Accertamento Fiscale Ad Azienda Cinese In Italia: Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento fiscale per la tua azienda cinese operante in Italia? Ti contestano ricavi non dichiarati, operazioni inesistenti, mancata emissione di fatture, evasione IVA o l’esistenza di una stabile organizzazione non dichiarata? In questi casi è fondamentale sapere come difendersi per evitare conseguenze economiche gravi e danni all’attività.

Molte aziende cinesi, anche se formalmente con sede all’estero, operano stabilmente in Italia tramite magazzini, punti vendita, personale, o rapporti diretti con clienti italiani. In questi casi, l’Agenzia delle Entrate può ritenere che esista una presenza fiscale rilevante in Italia, anche se non dichiarata ufficialmente.

Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate?
– Sottodichiarazione o omissione dei ricavi
– Uso di fatture false o soggetti fittizi
– Operazioni non tracciate, pagamenti in contanti o senza documentazione
– Inesistenza di documenti doganali a fronte di merce venduta
– Stabile organizzazione occulta, anche senza sede legale italiana
– Incoerenza tra merci importate e fatturato dichiarato
– Discrepanze tra la contabilità e le vendite effettive

Cosa rischia l’impresa?
– Recupero di imposte dirette e IVA non versate
– Sanzioni dal 90% al 180% delle imposte accertate
– Iscrizione a ruolo con rischio di pignoramenti o blocco dei conti
– In caso di frodi gravi, segnalazione all’autorità penale
– Danni all’immagine commerciale e difficoltà nei rapporti con fornitori e clienti

Come difendersi in modo efficace?
– Raccogli tutta la documentazione fiscale, contabile e bancaria
– Dimostra con contratti, fatture, corrispondenza e bonifici che le operazioni sono reali
– Se l’azienda è effettivamente gestita dalla Cina, contesta la presunzione di stabile organizzazione
– Se esiste una struttura in Italia, verifica se è stata inquadrata correttamente ai fini fiscali
– Presenta memorie difensive e chiarimenti prima che l’accertamento diventi definitivo
– Valuta, se ci sono i presupposti, un accertamento con adesione per chiudere la posizione con sanzioni ridotte
– Se l’atto è illegittimo o sproporzionato, ricorri alla Corte di Giustizia Tributaria per farlo annullare

Cosa puoi ottenere con una buona difesa?
– L’annullamento parziale o totale dell’accertamento
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi
– La sospensione della riscossione, per evitare l’aggressione al patrimonio
– La regolarizzazione della tua posizione in Italia
– La tutela della tua attività commerciale e della tua reputazione

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e difesa di imprese estere in Italia ti spiega come reagire a un accertamento fiscale per un’azienda cinese, come contestare le presunzioni dell’Agenzia delle Entrate e quali strumenti puoi usare per difenderti legalmente.

Hai ricevuto un avviso di accertamento, un verbale di verifica o una richiesta documentale? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Verificheremo la tua situazione e ti diremo come proteggere la tua azienda con una strategia su misura.

Introduzione

Le imprese gestite da imprenditori cinesi in Italia sono divenute parte integrante del tessuto economico nazionale, specialmente in settori come il commercio all’ingrosso, la moda (pronto moda), l’import/export, l’e-commerce e la manifattura. Tuttavia, negli ultimi anni queste attività sono state oggetto di particolare attenzione da parte del Fisco e della Guardia di Finanza, sia per la rilevanza economica raggiunta sia per alcuni fenomeni di evasione emersi (come il sistema delle ditte “apri e chiudi”, l’esterovestizione della residenza fiscale, la sottofatturazione delle importazioni, l’uso di fatture false e di lavoro nero, ecc.). Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – fornisce una panoramica avanzata della normativa tributaria italiana applicabile alle imprese a conduzione cinese e illustra come difendersi efficacemente in caso di accertamento fiscale, dal punto di vista del contribuente (il debitore verso l’Erario). L’approccio sarà giuridico ma divulgativo: verranno spiegati i tipi di accertamento fiscale, gli strumenti di difesa (amministrativi e giudiziari), le novità normative più recenti e le sentenze aggiornate delle Corti italiane, con esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione di Domande & Risposte frequenti.

Contesto attuale: le autorità fiscali italiane hanno intensificato i controlli sulle imprese riferibili alla comunità cinese, specie in alcuni distretti industriali (es. Prato per il tessile) e in ambito di commercio online. Ad esempio, solo nel 2024 la GdF di Prato ha scoperto 164 partite IVA “fantasma” riconducibili al fenomeno delle aziende “apri e chiudi” create per evadere il fisco, emettere fatture false e trasferire fondi all’estero. Operazioni simili hanno portato alla denuncia di decine di imprenditori per frode fiscale (come nel settore pronto moda, con IVA evasa per oltre 10 milioni di euro tramite false fatturazioni). Tali indagini evidenziano come alcune imprese cinesi abbiano sfruttato per anni lacune di controllo (es. chiusura volontaria prima dei 2 anni di vita per evitare verifiche) creando concorrenza sleale e accumulando debiti tributari. Naturalmente, va sottolineato che non tutte le imprese gestite da cittadini cinesi adottano pratiche illecite; molte operano nella legalità e rispettano gli obblighi fiscali. Questa guida si rivolge quindi a imprenditori, consulenti legali e professionisti che vogliono capire come tutelare i propri diritti in caso di accertamento fiscale, identificando irregolarità contestabili e usando gli strumenti difensivi previsti dall’ordinamento italiano.

Struttura della guida: nelle sezioni seguenti esamineremo prima il quadro normativo e gli obblighi fiscali che gravano su un’azienda cinese operante in Italia, evidenziando i possibili “campanelli d’allarme” che possono far scattare un controllo. Verranno poi descritte tutte le tipologie di accertamento fiscale, da quelle analitiche a quelle induttive, dagli accertamenti IVA/doganali a quelli redditometrici, con riferimento alle norme (D.P.R. 600/1973, D.P.R. 633/1972, ecc.) e alla casistica specifica (p.es. sottofatturazione delle merci importate, controllo dei flussi di denaro, ecc.). Successivamente, affronteremo tutti gli strumenti difensivi a disposizione del contribuente: il diritto al contraddittorio preventivo (rafforzato dalla recente riforma fiscale del 2023/2024), l’accertamento con adesione, il ricorso alle Corti di Giustizia Tributarie (ex Commissioni Tributarie), la sospensione della riscossione, la conciliazione giudiziale e così via. Saranno citate le sentenze più aggiornate delle Corti (Cassazione, Corti di Giustizia Tributaria) pertinenti alla difesa del contribuente: ad esempio in tema di onere della prova nelle fatture false, di contestazione della residenza fiscale (esterovestizione), di nullità degli atti per vizi formali (firme non autorizzate, mancato contraddittorio), ecc. Troverete inoltre tabelle riepilogative (dei termini di decadenza e prescrizione, dei tipi di accertamento e relativi presupposti, degli strumenti deflattivi con vantaggi) e alcune simulazioni pratiche (casi di accertamento in settori come pronto moda, e-commerce, import di merce dalla Cina, con possibili strategie difensive). Infine, una sezione FAQ – Domande e Risposte chiarirà i dubbi più comuni (ad es.: quanto tempo ha il Fisco per notificare un accertamento? Cosa succede se chiudo l’azienda e non pago? Posso dedurre costi se i fornitori sono “cartiere”?).

Avvertenza: ogni caso di accertamento fiscale ha le sue peculiarità. Questa guida fornisce principi generali e riferimenti aggiornati, ma la strategia difensiva va sempre adattata alle circostanze specifiche, preferibilmente con l’assistenza di un avvocato tributarista o di un esperto fiscale di fiducia. Conoscere i propri diritti di contribuente e le ultime evoluzioni normative è il primo passo per difendersi con successo e, quando possibile, prevenire contestazioni future.

Quadro Normativo per le imprese cinesi in Italia

Un’azienda cinese operante in Italia – sia essa una società di diritto italiano partecipata da cittadini cinesi, una filiale locale di una società cinese, o una ditta individuale gestita da imprenditori cinesi residenti – è soggetta alle stesse norme tributarie delle altre imprese italiane. In linea generale, ciò significa che deve dichiarare in Italia i redditi prodotti nel territorio italiano e assolvere correttamente le imposte dovute (IVA, imposte sui redditi IRES/IRPEF, IRAP, dazi doganali per le importazioni, contributi previdenziali per i lavoratori, ecc.). La presenza di una convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Cina evita che gli stessi redditi siano tassati due volte, ma attribuisce all’Italia la potestà di tassare i profitti derivanti da attività economiche svolte tramite una stabile organizzazione nel suo territorio (o in generale i redditi prodotti in Italia). In altri termini, se un’impresa cinese opera stabilmente in Italia (ad es. ha qui uffici, magazzini, dirige da qui le sue attività), l’Agenzia delle Entrate potrà considerarla residente fiscale in Italia (o comunque tassare i redditi ivi generati), indipendentemente dal fatto che la società sia formalmente costituita in Cina. La Cassazione ha infatti chiarito che i criteri di collegamento della residenza (sede legale, sede dell’amministrazione o oggetto principale) operano in modo oggettivo, a prescindere da finalità elusive: ad esempio, una società di diritto cinese con produzione in Cina è stata ritenuta fiscalmente residente in Italia perché tutte le decisioni gestionali venivano prese dai tre amministratori dalla sede italiana, che di fatto dirigevano l’azienda estera. In questi casi di esterovestizione societaria, al contribuente spetta dimostrare che l’effettiva sede amministrativa dell’impresa è all’estero (esibendo verbali del CdA, prove che le decisioni operative sono assunte in Cina, etc.), altrimenti il Fisco italiano potrà legittimamente pretendere le imposte su tutti i redditi dell’azienda come se fosse italiana.

Dal punto di vista civilistico e amministrativo, l’avvio di un’attività d’impresa da parte di soggetti cinesi in Italia richiede gli stessi adempimenti generali: apertura della partita IVA, iscrizione al Registro delle Imprese, tenuta della contabilità, fatturazione elettronica delle operazioni, certificazione dei corrispettivi (scontrini/ricevute) e dichiarazioni annuali dei redditi e dell’IVA. Tuttavia, alcune criticità ricorrenti riscontrate dal Fisco nelle aziende gestite da comunità cinesi riguardano:

  • Omessa o infedele dichiarazione dei redditi e dell’IVA: casi in cui non vengono dichiarati tutti i ricavi delle vendite (specie se in contanti) o in cui vengono sottofatturate le operazioni (dichiarando valori inferiori al reale). Ad esempio, molte attività commerciali al dettaglio o all’ingrosso gestite da cinesi sono state trovate a non emettere scontrini fiscali per tutte le vendite. Analogamente, nelle importazioni dalla Cina è emerso il fenomeno di fatture di acquisto con valori molto bassi rispetto al valore normale della merce, al fine di evadere IVA e dazi all’importazione (la cosiddetta “sottofatturazione doganale”).
  • Utilizzo di società “cartiera” o prestanome: spesso nelle frodi più gravi compaiono società inattive o create ad hoc (talora intestate a prestanome nullatenenti) utilizzate per emettere fatture per operazioni inesistenti o per interporle nel ciclo commerciale (frode carosello). Nel distretto di Prato, ad esempio, la GdF ha individuato otto ditte individuali fittizie (prive di struttura e intestate a prestanome) il cui unico scopo era emettere fatture false e far transitare denaro all’estero. Le aziende reali utilizzavano queste fatture per abbattere i propri utili e l’IVA da versare, con la complicità di consulenti locali. In caso di accertamento, il Fisco disconosce i costi da fatture inesistenti e recupera l’IVA detratta indebitamente, con sanzioni molto pesanti e segnalazione penale.
  • Lavoro nero e violazioni contributive: un altro elemento riscontrato in vari controlli riguarda il personale non regolarmente assunto, spesso connazionali privi di permesso di soggiorno. Nei laboratori tessili cinesi della Toscana, centinaia di lavoratori irregolari sono stati scoperti durante ispezioni, con evasione contributiva stimata in decine di milioni di euro. L’impiego di manodopera “in nero” comporta, oltre alle sanzioni sul lavoro, riflessi fiscali: il Fisco può presumere che l’azienda abbia prodotto redditi non dichiarati in misura coerente con la forza lavoro effettiva (maggiore di quella risultata ufficialmente). Inoltre, i costi sostenuti “in nero” (compensi ai lavoratori non dichiarati) non sono deducibili e, anzi, l’art. 14, comma 4-bis della L. 537/1993 prevede la indeducibilità assoluta di componenti negativi relativi a lavoratori irregolari oltre determinate soglie. In pratica, se l’azienda tiene parte del personale non in regola, rischia un accertamento che ricostruisce maggiori ricavi o rettifica il reddito d’impresa escludendo i costi del lavoro non dichiarato.
  • Trasferimento di utili all’estero e pagamenti transnazionali: le imprese cinesi spesso intrattengono rapporti commerciali con società collegate in Cina o altri paesi (Hong Kong, ecc.). Il Fisco è molto attento a possibili manovre di transfer pricing o di esterovestizione dei redditi: ad esempio, la vendita di prodotti finiti dalla società cinese “madre” alla società italiana controllata a prezzi superiori al normale, così da spostare utili verso la Cina (a tassazione inferiore) lasciando in Italia margini irrisori. In un caso, per un’operazione di questo tipo, l’Agenzia delle Entrate ha riqualificato i prezzi praticati tra una S.p.A. italiana e la collegata cinese ai sensi dell’art. 110(7) TUIR (transfer pricing), negando la deduzione di oltre 6,8 milioni di euro di costi perché i corrispettivi pagati alla consociata cinese eccedevano il valore normale di mercato. Il contribuente può difendersi in casi simili solo dimostrando che i prezzi erano a valore di libera concorrenza (tramite studi di transfer pricing) o che vi erano funzioni/rischi aggiuntivi giustificanti il margine più alto in capo alla società estera. Un altro aspetto riguarda i pagamenti verso la Cina: consistenti trasferimenti di denaro verso conti esteri, specie se effettuati in contanti o frazionati, attirano l’attenzione per possibili operazioni di riciclaggio o sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (reato ex D.Lgs. 74/2000 art.11). Nelle inchieste su Prato è emerso che gran parte della ricchezza sommersa prodotta veniva inviata nelle banche cinesi, rendendo difficile il recupero.
  • E-commerce e vendite online non dichiarate: con l’aumento dell’attività di vendita online (ad esempio attraverso marketplace come Amazon, eBay, Alibaba, oppure tramite siti propri), il Fisco ha avviato controlli incrociati tra i flussi di pagamenti elettronici (PayPal, carte, bonifici) e i redditi dichiarati. Capitale cinese è spesso coinvolto in attività di dropshipping o commercio elettronico verso l’Italia e l’Europa. Dal 2023 l’Agenzia delle Entrate dispone di nuove segnalazioni dai gestori di piattaforme digitali (recepimento della direttiva DAC7) e monitora conti correnti e provider di pagamento per individuare soggetti che incassano somme importanti senza dichiararle. Un soggetto (anche privato) che superi certe soglie di ricavi online viene considerato fiscalmente un imprenditore e, se non ha aperto partita IVA né dichiarato nulla, può subire un accertamento per “attività occulta”. Si contestano tipicamente: l’omessa dichiarazione dei redditi da e-commerce, la mancata istituzione della partita IVA, l’omessa fatturazione delle vendite e il mancato versamento dell’IVA sugli acquisti da paesi extra-UE o sulle vendite domestiche. Frequenti anche le contestazioni di esterovestizione in questo ambito: es. soggetti che operano su Amazon EU tramite società estere di comodo, mentre gestione e clienti sono in Italia. La difesa, in questi casi, verte sul dimostrare la natura occasionale di alcune vendite (se applicabile), la corretta ricostruzione dei margini (spesso il Fisco presume utili lordi molto elevati ignorando i costi, come acquisti, commissioni di piattaforma, spedizioni), nonché la regolarità della struttura societaria estera se utilizzata (provando che non è un mero schermo per evadere in Italia). Un consiglio preventivo per chi opera online è mantenere una contabilità separata e tracciabile delle transazioni e, se l’attività cresce, regolarizzare per tempo la propria posizione fiscale (apertura IVA, regime forfettario se ne ricorrono i requisiti, ecc.) per evitare l’arrivo improvviso di un accertamento.

In sintesi, un’azienda cinese in Italia deve rispettare le medesime regole fiscali di qualsiasi impresa nazionale, ma deve essere consapevole che alcuni schemi elusivi/evasivi utilizzati in passato sono ormai ben conosciuti dal Fisco. Gli organi accertatori dispongono di potenti strumenti di indagine: accesso alle banche dati fatture elettroniche, liste selettive di controlli incrociati, convenzioni di scambio di informazioni con autorità cinesi (per rintracciare titolari effettivi e flussi finanziari), e nuove normative che riducono gli ambiti di opacità (si pensi all’obbligo di comunicazione dei trasferimenti di denaro contante sopra soglie basse, alla riduzione dell’uso del contante, ecc.). Pertanto, per un imprenditore è fondamentale, da un lato, prevenire irregolarità (facendosi assistere da un buon commercialista, tenendo documentazione completa di acquisti/vendite, evitando di cedere alle “facilitazioni” di fatture false o manodopera in nero offerte da qualche consulente senza scrupoli) e, dall’altro, conoscere i propri diritti per farli valere se viene avviato un controllo fiscale.

Nei capitoli successivi vedremo cosa succede quando l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza attivano un accertamento fiscale nei confronti di una azienda (cinese o di altra nazionalità) e come il contribuente può difendersi passo dopo passo.

Tipologie di accertamento fiscale e modalità di verifica

Il termine “accertamento fiscale” indica l’insieme degli atti e procedure con cui l’Amministrazione Finanziaria controlla la correttezza delle dichiarazioni del contribuente e determina eventuali imposte non versate. In Italia, la legge prevede diverse modalità di accertamento, che variano a seconda della situazione contabile dell’azienda e delle informazioni disponibili al Fisco. Di seguito esaminiamo tutte le tipologie principali di accertamento applicabili a un’impresa, con particolare attenzione alle imprese commerciali e manifatturiere (come quelle spesso gestite da cittadini cinesi):

  • Accertamento analitico (o analitico-contabile): è la forma base di controllo, fondata sull’esame analitico delle scritture contabili e dei documenti fiscali dell’azienda (registri IVA, bilanci, fatture emesse e ricevute, ecc.). L’ufficio verifica voce per voce i ricavi dichiarati confrontandoli con le fatture emesse, e i costi dedotti confrontandoli con le fatture d’acquisto, controllando la regolarità formale e sostanziale della contabilità. Questo tipo di accertamento è possibile quando l’azienda tiene una contabilità regolare e completa. Se emergono difformità (es. ricavi non registrati, costi non documentati, rimanenze non congrue), l’ufficio procede a rettificare puntualmente i singoli elementi, motivando per ciascuno il perché dell’imponibile aggiunto o del costo disconosciuto. Ad esempio, se in un negozio risultano vendite senza scontrino (riscontrate da verifiche o da incongruenze inventariali), l’accertamento analitico aggiungerà tali incassi ai ricavi tassati. L’accertamento analitico puro non permette il ricorso a mere presunzioni se la contabilità è attendibile: servono riscontri oggettivi o documentali di evasione. Tuttavia, come vedremo, spesso all’analisi contabile si affiancano elementi presuntivi (accertamento analitico-induttivo).
  • Accertamento analitico-induttivo: è la modalità di gran lunga più utilizzata nei confronti di piccole-medie imprese con contabilità formalmente tenuta ma dove il Fisco sospetta dichiarazioni infedeli. Si basa anch’esso sulle scritture contabili, che non vengono ignorate, ma consente all’ufficio di integrare i dati contabili con presunzioni semplici (gravi, precise e concordanti) per ricostruire il reale reddito d’impresa. In pratica, l’Agenzia delle Entrate parte dal bilancio e dai registri del contribuente ma, rilevando anomalie o incongruenze, può presumere maggiori ricavi o minori costi rispetto a quanto risulta. Esempi tipici: un’azienda dichiara margini di profitto molto inferiori alla media di settore (es. ricarico del 5% quando imprese simili hanno il 30%); oppure, acquista materie prime per 100 ma dichiara vendite di prodotti finiti per 80 (inverosimile se c’è rimanenza modesta). Ancora: si riscontrano versamenti bancari ingenti non contabilizzati (vedi indagini finanziarie più avanti). In questi casi l’ufficio, senza invalidare l’intera contabilità, aggiusta il tiro: può ad esempio applicare un coefficiente di ricarico standard alle materie prime acquistate per stimare i ricavi effettivi e quindi accertare ricavi non dichiarati. Oppure può basarsi su dati esterni, come studi di settore/ISA, per evidenziare ricavi attesi superiori. Fondamento normativo: l’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 600/1973 consente l’accertamento anche sulla base di presunzioni semplici (purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza) quando il quadro dichiarato presenta elementi inattendibili o incompleti. Importante: il contribuente ha diritto di contrastare tali presunzioni fornendo prova contraria documentale. Ad esempio, se l’ufficio presume ricavi maggiori per bassi ricarichi, l’azienda può difendersi mostrando che i prodotti erano obsoleti o che parte della merce è andata distrutta (eventi straordinari) o ancora che offriva promozioni particolari, ecc. È fondamentale controbattere analiticamente ogni presunzione. La legittimità di un accertamento analitico-induttivo richiede comunque che la contabilità non sia del tutto affidabile: ad esempio, la Cassazione ha affermato che l’uso di presunzioni induttive è giustificato quando “dal raffronto tra la contabilità e la realtà emergono gravi incongruenze” tali da far dubitare della completezza dei dati dichiarati. Ad ogni modo, questa tipologia consente all’ufficio una certa flessibilità, spesso contestata in giudizio proprio sulla qualità delle presunzioni adottate (vedremo nella parte difensiva come far valere l’eventuale infondatezza o genericità di tali presunzioni).
  • Accertamento induttivo “puro” (ex art. 39, c.2, D.P.R. 600/1973): è il metodo più radicale, utilizzato quando il contribuente non ha tenuto la contabilità oppure questa è talmente irregolare/inesistente da non permettere alcuna ricostruzione analitica. Situazioni tipiche: l’azienda omette di presentare la dichiarazione annuale; oppure viene scoperta a operare totalmente in nero, senza registri, o ha libri totalmente inattendibili (ad esempio, registro vendite mancante, conti doppi, distruzione di documenti contabili). In questi casi estremi l’ufficio può prescindere dai dati interni e determinare il reddito d’impresa in modo induttivo, cioè basandosi su dati e coefficienti esterni, informazioni comunque reperite, stime e presunzioni di qualsiasi tipo (anche semplici, purché ragionevoli). L’art. 39, comma 2, D.P.R. 600/73 elenca le condizioni per procedere all’accertamento induttivo d’ufficio (ad es. omessa dichiarazione, mancata tenuta delle scritture obbligatorie, libro giornale non aggiornato, gravi falsità nei registri, ecc.) e autorizza in tal caso il Fisco a determinare il reddito “dagli elementi comunque raccolti”. In pratica si “ricostruisce da zero” l’imponibile. Esempio: se una ditta individuale (p.iva cinese) non presenta mai alcuna dichiarazione, ma la GdF scopre magazzini e merce venduta, si quantificano i ricavi sulla base delle quantità di merce movimentata e dei prezzi medi di mercato, oppure basandosi sui movimenti bancari rilevati, o ancora applicando parametri standard (per alcuni mestieri esistono parametri di reddito per addetto, per metro quadro di negozio, ecc.). L’accertamento induttivo puro è più facilmente attaccabile se il Fisco non ha solide basi: la legge richiede comunque che l’operato dell’ufficio sia “ragionevole e coerente” con la capacità contributiva effettiva. Inoltre, anche in caso di omissione di contabilità, se il contribuente in giudizio riesce a produrre documenti e prove (ad esempio, dimostra che l’attività è iniziata in un certo anno e non prima, o che parte dei ricavi ha già scontato imposta altrove), tali elementi dovrebbero essere considerati. La giurisprudenza ha affermato che l’accertamento induttivo deve basarsi su indizi seri e non su arbitrarie supposizioni: ad esempio non si può tassare qualsiasi prelievo sul conto come ricavo senza una verifica minima (vedi oltre). Tuttavia, il margine di manovra del Fisco in questo ambito resta ampio. Importante: la recente prassi mostra che l’Agenzia ricorre all’induttivo puro specialmente nelle ipotesi di evasione totale (aziende sconosciute al fisco) o carenza totale di collaborazione da parte del contribuente (es. non risponde ai questionari né si presenta). In tali casi l’accertamento può essere emesso anche in tempi rapidi e con imponibili stimati in modo lump-sum (forfettario). Il contribuente dovrà poi impugnare fornendo tutte le prove a discarico possibili. Da notare che l’accertamento induttivo “puro” comporta di solito anche l’applicazione delle sanzioni più gravi (per dichiarazione omessa: sanzione amministrativa dal 120% al 240% dell’imposta evasa, e responsabilità penale se l’imposta evasa supera €50.000). L’azienda cinese che chiude improvvisamente senza presentare bilanci né dichiarazioni lascia in genere debiti irrecuperabili, ma espone i responsabili a possibili condanne penali (oltre che a successive azioni sui beni personali se si prova la frode): chi pensa di eludere i controlli chiudendo la società e sparendo deve sapere che il Fisco può perseguire i rappresentanti per sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.
  • Accertamento parziale: previsto dall’art. 41-bis D.P.R. 600/1973 (per imposte sui redditi) e analoghe norme IVA, è uno strumento che consente all’ufficio di accertare singoli redditi o imponibili omessi, senza dover definire l’intera posizione fiscale del contribuente. Viene spesso utilizzato quando, da controlli incrociati o da segnalazioni, emerge ad esempio un reddito non dichiarato (per es. plusvalenza da vendita di immobile, compenso da lavoro autonomo non inserito, o, nel caso di un commerciante, ricavi non dichiarati relativi a una specifica operazione) ma si ritiene che il resto della dichiarazione sia regolare. L’atto parziale consente di intervenire velocemente (anche prima della fine dell’anno successivo alla dichiarazione) su quella sola voce, senza attendere o effettuare un accertamento globale. Ad esempio, molte imprese cinesi operanti in Italia vengono controllate per la corretta dichiarazione dei redditi di fonte estera (se hanno attività anche in Cina): se l’Agenzia rileva che hanno percepito redditi all’estero non dichiarati in Italia (e che dovevano invece esserlo, in applicazione delle regole sulla worldwide taxation per i residenti), potrebbe emettere un accertamento parziale per tassare quel reddito estero. Dal punto di vista difensivo, l’accertamento parziale va impugnato come gli altri; la sua peculiarità è che non chiude la porta a eventuali futuri accertamenti completi per lo stesso periodo, qualora emergano altre irregolarità (il contribuente non può opporre “giudicato” sulla frazione non accertata). Con la riforma del contraddittorio del 2024, per gli accertamenti parziali “a tavolino” basati su controlli automatizzati o incrociati può essere prevista l’esclusione dall’obbligo di contraddittorio (il DM 24/4/2024 ha incluso tra gli atti esclusi taluni accertamenti parziali da liquidazione automatica). Ciò significa che in determinati casi l’ufficio può emettere l’atto parziale senza previa convocazione del contribuente, ma solo se rientra nelle eccezioni di legge (ad esempio recupero di detrazioni non spettanti da controllo formale). Se invece l’accertamento parziale riguarda materie sostanziali (ricavi non dichiarati, ecc.), in linea di principio dal 2024 anch’esso richiede il contraddittorio preventivo, a pena di nullità.
  • Accertamenti IVA e doganali: un capitolo cruciale per le imprese import/export. Le aziende cinesi sono spesso coinvolte nell’importazione di merci (abbigliamento, tecnologia, etc.) dalla Cina verso l’Italia. Il valore dichiarato in dogana per tali merci è la base su cui si applicano dazio e IVA di importazione. Se viene riscontrata una sottofatturazione – cioè che il valore dichiarato è irrealisticamente basso – l’Agenzia delle Dogane può emettere un avviso di rettifica del valore in dogana, recuperando i maggiori dazi e IVA. Ad esempio, una società che ha importato container di merce dichiarando un valore di 25.000 dollari, mentre indagini provano che la merce ne valeva il triplo, subirà un accertamento doganale con ricalcolo dei tributi dovuti. In questi procedimenti la difesa è tecnica: occorre dimostrare che il valore dichiarato era corretto (ad es. perché la merce era di qualità inferiore, o era usata, o vi erano sconti eccezionali documentati). Da notare che in materia doganale il D.Lgs. 374/90 prevede termini e procedure proprie, ma la controversia finisce sempre avanti alle Corti di Giustizia Tributaria. Importante è anche il coordinamento con l’IVA interna: se si evade IVA all’importazione, spesso la stessa merce poi viene venduta sul mercato senza fattura (evasione IVA a valle). Oppure, all’opposto, vi sono frodi “carosello” in cui imprese cinesi creano false esportazioni per giustificare crediti IVA. Le norme IVA (D.P.R. 633/72) consentono accertamenti specifici: ad esempio, l’art. 54 consente di contestare l’IVA dovuta qualora dalle verifiche risulti che il contribuente ha venduto senza fattura (ricostruendo il volume d’affari evaso). Un caso frequente riguarda le presunzioni di cessione e di acquisto: se la GdF durante un accesso trova nel magazzino merce priva di documentazione d’acquisto, si presume che sia stata acquistata in nero e viene emesso accertamento (con IVA e redditi) per quei beni non documentati; viceversa, se manca merce che dovrebbe esserci secondo le rimanenze, si presume che sia stata venduta senza fattura (e scatta accertamento per ricavi non dichiarati pari al valore di quella merce). Queste presunzioni (disciplinate dal D.P.R. 441/97 per le giacenze di magazzino) pesano molto sulle imprese manifatturiere e commerciali: l’unica difesa è fornire giustificazioni precise per le differenze (es. merce distrutta con verbale, furti denunciati, cali tecnici). Sentenze recenti: la Cassazione ha ribadito ad es. che in caso di frode IVA con interposte società cartiere, l’IVA all’importazione va comunque calcolata sul valore reale dei beni e non su quello sottofatturato, e che le sanzioni doganali per sottofatturazione (talora molto elevate) devono essere proporzionate al tributo evaso. Dal punto di vista penal-tributario, dichiarare in dogana dati falsi costituisce reato (contrabbando o frode doganale) oltre che illecito amministrativo.
  • Accertamento sintetico per i soci/imprenditori (redditometro): sebbene riguardi le persone fisiche, vale la pena menzionare questo strumento perché spesso i titolari di aziende cinesi vivono un tenore di vita molto alto a fronte di redditi dichiarati modesti. L’accertamento sintetico (art. 38 D.P.R. 600/1973) consente al Fisco di determinare il reddito complessivo di una persona sulla base delle spese sostenute e dell’incremento patrimoniale, prescindendo dalla contabilità aziendale. In pratica, se l’imprenditore cinese (persona fisica) acquista beni di lusso, immobili, auto costose, o finanzia conti correnti con versamenti cospicui, e tali uscite/appostamenti non trovano compatibilità con il reddito ufficiale, l’Agenzia può presumere che vi siano redditi in nero a monte. Ad esempio, il classico redditometro confrontava spese certe (mutui, leasing, polizze, ecc.) con il reddito: se le spese superavano di oltre il 20% il reddito dichiarato, scattava l’accertamento e l’onere di provare che la differenza era coperta da redditi esenti o risparmi. Oggi il redditometro “vecchia maniera” è sospeso in attesa di nuovi decreti, ma rimane la possibilità di accertamento patrimoniale-finanziario: l’art. 38 consente di considerare incrementi patrimoniali (es. acquisto casa) imputandoli per quote a redditi degli anni precedenti. Il caso tipico per comunità cinesi è l’acquisto di immobili o l’invio di grandi somme fuori Italia: se i soci dell’azienda hanno disponibilità non giustificate, l’Ufficio potrebbe sindacare sia il reddito personale sia ricollegare la cosa all’azienda (profitti sottratti). La difesa consisterà nel provare che quelle somme provengono da fonti lecite non tassabili (es. utili già tassati, capitali esteri legittimamente detenuti, finanziamenti ricevuti, donazioni familiari). In sostanza, il redditometro è un promemoria: il fisco guarda non solo ai conti aziendali, ma anche allo stile di vita dell’imprenditore, e se i conti non tornano può procedere.
  • Controlli finanziari e indagini bancarie: vale la pena di soffermarsi su questo strumento trasversale, utilizzato in quasi tutti i tipi di accertamento. L’art. 32 del D.P.R. 600/1973 permette al Fisco di richiedere alle banche l’elenco dei movimenti su conti correnti e rapporti finanziari intestati al contribuente (e anche a soci o familiari, se c’è motivo). In ambito aziendale, specialmente per le imprese a conduzione familiare o individuale, è prassi esaminare i conti bancari per scovare entrate non contabilizzate. La legge prevede una presunzione importante: tutti i versamenti (operazioni di accredito) su conti dell’imprenditore si considerano ricavi non dichiarati se il contribuente non prova che si tratta di movimenti estranei all’attività. Per i prelevamenti (operazioni di addebito), la disciplina è cambiata nel 2016: attualmente, solo i prelievi superiori a €1.000 giornalieri o €5.000 mensili sono presunti come impiegati per acquisti “in nero” e quindi come possibili ricavi non dichiarati, se il contribuente non indica i beneficiari di tali somme. Ciò significa che piccole uscite di denaro contante non giustificate non possono più essere automaticamente contestate (onere in questo caso sull’Erario di provare un nesso con vendite non fatturate). Questa modifica, introdotta dal D.L. 193/2016, si applica dal 2016 in avanti e non ha effetto retroattivo – quindi per gli anni precedenti valeva una presunzione più ampia anche sui prelievi. In ogni caso, in sede di accertamento bancario, l’onere della prova è rovesciato: l’Agenzia notifica un processo verbale con l’elenco di centinaia di movimenti bancari (versamenti, assegni incassati, bonifici) che non trova nelle scritture aziendali, e starà al contribuente, operazione per operazione, fornire giustificazioni (ad es.: “questo versamento di €5.000 è un finanziamento soci”, “quest’altro accredito è il rimborso di un prestito fatto a un amico”, “quest’altro ancora è un giroconto da altro mio conto già noto al fisco”). Una difesa generica (“tutti i movimenti sono extra-fiscali”) non basta: la Cassazione ha chiarito che il contribuente deve fornire prova analitica per ogni singola movimentazione contestata. Se anche solo parte delle somme resta senza spiegazione convincente, quell’importo viene tassato come ricavo occulto (soggetto sia a imposte sul reddito che a recupero IVA se trattasi di operazione imponibile). Ad esempio, nelle frodi di pronto moda a Prato, le indagini finanziarie hanno evidenziato milionari bonifici verso conti cinesi non giustificati da forniture reali, avvalorando la tesi che fossero utili evasi esportati. Sentenze recenti in tema di indagini finanziarie: la Suprema Corte con la ordinanza n. 12895/2024 ha ribadito che spetta al Fisco provare il nesso dei prelevamenti con acquisti non dichiarati, ma se l’Agenzia fornisce indizi (es. acquisti di merce pagata in contanti e poi venduta in nero) allora il contribuente deve controbattere puntualmente. Inoltre, con l’evoluzione normativa citata (soglie 1.000/5.000 €), i giudici hanno precisato che per i movimenti antecedenti il 2016 la vecchia presunzione rimaneva applicabile, mentre per quelli successivi vale la nuova (quindi, ad esempio, un accertamento bancario su anni 2015-2017 dovrà applicare regole diverse a seconda dell’anno). Per un’azienda, la miglior strategia è prevenire tali contestazioni: mantenere separati i conti aziendali e personali, versare sempre le vendite sui conti ufficiali, evitare di usare i conti aziendali per troppe operazioni personali (o viceversa), e conservare traccia di eventuali causali (es. stipulare contratti scritti per prestiti tra soci e società, così da poterli esibire in caso di verifica).

Abbiamo quindi delineato i principali tipi di accertamento e controllo che un’azienda può subire. Ricapitolando in una tabella:

Nota: spesso un accertamento concreto può combinare più strumenti. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate potrebbe fare un accertamento analitico-induttivo sull’azienda (rettificando i ricavi in base alle presunzioni di ricarico) e contestualmente un accertamento sintetico al socio amministratore per il maggior reddito attribuibile a lui. Oppure, a seguito di una verifica della Guardia di Finanza, emettere sia un accertamento IVA per vendite senza fattura, sia un atto di recupero previdenziale per i contributi evasi sui lavoratori in nero trovati. È importante avere chiaro il quadro complessivo per scegliere le strategie di difesa adeguate in ogni ambito.

Nei prossimi capitoli ci focalizzeremo proprio sulla difesa del contribuente: cosa fare quando arriva un avviso di accertamento, quali sono i diritti (ad esempio, il fondamentale diritto al contraddittorio) e come utilizzare gli strumenti normativi (adesione, ricorso, ecc.) a proprio vantaggio. Verranno citate anche sentenze recenti che rafforzano o chiariscono tali diritti.

Diritti del contribuente e strumenti difensivi prima e dopo l’accertamento

Di fronte all’inizio di una verifica fiscale o alla notifica di un avviso di accertamento, l’imprenditore (o il suo consulente) deve innanzitutto conoscere i propri diritti e le garanzie procedurali previste dallo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) e dalle altre norme. Spesso, infatti, errori o omissioni procedurali da parte dell’ufficio possono portare all’invalidità dell’atto impositivo – un aspetto su cui molte difese vincenti si sono basate. Elenchiamo i principali strumenti difensivi e garanzie disponibili, in ordine cronologico (dall’avvio dei controlli fino al contenzioso in commissione tributaria):

1. Contraddittorio endoprocedimentale (diritto di essere ascoltato prima dell’accertamento): questa garanzia, di derivazione sia interna (Statuto del contribuente) sia europea, è stata notevolmente potenziata dalla riforma fiscale del 2023-2024. Storicamente, l’art. 12 comma 7 L. 212/2000 prevedeva che dopo una verifica in loco (accesso presso la sede del contribuente) questi avesse 60 giorni di tempo per presentare osservazioni prima che l’ufficio emettesse l’accertamento, e che l’atto emesso ante tempus fosse nullo. Per gli accertamenti “a tavolino” (senza accesso) invece non c’era un obbligo generalizzato di contraddittorio, salvo per alcuni tributi UE (es. IVA) in base a giurisprudenza. Le Sezioni Unite della Cassazione nel 2015 avevano infatti stabilito che, in mancanza di una norma, l’obbligo di contraddittorio non sussisteva per le imposte “non armonizzate” (come IRES, IRAP). Ciò è cambiato: con D.Lgs. 218/2023 (attuativo L. 111/2023) è stato introdotto nell’art. 6 dello Statuto un comma 6-bis che impone dal 18 gennaio 2024 l’obbligo generalizzato del contraddittorio preventivo per tutti gli atti impugnabili, pena annullabilità. In pratica, l’Agenzia delle Entrate (o l’ente impositore) deve invitare il contribuente a comparire o comunque comunicargli le contestazioni e dargli modo di fornire chiarimenti, prima di emettere l’avviso di accertamento. Fanno eccezione solo le ipotesi espressamente escluse: atti derivanti da controlli automatizzati o formali (liquidazioni delle dichiarazioni) e pochi altri casi elencati da un decreto ministeriale (DM 24.4.2024), nonché le situazioni di urgenza per pericolo nella riscossione (da motivare nell’atto). Ad esempio, rientrano nelle eccezioni gli avvisi bonari, gli accertamenti catastali, gli avvisi di liquidazione di tributi “minori”, ecc., mentre un classico accertamento per maggiori ricavi non è escluso e quindi richiede il contraddittorio. In sostanza, oggi se l’azienda riceve direttamente un avviso di accertamento “a sorpresa” senza essere mai stata convocata per spiegazioni, quell’atto può essere contestato come annullabile per violazione del contraddittorio (primo motivo di ricorso). Bisogna però fare attenzione: nel caso di tributi armonizzati (IVA), la Corte di Giustizia UE richiede anche la cosiddetta “prova di resistenza”: il contribuente deve cioè indicare che cosa avrebbe opposto se fosse stato sentito, ovvero dimostrare che il mancato confronto gli ha tolto una chance di difesa concreta. Se non lo fa, il giudice potrebbe ritenere il vizio non sufficiente ad annullare l’atto. Invece, per i tributi non armonizzati, dal 2024 la violazione del contraddittorio è ex lege causa di annullamento (essendo ora previsto per tutti). In pratica: appena si riceve un “invito al contraddittorio”, occorre considerarlo seriamente – è l’occasione per fornire documenti, giustificazioni e magari convincere l’ufficio a ridurre o archiviare la pretesa. Durante il contraddittorio, preferibilmente con l’ausilio di un tributarista, si possono depositare memorie difensive e ogni prova (contratti, perizie, ecc.). Se invece l’accertamento è arrivato senza invito, valutare subito con un legale se rientra tra i casi di nullità: in molti casi recenti i giudici tributari hanno annullato avvisi emessi senza contraddittorio, applicando il nuovo art. 6-bis Statuto, dato che ormai la regola è la partecipazione del contribuente al procedimento.

2. Accessi, ispezioni e verifiche della Guardia di Finanza/Agenzia Entrate: quando l’azienda subisce una verifica sul campo (tipicamente, la visita della Guardia di Finanza in negozio, magazzino o uffici), scattano le garanzie dell’art. 12 Statuto. Oltre al citato termine di 60 giorni a fine verifica, durante l’accesso il contribuente ha diritto: a farsi assistere da un professionista di fiducia (può chiamare subito il commercialista o avvocato), a ottenere copia del processo verbale di constatazione (PVC) finale, e a far mettere a verbale eventuali dichiarazioni. La verifica deve durare un tempo congruo (per le PMI, la permanenza dei verificatori in sede non dovrebbe superare 30 giorni lavorativi, salvo proroghe per complessità). Se i verificatori acquisiscono documenti, devono rilasciarne copia timbrata. In generale, è consigliabile mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo nel far rispettare i propri diritti: far annotare nel verbale ogni anomalia (ad es. “contestiamo il metodo di campionamento delle rimanenze perché…”) perché quelle osservazioni potranno essere utili dopo. Dopo la verifica, viene rilasciato il PVC: da quel momento decorrono 60 giorni entro cui si possono presentare osservazioni e richieste (memoria difensiva). L’ufficio non può emettere l’accertamento prima di tale termine (pena nullità), a meno che vi sia particolare e motivata urgenza (ad esempio, il contribuente sta per scappare all’estero o disperdere i beni). Se arriva comunque un atto prima dei 60 giorni senza urgenza, si ha un forte motivo procedurale per farlo annullare. Strategia: utilizzare sempre questi 60 giorni per depositare una memoria tecnica con il supporto di professionisti, smontando punto per punto le constatazioni della GdF. Spesso l’ufficio, esaminando le memorie, rinuncia ad alcune contestazioni o ridimensiona la pretesa nell’avviso di accertamento (talora archivia addirittura il caso, se le prove difensive sono schiaccianti). Inoltre, dal 2024 è stata reintrodotta la possibilità di adesione al PVC: se il contribuente concorda integralmente con le risultanze del PVC, può aderirvi ottenendo una sanzione ridotta a 1/6 (anziché 1/3). Questo strumento era stato abolito nel 2018 ma ora torna: in pratica, se dopo la verifica vi rendete conto che avete effettivamente torto e preferite chiudere subito tutto, potete presentare istanza di adesione al PVC entro 30 giorni dal verbale, evitare l’emissione dell’accertamento e pagare imposte e interessi con sanzione al minimo (1/6 del minimo edittale). È un modo per risparmiare ulteriormente rispetto all’adesione post-avviso. NB: se invece non aderite al PVC, l’ufficio emetterà l’avviso di accertamento: a quel punto non potrete più beneficiare del 1/6, ma vedremo altri istituti (adesione 1/3, ecc.).

3. Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997): è uno strumento deflattivo del contenzioso, ovvero una possibilità di accordo bonario col Fisco una volta ricevuto (o in previsione di ricevere) un avviso di accertamento. Funziona così: entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, il contribuente può presentare istanza di accertamento con adesione all’ufficio (Direzione provinciale) chiedendo di essere convocato per discutere. L’istanza ha l’effetto di sospendere automaticamente i termini del ricorso per 90 giorni. Durante l’incontro (o più d’uno) si può negoziare l’entità delle imposte dovute; se si raggiunge un accordo, si formalizza un atto di adesione con la nuova base imponibile e le sanzioni ridotte ad 1/3 di quelle normalmente applicabili. Il contribuente dovrà poi pagare (o iniziare a rateizzare) entro 20 giorni. L’adesione conviene se si ritiene di avere una posizione parzialmente indifendibile in giudizio: si ottiene infatti una riduzione significativa delle sanzioni e spesso l’ufficio, pur di chiudere subito, concede qualche sconto sull’imponibile (ad esempio eliminando componenti più dubbi). Importante: con la riforma del 2023-24 l’istituto dell’adesione è stato coordinato col contraddittorio preventivo: ora, dopo il contraddittorio, se emergono elementi per un accordo, le parti possono direttamente concludere l’adesione. Inoltre è stata prevista la possibilità di definire in adesione i rilievi del PVC (come detto, con sanzione 1/6) e comunque di accedere all’adesione anche dopo aver proposto ricorso, su invito dell’ufficio in sede di mediazione (questo aspetto in realtà era già prassi). Da segnalare che l’adesione può essere avviata anche dal Fisco (invito all’adesione): in alcuni casi l’ufficio, prima di emettere l’atto, invia un invito a comparire con proposta di accertamento. Rispondere all’invito avviando il procedimento può evitare l’irrigidimento delle posizioni. Se l’adesione non va a buon fine (manca l’accordo o il contribuente decide di non firmare perché la proposta è sfavorevole), non c’è pregiudizio: si può ancora presentare ricorso in Commissione Tributaria (entro 60 giorni dalla eventuale mancata adesione o dalla scadenza dei 90 giorni di sospensione). In caso di ricorso, le ammissioni fatte durante il procedimento di adesione non sono utilizzabili contro il contribuente (c’è riservatezza delle trattative). Dunque tentare un’adesione non preclude la successiva difesa giudiziale.

4. Reclamo e mediazione (abolito dal 2024): fino al 2023 esisteva l’obbligo, per gli atti di valore fino a €50.000, di presentare un reclamo/istanza di mediazione prima di potersi costituire in giudizio, ai sensi dell’art. 17-bis D.Lgs. 546/92. Questo istituto è stato eliminato dalla riforma (D.Lgs. 220/2023) per i ricorsi notificati dal 2024 in poi. Dunque oggi, se un’azienda riceve un accertamento di qualsiasi importo, può ricorrere direttamente in Commissione Tributaria senza passare da una preventiva mediazione. Il legislatore ha ritenuto superfluo questo passaggio visto che c’è già il contraddittorio pre-atto. Occorre però fare attenzione a eventuali casi transitori: per ricorsi notificati prima del 4 gennaio 2024 o atti ricevuti nel 2023, le vecchie regole si applicano (quindi se ci si trova in quella situazione, consultare le norme previgenti). In ogni caso, benché non più obbligatoria, la fase di mediazione volontaria rimane possibile: contribuente e ufficio possono sempre trovare un accordo prima o durante il processo, scambiandosi proposte transattive. Ma non esiste più la condizione di ammissibilità legata al reclamo obbligatorio.

5. Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria): se non si è definito l’accertamento in via amministrativa, l’ultimo baluardo è la giustizia tributaria. Il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (o altro atto impugnabile, come cartella, diniego di rimborso, ecc.), salvo eventuale sospensione feriale (1-31 agosto) o sospensioni straordinarie (come quelle avute durante Covid). Il ricorso oggi si propone dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (di norma, nella provincia del domicilio fiscale del contribuente). Dal luglio 2019 il processo tributario è telematico: il ricorso si predispone in formato elettronico (file pdf nativo firmato digitalmente dal difensore) e si invia tramite il portale SIGIT (o via PEC). Per controversie sotto €3.000 è possibile stare in giudizio senza assistenza tecnica, ma visto il livello avanzato di questa trattazione, presumiamo che l’imprenditore si avvalga di un avvocato tributarista o commercialista abilitato. Nel ricorso si devono indicare i motivi per cui l’accertamento è errato o illegittimo, sia in fatto che in diritto, allegando la documentazione probatoria disponibile. Ad esempio, motivi classici: il fatto non sussiste (es. costi contestati in realtà sono reali, ecco le pezze giustificative), vizio di procedura (mancato contraddittorio, difetto di motivazione, firma non valida dell’atto, ecc.), errata applicazione di norme (es. studi di settore usati come prova contro legge, sanzioni calcolate male, decadenza dei termini…). Termini di decadenza: un controllo essenziale da fare è verificare se l’accertamento è arrivato entro i termini di legge. Oggi (per annualità dal 2016 in avanti) il termine ordinario è il 5° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (es: anno d’imposta 2020, dichiarazione presentata nel 2021, accertabile fino al 31/12/2026). Se la dichiarazione non fu presentata, il termine sale a 7 anni dall’anno in cui andava presentata. (Esempio: omessa dichiarazione 2020, accertabile fino al 31/12/2028). Queste sono le regole vigenti introdotte dalla Finanziaria 2016. Per anni precedenti c’erano termini più brevi (4 anni dichiarato, 5 omesso) ma con possibili raddoppi in caso di reato. Dal 2016 il raddoppio automatico non c’è più, c’è un unico termine già esteso a 5 e 7 anni, con possibilità di +2 anni solo se la denuncia penale per reato tributario è presentata entro il 5°/7° anno. In pratica, dal 2016 in poi, 5 e 7 anni sono i riferimenti principali. Verificate quindi la data di notifica dell’atto: se fuori termine, l’atto è nullo per decadenza, e va eccepito subito in ricorso. (Esempio: accertamento 2017 notificato nel 2024 – oltre 5 anni – è decaduto, e il contribuente non deve nulla). La decadenza va fatta valere dal contribuente, non è rilevata d’ufficio dal giudice. Nel ricorso si possono chiedere anche provvedimenti cautelari: in primis la sospensione dell’atto impugnato, qualora la sua esecuzione immediata possa causare un danno grave (ad esempio, una cartella da 1 milione metterebbe in ginocchio l’azienda). L’istanza di sospensione va presentata normalmente insieme al ricorso (o separatamente entro 60 gg dalla notifica dell’atto, se si attende di vedere se l’Ente inizia la riscossione). Il giudice fissa di solito entro 30-40 giorni l’udienza camerale per discutere la sospensione e, se concede la misura, blocca la riscossione fino alla decisione di merito. I presupposti sono: fumus boni iuris (il ricorso non è pretestuoso, ma presenta motivi validi) e periculum in mora (danno grave e irreparabile se si paga subito). Nel caso di imprese cinesi, spesso il periculum può essere motivato col rischio di dover chiudere l’attività se costretti a pagare l’intero importo prima del verdetto. Ottenere la sospensione è un sollievo temporaneo, ma intanto protegge il patrimonio da fermi amministrativi, ipoteche e altre azioni di riscossione.

6. Svolgimento del processo tributario e appello: una volta avviato, il processo in CTP (ora CGT primo grado) segue regole scritte nel D.Lgs. 546/92 ma di fatto vicine al processo civile. Ci sarà lo scambio di memorie tra contribuente (che può depositare entro 60 gg documenti, perizie, ecc. a supporto dei motivi indicati) e l’ufficio (che deposita controdeduzioni). Quindi un’udienza di discussione. Dal 2023 sono entrati in ruolo anche giudici tributari professionali (non più solo togati onorari), e c’è la possibilità di avere giudice monocratico per cause sotto 3.000 euro, ma questo non riguarda importi rilevanti tipici delle imprese. La decisione può essere presa con lettura del dispositivo in udienza (novità introdotta dal 2023). In ogni caso, una sentenza di primo grado può essere favorevole o meno; entrambe le parti (contribuente o Agenzia) se soccombenti possono proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR) entro 60 giorni. L’appello è un riesame nel merito, e la sentenza di appello sostituirà quella di primo grado. Attenzione però: la vittoria in primo grado non sospende automaticamente la riscossione per la parte di imposte dichiarate dovute dalla sentenza; se l’Agenzia vince parzialmente, può riscuotere due terzi dell’importo anche pendente appello. Quindi a volte conviene chiedere sospensione anche della sentenza. Dopo la sentenza d’appello, se ancora c’è soccombenza, si può fare ricorso per Cassazione, ma solo per motivi di legittimità (violazioni di legge o vizi di motivazione, non sul merito quantitativo). Da segnalare che la riforma 2022-2023 ha previsto che persino in Cassazione, prima della trattazione, si possa tentare una conciliazione tra le parti per definire la lite. Questo è innovativo: fino al 2022 la conciliazione era possibile solo fino al grado di appello. Ora, per ricorsi in Cass pendenti al 4/1/24, è estesa anche lì. Conciliare significa accordarsi su un importo (di solito a metà strada) con sanzioni ridotte: se la conciliazione avviene in primo grado, sanzioni al 40% del minimo; in appello 50%; in Cassazione probabilmente manterranno 50%. Se la causa ha punti deboli da entrambe le parti, può essere una soluzione rapida.

7. Dopo la sentenza definitiva – riscossione e rateizzazione: se il contenzioso si conclude con sentenza sfavorevole passata in giudicato (o se il contribuente rinuncia a impugnare l’accertamento), l’importo dovuto diventa definitivo. A questo punto interviene l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia) per il recupero coattivo. Dal 2011 in poi, gli avvisi di accertamento sono “esecutivi”, ovvero trascorsi 60 giorni dalla notifica diventano automaticamente titolo per la riscossione senza bisogno di ulteriore atto (cartella). In pratica, l’accertamento contiene già l’intimazione di pagamento e, se non sospeso né pagato, dopo 60 giorni l’Agente può procedere ad atti come fermi di auto, ipoteche sugli immobili, pignoramenti. Tuttavia, in presenza di ricorso, la riscossione è frazionata: dopo la notifica l’Agenzia può iscrivere a ruolo provvisoriamente solo il 1/3 delle imposte accertate (oltre interessi); se il contribuente vince in primo grado, deve restituire l’eventuale riscosso; se invece l’Agenzia vince, può riscuotere dopo sentenza di primo grado i 2/3; e dopo appello il resto. Alla fine, se l’importo rimane dovuto, si avrà una cartella di pagamento (o un intimazione finale) da pagare entro 30 giorni. Prescrizione: i crediti tributari definitivi si prescrivono in 10 anni (in assenza di atti interruttivi), quindi l’Agente può attivarsi in questo arco di tempo per riscuotere; se però lascia passare 10 anni senza notificare nulla, il debitore può eccepire prescrizione e non pagare più. È raro però, poiché solitamente intervengono con solleciti o fermi che interrompono i termini. In caso di temporanea difficoltà economica, la legge consente al contribuente di chiedere una rateizzazione del debito iscritto a ruolo: attualmente, fino a €120.000 di debito la dilazione è concessa quasi automaticamente fino a 6 anni (72 rate mensili); oltre tale soglia occorre dimostrare l’indice di liquidità insufficiente, e può essere concessa anche straordinaria fino a 10 anni (120 rate). Le imprese individuali o società cessate possono valutare anche procedure concorsuali o di sovraindebitamento per gestire debiti fiscali impagabili, ma questo è un tema extra-tributario. In ultimo, vanno menzionate le definizioni agevolate che periodicamente il legislatore introduce (es. rottamazione delle cartelle, saldo e stralcio, definizione liti pendenti): al 2023-2024 ce ne sono state diverse (rottamazione-quater per debiti fino al 2017, definizione liti per cause in cui l’Agenzia aveva perso nei gradi precedenti, ecc.). Un debitore dovrebbe informarsi se rientra in qualche pace fiscale in corso, perché ciò potrebbe ridurre drasticamente l’importo da pagare chiudendo la vertenza. Tali misure, però, sono straordinarie e soggette a scadenze precise stabilite dalle leggi di bilancio.

Riassumendo gli strumenti difensivi principali in una tabella di riferimento rapido:

Questi sono gli strumenti principali. Il punto di vista del debitore dev’essere sempre orientato a: individuare eventuali vizi formali o violazioni di diritti (es. termini, contraddittorio, motivazione carente, firme, notifica irregolare) perché sono armi difensive immediate; contestualmente, predisporre una difesa nel merito documentata (per smentire le pretese fiscali nel loro fondamento fattuale); infine, valutare le opzioni di definizione agevolata per minimizzare i danni economici ove la battaglia legale sia incerta o sfavorevole.

Giurisprudenza recente a tutela del contribuente (casi rilevanti)

In questa sezione esamineremo alcune importanti pronunce giurisprudenziali (2023-2025) che possono costituire precedenti utili per la difesa di un’azienda cinese (o di qualsiasi contribuente) oggetto di accertamento. Le sentenze della Corte di Cassazione, in particolare, offrono principi di diritto vincolanti per i giudici tributari e indicano come certe questioni vadano risolte. Citare e argomentare sulla base di tali sentenze può rafforzare molto il ricorso del contribuente. Vediamo i temi più rilevanti:

  • Onere della prova in caso di fatture false (operazioni inesistenti): è tristemente frequente nelle cronache fiscali il coinvolgimento di imprese cinesi in schemi di false fatturazioni (sia come utilizzatrici di fatture per costi fittizi, sia come emittenti attraverso cartiere). La Cassazione è intervenuta più volte per definire come si ripartisce l’onere probatorio in questi casi. La distinzione chiave è tra operazioni oggettivamente inesistenti (mai avvenute in assoluto) e operazioni soggettivamente inesistenti (avvenute ma con soggetto diverso da quello in fattura, tipicamente fattura emessa da cartiera invece che dal reale fornitore). Principio consolidato (sentenza n. 8716 del 2/04/2025): i costi da operazioni soggettivamente inesistenti possono essere dedotti, a condizione che il contribuente provi l’effettività dell’operazione (cioè che beni/servizi ci sono stati, che il prezzo è inerente e pagato). Invece i costi da operazioni oggettivamente inesistenti sono indeducibili in via assoluta, anche se si ha la fattura, in quanto manca la realtà economica sottostante. Questo si collega alla norma (art. 14 co.4-bis L.537/93) che, dal 2012, consente la deducibilità dei costi da reato (es. fatture false) solo se l’operazione c’è stata davvero. In pratica: se l’Agenzia prova che il fornitore in fattura è una cartiera (priva di struttura, etc.), sta a lei inizialmente dimostrare con presunzioni la fittizietà (es. società fornitrice senza dipendenti né magazzino, improbabile che abbia fornito davvero tonnellate di merce); a quel punto spetta al contribuente provare con elementi sostanziali (non solo la fattura o il bonifico) che invece la merce/servizio è stata ricevuta e utilizzata. Se ci riesce, il costo sarà ammesso (magari rideterminando l’IVA se detratta indebitamente dal soggetto fittizio). Difesa pratica: in un processo per fatture false, l’azienda deve raccogliere tutto: DDT, documenti di trasporto, prove fotografiche della merce in magazzino, email di ordine, testimonianze dei dipendenti che hanno visto scaricare la merce, analisi finanziarie che facciano capire che i soldi versati alla cartiera in realtà finivano a un altro fornitore reale, ecc. Come evidenziato dai giudici, “la mera esibizione di fatture regolari e pagamenti non basta a superare la presunzione se l’Ufficio ha provato che i fornitori erano cartiere”. Occorre qualcosa in più di “meramente formale”. Se invece è una frode totale (merce mai esistita), allora non c’è nulla da fare: quel costo è perso. In materia di IVA, anche qui la difesa può richiamare la giurisprudenza UE: il diritto alla detrazione IVA può essere negato solo se si prova che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere della frode del fornitore. Dunque un’azienda magari inconsapevole di aver comprato da una cartiera può tentare di salvarsi sull’IVA (non sulle imposte dirette) dimostrando la propria buona fede (controlli eseguiti, ecc.). Ma se, come spesso capita in ambienti ristretti, l’imprenditore era consapevole, nulla di fatto. Sul fronte penale, la Cassazione (sent. 16576/2023) ha anche chiarito che il reato di emissione di fatture false sussiste pure nelle ipotesi “soggettive” (cartiera), e quello di utilizzo pure se i costi poi sono stati considerati deducibili: il penale e l’amministrativo seguono logiche diverse. Quindi dedurre un costo soggettivamente falso è possibile (se effettivo), ma chi ha orchestrato la fattura resta punibile.
  • Nullità dell’accertamento per vizi formali (firme, motivazione): un accertamento fiscale è un atto amministrativo che deve rispettare determinate forme previste a pena di nullità. Un argomento difensivo a volte vincente è verificare se l’atto è sottoscritto da un funzionario legittimato. L’art. 42 DPR 600/73 richiede la firma del capo ufficio o di altro funzionario delegato di livello dirigenziale. Negli anni scorsi, vi è stata la nota querelle dei dirigenti decaduti (incarichi illegittimi dichiarati dalla Corte Cost. n.37/2015): molti avvisi firmati da tali dirigenti sono stati annullati dai giudici. Oggi la situazione è meno frequente, ma vale la pena controllare: se la firma è di un funzionario di area non apicale senza delega valida, l’atto è nullo. Ad esempio, la Cassazione con sentenza n. 10584/2024 ha confermato questo principio, anche se ha precisato che il vizio va eccepito dal contribuente (non rilevabile d’ufficio in appello). Quindi, bisogna far valere subito nel ricorso la nullità per difetto di sottoscrizione valida. Un altro vizio tipico: motivazione insufficiente o per relationem illeggittima. Se l’accertamento si limita a rinviare a un PVC senza allegarlo, o non spiega chiaramente le ragioni del maggior imponibile, può violare l’art.7 L.212/2000 e art.3 L.241/90. Tuttavia, in pratica i giudici tendono a ritenere valida la motivazione “per relationem” se il PVC è conosciuto dal contribuente (come nel caso gli sia stato notificato). La difesa quindi deve puntare su eventuali parti di motivazione omesse (es: mancano i calcoli su come si arriva al maggior reddito, rendendo impossibile capire). Ci sono sentenze che annullano atti perché il quantum era oscuro.
  • Contraddittorio e diritto di difesa: abbiamo già trattato la grande novità dell’art.6-bis Statuto. Sul punto giova ricordare alcune sentenze che hanno anticipato il legislatore: la Corte Costituzionale n. 47/2015 e la n. 146/2017 sollecitavano il Parlamento a prevedere l’obbligo di contraddittorio per ogni accertamento. La riforma l’ha fatto. Nel frattempo, Cassazione e Corte UE (causa Kamino, Corte Giust. 2014) hanno delineato la “prova di resistenza” per gli atti IVA emessi senza contraddittorio. Un esempio applicativo recente: Cass. ord. 9999/2025 ha accolto il ricorso di un contribuente perché l’accertamento a tavolino riguardava anche IVA (seppur modesta) e l’ufficio aveva omesso il contraddittorio; la difesa aveva specificato quali documenti (fatture di costi) avrebbe potuto esibire in quella sede, così convincendo la Cassazione dell’effettivo pregiudizio subito. Questo per dire: sempre indicare nel ricorso cosa si sarebbe detto in contraddittorio, per dare sostanza all’eccezione di nullità. Da segnalare pure la Cass. 2795/2025 che ha affermato come, anche prima dell’art.6-bis, per i tributi armonizzati l’obbligo di contraddittorio fosse generale, salvo prova di resistenza. In definitiva, dal 2024 ogni mancata convocazione è un possibile punto a favore del contribuente.
  • Esterovestizione e residenza fiscale delle società: già toccato nel quadro normativo, ricordiamo la ordinanza 23150/2022 della Cassazione che ha rivoluzionato in parte l’approccio: ha stabilito che per qualificare una società estera come residente in Italia basta verificare i criteri di collegamento ex art.73 TUIR (sede admin in Italia per la maggior parte del periodo, ad esempio) anche senza provare uno specifico vantaggio fiscale perseguito. In altre parole, l’esterovestizione non è più vista solo come abuso/elusione, ma come fatto oggettivo: se l’azienda cinese è di fatto gestita dall’Italia, è residente qui e tassabile qui, punto. Ciò comporta anche che non si applichi l’esimente dell’“abuso del diritto” (art.10-bis comma 13 L.212/2000) che salvava dal penale in caso di condotta elusiva senza imposta evasa. Quindi un contribuente coinvolto in simili contestazioni dovrà focalizzarsi su dimostrare che la sede effettiva era all’estero (se vera), oppure transigere la questione. Sul fronte giurisprudenza, Cass. 1626/2023 e 1883/2023 (sentenze tributarie) hanno spesso dato ragione al Fisco se c’erano indizi chiari (amministratori residenti in Italia, decisioni prese qui). La difesa in questi casi è difficilissima se i fatti sono contro di sé; ma se l’azienda ha una struttura reale in Cina e autonomia gestionale, presentare organigrammi, verbali, contratti cinesi, ecc. per convincere i giudici.
  • Termini di decadenza e proroghe: la Cassazione SS.UU. 26283/2022 ha risolto un contrasto sui termini di accertamento per omessa dichiarazione, affermando che il raddoppio per reato si applica solo se la denuncia è inviata entro il termine ordinario e comunque entro il doppio del termine breve (in pratica ha confermato l’interpretazione restrittiva post-riforma). Inoltre, Cass. SS.UU. 5200/2023 ha statuito in materia di rimborso IVA che la notifica via PEC entro mezzanotte è valida (questo come curiosità, sulla tempestività delle notifiche telematiche).
  • Indagini finanziarie e riconoscimento costi presunti: un tema molto tecnico ma utile: Cass. 10013/2025 ha affrontato il caso di conti bancari di un’impresa dove c’erano versamenti non giustificati. La Corte ha affermato che nelle indagini finanziarie se l’ufficio presume ricavi non dichiarati dai versamenti, il contribuente non può invocare costi in via forfettaria per abbattere tali ricavi se non li prova. Cioè, trovati €100 di ricavi in nero, non puoi dire “ci saranno stati costi 40, quindi utile 60” senza evidenze: il fisco tassa 100 a meno che tu esibisca fatture di acquisto per quei ricavi. Questo è rilevante specialmente per il commercio in nero: difendersi sostenendo genericamente che esistono costi occulti non funziona, servono pezze giustificative (anche tardive). Per le aziende cinesi che vendono merci in nero, può essere utile tenere comunque la documentazione degli acquisti (che spesso avvengono regolarmente) così da poterli esibire in caso di ricostruzione induttiva, per non farsi tassare sull’intero ammontare dei ricavi evasi ma solo sul margine.
  • Litisconsorzio necessario: infine, segnaliamo un principio importante per società di persone o compagini dove più soggetti sono coobbligati (es. soci di SNC per maggior reddito imputato). La Cassazione (SS.UU. 8500/2021) ha statuito che in caso di accertamento unitario che coinvolge più soggetti (es. società di persone e soci), il ricorso di uno deve vedere partecipi tutti (litisconsorzio necessario). Nel contesto di imprese cinesi, questo potrebbe applicarsi se, ad esempio, più società sono considerate interdipendenti e subiscono un accertamento unico (pensiamo a una famiglia che gestisce 3 Srl usate come reticolo). Se si tratta di materia analoga e fatti collegati, assicurarsi che tutti i soggetti interessati siano parti del processo, altrimenti c’è nullità. Questo è un tema specialistico, ma un avvocato attento lo valuterà.

Come si vede, la giurisprudenza recente offre spunti sia a favore del contribuente (nullità per vizi procedurali, limiti all’arbitrio del Fisco nelle presunzioni) sia a favore dell’Amministrazione (rigore nelle prove richieste al contribuente, sanzioni e definizioni restrittive in caso di comportamenti fraudolenti). La difesa efficace consiste nel conoscere queste pronunce e utilizzarle: ad esempio, se difendiamo un’azienda accusata di fatture da cartiere ma la prestazione c’è stata, citeremo la Cass. 8716/2025 per dire che i costi sono deducibili presentando le prove di effettività; se l’ufficio ha saltato il contraddittorio su IVA, citeremo Cass. 9999/25 e la Kamino; se contestano prelievi bancari minimi su anni recenti, citeremo la modifica 2016 e Cass. 19774/2020 (FiscoOggi); e così via. Nel capitolo seguente proporremo alcune FAQ pratiche che ricapitolano punti cruciali emersi.

Domande frequenti (FAQ)

D: Quanto tempo ha il Fisco per notificare un avviso di accertamento?
R: Dipende dall’anno d’imposta e se la dichiarazione è stata presentata. Per i periodi più recenti (dal 2016 in poi), il termine ordinario è 5 anni dopo l’anno di presentazione della dichiarazione. Se la dichiarazione manca (omessa) o è stata fraudolenta, sale a 7 anni. Ad esempio, per l’anno d’imposta 2020 (dichiarazione 2021) il termine è il 31 dicembre 2026; se nessuna dichiarazione 2020, termine 31/12/2028. Fino al 2015 valevano 4 anni (dich. presentata) o 5 (omessa), ma con raddoppio a 8 o 10 in caso di denuncia penale. Oggi non c’è più raddoppio automatico, se non limitatamente a +2 anni se la denuncia per reato fiscale è inviata entro i 5/7 anni. In pratica: trascorsi i termini, l’atto è decaduto e se venisse notificato oltre, potresti farlo annullare. Ricorda: la notifica a mezzo PEC è valida se l’email arriva entro le 23:59 dell’ultimo giorno utile. Dopo, è fuori termine.

D: Ho ricevuto un avviso di accertamento “immediato” senza essere stato convocato prima. È lecito?
R: Se l’accertamento è stato emesso dopo il 30 aprile 2024, in generale NO, non è lecito, a meno che rientri in specifiche eccezioni. La nuova legge sul contraddittorio impone che tutti gli atti impugnabili siano preceduti da invito al contraddittorio. Fanno eccezione ad esempio gli avvisi derivanti da controlli automatici/formali (avvisi bonari) o casi d’urgenza motivata. Se non rientra in questi (es: è un classico accertamento per redditi non dichiarati) e non ti hanno inviato la lettera di convocazione, l’avviso è annullabile per violazione del contraddittorio. Devi però impugnarlo tu, eccependo il vizio e spiegando quali elementi avresti fornito se interpellato (la cosiddetta prova di resistenza, soprattutto se c’è IVA di mezzo). Per atti emessi prima di tale data, l’obbligo c’era solo per verifiche in sede e per IVA: in quei casi la mancata convocazione poteva già essere motivo di nullità, ma con caveat (necessario dimostrare il pregiudizio). In sintesi: oggi hai uno scudo in più. Se non sei stato ascoltato, fai valere i tuoi diritti in ricorso.

D: Mi contestano ricavi non dichiarati sulla base di versamenti bancari sul mio conto. Possono farlo e come mi difendo?
R: Sì, possono. La legge presuppone che ogni versamento sul conto di un imprenditore sia un ricavo imponibile se non dimostri il contrario. È un fardello sul contribuente. Quindi l’ufficio può aver preso l’estratto conto e sommato accrediti di cui non hanno riscontro nelle vendite registrate. Per difenderti, devi spiegare uno per uno quei movimenti con prove: es. “questo versamento da 5.000€ è un prestito di un amico, ecco il contratto e la sua testimonianza”; “quest’altro è il trasferimento da un mio conto personale (quindi non ricavo)”; “questi 3 versamenti sono rimborsi di anticipi che avevo fatto in contanti ai fornitori – ecco le ricevute”; ecc. Senza spiegazioni, quei versamenti saranno tassati. Dal 2016, come detto, per i prelievi vige soglia 1.000/5.000€: sotto queste soglie non possono presumere nulla, sopra possono chiederti di indicare a chi hai pagato quei contanti; se non lo fai e secondo loro servivano ad acquisti in nero, potrebbero convertirli in vendite non dichiarate. Cassazioni recenti hanno anche stabilito che non puoi opporre costi generici a fronte di questi ricavi presunti: devi documentare pure quelli, altrimenti il fisco ti tassa l’intero importo versato. Quindi la difesa è faticosa ma possibile con un buon lavoro di ricostruzione e raccolta prove. Coinvolgi un professionista per predisporre un prospetto analitico di tutti i movimenti contestati con relative giustificazioni e allegati (contratti, dichiarazioni, ecc.). Se proprio alcuni versamenti restano senza spiegazione, valuta se ti conviene transare (adesione su quell’importo) per evitare il contenzioso su quella parte.

D: La mia società (o ditta individuale) ha chiuso e non ho beni intestati. Cosa rischio se non pago le tasse accertate?
R: Se la società aveva patrimonio insufficiente e viene liquidata lasciando debiti tributari, l’Agenzia può tentare di escutere i soci o amministratori in alcuni casi: ad esempio, per società di capitali, se provano che c’è stata responsabilità (tipo distrazione di attivi prima di pagare le imposte, o continuazione dell’attività con altra ditta – comportamento fraudolento) possono agire verso gli amministratori per il danno erariale, e segnalare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Questo reato scatta se compie atti simulati o fraudolenti per evadere il pagamento: trasferire sede all’estero fittiziamente, cedere azienda a un prestanome per svuotarla, spegnere una società e aprirne un’altra identica intestata a un prestanome (tipico “apri e chiudi”). Le pene possono includere reclusione fino a 6 anni nei casi gravi e confisca dei beni trasferiti. Inoltre, per società di persone i soci sono illimitatamente responsabili dei debiti fiscali, quindi anche dopo chiusura, il fisco li inseguirà personalmente. Per le ditte individuali, la chiusura P.IVA non evita affatto la riscossione: l’Agente Riscossione può pignorare l’ex titolare vita natural durante, salvo prescrizione. In più, dal 2020 esiste una norma (art. 2495 c.c. riformato) che permette ai creditori sociali di SRL di agire contro i soci fino ai limiti delle somme ricevute in liquidazione: se hai preso attivi in sede di chiusura, il fisco potrebbe chiederteli indietro a copertura dei debiti fiscali non soddisfatti. Insomma, “far sparire” la società non è una soluzione pulita: conviene semmai cercare accordi col fisco (rateazioni, definizioni) o in extremis valutare il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale (fallimento) se i debiti sono enormi, per risolverli in sede concorsuale. Sottolineo che, se emergono comportamenti dolosi, l’Amministrazione ora ha gli strumenti per contrastarli: scambio di info internazionale, indagini patrimoniali, cooperative compliance con la Cina non ancora ma in sviluppo. Dunque, rischi: azioni legali su patrimoni occulti, imputazioni penali, interdittive (es. inibizione a aprire nuove attività con codice fiscale collegato). La via migliore è regolarizzare o transare.

D: In caso di accertamento, posso finire in penale?
R: Solo se vengono superate le soglie di rilevanza penale previste dal D.Lgs. 74/2000, o se ci sono elementi di frode. Ad esempio, Dichiarazione infedele (dati falsi) è reato se l’imposta evasa supera €100.000 e gli elementi attivi sottratti superano il 10% del dichiarato o €2 milioni. Omessa dichiarazione è reato oltre €50.000 di imposta evasa. Emesso/utilizzato fatture false è reato a prescindere dall’importo (soglia solo €1 per utilizzatore, €100k per emittente fino al 2015, poi tolta, ora reato sempre). Occultamento di scritture reato sempre. Molte condotte delle “aziende apri e chiudi” integrano vari reati: dichiarazione fraudolenta tramite fatture false, occultamento contabilità, sottrazione fraudolenta patrimoniale, ecc. Quindi sì, c’è una concreta possibilità di conseguenze penali se l’evasione non è minima. Tuttavia, esiste anche la via di uscirne: il D.Lgs. 74/2000 prevede cause di non punibilità in caso di pagamento integrale dei debiti tributari (imposta, interessi, sanzioni) prima del dibattimento di primo grado. Ciò vale per i reati di dichiarazione infedele, omessa, indebite compensazioni, ecc., non per emissione di fatture false (che è più grave). Quindi, se ti viene contestato penalmente qualcosa, pagando il dovuto (magari grazie a una definizione agevolata) potresti evitare la condanna. Questa è un’ulteriore spinta a risolvere il contenzioso tributario: chiudendo l’accertamento e saldando, metti in sicurezza anche la posizione penale (quando possibile).

D: Il Fisco mi ha applicato sanzioni del 100% – 200%: posso ridurle in qualche modo?
R: Sì. In fase amministrativa, attraverso gli istituti deflattivi: l’adesione all’accertamento comporta sanzioni ridotte a 1/3, l’acquiescenza entro 60 gg a 1/3. Se hai i requisiti per definizione agevolata delle sanzioni (ad es. in caso di parziale annullamento in autotutela), puoi pagarne 1/3 entro 60 gg dal ricevimento dell’atto di adesione/autotutela parziale. In fase giudiziale, se arrivi a conciliare col fisco prima della sentenza, le sanzioni si riducono al 40% o 50% come detto. Inoltre, se vinci anche solo parzialmente, le sanzioni relative alla parte annullata cadono; e il giudice può compensare le restanti se c’è incertezza su interpretazione. Esistono poi le cause di non punibilità amministrativa (es. obiettiva incertezza normativa) ma raramente riconosciute. In alcuni casi specifici (es. tardiva registrazione di atti) il decreto correttivo 2025 ha introdotto sanzioni fisse ridotte (150-250€), ma questo riguarda più violazioni formali. Per l’IVA, se riesci a dimostrare buona fede in frodi carosello, potresti evitare sanzioni (in base a giurisprudenza unionale). Quindi, in pratica: utilizzare gli strumenti transattivi per abbattere le sanzioni conviene quasi sempre, perché in caso di giudizio rischi di pagarle intere (salvo vittoria piena).

D: Un mio negozio è stato trovato senza emettere scontrini in due controlli; può essere chiuso?
R: C’è una norma (DL 269/2003, art. 12) che prevede la sanzione accessoria di chiusura temporanea dell’esercizio (da 3 giorni a 1 mese) se vengono constatate almeno 4 mancate emissioni di scontrino o ricevuta in giorni diversi nell’arco di 5 anni. Se gli accertatori (Agenzia Entrate o GdF) hanno contestato già 4 violazioni, scatta la proposta di chiusura. Per un imprenditore, subire questo provvedimento è molto dannoso per l’immagine e i guadagni. In tali casi, si può presentare memorie e magari ottenere la conversione in una sanzione pecuniaria (la legge lo consente pagando una somma pari a un certo multiplo della sanzione, su autorizzazione). Dato che nelle comunità cinesi capita di vedere negozianti che non emettono scontrino, attenzione: conviene disciplinarsi, anche perché oggi con i corrispettivi telematici, il sistema registra le mancate trasmissioni e i controlli sono più mirati.

D: Ho un e-commerce non dichiarato e voglio regolarizzarmi prima che mi scoprano. Cosa posso fare?
R: Puoi ricorrere al ravvedimento operoso prima che parta la verifica. Il ravvedimento ti permette di presentare le dichiarazioni omesse (es. aprire la P.IVA, inviare dichiarazioni degli ultimi 5 anni non fatte) e pagare le imposte dovute con sanzioni ridotte e interessi. Se lo fai spontaneamente prima di ricevere formali comunicazioni di controllo, le sanzioni per omessa dichiarazione e omesso versamento subiscono riduzioni molto forti (anche 1/6 del minimo, a seconda di quanto tempo è passato). Certo, dovrai pagare le imposte evase, ma eviterai il contenzioso e soprattutto le possibili denunce penali (perché se fai ravvedimento prima di aver notizia di verifiche, il reato tributario è escluso in quanto la condotta attiva di pentimento lo estingue). Quindi, ad esempio, se hai guadagnato 100k online negli ultimi 2 anni senza dichiarare, puoi aprire P.IVA ora, presentare le dichiarazioni tardive, pagare l’IRPEF + IVA dovuta con sanzione ridotta (5% per omesso versamento se entro 2 anni, 1/7 di 30% se oltre, etc.) e metterti in regola. È altamente consigliabile farsi assistere da un fiscalista per calcolare tutto e presentare le istanze. Ricorda che dal 2023 le piattaforme trasmettono i dati: quindi l’Agenzia prima o poi busserà. Meglio anticiparla pulendo la propria posizione, approfittando del ravvedimento che è un’opportunità di legge per chi si auto-denuncia fiscalmente.

D: In sintesi, quali sono i punti di forza per difendersi da un accertamento fiscale?
R: Riassumiamo i più importanti dal punto di vista di un contribuente (debitore):

  • Verificare tempestività e forma dell’atto: se notificato oltre termine, o notificato in modo nullo, o non firmato correttamente, ecc. Questi vizi formal-procedurali possono azzerare l’atto. Ad esempio, mancanza di contraddittorio ove dovuto, violazione 60 giorni post-verifica, motivazione generica, errore nel destinatario, ecc. sono tutti elementi da scrutare.
  • Sfruttare le opportunità di dialogo: se non hai già ricevuto l’atto ma un invito o un PVC, usa quel momento per sistemare ciò che puoi (presentare documenti mancanti, correggere errori). Spesso un chiarimento in questa fase può far archiviare o ridurre il caso.
  • Preparare una difesa nel merito dettagliata: contestare i fatti e le cifre con controprove. Non limitarsi a dire “non è vero”, ma fornire alternative: se dicono “hai venduto €50.000 in nero”, produci evidenze che magari quei soldi provenivano da altrove; se dicono “il ricarico doveva essere 30% anziché 10%”, spiega con dati di mercato perché il tuo era più basso (es. merce difettosa, concorrenza, ecc.).
  • Conoscere la normativa: ad esempio, sapere che dal 2016 certe presunzioni sui prelievi non valgono, oppure che esiste lo Statuto del Contribuente che ti dà diritti. Spesso l’ufficio “dimentica” lo Statuto; rammentarglielo (anche al giudice) è doveroso.
  • Citare precedenti giurisprudenziali calzanti: ad es., come abbiamo visto, Cassazione su fatture false (che permette deduzioni se prestazione reale); Cassazione su contraddittorio; su onere del Fisco di provare la bancarizzazione anomala, etc. Questo dà autorevolezza alle tesi difensive.
  • Valutare sempre un approccio multi-strategico: non fossilizzarsi su “vinco tutto in giudizio” né arrendersi subito. Presenta ricorso ma nel frattempo non chiudere la porta a una conciliazione se conviene economicamente. L’obiettivo è pagare il giusto, non pagare nulla a prescindere (che a volte è utopistico). Quindi saper scendere a compromessi quando i rischi di perdere sono alti è segno di buona gestione.
  • Infine, affidarsi a professionisti esperti in materia tributaria: la normativa è complessa e cangiante (come dimostra la riforma 2023/25). Un buon difensore sa quali tasti premere (procedurali o di merito) per massimizzare le chance di successo o di accordo.

Conclusioni e consigli finali

Difendersi da un accertamento fiscale in Italia – specialmente per un’azienda gestita da cittadini stranieri come la comunità cinese – può sembrare un percorso difficile, a tratti impervio per barriere linguistiche o culturali. Ma il sistema tributario italiano offre molte tutele al contribuente, a patto di conoscerle e farle valere con determinazione. Questa guida ha esaminato in dettaglio le possibili contestazioni che il Fisco può muovere (dalle sotto-dichiarazioni di ricavi alle frodi complesse) e gli strumenti a disposizione del contribuente per controbattere.

In particolare, dal punto di vista del debitore (ovvero dell’azienda che si vede recapitare una pretesa fiscale): è fondamentale mantenere la calma, non fuggire dalle proprie responsabilità (atteggiamento che spesso peggiora la situazione) e impostare subito, con lucidità, una strategia. Ignorare l’accertamento o procrastinare non risolve nulla – anzi, farà scadere i termini per difendersi. Bisogna invece attivarsi immediatamente: per prima cosa, leggere attentamente l’atto (meglio se con il supporto di un consulente che traduca eventuali termini tecnici), verificare data, firma, motivi; poi raccogliere tutta la documentazione contabile e extra-contabile utile; quindi, valutare se ci sono errori dell’ufficio su cui impostare il ricorso.

Uno degli insegnamenti emergenti dalle vicende analizzate è che le autorità italiane hanno oramai compreso e monitorato i fenomeni evasivi specifici di certe realtà imprenditoriali (come la cosiddetta “Prato connection” di laboratori tessili, o l’evasione nell’import-export all’ingrosso). Ciò significa che difficilmente in sede di merito potranno passare giustificazioni pretestuose o operazioni costruite ad hoc per eludere (società fantoccio, prestanome, chiusure simulate). Le indagini finanziarie, incrociate coi flussi doganali e con le fatture elettroniche, permettono incastri probatori molto efficaci. Dunque, la miglior difesa è sempre la trasparenza e la regolarità: se un’azienda ha tenuto i conti in ordine e ha pagato il dovuto, uscirà indenne dalla verifica (anzi, potrebbe persino approfittare di eventuali errori del Fisco per farsi annullare l’atto e chiedere rimborso di spese legali). Se invece qualche irregolarità c’è stata, conviene circoscriverla, correggerla per tempo (ravvedimento) e, se contestata, collaborare per definire un accordo equo, evitando di incancrenire la posizione con anni di processi.

Il taglio pratico di questa guida ha voluto proprio fornire alle imprese (cinesi e non) gli strumenti conoscitivi per affrontare un accertamento con consapevolezza: conoscendo in anticipo quali saranno le mosse del Fisco (ad es. analisi dei conti bancari, controllo delle rimanenze, confronto con studi di settore) e quali le possibili contromosse del contribuente (contraddittorio, prove contrarie, eccezioni procedurali). Con oltre 10.000 parole, abbiamo coperto un ventaglio ampio di situazioni – dal piccolo commerciante trovato senza scontrino, alla società internazionale accusata di spostare utili in Cina – ma il filo conduttore è unico: far valere lo Stato di diritto tributario. In Italia, nonostante la fama di complessità del fisco, i contribuenti hanno una serie di diritti garantiti (tempistiche, difesa, giudice terzo, presunzione d’innocenza fino a prova contraria): il successo di una difesa dipende in gran parte dall’attivarli efficacemente.

Un ultimo consiglio pragmatico per gli imprenditori cinesi (valevole in realtà per chiunque): non isolarsi. La barriera linguistica o la diffidenza verso le istituzioni spesso inducono a gestire “in casa” le questioni fiscali, magari consultandosi solo all’interno della comunità. Invece, aprirsi a consulenti locali qualificati (che conoscano bene sia l’italiano sia possibilmente il cinese, per evitare incomprensioni) può fare la differenza tra una posizione risolta e un disastro finanziario. Ci sono oramai molti professionisti specializzati in fiscalità internazionale e contenzioso tributario con clientela asiatica, che sanno conciliare le esigenze culturali con le regole italiane. Investire in una buona consulenza preventiva e difensiva è il miglior modo per “difendersi” ancor prima che arrivi l’accertamento.

In conclusione, un accertamento fiscale ad un’azienda cinese in Italia non è una sentenza definitiva: è l’inizio di un procedimento in cui il contribuente ha ampie possibilità di difesa, sia sul piano formale che sostanziale. Come abbiamo visto, molte sono le chance di ridurre o annullare la pretesa (dalla decadenza dell’atto, alla prova che le operazioni contestate erano effettive, fino agli accordi transattivi) e di gestire l’impatto economico (rateazioni, definizioni agevolate). Il debitore deve però agire con tempestività, cognizione di causa e – non ultimo – bona fide: presentare una difesa onesta e documentata è la strategia che alla lunga paga di più. Il sistema tributario punisce le furbizie ma premia la cooperazione e la correzione degli errori. In tal senso, “come difendersi” significa anche “come rimediare”, trasformando un accertamento da evento catastrofico a occasione per regolarizzare la propria posizione, mettere un punto fermo sul passato e proseguire l’attività imprenditoriale su basi più solide e tranquille per il futuro.


Fonti (normative e giurisprudenziali)

  • D.P.R. 29/09/1973 n.600, art.39: disposizioni sui tipi di accertamento delle imposte sui redditi (analitico, induttivo, ecc.).
  • D.P.R. 26/10/1972 n.633, artt.54-55: poteri di accertamento in materia IVA (rettifiche imponibile, operazioni inesistenti, ecc.).
  • Legge 27/07/2000 n.212 (Statuto del Contribuente), artt. 6, 7, 12: diritti del contribuente durante verifiche e nel procedimento (contraddittorio preventivo introdotto da D.Lgs. 218/2023).
  • Corte di Cassazione, Sez. Trib., ord. 23150/2022: Principio su esterovestizione societaria – residenza in Italia determinata dai criteri oggettivi (sede amministrativa, etc.) anche senza fine elusiva.
  • Corte di Cassazione, Sez. Trib., sent. 10584/2024: Validità dell’atto impositivo solo se sottoscritto da funzionario delegato di livello adeguato, altrimenti nullità (caso dirigente illegittimo).
  • Corte di Cassazione, Sez. Trib., ord. 9999/2025: Obbligo generalizzato di contraddittorio dal 2024; conferma necessità prova di resistenza per IVA (richiama SS.UU. 24823/2015 e CGUE Kamino).
  • Corte di Cassazione, Sez. Trib., sent. 8716/2025: Fatture per operazioni inesistenti – onere della prova e deducibilità costi; ammessa deduzione costi da operazioni soggettivamente inesistenti se effettive, esclusa per quelle oggettivamente inesistenti.
  • Corte di Cassazione, Sez. Trib., ord. 19774/2020: Indagini finanziarie – modifica 2016 su prelevamenti non ha effetto retroattivo; soglie €1.000/5.000 valide solo dal 2016 in poi.
  • Corte di Cassazione, Sez. V, sent. 1883/2023: Esterovestizione – conferma che spetta al Fisco prova del luogo di direzione effettiva; se fornita, onere al contribuente di provare il contrario (caso società cinese con Cda in Italia).
  • Assolombarda – riforma fiscale 2023/24: Sintesi D.Lgs. 13/2024 (accertamento tributario) e correttivo D.Lgs. 81/2025 su contenzioso e sanzioni.
  • D.Lgs. 74/2000 (reati tributari): soglie di punibilità e cause di non punibilità (art.13: pagamento del debito prima del dibattimento). Cass. pen. 29965/2022: conferma estinzione reato omesso versamento IVA se pagato interamente il dovuto.
  • Fonti Doganali: Cass. 5560/2019: sottofatturazione in dogana – dichiarazione mendace implica recupero dazi/IVA e sanzioni;

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