Hai ricevuto un accertamento fiscale per il tuo albergo, relais, pensione o guest house?
L’Agenzia delle Entrate ti contesta ricavi non dichiarati, incassi in nero, omissioni IVA o irregolarità nei dati trasmessi? In questi casi è fondamentale capire cosa ti viene contestato e come difenderti in modo efficace per tutelare la tua attività, evitare sanzioni pesanti e mantenere la continuità operativa.
Quando può arrivare un accertamento fiscale a strutture ricettive?
– Se ci sono discrepanze tra le presenze registrate e i ricavi dichiarati
– Se i dati fiscali risultano incongruenti rispetto agli ISA o agli studi di settore
– Se l’Agenzia ha incrociato le informazioni con portali online (Booking, Airbnb, Expedia)
– Se in fase di controllo sono stati trovati ospiti non registrati o mancanza di scontrini e ricevute
– Se mancano documenti giustificativi, come fatture, registri o comunicazioni obbligatorie
Cosa può contenere un accertamento dell’Agenzia delle Entrate?
– L’elenco delle presunte irregolarità e l’indicazione delle annualità coinvolte
– Il metodo utilizzato per stimare i maggiori ricavi (induttivo, presuntivo, analitico)
– Il calcolo delle imposte non versate (IVA, IRES, IRAP) e delle relative sanzioni
– L’invito a presentare osservazioni o documentazione difensiva entro un termine preciso
– L’avviso che, in mancanza di riscontro, seguirà la notifica dell’avviso di accertamento definitivo
Come puoi difenderti da un accertamento fiscale?
– Verifica la regolarità della procedura: notifiche, accessi e verbalizzazioni devono rispettare la legge
– Controlla se le presenze contestate corrispondono a effettivi soggiorni, o se si tratta di prenotazioni annullate, no-show, omaggi o convenzioni
– Presenta una memoria difensiva dettagliata, con documenti che dimostrino la correttezza dei ricavi dichiarati
– Dimostra l’esistenza di cause oggettive (lavori, chiusure stagionali, eventi straordinari) che giustificano eventuali scostamenti
– Valuta la possibilità di aderire all’accertamento per ridurre le sanzioni
– In caso di rilievi infondati o sproporzionati, presenta ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria
Cosa puoi ottenere con una difesa tecnica e tempestiva?
– L’annullamento o la riduzione dell’accertamento, se i rilievi sono ingiustificati
– La riduzione delle sanzioni con l’adesione agevolata
– La possibilità di rateizzare le somme dovute, evitando l’iscrizione a ruolo
– La protezione della tua attività ricettiva, senza blocchi o pignoramenti
– Il mantenimento della tua reputazione fiscale e della continuità aziendale
Attenzione: molte contestazioni nascono da presunzioni errate, dati parziali o controlli incrociati automatizzati. Ma anche in presenza di errori reali, puoi intervenire subito per limitare i danni e salvaguardare la tua struttura.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in accertamenti fiscali nel settore turistico-ricettivo, contenzioso tributario e difesa patrimoniale ti spiega come reagire a un accertamento fiscale, quando opporsi, quando regolarizzare e come proteggere il tuo albergo, relais o guest house.
Hai ricevuto un verbale di accertamento o una richiesta di chiarimenti?
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Introduzione
Nel settore dell’ospitalità la gestione fiscale è cruciale per il successo di strutture come hotel, alberghi, pensioni, relais, bed & breakfast (B&B) e guest house. Tuttavia, proprio questi imprenditori possono trovarsi a dover affrontare avvisi di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, contestazioni spesso basate su incassi non dichiarati o anomalie contabili tipiche del settore (fatturato incongruente, mancata fatturazione di soggiorni, ecc.). Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – offre un’analisi avanzata della normativa italiana vigente, della giurisprudenza più autorevole (sentenze di Cassazione e Corti Tributarie recenti) e della prassi applicativa in materia di accertamenti fiscali nel comparto alberghiero. L’obiettivo è fornire strategie difensive efficaci dal punto di vista del contribuente (che qui assume il ruolo di debitore fiscale contestato), con un linguaggio giuridico ma al contempo divulgativo. Troverete sezioni tematiche con domande e risposte frequenti, tabelle riepilogative e simulazioni pratiche riferite alla realtà italiana, il tutto focalizzato su come difendersi proattivamente e tutelare i propri diritti di fronte al Fisco.
Un controllo fiscale presso la reception di un hotel: nel settore dell’ospitalità è fondamentale farsi trovare preparati con una contabilità regolare e trasparente per poter resistere efficacemente ad accertamenti e verifiche fiscali.
Normativa di riferimento e tipologie di accertamento nel settore alberghiero
Prima di esaminare le tecniche difensive, è necessario inquadrare quali tipi di accertamenti fiscali possono colpire un albergo o altra struttura ricettiva, e su quali basi normative si fondano. Le strutture dell’ospitalità, data la natura dell’attività (pagamenti frequenti, spesso in contanti, stagionalità dei ricavi, costi promiscui, ecc.), sono soggette a diverse metodologie di controllo da parte del Fisco:
- Accertamento analitico e analitico-induttivo: È il metodo classico di verifica basato sulle scritture contabili del contribuente. In base all’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973, l’Ufficio può determinare il reddito analiticamente, rettificando voci di bilancio, e/o induttivamente, ossia fondandosi su presunzioni semplici (gravi, precise e concordanti) quando riscontra irregolarità o inattendibilità nei registri contabili. Ad esempio, se dall’analisi contabile di un hotel emergono incongruenze tra consumi e ricavi (come un consumo abnorme di materiali a fronte di pochi corrispettivi registrati), l’accertamento diviene “analitico-induttivo”: parte dai dati contabili ma li integra con presunzioni. Questo tipo di accertamento è molto comune per ristoranti e alberghi, dove il Fisco confronta merci acquistate (cibo, bevande, prodotti per gli ospiti) e servizi offerti, traendone indizi di ricavi in nero. Le presunzioni utilizzate devono avere i requisiti di gravità, precisione e concordanza ex art. 2729 c.c., e non possono consistere in meri sospetti. Ad esempio, la sola anomalia di un consumo elevato di biancheria o di pasti non basta da sé a dimostrare incassi non dichiarati, se non inserita in un quadro probatorio più ampio. La Corte di Cassazione ha infatti censurato accertamenti fondati unicamente su indicatori isolati: l’Agenzia non può basarsi solo sul numero dei lavaggi delle federe di un albergo per ricostruire maggiori ricavi, senza ulteriori riscontri. In pratica, in un accertamento induttivo puro (di cui diremo oltre), elementi come quantità di asciugamani usati, coperti serviti, consumi di acqua o energia possono servire a stimare il giro d’affari, ma devono essere affinati e correlati alla realtà specifica dell’azienda, altrimenti il contribuente potrà far valere l’inesattezza di tali calcoli.
- Accertamento induttivo “puro” (ex art. 39 c.2 D.P.R. 600/1973): Si ha quando le scritture sono mancanti o totalmente inattendibili. È uno scenario frequente in caso di omessa dichiarazione o tenuta irregolare della contabilità. In queste ipotesi, il Fisco può prescindere in toto dalle risultanze contabili e ricostruire il reddito d’impresa con ogni elemento a sua disposizione, anche tramite coefficienti e parametri extracontabili. Nel settore alberghiero, gli uffici finanziari hanno talvolta utilizzato metodi come il “ricavometro”: ad esempio calcolare le presenze in albergo in base al numero di asciugamani o lenzuola lavate, e moltiplicarle per una tariffa media per notte. Tale approccio è però molto aggressivo e deve superare il vaglio del giudice in caso di ricorso. La giurisprudenza ha evidenziato che questi calcoli vanno tarati sulla realtà concreta dell’hotel: non si può presumere un maggior numero di pernottamenti contando anche gli asciugamani destinati ai bagni comuni, né applicare a tutti gli ospiti la tariffa della camera singola ignorando che vi sono anche doppie e triple. In un caso esaminato, la Commissione Tributaria Regionale ha annullato un accertamento che aveva appunto contato gli asciugamani utilizzati per stimare presenze extra, senza distinguere quelli dei bagni comuni, e che aveva calcolato i relativi ricavi “in nero” applicando sempre il prezzo della singola più alto. Come difendersi in questi casi? Il contribuente dovrà evidenziare tutte le specificità gestionali che rendono inaffidabile il coefficiente usato dal Fisco: ad esempio, dimostrare che parte dei consumi riguarda servizi diversi (spa, ristorante interno, uso personale) o periodi di bassa stagione con camere vuote. La Cassazione, dal canto suo, ha confermato la legittimità dell’accertamento induttivo basato su presenze × tariffa media solo quando l’Ufficio abbia tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto. Un’ordinanza del 2020, ad esempio, ha ritenuto valida la ricostruzione di ricavi di un albergo moltiplicando le presenze (desunte dai registri ospiti) per il prezzo medio per notte, purché tale media fosse calcolata in modo realistico. In sintesi, nell’accertamento induttivo puro l’onere di contestare i calcoli spetta al contribuente, che può opporre errori di metodo (parametri non rappresentativi, omissione di fattori riduttivi come stanze non vendute, convenzioni con sconti, etc.) e fornire una versione alternativa dei fatti (es. dimostrare che certi ricavi non potevano realizzarsi per chiusura stagionale o lavori di ristrutturazione in quel periodo). Se queste contestazioni rendono la presunzione fiscale priva dei caratteri di gravità e concordanza, l’accertamento va annullato.
- Accertamenti standardizzati da Studi di Settore (fino al 2018) e Indici Sintetici di Affidabilità (ISA) (dal 2018 in poi): Si tratta di metodi introdotti per valutare la congruità e coerenza dei ricavi dichiarati dall’impresa rispetto a modelli economico-statistici costruiti per settore e territorio. Per anni gli Studi di Settore (disciplinati dall’art. 62-bis D.L. 331/1993 e succ. mod.) hanno fornito all’Agenzia delle Entrate una base per accertamenti “parametrici”: in pratica, se il fatturato dichiarato dall’albergatore risultava significativamente inferiore al reddito “presunto” dallo studio di settore applicabile (tenendo conto di variabili come numero di camere, ubicazione, personale, servizi offerti, etc.), scattava una presunzione di maggiori ricavi non dichiarati. Occorreva però attivare un contraddittorio con il contribuente prima di emettere l’avviso; solo in esito a tale dialogo, e in presenza di uno scostamento grave non giustificato, l’Ufficio poteva legittimamente rideterminare il reddito. La Corte di Cassazione ha infatti chiarito principi fondamentali in materia: gli studi di settore costituiscono mere presunzioni semplici, che acquistano la necessaria gravità e precisione solo dopo il contraddittorio obbligatorio col contribuente. Durante tale contraddittorio il contribuente ha diritto di evidenziare circostanze specifiche che giustificano lo scostamento dai parametri standard (es. crisi economica locale, lavori di ristrutturazione che hanno limitato le camere disponibili, tipologia di clientela convenzionata a prezzi ridotti, stagionalità con lunghi periodi di bassa occupazione, ecc.). Se l’Ufficio intende comunque procedere, deve emettere un atto motivatamente rafforzato, spiegando perché ha disatteso le spiegazioni fornite. In mancanza di contraddittorio o di adeguata motivazione sulle repliche del contribuente, l’accertamento da studi di settore è nullo. Inoltre, la giurisprudenza più recente ha stabilito una sorta di “franchigia”: scostamenti di modesta entità (entro il 10%) non legittimano l’accertamento. In particolare, la Cassazione (ord. n. 8028/2021) ha affermato che serve uno scostamento superiore al 10% affinché si possa parlare di grave incongruenza tra ricavi dichiarati e ricavi presunti. Diversamente, se il gap è inferiore, la contabilità non può considerarsi inattendibile e l’atto impositivo va annullato. Questo principio si pone in continuità con precedenti pronunce (Cass. 2637/2019, Cass. 17486/2017, ecc.) che tutelano il contribuente da accertamenti su basi statistiche quando la differenza è marginale. Esempio pratico: una pensione dichiara ricavi per €200.000, ma lo studio di settore li stima in €210.000 (scostamento 5%). In tal caso non vi sarebbero i presupposti per un accertamento, dato lo scarto esiguo (5% < 10%). Se invece l’attività dichiarasse €150.000 a fronte di €210.000 attesi (scostamento 40%), l’incongruenza sarebbe significativa; l’Ufficio potrebbe procedere, ma solo dopo aver ascoltato le giustificazioni dell’imprenditore. È importante notare che in sede di contraddittorio l’Ufficio è tenuto a considerare anche eventuali evoluzioni normative sopravvenute favorevoli al contribuente. Ad esempio, se per l’anno oggetto di verifica fosse disponibile uno “studio di settore evoluto” o un nuovo modello statistico più accurato, andrebbe utilizzato quest’ultimo anche retroattivamente, in quanto più aderente alla realtà economica dell’azienda. Proprio la Cassazione (ord. n. 8921/2020) ha cassato un accertamento perché l’Amministrazione si era ostinata a usare i parametri obsoleti, mentre applicando lo studio più recente lo scostamento si riduceva a poco più del 5%, dunque non idoneo a fondare alcuna pretesa. In quel caso riguardante un albergo fiorentino, i contribuenti durante il contraddittorio avevano dimostrato che, tenuto conto del tasso di occupazione effettivo dell’hotel e distinguendo tra clientela acquisita tramite tour operator (a tariffa ridotta) e clientela diretta, il modello standard sovrastimava i ricavi; adottando i correttivi aggiornati, la differenza rispetto al dichiarato era minima. La CTR aveva ignorato questi aspetti e la Cassazione ha annullato l’atto proprio per vizio di motivazione e violazione dei principi sugli studi di settore. Come difendersi da accertamenti basati sugli studi/ISA? Innanzitutto partecipando attivamente al contraddittorio: bisogna produrre documenti e argomentazioni che personalizzino la propria posizione (ad es. dimostrando, con dati alla mano, perché quel periodo d’imposta ha risultati più bassi: lavori edilizi, nuova apertura non a regime, calo del turismo per cause esterne – si pensi al 2020 col Covid, ecc.). Se l’avviso di accertamento non tiene conto di queste spiegazioni, si potrà eccepirne la nullità per difetto di motivazione. Inoltre, in giudizio sarà possibile far valere sentenze di legittimità come quelle citate, che impongono tolleranze del 10% e richiedono sempre elementi ulteriori rispetto al mero scostamento statistico. Dal 2019 in poi, peraltro, gli Studi di Settore sono stati sostituiti dagli ISA, che operano diversamente: all’impresa viene attribuito un punteggio di affidabilità da 1 a 10 (in base agli indicatori economici comunicati ogni anno). Un punteggio alto (es. ≥8) dà accesso a benefici premiali, mentre un punteggio basso può far scattare segnali d’allarme e aumentare il rischio di controlli. Tuttavia, è fondamentale chiarire che un punteggio ISA basso non può, di per sé, tradursi automaticamente in un accertamento di maggiori ricavi. L’art. 9-bis del D.L. 50/2017 ha previsto espressamente che gli ISA servono per orientare la compliance e la selezione dei controlli, non per determinare nuove pretese tributarie. In altre parole, il voto ISA non è una presunzione legale di evasione. Ad esempio, se un piccolo B&B ottiene un punteggio ISA di 5 su 10, l’Agenzia potrà inserirlo nelle liste di verifiche, ma dovrà comunque trovare prove concrete di ricavi non dichiarati (ad esempio mediante indagini bancarie o controlli incrociati) prima di emettere un avviso. Non esiste una “sanzione” diretta legata al punteggio basso. Viceversa, un punteggio alto (es. 9 o 10) garantisce per legge alcune tutele: ad esempio l’esclusione da accertamenti basati su presunzioni semplici e la riduzione di un anno dei termini di decadenza per l’attività accertativa (benefici premiali). In sintesi, oggi gli ISA rappresentano più un termometro del rischio che uno strumento accertativo automatico. Ciò non toglie che, in caso di invito al contraddittorio per punteggi bassi reiterati, sia opportuno per l’imprenditore predisporre le proprie difese come per i vecchi studi di settore, spiegando perché magari il punteggio non è elevato (es. margini compressi da costi straordinari, scelte di policy dei prezzi aggressive, etc.) ma ciò non implica occultamento di ricavi. Spesso fornire queste spiegazioni già in sede amministrativa può evitare l’emissione dell’avviso.
- Accertamento sintetico sul tenore di vita (Redditometro): Oltre ai controlli sui ricavi d’impresa, un albergatore o gestore di guest house in quanto persona fisica può essere soggetto al cosiddetto “redditometro”. Si tratta di un accertamento sintetico del reddito complessivo personale, fondato sull’analisi delle spese sostenute e del patrimonio accumulato, per verificare se sono compatibili col reddito dichiarato (v.* art. 38, commi 4-7, D.P.R. 600/1973*). In pratica, l’Agenzia delle Entrate ricostruisce un reddito teorico in base al tenore di vita: possesso di immobili, auto, barche, spese per viaggi, assicurazioni, carte di credito, investimenti, ecc. Se il reddito presunto così calcolato supera di molto (almeno del 20% in più, per due anni) il reddito dichiarato, scatta la presunzione di maggiori redditi sottratti a tassazione. Il redditometro ha avuto un’evoluzione tormentata: uno strumento originariamente introdotto nel 1973, riformato più volte e oggetto anche di stop legislativi per problemi di privacy e di taratura. Fino al 2018 era in vigore il D.M. 16/9/2015 (governo Renzi) che elencava le spese-tipo da considerare; nel 2018 il governo Conte I ne ha sospeso l’applicazione in attesa di criteri più garantisti. Dopo alcuni anni di vuoto normativo, nel 2024 è stato emanato un nuovo decreto ministeriale (MEF 7/5/2024, G.U. n.116 del 20/5/2024) che reintroduce il redditometro con metodologia rivista. Il “nuovo redditometro” si applicherà ai redditi a partire dall’anno d’imposta 2016 (tenuto conto dei termini di decadenza, in pratica si partirà con gli accertamenti sui redditi 2018, ancora accertabili nel 2024). Cosa prevede di diverso? In sintesi: il decreto individua 11 categorie di consumo familiare (alimentari, abbigliamento, casa, trasporti, tempo libero, istruzione, ecc.) variabili per 5 aree geografiche d’Italia, e considera una “soglia di spesa minima” calcolata dall’ISTAT per garantire un livello di vita dignitoso (la cosiddetta soglia di povertà assoluta). Nel calcolo sintetico del reddito, le spese effettivamente sostenute e risultanti all’Anagrafe Tributaria prevalgono sempre sulle spese medie stimate. In altre parole, il Fisco utilizzerà i dati certi (ad es. spese note per mutuo, bollette, leasing auto, transazioni tracciate) e, solo dove mancano dati puntuali, attribuirà spese presunte standard in base al possesso di determinati beni (es.: se ho un’auto, presumerà almeno X euro annui di spese di mantenimento; se ho figli, almeno Y euro di spese familiari, e così via). Importante: il nuovo redditometro esclude dal conteggio le spese riferite esclusivamente all’attività d’impresa o di lavoro autonomo, se adeguatamente documentate. Ciò significa che un albergatore individuale non dovrà temere che, ad esempio, l’acquisto di biancheria o arredi per l’hotel (già dedotti nell’attività) venga anche conteggiato tra le sue spese personali – a patto di poter dimostrare che si tratta di esborsi inerenti all’impresa. Al fine di evitare arbitri, il decreto 2024 ha inoltre previsto un doppio contraddittorio obbligatorio con il contribuente. In pratica, se dal confronto tra reddito “spendibile” (derivante dall’analisi delle spese) e reddito dichiarato emerge una differenza significativa, l’Ufficio invita il contribuente a fornire spiegazioni (primo contraddittorio); solo dopo aver valutato le eventuali giustificazioni e aver eventualmente ricalibrato i calcoli, qualora residui una sperequazione rilevante, l’Ufficio formula un nuovo invito al contraddittorio (secondo round) prima di emettere l’accertamento definitivo. Questa procedura rafforzata – frutto anche del confronto con il Garante Privacy e le associazioni dei consumatori – mira a evitare errori e a garantire i diritti del contribuente, distinguendo il nuovo redditometro da quello “vecchio stile” criticato in passato. Dal punto di vista difensivo, come ci si tutela da un accertamento sintetico? La chiave è nella prova contraria prevista dalla legge: il contribuente ha la possibilità di dimostrare che il reddito presunto non corrisponde a redditi effettivamente sottratti a tassazione, ma deriva da fonti legittime diverse. In particolare, l’art. 38 del D.P.R. 600/73 (come modificato) e lo stesso DM 7/5/2024 dispongono che il contribuente può giustificare la spesa sostenuta provando che è stata finanziata: a) con redditi di anni precedenti regolarmente tassati o risparmi accumulati (la presenza di risparmi è tenuta in conto nel calcolo); b) con entrate esenti o soggette a ritenuta a titolo d’imposta (es. donazioni ricevute, vincite, indennità esenti, redditi già tassati alla fonte, utilizzo di patrimonio pregresso); c) da altro soggetto pagatore (es. spese pagate da familiari non a carico). Ad esempio, se il redditometro contesta al gestore di un B&B l’acquisto di un SUV costoso non compatibile col reddito dichiarato, egli potrà difendersi mostrando che l’auto è stata pagata dal coniuge (o che i soldi derivavano da una donazione dei genitori) e non con redditi propri non dichiarati. È essenziale fornire pezze d’appoggio concrete: copia del bonifico di terzi, atto di donazione, documentazione bancaria attestante prelievo da conti accumulo, ecc. Non basta affermare genericamente “avevo dei risparmi”, ma occorre provare in modo analitico e documentato l’estraneità dei movimenti contestati al reddito imponibile. La Cassazione ha confermato che, ad esempio per i lavoratori autonomi, i versamenti su conto corrente non giustificati restano a carico del contribuente dimostrare voce per voce da dove provengono (e che sono fiscalmente irrilevanti), essendo invece caduta la presunzione sui prelevamenti in seguito a intervento della Corte Costituzionale. Questo principio, per analogia, vale anche nelle ricostruzioni sintetiche: l’onere della prova contraria grava sul contribuente. Fortunatamente, la nuova normativa rende il dialogo preventivo con il Fisco più strutturato, per cui gran parte di queste spiegazioni potranno (e dovranno) essere fornite già in sede di contraddittorio, evitando di arrivare al contenzioso. In ogni caso, anche il redditometro 2024 non è retroattivo: gli accertamenti per anni fino al 2015 continuano a essere disciplinati dalle vecchie norme (con un solo contraddittorio e parametri ISTAT meno affinati), ma va segnalato che alcuni Tribunali tributari – in attesa della riforma – hanno già applicato principi di maggior garanzia retroattivamente. Ad esempio, la CTP di Torino con sentenza n. 3/2019 ha ritenuto nullo un vecchio accertamento sintetico per mancanza di contraddittorio preventivo, facendo leva su orientamenti europei e di legittimità. In Cassazione, comunque, si riteneva già da tempo obbligatorio il contraddittorio endoprocedimentale per il redditometro (almeno per gli anni dal 2011 in avanti, quando fu introdotto l’obbligo normativo). Dunque, oggi possiamo dire che qualunque accertamento sintetico – vecchio o nuovo – deve essere preceduto da invito a chiarimenti, pena la sua illegittimità.
- Indagini finanziarie e controlli bancari: Un altro potentissimo strumento in mano al Fisco, utilizzato trasversalmente a tutte le tipologie di accertamento sopra descritte, è il controllo dei conti bancari e finanziari dell’imprenditore. In base all’art. 32 del D.P.R. 600/1973 (e art. 51 D.P.R. 633/1972 per l’IVA), l’Amministrazione può richiedere a banche, Poste, intermediari finanziari l’elenco dei movimenti sui conti correnti e depositi intestati al contribuente (e soggetti a lui collegati) e utilizzare tali dati per accertare ricavi non contabilizzati. La legge pone una presunzione legale in questo campo (ancora oggi di forte rilevanza, come confermato dalla Cassazione): tutte le somme versate sul conto si presumono ricavi imponibili, se il contribuente non prova che si tratta di entrate non tassabili (o già tassate), e – per le imprese commerciali – anche i prelevamenti non giustificati si presumono impiegati in acquisti “in nero” poi rivenduti (generando ricavi non dichiarati). Quest’ultima presunzione sui prelevamenti è stata però dichiarata illegittima per i lavoratori autonomi (professionisti) dalla Corte Costituzionale, perché ritenuta irragionevole; resta applicabile alle imprese in senso stretto (società, ditte commerciali). In pratica, per un albergo gestito in forma societaria o imprenditoriale, l’Agenzia delle Entrate può considerare sia i versamenti non registrati sia i prelievi ingiustificati come possibili indici di evasione. È facile intuire quanto ciò sia delicato: strutture come hotel e B&B maneggiano correntemente contanti (pagamenti dei clienti in sede) e spesso il titolare fa commistione tra conti aziendali e personali. Come interviene il Fisco? Un metodo tipico è l’analisi del cash flow: se la contabilità ufficiale mostra incassi modesti ma sul conto del proprietario compaiono continui versamenti di contante, scatta il sospetto che siano somme sottratte alla registrazione. Analogamente, bonifici in entrata da Booking, AirBnb o carte di credito confrontati con le fatture emesse possono rivelare differenze. L’Agenzia oggi incrocia molti dati: ad esempio le piattaforme di prenotazione online inviano comunicazioni periodiche sulle transazioni (dal 2023 è attivo uno scambio di informazioni su scala UE per l’economia digitale), quindi l’amministrazione può già conoscere il volume di pagamenti ricevuti tramite portali. Inoltre, le strutture ricettive comunicano per legge le generalità degli ospiti al portale Alloggiati Web della Polizia di Stato, e in molti comuni devono presentare dichiarazioni periodiche per l’imposta di soggiorno: questi dati, se incrociati, consentono al Fisco di stimare il tasso di occupazione e i ricavi presumibili (numero di presenze × tariffa media). Tutte queste informazioni convergono in Anagrafe Tributaria e possono far scattare un accertamento o un’indagine finanziaria mirata. In caso di verifica sui conti, il contribuente deve prepararsi a giustificare analiticamente ogni movimento sospetto. È fondamentale conservare documentazione relativa a eventuali apporti di denaro leciti: ad es., se il proprietario dell’hotel versa €10.000 in contanti sul proprio conto, dovrebbe poter dimostrare la provenienza (era una parte di utili prelevati negli anni precedenti e tenuti in cassaforte? Era una somma ricevuta in regalo? O magari l’incasso di un vecchio credito personale?). Senza prove, prevale la presunzione fiscale: quei €10.000 saranno considerati ricavi non dichiarati e tassati di conseguenza. La Cassazione ha ribadito che l’onere della prova è a carico del contribuente, che deve fornire una traccia documentale precisa per ciascun movimento considerato anomalo. Ad esempio, per difendersi da un’accusa di ricavi in nero emersa dai conti, si potranno produrre: contratti di mutuo o finanziamento che spiegano i bonifici in entrata (se il titolare ha ricevuto un finanziamento soci, o un prestito familiare, documentato da scrittura privata con data certa); copie di assegni circolari se i contanti versati provenivano da liquidazione di investimenti; estratti conto di altri conti personali per provare che si trattava solo di trasferimenti intra-familiari o intra-societari; ricevute di vendita di un bene personale (es. auto usata) che giustificano un afflusso di denaro. In mancanza di tali giustificativi, la difesa diventa molto difficile. Va ricordato che le indagini finanziarie devono essere autorizzate dai direttori centrali o regionali dell’Agenzia e notificate al contribuente, il quale ha diritto a conoscere gli esiti e controbattere. Un profilo procedurale rilevante è che il mancato riscontro da parte del contribuente alle richieste di chiarimenti sui movimenti bancari può essere valutato come comportamento omissivo a suo sfavore; viceversa, fornire spiegazioni convincenti in sede amministrativa può evitare la rettifica. Infine, è bene sapere che i termini di decadenza dell’accertamento, nel caso siano stati richiesti dati bancari, godono di un extra-time: il D.L. 223/2006 consente, se l’ultimo anno accertabile è oggetto di indagini finanziarie avviate entro il 31/12, di emettere l’avviso entro il 31/12 del secondo anno successivo (quindi +1 anno). Ciò per compensare i tempi di risposta delle banche. Pertanto un albergatore che vede la Guardia di Finanza acquisire i suoi estratti conto per il 2020, potrebbe ricevere l’avviso non entro il 2025 ma entro il 2026. È opportuno che il professionista consideri anche questo aspetto nella gestione del rischio fiscale.
Garanzie del contribuente: contraddittorio, termini e procedimento
Dopo aver esaminato i diversi tipi di accertamento, vediamo come si sviluppa il procedimento e quali garanzie ha il contribuente per difendersi prima ancora del ricorso. Una corretta strategia difensiva infatti inizia già nella fase pre-contenziosa, sfruttando gli istituti deflattivi e i vizi procedurali eventualmente commessi dal Fisco.
Contraddittorio endoprocedimentale – Regola generale dal 2024: Il contraddittorio anticipato (ossia il dialogo tra Fisco e contribuente prima dell’emissione dell’atto) è da sempre un tema cruciale. In passato, la normativa prevedeva l’obbligo di contraddittorio solo in casi specifici: ad esempio per gli studi di settore, per il redditometro dal 2011 in poi, e in caso di verifica in loco (processo verbale di constatazione – art. 12, c.7 L. 212/2000, con 60 giorni per memorie). Per gli altri accertamenti “a tavolino” (ossia basati su controlli d’ufficio), non vi era una regola generale fino a poco tempo fa. La giurisprudenza della Cassazione a Sezioni Unite nel 2015 aveva stabilito che, salvo diversa previsione di legge o per i tributi armonizzati UE (IVA), l’assenza di contraddittorio non inficiava l’atto, a meno che il contribuente non dimostrasse in giudizio la concreta rilevanza delle sue difese non ascoltate (c.d. prova di resistenza). Questa situazione è cambiata di recente: dal 1° gennaio 2024, per effetto della riforma del processo tributario (D.Lgs. 156/2022 e D.Lgs. 119/2023), è stato introdotto nello Statuto del Contribuente l’art. 6-bis, che impone il contraddittorio preventivo obbligatorio per tutti gli accertamenti (salvo casi di particolare urgenza motivata). In pratica, l’Agenzia delle Entrate – prima di emettere un avviso di accertamento (atto impugnabile) – deve inviare al contribuente una comunicazione di avvio del procedimento, contenente i motivi della rettifica (una sorta di bozza di accertamento), e concedere almeno 60 giorni di tempo per presentare osservazioni e documenti. Durante questo periodo l’atto non può essere emanato. Le eventuali memorie presentate dal contribuente devono essere valutate seriamente; se non vengono accolte, l’avviso definitivo dovrà darne conto con motIVAZIONE rafforzata, spiegando perché le deduzioni difensive sono state rigettate. La mancata attivazione di tale contraddittorio rende l’atto annullabile su ricorso (cioè il giudice tributario dovrà annullare l’accertamento se il contribuente solleva il vizio). Questa novità di portata generale ovviamente rafforza le tutele del contribuente alberghiero: per qualsiasi avviso ricevuto dal 2024 in poi, va verificato se c’è stato il preventivo scambio di comunicazioni. Se l’Ufficio avesse notificato direttamente l’atto senza contraddittorio, si avrà un motivo formale molto forte per chiederne l’annullamento in giudizio. Permangono solo ristrette eccezioni (atti emessi in casi di particolare urgenza, da motivare, o accertamenti parziali in materia di imposte sui redditi), ma dovranno essere espressamente indicate nell’avviso. In sostanza, il contraddittorio è ora la regola, non più un’eventualità discrezionale. Ciò si aggiunge agli obblighi specifici già esistenti: per esempio, in un accertamento da pvc Guardia di Finanza, resta vigente l’art. 12, c.7 Statuto (divieto di emettere l’atto prima di 60 gg dalla chiusura della verifica, a meno di motivata urgenza) – la violazione comporta nullità assoluta dell’avviso. Ugualmente, per studi di settore e redditometro, come visto, il contraddittorio era obbligatorio per legge da prima. Adesso il panorama è uniforme: ogni accertamento richiede un confronto preventivo leale, pena la caducazione.
Termini di decadenza e notifica degli atti: Un’altra verifica fondamentale da fare appena si riceve un avviso di accertamento è controllare se è stato emesso (e notificato) entro i termini di legge. La decadenza è il limite temporale entro cui l’Ufficio può far valere le proprie pretese su un dato periodo d’imposta. Attualmente, per le imposte dirette e l’IVA, i termini ordinari (salvo proroghe) sono: 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ad es., per la dichiarazione redditi 2020 presentata nel 2021, il termine è il 31/12/2026); diventano otto anni in caso di omessa dichiarazione (il raddoppio a 8 anni è stato ridotto a 7 anni per i periodi dal 2016 in poi, ma qui sorvoliamo su tecnicismi minori). Nel settore ricettivo, non di rado l’Agenzia sfrutta appieno tali termini, specie se emergono segnalazioni a ridosso della scadenza (es. dati da altre Amministrazioni, liste selettive ISA, ecc.). Esempio pratico: se un albergatore ha presentato regolarmente la dichiarazione dei redditi 2019 (anno d’imposta 2018), il Fisco poteva accertare fino al 31/12/2024. Un avviso notificato nel gennaio 2025 per il 2018 sarebbe tardivo e quindi nullo per decadenza. È importante sottolineare che la decadenza, essendo stabilita a tutela anche di interessi superiori di certezza del diritto, è rilevabile d’ufficio dal giudice: ciò significa che, se l’atto è effettivamente notificato fuori termine, la nullità è insanabile e va dichiarata, anche se il contribuente non la eccepisce espressamente (ma è sempre bene farlo). Dunque, la prima “linea difensiva” è temporale: controllare la data di notifica e il rispetto dei termini. A questo fine occorre sapere come calcolare il termine: l’evento che conta è la spedizione/notifica dell’atto, non la ricezione. Ad esempio, se l’avviso è stato spedito con raccomandata il 30/12 (fa fede la data del timbro postale), anche se il destinatario lo riceve a gennaio, la notifica è tempestiva. Inoltre, eventuali proroghe di legge (come quelle concesse per l’emergenza Covid-19) possono aver esteso i termini per taluni anni: es., gli accertamenti in scadenza al 31/12/2020 furono prorogati al 26/3/2021 per via della sospensione dei termini nel periodo di lockdown. Bisogna quindi verificare la normativa emergenziale per l’anno in esame. Un’altra proroga da considerare – già menzionata – riguarda le indagini finanziarie: se l’ufficio invia richiesta di dati bancari prima della scadenza, ottiene un extra di 1 anno (per quell’anno specifico). Se la notifica è tardiva, il contribuente ha diritto all’annullamento totale dell’atto, indipendentemente dal merito.
Vizi formali dell’atto: Oltre a contraddittorio e termini, l’avviso di accertamento deve rispettare determinati requisiti formali previsti dallo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) e dalle leggi speciali. Ad esempio, deve indicare l’ufficio competente, il responsabile del procedimento, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa (motivazione). Alcuni di questi vizi, però, non comportano più l’annullamento. In particolare, la mancata indicazione del nome del responsabile non è causa di nullità dell’accertamento (lo ha chiarito la Cassazione e di recente il legislatore lo ha sancito espressamente introducendo l’art. 7-quater nello Statuto). Diverso è per le cartelle di pagamento, ma nel nostro caso ci concentriamo sugli avvisi. Pertanto, contestare un accertamento solo perché manca il nominativo del funzionario difficilmente porterà beneficio. Lo stesso dicasi per eventuali errori materiali (un codice fiscale sbagliato, un riferimento normativo impreciso) se non incidono sui diritti di difesa. Invece, la motivazione insufficiente o incoerente è un vizio sostanziale: se l’atto non spiega chiaramente da quali elementi concreti trae la pretesa, o se omette di confutare le spiegazioni offerte dal contribuente in contraddittorio, allora è attaccabile per difetto di motivazione. Questo è spesso il caso, ad esempio, degli accertamenti standardizzati: come abbiamo visto, se l’ufficio non esplicita perché ha ignorato le specifiche allegazioni del contribuente (es. non considera la stagionalità, la ristrutturazione, ecc.) l’atto è carente e il giudice può annullarlo. Dunque, nella predisposizione del ricorso, è buona norma inserire sempre un motivo di doglianza sulla motivazione dell’atto, specie riferendolo alle memorie presentate (se ci fu contraddittorio) o all’assenza di contraddittorio. Riassumendo: contraddittorio omesso, atto tardivo, motivazione inadeguata sono tre pilastri su cui costruire la difesa, prima ancora di entrare nel merito del calcolo delle imposte.
Adesione e altri strumenti pre-contenziosi: Ricevuto l’avviso, il contribuente ha la possibilità di attivare alcuni strumenti deflattivi del contenzioso. Lo scopo è trovare un accordo col Fisco ed evitare (o limitare) il ricorso in Commissione. Gli strumenti principali sono: accertamento con adesione, acquiescenza agevolata e (per importi minori) il reclamo/mediazione. Vediamoli brevemente:
- Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997): È un procedimento che il contribuente può avviare presentando istanza di adesione entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento. Depositando questa istanza, i termini per fare ricorso restano sospesi per un massimo di 90 giorni. Si apre così un confronto con l’ufficio, spesso mediante uno o più incontri, per valutare se c’è margine di riduzione delle pretese. In sede di adesione, il contribuente può portare ulteriori documenti, correzioni, elementi nuovi (anche se formalmente l’atto è già emesso, l’ufficio può rivederlo). Se si raggiunge un accordo – ad esempio ricalcolando i ricavi non dichiarati in misura inferiore – si redige un atto di adesione con le nuove somme. I vantaggi della conciliazione in adesione sono: la sanzione viene ridotta a 1/3 (in luogo del 100% o 90% normalmente applicabile), non si pagano le spese di giudizio e si chiude definitivamente la questione (l’adesione, una volta perfezionata col pagamento, preclude ogni ricorso). Nel settore alberghiero, l’adesione può essere opportuna ad esempio quando l’accertamento ha colto nel segno (c’erano effettivamente ricavi non dichiarati) ma si riesce a dimostrarne una quantificazione inferiore: l’ufficio potrebbe “venirvi incontro” riducendo i maggiori ricavi accertati e applicando il minimo di sanzione per chiudere in tempi brevi. Bisogna però valutare caso per caso, con l’assistenza di un tributarista esperto, perché aderire significa rinunciare a far valere eventuali vizi gravi (che in giudizio porterebbero all’annullamento totale). Ad esempio, se l’avviso è palesemente decaduto dai termini o privo di contraddittorio, è generalmente sconsigliabile aderire: meglio fare ricorso e puntare all’annullamento integrale.
- Acquiescenza all’accertamento: Se il contribuente riconosce la correttezza (o comunque la convenienza a non impugnare) dell’avviso di accertamento, può prestare acquiescenza entro 60 giorni, pagando le somme dovute. In tal caso ha diritto a una riduzione delle sanzioni ad 1/3 (se l’atto non è già “scontato” di suo) ex art. 15 D.Lgs. 218/97. L’acquiescenza si perfeziona col pagamento di quanto dovuto (o della prima rata) entro i 60 giorni dalla notifica. Questo strumento è utile quando l’ufficio ha ragione e il contribuente preferisce evitare il contenzioso beneficiando di sanzioni ridotte. Ad esempio, se a seguito di un contraddittorio sono emersi chiaramente ricavi non dichiarati e l’ufficio emette un avviso con sanzione del 100%, pagando entro i 60 gg la sanzione scende al 1/3 (quindi 33%). Da notare: l’acquiescenza non è ammessa se si è già presentata istanza di adesione o ricorso.
- Reclamo e Mediazione: Per gli atti di valore non superiore a €50.000 (considerando solo imposta e interessi, escluse sanzioni), è previsto che il ricorso in Commissione Tributaria debba prima passare per una fase di reclamo-mediazione (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). In pratica, il contribuente notifica comunque il ricorso entro 60 giorni, ma questo vale anche come reclamo: l’ufficio legale dell’Agenzia delle Entrate ha 90 giorni per esaminare il caso e può formulare una proposta di mediazione, ad esempio riducendo le sanzioni o l’imponibile. Se il contribuente accetta, si chiude con atto di mediazione (sanzioni ridotte al 35% del minimo). Se non c’è accordo entro 90 giorni, il ricorso prosegue automaticamente in Commissione. Nel nostro contesto, piccole strutture o bed & breakfast potrebbero rientrare in questa soglia di valore, dunque la mediazione è un ulteriore canale per evitare il processo. A differenza dell’adesione, qui c’è già un giudizio pendente (sia pure congelato per 90 gg), quindi l’ufficio potrebbe essere incentivato a transigere se ritiene di poter perdere in giudizio.
- Autotutela: Prima del ricorso (ma anche durante), il contribuente può sempre presentare un’istanza di autotutela all’Amministrazione, segnalando errori palesi dell’atto (scambi di persona, errori di calcolo, doppia imposizione, ecc.) e chiedendo l’annullamento totale o parziale in via di autotutela. Tuttavia, va sottolineato che l’autotutela è discrezionale: l’ufficio non è obbligato a rispondere né a sospendere i termini di ricorso. Pertanto, mai affidarsi solo all’autotutela: se i 60 giorni stanno per scadere, presentare comunque ricorso (o adesione). L’autotutela ha un senso soprattutto in casi di macroscopico errore riconoscibile dall’ente (es.: l’avviso calcola due volte la stessa imposta, oppure è stato notificato alla persona sbagliata). In tali frangenti, a volte l’Agenzia annulla d’ufficio evitando il contenzioso.
Rateazione delle somme accertate: Un aspetto pratico importante: gli avvisi di accertamento (che, dal 2011, sono esecutivi, cioè valgono anche come cartella esattoriale se non pagati o impugnati) consentono il pagamento rateale. Se il contribuente non fa ricorso e decide di pagare, può chiedere di dilazionare in otto rate trimestrali (fino a 16 rate se l’importo supera €50.000). La prima rata va versata entro 60 giorni dalla notifica. La rateazione decade se salta il pagamento di due rate anche non consecutive. Se invece il contribuente impugna l’accertamento, i pagamenti sono sospesi di diritto salvo una quota provvisoriamente esigibile: attualmente, l’accertamento esecutivo prevede che decorso il termine di 60 giorni, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione possa intanto riscuotere il 50% delle imposte accertate (oltre interessi) in pendenza di giudizio di primo grado, e fino al totale dopo la sentenza di primo grado, salvo ulteriori sospensive. Questi meccanismi sono stati più volte modificati, ma il concetto è che presentare ricorso non congela automaticamente tutto, a meno che non si ottenga una sospensione giudiziale. Il contribuente, infatti, qualora decida di impugnare e l’importo sia rilevante, può contestualmente presentare istanza di sospensione dell’esecuzione all’interno del ricorso, chiedendo al giudice tributario di bloccare la riscossione fino alla decisione, per evitare danni gravi all’azienda (ad es. iscrizione di ipoteche, fermi amministrativi ai veicoli, ecc.). La sospensione viene concessa se il ricorso appare fumus boni iuris (non pretestuoso) e vi è pericolo di danno grave dal pagamento immediato. Nel settore alberghiero, soprattutto per importi elevati di IVA o IRPEF, conviene quasi sempre chiedere la sospensione, per prevenire azioni esecutive che potrebbero pregiudicare la continuità aziendale (si pensi a un pignoramento del conto in piena stagione turistica).
Il contenzioso tributario: come agire in giudizio
Se non si è trovata soluzione in fase precontenziosa, resta la via del ricorso innanzi alla Giustizia Tributaria (le nuove Commissioni Tributarie, ora denominate “Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado”). Vediamo sinteticamente come impostare la difesa in giudizio per un’accertamento fiscale riguardante un’attività ricettiva.
Presentazione del ricorso: Il ricorso va notificato all’ufficio che ha emesso l’atto (via PEC, se indicata, o via raccomandata A/R) entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (il termine è perentorio). Per importi fino a €3.000 si può stare in giudizio da soli; sopra tale soglia serve l’assistenza di un difensore abilitato (avvocato, commercialista o esperto contabile, tributarista ex legge 4/2013, etc.). Nel ricorso occorre indicare: i motivi di fatto e di diritto della contestazione, le prove che si intendono produrre e l’eventuale richiesta di discussione in pubblica udienza. Motivi tipici di ricorso nel nostro contesto saranno, ad esempio: violazione di legge (per mancato contraddittorio, decadenza, ecc.), vizio di motivazione (insufficiente o contraddittoria, soprattutto rispetto alle osservazioni difensive non considerate) e infondatezza nel merito (erronea ricostruzione dei ricavi, presunzioni non gravi, calcoli sbagliati, ecc.). È buona prassi suddividere chiaramente i motivi e argomentarli richiamando norme e giurisprudenza pertinente (come abbiamo fatto nei paragrafi precedenti). Si possono allegare documenti (anche nuovi rispetto alla fase amministrativa) a sostegno.
Svolgimento del processo: Dopo la notifica del ricorso, questo va depositato (telematicamente, tramite SIGIT) entro 30 giorni presso la Corte tributaria provinciale competente. L’Agenzia costituita in giudizio depositerà il proprio atto di risposta (controdeduzioni) spesso replicando ai nostri motivi e producendo ulteriore documentazione (es. verbali GdF, relazioni di calcolo, ecc.). Segue la fase decisionale: attualmente è prevista la figura del giudice monocratico per le controversie fino a €3.000, mentre sopra tale soglia la causa è decisa da un collegio di 3 giudici togati (la riforma 2022 ha infatti introdotto la professionalizzazione dei giudici tributari). La discussione può essere in pubblica udienza (su richiesta) o in camera di consiglio. Nel caso di un accertamento complesso per un albergo, è consigliabile chiedere la pubblica udienza, così da poter spiegare a voce – tramite il difensore – gli snodi fattuali più importanti (magari mostrando anche grafici di andamento aziendale, ecc.). Il giudice emetterà quindi la sentenza di primo grado. Questa può accogliere in toto il ricorso (annullando l’atto), respingerlo (conferma integrale) o accoglierlo parzialmente (es. annullando solo in parte l’accertamento, riducendo imponibili e sanzioni). In caso di soccombenza (totale o parziale), la parte sfavorita può proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado). Il giudizio di appello ricalca in larga parte quello di primo grado, con alcune differenze tecniche (ad esempio, nuovi motivi sono limitati, ma nuove prove sono ammesse se indispensabili). La sentenza d’appello può essere a sua volta impugnata in Cassazione per motivi di diritto.
Prove nel processo tributario: Un tema fondamentale è quello probatorio. Il processo tributario è infatti dominato dal principio secondo cui l’onere della prova dei fatti costitutivi dell’accertamento spetta all’Amministrazione, mentre il contribuente ha l’onere dei fatti impeditivi o estintivi (art. 2697 c.c.). Cosa significa concretamente? Che l’Ufficio deve portare elementi sufficienti a fondare la presunzione di evasione (es. dimostrare l’incongruenza tra ricavi dichiarati e dati presuntivi, o l’esistenza di versamenti non giustificati sul conto); a quel punto, si verifica un ribaltamento dell’onere, per cui sta al contribuente provare che quei fatti non significano evasione (es. giustificando i versamenti, o spiegando le cause delle incongruenze). Se il contribuente non fornisce controprove, la presunzione fiscale resta in piedi (purché sia una presunzione legale relativa, o una presunzione semplice dotata di gravità, precisione e concordanza). Questo implica che in giudizio è determinante produrre tutta la documentazione possibile a supporto delle proprie affermazioni. Ad esempio, se si contesta un maggior reddito accertato via studio di settore, andranno allegati bilanci, fatture, presenze turistiche ISTAT, perizie tecniche magari a dimostrazione che l’attività non poteva generare di più. Se si contesta un ricavo “in nero” desunto da un bonifico bancario, si dovrà produrre copia del contratto di mutuo o altra prova di quell’entrata extra-fiscale. Il giudice tributario forma il suo convincimento anche sulla base di presunzioni semplici, ma queste devono essere logiche: in difetto di riscontri del contribuente, spesso le presunzioni dell’Ufficio vengono ritenute sufficienti. È dunque cruciale non rimanere passivi. Nel processo tributario è ammessa la prova testimoniale solo per iscritto (dichiarazioni sostitutive di atto notorio o dichiarazioni rese davanti a pubblico ufficiale); non è ammessa l’audizione orale di testimoni. È ammessa invece la CTU (consulenza tecnica) in rari casi di particolare complessità tecnica (valutazioni, analisi contabili sofisticate), ma di solito per le questioni qui trattate (ricavi, presunzioni) difficilmente si nomina un CTU. Sarà invece molto utile – per questioni di mero calcolo – predisporre perizie di parte: ad esempio, far redigere da un consulente un prospetto ricalcolando i ricavi presunti con criteri più attendibili, da confrontare con quelli dell’ufficio, e depositarlo come documento. Benché sia un elaborato di parte, può orientare il giudice mostrando in concreto l’effetto delle nostre argomentazioni. Esempio: portare una tabella che dimostri che, considerando la bassa stagione, il margine reale di occupazione letti è del 50% e non del 80% ipotizzato dal Fisco, e quindi i ricavi presunti vanno dimezzati.
Esiti e costi del giudizio: Se il contribuente vince il ricorso, l’atto è annullato (in toto o in parte) e nulla è dovuto, salvo eventualmente quanto riconosciuto parzialmente legittimo. Se invece perde, l’accertamento diviene definitivo (salvo appello) e le somme vanno pagate (dedotti gli importi eventualmente già versati in pendenza). In caso di soccombenza, il giudice può condannare la parte perdente al pagamento delle spese di lite a favore dell’altra parte. Tuttavia, frequentemente in primo grado le spese vengono compensate (ciascuno paga le proprie), specie se la questione era oggetto di incertezza o se il contribuente è parzialmente vittorioso. Se però l’Agenzia aveva fatto una proposta in adesione o mediazione molto favorevole e il contribuente l’ha rifiutata per poi avere lo stesso risultato o peggiore in causa, le spese potrebbero essergli addebitate. Si segnala anche la possibilità, dal 2023, di tentare una conciliazione giudiziale: in ogni stato del processo (primo o secondo grado) le parti possono accordarsi per chiudere la lite con reciproche concessioni (es. riduzione delle sanzioni, degli imponibili) redigendo un verbale di conciliazione che, una volta omologato dal giudice, diviene titolo definitivo. La conciliazione in giudizio comporta sanzioni ridotte al 50% (se in primo grado) o al 60% (in appello) e il pagamento in 20 giorni. È un ulteriore strumento, simile all’adesione ma utilizzabile anche dopo aver avviato il ricorso, che può rivelarsi utile se emergono elementi nuovi in corso di causa. Ad esempio, a seguito del ricorso l’ufficio comprende che non tutti i versamenti bancari erano effettivamente reddito occulto: a quel punto potrebbe proporre di limitare l’accertamento a una parte e abbuonare il resto, chiudendo bonariamente.
Conseguenze penali in caso di evasione fiscale accertata
Un capitolo delicato riguarda le possibili implicazioni penali degli accertamenti fiscali. Infatti, qualora dalle verifiche emerga un’evasione di imposta oltre determinate soglie, l’Agenzia delle Entrate (o la Guardia di Finanza) ha l’obbligo di trasmettere una notizia di reato alla Procura della Repubblica competente, facendo scattare un procedimento penale per violazioni tributarie. È essenziale dunque che l’imprenditore dell’ospitalità sia consapevole di queste soglie e delle fattispecie rilevanti, per valutare i rischi e le possibili strategie (in alcuni casi, pagando il dovuto si può evitare il processo penale, come vedremo).
I principali reati tributari sono previsti dal D.Lgs. 74/2000 (come modificato dal D.Lgs. 158/2015 e da interventi successivi, da ultimo la L. 157/2019). Nel contesto di un accertamento fiscale a carico di un albergo o B&B, i reati che tipicamente possono configurarsi sono:
- Dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000): riguarda condotte più gravi, in cui il contribuente frode il Fisco mediante artifici o documenti falsi. Si distinguono due ipotesi: mediante fatture o documenti per operazioni inesistenti (art. 2) e mediante altri artifici (art. 3). Nel settore alberghiero, il primo caso potrebbe riguardare chi emette o utilizza fatture false (ad es. per gonfiare i costi e abbattere l’utile tassabile) – condotta però poco frequente in tali attività, più esposta semmai all’occultamento di ricavi che alla creazione di costi fittizi. Ad ogni modo, la dichiarazione fraudolenta è punita severamente: reclusione da 4 a 8 anni (ridotta a 18 mesi-6 anni se l’ammontare delle fatture false è inferiore a €100.000). Non c’è soglia di punibilità: anche un euro di fattura falsa integra il reato, che scatta con la presentazione della dichiarazione annua contenente quei falsi. L’art. 3 (altri artifici) punisce chi, con mezzi fraudolenti diversi dalle fatture (es. doppie contabilità, software “zucchero” per eliminare scontrini, interposizioni fittizie, ecc.), dichiara elementi attivi inferiori al vero o passivi inesistenti, a patto che superi due soglie: imposta evasa > €30.000 e elementi attivi sottratti > 5% di quelli dichiarati o comunque > €1.500.000. La pena è reclusione 3-8 anni. Fortunatamente, casi di frode elaborata non sono la norma per le strutture ricettive minori (diverso per grandi catene, ma lì parliamo di amministratori professionali).
- Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): è il reato più tipico in cui può incorrere un imprenditore alberghiero che occulta parte dei ricavi o indica costi inesistenti, senza utilizzare artifici fraudolenti particolari. In sostanza, la “semplice” dichiarazione dei redditi infedele (con reddito imponibile inferiore a quello reale o IVA minore di quella dovuta) diventa reato se supera specifiche soglie di punibilità. Attualmente, l’art. 4 punisce con la reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi chiunque, al fine di evadere le imposte, indica in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore al vero (ricavi in meno) o elementi passivi fittizi (costi falsi), quando congiuntamente si verificano: a) imposta evasa > €100.000 (per ciascuna imposta, ad es. IRPEF, IRES o IVA) e b) ammontare degli elementi sottratti > 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi dichiarati oppure comunque > €2 milioni. Se entrambe le soglie sono superate, scatta il reato di dichiarazione infedele. Facciamo un esempio: un piccolo hotel individuale dichiara ricavi per €300.000, ma in realtà ne ha conseguiti €400.000 (100k non dichiarati). L’imposta evasa (IRPEF + addizionali) su quei €100k poniamo sia €45.000: in tal caso non c’è reato, perché l’imposta evasa è sotto €100.000 anche se la % sottratta (33%) supera il 10%. Viceversa, un albergo più grande, società di capitali, dichiara €1.5 milioni di ricavi ma in realtà ne aveva €2.5 milioni (un milione occultato); l’IRES evasa su quel milione è di circa €240k (al 24%): qui si supera sia la soglia imposta (€240k > 100k) sia la soglia del 10% (il 40% dei ricavi occultato, e anche >2 milioni di base sottratta), quindi gli amministratori risponderebbero di dichiarazione infedele. Occorre considerare che per questo reato contano anche le fatture false inferiori a 100k usate, perché se uno utilizza fatture false di modico importo (sotto 100k, quindi non punibile come frode) ma ciò gli fa evadere 120k imposte, rientra comunque nell’infedele. Inoltre, per l’IVA, l’imposta evasa si somma a quella sulle dirette per vedere il superamento soglia (soglie per singola imposta). La dichiarazione infedele è probabilmente il reato da tenere più in considerazione per le strutture ricettive che sistematicamente omettono di dichiarare parte degli incassi (camere pagate “fuori contabilità”, ecc.). Se l’evasione è su piccola scala, resterà sotto soglia e avrà solo sanzioni amministrative; ma se negli anni cresce e buca i limiti, scatta il penale.
- Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): riguarda chi non presenta affatto la dichiarazione annuale dovuta (IRPEF/IRES, IVA) entro i termini di legge, con imposta evasa > €50.000 per ciascun tributo. La pena è reclusione da 2 a 5 anni. Questa potrebbe interessare, ad esempio, un soggetto che gestisce in nero totale un’attività ricettiva (magari un B&B abusivo non registrato, che incassa affitti brevi senza dichiarare nulla). Se viene scoperto e l’imposta evasa per quell’anno supera 50mila euro (consideriamo che €50k di imposta corrispondono a circa €200k di imponibile IRPEF evaso, o a ~€227k di IVA evasa), allora oltre a dover pagare le imposte con sanzioni amministrative scatterà il procedimento penale. Se l’imposta evasa non eccede 50k, l’omessa dichiarazione resta un illecito solo amministrativo. Attenzione: omessa dichiarazione può concorrere con infedele in anni diversi, ma logicamente per lo stesso anno è o l’una o l’altra (o si dichiara male, o non si dichiara affatto).
- Emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8): punisce chi emette (o pone in circolazione) fatture false per consentire a terzi l’evasione. Questo reato potrebbe astrattamente coinvolgere un albergatore solo se egli “vende” fatture false (es. attestando prestazioni mai avvenute) – condotta abbastanza rara nell’ospitalità. La pena è speculare all’art. 2: reclusione 4-8 anni (ridotta a 18 mesi-6 anni se importi <100k).
- Altri reati fiscali: Ce ne sono vari (occultamento/distruzione di documenti contabili – art. 10; omesso versamento di ritenute o IVA – art. 10-bis e 10-ter; indebita compensazione – art. 10-quater; sottrazione fraudolenta al pagamento imposte – art. 11). Nel contesto di un accertamento ad un albergo, vale la pena citare l’art. 10-ter: omesso versamento IVA sopra €250.000, punito con reclusione 6 mesi–2 anni. Se ad esempio l’hotel incassa l’IVA sulle fatture ma poi non la versa all’erario per importi superiori a 250k all’anno, è reato. Questo però di solito emerge non da un accertamento, ma dalla liquidazione periodica: se entro il 27 dicembre dell’anno successivo non hai versato l’IVA dovuta da dichiarazione annuale, scatta (non è collegato alle verifiche su ricavi). Similmente l’omesso versamento di ritenute (es. su stipendi) sopra 50k annui è reato (art. 10-bis). Questi aspetti esulano dal tipico accertamento su ricavi, ma vanno tenuti presenti come rischio parallelo.
Procedimento penale e rapporti col contenzioso tributario: Una volta che il Fisco trasmette la notizia di reato (di solito attraverso un processo verbale di constatazione della GdF, o una denuncia dell’Agenzia), la Procura aprirà un fascicolo. Le fasi prevedono l’eventuale indagine (spesso documentale; può comprendere perquisizioni se si sospetta occultamento di scritture, sequestri di computer se frodi complesse), poi l’esercizio dell’azione penale con richiesta di rinvio a giudizio o direttamente decreto penale (per reati minori) o patteggiamento se concordato. È importante capire che il giudizio penale è indipendente da quello tributario: il giudice penale non è vincolato all’esito del contenzioso tributario. Tuttavia, di fatto, spesso il procedimento penale resta sospeso in attesa della definizione di quello tributario, soprattutto se la contestazione è se vi siano o meno maggiori ricavi. Ciò perché una sentenza tributaria passata in giudicato che accerta (o esclude) l’evasione può costituire un elemento di prova rilevante nel penale. Ad esempio, se in Commissione Tributaria viene annullato l’accertamento perché si prova che non c’era occultamento di ricavi, difficilmente la Procura proseguirà per infedele dichiarazione: manca il fatto materiale. Viceversa, se il contenzioso tributario si chiude confermando definitivamente che Tizio ha sottratto €300k di imponibile con €120k di imposte evase, ciò sarà un macigno nel processo penale. Va anche detto che l’assenza di ricorso tributario (il contribuente accetta l’accertamento) non impedisce il penale: il reato sussiste ugualmente, anzi l’ammissione di debito in sede fiscale può aggravare la posizione penale, costituendo di fatto un implicito riconoscimento. In ogni caso, chi riceve una contestazione per reato tributario dovrà farsi assistere da un avvocato penalista (spesso affiancato dal tributarista) e potrà valutare se percorrere un patteggiamento (che riduce la pena di 1/3 e spesso evita la detenzione in concreto) o attendere il giudizio.
Cause di non punibilità e attenuanti: Esistono delle vie per evitare la sanzione penale o attenuarla, nel caso di reati tributari. La più rilevante è prevista dall’art. 13 D.Lgs. 74/2000 (“pentimento operoso”): per i reati di omessa dichiarazione e dichiarazione infedele, il pagamento integrale dell’imposta evasa, delle sanzioni amministrative e degli interessi prima che l’autore del reato abbia formale conoscenza di accessi o verifiche (o comunque entro la scadenza della presentazione della dichiarazione per l’anno successivo) causa la non punibilità del reato. In sostanza, se ci si autodenuncia e si paga tutto spontaneamente prima di essere scoperti, non c’è punizione penale. Questa è una forte incentivazione al ravvedimento operoso: chi si accorge di aver evaso, ad esempio, 2 annualità oltre soglia, può decidere di sanare prima di subire controlli, ed evitare così sia le sanzioni penali che una parte di quelle amministrative (grazie al ravvedimento). Se invece il controllo è già iniziato (ha ricevuto un PVC, un questionario, ecc.), si può comunque evitare il carcere pagando il dovuto prima dell’apertura del dibattimento penale di primo grado: in tal caso l’art. 13 prevede una diminuente di pena fino alla metà (e nei casi di fatture false, la sostituzione della pena con una multa). Ad esempio, un albergatore imputato per infedele dichiarazione che, ricevuto l’accertamento, paga tutto il debito fiscale durante le indagini preliminari, potrà ottenere l’archiviazione o una pena patteggiata molto mite. Attenzione però: queste cause di non punibilità non si applicano ai reati fraudolenti (artt. 2 e 3). Pagare le imposte dopo non salva da un’eventuale condanna per frode fiscale, anche se può essere valutato positivamente dal giudice. Infine, va menzionato che se l’evasore è una società, i reati tributari sono a carico delle persone fisiche che hanno agito (legale rappresentante, amministratore, direttore amministrativo); non è prevista una responsabilità penale della società come ente per tali reati, ma può scattare la responsabilità amministrativa 231 se il reato ha procurato un vantaggio all’ente (la normativa su ciò è in evoluzione: attualmente i reati tributari sono entrati nel D.Lgs. 231/2001 ma solo se finalizzati a coprire delitti di riciclaggio). Per l’imprenditore individuale, ovviamente, egli coincide col soggetto attivo.
In sintesi, dal punto di vista pratico il debitore fiscale che rischia il penale dovrà: 1) valutare con i professionisti se l’entità dell’evasione contestata supera effettivamente le soglie (spesso i calcoli iniziali del Fisco possono sovrastimare: es. includere anni prescritti, o cumulare imposte diverse erroneamente); 2) eventualmente, attivarsi per regolarizzare il più possibile (il pagamento o quantomeno un piano di rientro col Fisco può evitare l’arresto in flagranza in caso di perquisizioni, e predisporre un buon argomento per clemenza); 3) utilizzare l’esito del giudizio tributario come leva nel penale (se il giudice tributario riduce o annulla l’evasione, presentare immediatamente l’esito alla Procura chiedendo l’archiviazione, o viceversa se conferma si potrà puntare su attenuanti); 4) negoziare un patteggiamento se la prova è schiacciante, così da chiudere in fretta magari con pena sospesa, evitando le pesanti sanzioni accessorie (interdizione dai pubblici uffici, etc., che però per reati <2 anni spesso vengono anch’esse sospese condizionalmente).
Va infine ricordato che il processo penale e quello tributario sono autonomi, quindi il contribuente può trovarsi a dover pagare le somme accertate anche se penalmente assolto, o viceversa subire una condanna penale anche se poi definisce col Fisco la questione. L’assoluzione penale “perché il fatto non sussiste” aiuta molto nella riapertura di un’eventuale causa tributaria definitiva (si potrebbe tentare una revocazione), ma situazioni del genere sono rare. Nella stragrande maggioranza dei casi, comunque, sanare il debito fiscale conviene sempre, perché oltre a ridurre o azzerare il rischio penale, consente all’azienda di ripulire la posizione ed evitare misure come sequestri o ipoteche sui beni. In un settore dove la reputazione e la continuità operativa sono essenziali, risolvere il contenzioso con il Fisco – magari anche chiedendo un concordato fiscale se la normativa lo permette – può significare la salvezza dell’attività.
Simulazioni pratiche
Di seguito proponiamo alcune simulazioni pratiche ispirate a casi reali, per capire come applicare i principi esposti. Si tratta di esempi semplificati, utili a illustrare le possibili strategie difensive in situazioni tipiche per alberghi, pensioni e B&B.
Caso 1: Accertamento da studi di settore per un hotel di medie dimensioni – Hotel Miramare s.r.l., 40 camere in una località turistica, nel 2017 dichiara ricavi per €800.000, con un indice di occupazione camere attorno al 50%. Lo studio di settore dell’epoca (anno 2017) stimava per strutture simili ricavi “congrui” di circa €1.000.000. L’Agenzia invia un invito al contraddittorio segnalando uno scostamento di €200.000 (25%). Durante il contraddittorio, l’amministratore evidenzia che nel 2017 l’hotel ha avuto lunghi periodi di chiusura in bassa stagione per lavori di ristrutturazione (documentati), e produce le fatture che comprovano tali lavori nel periodo ottobre-dicembre. Inoltre, mostra che la tariffa media applicata è stata più bassa del solito perché a causa dei cantieri alcune camere erano fuori uso e vi sono state promozioni. Chiede infine di applicare il correttivo di “crisi settore” perché in quella zona nel 2017 c’è stato un calo generale delle presenze turistiche del 15% (produce report ufficiali). L’ufficio, tenendo conto parzialmente di queste osservazioni, riduce la pretesa riconoscendo €100.000 di ricavi in meno (scostamento effettivo €100k), ma sostiene che resti un’incongruenza non giustificata di circa 12%. Emana quindi l’avviso di accertamento recuperando €100.000 di ricavi non dichiarati, con €27.000 di IRES e €6.000 di IRAP evase, oltre sanzione 90% = €29.700. Difesa: La società impugna l’atto eccependo che lo scostamento del 12% rientra nella fisiologica variabilità e che comunque, se si fossero applicati tutti i correttivi indicati (chiusura trimestrale e calo del turismo) lo scostamento sarebbe sceso sotto il 5%. In giudizio produce una relazione peritale di un commercialista, che ricalcola lo studio di settore: escludendo i mesi di chiusura (0 ricavi attesi per quei mesi) e applicando la riduzione ISTAT per la zona, i ricavi teorici diventano €830.000, quindi solo €30k in più dei dichiarati (3,75% in più). Inoltre richiama la giurisprudenza: Cass. 8028/2021 (10% soglia), Cass. 8921/2020 (obbligo di motivare su correttivi). Esito: la Corte di Giustizia Tributaria accoglie il ricorso, annullando integralmente l’accertamento. Nella motivazione si legge che “lo scostamento residuo, ponderato alla luce dei fattori specifici non contestati (ristrutturazione e flessione domanda turistica) risulta inferiore alla soglia di significatività del 10%. In ogni caso, l’Ufficio non ha fornito una motivazione adeguata sulle ragioni per cui ha disatteso in parte i dati correttivi forniti dalla società, in violazione dell’obbligo di motivazione rafforzata a seguito di contraddittorio”. Morale: l’hotel Miramare è riuscito a far valere le proprie ragioni grazie a documentazione accurata e all’utilizzo dei precedenti giurisprudenziali chiave; ha evitato un aggravio fiscale di circa €60.000 tra imposte e sanzioni.
Caso 2: Accertamento induttivo con indagini bancarie per un B&B a conduzione familiare – Il sig. Rossi gestisce un B&B (ditta individuale, regime forfettario fino al 2021). Nel 2022, esce dal forfettario e dichiara ricavi per €50.000. A luglio 2024 l’Agenzia, notando anomalie nei versamenti sul suo conto, avvia un controllo: dai dati bancari 2022 risultano versamenti in contanti per €30.000 e bonifici da portali (AirBnb, Booking) per €40.000. In totale, sul conto Rossi ha ricevuto €70.000, a fronte dei €50.000 dichiarati. L’Agenzia convoca il contribuente (invito art. 32) chiedendo spiegazioni per la differenza di €20.000 (70k incassi vs 50k dichiarati). Rossi spiega che €15.000 in contanti provengono da suoi risparmi personali pregressi che ha versato sul conto a fine stagione, e che €5.000 derivano da un prestito in contanti fattogli dal padre (che però non ha documentazione). Non fornisce ulteriori prove (non aveva tenuto traccia del contante). L’Ufficio, ritenendo le spiegazioni insufficienti, presume che quei €20.000 siano in realtà ricavi non dichiarati dell’attività e procede con accertamento induttivo (mancano corrispettivi all’appello). Emana un avviso per maggiori ricavi €20k, con IVA evasa €2.200, imposta sostitutiva Irpef evasa €1.500, oltre sanzioni al 100% (€3.700 circa) e interessi. Totale richiesta ~€7.900. Difesa: Il sig. Rossi propone reclamo/mediazione. Nella memoria evidenzia che l’attività del B&B nel 2022 ha avuto una occupazione modesta (molti giorni vuoti) e che i portali hanno incassato €40k sui €50k dichiarati: i restanti €10k erano incassi diretti in contanti da ospiti, dunque in linea coi €50k totali. Sostiene che i €20k extra non c’entrano col B&B: €15k provenivano da una cassaforte domestica dove teneva contanti accumulati negli anni (dichiara di averli risparmiati quando era dipendente, prima di avviare l’attività) e €5k li ha ricevuti dal padre a più riprese (il padre firma ora una dichiarazione sostitutiva in cui attesta di aver donato in contanti €5k al figlio nel 2022 per aiutarlo). Allega copie delle sue dichiarazioni redditi degli anni precedenti da cui risultavano redditi complessivi per circa €30k/annui: afferma quindi di aver potuto accantonare nel tempo almeno €15k. L’ufficio in sede di mediazione osserva che la prova è debole (mancano prelievi a supporto dei risparmi, e la dichiarazione del padre è unilaterale), ma vista la modesta entità si dichiara disposto a mediare: offre di abbattere del 50% l’imponibile contestato (riconoscendo almeno €10k come spiegati) e di ridurre le sanzioni a 1/3. Quindi propone un accordo su €10k maggiori ricavi, con €1.100 IVA e €750 Irpef, sanzioni €600 (circa 1/3 del 100% su imposte) oltre interessi. Esito: Il sig. Rossi accetta la mediazione. Versa circa €2.600 complessivi e definisce la pendenza. Non vi è seguito penale perché l’imposta evasa inizialmente (circa €3.700) era comunque sotto soglia. Morale: in mancanza di prove forti, Rossi rischiava di perdere l’intero importo in giudizio – la mediazione gli ha permesso di dimezzare i danni. La lezione è che conviene sempre tenere traccia di eventuali depositi bancari di origine extra-reddituale (es.: far risultare il trasferimento di risparmi tramite assegno o scrittura privata per donazioni) così da poterlo dimostrare facilmente. In sede di verifica, inoltre, avrebbe giovato presentare subito la dichiarazione del padre e lo storico redditi, invece di attendere il reclamo: probabilmente l’ufficio avrebbe potuto ridurre prima la pretesa. Ma grazie allo strumento deflattivo si è comunque evitato il processo.
Caso 3: Accertamento sintetico (redditometro) sul tenore di vita del gestore di una guest house – La sig.ra Bianchi gestisce come ditta individuale una guest house (affittacamere) a Roma. Nel triennio 2018-2020 dichiara redditi modesti (sui €15.000 annui) usufruendo di regime forfettario. Nel 2021 acquista un appartamento al mare per €200.000, pagando con un grosso mutuo e un anticipo di €50.000 in contanti. Inoltre, ha due auto intestate, di cui una Audi di lusso acquistata nuova nel 2019 a €80.000 (leasing). Nel 2024 riceve un invito al contraddittorio dall’Agenzia delle Entrate: in base al nuovo redditometro, il suo tenore di vita (spese per mutuo, leasing auto, mantenimento proprietà, ecc.) indica un reddito complessivo potenziale di circa €60.000 annui, a fronte dei €15.000 dichiarati mediamente. Lo scostamento è tale da far presumere almeno €45.000 di redditi non dichiarati all’anno. Bianchi si presenta all’incontro accompagnata dal proprio fiscalista. Fornisce dettagliate spiegazioni per colmare il gap: l’auto Audi è stata acquistata tramite leasing interamente dedicato all’attività (essendo lei forfettaria non deduceva i costi in dichiarazione, ma l’auto è usata come navetta per gli ospiti, e il leasing da €1.200/mese è pagato coi ricavi dell’attività – mostra estratti conto della ditta con i canoni); l’appartamento al mare è stato comprato insieme al marito (che ha un buon reddito di lavoro dipendente) e soprattutto l’anticipo di €50.000 deriva in gran parte dalla liquidazione ricevuta dal marito nel 2017 (TFR) e da una polizza vita riscossa nel 2018 dopo la morte di un genitore (produce documentazione del datore di lavoro del marito per €30k di TFR e attestazione della compagnia assicurativa per €25k liquidati a suo favore come beneficiaria). Inoltre, evidenzia che per la gestione quotidiana si avvale moltissimo del reddito del coniuge – molte spese familiari (bollette, spesa alimentare, ecc.) sono pagate dal marito, quindi il suo basso reddito non è indicativo di sotto-dichiarazione ma riflette che vive in un contesto familiare monoreddito prevalente (lei supportata dal coniuge). I funzionari vagliano queste informazioni: riconoscono come prove contrarie valide il TFR e la polizza (fonti esenti/già tassate) per giustificare l’anticipo casa, e accettano che l’auto di lusso, pur intestata a lei, in realtà sia strumentale all’attività (dunque le spese relative vanno escluse dal redditometro in quanto “beni relativi esclusivamente all’impresa”). Rimane però un disallineamento per le spese ordinarie e il mutuo: la signora ha un mutuo di €800/mese, che su reddito 15k appare insostenibile se non fosse per il marito. Formalmente, però, il redditometro considera la famiglia nel suo complesso: nel nucleo familiare vi è il marito con reddito annuo €50.000. Esito: L’ufficio, tenuto conto del reddito familiare e delle prove apportate, determina che non c’è scostamento significativo da giustificare un accertamento: il nuovo redditometro prevede infatti che le spese certe vadano imputate pro quota ai coniugi, e grazie al buon stipendio del marito molte spese trovano copertura. L’esito del contraddittorio viene formalizzato con un verbale in cui si archivia la posizione senza emissione di avviso. Morale: il contribuente ha fornito tutte le pezze d’appoggio necessarie per “smontare” la presunzione prima che diventasse atto impositivo. Se non l’avesse fatto (o se avesse ignorato l’invito), probabilmente avrebbe ricevuto un accertamento sintetico per redditi non dichiarati con imposte, sanzioni e interessi per decine di migliaia di euro. Questo esempio dimostra l’importanza di documentare ogni disponibilità finanziaria straordinaria (TFR, eredità, ecc.) e di presentarsi al contraddittorio con un quadro completo: il redditometro, per come è ora congegnato, prende in esame non solo le medie ISTAT ma soprattutto le informazioni puntuali presenti nelle banche dati – mutui, acquisti di immobili, auto al PRA – per cui è fondamentale su ognuna di esse saper dare spiegazioni (es.: “sì ho comprato un’auto costosa, ma era per l’azienda”; “ho comprato casa ma con soldi di famiglia già tassati”). Una particolare attenzione va data alla documentazione dei rapporti familiari: se le spese di una persona sono sostenute da un parente, è opportuno avere traccia (bonifici di trasferimento, cointestazioni di conti, ecc.), altrimenti il redditometro le attribuirà al soggetto sbagliato.
Caso 4: Soglia penale superata – omessa dichiarazione IVA in un albergo – La società Alfa s.r.l. gestisce un grande albergo, ma entra in crisi di liquidità nel 2023. Per fronteggiare i debiti, non versa l’IVA dovuta per l’anno 2022, pari a €300.000, e ritarda anche l’invio della LIPE (liquidazione periodica) e il saldo a conguaglio. Questo fatto configura il reato di omesso versamento IVA (art. 10-ter) perché supera la soglia di €250k. Nel 2024, intanto, la società riceve un avviso di accertamento per alcune detrazioni IVA non spettanti e ricavi non dichiarati del 2021. Gli amministratori, preoccupati, decidono di mettere in liquidazione l’azienda e pagare il dovuto: vendono un immobile secondario, incassano e con il ricavato versano interamente l’IVA 2022 non versata (€300k + interessi) e aderiscono all’accertamento 2021 pagando anche lì imposte e sanzioni ridotte. Presentano poi all’Autorità Giudiziaria la prova di aver estinto ogni debito col Fisco prima dell’eventuale processo. La Procura in effetti aveva aperto fascicolo sull’omesso versamento IVA 2022: constatato che la società ha versato integralmente il tributo (sia pure tardivamente, ma prima di qualunque decreto punitivo), il PM richiede l’archiviazione per particolare tenuità e soprattutto perché viene meno l’offensività: lo Stato ha ricevuto il suo dovuto. Gli ex amministratori evitano così incriminazioni penali. Nota: per l’omesso versamento IVA la causa di non punibilità per pagamento integrale è applicabile se fatto prima della dichiarazione anno successivo o entro tre mesi dalla contestazione – in questo caso erano fuori tempo, ma il pagamento completo ha comunque permesso al difensore di negoziare l’archiviazione in base all’art. 131-bis c.p. (tenuità del fatto) sostenendo che, non essendoci più danno erariale, non v’è interesse pubblico a procedere. È un esito favorevole ma non garantito dalla legge, quindi è sempre meglio non oltrepassare la soglia, o se accade agire il prima possibile. Nel contesto degli accertamenti da redditi, comunque, ricordiamo che per infedele dichiarazione e omessa dichiarazione il pagamento integrale delle imposte dovute prima del dibattimento penale estingue il reato. Quindi, se ad esempio nel Caso 2 (sig. Rossi) l’imposta evasa fosse stata €120k (sopra 100k) integrando reato infedele, il fatto di aver definito e pagato in adesione avrebbe comportato la non punibilità ex art. 13.
Queste simulazioni mostrano come ogni situazione concreta richieda un’attenta analisi: a volte conviene trattare con l’ufficio (mediazione, adesione), altre volte conviene andare in giudizio forti di buone argomentazioni; in ogni caso, tempestività, documentazione e consulenza professionale sono armi decisive per un esito positivo.
Domande frequenti (FAQ)
D.1: Cosa controlla l’Agenzia delle Entrate durante un accertamento fiscale a un albergo o B&B?
R: Incrocia diversi dati alla ricerca di ricavi non dichiarati. In primo luogo analizza le dichiarazioni IVA e dei redditi: se il fatturato appare incongruente rispetto alla capacità ricettiva (es. poche migliaia di euro a fronte di molte camere), scatta un allarme. Poi utilizza le banche dati esterne: ad esempio confronta i dati sugli ospiti registrati (che l’albergatore invia al portale AlloggiatiWeb della Polizia) o i numeri dell’imposta di soggiorno comunicati al Comune, con i ricavi dichiarati. Verifica anche le recensioni online e la presenza sui portali: un hotel attivo su Booking con molte recensioni ma che dichiara poche presenze può insospettire. L’Agenzia fa largo uso delle indagini finanziarie: chiede gli estratti conto bancari per intercettare versamenti di contante o accrediti da carte di credito non contabilizzati. Spesso incrocia i dati dei pagamenti elettronici: dal 2021, tramite il Sistema Tessera Sanitaria e altri strumenti, conosce l’ammontare dei pagamenti con POS e carte; se l’hotel dichiara solo incassi contanti, è un’anomalia (ormai la maggior parte dei clienti paga con mezzi tracciati). Inoltre controlla i costi dichiarati: se un B&B porta in deduzione costi elevati (colazioni, pulizie) a fronte di ricavi esigui, emerge l’incoerenza. In caso di verifica sul campo (ispezione), la Guardia di Finanza può fare controlli a sorpresa, ad esempio presentandosi come cliente (“cliente in incognito”) per vedere se viene emessa fattura/ricevuta o acquisendo il registro clienti e confrontandolo con le fatture emesse. Nel complesso, l’Agenzia incrocia banche dati fiscali, banche dati esterne e conti bancari: è sempre più difficile far passare inosservati ricavi non dichiarati, perché ogni ospite lascia tracce (documenti, transazioni, cellulari collegati al wifi!). Un elemento nuovo: dal 2023 le piattaforme online (Airbnb & co.) trasmettono all’Agenzia delle Entrate i dati sugli affitti brevi, comprese le trattenute effettuate. Anche se questo riguarda le locazioni turistiche pure, dimostra l’estensione dei controlli digitali.
D.2: Fino a quanti anni indietro può accertare il Fisco?
R: I termini ordinari di decadenza per notificare un avviso di accertamento sono, attualmente, il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (quarto anno per periodi fino al 2015). Se la dichiarazione non è stata presentata affatto, il termine diventa il 31 dicembre del settimo anno successivo (sesto fino al 2015). Esempio: per il periodo d’imposta 2020 (dichiarazione presentata nel 2021) il termine è il 31/12/2026; se la dichiarazione 2020 fosse omessa, termine 31/12/2028. Ci sono però eccezioni e proroghe: in caso di reato tributario contestato, i termini raddoppiano (raddoppio dei termini, oggi limitato alle sole imposte per cui è presentata denuncia penale prima della scadenza normale); in caso di risposta tardiva a scambi informazioni intra-UE, proroga di 2 anni; e come detto, un anno in più se ci sono richieste di dati bancari. Inoltre eventi eccezionali (es. Covid) possono aver prorogato alcune scadenze: ad esempio gli atti in scadenza al 31/12/2020 si considerano notificati per tempo se inviati entro il 31/01/2021 (termine prorogato di 14 mesi per l’emergenza, poi affetto da complicati calcoli di sospensione termini). In generale comunque 5 anni (dichiarazione presentata) o 7 anni (dich. omessa) sono la regola. Perciò chi pensasse “non ho dichiarato nulla per anni, magari ormai è tardi per il Fisco”: attenzione, perché fino a 7 anni il Fisco può colpirci, e se c’è reato anche oltre. Ad esempio, un B&B che non ha dichiarato nulla nel 2018-2019-2020 potrà ricevere accertamenti fino al 2025-2026-2027 rispettivamente (7 anni). Oltre tali termini, l’accertamento è nullo per decadenza. Va ricordato che la notifica è valida anche se avviene per PEC all’ultimo domicilio digitale noto: se la PEC non viene letta e l’atto resta lì, è comunque notificato.
D.3: Cosa succede se ignoro un avviso di accertamento?
R: Se entro 60 giorni dalla notifica non viene né pagato né impugnato, l’avviso di accertamento diventa definitivo ed esecutivo. Ciò significa che la somma contestata diviene un debito certo ed esigibile: l’Agenzia delle Entrate lo affiderà all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) per il recupero coattivo, senza bisogno di ulteriori atti (l’avviso stesso contiene già l’intimazione a pagare). In pratica, poco dopo i 60 giorni inizieranno ad arrivare le cartelle di pagamento (o direttamente gli atti esecutivi, dato che l’atto è già titolo esecutivo). L’Agente può procedere con strumenti come il fermo amministrativo dei veicoli, l’iscrizione di ipoteca su immobili di proprietà, il pignoramento dei conti correnti o di crediti verso terzi (per un hotel: pignorare i crediti verso i tour operator, ad esempio). Ignorare l’atto significa anche perdere la possibilità di ottenere sconti sulle sanzioni: decorso il 60° giorno, le sanzioni restano per intero (il 30% di riduzione per acquiescenza vale solo entro i 60 giorni). Inoltre, una volta definitivo, l’accertamento non è più discutibile: non c’è un “appello” fuori termine; l’unica chance sarebbe cercare un ravvedimento operoso speciale o definizioni agevolate se previste in futuro (ma sono eccezioni e non garantite). In sostanza, non fare nulla è la peggiore opzione: il debito ti inseguirà aumentato di interessi e aggi di riscossione, e il Fisco userà misure coercitive. Se proprio non si hanno argomenti per contestare, molto meglio aderire nei 60 giorni e sfruttare la riduzione di sanzioni, o al limite chiedere una rateazione. Ignorare può portare addirittura, nei casi più gravi, a provvedimenti come il sequestro preventivo per equivalente (se c’è reato) o all’inibizione dall’attività se confluisce in altre violazioni (si pensi al mancato pagamento reiterato dell’IVA: si rischia la chiusura amministrativa). Quindi, mai restare inerti: o si paga (magari rateizzando) o si fa ricorso.
D.4: È possibile trovare un accordo con l’Agenzia delle Entrate per pagare meno ed evitare la causa?
R: Sì, esistono varie possibilità di definizione bonaria. Come spiegato, si può attivare l’accertamento con adesione entro 60 giorni dalla notifica: sedendosi a tavolino con l’Agenzia, si può negoziare – portando elementi – una riduzione dei maggiori imponibili. Se si trova un accordo, le sanzioni sono ridotte a un terzo del minimo e l’atto si perfeziona col pagamento (anche rateale). Questo è uno strumento da considerare quando l’ufficio ha parte delle sue ragioni e si rischierebbe in giudizio di pagare tutto: con l’adesione spesso le richieste vengono “limate”. Ad esempio, per un albergo l’ufficio potrebbe accettare di riconoscere più costi o ridurre i ricavi presunti se emergono dati nuovi, transando su una via di mezzo. Un altro strumento è la mediazione/reclamo (obbligatoria fino a €50mila) durante il ricorso: anche lì l’ufficio può proporre uno sconto sulle sanzioni (fino al 35% del minimo) e/o sull’imponibile per chiudere. Inoltre c’è la conciliazione giudiziale: in primo o secondo grado di giudizio, prima della sentenza, le parti possono concordare una soluzione (spesso con una riduzione parziale delle pretese o rateazione) e le sanzioni sono ridotte al 50% (in primo grado). Quindi sì, l’accordo è spesso possibile ed è incoraggiato dalla legge con sconti sulle pene pecuniarie. In situazioni complesse, una strategia può essere: presentare ricorso per bloccare l’esecutività dell’atto e poi cercare una conciliazione prima dell’udienza, ottenendo condizioni migliori (specialmente se nel frattempo si sono trovate prove a proprio vantaggio). Infine, lo Stato negli ultimi anni ha varato misure di definizione agevolata (pace fiscale): ad esempio nel 2023 c’era la possibilità di chiudere le liti pendenti pagando solo il 10-20% se si aveva vinto in primo/secondo grado. Sono norme straordinarie, ma indicano che il legislatore è propenso a favorire le chiusure anticipate. Dunque, conviene sempre valutare la possibilità di un accordo. Se nessuna strada deflattiva funziona e si va a sentenza, rimane comunque la possibilità (qualora si perda) di chiedere all’ufficio una rateazione delle somme dovute dopo la sentenza o di valutare – in extremis – la transazione fiscale se l’azienda è in crisi (però quella è materia concorsuale, oltre lo scopo qui).
D.5: Devo pagare subito tutte le somme richieste dall’accertamento?
R: No, non necessariamente. Se non si presenta ricorso, allora bisogna pagare entro 60 giorni per evitare l’iscrizione a ruolo; però si può chiedere una rateazione all’Agenzia delle Entrate: fino a 8 rate trimestrali (2 anni) se il debito è ≤ €100.000, oppure fino a 16 rate (4 anni) se supera €100.000. Questo dilaziona l’esborso. Se invece si impugna l’accertamento, in via automatica non è dovuto nulla nei 60 giorni (presentando ricorso si sospende l’obbligo di pagamento integrale immediato). Tuttavia, come detto, l’atto di accertamento è comunque “esecutivo”: decorsi 60 giorni, anche in pendenza di ricorso, l’Agenzia può chiedere intanto il pagamento parziale (oggi fino al 50% del tributo). Per evitare di sborsare questa quota durante il processo, si può fare istanza di sospensione al giudice tributario, motivando il danno grave e irreparabile che deriverebbe dal pagamento. Se il giudice concede la sospensiva, non si paga nulla fino alla sentenza di primo grado. Se invece la sospensiva non è concessa, bisognerà versare quella parte (50% imposte) – in genere l’Agente della riscossione notificherà una intimazione di pagamento di quell’importo. Anche questo importo può essere rateizzato su richiesta. In caso di esito negativo in primo grado, dopo la sentenza l’Ufficio può riscuotere fino a 2/3 del totale. Va evidenziato che le sanzioni pecuniarie sono comunque sospese fino alla decisione definitiva (non si pagano in corso di causa, salvo definizioni anticipate). Quindi, sintetizzando: se fai ricorso, nell’immediato non paghi nulla; se il ricorso dura a lungo, l’AdE può chiedere un acconto del 50%; se vinci, ti restituiscono quanto eventualmente pagato (con interessi); se perdi, dovrai pagare il residuo (con possibilità di ulteriore appello e sospensione in appello). È un meccanismo complesso, ma pensato per bilanciare le esigenze erariali e la tutela del contribuente. In ogni caso, è preferibile pagare quanto non contestabile (ad es. a volte un avviso contiene rilievi minori che il contribuente sa essere fondati: li può definire in acquiescenza) e contestare solo il resto, così da ridurre il carico eventualmente da pagare durante la lite.
D.6: Quando scatta il reato di evasione fiscale?
R: Scatta al superamento di specifiche soglie quantitative, diverse a seconda del tipo di violazione, come illustrato nella sezione penale. In generale, per dichiarazioni fraudolente (con false fatture o altri artifici) basta la condotta indipendentemente da soglie (art. 2 non ha soglia, art. 3 ha soglia €30k imposta e 5% elementi attivi); per la dichiarazione infedele (art. 4) servono imposta evasa > €100.000 e imponibile sottratto > 10% di quello dichiarato (o > €2 mln); per l’omessa dichiarazione (art. 5) imposta evasa > €50.000. Altri reati come l’omesso versamento IVA hanno soglia €250.000. Nel concreto, per un albergatore persona fisica, il reato di infedele scatta se ha nascosto decine (o centinaia) di migliaia di euro di imposte; se parliamo di IVA, la soglia è 100k evasa per infedele o 250k non versata. Facciamo un esempio numerico: se dichiaro €0 ma in realtà ho incassato €400.000 + IVA, l’IVA evasa sarebbe 88k (22% di 400k) – non supera 100k, quindi non è reato di infedele (anche se è tantissimo, sarebbe “solo” sanzione amministrativa e eventualmente reato di omessa dichiarazione se non presentata affatto perché l’imposta diretta evasa sarebbe ~120k IRPEF, >50k, quindi reato di omessa). Invece, se nascondo €600.000 di imponibile (IVA evasa 132k), ecco che supero 100k: reato. Oppure se come società nascondo €500k di ricavi (IVA evasa 110k): reato. Dunque i numeri contano. Un commercialista può calcolare l’entità dell’evasione contestata e avvisare il cliente: “Attenzione, qui superiamo le soglie penali, ci sarà una segnalazione”. Altro esempio: reddito non dichiarato €300k con aliquota marginale 43% = imposta ~129k => reato infedele (sforato 100k). Soglie a parte, è cruciale capire che il reato è legato all’anno d’imposta: si guarda anno per anno. Non è possibile sommare due anni sottosoglia per fare reato (se evado 90k imposta in un anno e 80k l’anno dopo, non scatta infedele perché ciascun anno è sotto 100k, anche se in totale ho evaso 170k). Quindi soglie per periodo d’imposta. In conclusione, l’imprenditore deve stare attento a non oltrepassare tali soglie, perché innescano un procedimento penale con tutti i rischi connessi (perquisizioni, misure cautelari, spese legali ingenti, etc.). E se le supera, come detto, può correre ai ripari col pagamento integrale (ravvedimento), meglio se prima di essere scoperto.
D.7: Che differenza c’è tra una verifica fiscale della Guardia di Finanza e un accertamento dell’Agenzia delle Entrate?
R: La verifica fiscale (o ispezione tributaria) è l’attività di controllo sul campo, tipicamente svolta dalla Guardia di Finanza (ma anche da funzionari dell’Agenzia in alcuni casi), presso la sede dell’azienda o dell’attività. I verificatori esaminano le scritture contabili, effettuano riscontri fisici (contano il denaro in cassa, controllano registri ospiti, inventari di magazzino, ecc.), possono effettuare interviste al personale e ai clienti, e raccolgono elementi probatori. Al termine, redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dove annotano tutte le violazioni riscontrate (ricavi non contabilizzati, irregolarità IVA, costi non deducibili, etc.). La verifica è invasiva e può durare giorni o settimane, con i militari presenti in albergo a esaminare documenti. L’accertamento fiscale invece è l’atto formale (avviso di accertamento) con cui l’Agenzia delle Entrate contesta ufficialmente le maggiori imposte dovute. In molti casi, l’accertamento è conseguente a una verifica: la GdF fa il PVC, lo trasmette all’Agenzia, e questa emette l’avviso di accertamento sulla base dei rilievi del PVC (salvo che il contribuente aderisca prima). Ma l’accertamento può nascere anche da solo, in modo automatico, dall’ufficio, senza alcuna verifica in loco: è il caso di cui si è parlato negli esempi (adesione a discostamento studi di settore, redditometro, controlli bancari fatti da ufficio ecc.). Quindi, la differenza sta nella modalità: la verifica GdF è un controllo diretto e personale presso l’azienda, l’accertamento è un atto amministrativo emanato (spesso dall’Agenzia) a seguito di controlli, che può essere “a tavolino” o basato su PVC. Dal punto di vista del contribuente, la verifica è un momento delicato perché bisogna collaborare con i militari, consegnare documenti, rilasciare eventuali dichiarazioni (o decidere di non rilasciarle – sempre meglio farsi assistere da un professionista durante la verifica). Le risultanze della verifica vengono notificate col PVC e poi c’è il diritto del contribuente di presentare osservazioni entro 60 giorni prima che l’Agenzia emetta l’avviso (art. 12, c.7 Statuto). L’accertamento, invece, una volta notificato è già la contestazione definitiva, contro cui ricorrere. Un consiglio pratico: durante una verifica, mantenere un atteggiamento cooperativo ma cauto; chiedere sempre copia dei verbali giornalieri; far mettere a verbale eventuali proprie osservazioni (es.: se i verificatori contestano mancate fatture ma noi abbiamo una spiegazione, dirla e farla verbalizzare subito – tornerà utile); non ostacolare la verifica perché ci sono sanzioni penali (per es. rifiutare esibizione documenti integra reato di occultamento se fatto dolosamente). Finita la verifica, utilizzare bene i 60 giorni per inviare memorie difensive (magari allegando documenti non trovati sul momento). Ciò può talvolta convincere l’Agenzia a non emettere l’accertamento su alcuni punti. In sostanza: verifica = fase istruttoria (pre-contenzioso, ma con poteri forti di ricerca prove); accertamento = fase conclusiva (contenzioso vero e proprio, atto impugnabile).
D.8: Se pago le imposte contestate, il procedimento penale si chiude automaticamente?
R: Dipende dal reato e dal quando si paga. Per i reati di dichiarazione infedele o omessa dichiarazione, la legge prevede la non punibilità se prima che inizi il processo (più precisamente: prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado) il contribuente versa integralmente tutte le imposte dovute, gli interessi e le sanzioni amministrative. Quindi sì, pagando tutto, questi reati “si chiudono”: l’autorità giudiziaria dichiarerà il reato estinto per intervenuto pagamento (di solito occorre anche il ravvedimento operoso ossia il pagamento spontaneo, ma la giurisprudenza ha ritenuto sufficiente anche se avviene dopo la constatazione purché prima del dibattimento, come causa di non punibilità). Per i reati di omesso versamento (ritenute o IVA) e indebita compensazione, l’art. 13 prevede la non punibilità solo se paghi entro determinate scadenze (per l’IVA, entro la dichiarazione dell’anno successivo; per le ritenute, entro 3 mesi dal termine di versamento). Tuttavia, se paghi in ritardo ma prima del processo, spesso la Procura/giudice tengono conto e applicano l’art. 131-bis c.p. (tenuità del fatto) se le somme sono state integralmente versate e il contribuente è incensurato. Per i reati fraudolenti (fatture false, artifici), purtroppo pagare non evita il processo: la punibilità rimane, anche se il pagamento integrale può essere valutato come circostanza attenuante generica o portare a patteggiamenti con pene minori. Ad esempio, se uno ha usato fatture false per 500k di IVA e poi paga tutto, difficilmente la Procura lo manderà esente: probabilmente però si potrà patteggiare la pena base ridotta fino a 1/2 per il pagamento (è previsto come attenuante specifica dall’art. 13, comma 2). In definitiva: pagare conviene sempre, perché male che vada riduce la pena, e bene che vada estingue il reato. Ma serve pagare tutto il dovuto. Se uno paga solo una parte e spera di cavarsela, no – la causa di non punibilità richiede l’integrale adempimento. Nel caso di società, il pagamento fatto dalla società giova agli amministratori imputati. Attenzione: per ottenere la non punibilità occorre anche pagare le sanzioni amministrative tributarie, non basta l’imposta. Ad esempio, Tizio è imputato per infedele con €120k IRPEF evasa; gli viene notificato l’accertamento con imposta + sanzioni 90% = €228k + interessi. Se lui paga solo i 120k di imposta, non basta: deve pagare anche le sanzioni (€108k) e gli interessi. Magari può ottenere sconti sulle sanzioni per adesione o definizione agevolata, ma qualche importo sanzionatorio va comunque pagato. Non di rado, si cerca di transare un importo col Fisco (ad es. con conciliazione in giudizio tributario) e poi chiedere che quell’importo valga ai fini penali. Tuttavia formalmente la non punibilità richiede pagamento di quanto dovuto secondo la legge tributaria – se si chiude a meno, c’è un dibattito se basti. In genere, se c’è stata una definizione agevolata prevista per legge (es. condono) e uno paga quella, il penale dovrebbe estinguersi lo stesso perché il debito non è più dovuto; se invece l’Agenzia transige in autotutela per evitare cause, può sorgere discussione (ma l’imputato potrà sostenere che non vi è più imposta evasa, essendo intervenuto accordo – dipende). In sintesi: per andare sul sicuro, conviene pagare tutto il dovuto originario. Se non si riesce, si può comunque chiedere in sede penale la sospensione del procedimento per dare tempo di pagare (il giudice spesso concede rinvii se c’è volontà di estinguere il debito).
D.9: Cosa succede se la mia struttura ricettiva non ha tenuto le scritture contabili o le ha distrutte?
R: La mancanza (o distruzione) delle scritture contabili obbligatorie espone a gravi conseguenze: innanzitutto consente all’Ufficio di operare in accertamento induttivo puro (art. 39 c.2 DPR 600/73), quindi con la massima libertà di ricostruzione dei ricavi. Se l’albergatore non ha registri IVA, corrispettivi, libro giornale, il Fisco potrà presumere i redditi in base agli elementi disponibili (utenze, numero di camere, spese, versamenti bancari, etc.) senza dover provare l’inattendibilità (è ipso facto inattendibile per mancanza di contabilità). Ciò rende molto arduo difendersi sul merito, perché il giudice tende a dare ragione al Fisco in assenza di contabilità: “chi è causa del suo mal…”. Inoltre, sul piano penale, l’occultamento o distruzione di documenti contabili integra un reato specifico (art. 10 D.Lgs. 74/2000) punito con reclusione 3-7 anni. Quindi, se l’imprenditore ha dolosamente fatto sparire i registri per non far ricostruire i redditi, rischia la galera indipendentemente dall’ammontare dell’evaso. Anche se li ha semplicemente tenuti male o persi per negligenza, può essere comunque imputato (la Cassazione richiede il dolo specifico di evadere, ma spesso la circostanza stessa lo suggerisce). Pertanto, mai distruggere o falsificare le scritture nella speranza di farla franca: è un boomerang. Se è avvenuto (es. incendio, alluvione? In tal caso non c’è reato se fortuito, ma comunque Fisco potrà procedere induttivamente), l’imprenditore dovrà ricostruire in ogni modo parallelo (estraendo duplicati fatture dai fornitori, registro ospiti, movimenti bancari) una contabilità alternativa da opporre alle presunzioni del Fisco. Consiglio: in caso di contabilità gravemente incompleta, meglio valutare una definizione agevolata (se disponibile) o adesione, perché in giudizio la mancanza di registri è difficilmente difendibile.
D.10: Come incide la riforma della giustizia tributaria del 2022-2023 sulla difesa in accertamento?
R: La recente riforma (L. 130/2022 attuata con vari decreti) incide in vari modi: abbiamo già menzionato il nuovo art. 6-bis Statuto che generalizza il contraddittorio obbligatorio dal 2024 – questo rafforza la posizione del contribuente, che ora può sempre far valere le proprie ragioni prima che l’atto venga emesso, riducendo accertamenti “a sorpresa”. Inoltre, la riforma ha istituito Giudici tributari professionali e a tempo pieno: in teoria, decisioni più competenti e uniformi. Ha introdotto il giudice monocratico per cause < €3.000, ma queste in ambito accertamenti complessi raramente saranno sotto tale soglia (forse solo sanzioni minori). Importante è l’onere della prova attenuato in appello: ora l’appellante vittorioso in primo grado gode di una presunzione a suo favore, l’ente soccombente deve fornire in appello la prova contraria (ciò per favorire la stabilità delle sentenze di primo grado). Quindi, se vinciamo in primo grado un accertamento, l’Agenzia per ribaltare in appello dovrà avere argomenti solidi, il che aiuta a consolidare le vittorie. Un’altra innovazione: sono state ampliate le possibilità di prova testimoniale in forma scritta e di giuramento estimatorio; in accertamenti ciò potrebbe avere rilievo se ci sono testimoni (es. ex dipendenti che attestano pratiche in nero) – ora potranno rendere dichiarazioni utilizzabili come prova in giudizio (prima erano solo indizi). In generale la riforma mira a processi tributari più equi e con pari dignità delle parti. Questo può migliorare le chance del contribuente quando ha ragione: ad esempio, la giurisprudenza sta mostrando maggiore apertura a valutare gli elementi presuntivi anche a favore del contribuente, non solo contro (lo si vede anche in pronunce come Cass. 27613/2018 sul ricavometro dove si è riconosciuto che errori di calcolo dell’ufficio viziavano l’atto). Per l’imprenditore, significa che è ancor più utile predisporre un impianto probatorio ben fatto: i giudici “professionali” saranno più esigenti nel valutare tecnicamente i numeri, ma anche più attenti a garantire i diritti (contraddittorio, motivazione). Quindi, con la riforma diventa cruciale far valere subito gli eventuali vizi procedurali (contraddittorio omesso, notifica viziata, ecc.), perché sono cause di annullamento automatismi ora codificate, e contestualmente fornire analisi e spiegazioni di merito robuste, possibilmente supportate da perizie, per convincere il giudice sul fatto che l’accertamento sia infondato. Con giudici più competenti, la qualità delle difese farà la differenza. Non ci si potrà affidare tanto su scappatoie o indulgenze: bisognerà entrare nel merito e dimostrare punto per punto le proprie ragioni, utilizzando ogni strumento offerto (dalle testimonianze scritte, alla possibilità di chiamare in causa consulenti tecnici). In conclusione, la riforma è un’opportunità per chi ha ragione di vedere riconosciuti i propri diritti – ma occorre saperli far valere nel modo giusto.
Tabelle riepilogative
Tabella 1 – Principali reati tributari applicabili (D.Lgs. 74/2000)
Fattispecie | Descrizione | Soglia di punibilità | Pena prevista |
---|---|---|---|
Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti falsi (art. 2) | Indicazione in dichiarazione di passivi fittizi avvalendosi di fatture/documenti per operazioni inesistenti (es. uso fatture false per abbattere utili) | Nessuna soglia minima (reato consumato anche per 1€ di passivo fittizio). Aggravante se passivi fittizi > €100.000 (aumenta la pena). | Reclusione 4–8 anni (ridotta a 18 mesi–6 anni se passivi fittizi < €100.000). |
Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) | Evasione con operazioni simulate o altri mezzi fraudolenti (es. doppie contabilità, vendite omesse coperte da false annotazioni, manipolazione di software contabili) con infedele dichiarazione | Imposta evasa > €30.000 e elementi attivi sottratti > 5% di quelli dichiarati (o > €1.500.000). (Doppia soglia richiesta). | Reclusione 3–8 anni. (No soglie = no reato). |
Dichiarazione infedele (art. 4) | Dichiarazione annuale omettendo redditi o indicando deduzioni/detrazioni indebite (no artifici fraudolenti) | Imposta evasa > €100.000, e elementi attivi sottratti > 10% di quelli dichiarati (o > €2.000.000). (Soglie cumulate). | Reclusione 2–4 anni e 6 mesi. Soglie non superate = non c’è reato. |
Omessa dichiarazione (art. 5) | Mancata presentazione della dichiarazione annuale (pur essendovi obbligo) | Imposta evasa > €50.000 (per ciascun tributo). | Reclusione 2–5 anni. Se si presenta entro 90 gg dalla scadenza non è reato (dichiarazione tardiva). |
Emissione di fatture o documenti per operazioni inesistenti (art. 8) | Emissione/rilascio di fatture false (chi “vende” fatture) per consentire ad altri di evadere | Nessuna soglia minima. Aggravante se importo non veritiero > €100.000. | Reclusione 4–8 anni (ridotta a 18 mesi–6 anni se importi < €100.000). |
Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) | Sottrazione o distruzione di scritture contabili obbligatorie, al fine di impedire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari | Nessuna soglia. Basta l’azione dolosa. | Reclusione 3–7 anni. |
Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis) | Manca il versamento di ritenute certificate (es. ritenute dipendenti) | Importo non versato > €50.000 per periodo d’imposta. | Reclusione 6 mesi – 2 anni. Non punibile se si paga entro la scadenza della dichiarazione annuale (o entro 3 mesi dalla contestazione). |
Omesso versamento IVA (art. 10-ter) | Manca il versamento dell’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale | IVA non versata > €250.000 per periodo d’imposta. | Reclusione 6 mesi – 2 anni. Non punibile se si paga integralmente entro la dichiarazione annuale dell’anno successivo. |
Indebita compensazione (art. 10-quater) | Utilizzo in compensazione di crediti d’imposta non spettanti o inesistenti, per pagare tributi dovuti | Se crediti non spettanti: soglia > €50.000 annui; se crediti inesistenti: soglia > €50.000 annui. (Trattate diversamente in pena). | Non spettanti: reclusione 6 mesi – 2 anni; inesistenti: reclusione 1 – 5 anni. |
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11) | Compiere atti simulati o fraudolenti per rendere inefficace la riscossione coattiva (es. alienare beni a terzi compiacenti per non farli pignorare) | Importo del debito fiscale > €50.000. | Reclusione 6 mesi – 4 anni (o 1–6 anni se il debito > €200k). |
Nota: Le soglie si riferiscono all’imposta evasa per singola imposta e singolo periodo. Le pene indicate sono quelle ordinarie; in caso di circostanze attenuanti o aggravanti specifiche (ad es. pagamento del debito prima del dibattimento – art. 13, collaborazione attiva, reato continuato su più anni, ecc.) possono variare.
Tabella 2 – Sanzioni amministrative tributarie frequenti per accertamenti (D.Lgs. 471/97 e 472/97)
Violazione fiscale | Sanzione amministrativa |
---|---|
Omessa dichiarazione dei redditi / IVA (senza imposta dovuta) | Da €250 a €1.000 (importo fisso minimo). Se imposte dovute: 120% – 240% dell’imposta evasa, minimo €250. Ad esempio, se evasi €50.000 di IVA: sanzione base €60.000 (120%) fino a €120.000 (240%). |
Dichiarazione infedele (dati inesatti, omissioni) | 90% – 180% della maggior imposta o minor credito. Se infedele su IVA < €5.000 o redditi < 10% del dichiarato (max €30k), sanzione ridotta 1/3. Esempio: evasi €20k imposta -> sanzione €18k – €36k. |
Omessa fatturazione o scontrino/ricevuta non emessa | 100% dell’IVA relativa all’operazione non fatturata (minimo €500 per ciascuna operazione). Se documento emesso con importo inferiore: 90% dell’imposta sulla differenza. |
Mancata registrazione di ricavi in contabilità | Equiparata a infedele dichiarazione se incide sulla dichiarazione; altrimenti (se dichiarazione corretta ma libro non aggiornato) sanzione formale da €500 a €10.000. |
Indebita detrazione IVA o deduzione costi non spettanti | 90% – 180% dell’imposta indebitamente detratta o della maggiore imposta dovuta sui redditi (ossia trattato come infedele). |
Errori formali (che non incidono su imposta, es. registro tenuto male, comunicazione tardiva) | Sanzioni fisse da €250 a €2.000 a seconda dei casi; regolarizzabili con ravvedimento. |
Omessi versamenti periodici (IVA, ritenute) | 30% dell’importo non versato (ridotto a 15% se pagato con ≤90 gg di ritardo). Se versato entro 15 giorni, sanzione 1.5% per giorno di ritardo (ravvedimento operoso ulteriormente riduce). |
Ritardata presentazione della dichiarazione (entro 90 gg) | Sanzione fissa da €150 a €500 (dichiarazione valida, ma tardiva). Se oltre 90 gg è considerata omessa (con sanzioni come omessa, ma ridotte a metà se presentata spontaneamente prima di contestazione). |
Le sanzioni amministrative sopra possono essere ridotte tramite strumenti deflattivi: ad esempio, in sede di accertamento con adesione o conciliazione giudiziale si paga solo 1/3 della sanzione irrogabile; con acquiescenza (pagamento entro 60 gg senza contestazione) si paga 1/3 della sanzione minima; col ravvedimento operoso prima dell’accertamento le sanzioni sono ridotte in misura variabile (ad es. 1/10 se paghi dopo 1 anno ma prima di PVC). Inoltre, la L. 197/2022 ha previsto per il 2023 una definizione agevolata delle sanzioni (1/18) per alcuni atti: in futuro potrebbero esservi misure analoghe. Le percentuali indicate in tabella sono il “range pieno” previsto dalla legge, sul quale l’ufficio determina l’importo in base alla gravità. In caso di recidiva (violazioni ripetute) le sanzioni tendono al massimo.
Fonti utilizzate
- D.P.R. 29/09/1973 n.600, art. 39, co.1 lett.d e co.2 – (Norma sugli accertamenti delle imposte sui redditi, base giuridica dell’accertamento analitico-induttivo e induttivo puro.)
- Cass. civ. Sez. Trib. ord. 30/10/2018 n. 27612, – (Massima: l’Agenzia non può basare un accertamento solo sul numero di lavaggi delle federe di un albergo; serve un quadro più completo.)
- Comm. Trib. Reg. Veneto, sent. 32/16/11 – (Caso “ricavometro asciugamani”: giudicato illegittimo il metodo che conteggiava i pernottamenti extra basandosi su asciugamani usati senza considerare bagni comuni e diversi tipi di camere.)
- Cass. civ. Sez. V, ord. 14/05/2020 n. 8921 (Caso “Albergo Corolle”), – (Principi di diritto: obbligo di contraddittorio negli accertamenti da studi di settore, necessità di motivazione rafforzata e utilizzo dello studio di settore più evoluto disponibile, con scostamenti <10% non significativi.)
- DM MEF 07/05/2024 n. ?? (Redditometro) pubblicato in G.U. 20/05/2024 n.116 – (Estratto del decreto: spese minime ISTAT per nucleo familiare, prevalenza dei dati certi su quelli presunti, non imputazione al contribuente delle spese aziendali documentate, ecc.)
- Corte Costituzionale sent. 228/2014 – (Dichiara incostituzionale la presunzione legale relativa ai prelevamenti bancari per i lavoratori autonomi, in quanto irragionevole ipotizzare che ogni prelievo ingiustificato finanzi redditi non dichiarati; resta invece valida la presunzione sui versamenti.)
- Cass. civ. Sez. V, sent. 09/08/2017 n. 19806, in Fisco e Tasse – (Conferma post sentenza cost. 228/2014: permane per i professionisti la presunzione sui versamenti sul conto, con onere al contribuente di provare analiticamente la loro estraneità al reddito imponibile.)
- Cass. SS.UU. sent. 18184/2013 – (Principio: l’avviso di accertamento emesso prima dei 60 gg dalla chiusura di una verifica in loco, senza urgenza, è affetto da nullità assoluta per violazione del diritto al contraddittorio ex art.12 c.7 Statuto.)
- Decreto Legislativo 156/2015 – (Ha introdotto l’istituto del reclamo/mediazione obbligatorio per controversie fino a €50.000, favorendo le soluzioni pre-giudiziali.)
- Agenzia Entrate – Provvedimento Prot. 3990/2023 – (Esempio di provvedimento attuativo dello scambio di informazioni tra portali digitali e amministrazioni fiscali, per vigilare sulle locazioni brevi e attività extra-alberghiere non dichiarate.)
- D.Lgs. 130/2022 e D.Lgs. 119/2023 (Riforma giustizia tributaria) – (Introduzione art. 6-bis Statuto contribuente: obbligo contraddittorio per tutti gli atti dal 2024; potenziamento prova testimoniale scritta; giudici tributari professionali; nuova regola sull’onere della prova in appello pro-contribuente.)
Accertamento Fiscale ad Albergo, Pensioni, Relais, Guest House: Come Difendersi
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e accertamenti nel settore turistico-ricettivo
- ✔️ Specializzato nella difesa di hotel, relais, pensioni e strutture extra-alberghiere
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Se gestisci una struttura ricettiva e hai ricevuto un accertamento fiscale, non sottovalutare il problema. Agire per tempo fa la differenza tra subire sanzioni pesanti o uscire dalla crisi con una soluzione sostenibile.
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