Hai ricevuto un accertamento o una comunicazione dall’Agenzia delle Entrate che ti contesta incassi tramite POS mai dichiarati? Ti accusano di aver omesso ricavi sulla base di quanto incassato con bancomat o carte di credito? È fondamentale capire come funziona questo tipo di controllo e come puoi difenderti legalmente, soprattutto se quegli incassi non rappresentano reddito imponibile.
Quando il Fisco può contestarti incassi da POS non dichiarati?
– Se incrociando i dati dei pagamenti elettronici (POS, carte, bancomat) con la dichiarazione dei redditi emergono scostamenti evidenti
– Se risultano incassi giornalieri o mensili maggiori di quelli riportati nei registri o nei corrispettivi
– Se ricevi segnalazioni da parte dell’istituto bancario o a seguito di una verifica fiscale
– Se ci sono versamenti sul conto corrente che non trovano riscontro nella contabilità
Cosa presume l’Agenzia delle Entrate?
– Che tutti gli importi incassati tramite POS siano ricavi dell’attività
– Che tu abbia omesso fatturazione o registrazione di parte delle operazioni
– Che esista una dichiarazione infedele, con evasione d’imposta
– Che gli incassi siano riconducibili a prestazioni o vendite mai registrate
Come puoi difenderti da questa contestazione?
– Dimostra che non tutti gli incassi POS rappresentano ricavi imponibili (es. rimborsi, prestiti, cauzioni, acconti restituiti)
– Se hai attività mista, documenta la parte che non è soggetta a IVA o tassazione
– Verifica se si tratta di incassi transitati ma non effettivamente percepiti (es. errori di accredito, storni)
– Controlla che il Fisco abbia rispettato il contraddittorio, e chiedi accesso agli atti
– Presenta memorie difensive dettagliate, con spiegazione voce per voce degli importi contestati
– Se necessario, valuta un accertamento con adesione per ridurre le sanzioni o un ricorso tributario
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace?
– L’annullamento dell’accertamento, se dimostri che gli incassi non sono ricavi
– La riduzione dell’imponibile e delle sanzioni
– La possibilità di chiudere la posizione in modo bonario
– La tutela della tua attività e della tua reputazione fiscale
Attenzione: in assenza di chiarimenti, il Fisco può procedere con iscrizione a ruolo, pignoramenti e segnalazioni. Per questo è essenziale agire subito, raccogliere documenti e costruire una linea difensiva precisa e documentata.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in accertamenti bancari e difesa da omessi ricavi ti spiega come difenderti se ti contestano incassi da POS mai dichiarati, quali prove puoi usare e come evitare imposte ingiuste.
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Introduzione
Nel contesto fiscale italiano odierno, sempre più digitalizzato e interconnesso, molti contribuenti – siano essi imprenditori, commercianti o liberi professionisti – si trovano a fronteggiare contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate relative a incassi tramite POS (Point of Sale, ovvero pagamenti con carte) che non risultano dichiarati. La tracciabilità dei pagamenti elettronici ha infatti potenziato i controlli incrociati del Fisco: le transazioni con carte di credito/debito vengono comunicate quotidianamente dagli operatori finanziari all’Anagrafe tributaria e confrontate con i dati delle fatture elettroniche e dei corrispettivi telematici dichiarati dal contribuente. Quando emergono discrepanze – ad esempio, un volume di transazioni elettroniche nettamente superiore ai ricavi dichiarati – scattano segnalazioni e verifiche.
Questa guida avanzata, aggiornata a luglio 2025 con le ultime norme e pronunce giurisprudenziali, fornisce un quadro completo su come difendersi di fronte a contestazioni di questo tipo, dal punto di vista del contribuente (debitore). Saranno esaminati i riferimenti normativi italiani rilevanti, le più recenti sentenze della Corte di Cassazione in materia, le possibili strategie difensive (dagli strumenti di compliance come il ravvedimento operoso, ai ricorsi in Commissione – ora Corte di Giustizia – Tributaria), nonché esempi pratici e casi simulati per comprendere meglio le situazioni tipiche. Il taglio è rivolto sia a professionisti del diritto tributario sia a imprenditori e privati che vogliano capire, con linguaggio giuridico ma divulgativo, come tutelarsi. Troverete inoltre domande e risposte frequenti (FAQ) e tabelle riepilogative per sintetizzare sanzioni, scadenze e opzioni.
Importante: Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono elencate in fondo alla guida, nella sezione Fonti e Riferimenti, per consentire un approfondimento ulteriore.
Premessa: pagamenti tracciabili e controlli incrociati del Fisco
Negli ultimi anni l’Italia ha adottato numerose misure per incentivare l’uso di strumenti di pagamento tracciabili (carte, bancomat, bonifici) e al contempo contrastare l’evasione fiscale. Uno degli effetti di questa strategia è l’enorme mole di dati a disposizione dell’Amministrazione finanziaria. In particolare:
- Memorizzazione e invio telematico dei corrispettivi: dal 1° gennaio 2020 tutti i commercianti e soggetti assimilati che emettono scontrini (operazioni B2C) devono utilizzare il registratore di cassa telematico, che memorizza e trasmette ogni giorno all’Agenzia delle Entrate l’ammontare dei corrispettivi. Questo obbligo (introdotto dal D.Lgs. 127/2015, art. 2, c.1) crea un flusso continuo di dati sulle vendite effettuate. L’Agenzia acquisisce così in tempo reale i dati dei ricavi giornalieri, analogamente a quanto avviene per le fatture elettroniche emesse nelle operazioni tra partite IVA.
- Comunicazione delle transazioni elettroniche: gli operatori finanziari (banche, società di servizi di pagamento) sono tenuti per legge a comunicare all’Agenzia delle Entrate tutte le transazioni effettuate con strumenti di pagamento elettronico presso ogni POS degli esercenti. In pratica per ciascun terminale POS viene inviato il totale giornaliero delle operazioni effettuate. Tale obbligo, previsto dall’art. 22, comma 5, D.L. 124/2019 (convertito con L. 157/2019), assicura che il Fisco conosca quanto ogni esercente incassa tramite carte e bancomat.
- Incrocio automatico dei dati: grazie a specifici provvedimenti (es. Provvedimento AE Prot. n. 352652 del 3/10/2023), l’Agenzia confronta regolarmente gli importi mensili delle transazioni elettroniche con l’imponibile IVA dichiarato (via fatture elettroniche e scontrini telematici). Quando i pagamenti elettronici risultano maggiori dei corrispettivi dichiarati, scatta un’anomalia segnalata al contribuente. Ad esempio, può emergere uno scostamento mensile tra l’importo totale dei pagamenti con carta e la somma di imponibile+IVA delle vendite dichiarate.
Questi strumenti hanno colmato un precedente “vuoto” di controllo. In passato, se un commerciante incassava 100 tramite carta ma “batteva” scontrini solo per 10, non era semplice per il Fisco accorgersene in tempi brevi. Oggi invece, ogni pagamento elettronico genera una traccia immediatamente confrontabile con i dati dichiarati. Si realizza così il principio della “tracciabilità tempestiva e capillare” dei ricavi, indicato anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: collegare i pagamenti elettronici ai registri dei corrispettivi per contrastare l’evasione da mancata fatturazione.
Va precisato che l’obiettivo primario di tali controlli non è solo recuperare gettito evaso, ma anche scoraggiare fenomeni illeciti collaterali come il riciclaggio di denaro. Una incongruenza macroscopica – ad esempio pochi scontrini a fronte di importi elevati incassati su POS – può indicare anche attività opache o tentativi di far transitare somme di origine dubbia. Naturalmente, gli incroci di dati avvengono nel rispetto della privacy: l’Agenzia delle Entrate riceve importi aggregati e identificativi del dispositivo, ma non i dettagli sul cliente che ha effettuato il pagamento.
In sintesi, il contesto attuale vede l’Agenzia fortemente equipaggiata sul piano informativo: ogni euro incassato elettronicamente dovrebbe avere un corrispettivo documento fiscale. Quando ciò non accade, il sistema fa emergere l’anomalia. Vediamo ora cosa succede in questi casi e quali sono le presunzioni legali applicate.
Incassi POS non dichiarati: presunzioni fiscali e onere della prova
Dal punto di vista giuridico-tributario, l’ipotesi di mancata dichiarazione di ricavi risultanti da transazioni elettroniche rientra nelle situazioni di accertamento basato su presunzioni semplici, ma dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 39, comma 1, lett. d), DPR 600/1973 e art. 54 DPR 633/1972). La giurisprudenza della Corte di Cassazione è ormai costante nel ritenere legittimo l’accertamento analitico-induttivo fondato sul confronto tra incassi da POS e ricavi contabilizzati, quando vi sia significativa discordanza. In tali casi si inverte l’onere della prova: spetta al contribuente giustificare la differenza con documentazione adeguata.
In particolare, la Cassazione ha affermato principi chiave in una serie di sentenze:
- Cass. 13494/2015: la discordanza tra le somme riscosse tramite carte/POS e i ricavi dichiarati costituisce di per sé presunzione (semplice) di maggiori ricavi occultati. In altre parole, se non contestata specificamente dal contribuente, la differenza “integra senz’altro una presunzione legale di maggiori ricavi, corrispondenti alle rimesse attive della carta di credito e del bancomat”. Resta salvo il diritto del contribuente di provare specificamente una diversa destinazione di quegli accrediti (ad esempio dimostrando che non si trattava di corrispettivi di vendita, ma di partite estranee all’attività). Questa pronuncia ha consolidato l’analogia tra i versamenti su conto corrente bancario non giustificati (già considerati ricavi presunti ex art. 32 DPR 600/73) e gli accrediti da POS non accompagnati da scontrini/fatture.
- Cass. 21078/2018 e 20109/2018: (richiamate in successive pronunce) hanno ribadito che l’Ufficio finanziario deve fornire solo indizi – quale il dato oggettivo di pagamenti elettronici superiori ai ricavi contabilizzati – i quali, se non adeguatamente contestati, valgono come presunzioni. Non si tratta di una illegittima “doppia presunzione” (presumere un fatto già presunto) perché il fatto noto da cui si muove il Fisco è concreto e documentale: l’avvenuto incasso elettronico, tracciato dai sistemi bancari. Da esso, logicamente, si risale al fatto ignoto – ulteriori ricavi non dichiarati – senza compiere ulteriori salti presuntivi. La Cassazione ha espressamente escluso, in questi casi, la violazione del divieto di praesumptum de praesumpto, argomentando che il discrimine sta proprio nella concretezza del dato di partenza (l’incasso risultante).
- Cass. 15586/2020: ordinanza importantissima (depositata il 22 luglio 2020) che ha fatto chiarezza su oneri probatori e natura della presunzione. La Suprema Corte ha statuito che l’evidenza di “pagamenti tramite POS e carte di credito in numero superiore agli scontrini emessi” è un fatto noto concreto e “determinante per il sorgere della presunzione di maggiori ricavi”. Ciò fa sorgere in capo al contribuente l’onere di dimostrare, con idonea documentazione, l’assenza di qualsiasi scostamento e di giustificare con documenti fiscali tutti gli incassi rilevati dall’Ufficio. Nella vicenda oggetto della sentenza, una ditta di abbigliamento aveva emesso in un anno scontrini per soli 18.000€, a fronte di pagamenti elettronici accreditati per oltre 80.000€; la contribuente provava a giustificare la differenza ipotizzando ritardi nella stampa degli scontrini o lavorazioni aggiuntive sui capi, senza però fornire prova documentale concreta. La Cassazione ha quindi confermato la legittimità dell’accertamento: la contribuente non aveva saputo produrre gli scontrini “mancanti” né altra giustificazione valida, per cui la presunzione reggeva. In sintesi, nessuna violazione del riparto dell’onere probatorio: all’Ufficio basta il dato indiziante, il contribuente deve controprovare.
- Cass. 22122/2021: ordinanza depositata il 3 agosto 2021, relativa a un caso di un salone di parrucchiere, utile per comprendere come più elementi indiziari possano sommarsi. In appello l’Ufficio aveva evidenziato non solo la mancata coincidenza tra incassi POS e ricevute fiscali, ma anche altre anomalie: “non irrilevante scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli ricavabili dalle caratteristiche dell’attività, bassa redditività in relazione al personale, notorietà e ampiezza del locale, tenore di vita non coerente coi redditi dichiarati”. Tutti fattori “gravi, precisi e concordanti” secondo la CTR. La Cassazione ha confermato che tali elementi costituivano valida prova presuntiva di maggior reddito non dichiarato, incombenza del contribuente fornire elementi idonei a smentirli. In quella vicenda, né in sede amministrativa né in giudizio il contribuente era riuscito a ribaltare il quadro indiziario, per cui l’accertamento analitico-induttivo è stato ritenuto legittimo.
Conclusione sui principi: in caso di contestazione di incassi da POS non dichiarati, si parte da una presunzione iuris tantum (non assoluta): il Fisco presume che i pagamenti elettronici non accompagnati da idonei documenti fiscali siano ricavi in nero. Questa presunzione soddisfa i requisiti di legge, come riconosciuto dalla Cassazione, e sposta sul contribuente l’onere di provare il contrario. Non è compito dell’Ufficio dimostrare esattamente la natura di quei flussi finanziari; basta segnalarne la difformità rispetto alle dichiarazioni. Sta al contribuente, in sede di contraddittorio e/o di ricorso, fornire elementi specifici e documentati che spieghino perché taluni incassi POS non risultano tra i corrispettivi dichiarati.
Esempi di possibili giustificazioni accettabili (approfondite in seguito) includono: prove di storni o rimborsi al cliente, documentazione di pagamenti duplicati per errore poi annullati, evidenza che alcuni incassi riguardavano operazioni non soggette a certificazione (es. versamenti di soci, acconti restituiti, ecc.), oppure che transitavano su POS intestati a soggetti terzi (come piattaforme online) e sono stati dichiarati separatamente. In mancanza di tali dimostrazioni, la presunzione rimane e l’accertamento di maggiori ricavi verrà confermato anche in giudizio.
Da notare che recentemente la Cassazione, Sez. Trib., Sent. 18060/2024 (1° luglio 2024) ha puntualizzato che il cosiddetto “divieto di doppie presunzioni” non ha portata generale nel diritto tributario. Ciò significa che il contribuente non può limitarsi a eccepire in astratto che l’accertamento si basa su presunzioni di secondo grado: occorre invece contestare la concretezza e precisione del fatto noto posto a base. Nel nostro caso, il fatto noto – incassi POS superiori ai corrispettivi – è concreto e documentato, quindi l’approccio induttivo è lecito.
Riassumendo: dal punto di vista normativo, la presunzione di ricavi non dichiarati per incassi tracciati non contabilizzati trova fondamento nell’art. 32 DPR 600/1973 (per le imposte sui redditi) e art. 51 DPR 633/1972 (per l’IVA), che consentono all’Amministrazione di utilizzare i dati risultanti da conti correnti e transazioni finanziarie come prove di base per accertamenti. Tali norme prevedono che “le notizie e i dati non addotti dal contribuente in sede di controllo e gli atti, documenti e registri non esibiti all’Ufficio su richiesta non possano essere poi considerati a favore in sede contenziosa”, salvo cause di forza maggiore. Questo per incentivare la collaborazione nella fase amministrativa. Inoltre, l’art. 39 DPR 600/1973 permette l’accertamento induttivo (anche solo in parte) quando vi sono irregolarità nelle scritture o elementi esterni che fanno fondatamente presumere maggiori ricavi. La mancata corrispondenza tra POS e scontrini è proprio uno di questi elementi.
Nei prossimi paragrafi passeremo dall’analisi teorica alle strategie pratiche di difesa: cosa fare quando arriva la lettera del Fisco, come attivarsi in sede di compliance, quali strumenti mettere in campo (ravvedimento, adesione, ricorso) e come documentare le proprie ragioni.
Normativa di riferimento e sanzioni in caso di mancata dichiarazione di incassi
Prima di esaminare le strategie difensive, è fondamentale conoscere le norme italiane che disciplinano la materia e le sanzioni previste. Il quadro normativo coinvolge sia disposizioni procedurali sull’accertamento, sia sanzioni amministrative tributarie, oltre a possibili profili penali se l’evasione supera certe soglie. Ecco una panoramica dei riferimenti principali:
Accertamento tributario e poteri del Fisco:
- D.P.R. 29/09/1973 n. 600, art. 32: disciplina l’utilizzo dei dati bancari e di altre informazioni finanziarie. In sintesi, consente agli Uffici di richiedere a banche e intermediari dati sui conti e operazioni dei contribuenti; i versamenti non giustificati sui conti dei soggetti esercenti attività economiche si presumono ricavi (per i privati non imprenditori/professionisti la presunzione legale vale solo per i versamenti, non per i prelevamenti, dopo una modifica del 2014). Importante: il comma 4 prevede che documenti non esibiti dal contribuente in risposta a richiesta non possano essere poi utilizzati a suo favore in sede di accertamento o contenzioso (a meno di cause non imputabili). Questa norma, recentemente passata indenne al vaglio di costituzionalità (Corte Cost. sent. 137/2025, che ha dichiarato infondate le questioni sollevate), impone al contribuente di collaborare nel fornire documentazione: in caso di contestazione incassi POS, se l’ufficio chiede spiegazioni e documenti, è vitale fornirli subito, perché poi in causa non verranno ammessi nuovi documenti che si potevano dare prima.
- D.P.R. 29/09/1973 n. 600, art. 39 comma 1 lett. d) e comma 2: regola l’accertamento analitico-induttivo per le imposte sui redditi. Se le scritture contabili presentano irregolarità gravi o vi sono elementi esterni (come gli incassi non registrati) che lasciano supporre attività non dichiarate, l’Agenzia può determinare il reddito imponibile basandosi in parte sui registri e in parte su presunzioni (semplici, purché gravi/precise/concordanti). Nel nostro caso, l’ufficio generalmente non disconosce in toto le scritture (che magari per il resto sono tenute regolarmente), ma integra i ricavi dichiarati con quelli presunti in base ai flussi POS. Si tratta di un accertamento “ibrido”: analitico nella parte in cui considera i dati contabili forniti, induttivo per la parte ricostruita tramite presunzioni.
- D.P.R. 26/10/1972 n. 633, art. 54 commi 2 e 3: analoga previsione sul fronte IVA. Consente l’accertamento induttivo dell’IVA dovuta quando vi sono omissioni di operazioni imponibili o incongruenze rispetto agli elementi disponibili. Anche qui le presunzioni semplici possono fondare l’accertamento se hanno le caratteristiche richieste. Un incasso elettronico non fatturato configura tipicamente un’operazione imponibile non dichiarata. L’ufficio recupererà dunque l’IVA relativa.
- Statuto del Contribuente (L. 212/2000), art. 12 e art. 5: lo Statuto prevede garanzie procedurali durante i controlli. Ad esempio, se vi è una verifica in loco (ispezione presso il locale dell’azienda), il contribuente ha diritto a 60 giorni per presentare osservazioni prima che venga emesso un accertamento (art. 12, c.7). Nei controlli da remoto (es. anomalia da incrocio dati), spesso l’ufficio invia comunque una comunicazione preventiva o attiva un contraddittorio (anche solo tramite lettera di compliance) prima di emettere l’avviso formale. L’art. 5 Statuto incoraggia l’Amministrazione a informare il contribuente di eventuali dati discordanti, per favorire una correzione spontanea: in sostanza, è alla base dell’istituto della compliance fiscale.
- Provvedimento AE 3 ottobre 2023 n. 352652/2023: è l’atto attuativo che ha dato il via alle lettere di compliance sugli incassi POS per l’anno d’imposta 2022 (e poi 2023). In tale provvedimento sono specificati i criteri di selezione delle posizioni anomale e i contenuti della comunicazione: mesi in cui si riscontra scostamento, importi giornalieri incassati elettronicamente, differenza rispetto a imponibile+IVA dichiarati, identificativi dei POS e dell’operatore finanziario. Questa comunicazione non è un atto impositivo, ma un invito a verificare e spiegare le anomalie o a ravvedersi.
Sanzioni amministrative per mancata dichiarazione di ricavi e omessa certificazione:
- Omessa o infedele indicazione di ricavi nella dichiarazione dei redditi (art. 1 D.Lgs. 471/1997): se a seguito dell’accertamento emerge un maggior reddito imponibile, si applica una sanzione dal 90% al 180% della maggior imposta IRPEF/IRES evasa. Stessa forbice sanzionatoria (90-180%) è prevista dall’art. 5 D.Lgs. 471/97 per l’IVA dovuta in più. In pratica, per ogni euro di imposta (diretta o IVA) non dichiarata e accertata, il contribuente rischia quasi un altro euro di multa (importo base 100%, riducibile o aumentabile a seconda delle circostanze). Se però il contribuente accetta l’accertamento senza fare ricorso (acquiescenza), la sanzione viene ridotta a 1/3 del minimo, quindi ad esempio il 30% (più interessi).
- Mancata emissione di fattura o scontrino (art. 6 D.Lgs. 471/1997): è la sanzione specifica per la violazione dell’obbligo di certificazione dei corrispettivi. Per ogni operazione non documentata (scontrino o ricevuta omessi, fattura omessa) la sanzione è pari al 90% dell’imposta (IVA) relativa all’importo non documentato, con un minimo di 500 € per ciascuna operazione. Ciò significa che anche piccole omissioni costano care: ad es., 5 caffè da 1€ non scontrinati – IVA evasa 0,10€ ciascuno – comportano 500€ di multa ognuno, quindi 2.500€ totale. Se l’IVA evasa su un’operazione supera 500€, la sanzione è il 90% dell’IVA (in tal caso l’importo percentuale supera il minimo). Questa sanzione colpisce il comportamento omissivo formale (non aver emesso il documento fiscale). È spesso cumulativa con la sanzione per infedele dichiarazione: infatti l’esercente che non batte lo scontrino generalmente non conteggia quel ricavo né l’IVA in dichiarazione, commettendo due violazioni. Tuttavia, la giurisprudenza talora applica il principio di specialità o di assorbimento: se l’omessa fatturazione è già punita come infedele dichiarazione, la sanzione principale potrebbe assorbire quella accessoria. Ma non sempre l’Ufficio rinuncia, specie se le operazioni non documentate sono tante e singolarmente sanzionabili.
- Sanzioni accessorie – Sospensione dell’attività (art. 12 D.Lgs. 471/1997): il legislatore prevede misure afflittive ulteriori per i casi reiterati di mancata emissione di scontrini/fatture. In particolare, qualora vengano contestate dall’AE quattro distinte violazioni di omessa certificazione dei corrispettivi in giorni diversi nell’arco di un quinquennio, si applica la chiusura temporanea dell’esercizio da 3 giorni fino a 1 mese. Se c’è recidiva (altri quattro episodi nei cinque anni successivi), la sospensione va da 15 giorni a 2 mesi. Inoltre, esiste una sanzione accessoria immediata qualora l’ammontare complessivo dei corrispettivi non documentati, accertati in un’unica verifica, ecceda €50.000: in tal caso l’Ufficio può disporre la sospensione della licenza o attività per 3 giorni fino a 1 mese. Questa soglia dei 50.000 € è stata introdotta per colpire evasioni “consistenti” anche al primo controllo. Ad esempio, un ristorante sorpreso dalla Guardia di Finanza ad aver non emesso scontrini per oltre 50mila euro in un periodo, può subire la chiusura immediata per qualche settimana, oltre alle sanzioni pecuniarie. Va detto che l’applicazione effettiva di queste chiusure avviene con provvedimento del Direttore dell’Ufficio locale e il contribuente può fare ricorso d’urgenza al giudice tributario per sospenderle, se ne ricorrono i presupposti (ne parliamo più avanti).
- Obbligo di collegamento tra POS e registratore di cassa (novità 2024/2025): la Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) ha introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2026, l’obbligo per gli esercenti di utilizzare sistemi di cassa e POS interconnessi permanentemente. In pratica, il registratore telematico e il dispositivo di pagamento elettronico dovranno dialogare, in modo che ogni transazione con carta venga automaticamente registrata e trasmessa nei corrispettivi giornalieri, senza possibilità di “saltare” l’emissione dello scontrino. La norma (modifica all’art. 2 D.Lgs. 127/2015) mira a eliminare alla radice il problema delle discrepanze tra incassi e scontrini. Contestualmente, il legislatore ha previsto sanzioni per chi non si adegua: la mancata integrazione POS-registratore sarà punita con multa da 1.000 a 4.000 euro (equiparata all’omessa installazione del registratore di cassa). Inoltre, tale violazione (mancato collegamento) è stata inclusa tra quelle che possono condurre alla sospensione dell’attività in caso di recidiva grave (sospensione 15 giorni – 6 mesi per reiterato mancato collegamento, analogamente a quanto visto per gli scontrini). Queste misure evidenziano la direzione del legislatore: in futuro, anomalie tra POS e corrispettivi dovrebbero divenire quasi impossibili, perché il sistema emetterà lo scontrino in automatico ogniqualvolta vi sia un pagamento elettronico.
Profili penali (D.Lgs. 74/2000): l’omessa dichiarazione di ricavi o l’annotazione di ricavi inferiori al reale può integrare reati tributari se supera determinate soglie:
- Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): è il reato di chi indica nella dichiarazione annuale elementi attivi inferiori a quelli effettivi, evadendo imposta oltre €100.000. Vi è anche una soglia quantitativa assoluta: la legge richiede che i ricavi non dichiarati superino il 10% del totale dichiarato oppure €2 milioni. Se tali condizioni sono integrate con dolo di evasione, la pena va da 2 anni a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Nel caso dei POS non dichiarati, qualora i maggiori ricavi determinino imposte evase sopra 100mila €, il contribuente rischia una denuncia per dichiarazione infedele. Tuttavia, esistono cause di non punibilità: ad esempio errori di calcolo sotto il 10%, o – soprattutto – il pagamento del debito tributario. Infatti la legge prevede che il ravvedimento operoso con pagamento integrale di imposte/sanzioni/ interessi prima del giudizio penale estingue il reato per alcune fattispecie (tra cui l’infedele dichiarazione). Dunque, un contribuente che si ravvede e paga tutto quanto dovuto prima che il PM formuli la contestazione definitiva può evitare conseguenze penali.
- Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): se il contribuente non presenta affatto la dichiarazione annuale e l’imposta evasa supera €50.000, scatta un reato più grave, punito con reclusione 2–5 anni. Questo di solito si riferisce a chi non presenta la dichiarazione IVA o dei redditi. Nel nostro contesto, è meno frequente: parliamo di soggetti che dichiarano qualcosa, ma meno del dovuto (infedele). Se invece uno non avesse presentato proprio la dichiarazione e dagli incassi POS risultasse che aveva un volume d’affari occulto, potrebbe configurarsi omessa dichiarazione (oltre soglia).
- Emissione di fatture false (art. 2) o Altri reati (occultamento scritture, ecc.): attengono a condotte fraudolente più complesse, in genere non in questione nel caso “tipico” di incassi in nero (che di solito è evasione semplice, non frode con false fatture). È però possibile che, per giustificare i flussi non dichiarati, qualcuno produca documenti falsi a posteriori: ciò costituirebbe reato a sé (es. dichiarazione fraudolenta), con pene anche più alte.
In ogni caso, la soglia penale rilevante per i ricavi non dichiarati è 100.000 € di imposta evasa per imposta (IRPEF, IRES o IVA). Per dare un’idea, se un commerciante avesse occultato 400.000 € di incassi (IVA 22%), l’IVA evasa sarebbe ~88.000 € (sotto soglia penale IVA) ma l’IRPEF evasa potrebbe essere magari 120.000 € (oltre soglia: reato). Fortunatamente, come detto, pagando il dovuto si può evitare la condanna: la “causa di non punibilità” introdotta nel 2019 consente l’estinzione del reato infedele se prima dell’apertura del dibattimento penale il contribuente paga integralmente imposte, interessi e sanzioni amministrative (anche avvalendosi di istituti conciliativi). Questo incentivo spinge, di fatto, chi ha grosse pendenze a trovare un accordo col Fisco (magari mediante adesione o conciliazione giudiziale) e versare tutto, pur di evitare guai penali.
Dopo aver inquadrato le norme, passiamo all’azione pratica: cosa fare quando si riceve una comunicazione o un avviso su incassi POS non dichiarati. Illustreremo prima la fase “preventiva” della compliance e del ravvedimento, poi la difesa in caso di atto già emesso (accertamento esecutivo), con tutte le opzioni a disposizione del contribuente.
La procedura di compliance: lettere per incassi POS non dichiarati
Un elemento centrale della strategia difensiva del contribuente è giocare d’anticipo sfruttando la fase di compliance. Anziché subire passivamente un accertamento con sanzioni piene, è spesso possibile intervenire prima, non appena l’Agenzia segnala l’anomalia. Dal 2023 l’Amministrazione finanziaria ha messo in atto una campagna di “compliance potenziata” proprio sugli incassi POS non dichiarati, volta a favorire l’emersione spontanea delle basi imponibili.
Come funziona la lettera di compliance POS
Se i sistemi dell’Agenzia rilevano una discrepanza significativa tra il totale dei pagamenti elettronici comunicati dai POS e l’ammontare di vendite fatturate/scontrinate, il contribuente viene contattato con una comunicazione bonaria (via PEC o posta ordinaria, non è un atto impositivo). Questa lettera indica:
- Periodo di riferimento (es. anno d’imposta 2022) e i mesi in cui sono state riscontrate incongruenze.
- Importi giornalieri incassati con carte/POS, al netto di eventuali stornI (rimborsi) registrati, per i giorni in cui vi è scostamento.
- Importo di imponibile+IVA dichiarato per quei giorni (somma di corrispettivi giornalieri e fatture emesse).
- Differenza mensile tra incassi elettronici e corrispettivi dichiarati.
- Identificativi dei POS coinvolti e il codice fiscale dell’operatore finanziario che ha trasmesso i dati (utile per capire, ad esempio, se si tratta del proprio circuito bancario principale o di altri sistemi di pagamento).
- Indicazioni di come accedere ai dettagli nel proprio Cassetto Fiscale sul portale AE, sezione “Fatture e Corrispettivi”, dove sono rese disponibili anche alla Guardia di Finanza tutte queste informazioni.
La comunicazione richiama inoltre le possibilità offerte al contribuente:
- Fornire chiarimenti all’Agenzia, comunicando “elementi, fatti e circostanze non conosciuti” che spieghino l’anomalia. Ciò può avvenire tramite contatto con il call center, via PEC all’ufficio, oppure caricando documenti giustificativi nell’apposita sezione del portale. Si tratta, in pratica, di instaurare un contraddittorio informale: il contribuente spiega perché quei incassi extra non costituiscono evasione (se ha una spiegazione valida).
- Regolarizzare errori od omissioni tramite il ravvedimento operoso. La lettera tipicamente ricorda che si può ricorrere all’art. 13 D.Lgs. 472/1997 per sanare la violazione con sanzioni ridotte in ragione del tempo trascorso. Nel caso di incassi non dichiarati, ravvedersi significa emettere ora i documenti fiscali mancanti (fatture o scontrini), integrare le dichiarazioni fiscali e versare le imposte dovute più le sanzioni ridotte e gli interessi. Di questo parleremo a breve nel dettaglio.
Di solito nella lettera non viene imposto un termine per rispondere, ma agire tempestivamente è cruciale. Se il contribuente ignora la comunicazione, l’Agenzia – trascorso un congruo periodo – procede ad iscrivere a controllo formale quella posizione, potenzialmente emettendo un avviso di accertamento con recupero di imposte e sanzioni piene. Dunque la lettera è un’opportunità da non perdere per evitare il peggio.
È importante segnalare che la prima ondata di queste lettere (inviate tra ottobre e novembre 2023 per l’anno 2022) ha sofferto di notevoli problemi di affidabilità dei dati. Molti contribuenti hanno ricevuto contestazioni di incassi duplicati o sovrastimati. In alcuni casi, gli importi comunicati risultavano addirittura raddoppiati o triplicati rispetto al reale, replicando in modo sistematico lo stesso dato. Si trattava di un errore dovuto ad alcuni operatori finanziari che avevano inviato dati errati all’Anagrafe tributaria (ad esempio trasmettendo due volte lo stesso flusso giornaliero). L’Agenzia delle Entrate, con un raro gesto pubblico, ha dovuto scusarsi ufficialmente e annullare in autotutela le lettere di compliance sbagliate, tramite un apposito Comunicato Stampa dell’11/10/2023. In tale comunicato si chiariva che l’errore era dipeso esclusivamente dai dati forniti dai provider di pagamento, e che l’Agenzia avrebbe provveduto a inviare comunicazioni di annullamento ai soggetti interessati.
Questo “incidente di percorso” ha spinto l’Amministrazione a migliorare le procedure: nel 2024 è stato avviato un confronto tecnico continuo con gli operatori finanziari per verificare la qualità dei dati prima di spedire le nuove lettere. Inoltre, molte posizioni 2022 che erano state segnalate erroneamente sono state riviste: a partire da luglio 2024, l’Agenzia ha inviato nuove segnalazioni mirate solo ai soggetti effettivamente a rischio, con dati corretti. Contestualmente sono partite le lettere per l’anno d’imposta 2023 (inviate presumibilmente tra fine 2024 e inizio 2025), con la promessa di una maggiore precisione rispetto all’operazione precedente.
Esempio: Un commerciante nel 2022 dichiara corrispettivi da carte per 50.000€. La banca tuttavia ha trasmesso all’AE un totale di 100.000€ incassati via POS. Nel 2023 riceve una lettera che segnala 50.000€ di incassi “non spiegati”. Il commerciante, confrontando i dati, scopre che il suo gestore POS ha erroneamente inviato due volte alcune giornate di incassi (magari per un disguido tecnico). Se non facesse nulla, il Fisco riterrebbe non dichiarati 50.000€ di ricavi e procederebbe a tassarli recuperando IVA, imposte e sanzioni ~€45.000. Ma fornendo subito i riscontri – ad es. estratti conto che mostrano che l’accredito effettivo era la metà – l’Agenzia annulla la lettera e non effettua alcun accertamento. Morale: rispondere per tempo evita conseguenze. (Questo scenario è stato purtroppo comune nell’ottobre 2023, poi sanato con le scuse dell’Agenzia.)
La morale pratica è che alla ricezione di una lettera simile occorre: a) verificare con attenzione i dati, senza dare per scontato che siano corretti; b) interagire con l’Agenzia, fornendo spiegazioni oppure procedendo a regolarizzare la situazione. Vediamo ora come regolarizzare mediante ravvedimento operoso.
Regolarizzare con il ravvedimento operoso
Il Ravvedimento Operoso (art. 13 D.Lgs. 472/1997) è uno strumento fondamentale di “compliance spontanea” a disposizione del contribuente. Esso consente di sanare violazioni tributarie commesse, beneficiando di una riduzione delle sanzioni proporzionale alla tempestività del ravvedimento. In caso di incassi non dichiarati, il ravvedimento consente di emettere i documenti fiscali mancanti e versare le imposte dovute con sanzioni ridotte, evitando così un futuro accertamento con sanzioni piene e possibili conseguenze penali.
Come procedere:
- Emissione dei documenti fiscali mancanti: se si tratta di corrispettivi non registrati, il contribuente (commerciante) dovrebbe emettere ora gli scontrini/ricevute per le operazioni pregresse non documentate, oppure (se tenuto a fattura) emettere fatture tardive ai clienti. Dal punto di vista IVA, trattandosi di operazioni riferite a un periodo passato, sarà necessario fare delle fatture “dimenticate” (o autofatture) con data odierna ma riferimento al periodo, o quantomeno predisporre un elenco analitico. Questa parte documentale non è sempre semplice, ma è essenziale avere un riferimento per collegare i versamenti ai corrispettivi ravveduti.
- Presentazione di dichiarazioni integrative: occorre poi rettificare le dichiarazioni fiscali (IVA e Redditi) dell’anno in questione, inserendo i maggiori ricavi. Se l’anno è ancora emendabile (in genere si possono presentare dichiarazioni integrative entro i termini di decadenza dell’accertamento, quindi fino al 31/12 del quinto anno successivo), si farà un’integrativa versando contestualmente la maggiore imposta dovuta. Se il termine fosse scaduto (es. ravvedimento nel 2025 per anno 2018 ormai decaduto), si può comunque ravvedere l’omessa fatturazione come violazione formale, ma la possibilità di portare quei redditi in dichiarazione ai fini imposte dirette è limitata.
- Calcolo e versamento delle imposte dovute: per l’IVA, si versa l’imposta relativa ai corrispettivi non dichiarati, con interessi calcolati dal momento in cui l’avrebbe dovuta versare (interessi legali al tasso vigente pro tempore; dal 1/1/2023 erano al 5%, dal 1/1/2024 5%, dal 1/1/2025 2,5%). Per le imposte sui redditi, se si fa in tempo a presentare integrativa, si versa la differenza IRPEF/IRES e addizionali, più interessi.
- Calcolo e versamento delle sanzioni in forma ridotta: qui sta il vantaggio del ravvedimento. Invece di pagare il 90% (min 500) + eventuale 100% su imposte evase, si applicano riduzioni che dipendono dal tempo trascorso. Nel nostro caso:
- Sanzione ex art. 6 (mancata certificazione): base 90% dell’IVA di ogni operazione (min 500 cad.). Se ravvediamo oltre 1 anno ma entro 2 anni dalla violazione, la riduzione è a 1/7 del minimo. Se ravvediamo nell’anno successivo (entro 1 anno), è 1/8 del minimo; se entro 90 giorni, 1/9, e così via (scale: 1/10 se entro 30gg, 1/9 entro 90gg, 1/8 entro 1 anno, 1/7 entro 2 anni, 1/6 oltre 2 anni ma prima di accertamento).
- Quindi, ad esempio, per 5 scontrini omessi da 1€ (IVA 0,10€, multa base 500€ ciascuno = 2500€ totali): se ravvedo nel 2024 per violazioni 2022, applico 1/7: la sanzione diventa ~71,43€ a scontrino, quindi ~357€ totali invece di 2500€. Un risparmio enorme.
- Sanzione ex art. 1 (infedele dichiarazione): base 90%. Ravvedendosi prima di formale contestazione, questa sanzione si riduce anch’essa (è dovuta solo se i ricavi omessi hanno comportato imposta evasa > €50 circa, altrimenti sarebbe dichiarazione infedele non punibile). In genere se correggi volontariamente la dichiarazione, paghi una sanzione ridotta a 1/8 o 1/7 (a seconda dei tempi) del 90%, quindi ~11-12%.
- In pratica, se ci si muove entro l’anno successivo, il “costo” del ravvedimento è una sanzione del 12,5% circa dell’imposta dovuta (1/8 di 100%). Entro il secondo anno sale a ~14,3%. Dopo due anni 16,7%. Sempre molto meglio di 90% + rischio di 30% residuo.
- Modalità pratiche: si compila il modello F24 con i codici tributo appositi per sanzioni da ravvedimento e si effettua il pagamento. Ad esempio, per IVA c’è un codice tributo per l’imposta e uno per la sanzione art. 6 ravveduta, per l’IRPEF analogamente.
- Comunicazione all’Agenzia: non obbligatoria, ma consigliata. Dopo aver fatto tutto, si può inviare all’Ufficio una nota indicando che si è proceduto a ravvedimento per la violazione segnalata nella lettera compliance, allegando copia degli F24 pagati e degli eventuali documenti emessi tardivamente. Questo per chiudere il cerchio e assicurarsi che non vi siano malintesi.
Effetti del ravvedimento: se fatto correttamente, estingue la violazione ed evita l’emissione dell’avviso di accertamento. L’Agenzia, ricevendo i versamenti, normalmente archivia la posizione di quel contribuente. Occorre però “ravvedere” tutti gli aspetti: non solo la sanzione da mancata certificazione, ma anche l’IVA e le imposte dirette con i relativi interessi. Ad esempio, se uno sanasse solo la parte IVA ma non dichiarasse ai fini delle imposte sul reddito quei ricavi, rimarrebbe esposto a un accertamento IRPEF.
Un dettaglio: caso di violazioni già constatate. La regola generale vuole che il ravvedimento non sia ammesso se la violazione è già stata formalmente accertata (esempio: dopo un Processo Verbale di Constatazione della GdF, non ci si può ravvedere sulle materie constatate). Tuttavia, in via eccezionale, il legislatore ha aperto una finestra: con il D.L. 131/2023 (“Decreto Energia”) è stato consentito di ravvedere anche violazioni già contestatee entro il 31/10/2023, purché si paghi entro il 15/12/2023. Era una misura temporanea legata proprio alle lettere POS 2022 andate male: chi aveva ricevuto la lettera e magari addirittura un PVC entro ottobre 2023 poteva ancora regolarizzarsi entro dicembre. Oggi (luglio 2025) tale finestra è chiusa, ma potrebbe essere replicata in futuro se l’Agenzia volesse incoraggiare ravvedimenti tardivi prima di far partire migliaia di accertamenti.
Sanzioni accessorie e ravvedimento: se l’importo non documentato superava €50.000, come detto scatterebbe la sospensione licenza entro qualche mese. Non è chiarissimo se ravvedendosi spontaneamente il contribuente eviti del tutto questa sanzione accessoria. In genere, la sospensione scatta quando le violazioni vengono contestatee quattro volte o superano 50k in un accertamento. Se ci si ravvede prima che vi sia contestazione formale, si potrebbe sostenere che la violazione non è stata contestata, quindi il presupposto per la chiusura coattiva viene meno. Di fatto, l’Agenzia tende a non proporre la chiusura se il contribuente ha sanato di sua iniziativa: la ratio punitiva viene meno. È comunque un aspetto da monitorare caso per caso.
Limiti del ravvedimento: ravvedersi conviene sempre sotto il profilo economico, ma implica riconoscere la violazione. Se il contribuente è invece convinto che la contestazione sia infondata (ad esempio perché i dati del Fisco sono errati), è preferibile non ravvedersi – il ravvedimento infatti presuppone un’ammissione implicita di irregolarità. In tal caso, meglio fornire spiegazioni e, se non accolte, prepararsi a difendersi in sede di accertamento.
In conclusione, il ravvedimento operoso è la prima linea di difesa “attiva”: permette di circoscrivere il danno, pagando il dovuto con sanzioni ridotte invece di attendere l’atto impositivo. Nel prossimo paragrafo ipotizzeremo situazioni in cui il contribuente può dover passare alla fase contenziosa vera e propria (ricorso, ecc.) e vedremo come affrontarle. Prima però, uno sguardo panoramico alle diverse opzioni che un contribuente ha di fronte a un avviso di accertamento esecutivo per incassi non dichiarati.
Accertamento esecutivo: caratteristiche e opzioni di difesa
Se il contribuente non ha sfruttato (o non ha potuto sfruttare) la fase di compliance preventiva – oppure se nonostante le sue spiegazioni l’Agenzia insiste nelle pretese ritenendole non meritevoli di accoglimento – si arriva all’emissione di un Avviso di Accertamento vero e proprio. Nel nostro caso, sarà un avviso in ambito imposte dirette/IVA, basato sull’art. 39 DPR 600/73 e 54 DPR 633/72, con recupero di maggior imponibile e relative sanzioni.
Da oltre un decennio ormai (dal 1° ottobre 2011) gli avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate sono emessi in forma di “accertamento esecutivo”. Ciò significa che contengono al loro interno l’intimazione ad adempiere entro 60 giorni e, decorso tale termine, valgono automaticamente come titolo esecutivo per la riscossione coattiva. In pratica, non c’è più bisogno che dopo l’accertamento venga notificata una cartella esattoriale: passato il termine per ricorrere, l’importo accertato diventa esigibile e l’Agenzia delle Entrate-Riscossione può procedere (previa un semplice avviso di presa in carico del ruolo).
Caratteristiche chiave di un avviso di accertamento esecutivo:
- Vale per gli atti emessi dal 1/10/2011 relativi a periodi d’imposta dal 2007 in poi (nel 2025 dunque la quasi totalità dei possibili accertamenti ricade in questa categoria).
- Deve riportare espressamente l’indicazione che, trascorsi 60 giorni, l’atto acquista efficacia esecutiva e che entro tale termine si può proporre ricorso.
- Riguarda le imposte maggiori accertate (IRPEF/IRES, IVA, IRAP) e include già le sanzioni e gli interessi dovuti. Il totale viene intimato per il pagamento in solido.
- Dopo i 60 giorni senza pagamento integrale né ricorso, l’ufficio attende ulteriori 30 giorni, poi affida il carico all’Agente della Riscossione (AdER). Tuttavia, dal 2011 esiste una “moratoria” integrata: l’atto non viene reso esecutivo all’AdER per altri 180 giorni (6 mesi), salvo casi di particolare urgenza (pericolo per la riscossione, in cui il Fisco può agire prima con misure cautelari tipo ipoteca).
- Trascorsi anche i 180 giorni, se nulla è accaduto (né pagamento, né sospensione), l’Agente della Riscossione può iniziare le procedure esecutive: pignoramenti, fermi amministrativi, ecc. Come si vede, quindi, rispetto al passato in cui spesso passavano anni tra accertamento e riscossione, oggi tutto può avvenire in meno di un anno.
Schema temporale (accertamento esecutivo): Notifica avviso → (0-60 gg) attesa per pagamento o ricorso → [se nulla accade] (61-90 gg) formazione ruolo e invio a Riscossione → (91-270 gg) sospensione legale 6 mesi → decorso questo termine, in assenza di ricorsi pendenti con sospensione giudiziale, l’Agente può procedere con ingiunzioni, pignoramenti, etc.
È chiaro che per il contribuente inattivo (“inerte”) i rischi patrimoniali sono molto concreti e rapidi: “i rischi di ricevere attacchi sul patrimonio si manifestano davvero in tempi più stretti rispetto al passato”. Dunque l’inerzia è l’atteggiamento peggiore.
In generale, di fronte a un avviso di accertamento esecutivo il contribuente ha cinque possibili azioni (non mutualmente esclusive in certi casi):
- Pagare integralmente quanto richiesto entro 60 giorni (c.d. acquiescenza totale).
- Presentare ricorso tributario alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione tributaria) entro 60 giorni.
- Proporre istanza di accertamento con adesione entro 60 giorni, per avviare una trattativa con l’Ufficio (sospendendo nel frattempo i termini per ricorrere).
- Rimanere inerte (non consigliato, ma è una “non azione” possibile).
- Richiedere eventualmente in via amministrativa l’autotutela se si ravvisano errori nell’atto (questa non sospende nulla, ma può portare l’ufficio a correggere/annullare l’accertamento in casi lampanti).
A queste cinque linee si può aggiungere, in determinati frangenti, la possibilità di una definizione agevolata (ad es. se fosse prevista una “pace fiscale” o conciliazione agevolata entro certi limiti) – ma parliamo di ipotesi sporadiche legate a normative temporanee.
Delineiamo ciascuna opzione dal punto di vista del contribuente “debitore” che voglia difendersi al meglio.
1) Acquiescenza con pagamento (e riduzione delle sanzioni)
L’acquiescenza consiste nel non impugnare l’accertamento e pagare interamente le somme dovute entro il termine di legge (60 giorni). Questa scelta, se fatta tempestivamente, dà diritto a uno sconto sulle sanzioni amministrative: in genere le sanzioni vengono ridotte a 1/3 di quanto contestato (o a 1/3 del minimo edittale se la sanzione contestata era superiore al minimo). Ad esempio, se l’avviso applicava 10.000€ di sanzioni, pagandole subito se ne dovrebbero 3.333€.
Vantaggi:
- Si chiude immediatamente la partita, evitando il protrarsi di interessi moratori e evitando le incertezze del contenzioso.
- Lo sconto sulle sanzioni può essere consistente, specialmente se erano applicate al massimo. Con acquiescenza è come ottenere un “patteggiamento” amministrativo.
- Si evitano anche eventuali costi di giudizio e spese legali (che in caso di soccombenza potrebbero essere poste a carico del contribuente).
Svantaggi:
- Bisogna disporre della liquidità per pagare in tempi brevi. Anche se la norma consente, su richiesta, di pagare un avviso in rate trimestrali (fino a 8 rate se importo > 5.000€, ex art. 15 DPR 602/73), la prima rata va comunque versata entro 60 giorni.
- Si rinuncia a qualsiasi contestazione: se il contribuente era in buona fede convinto di aver ragione, l’acquiescenza lo priva della chance di far valere le proprie ragioni in giudizio. Va intrapresa solo se si riconosce sostanzialmente la fondatezza (totale o almeno per gran parte) dell’accertamento.
L’acquiescenza totale (su tutto l’atto) va formalizzata con il pagamento. Non occorre presentare dichiarazioni formali all’ufficio, ma è bene notificare tramite PEC l’avvenuto pagamento chiedendo l’applicazione della riduzione 1/3. Se invece uno volesse accettare solo in parte l’accertamento, non è prevista acquiescenza parziale con sconto sanzioni: l’atto va o impugnato (per la parte contestata) o accettato integralmente.
Nota bene: l’acquiescenza è incompatibile con qualsiasi impugnazione. Se presenti ricorso, perdi lo sconto e devi pagare la sanzione intera in caso di sconfitta. C’è però un caso particolare: è possibile pagare solo una parte e fare ricorso sulla restante, ma in tal caso non si usufruisce della riduzione sanzioni (salvo che l’ufficio riconosca in via di adesione parziale qualcosa).
L’acquiescenza va valutata anche considerando i profili penali: se l’importo evaso supera soglie di reato, pagare subito quanto accertato (imposte, sanzioni, interessi) può mettere al riparo da procedimenti penali o comunque costituire causa di non punibilità (come visto prima). Dunque per chi intravede rischio penale, l’acquiescenza (o adesione) con pagamento integrale è quasi obbligata.
2) Accertamento con adesione (definizione concordata)
L’accertamento con adesione (disciplinato dal D.Lgs. 218/1997) è uno strumento che permette di evitare il giudizio trovando un accordo con l’Ufficio sulle somme da pagare.
Nel contesto di incassi POS non dichiarati, l’adesione può essere utile se il contribuente ritiene di poter convincere l’ufficio a ridurre in parte le pretese, ad esempio dimostrando documentalmente alcune giustificazioni che l’ufficio non aveva considerato, oppure ottenendo un trattamento più mite sulle sanzioni.
Come si attiva: entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, il contribuente può presentare un’istanza di adesione all’ufficio emittente. L’istanza deve contenere i riferimenti dell’atto e manifesta la volontà di discutere. Questo comporta la sospensione dei termini per fare ricorso per 90 giorni (il “tempo” dell’adesione) a partire dalla data di presentazione. Quindi, se l’accertamento è notificato il 1 marzo, il termine ricorso sarebbe 30 aprile; presentando istanza di adesione metti in pausa il countdown, che riprende solo dopo 90 giorni o dalla data di chiusura negativa della procedura.
L’ufficio convoca il contribuente (tipicamente tramite PEC o raccomandata) per un incontro – spesso in videoconferenza ultimamente – in cui si discute l’atto. Cosa succede durante l’adesione: è una sorta di negoziazione: il contribuente espone le proprie ragioni, può portare memorie, documenti (anche nuovi) e l’ufficio può mostrare apertura a rivedere l’accertamento. Nel caso di incassi non dichiarati, alcuni possibili esiti:
- L’ufficio accetta parziali giustificazioni. Es: su €100k contestati, il contribuente dimostra che €20k erano rimborsi ai clienti -> l’ufficio li esclude, e si accorda su €80k di ricavi in nero.
- L’ufficio può riconoscere la non intenzionalità e ridurre le sanzioni. Nella trattativa spesso l’AE offre sconti sanzionatori (ulteriori rispetto all’automatica riduzione per adesione).
- Se emergono discrepanze su margini o costi, l’ufficio potrebbe ridurre l’imponibile tenendo conto di costi non dedotti inizialmente. Ad esempio, se i ricavi extra comportano anche costi, in adesione possono essere riconosciuti (in accertamento a volte no).
- In alcuni casi, l’adesione può chiudersi con un nulla di fatto se il contribuente convince l’ufficio che l’accertamento è totalmente infondato: l’ufficio potrebbe annullare l’atto in autotutela durante la procedura. Questo però accade solo in casi eclatanti di errore.
Benefici dell’adesione:
- Se si raggiunge un accordo, si redige un atto di adesione con le nuove somme dovute. Le sanzioni vengono automaticamente ridotte ad 1/3 (simile all’acquiescenza) di quelle originarie oppure a un importo concordato più basso.
- Niente spese di giudizio, niente contenzioso. L’atto firmato dalle parti è definitivo e non più impugnabile, salvo in caso di vizi di volontà.
- Rateazione favorevole: l’importo da adesione si può pagare in 8 rate trimestrali (fino a 8 se supera 50.000 €; fino a 16 rate se supera 100.000 €) con interessi legali. La prima rata va pagata entro 20 giorni dalla firma.
- L’adesione comporta la non applicazione delle sanzioni accessorie (ad esempio la chiusura attività non viene disposta se si risolve per adesione, di norma).
- Si evita la “pena” del versamento di 1/3 immediato tipico del ricorso (vedi oltre). Durante l’adesione, finché c’è la sospensione, non devi pagare nulla.
Svantaggi:
- Se la trattativa fallisce, hai solo allungato i tempi ma devi poi fare ricorso comunque (il che però a volte è utile per prepararsi meglio).
- L’adesione richiede di trovare un compromesso: se il contribuente ha ragione al 100% e l’ufficio non molla, l’accordo può essere svantaggioso rispetto a vincere in giudizio. Ma se la vittoria in giudizio è incerta, qualche concessione può valere la pena.
- Non c’è un giudice terzo: è negoziare con la controparte stessa. Alcuni contribuenti diffidano di questa sede pensando che l’ufficio resterà sulle sue posizioni. In realtà spesso gli uffici hanno indicazioni di chiudere le adesioni ragionevoli per evitare contenziosi, quindi può esserci margine.
In relazione al nostro tema: immaginiamo un caso in cui il contribuente in sede di adesione porta le ricevute POS che mostrano 5 transazioni duplicate e stornate (che l’AE non aveva visto). L’ufficio potrebbe eliminarle dai ricavi contestati. Oppure il contribuente dimostra che i 50k contestati in realtà includono 10k di incassi di Gift Card vendute (che non andavano dichiarate come ricavi immediati, essendo anticipi). L’ufficio magari sposta tassazione al riscatto delle card e toglie la sanzione su quella parte. Così si arriva a un accordo su un importo inferiore.
Conclusione: l’adesione è altamente consigliata quando:
- C’è materiale probatorio da esibire e discutere che può ridurre la pretesa.
- Il contribuente cerca di guadagnare tempo (magari per reperire fondi o organizzare difesa) in modo “protetto”.
- L’entità iniziale della pretesa è tale da rendere rischioso andare in causa con sanzioni piene.
3) Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria)
Se non si paga né trova un accordo, la strada è la giustizia tributaria. Il contribuente può impugnare l’avviso di accertamento presentando ricorso entro 60 giorni dalla notifica (o più se sospeso dal tentativo di adesione). Dal 2023 le Commissioni Tributarie sono state rinominate “Corti di Giustizia Tributaria”: quella Provinciale ora è “Corte di Giustizia Tributaria di primo grado” e quella Regionale “di secondo grado”. La sostanza processuale comunque non è cambiata molto, salvo alcune riforme che potenziano il contraddittorio in appello e la possibilità di chiamare in causa l’AE per conciliazioni anche in Cassazione.
Passi fondamentali del ricorso:
- Redazione del ricorso: deve contenere i motivi di contestazione dell’atto, i fatti, le prove, l’indicazione del valore della controversia e la richiesta finale (annullamento totale/parziale). Nel nostro caso, i motivi tipici potrebbero essere:
- Insussistenza del presupposto: e.g., provare che gli incassi contestati non erano in realtà ricavi omessi (allegando estratti conto, documenti commerciali, etc. che mostrino rimborsi, duplicazioni, incassi di terzi, ecc.).
- Errori di calcolo: talvolta l’ufficio potrebbe aver calcolato l’IVA due volte, o non aver scomputato qualcosa.
- Violazioni procedurali: ad esempio, mancato contraddittorio endoprocedimentale. Su questo tema: per le imposte armonizzate (IVA), la giurisprudenza UE richiede il contraddittorio prima dell’atto, pena nullità, in alcune situazioni. Se l’AE avesse emesso avviso senza mai invitare il contribuente a spiegare (nemmeno con lettera compliance), si può eccepire la violazione del diritto al contraddittorio (non sempre accolta dai giudici, ma tentabile).
- Motivazione insufficiente: l’accertamento deve spiegare chiaramente il criterio di ricostruzione dei ricavi. Se l’atto non enuncia quali dati POS sono stati usati, quali differenze riscontrate, etc., potrebbe essere annullabile per difetto di motivazione.
- Doppia punizione: si può argomentare che applicare sia la sanzione 90% per omessa fatturazione sia quella 90-180% per infedele dichiarazione configuri un bis in idem sanzionatorio. Non è una linea sempre vincente, ma alcuni giudici hanno ridotto le sanzioni totali in casi simili (specie se le violazioni coincidenti).
- Prova contraria: più che un motivo è il cuore della difesa sul merito. Nel ricorso andranno allegati tutti i documenti che provano la tesi del contribuente. Ad esempio, se 20.000€ contestati erano in realtà un finanziamento dei soci transitato sul conto POS (caso raro ma possibile), allegare il contratto di finanziamento e l’estratto che mostra che quei soldi sono stati restituiti ai soci potrebbe convincere il giudice che non erano ricavi tassabili.
- Presentazione e notifica: il ricorso va notificato (via PEC se l’AE ha domicilio digitale, altrimenti raccomandata) all’Ufficio accertatore, e depositato presso la segreteria della Corte Tributaria competente entro 30 giorni dalla notifica all’Ufficio. Se il valore contestato > €3.000 è obbligatorio farsi assistere da un difensore abilitato (avvocato, commercialista o esperto trib.). Dato che in incassi POS anche poche migliaia di euro di IVA portano oltre 3k di controversia, praticamente servirà sempre un professionista.
- Pagamento frazionale obbligatorio: diversamente dall’adesione, col ricorso la legge prevede che, decorso il termine di 60 giorni, sia comunque dovuto il pagamento di 1/3 delle imposte accertate, al netto di interessi e sanzioni. Questo è un aspetto spesso non chiaro ai contribuenti: fare ricorso non sospende automaticamente la riscossione. Significa che su un importo accertato di, ad esempio, €30.000 di imposte, l’AdER può legittimamente richiedere ~€10.000 + interessi anche se il ricorso è pendente. Per evitare ciò, il contribuente deve presentare una istanza di sospensione al giudice tributario, motivando che l’esecuzione immediata gli causerebbe un danno grave e che il ricorso ha fumus (fondamento). Il giudice in tempi brevi (entro 180 gg max, ma di solito 1-2 mesi) decide sull’istanza: se la concede, blocca la riscossione fino alla sentenza di primo grado. Se la nega o non ci si pronuncia in tempo, l’AdER può procedere comunque per quel 1/3. Attenzione: l’istanza di sospensione va fatta contestualmente al ricorso (o anche dopo se emergono fatti nuovi), e richiede di dimostrare con documenti il periculum (es. bilanci che mostrano che l’azienda fallirebbe pagando subito, ecc.).
- Molti contribuenti, in caso di importi non eccessivi, preferiscono pagare il terzo ed evitare costi e incertezze della sospensiva (che non è scontata).
- Se poi il ricorso verrà accolto, quell’importo pagato verrà rimborsato. Se sarà respinto, allora a quel punto si dovrà pagare il resto (altri 2/3 più sanzioni). E se invece l’ufficio vincesse solo in parte, il rimborso/pagamento si adeguerà.
- Giudizio di primo grado: è prevalentemente scritto, ma con possibilità di pubblica udienza se richiesta (oggi obbligatoria su richiesta di una parte). Il contribuente può chiedere di essere ascoltato. Nel 2023 è stata anche introdotta la figura del giudice monocratico per le liti sotto €3.000 (non rilevante in questi casi di solito).
- Sentenza: la Corte Tributaria deciderà annullando, riducendo o confermando l’atto. Se conferma, il contribuente dovrà pagare oltre al restante 2/3 anche interessi maturati e una parte delle sanzioni (credo 1/3 era sospesa fino a esito primo grado per legge, se non erro dal 2011 se perdi in primo grado allora devi pagare un ulteriore 1/3, e il resto si sospende fino a appello; ma semplifichiamo dicendo che poi sarà dovuto tutto).
Come difendersi efficacemente in giudizio (nel merito):
La chiave è fornire al giudice prove e spiegazioni convincenti che smentiscano la presunzione del Fisco. Come già detto, il giudice conosce l’orientamento Cassazione: sa che l’onere di provare spetta al contribuente. Quindi arriverà all’udienza (o al momento decisione) aspettandosi di vedere elementi concreti portati dal ricorrente.
Esempi di elementi da produrre in giudizio:
- Copia degli scontrini fiscalI emessi a fronte di quei pagamenti elettronici (se ci sono ma magari con data diversa). Es: il commerciante potrebbe mostrare che tutti gli incassi di dicembre su POS corrispondono a scontrini emessi il 2 gennaio successivo (prassi non regolare ma che spiegherebbe la differenza nell’anno).
- Estratti conto bancari dettagliati con evidenza di storni. A volte l’estratto mostra -100€ il giorno dopo di +100€: segno di rimborso al cliente.
- Documenti commerciali: ricevute POS stampate, ricevute non fiscali interne, comande, libri dei corrispettivi (per anni prima del 2020), Zeta del registratore di cassa. Tutto quello che può dare una traccia che il contribuente ha registrato altrove quell’incasso o che non era un incasso reale.
- Perizie o attestazioni: ad esempio una dichiarazione della banca/acquirer che spiega che su quel POS c’è stato un malfunzionamento o che certi importi erano transazioni di test. Può sembrare insolito, ma se c’è stata una duplicazione tecnica ripetitiva, l’intermediario potrebbe fornire una nota ufficiale.
- Testimonianze scritte (ammissibili come dichiarazioni rese in sede extraprocessuale): ad esempio, per il caso del “pagamento cumulativo” (tipico nella ristorazione, dove un cliente paga l’intero tavolo e poi magari gli altri ricevono scontrini separati per omaggi), il contribuente potrebbe allegare dichiarazioni dei clienti coinvolti che confermano la dinamica.
Va ricordato che nel processo tributario italiano la prova testimoniale orale non è ammessa, ma le dichiarazioni scritte di terzi sì (hanno valore indiziario). Quindi non si possono portare i clienti a testimoniare in udienza, ma si possono portare le loro dichiarazioni giurate.
Aspetti procedurali importanti:
- Se il contribuente non ha risposto agli inviti dell’ufficio a fornire documenti (ex art. 32 citato) e poi in giudizio produce documenti nuovi, l’Agenzia solleverà l’eccezione di inutilizzabilità. Il giudice dovrà valutare se quei documenti erano richiesti e non dati; se sì e il contribuente non prova un impedimento, potrebbe scartarli. Quindi, mai ignorare le richieste di esibizione documenti in fase amministrativa! Perché poi in contenzioso si rischia di non poter utilizzare le “carte” migliori. La Consulta (sent. 137/2025) ha avallato questa preclusione.
- Nel ricorso si può anche far valere eventuali vizi formali dell’atto: ad esempio se manca l’intimazione a pagare entro 60 gg, l’atto non sarebbe esecutivo e potrebbe essere dichiarato nullo come atto esecutivo (ma valido come atto “semplice”: su questo ci sono contenziosi, cfr. Cass. 4903/2025).
- Se l’atto è arrivato a ristretta base societaria (es. SRL a due soci) e contestualmente ai soci per presunti utili extracontabili, bisogna coordinare le difese (ma è un tema settoriale).
Il giudizio tributario può avere esito incerto. Se si vince, l’accertamento viene annullato (o ridotto) e l’AE dovrà restituire l’eventuale 1/3 riscosso con interessi. Se si perde, si può fare appello entro 60 giorni dalla notifica della sentenza. Nel frattempo, come accennato, la legge prevede che l’AE possa riscuotere un altro 1/3 dopo la sentenza di primo grado sfavorevole (in totale 2/3), salvo sospensive ulteriori. Insomma, la materia della riscossione durante la lite è complessa, ma basti sapere che il ricorso non congela automaticamente il debito.
4) Inerzia e riscossione forzata (pericolo da evitare)
L’inerzia, ovvero non fare nulla entro 60 giorni, è l’opzione peggiore perché:
- Dopo 60 giorni l’accertamento diventa definitivo ed esecutivo. Non potrà più essere impugnato (salvo rarissimi casi di rimessione in termini).
- Dal giorno 61 l’importo è un debito certo: l’Agente Riscossione può attivarsi (decorso anche il periodo di sospensione amministrativa di 180gg) con misure come fermi amministrativi su veicoli, ipoteche su immobili se sopra €20k di debito, pignoramenti di conti correnti o stipendio/pensione.
- Il contribuente potrà al più chiedere una rateazione all’Agente della Riscossione (72 rate se importo < €120k circa senza dover dare prova difficoltà; fino a 120 rate se prova grave e comprovata difficoltà). La rateazione evita esecuzioni se concessa, ma non evita eventuali fermi già scattati.
- Le sanzioni restano intere (nessuno sconto 1/3 come in acquiescenza).
- Si accumulano aggi di riscossione (3% in caso di pagamento entro 60gg dalla cartella/intimazione, altrimenti 6%) e interessi di mora (attualmente 8% annuo circa) dal giorno 61.
In sintesi l’inerzia trasforma il problema da fiscale a problema di riscossione coattiva, aggravato di costi. È un approccio da evitare assolutamente, a meno che il contribuente non sia del tutto insolvibile e “accetti” di andare verso procedure esecutive (ma anche in quel caso, spesso conviene quantomeno presentare ricorso per guadagnare tempo e magari negoziare una transazione).
Quando può capitare l’inerzia: purtroppo a volte per disinformazione o paura alcuni ignorano l’accertamento sperando “non succeda nulla”. Oppure contano su una futura rottamazione (condono) delle cartelle. Questo è un azzardo: può darsi arrivi, ma può anche di no, e nel frattempo subiscono pignoramenti. L’esperienza insegna che appena 7 mesi dopo la scadenza dell’accertamento potresti trovarti il conto bancario bloccato.
5) Autotutela e strumenti deflativi minori
Un cenno alla autotutela: è il potere/dovere dell’Amministrazione di annullare i propri atti illegittimi o errati anche d’ufficio. Il contribuente può presentare un’istanza in autotutela all’ufficio allegando le prove di un palese errore (es: “mi avete attribuito 100k di incassi non dichiarati, ma avete preso il totale lordo POS senza considerare che include l’IVA che invece ho versato”, oppure “avete contestato a me incassi che in realtà appartengono alla società di cui ero rappresentante ma non ai miei redditi”). Se l’errore è evidente e riconoscibile, l’ufficio può annullare parzialmente o totalmente l’atto, senza bisogno di giudice.
Tuttavia, attenzione: la domanda di autotutela non sospende i termini di ricorso né sospende la riscossione. È solo una richiesta bonaria. Quindi va usata come complemento, non come alternativa: se decido di pagare, posso chiedere autotutela su un dettaglio e sperare nel rimborso; se decido di ricorrere, posso comunque chiedere autotutela e magari l’ufficio annulla prima del giudizio. Ma mai affidarsi solo all’autotutela superando i 60gg del ricorso: se l’ufficio ignora l’istanza (cosa frequente), poi non avremo più strumenti di difesa.
Esistono poi altri istituti: la mediazione tributaria obbligatoria per liti di valore fino a €50.000. Il caso POS potrebbe facilmente vedere accertamenti di importo superiore a 50k (€ di imposte e sanzioni), ma se fosse entro 50k, prima di andare in giudizio formale bisogna presentare reclamo-mediazione all’AE, che se rigettato comporta che il ricorso si perfeziona. È un passaggio tecnico che qui possiamo solo menzionare.
Altro: la conciliazione giudiziale: se in giudizio ci si accorge che si può transare, si può proporre conciliazione con l’ufficio anche in primo grado o appello, con riduzione sanzioni. Ad esempio, durante il processo l’ufficio potrebbe accettare un compromesso del tipo: riduci del 30% i ricavi contestati, sanzioni ridotte al 50%, e firmiamo conciliazione (che va omologata dal giudice). Si paga in 20 giorni o rate. È un’alternativa in extremis se non si era fatto adesione.
Riassumiamo le principali opzioni e conseguenze in una tabella per chiarezza:
Opzione difensiva | Descrizione | Vantaggi | Svantaggi/Note |
---|---|---|---|
Compliance e Ravvedimento | Prima dell’accertamento: risponde alla lettera AE e regolarizza pagando imposte dovute con sanzioni ridotte. | Sanzioni molto ridotte (1/8 – 1/7 del minimo), niente contenzioso, nessun segno in banca dati di accertamento. Evita rischio penale pagando tutto. | Richiede ammettere l’errore e liquidità per pagare. Se i dati erano errati, pagare sarebbe indebito: meglio usare se realmente c’è stata omissione. |
Accertamento con Adesione | Dopo avviso: chiede incontro con AE per concordare importi minori. | Possibile riduzione dell’imponibile e/o sanzioni per accordo. Sanzioni comunque ridotte a 1/3 per legge. Rate fino 8-16 trimestri. Niente lite giudiziaria. | Bisogna scendere a compromessi. Serve disponibilità a pagare almeno la prima rata (entro 20gg). Se fallisce, si deve ricorrere comunque. |
Ricorso tributario | Impugna l’atto davanti al giudice entro 60 gg. Chiede eventualmente sospensione. | Chance di annullamento/riduzione dell’atto se si hanno buone prove. Tempo ulteriore per reperire fondi (durata causa 1-2 anni). | Devi anticipare 1/3 imposte (salvo sospensione). Costi legali. Esito incerto; se perdi, sanzioni piene + spese. Stress da contenzioso. |
Acquiescenza (pagamento) | Paga interamente entro 60 gg senza ricorrere, ottenendo riduzione sanzioni a 1/3. | Chiude la questione subito. Sanzioni ridotte significativamente. Evita ulteriori interessi e spese legali. | Necessita liquidità immediata o quasi. Rinuncia a far valere eventuali ragioni (vale come “plea guilty”). |
Inazione (sconsigliata) | Non paga né ricorre. L’atto diventa definitivo ed esecutivo. | Nessuno (salvo sperare in futuri condoni, ma molto rischioso). | Debito iscritto a ruolo dopo 60+30 gg. Azioni esecutive possibili dopo ~8 mesi. Aggi riscossione + interessi di mora. Niente sconti sanzioni. Nessuna tutela giuridica residua (persa chance ricorso). |
Come si evince, la scelta dipende dalla situazione: se il contribuente riconosce il debito e può pagare, acquiescenza o ravvedimento sono vie rapide e con “sconto”. Se ritiene l’accertamento sbagliato e ha prove solide, il ricorso è doveroso. L’adesione è spesso la via di mezzo saggia per chi ha qualche torto ma anche ragioni da far valere.
Nei prossimi paragrafi entreremo nel dettaglio di come documentare le proprie difese riguardo agli incassi POS, ossia quali giustificazioni concrete possono essere addotte e come presentarle, e forniremo esempi pratici di casi reali/simulati per illustrare le diverse situazioni. Seguirà anche una sezione FAQ con domande e risposte sintetiche sugli aspetti più comuni.
Come giustificare le anomalie POS: strategie difensive concrete
Affrontiamo ora il cuore della difesa sul merito: come smontare la presunzione del Fisco di ricavi non dichiarati derivante dai dati del POS. Abbiamo già detto che spetta al contribuente fornire spiegazioni e prove. Ebbene, quali possono essere queste spiegazioni? Vediamo le casistiche più frequenti e riconosciute.
Le possibili cause legittime di scostamento POS vs corrispettivi
Non sempre una differenza significa evasione. Esistono situazioni, legate alla prassi commerciale o a eventi tecnici, in cui i pagamenti incassati non corrispondono a vendite effettive tassabili o risultano non ancora documentati per ragioni comunque lecite. Ecco un elenco (non esaustivo) di cause possibili di anomalia e come documentarle:
- Transazioni annullate o rimborsate: capita che un cliente paghi con carta e poi l’operazione venga stornata (es: reso di merce, annullamento di servizio, errore di battitura importo). In tal caso il sistema POS potrebbe registrare sia l’entrata che l’uscita, ma l’uscita può non essere associata allo scontrino iniziale. Oppure il rimborso avviene giorni dopo. Difesa: fornire copia delle ricevute di storno POS o degli estratti conto bancari che evidenziano l’uscita di denaro (negativo) in corrispondenza di quell’incasso. Ad esempio, se il 10 marzo ci sono 200€ incassati e 200€ rimborsati il 12 marzo, la lettera del Fisco potrebbe conteggiare i 200 (perché magari ha guardato i totali lordi del giorno 10). Mostrando l’estratto conto con accredito e addebito, si dimostra che il ricavo effettivo è zero. L’Ufficio dovrebbe quindi escludere tale importo dall’accertamento.
- Pagamenti cumulativi con emissione differita di documenti: come accennato prima, succede nei ristoranti o bar che un unico cliente paghi per più persone, mentre il commerciante magari emette scontrini separati per ciascuno (o fatture separate). Esempio classico: tavolata da 5 persone, uno paga 250€ con carta unico POS, ma vengono emesse 5 ricevute da 50€ intestate a ciascuno (o magari a 4 di loro, e chi ha pagato non si fa fare ricevuta). Risultato: il circuito bancario vede 250€ incassati, il registratore ha memorizzato 5 da 50€. Se non opportunamente “collegati”, l’Agenzia potrebbe vedere 250 incassati vs 200 scontrinati, segnalando 50€ mancanti, mentre in realtà non mancano: sono i 50€ pagati per gli altri. Difesa: presentare gli scontrini/ricevute emessi per quell’evento e spiegare la circostanza. In sede di contraddittorio, una nota esplicativa e copie degli scontrini chiariranno. In giudizio, si possono allegare detti scontrini e magari dichiarazioni delle persone coinvolte. Questa è una giustificazione assolutamente legittima, riconosciuta anche dalla prassi: l’importante è poter dimostrare che per ogni incasso cumulativo esistono documenti fiscali la cui somma copre l’importo. (Resta il consiglio pratico, dato dagli esperti, di emettere uno scontrino unico se un cliente paga cumulativo, perché se emette tanti piccoli a fronte di un unico incasso, il disallineamento appare lo stesso – meglio evitare per il futuro).
- Errori tecnici del POS (doppie transazioni): i POS a volte danno “transazione negata” sul terminale, il cassiere ripete l’operazione, poi il cliente scopre doppio addebito sul conto. Oppure per problemi di linea, la transazione resta in limbo e viene contabilizzata due volte. Alcuni modelli di POS hanno avuti bug (magari risolti) che generavano duplicati. Difesa: ottenere dall’operatore finanziario (banca o società) una lettera o report che elenchi eventuali duplicazioni note nel periodo. In mancanza, si può cercare riscontro negli estratti: se in un giorno compaiono due accrediti identici a distanza di pochi secondi (esempio 15:01 e 15:02 dello stesso importo), è forte indizio di duplicazione. Si può portare questo al Fisco. Spesso però l’estratto del negoziante somma in blocco giornaliero, quindi la duplicazione non si vede lì ma solo nel record transazioni del POS. Quindi l’esercente dovrebbe fornire il log del POS se lo ha, o farlo dare dalla banca. È un caso più rognoso da spiegare, ma con insistenza si può far capire. Questa difesa è menzionata espressamente in articoli specialistici, proprio perché succede: “chi ha litigato con i POS sa che possono verificarsi casi di doppio pagamento (anche se la transazione risultava rifiutata)”.
- Incassi tramite piattaforme terze (marketplace, delivery, ecc.): scenario sempre più frequente. Un ristoratore, ad esempio, riceve ordini tramite JustEat/Deliveroo/UberEats: il cliente paga online con carta alla piattaforma, la quale poi (detratta la commissione) bonifica al ristoratore gli incassi, magari tutti assieme a fine mese. L’Agenzia delle Entrate potrebbe ricevere dal circuito della carta l’informazione che quel pagamento elettronico è transitato su un POS intestato alla piattaforma (quindi non appare tra i dati del ristoratore) – oppure, se il flusso arriva comunque come incasso del ristoratore (talvolta i sistemi segnalano i pagamenti transitanti per loro conto), potrebbe vederlo come incasso non giustificato se il ristoratore ha registrato solo il netto. In pratica possono crearsi confusioni: o mancano proprio i corrispettivi, o c’è un mismatch lordo/netto. Difesa: spiegare che quei pagamenti facevano parte di un diverso sistema di fatturazione. Ad esempio, in uno degli esempi dell’Agenzia (Provv. 2023) si menziona: “transazioni effettuate con POS di proprietà di terzi (es. piattaforme di food delivery)”, e l’Agenzia invita il contribuente a segnalare questi elementi non conosciuti. Pertanto, si dovrebbe:
- Fornire la documentazione della piattaforma: fatture della piattaforma al ristorante per le commissioni, report mensili delle vendite tramite app, etc.
- Mostrare come tali vendite sono state dichiarate altrove. Ad es., se il ristoratore emetteva fattura differita alla piattaforma per il netto ricevuto, quell’imponibile risulta nelle fatture elettroniche (quindi l’Agenzia in teoria avrebbe dovuto già saperlo). Se non le ha emesse, allora c’è un errore e bisogna emetterle ora (ravvedersi). Il punto chiave è far capire che l’incasso lordo appare duplicato: una volta come transazione cliente-piattaforma, e una (in parte) come bonifico piattaforma-ristoratore. Serve riconciliare questi.
- In un contesto simile, un professionista potrebbe avere incassi tramite portali (es. un architetto su una piattaforma di intermediazione di servizi). Può succedere che i flussi transitino da società terze.
- Operazioni fuori campo o non imponibili: ipotesi meno comune, ma da considerare. Un incasso POS potrebbe riferirsi ad un’operazione che fiscalmente non genera ricavo imponibile. Ad esempio: un deposito cauzionale pagato con carta (per noleggio di attrezzature) che poi viene restituito. Oppure un prestito tra privati: caso limite, ma immaginiamo un piccolo imprenditore che usi il suo POS personale per farsi dare soldi in prestito da un amico con carta di credito (strano ma non impossibile: l’amico striscia la carta, il POS dell’imprenditore accredita soldi sul suo conto e lui gli ridà cash – attenzione, è una pratica scorretta contrattualmente col fornitore POS, può violare norme antiriciclaggio, però è successa in qualche caso). Oppure, un socio versa sul conto aziendale tramite POS un certo importo a titolo di finanziamento soci. Sono tutte situazioni in cui quell’entrata non è un ricavo da vendita:
- Difesa: presentare documenti che attestino la natura di quell’entrata: contratto di mutuo, scrittura privata per la cauzione, registro dei depositi, ecc. Se convincente, l’Ufficio potrebbe escludere quell’importo dal reddito (ma potrebbe chiedere conferma che poi sia stato restituito o contabilizzato come debito). Attenzione: se emergono queste situazioni, il Fisco potrebbe drizzare le antenne su possibili violazioni diverse (es. se usavi il POS per fare da “banca” a terzi, non è vietato fiscalmente ma potrebbe interessare per antiriciclaggio).
- Sfasamenti temporali (competenza): un altro caso: incasso a fine anno con POS, ma fattura emessa i primi di gennaio dell’anno successivo. Ad esempio un professionista incassa a fine dicembre ma per distrazione fattura datata gennaio. In tal caso l’anno X risulta incasso non fatturato; però l’anno Y avrà una fattura in più. Difesa: far presente l’errore temporale mostrando che quel ricavo è stato dichiarato nell’anno successivo. L’Agenzia su questo non è obbligata a soprassedere (formalmente hai omesso nell’anno X e sovraesposto in Y), ma in sede di adesione o giudizio spesso si può trovare un’aggiustamento: tassare in X ma evitare doppia tassazione in Y. Se è entro ravvedimento, uno potrebbe fare dichiarazione integrativa per spostare l’importo nell’anno giusto.
Abbiamo quindi varie possibili spiegazioni alternative. L’importante è che siano credibili e supportate da pezze giustificative. L’articolo di FiscoeTasse citato prima consiglia esplicitamente: “l’unico modo per smontare le presunzioni del Fisco è legato alla peculiarità del pagamento elettronico”, sottolineando come spesso gli accrediti POS sul conto siano aggregati di più operazioni e possano esserci discrepanze reali tra importo transato e documento emesso. Danno proprio l’esempio dei pranzi di lavoro con pagamento unico e scontrini multipli, e dei doppi addebiti, consigliando di fare affidamento su:
- Banche e intermediari per avere dichiarazioni ufficiali sulle operazioni (in caso di problemi tecnici).
- Una ricostruzione minuziosa delle voci presenti sul conto corrente di appoggio del POS, quasi a tenere una contabilità dedicata dei flussi tracciati.
- Buone pratiche preventive: pretendere sempre l’emissione di documenti (anche controvoglia dei clienti) per ogni transazione elettronica, conservare con cura gli scontrini POS cartacei e i report del POS. Questo perché, se poi arrivano controlli, si hanno le “pezze d’appoggio” pronte.
La realtà, riconosciuta anche dalla stessa Agenzia delle Entrate nel suo mea culpa del 2023, è che il sistema attuale basato su incroci automatici è fragile e può produrre falsi positivi. Un ingranaggio che si inceppa (dati duplicati, registratori di cassa non allineati, ecc.) vizia a cascata l’analisi e fa perdere tempo a tutti. Di conseguenza, il contribuente che dimostra attivamente le falle e la propria buona fede ha buone chances di spuntarla, quantomeno per la parte non effettivamente evasa.
Per chiarezza, presentiamo una tabella riepilogativa delle possibili cause di scostamento e delle relative difese/documentazioni:
Causa dell’anomalia (Incassi POS > Ricavi dichiarati) | Come dimostrarlo (documentazione) | Esito atteso |
---|---|---|
Storno/rimborso di pagamenti (reso merce, annullo) | Ricevute di annullamento transazione; Estratto conto con addebito di pari importo (negativo); Documento interno di reso merce firmato dal cliente. | Importo escluso dai ricavi (non è vendita effettiva). Potrebbe essere necessario rettificare IVA se già versata, ma niente evasione voluta. |
Pagamento cumulativo unico per più vendite separate | Copie di tutti gli scontrini/fatture emessi per i singoli clienti; Annotazione che tali documenti si riferiscono alla transazione POS unificata (data/ora). Eventuali dichiarazioni dei clienti. | Giustifica la differenza: ricavi già dichiarati tramite i vari documenti. Anomalia solo formale/temporale. |
Errore tecnico – Doppio addebito POS | Comunicazione ufficiale della banca/gestore POS sull’errore (se disponibile); Log del POS o elenco transazioni con duplicati; Estratto conto cliente (talvolta il cliente reclama per doppio addebito). | Importo duplicato non considerato ricavo. Si tratta di somma mai effettivamente incassata come corrispettivo legittimo (spesso restituita). L’Ufficio dovrebbe eliminarla dalla pretesa. |
Incassi tramite terzi (es. piattaforme online) | Rendiconti della piattaforma (report vendite, fatture commissioni); Prova dell’avvenuta dichiarazione di tali ricavi con altro metodo (fattura emessa al marketplace, registro corrispettivi specifico); Contratto con piattaforma evidenziando modalità di incasso. | Se i ricavi sono già stati dichiarati (anche se in forma diversa) non vi è evasione: evitare duplicazioni. Se non erano dichiarati per errore di integrazione, ammettere e regolarizzare (ma almeno spiegando che non c’era intento evasivo deliberato ma confusione di competenze). |
Versamenti non di vendita (prestiti, apporti soci, cauzioni) | Contratto di finanziamento o verbale assemblea (per apporti soci); Ricevuta per cauzione e contratto di locazione/noleggio collegato; Prova della restituzione (per cauzione o prestito) – es. estratto conto o quietanza. | Tali somme, non essendo corrispettivi di vendita, in linea di principio non sono tassabili. Il Fisco potrebbe chiedere che fossero documentate altrove (es: finanziamento soci va registrato a bilancio). Dimostrando la natura, l’importo va escluso dall’accertamento dei ricavi. |
Sfasamento di periodo (incasso a fine anno, documento anno dopo) | Fattura o scontrino emesso l’anno seguente; Registri IVA vendite/ corrispettivi di entrambi gli anni; Eventuale nota integrativa di bilancio (per società) che segnala il pagamento anticipato. | Il ricavo andrebbe imputato per competenza corretta. In adesione o in giudizio si può ottenere di non sanzionare come occultamento ma al più come irregolarità formale (dichiarazione infedele di un anno compensata da maggior dichiarazione nell’altro). Spiegazione comunque utile per togliere il sospetto di volontà evasiva. |
Va da sé che se nessuna di queste cause legittime sussiste – cioè se davvero l’esercente ha incassato in nero consapevolmente – allora la difesa potrà solo puntare su vizi di forma o clemenza sulle sanzioni, difficilmente sul merito. In tali casi, le strategie migliori sono quelle deflative: ravvedersi subito (se ancora possibile) o, se si è già all’accertamento, valutare un accordo con adesione per ridurre danni, come già spiegato.
Esempi pratici e simulazioni (casi italiani)
Passiamo ora ad alcuni casi esemplificativi che riassumono le situazioni affrontate e come potrebbero risolversi, tenendo conto della normativa e della prassi italiana attuale. Questi esempi aiuteranno sia i professionisti sia i contribuenti a riconoscere scenari simili nella realtà e comprendere quali passi intraprendere.
Esempio 1: Commerciante con incassi POS non registrati per errore – ravvedimento.
La Sig.ra Rossi gestisce un negozio di abbigliamento. Nel 2023 ha incassato tramite POS €120.000, ma per un disguido col registratore di cassa (un malfunzionamento a fine giornata) una parte degli scontrini di dicembre non è stata memorizzata correttamente. In particolare, i dati inviati all’Agenzia mostrano che a dicembre 2023 i pagamenti elettronici totali sono stati €10.000 superiori ai corrispettivi telematici dichiarati. A giugno 2024 la Sig.ra Rossi riceve una lettera di compliance che indica, per il mese di dicembre, una differenza di €10.000 e le chiede spiegazioni. La commerciante analizza i suoi documenti e scopre il problema: dal 27 al 31 dicembre il registratore è andato in blocco e 5 transazioni POS per complessivi €10.000 (tutte abiti venduti negli ultimi giorni dell’anno) non sono mai state trasmesse, né lo scontrino di chiusura memorizzato. Purtroppo se n’era accorta tardi e non aveva preso provvedimenti.
Azione intrapresa: invece di ignorare la lettera, la Sig.ra Rossi decide di regolarizzare con ravvedimento operoso. Entro 30 giorni:
- Emette ora (luglio 2024) 5 fatture a clienti relative a quelle vendite dimenticate (avendo i nominativi dai pagamenti POS, preferisce fatturare nominativamente con data attuale ma riferimento alla vendita di dicembre).
- Presenta una dichiarazione IVA integrativa per il 4° trimestre 2023, aggiungendo i €10.000 di imponibile e versando l’IVA (22%) di €2.200 + interessi.
- Versa la sanzione art. 6 ridotta: base sarebbe 90% di €2.200 = €1.980, ma essendo entro un anno, riduzione 1/8: paga circa €247.50 di sanzione.
- Versa anche la sanzione da infedele dichiarazione sui redditi relativa a quel maggior imponibile (supponiamo 27% di 10.000 = €2.700 evasi di IRES, sanzione base 90% = €2.430, ridotta 1/8 = ~€303).
Invia all’Agenzia via PEC copia delle fatture emesse e degli F24 pagati, spiegando la causa tecnica e dichiarando di aver così sanato l’omissione.
Esito: l’Agenzia delle Entrate, ricevuti i pagamenti, archivia la posizione. La Sig.ra Rossi non subirà accertamento né ulteriori sanzioni. Ha speso in totale circa €2.200+€2.700 (imposte) + €550 (sanzioni ridotte) + interessi modesti. Molto meglio che attendere un accertamento: avrebbe rischiato, oltre alle imposte, €1.980 + €2.430 = €4.410 di sanzioni piene, e forse la sospensione della licenza (perché €10k > €0 con 5 violazioni in giorni diversi). Grazie al ravvedimento, la sanzione accessoria non verrà applicata. Questo caso mostra l’importanza di monitorare le chiusure telematiche e, se succede un disguido, approfittare della compliance per rimediare.
Esempio 2: Ristorante – anomalia per pagamenti cumulative e piattaforma delivery – difesa in contraddittorio.
Il Ristorante “Da Nando” nel 2022 ha un fatturato dichiarato (corrispettivi) di €200.000. Riceve a ottobre 2023 una lettera dall’Agenzia Entrate: risultano incassi elettronici per €250.000, quindi €50.000 in più del dichiarato. In particolare, la lettera elenca differenze mensili concentrate in luglio (+20k) e dicembre (+30k). Nando, con l’aiuto del commercialista, analizza:
- Luglio: nel report allegato vede che ogni giorno c’è uno scarto di circa €650. Realizza che a pranzo serviva una mensa aziendale: un cliente pagava con carta aziendale per ~10 colleghi, e Nando emetteva ricevute separate per ogni collega (perché dovevano presentarle in ditta). Quindi ogni giorno c’erano pagamenti cumulativi.
- Dicembre: lo scostamento coincide con gli importi delle vendite effettuate tramite Deliveroo. La piattaforma trattiene il 20%, e versa a Nando 24k netti su 30k lordi incassati dagli utenti (stimati). Nando ha registrato come corrispettivi solo i netti ricevuti (24k), sbagliando – avrebbe dovuto registrare l’intero e registrare la commissione come costo (essendo un regime ordinario IVA). Questo comporta che 30k lordi pagati con carta dai clienti Delivery risultano come incassi elettronici, mentre lui ha scontrinato solo 24k (i netti).
Azione: Nando decide di rispondere alla lettera (tramite il canale Civis): - Spiega il caso dei pranzi cumulativi: allega uno schema per luglio con per ogni giorno “POS unico €X = somma di n scontrini allegati (allegati PDF)”.
- Per dicembre, ammette l’errore di contabilizzazione della piattaforma: dichiara che i €30k erano vendite via Deliveroo di cui erroneamente ha registrato il netto. Indica che sta emettendo ora fatture integrative per il differenziale e si rende disponibile a pagare la differenza IVA dovuta.
- Invia in allegato i report di Deliveroo per dicembre 2022 che mostrano €30k pagati dagli utenti e €24k girati a lui. Emette autofattura per la commissione (non fatturata prima).
- Chiede quindi di ricalcolare l’anomalia tenendo conto di queste informazioni.
Esito: l’Ufficio, valutate le spiegazioni, accetta che i 20k di luglio non costituiscono evasione (erano già documentati da scontrini) e focalizza l’attenzione sui 30k di dicembre che invece sono vendite non dichiarate per errore. L’Agenzia invita Nando a regolarizzare quella parte: Nando procede con ravvedimento per i 30k (versando IVA e sanzioni ridotte). A questo punto, l’Agenzia non emette alcun avviso formale, perché la posizione è stata definita spontaneamente. Nando ha comunque dovuto pagare qualcosa – l’IVA sui 6k di commissioni non dichiarate e relative sanzioni, ma ha evitato sanzioni sul restante (avendo collaborato) e soprattutto non ha subìto accertamenti maggiori. Questo esempio evidenzia che in compliance non è “tutto o niente”: si può convincere il Fisco a soprassedere su alcune voci portando prove (i 20k di luglio) e concentrare la regolarizzazione solo dove serve (30k dicembre).
Esempio 3: Professionista – incassi POS non fatturati – adesione con riduzione sanzioni.
L’Avv. Bianchi, libero professionista forfettario (quindi senza IVA) nel 2022 ha ricevuto pagamenti su POS per €40.000, ma ha emesso parcelle per solo €30.000. Credeva erroneamente che alcuni incassi fossero anticipi spese non fatturabili, invece andavano comunque certificati. Nel 2024 riceve un avviso di accertamento (non la lettera, ma direttamente atto perché forse la lettera era andata ad un vecchio indirizzo PEC) che gli contesta €10.000 di compensi non dichiarati nel 2022, con sanzione 90% imposta sostitutiva evasa (15% di 10k = €1.500 imposta evasa, sanzione €1.350). Totale richiesta (essendo forfettario, niente IVA) circa €2.850 tra imposte e sanzioni, oltre interessi. Avv. Bianchi, riconoscendo di aver fatto confusione sulle anticipazioni, è disposto a pagare le imposte, ma reputa eccessiva la sanzione e vorrebbe evitarla.
Azione: presenta istanza di accertamento con adesione. Nell’incontro spiega che non c’era volontà evasiva: i 10k erano rimborsi di spese vive per conto clienti (marche da bollo, contributi unificati) che però incassava tramite POS e non fatturava. Mostra le ricevute di pagamento al tribunale di quelle somme. L’Ufficio comprende la situazione ma fa notare che, fiscalmente, doveva comunque emettere parcella (sebbene fuori campo). Si accordano così:
- L’imponibile aggiuntivo rimane €10.000.
- L’ufficio però cancella la sanzione da omessa fatturazione (500€ per operazione) perché ritiene che la violazione rientri in un errore di qualificazione (anticipazioni non documentate come tali).
- Resta la sanzione da infedele (90% su €1.500 = €1.350) ma viene ridotta di 1/3 per adesione, a €450.
- Avv. Bianchi paga quindi €1.500 di imposta + €450 di sanzione + interessi modesti, totale intorno a €2.000.
Esito: l’adesione si perfeziona. L’avvocato ha ottenuto un taglio sanzioni (da 1.350 a 450) pari al 67%. Inoltre, evita la possibilità di essere segnalato per violazione del regime forfettario (ci sono regole: se ometti ricavi > 25% potresti decadere dal regime, ma qui era 25% esatto, situazione borderline; con adesione di solito l’AE non segnala decadenza se vede cooperazione). Questo caso mostra come un libero professionista possa difendersi: enfatizzando le circostanze attenuanti (credenza errata ma buona fede) e portando prove che comunque quei soldi erano serviti a pagare spese per clienti. In adesione c’è margine per ridurre sanzioni, specie se l’ufficio riconosce la collaborazione.
Esempio 4: Negoziante contestato e difesa in giudizio – parziale vittoria su dati errati.
Il Sig. Verdi gestisce un negozio di elettronica. Nel 2021 dichiara €500.000 di ricavi. Nel 2024 (a distanza di tempo) riceve un avviso di accertamento esecutivo: l’Agenzia, sulla base dei dati bancari, contesta che in realtà avrebbe incassato €600.000 tramite POS e carte, quindi omettendo €100.000. Chiede IVA evasa ~€22.000 + imposte redditi ~€25.000, sanzioni 90% su ciascuna (circa €21.000 IVA + €22.500 redditi) e interessi. Totale oltre €90.000. Sig. Verdi è sconvolto: sa di non aver nascosto nulla di simile. Dopo un consulto, si scopre che l’Agenzia ha contato anche gli incassi del punto vendita secondario che però era intestato a un’altra società (ha un secondo negozio intestato alla moglie SRL, ma utilizzavano temporaneamente lo stesso codice merchant per errori contrattuali col fornitore POS). Dunque, parte dei €600k includono ~€80k di vendite della moglie già dichiarate dalla SRL. Altri €20k invece sono effettivamente vendite del negozio di Verdi non scontrinate (alcuni cellulari venduti senza scontrino per fare uno sconto extra in nero a clienti abituali, ahimè).
Azione: Verdi presenta ricorso chiedendo anche sospensione dell’atto (data la somma). Nel ricorso:
- Sostiene che €80k non sono suoi ricavi ma della SRL Beta, allegando copia del contratto POS che mostra come quell’aggregato fosse su un unico cod. esercente per due negozi, e bilanci/fatture della SRL Beta evidenziando quei €80k di vendite (magari scontrini intestati Beta).
- Ammette implicitamente che restano €20k non giustificati, ma chiede clemenza sulle sanzioni magari.
- Eccepisce che l’Agenzia non ha svolto adeguato contraddittorio, perché bastava incrociare la P.IVA e vedere che alcuni pagamenti provenivano da un altro soggetto.
Esito: il giudice, in fase di sospensiva, vede che effettivamente c’è confusione sui €80k e concede la sospensione per il 100% dell’atto (sospende tutto in attesa di chiarire). In sentenza poi (metà 2025), la Corte di Giustizia Tributaria:- Annulla la parte di accertamento relativa agli €80k, riconoscendo che erano proventi di altra società già tassati (evitando così doppia imposizione).
- Conferma invece l’accertamento sui €20k residui, ritenendo che su quelli il contribuente non ha dato spiegazioni (tra l’altro, durante il processo Verdi ha preferito non dichiarare esplicitamente “sì erano in nero”, quindi non ha fornito prove contrarie).
- Sul piano sanzioni, il giudice considera l’errore dell’Agenzia e la collaborazione parziale del contribuente, e riduce le sanzioni al minimo edittale (90% invece di 120% che l’ufficio aveva applicato). Inoltre, poiché Verdi ha in parte riconosciuto il debito in corso di causa, compensa le spese legali.
- In sostanza, Verdi si trova a pagare su €20k di ricavi evasi: IVA 4.400, IRES 5.000, sanzioni 90% di 9.400 = 8.460, totale ~€17.860 + interessi. Molto meglio dei ~90k iniziali.
- L’Agenzia non appella (perché la parte grossa l’ha persa e difficilmente può spuntarla su quell’errore), e Verdi ovviamente non appella sulla parte che ha perso perché rischierebbe di riaprire il caso.
Conclusione: il contenzioso ha portato a un esito equo basato su verità: Verdi ha pagato per ciò che effettivamente aveva nascosto (€20k) e non per ciò che era un errore di attribuzione. Avrebbe potuto evitare il processo? Forse in adesione l’Ufficio sarebbe arrivato alla stessa conclusione, però c’era il rischio che insistessero su tutto. In giudizio, un giudice terzo ha riconosciuto la sua ragione sugli €80k. Questo mostra che se si hanno buone prove documentali e la pretesa del Fisco è eccessiva, val la pena andare davanti al giudice: la presunzione si può vincere se si dimostra chiaramente l’errore di base.
Esempio 5: Dati duplicati – intervento d’ufficio dell’Agenzia.
Per completezza, citiamo un caso accaduto (collettivamente) nel 2023: migliaia di partite IVA hanno ricevuto lettere di compliance con importi manifestamente esagerati (anche doppi o tripli del reale). Un professionista X riceve segnalazione di €90.000 incassi POS vs €30.000 dichiarati. Sapendo di aver fatturato tutto, X si allarma. Si confronta con altri colleghi e scopre che è un problema diffuso, riportato anche da testate fiscali. Dopo pochi giorni, infatti, l’Agenzia invia una lettera di scuse e annullamento, spiegando che c’è stato un errore di trasmissione dati. A X viene consigliato di ignorare la precedente comunicazione. Esito: nessun accertamento, la questione viene chiusa dall’AE in autotutela. Morale: talvolta l’errore è palese (importi doppi al centesimo) e l’AE stessa fa marcia indietro senza bisogno che il contribuente faccia nulla, se non attendere. Certo, restare passivi va bene in questi casi solo quando si ha conferma ufficiale della marcia indietro (comunicato stampa). Se uno avesse ignorato la lettera senza che l’AE avesse risposto, sarebbe stato pericoloso.
Domande frequenti (FAQ) e risposte
Infine, raccogliamo alcune delle domande più comuni che possono porsi imprenditori e professionisti alle prese con contestazioni su incassi da POS non dichiarati, con risposte sintetiche e riferimenti alle sezioni della guida:
D: Ho ricevuto una lettera dall’Agenzia delle Entrate su “anomalia incassi POS”: è un accertamento? Cosa significa?
R: No, la lettera di compliance non è un atto impositivo, ma un invito a verificare e regolarizzare. Significa che l’Agenzia ha riscontrato un divario tra quanto incassato con carte e quanto hai dichiarato tramite scontrini/fatture. Ti stanno dando l’opportunità di spiegare o correggere spontaneamente (tramite ravvedimento). È importante non ignorarla: se la ignori e la difformità è reale, seguirà quasi certamente un accertamento vero e proprio con sanzioni piene. Usa la lettera per chiarire eventuali errori (tuoi o loro) o per metterti in regola con sanzioni ridotte (vedi Regolarizzare con ravvedimento).
D: I dati nella lettera POS sembrano sbagliati (compaiono importi duplicati che non ho mai incassato davvero). Cosa devo fare?
R: È possibile che vi siano errori nei dati trasmessi dagli operatori finanziari – è accaduto nel 2023 che alcune lettere contenessero importi magicamente raddoppiati. Prima di tutto, verifica tu stesso: confronta i totali indicati con i tuoi estratti conto bancari e i tuoi registri. Se individui errori evidenti (esempio: stesso importo ripetuto due volte lo stesso giorno), prepara una documentazione che lo evidenzi. Contatta l’Agenzia (tramite PEC o canali dedicati) segnalando che i dati appaiono errati e allegando prova (ad es., estratto conto giornaliero). Nel 2023 l’Agenzia ha persino annullato d’ufficio molte lettere errate e chiesto scusa. Puoi citare il loro comunicato se pertinente. In sintesi: non pagare importi non dovuti! Segnala e chiedi rettifica. Se l’Agenzia dovesse comunque farti un accertamento basato su dati sbagliati, avrai ottime carte per farlo annullare in autotutela o vincere in giudizio, come abbiamo visto (es. caso Verdi in Esempio 4). Ma è probabile che, segnalando prima, l’atto non verrà nemmeno emesso.
D: Quanto tempo ho per rispondere alla lettera di compliance o per ravvedermi?
R: La lettera di solito non fissa un termine perentorio, ma è implicito che dovresti attivarti entro poco (idealmente entro 30 giorni o comunque prima che l’Agenzia avvii l’iter dell’accertamento). In pratica, hai tempo fino a quando l’ufficio non emette l’avviso. Se decidi di ravvederti, fallo il prima possibile per beneficiare di sanzioni più basse (il ravvedimento è tanto più conveniente quanto più tempestivo). Ad esempio, ravvedersi entro 1 anno comporta sanzione ridotta a 1/8, entro 2 anni a 1/7. Se la lettera arriva nel 2024 riferita al 2022, sei già oltre 1 anno ma entro i 2: 1/7. Se aspetti troppo, potresti arrivare oltre i 2 anni (1/6) o, peggio, ricevere un avviso che preclude il ravvedimento. Quindi, agisci preferibilmente entro 30-60 giorni dalla comunicazione. Per rispondere con spiegazioni senza ravvedersi (se ritieni di aver dichiarato giusto e vuoi solo chiarire), anche lì meglio non oltre 60 giorni. L’importante è non procrastinare oltre il tempo di accertamento: l’ufficio deve rispettare certi termini (di solito ha fino al 31/12 del quinto anno successivo per emettere l’atto), ma non aspettarti che resti fermo: dopo qualche mese potrebbe già emettere l’accertamento se non ha tue notizie.
D: Se rispondo alla lettera con spiegazioni, poi l’Agenzia mi risponderà a sua volta? Come so l’esito?
R: In molti casi, se l’Agenzia ritiene le tue spiegazioni soddisfacenti, non ti arriverà nulla: né accertamento né una conferma scritta. La posizione viene archiviata internamente. Se invece per loro le spiegazioni non giustificano l’anomalia, potresti ricevere:
- Una richiesta di ulteriori chiarimenti o documenti aggiuntivi (segno che stanno valutando ma serve altro).
- Oppure direttamente un avviso di accertamento (segno che non hanno accolto le tue difese).
Talvolta l’Agenzia, specie se hai interlocuzione via PEC, risponde con un messaggio tipo “abbiamo ricevuto la sua documentazione, provvederemo alle verifiche”. Puoi anche attivamente chiedere un riscontro. Se non senti nulla per molti mesi (es. 6 mesi) e sei sicuro di aver ragione, puoi stare moderatamente tranquillo. Se invece non sei certo, ricorda che fino a decadenza possono ancora colpirti: conviene mantenere la documentazione pronta in caso.
D: Ho realmente omesso alcuni ricavi da POS. Posso fare ravvedimento operoso anche se l’Agenzia mi ha già inviato la lettera o se la Guardia di Finanza è già venuta?
R: Sì, la lettera di compliance non preclude affatto il ravvedimento. Anzi, è esattamente quello che l’Agenzia si aspetta tu faccia se riconosci l’errore. Diverso il caso se la Guardia di Finanza ti ha già verbalizzato la cosa in un PVC (processo verbale): in teoria il ravvedimento “ordinario” non è ammesso dopo una constatazione ufficiale. Tuttavia, come citato, c’è stata nel 2023 una norma straordinaria che permetteva di ravvedersi entro il 15/12/2023 anche se la violazione era già stata constatata (purché non ancora formalmente contestata con atto). Fu pensata per i corrispettivi. Oggi quella finestra è chiusa. In generale, se la GdF ha fatto un verbale, non puoi ravvederti sulla materia del verbale (salvo future norme eccezionali). Però se sei solo alla lettera o a una convocazione informale, sei ancora nei tempi per ravvederti. Quindi, se hai omesso ricavi e la cosa è palese, ravvediti prima possibile. Se invece hai già un atto di accertamento, il ravvedimento non è più applicabile: a quel punto puoi cercare una definizione per ridurre sanzioni (adesione, acquiescenza) ma non si chiama ravvedimento.
D: Quali sanzioni rischio in concreto se non ho emesso lo scontrino su incassi POS?
R: Rischi due tipi di sanzioni amministrative principali:
- La sanzione per mancata certificazione (omesso scontrino/fattura): 90% dell’IVA corrispondente, minimo 500€ a operazione. Quindi, anche pochi euro non documentati portano 500€ di multa caduno. Se sei forfettario (niente IVA), l’Agenzia di solito applica 5% del corrispettivo non certificato (minimo 500) perché 90% dell’IVA sarebbe 0; comunque 500 a botta.
- La sanzione per dichiarazione infedele: 90% (minimo) dell’imposta evasa sui redditi e sull’IVA non versata. Questa scatta se l’omissione ha portato a dichiarare meno imposta di quella dovuta. Nel caso di piccole cifre potrebbe non scattare per i redditi (c’è una soglia di non punibilità fino al 5% del reddito e 2 milioni omissione, ma se emetti zero scontrino e dovevi, in genere la contestano lo stesso).
In più, se le violazioni sono ripetute, sospensione dell’attività: alla quarta volta in 5 anni ti possono chiudere il negozio 3 giorni – 1 mese. Oppure subito se in un controllo ti trovano un ammanco >50k nei corrispettivi.
Queste sono sanzioni amministrative. Penalmente, solo se l’imposta evasa supera 100k € (dich. infedele) scatterebbe il reato, ma nella maggior parte dei casi di incassi POS si parla di importi inferiori. Ad ogni modo, anche penale si evita pagando tutto prima del processo.
Quindi, riassunto: economicamente per ogni 100€ non scontrinati rischi di doverne pagare circa 200€ (tra tasse evase e sanzioni). Meglio sempre evitare.
D: Mi hanno notificato un avviso di accertamento esecutivo per ricavi in nero: devo pagare subito? Posso rateizzare?
R: Entro 60 giorni dalla notifica hai tre opzioni:
- Pagare (in unica soluzione o chiedendo rateazione in 8 rate se importo alto – la richiesta va fatta entro lo stesso termine però). Pagando entro 60gg puoi accedere alla riduzione delle sanzioni a 1/3 (acquiescenza). Se chiedi rateazione ordinaria invece (non acquiescenza ma semplice dilazione), di solito perdi quello sconto.
- Oppure presentare ricorso (eventualmente dopo adesione). In tal caso, attenzione: la legge prevede che dopo 60gg devi pagare 1/3 delle imposte accertate, salvo tu ottenga una sospensiva dal giudice. Le sanzioni e il resto per ora no, ma quel terzo sì. Se non paghi quel terzo, l’Agente Riscossione può fartelo pagare (pignoramenti ecc.). Puoi chiedere rateazione anche di quel terzo con AdER se arriva a cartella.
- Se non fai nulla, dopo 60gg l’atto è definitivo: a 90gg va in carico all’AdER e dopo 180gg iniziano le azioni. Puoi comunque a quel punto chiedere rateizzazione al concessionario (entro certi limiti) per bloccare le azioni esecutive.
Quindi, non devi pagare tutto immediatamente se fai ricorso, ma devi mettere in conto quel 1/3 in tempi brevi, a meno che il giudice non sospenda. Se hai difficoltà, la soluzione migliore è spesso accordarsi con l’ufficio in adesione: lì potrai rateizzare 8 quote trimestrali senza dover versare subito 1/3 in anticipo.
D: Cosa significa esattamente “accertamento esecutivo”?
R: Significa che l’avviso di accertamento contiene già un’intimazione di pagamento e, trascorsi 60 giorni senza ricorso o pagamento, diventa titolo esecutivo per la riscossione. In pratica, salta il passaggio della cartella esattoriale: non riceverai una cartella separata. Riceverai semmai un avviso dell’Agente Riscossione che il debito è in carico e, dopo ulteriori 180 giorni di sospensione automatica, potranno iniziare pignoramenti, fermi, ipoteche. L’accertamento esecutivo è stato introdotto per velocizzare il recupero: rispetto al passato hai meno tempo “comodo” e devi muoverti subito. Dalla notifica hai 60 giorni per attivarti, poi scadono i tuoi diritti di difesa (ricorso) e in pochi mesi il Fisco può aggredire il tuo patrimonio. Dunque, non ignorare un avviso pensando di aspettare la cartella – quella non arriverà (l’avviso è già la cartella, per capirci). Se hai dubbi, vedi Accertamento esecutivo: caratteristiche sopra.
D: Ho fatto ricorso, quindi ora non devo pagare nulla finché non finisce la causa, giusto?
R: Non esattamente. Come detto, il ricorso non sospende automaticamente la riscossione. Di base, devi versare 1/3 delle imposte accertate dopo i 60 giorni. Per sospendere la riscossione devi ottenere un provvedimento dal giudice (istanza di sospensione ex art. 47 D.Lgs. 546/92). Se il giudice concede la sospensione, allora sì, non paghi nulla finché la causa è pendente o fino a nuova decisione. Se la nega o non ti pronunci, l’AdER ti chiederà quel 1/3. Inoltre, se poi perdi in primo grado, dovrai pagare un ulteriore 1/3 (arrivando a 2/3) e se perdi in via definitiva pagherai il saldo. Ricorda anche che le sanzioni durante il ricorso sono congelate (non devi pagarle finché la sentenza non è definitiva, di norma), ma maturano interessi sulle imposte. Quindi, per stare tranquillo, o ottieni la sospensione, o paghi spontaneamente la parte dovuta (magari chiedendo rate) per non avere azioni esecutive nel frattempo.
D: Gli incassi da POS sono sempre presi come prova di evasione? Se ad esempio ho un POS e prendo pagamenti per attività occasionali (tipo vendita usato del mio pc) rientrano?
R: Se sei un privato e vendi l’usato, difficilmente hai un POS intestato se non hai partita IVA. L’anomalia incassi POS riguarda soggetti con attività economica. Per questi soggetti, sì: ogni incasso sul POS è considerato inerente all’attività salvo prova contraria. Anche se fosse un’attività diversa, l’Agenzia tende a ricondurlo. Ad esempio, un medico convenzionato che incassa POS per certificati sportivi fatti privatamente: se non li dichiara, quell’incasso è reddito imponibile, non può dire “ma era extra attività”. Insomma, ogni entrata sul POS, se non ha un documento fiscale, è un potenziale ricavo non dichiarato. Starà a te spiegare se qualcosa non era ricavo (vedi casi come prestiti, rimborsi spese ecc. discussi prima). Quindi sì, il Fisco presume evasione per ogni incasso POS non dichiarato, ma è una presunzione relativa: portando le giuste pezze, puoi farla cadere. Non esistono importi minimi esenti: anche 5€ se li vedono non dichiarati te li contestano (magari manderanno lettera se la somma è rilevante su base annua, di 5€ soli forse no).
D: Sono nel regime forfettario: se non ho emesso fattura per incassi su SumUp (POS mobile), cosa rischio?
R: Rischi la stessa contestazione, con due differenze:
- Non hai IVA da versare, ma l’omessa fatturazione comporta comunque la sanzione fissa (500€ cadauna) e la sanzione sul’imposta sostitutiva evasa (15% di quei ricavi, con penalità 90% su tale imposta).
- Attento che se l’omesso ricavo ti fa sforare il limite dei €85.000 annui, potresti decadere dal regime forfettario retroattivamente. L’Agenzia in caso di accertamento di ricavi in nero potrebbe ricalcolare le tue imposte come regime ordinario se superi la soglia. Esempio: dichiari 80k, trovano altri 10k, totale 90k >85k, decadenza forfettario: dovresti l’IVA su 90k e IRPEF ordinaria su reddito, con sanzioni. Quindi il danno sarebbe doppio.
In fase difensiva, potresti cercare di far valere che quei ricavi extra non erano strutturali etc., ma la norma è rigida. Quindi per i forfettari è ancor più importante non occultare nulla, perché un piccolo nero può far perdere la flat tax!
Se sei in questa situazione, valuta un ravvedimento subito: paghi il 15% su quei ricavi (più sanzione ridotta sul 15%) e rimani forfettario se resti entro limite.
D: Posso impugnare la decisione di sospensione della licenza (chiusura locale) se mi arriva?
R: Sì. Il provvedimento di sospensione attività (ad es. 3 giorni di chiusura) è anch’esso impugnabile davanti alla Corte Tributaria. Di solito arriva dopo che l’accertamento è definitivo (o in concomitanza con un PVC GdF). Puoi chiedere anche la sospensiva d’urgenza al giudice, e spesso viene concessa se dimostri che la chiusura ti crea danno grave (per un’attività ogni giorno di chiusura è danno). Inoltre, se contestualmente regolarizzi la posizione, il giudice è più propenso a sospendere. Quindi sì, non è una pena irreversibile: fai ricorso e spesso queste chiusure vengono sospese e poi magari annullate se contestate per bene (spesso perché nel frattempo paghi il dovuto).
Ricorda però: per non arrivarci, era meglio evitare la quarta violazione o il mega-nero >50k come detto. Se ci arrivi, vuol dire che l’AE è stata già abbastanza indisponibile con te.
D: Cosa posso fare per evitare in futuro questi problemi?
R: Prevenzione e buona gestione sono le armi migliori:
- Assicurati di emettere sempre lo scontrino o la fattura per ogni pagamento elettronico al momento del pagamento. Non aspettare: la legge impone contestualità.
- Conserva tutte le ricevute POS e riconciliale giornalmente con gli scontrini. Oggi i registratori telematici spesso stampano un report “chiusura giornaliera” con dettaglio incassi contanti vs elettronici. Confrontalo con i report del POS. Se trovi differenze, indaga subito.
- Se usi piattaforme terze, concorda con il commercialista un metodo per registrare correttamente quei ricavi (es: fattura mensile riepilogativa). Non fare come Nando che registrava il netto: devi dichiarare il lordo e dedurre la commissione come costo (o far emettere fattura alla piattaforma).
- Tieni d’occhio il tuo cassetto fiscale: la sezione “Fatture e Corrispettivi” – lì puoi vedere i dati che arrivano. Se noti incongruenze, puoi muoverti anche prima che arrivi la lettera. Ad esempio, puoi accedere ai dati dei pagamenti elettronici trasmessi (sono disponibili anche alla GdF).
- Considera l’adeguamento tecnologico: come visto, dal 2026 sarà obbligatorio il POS collegato al registratore. Valuta di adeguarti prima, se possibile, con sistemi che automaticamente emettono lo scontrino alla transazione. Alcuni gestionali moderni lo fanno già.
- Forma i tuoi dipendenti (se ne hai) a non fare eccezioni: niente pagamenti cumulativi senza corretta procedura, niente “errori” sul POS che non vengono segnalati.
- Se per qualche ragione accade un disallineamento (lo scopri dopo, o un errore tecnico), non aspettare il Fisco: intervieni tu. Ad esempio, se ti accorgi a fine mese che hai incassato 100€ in più col POS rispetto agli scontrini, e capisci quale scontrino mancava, puoi ancora fare un piccolo ravvedimento immediato (entro 15 giorni la sanzione è minima, 0,1% dell’IVA). Così sistemi e probabilmente l’anomalia nemmeno scatterà (o se scatterà hai la ricevuta del ravvedimento da mostrare).
D: In caso di somme elevate contestate, rischio anche il penale?
R: Sì, se il tuo evaso di imposta supera le soglie di punibilità. In tema di ricavi omessi, il reato pertinente è la dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs.74/2000): imposta evasa > €100.000 e ricavi non dichiarati > 10% del totale o > €2 milioni. Esempio: dichiari reddito 500k, occultati 200k => imposta evasa poniamo 60k, non scatta reato perché <100k; se imposta evasa fosse 120k, scatta. Per l’IVA: se evadi oltre 100k di IVA scatta anch’esso come infedele (sempre 100k).
Il reato comporta potenzialmente il carcere (2-4.5 anni), ma nella pratica se tu paghi tutto il debito tributario prima del giudizio penale, il reato di infedele è estinto per intervenuto pagamento integrale (norma di favore entrata nel 2019). Quindi il consiglio è: se sei in zona rischiosa (sopra 100k di tasse evase), dai priorità assoluta a chiudere col Fisco pagando tutto, magari facendo un mutuo o vendendo un cespite. Eviti il penale.
Da notare: se l’importo evaso è enorme (milioni) e c’è dolo molto marcato, potrebbero eventualmente contestare frodi più gravi (tipo dichiarazione fraudolenta se usi artifizi). Ma nel contesto “incassi POS non dichiarati” di solito è evasione semplice, non frode organizzata. Quindi il reato è infedele.
D: La Guardia di Finanza può usare i dati dei POS per venire a farmi un controllo?
R: Assolutamente sì. Le Fiamme Gialle utilizzano anche loro le banche dati dell’Agenzia. Anzi, in comunicati recenti han dichiarato di voler concentrare i controlli su POS e influencer (per citare una notizia: GdF ha verificato incassi POS e scovato un tasso di evasione del 33% in certi settori). Quindi, se risultano anomalie forti, potresti non solo ricevere la lettera, ma anche un controllo sul campo. E durante un’ispezione, se trovano incongruenze, stai certo che scavano a fondo (richiesta scontrini non fiscali interni, confronto con movimenti magazzino, ecc.). Prevenire come detto sopra è la miglior difesa.
In caso di verifica GdF: hai sempre i 60 giorni per osservazioni (ex art.12 Statuto) prima che emettano proposta di accertamento. Usa quel tempo per fornire tutto il possibile a tua discolpa, perché poi l’avviso sarà duro da smontare.
Conclusione: essere contestati per incassi POS non dichiarati è una situazione sicuramente delicata, ma affrontabile con gli strumenti giuridici a disposizione. La chiave sta nel non farsi trovare impreparati: conoscere le norme, i propri diritti ma anche i propri obblighi. Questa guida ha evidenziato come l’Agenzia delle Entrate consideri gli incassi tracciati come un fatto noto su cui basare presunzioni di evasione, invertendo l’onere della prova sul contribuente. Abbiamo però visto che il contribuente, se diligente, può efficacemente difendersi portando elementi contrari (storni, duplicazioni, ecc.). In mancanza di difese sul merito, restano le strategie procedurali per limitare i danni: ravvedimento, adesione, pagamento agevolato, insomma soluzioni per ridurre sanzioni e evitare conseguenze peggiori (come il penale).
Nel complesso, l’auspicio è che – grazie anche all’evoluzione normativa che obbliga al collegamento POS-registratore dal 2026 – situazioni del genere si presentino sempre meno, e comunque possano essere risolte in modo collaborativo con il Fisco. Dal canto suo, il contribuente deve però agire con trasparenza e tempestività.
Ricorda: in materia tributaria, il tempo è un fattore cruciale. Un’anomalia affrontata oggi può costare 1, un’anomalia ignorata e sanzionata domani può costare 10, con interessi e addirittura rischi di chiusura o imputazioni. Perciò il miglior consiglio è giocare d’anticipo, tenere la propria contabilità allineata e se arriva una contestazione, non farsi prendere dal panico ma neanche stare con le mani in mano. Documentati (magari rileggendo questa guida, perché no), confrontati con un professionista e metti in campo la miglior difesa possibile, forte dei tuoi diritti ma anche consapevole delle regole.
Fonti e Riferimenti
(Segue un elenco di fonti normative, giurisprudenziali e di prassi menzionate nella guida, con collegamenti per eventuale approfondimento.)
- Corte di Cassazione – Ordinanza n. 15586/2020 (22 luglio 2020): Pagamenti tramite POS superiori agli scontrini emessi come presunzione di ricavi non dichiarati. Conferma onere della prova a carico del contribuente.
- Corte di Cassazione – Ordinanza n. 22122/2021 (3 agosto 2021): Legittimità accertamento induttivo su parrucchiere: incassi POS vs ricevute, più altri indizi (redditometro).
- Cassazione Sent. n. 13494/2015: Discordanza POS vs contabilità costituisce presunzione legale di maggiori ricavi, salvo prova contraria del contribuente.
- D.P.R. 600/1973, art. 32: Poteri di indagine finanziaria del Fisco e inutilizzabilità in giudizio di documenti non esibiti a richiesta. (Corte Cost. 137/2025 ne ha confermato la legittimità).
- D.P.R. 600/1973, art. 39 c.1 lett.d) e c.2: Accertamento analitico-induttivo basato su presunzioni semplici gravi/precise/concordanti (usato per maggiori ricavi non contabilizzati).
- D.P.R. 633/1972, art. 54: Accertamento IVA in caso di omissioni o false indicazioni, anche con metodi induttivi.
- D.Lgs. 471/1997, art. 6: Sanzione per mancata emissione di scontrino/fattura: 90% dell’imposta (IVA) relativa, minimo €500 per operazione.
- D.Lgs. 471/1997, art. 11 c.2-quinquies e c.5: (Introdotto da L. 207/2024) Sanzione €100 per mancata trasmissione dati corrispettivi POS (max €1000/trimestre) e multa €1000-4000 per mancato collegamento POS-registratore di cassa.
- D.Lgs. 471/1997, art. 12: Sanzioni accessorie: sospensione attività 3-30 giorni dopo 4 violazioni (omessi scontrini) in 5 anni. Sospensione 15 gg-2 mesi in caso di recidiva o mancato collegamento POS-registratore.
- D.Lgs. 472/1997, art. 13: Ravvedimento operoso – riduzione sanzioni (1/8, 1/7, ecc.) in base al momento del ravvedimento.
- Provvedimento AE Prot. 352652/2023 (3/10/2023): Attuazione compliance incassi elettronici vs fatture/corrispettivi. Contenuto delle comunicazioni di anomalia.
- Comunicato Stampa AdE 11/10/2023: Errori nelle comunicazioni pagamenti POS – lettere di compliance annullate.
- Legge 197/2022 (Bilancio 2023), art. 1 c. 686: ha anticipato misure di interoperabilità dati POS-corrispettivi, poi rifinite nella L. 207/2024.
- Legge 207/2024 (Bilancio 2025), art. 1 cc. 74-77: Obbligo dal 2026 di collegamento tra strumenti di pagamento elettronici e registratori di cassa, con adeguamento sanzioni.
- D.L. 124/2019, art. 22 c.5: Obbligo per banche/operatori di comunicare all’Agenzia Entrate i dati identificativi POS e importi totali giornalieri transati (tracciabilità).
- D.Lgs. 74/2000, art. 4: Reato di dichiarazione infedele (soglie €100k imposta evasa e 10% ricavi occultati >2 mln).
- D.Lgs. 74/2000, art. 5: Reato di omessa dichiarazione (soglia €50k imposta evasa).
- Cass., Sez. Trib., Sent. 18060/2024: Principio su doppie presunzioni (praesumptum de praesumpto non admittitur in ambito tributario, non ostacola presunzioni tipo POS se basate su fatti oggettivi).
- Normativa comunitaria e princìpi: Dir. UE 2010/45 (fatturazione elettronica), Carta UE diritti (art. 47, equo processo – contraddittorio), giurisprudenza Corte UE sul contraddittorio (es. C-189/18 Glencore: obbligo contraddittorio preventivo in talune situazioni).
- Altro: Statuto Contribuente L.212/2000 (art.5 inviti al contraddittorio, art.12 garanzie durante verifiche), Circolari AE (es. circ. 19/E 2020 su lotteria scontrini e correlazione pagamenti elettronici).
Ti contestano incassi da POS mai dichiarati? Fatti Difendere da Studio Monardo
Hai ricevuto un accertamento perché l’Agenzia delle Entrate ha rilevato movimenti da POS non presenti nella tua dichiarazione dei redditi o IVA?
Ti accusano di aver omesso ricavi, pur avendo registrato incassi tramite bancomat o carte di credito?
Negli ultimi anni il Fisco incrocia i dati dei registratori telematici, dei pagamenti elettronici e dei flussi bancari. Ma non sempre ciò che transita sul POS è automaticamente un ricavo imponibile. Se le somme sono state registrate male, duplicate o riferite ad altri, puoi difenderti e tutelare la tua posizione fiscale.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
- 📂 Analizza nel dettaglio l’avviso di accertamento e i dati POS contestati
- 📌 Verifica se ci sono errori nei conteggi, incassi già dichiarati o somme non imponibili
- ✍️ Redige memorie difensive e ti assiste nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate
- ⚖️ Ti rappresenta nel ricorso tributario per ottenere la riduzione o l’annullamento delle somme richieste
- 🔁 Ti aiuta a correggere le dichiarazioni future e a prevenire nuovi accertamenti
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
- ✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e accertamenti su dati POS, incassi elettronici e pagamenti digitali
- ✔️ Specializzato in difesa di commercianti, professionisti e attività soggette a verifiche bancarie
- ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
Conclusione
Una contestazione sugli incassi da POS può essere affrontata e risolta.
Con la giusta strategia puoi dimostrare che i ricavi sono stati già dichiarati o che non erano imponibili, evitando sanzioni ingiuste.
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