atto, non punterei su questo come motivo principale.

D: L’Agenzia mi ha notificato l’avviso oltre 5 anni dopo il periodo d’imposta (era il 2016, atto arrivato a fine 2022). Dice che c’è stata frode e applica il raddoppio termini. Possono farlo anche se poi il penale magari non parte?
R: La legge consente il raddoppio dei termini di accertamento quando vi sono elementi di possibile reato tributario (es. frode fiscale) e la denuncia viene inviata alla Procura entro la scadenza ordinaria. Quindi se il 2016 doveva decadere al 31/12/2021, ma è stata presentata notizia di reato, il termine si estende al 31/12/2027. È irrilevante che il procedimento penale poi vada avanti o meno nell’immediato: l’Agenzia, per cautela, può usare il raddoppio. Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che in giudizio il raddoppio non si applica se il reato risulta insussistente o la denuncia infondata. Significa che se lei impugna l’atto, può eccepire che il raddoppio non spettava perché ad esempio la soglia penale non era superata o perché la Procura ha archiviato il caso. Se il giudice le dà ragione, l’accertamento sarà tardivo e quindi annullato per decadenza. Bisogna quindi verificare bene: qual è il reato ipotizzato? La soglia di punibilità era effettivamente superata? Ci sono elementi concreti di frode? Se sembra pretestuoso, faccia valere la questione tempistica in ricorso. In sintesi, sì, l’Agenzia può notificare oltre i termini ordinari sfruttando il raddoppio, ma tale operato è soggetto al sindacato del giudice tributario, che annullerà se il presupposto penale era inconsistente.

D: In caso di soccombenza, dovrò pagare due volte (società e socio)? Come evitare la doppia imposizione?
R: Se parliamo di imposte sui redditi, in realtà società di persone e soci pagano una volta sola (solo i soci, perché la società non è soggetta a IRES). Nel caso di società di capitali a base ristretta, invece, c’è un aspetto delicato: l’Agenzia tassa gli utili occultati in capo alla società (con IRES) e li tassa di nuovo in capo ai soci (con IRPEF). A prima vista sembra doppia imposizione. In realtà, l’impostazione è: la società avrebbe dovuto dichiarare e pagare IRES su quell’utile; parallelamente, i soci avrebbero dovuto dichiarare il dividendo percepito e pagare l’IRPEF su di esso. Formalmente sono due soggetti diversi tassati su due basi diverse (reddito d’impresa per la società, reddito di capitale per il socio). La legge evita la doppia tassazione economica dei dividendi regolari attraverso il meccanismo della parziale imponibilità (o della ritenuta seccca); ma per i dividendi occulti questo non si applica. Quindi sì, succede che quell’utile “in nero” venga tassato al 24% sulla società e al ~43% sul socio, complessivamente oltre il 67%. Non c’è un rimedio immediato, a meno che il socio non riesca a dimostrare che l’utile non doveva essere imputato a lui (vedi difese sopra). Se la società paga e il socio riesce a far annullare il suo avviso, si evita la doppia imposizione; se invece entrambi gli atti diventano definitivi, formalmente non c’è violazione del divieto di doppia imposizione giuridica (perché soggetti diversi), anche se di fatto lo stesso valore economico è stato tassato due volte. Purtroppo la legittimità di ciò è stata confermata dai giudici in nome dell’autonomia dei soggetti.

D: Quanto tempo ho per pagare se perdo la causa? Posso chiedere una rateizzazione all’Agente della Riscossione?
R: Se perdi in primo grado, la sentenza è esecutiva parzialmente: dovresti versare, entro 60 giorni dalla notifica della sentenza, un importo pari a due terzi delle imposte accertate ancora contestate (al netto di quanto già eventualmente pagato dopo l’avviso). Se fai appello e perdi anche lì, devi integrare fino all’intero. Se poi fai ricorso in Cassazione, in teoria dovresti aver pagato tutto il tributo (le sanzioni forse no, quelle di solito restano sospese fino a definitivo). In pratica, comunque, l’Agente della Riscossione ti notificherà una cartella o intimazione per riscuotere. A quel punto, puoi chiedere una rateizzazione all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione): di regola fino a 72 rate mensili (6 anni) se dimostri temporanea difficoltà, oppure piani straordinari fino a 10 anni per importi molto elevati e comprovata grave situazione. La domanda di rateazione va fatta entro 60 giorni dalla notifica della cartella (ma AER spesso concede anche oltre se non è iniziata esecuzione). Pagando la prima rata, si blocca ogni azione esecutiva purché rispetti i pagamenti. Tieni presente che la rateizzazione con AER è distinta da quella eventualmente concedibile dall’Agenzia delle Entrate in fase di adesione o acquiescenza. Se non hai usufruito di rate prima, puoi sempre rateizzare col concessionario dopo la formazione del ruolo.

Conclusioni

Gli accertamenti su redditi di partecipazione rappresentano una materia complessa, in cui si intrecciano norme sul reddito d’impresa, sul reddito di capitale e principi procedurali del diritto tributario. Dal punto di vista del socio contribuente, trovarsi destinatario di un avviso perché la propria società ha nascosto utili (o perché non si è dichiarato un reddito partecipativo) può sembrare ingiusto o sorprendente. Tuttavia, l’ordinamento predispone vari strumenti per tutelare il contribuente: dalla verifica dei vizi formali dell’atto (spesso risolutiva) alle possibilità di interlocuzione e accordo con l’Amministrazione, fino alla piena difesa in giudizio.

Negli ultimi anni (2024-2025) sono intervenute importanti novità normative – come l’introduzione del contraddittorio obbligatorio prima degli avvisi e la soppressione della mediazione tributaria – che rafforzano le garanzie del contribuente e, si spera, ridurranno il contenzioso inutile. Parallelamente, la giurisprudenza tributaria di legittimità ha consolidato principi chiave (ad es. la presunzione di distribuzione ai soci, i limiti all’uso delle presunzioni da studi di settore, la validità delle notifiche via PEC) che occorre conoscere per orientare al meglio la strategia difensiva.

Per un socio (o ex socio) che riceva un avviso di accertamento, il consiglio è dunque di:

  • Agire tempestivamente: i 60 giorni decorrono in fretta, quindi attivarsi subito con un esperto per analizzare l’atto.
  • Verificare ogni dettaglio formale: a volte “la forma è sostanza” e un vizio procedurale può salvare il contribuente senza nemmeno discutere il merito.
  • Documentare la propria posizione: specie se il rilievo è presuntivo (es. utili in nero), raccogliere tutta la documentazione che possa confutare o attenuare la pretesa.
  • Valutare soluzioni deflattive: se l’accertamento non è del tutto campato in aria, considerare l’adesione o la conciliazione per chiudere con sanzioni ridotte, evitando i rischi di una causa lunga.
  • Non scoraggiarsi: l’Agenzia spesso “tenta il massimo”, ma in sede di contraddittorio o giudizio molte pretese si ridimensionano. Ci sono casi in cui i soci hanno avuto ragione, specie quando hanno saputo dimostrare la propria buona fede o errori del Fisco.

In definitiva, affrontare un avviso di accertamento per redditi di partecipazione richiede competenza tecnica e un approccio multidisciplinare (contabile, legale, strategico). È una sfida impegnativa, ma con la giusta preparazione è possibile difendersi efficacemente e, nei casi meritevoli, evitare di pagare quanto indebitamente preteso dal Fisco.

Fonti e riferimenti normativi/giurisprudenziali

  • D.P.R. 600/1973, art. 42 – Obbligo di motivazione degli avvisi di accertamento e di allegazione degli atti presupposti non conosciuti.
  • D.P.R. 600/1973, art. 39 – Accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa basato su presunzioni semplici (comma 1, lett.d) e accertamento induttivo extracontabile in caso di omissioni gravi (comma 2).
  • D.P.R. 917/1986 (TUIR), art. 5 – Imputazione per trasparenza dei redditi delle società di persone e associazioni professionali ai soci, indipendentemente dalla percezione.
  • D.P.R. 917/1986 (TUIR), art. 47 – Disciplina degli utili da partecipazione: imponibilità dei dividendi e chiarimento che gli utili extracontabili, non tassati in capo alla società, sono imponibili per intero in capo al socio.
  • Legge 212/2000 (Statuto del Contribuente), art. 7 – Obbligo di motivazione chiara e completa degli atti tributari e allegazione degli atti richiamati; indicazione del responsabile del procedimento.
  • D.Lgs. 546/1992, art. 19 – Atti impugnabili dinanzi alle Commissioni (Corti) tributarie, tra cui gli avvisi di accertamento.
  • D.Lgs. 546/1992, art. 47 – Sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato (sospensiva cautelare) in presenza di grave e irreparabile danno.
  • D.Lgs. 546/1992, art. 68 – Esecutività delle sentenze: obbligo di pagamento di 1/3 dopo sentenza di primo grado e 2/3 dopo secondo grado, in caso di soccombenza del contribuente.
  • D.Lgs. 218/1997, art. 6 e 7 – Procedura di accertamento con adesione e sospensione dei termini di impugnazione; art. 8: riduzione delle sanzioni a 1/3 in caso di adesione perfezionata.
  • D.Lgs. 218/1997, art. 12 – Definizione in sede di conciliazione giudiziale: riduzione sanzioni al 40% (primo grado) o 50% (secondo grado).
  • Decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 219 – Introduzione dell’art. 6-bis allo Statuto del Contribuente (L.212/2000) in tema di contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio dal 2024.
  • Decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 – Riforma del processo tributario 2023: abrogazione dell’istituto del reclamo-mediazione obbligatorio a decorrere dai ricorsi notificati dal 1/1/2024.
  • Codice Civile, art. 2495 – Effetti della cancellazione della società: responsabilità dei soci per i debiti non soddisfatti nei limiti di quanto riscosso in liquidazione.
  • Cass., SS.UU. n. 14815/2008 – Necessario litisconsorzio tra società di persone e soci nei giudizi relativi alle rettifiche dei redditi sociali (unicità dell’accertamento).
  • Cass. civ. Sez. VI n. 18032/2013; Cass. V n. 15824/2016 – Presunzione di distribuzione utili extra a soci di base ristretta; onere del socio di provare che gli utili sono rimasti in società o la propria estraneità.
  • Cass. civ. Sez. V n. 1947/2019 – Conferma della presunzione di distribuzione pro quota ai soci di utili occulti in società a ristretta base; non configurabilità di doppia presunzione vietata.
  • Cass. civ. Sez. V ord. n. 23341/2024 – I soci rispondono dei debiti tributari della società estinta (anche sanzioni) nei limiti di quanto ricevuto in liquidazione.
  • Cass. civ. Sez. V ord. n. 21593/2024 – Ribadisce il principio della presunzione di distribuzione ai soci in società a base ristretta, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità sul tema.
  • Cass. civ. Sez. V ord. n. 2746/2024 – Chiarisce che l’introduzione dell’art. 7 c.5-bis D.Lgs. 546/92 (onere della prova in giudizio a carico dell’Amministrazione) non scardina le presunzioni legali esistenti: in caso di presunzione iuris tantum (come redditometro o utili soci), l’onere resta al contribuente.
  • Cass. civ. Sez. VI ord. n. 30922/2024 – Notifiche via PEC: valida la notifica della cartella/atto in formato PDF semplice (non firmato digitalmente) perché il sistema PEC garantisce autenticità e integrità.
  • Cass. civ. Sez. VI ord. n. 26682/2024 – Notifica PEC effettuata all’indirizzo risultante dai pubblici registri: è regolare; non occorre tentativo alternativo salvo casella saturata. (Principio sulla validità della notifica PEC salvo prova contraria di mancata consegna).
  • Cass. civ. Sez. V ord. n. 10232/2024 – (In tema di litisconsorzio) Conferma che l’obbligo del litisconsorzio necessario tra società di persone e soci vale limitamente alle questioni comuni: se il socio eccepisce questioni personali (es. errore sul suo status), il litisconsorzio può non essere necessario.
  • Cass. civ. Sez. V ord. n. 12997/2025 – Notifica via PEC di copia informatica priva di attestazione di conformità: costituisce al più irregolarità sanabile, comportando nullità solo se il destinatario prova un pregiudizio concreto (principio di non-nullità in mancanza di lesione difensiva).
  • Cass. civ. Sez. V n. 24329/2024 – Distinzione tra notifica inesistente e notifica nulla: inesistenza se totalmente mancante o effettuata a soggetto privo di qualunque collegamento col destinatario; nullità se vizi formali ma atto giunto a destinazione (sanabile ex post).
  • Corte Costituzionale n. 228/2014 – Dichiara l’illegittimità della presunzione legale sui prelevamenti bancari per i lavoratori autonomi, limitando l’applicazione dell’art. 32 c.2 DPR 600/73 ai soli imprenditori (in combinato con modifiche normative successive).
  • Cass. civ. Sez. V n. 20608/2022 – (Accertamenti standardizzati) Ribadisce che lo scostamento dallo studio di settore richiede contraddittorio e valutazione della gravità degli indizi; non può fondare da solo un accertamento se il divario non è significativo e non motivato.

Avviso di Accertamento per Redditi di Partecipazione: Come Difendersi Con Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento per redditi da partecipazione in una società di persone o trasparente? Ti contestano compensi, utili o quote di reddito non dichiarati?

L’Agenzia delle Entrate effettua controlli incrociati tra le dichiarazioni della società e quelle dei soci: se emergono discrepanze, può emettere accertamenti anche nei confronti del singolo socio. Ma non sempre l’accertamento è corretto o legittimo.

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

  • 📂 Analizza l’avviso di accertamento ricevuto e i dati dichiarati dalla società
  • 📌 Verifica la legittimità dell’imputazione dei redditi e l’eventuale decadenza dei termini
  • ✍️ Redige memorie difensive o istanze di autotutela per annullare o ridurre l’atto
  • ⚖️ Ti rappresenta nel ricorso tributario contro l’Agenzia delle Entrate
  • 🔁 Ti assiste anche nelle definizioni agevolate o nella gestione dei rapporti con i coobbligati

🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e contenzioso tra Fisco e soci
  • ✔️ Specializzato nella difesa da accertamenti su redditi di partecipazione e utili societari
  • ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia

Conclusione

Un accertamento per redditi di partecipazione può colpirti anche se non gestivi direttamente la società. Ma puoi difenderti in modo efficace e ridurre gli effetti economici dell’atto.

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