Cosa Fare Se L’Agenzia Delle Entrate Non Rimborsa

Hai presentato una richiesta di rimborso all’Agenzia delle Entrate, ma non hai ancora ricevuto nulla? I tempi si stanno allungando, non hai aggiornamenti e ti chiedi cosa puoi fare per ottenere quanto ti spetta?

Il rimborso da parte del Fisco può riguardare IRPEF, IVA, imposte versate in eccesso o crediti da dichiarazione. Tuttavia, può accadere che l’Agenzia non proceda al pagamento nei tempi previsti, oppure che blocchi il rimborso in attesa di controlli, lasciando il contribuente nell’incertezza.

Quando si ha diritto a un rimborso fiscale?
– Quando dalla dichiarazione dei redditi o IVA risulta un credito superiore a quanto dovuto
– In caso di pagamento doppio o errato di imposte
– Se il Fisco ha recuperato indebitamente un’imposta, poi annullata
– Quando si esercita un diritto al rimborso per sentenza favorevole o autotutela

Perché l’Agenzia delle Entrate non effettua il rimborso?
– Perché sta effettuando controlli preventivi, anche automatici
– Perché ha rilevato incongruenze nei dati dichiarati
– Perché ha compensato d’ufficio il credito con eventuali debiti iscritti a ruolo
– Perché la domanda è incompleta o non presentata correttamente
– Per ritardi puramente amministrativi o organizzativi

Cosa puoi fare se il rimborso non arriva?
– Verifica la dichiarazione presentata e accertati che il credito sia effettivo
– Accedi al cassetto fiscale per controllare lo stato della richiesta
– Controlla se il rimborso è stato bloccato per compensazione con debiti
– Presenta una istanza di sollecito all’ufficio competente
– Se sono trascorsi più di 90 giorni (o 6 mesi per IVA), valuta un ricorso per silenzio-rifiuto
– In caso di rifiuto espresso o comportamento omissivo, avvia azione legale davanti alla Corte di Giustizia Tributaria

Cosa puoi ottenere con l’intervento di un avvocato?
Sollecito formale del rimborso con richiesta motivata
Diffida all’Agenzia delle Entrate, anche con richiesta di interessi
Ricorso contro il silenzio-rifiuto, se il Fisco non risponde entro i termini
Tutela giudiziaria per il recupero forzoso del credito fiscale

Il rimborso fiscale è un diritto del contribuente, e l’Amministrazione è tenuta a rispettare tempi certi. In caso contrario, puoi agire per ottenere il pagamento e gli eventuali interessi maturati.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale ti spiega cosa fare se l’Agenzia non rimborsa, quali sono i tempi da rispettare e come ottenere quanto ti spetta.

Hai un rimborso bloccato da mesi? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Verificheremo la tua posizione e ti diremo come sbloccare il rimborso e tutelare il tuo credito.

Introduzione

Quando un contribuente – sia persona fisica che impresa – vanta un credito verso il Fisco, ad esempio per imposte pagate in eccedenza o non dovute, ci si aspetta che l’Agenzia delle Entrate eroghi il rimborso dovuto in tempi ragionevoli. Purtroppo non sempre avviene così: ritardi, silenzi e persino dinieghi formali possono ostacolare il recupero delle somme spettanti. Dal punto di vista di chi attende un rimborso (il creditore dell’Amministrazione finanziaria, talvolta indicato colloquialmente come “debitore” in quanto in altre circostanze è tenuto a pagare tributi), è fondamentale conoscere quali strumenti giuridici si hanno a disposizione per sbloccare la situazione

Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – offre un quadro avanzato e approfondito, con taglio pratico e linguaggio giuridico divulgativo, di cosa fare se l’Agenzia delle Entrate non rimborsa. Esamineremo le varie tipologie di rimborso (per persone fisiche e imprese), i riferimenti normativi italiani più rilevanti, le procedure da seguire, i tempi e gli interessi dovuti, le cause dei ritardi e soprattutto i rimedi (dalla richiesta di chiarimenti al ricorso in Commissione Tributaria fino all’eventuale giudizio di ottemperanza). Non mancheranno sentenze aggiornate e pronunce recenti che hanno chiarito punti chiave (inclusi gli ultimi orientamenti fino al 2025), tabelle riepilogative per una rapida consultazione, esempi pratici e una sezione FAQ con domande e risposte frequenti. Il tutto dal punto di vista del contribuente-creditore, per aiutare professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) ma anche privati cittadini e imprenditori a tutelare efficacemente i propri diritti.

Nota: Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono riportate nella sezione finale Fonti per consentire ulteriori approfondimenti.

Panoramica generale sui rimborsi fiscali e quadro normativo

Un rimborso fiscale è la restituzione al contribuente di somme versate al Fisco che, a posteriori, risultano non dovute (in tutto o in parte) o eccedenti rispetto al dovuto. Tipicamente, si genera un credito verso l’Erario quando il contribuente ha pagato più imposte del necessario (ad esempio per errori di calcolo, versamenti duplicati, acconti eccedenti il dovuto, applicazione di tributi non dovuti, agevolazioni spettanti non fruite, ecc.). In altri casi, il credito può sorgere a seguito di pronunce giudiziarie (ad esempio, un avviso di accertamento viene annullato in giudizio e il tributo pagato deve essere restituito) o di procedure di autotutela da parte dell’amministrazione (es. l’ufficio riconosce un errore e annulla in autotutela un addebito, aprendo la strada al rimborso).

Il diritto del contribuente alla restituzione dell’indebito tributario è un principio riconosciuto dall’ordinamento. Già l’art. 8 dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000) prevede che il Fisco è tenuto ad effettuare il rimborso quando sia definitivamente accertato che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura inferiore. In altre parole, una volta stabilito (per legge o per sentenza) che il contribuente ha pagato più del dovuto, l’Amministrazione finanziaria deve restituire l’eccedenza. Tale obbligo, tuttavia, deve conciliarsi con specifiche procedure previste dalla legge per ottenere il rimborso, nonché con termini decadenziali e di prescrizione che il contribuente deve rispettare.

Principali riferimenti normativi: la materia è disciplinata da diverse norme del sistema tributario italiano. Per i tributi erariali (imposte sui redditi, IVA, ecc.) è fondamentale il DPR 29 settembre 1973 n. 602, che detta disposizioni sulla riscossione delle imposte: l’art. 38 del DPR 602/1973 regola la richiesta di rimborso delle imposte sui redditi (stabilendo ad esempio il termine di decadenza di 48 mesi per presentare l’istanza), mentre l’art. 44 DPR 602/1973 disciplina gli interessi dovuti per il ritardato rimborso. Per l’IVA, norme specifiche sono contenute nel DPR 633/1972 (in particolare l’art. 30 per i rimborsi annuali/trimestrali e l’art. 38-bis sulle procedure di esecuzione dei rimborsi). Inoltre, il D.Lgs. 546/1992 (come modificato da vari interventi normativi, da ultimo la L.130/2022) regola il contenzioso tributario e prevede all’art. 21, comma 2 il meccanismo del “silenzio-rifiuto” e la relativa impugnazione. Norme più recenti hanno innovato la materia, in particolare per quanto riguarda la compensazione tra crediti da rimborsi e debiti verso l’Erario: ad esempio, il D.Lgs. 110/2024 (in vigore dal 2025) ha introdotto l’art. 28-ter nel DPR 602/1973, abbassando la soglia per le verifiche dei debiti pendenti e modificando la procedura di compensazione automatica dei rimborsi in presenza di cartelle esattoriali (come vedremo dettagliatamente più avanti).

In sintesi, il quadro normativo riconosce al contribuente il diritto al rimborso di quanto indebitamente versato, ma lo subordina al rispetto di precise procedure amministrative (presentazione di un’istanza formale, termini da osservare) e – in caso di inerzia o rifiuto – alla possibilità di attivare gli strumenti di tutela giurisdizionale presso le Corti di Giustizia Tributaria (già Commissioni Tributarie). Nelle sezioni seguenti analizzeremo tutte queste fasi: dall’origine dei vari tipi di credito e dalla presentazione della domanda, fino ai rimedi in caso di mancato rimborso.

Tipologie di rimborsi fiscali e casi comuni

Non tutti i rimborsi fiscali sono uguali. Le modalità con cui nasce un credito e le procedure per ottenerne il rimborso possono variare a seconda del tipo di tributo e della natura del contribuente (privato, lavoratore dipendente, autonomo, impresa). Di seguito distinguiamo le principali tipologie di rimborso per dare un quadro delle casistiche più frequenti:

Rimborsi per imposte dirette (IRPEF, IRES, IRAP)

IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) – È forse la situazione più comune in cui si genera un rimborso per i privati. Tipicamente, un contribuente persona fisica può trovarsi con un credito IRPEF in sede di dichiarazione dei redditi annuale (modello 730 o Redditi PF): ciò accade, ad esempio, se le ritenute d’acconto subite o gli acconti versati superano l’imposta effettivamente dovuta, oppure se spettano deduzioni/detrazioni che riducono l’imposta netta fino a generare un eccedenza a credito. Con il modello 730, il rimborso viene normalmente erogato in busta paga o nel cedolino della pensione dal sostituto d’imposta (datore di lavoro o ente pensionistico) entro pochi mesi dalla dichiarazione (in genere a partire da luglio dello stesso anno). Tuttavia, se il contribuente presenta il 730 senza un sostituto d’imposta (ad esempio, 730 presentato autonomamente da chi non ha un datore di lavoro tenuto al conguaglio), allora il rimborso viene pagato direttamente dall’Agenzia delle Entrate tramite accredito sul conto corrente indicato dal contribuente (di solito entro fine anno o inizio dell’anno successivo). In alcuni casi, soprattutto per importi significativi, l’erogazione del rimborso 730 può subire dei controlli preventivi: ad esempio, l’art. 5-bis del D.Lgs. 175/2014 prevede che per i 730 con determinati profili di rischio (alti rimborsi, dati non riscontrabili, ecc.) l’Agenzia possa effettuare un controllo documentale entro 4 mesi, sospendendo provvisoriamente il pagamento. Se tutto è regolare, il rimborso viene poi disposto, altrimenti può essere rettificato o sospeso in attesa di chiarimenti.

Nel caso di dichiarazione dei redditi modello Redditi (ex Unico) da parte di persone fisiche senza sostituto d’imposta, il contribuente che risulti a credito può optare alternativamente per: riportare il credito all’anno successivo (in compensazione con future imposte) oppure chiederne il rimborso. L’indicazione della scelta avviene nel quadro RX della dichiarazione. Se si chiede il rimborso, l’Agenzia delle Entrate dovrebbe erogarlo dopo le opportune verifiche. Spesso, per crediti modesti, il rimborso viene pagato entro qualche mese dall’elaborazione della dichiarazione (mediante bonifico sul conto comunicato all’Agenzia, oppure con vaglia della Banca d’Italia se non sono noti IBAN). Per crediti di importo elevato o situazioni particolari, la tempistica può allungarsi considerevolmente, e il contribuente potrebbe restare in attesa anche diversi anni salvo effettuare azioni sollecitative (come descritto più avanti).

Un’altra ipotesi è il rimborso IRPEF da eccedenze di ritenute o versamenti non legati alla dichiarazione. Ad esempio, un lavoratore autonomo potrebbe essersi visto applicare ritenute d’acconto su compensi che poi risultano esenti o non imponibili, oppure un contribuente potrebbe aver versato per errore un F24 duplicato. In questi casi, in assenza di una dichiarazione che “compensi” automaticamente il credito, è necessario presentare una istanza di rimborso specifica all’ufficio competente (entro i termini di decadenza, di solito 48 mesi dal versamento in eccesso).

IRES (Imposta sul Reddito delle Società) – Anche per le società di capitali può generarsi un credito d’imposta, ad esempio in caso di acconti versati superiori al dovuto o di perdite fiscali che azzerano il reddito imponibile nonostante i versamenti effettuati. Le società in genere tendono a compensare tali crediti IRES con altri debiti tributari tramite modello F24 (compensazione orizzontale), piuttosto che chiederne il rimborso, per evitare lunghe attese. Tuttavia, in alcuni casi il rimborso può essere richiesto (ad esempio per crediti di imposta derivanti da agevolazioni, o in caso di cessazione della società/liquidazione). Il meccanismo è simile a quello delle persone fisiche: in dichiarazione dei redditi Modello Redditi SC, la società indica nel quadro RN l’eventuale eccedenza e nel quadro RX può optare per rimborso. L’istanza così formulata segue l’iter di legge. L’ufficio finanzario competente (Direzione Provinciale) verifica la posizione e dispone il pagamento mediante mandato di pagamento o accredito. Anche qui valgono i termini generali: 48 mesi per presentare richiesta formale (se il credito emerge dalla dichiarazione annuale presentata tempestivamente, questa vale già come istanza), e 90 giorni come tempo oltre il quale, se l’Agenzia non risponde, si configura un silenzio-rifiuto impugnabile (vedremo in seguito).

IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) – L’IRAP riguarda sia imprese che professionisti, e negli ultimi decenni è stata oggetto di numerose controversie sulla sua debenza (ad esempio professionisti senza autonoma organizzazione che hanno versato IRAP e poi ne hanno chiesto il rimborso). Le modalità tecniche sono analoghe alle altre imposte dirette: se un soggetto versa IRAP non dovuta (o in eccesso), può presentare entro 48 mesi un’istanza di rimborso ai sensi del già citato art. 38 DPR 602/1973. L’esito può essere un rimborso spontaneo da parte dell’Amministrazione oppure un diniego (espresso o tacito). Proprio sull’IRAP si sono avute molte pronunce giurisprudenziali: la Corte di Cassazione, ad esempio, ha escluso l’IRAP per piccoli professionisti privi di autonoma organizzazione (medici, avvocati, etc.), aprendo la strada a richieste di rimborso. È dunque importante seguire l’evoluzione giurisprudenziale: se una nuova sentenza o norma stabilisce che un tributo pagato negli anni precedenti non era dovuto, occorre attivarsi tempestivamente per chiedere il rimborso di quanto versato.

Altre imposte dirette e ritenute – Situazioni analoghe possono riguardare ad esempio ritenute alla fonte non dovute. Un caso frequente: un contribuente fiscalmente residente all’estero subisce una ritenuta su un reddito in Italia ma, in base a convenzioni internazionali, non doveva pagarla o aveva diritto a aliquota ridotta; può allora chiedere rimborso dell’eccedenza (di solito tramite istanza all’Agenzia delle Entrate – Centro Operativo di Pescara, competente per rimborsi a non residenti). Anche qui ci sono termini (in genere 48 mesi salvo diverso accordo internazionale) e procedure specifiche. Analogamente, rientrano tra i rimborsi diretti i crediti d’imposta riconosciuti da leggi agevolative: se un credito d’imposta (ad esempio bonus investimenti) è rimborsabile anziché solo compensabile, la procedura di fruizione potrebbe comportare un rimborso da Agenzia Entrate (anche se spesso tali crediti si utilizzano in compensazione). In questa sede, comunque, focalizziamo l’attenzione sui casi in cui il contribuente ha materialmente versato denaro che deve riavere indietro.

Rimborsi IVA e imposte indirette

IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) – L’IVA ha meccanismi peculiari di gestione dei crediti. Una posizione creditoria IVA può sorgere strutturalmente in certi tipi di attività (esportatori abituali, aziende che effettuano operazioni esenti ma detraibili a monte, ecc.) oppure occasionalmente (ad esempio un acquisto di beni strumentali di importo elevato in un anno può generare un credito IVA). Normalmente, il credito IVA risultante a fine anno può essere riportato in avanti all’anno successivo senza termini di decadenza (credito “verticale” sullo stesso tributo). In alternativa, in presenza di determinati requisiti, il contribuente IVA può chiedere il rimborso dell’eccedenza annuale (o anche trimestrale, nei casi previsti dall’art. 38-bis DPR 633/72). Alcune condizioni tipiche che danno diritto a rimborso IVA annuale sono: esercizio prevalente di attività con aliquota media molto bassa, o operazioni non imponibili (esportazioni) oltre il 25% del totale, acquisto di beni ammortizzabili oltre una certa soglia, ecc. Tali condizioni sono elencate nell’art.30 DPR 633/1972. Se si rientra in una di esse, si può barrare l’opzione di rimborso nel Modello IVA annuale (quadro VX) indicando l’IBAN e compilando il quadro VR (o oggi le apposite sezioni del modulo IVA). Analogamente, per i rimborsi trimestrali, si presenta il modello IVA TR entro la fine del mese successivo al trimestre.

La gestione dei rimborsi IVA è un po’ più procedimentalizzata: tradizionalmente l’Amministrazione finanziaria effettua controlli più approfonditi prima di rimborsare, data anche l’entità spesso elevata delle somme. Esistono però soglie e garanzie: fino a un certo importo, il rimborso IVA è erogato senza necessità di garanzia o visto di conformità; oltre soglie fissate (attualmente €5.000 per l’esonero da visto, €30.000 per l’esonero da garanzia, in presenza di alcuni requisiti di affidabilità fiscale), il contribuente deve produrre documentazione aggiuntiva (es. visto di conformità sulla dichiarazione e attestazione di solidità patrimoniale) o una polizza fideiussoria a favore dello Stato, a tutela di eventuali indebite compensazioni. Se tutto è in regola, il rimborso IVA viene accreditato di norma entro pochi mesi dalla richiesta. In caso di ritardi, anche i crediti IVA maturano interessi (disciplinati anch’essi da norme specifiche, analoghe a quelli per imposte dirette, sebbene la misura possa differire leggermente in base alle normative annuali).

Un caso particolare riguarda le società neo-esportatrici: per incentivare l’export, la normativa consente di chiedere il rimborso IVA annuale anche al primo anno di attività se si effettuano esportazioni rilevanti. Anche in questo caso, però, è frequente che l’Agenzia delle Entrate effettui verifiche (talora arrivando a controlli sostanziali o ispezioni) prima di liquidare il rimborso, soprattutto per prevenire frodi IVA (come i falsi crediti da operazioni inesistenti). I tempi quindi possono variare: da alcuni mesi per rimborsi di routine fino ad oltre un anno per rimborsi complessi, specie se manca documentazione o se l’ufficio richiede chiarimenti.

Altre imposte indirette – Oltre all’IVA, esistono rimborsi di altre imposte indirette (registro, bollo, successione, accise) ma con regole particolari. Ad esempio, se viene annullato un atto per il quale si è pagata un’imposta di registro, il contribuente può chiedere il rimborso dell’imposta versata (di solito entro 3 anni ai sensi dell’art.77 del DPR 131/1986). Anche le accise (es. accisa sui carburanti) hanno meccanismi di rimborso, spesso in casi particolari disciplinati da norme ad hoc (ad es. rimborsi accise autotrasportatori per gasolio). Tali rimborsi in genere vengono gestiti dall’Agenzia delle Dogane e Monopoli, quindi esulano in parte dall’ambito “Agenzia delle Entrate”, pur coinvolgendo sempre la finanza pubblica. Comunque, qualora l’Agenzia delle Entrate sia l’ente che ha incassato un tributo indiretto non dovuto (ad esempio, imposta di bollo versata erroneamente), la procedura di rimborso segue anch’essa le norme generali: presentazione di un’istanza motivata all’ufficio competente, entro i termini previsti nella legge d’imposta specifica.

Rimborsi derivanti da contenzioso o autotutela

Un’ulteriore categoria da menzionare è quella dei rimborsi a seguito di contenzioso tributario. Se un contribuente ha pagato un importo in forza di un atto impositivo (per esempio, ha pagato una cartella o un avviso di accertamento) e successivamente ottiene in giudizio l’annullamento totale o parziale di quell’atto, allora matura il diritto a farsi restituire le somme indebitamente corrisposte. In questi casi, il rimborso dovrebbe essere eseguito d’ufficio dall’Amministrazione in ottemperanza alla sentenza. Purtroppo, spesso ciò richiede ulteriori solleciti o addirittura un ricorso per ottemperanza, come vedremo più avanti. Similmente, se in autotutela l’ufficio cancella un debito precedentemente pagato dal contribuente, dovrebbe contestualmente attivare la procedura di rimborso. È importante sottolineare che la sentenza che annulla un tributo “accerta” il diritto al rimborso ma talvolta potrebbe non contenere una condanna esplicita al pagamento: su questo aspetto incide la formulazione del dispositivo, e può essere determinante per poter poi agire in ottemperanza. Torneremo anche su questo punto nella parte dedicata all’esecuzione delle sentenze.

Riassumendo, il panorama dei rimborsi è molto ampio: dai rimborsi automatici (es. 730) a quelli su istanza del contribuente; da importi modesti (magari poche centinaia di euro su un 730) a cifre ingenti (es. crediti IVA di milioni per grosse aziende); da casi pacifici in cui l’ufficio provvede spontaneamente, a situazioni controverse in cui si è dovuti arrivare in Cassazione. In qualunque caso, se l’Agenzia delle Entrate non rimborsa spontaneamente quanto dovuto, il contribuente ha a disposizione una serie di strumenti di tutela. Prima di vederli nel dettaglio (dalla sollecitazione bonaria fino al ricorso in Commissione Tributaria), è utile chiarire come presentare correttamente la richiesta di rimborso e quali sono i tempi ordinari di attesa.

Procedura per richiedere il rimborso: istanze e termini

Per poter pretendere un rimborso, nella maggior parte dei casi è necessario averne fatto richiesta formale all’Amministrazione finanziaria. Questo principio vale specialmente per i rimborsi non automatici. Vediamo le modalità pratiche:

1. Rimborso da dichiarazione annuale: se il credito emerge direttamente dalla dichiarazione dei redditi o IVA, spesso la stessa dichiarazione, opportunamente compilata, vale come istanza di rimborso. Ad esempio, nel modello Redditi basta indicare nel quadro dedicato che si richiede il rimborso (anziché la compensazione) dell’eccedenza. In tal caso l’“istanza” è implicita nella dichiarazione presentata. Attenzione: la dichiarazione va presentata entro i termini ordinari (30 novembre per Redditi PF/SC, ecc.) affinché la richiesta sia valida. Se la dichiarazione è omessa o tardiva oltre i termini di ravvedimento, potrebbero sorgere problemi sul riconoscimento formale del rimborso; tuttavia, la Cassazione ha talora riconosciuto validità alla richiesta di rimborso anche se effettuata con dichiarazione tardiva, superando formalismi e valorizzando la sostanza del diritto (ciò dipende dalle circostanze e potrebbe rendere necessaria comunque un’istanza separata).

2. Istanza di rimborso autonoma: in molti casi il contribuente deve presentare un’apposita istanza di rimborso distinta dalla dichiarazione. Ad esempio, per un versamento duplicato, per un errore materiale (importo versato maggiore del dovuto), per un’imposta su un atto poi annullato, ecc. L’istanza di rimborso è solitamente una domanda in carta libera indirizzata all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente (di norma la Direzione Provinciale/Ufficio Territoriale dove si è domiciliati fiscalmente o che ha gestito l’accertamento). Nell’istanza occorre indicare: i propri dati (nome, codice fiscale/partita IVA), la somma di cui si chiede il rimborso, la causale (ad esempio: “rimborso IRPEF anno 2021 per duplicazione F24 in data xyz”, oppure “rimborso imposta di registro versata per contratto poi risolto”), gli estremi dei versamenti effettuati (ad es. numero quietanza F24, CRO del bonifico, ecc.), eventuali documenti allegati che comprovano il diritto (ricevute di pagamento, sentenze favorevoli, ecc.), e le coordinate bancarie su cui si desidera l’accredito. La presentazione può avvenire via PEC, raccomandata A/R, a mano presso l’ufficio (con protocollo di ricezione), o tramite i servizi telematici se disponibili (il portale “Cassetto fiscale” dell’Agenzia consente per alcune tipologie di inviare istanze on-line).

È fondamentale rispettare i termini di decadenza per la presentazione dell’istanza: la regola generale (art. 38 DPR 602/73) è 48 mesi dal pagamento. Ciò significa che, se ho versato un importo il 10 marzo 2021 che ritengo non dovuto, avrò tempo fino al 10 marzo 2025 per chiedere il rimborso, pena la decadenza del diritto (non potrà più essere chiesto). Questo termine quadriennale vale per imposte sui redditi e relative addizionali, mentre per altri tributi possono esserci termini diversi (ad esempio: 3 anni per registro e successioni, diverso per tributi locali, ecc.). In situazioni particolari, normative speciali possono estendere tali termini – ad esempio ci sono stati allungamenti a 5 anni per crediti d’imposta da dichiarazione integrativa a favore (introdotti dal DL 193/2016 per alcuni casi) o sospensioni straordinarie dei termini durante l’emergenza COVID-19. È sempre consigliabile verificare la disciplina specifica del tributo oggetto di rimborso.

3. Completezza e chiarezza dell’istanza: è cruciale che la domanda di rimborso sia dettagliata e precisa. **Una recente pronuncia della Cassazione (ordinanza n.10603 del 23/04/2025) ha stabilito che un’istanza di rimborso troppo generica o priva degli elementi essenziali non produce un silenzio-rifiuto impugnabile. In altre parole, se il contribuente presenta una richiesta confusa, senza indicare chiaramente quale annualità o tributo intende recuperare e perché, l’Agenzia potrebbe legittimamente non considerarla valida e l’eventuale ricorso contro il silenzio sarebbe inammissibile. Questo principio impone quindi di redigere l’istanza in modo puntuale: vanno sempre indicati quali somme si chiedono (importo e tipo di imposta), riferite a quali periodi o atti (anno d’imposta, estremi del versamento o dell’atto da cui scaturisce l’indebito), e la motivazione giuridica (ad esempio “imposta non dovuta per applicazione esenzione prevista da…”, oppure “duplice versamento per medesima scadenza, si allega quietanza doppia”). Una domanda “generica” (del tipo: “chiedo il rimborso di eventuali crediti a mio favore”) non attiva un obbligo preciso in capo all’ufficio e dunque non può essere base di un contenzioso vincente. Conclusione pratica: assicurarsi che ogni istanza di rimborso sia completa di tutti i dati e corredata, se possibile, da documenti giustificativi.

4. Termine per la risposta dell’Agenzia – formazione del silenzio-rifiuto: una volta protocollata la domanda di rimborso, la “palla” passa all’Amministrazione. Da questo momento decorre un termine (non sempre esplicitamente definito in ogni legge d’imposta, ma generalmente riconosciuto) di 90 giorni entro cui l’ufficio può accogliere o rigettare l’istanza. Novanta giorni è il termine trascorso il quale, in assenza di risposta, si considera formato il cosiddetto silenzio-rifiuto. Questo istituto, previsto dall’art.21 co.2 D.Lgs. 546/92, consente al contribuente di agire legalmente anche in mancanza di un provvedimento formale: in pratica, dopo 90 giorni di silenzio, la legge finge che vi sia un “diniego tacito” del rimborso, contro il quale è possibile proporre ricorso (si approfondirà a breve la procedura). Si noti che 90 giorni è il termine generale applicabile in materia tributaria (confermato da costante giurisprudenza e prassi) e coincide curiosamente col periodo di durata di un eventuale tentativo di mediazione pre-contenzioso (quando era obbligatorio per le liti minori, istituto ora abolito nel 2023, come vedremo). Nulla vieta all’Agenzia di rispondere anche dopo 90 giorni; vedremo tra poco cosa accade se la risposta (diniego) arriva tardivamente.

5. Differenza tra rimborso spontaneo e su istanza: alcuni rimborsi avvengono d’ufficio, senza che il contribuente debba chiederli. Ad esempio, i rimborsi 730 con sostituto sono automatici; oppure se in sede di controllo automatizzato (36-bis) di una dichiarazione risulta un’imposta versata in più, l’Agenzia stessa emette un “avviso di rimborso” e poi paga la somma. In tali casi, se l’Agenzia non provvede in tempi ragionevoli, il contribuente può comunque sollecitare o eventualmente ricorrere, ma in genere queste ipotesi sono meno problematiche (in quanto il meccanismo è interno all’Agenzia stessa). Diversamente, per i rimborsi “a richiesta” (quelli discussi finora), l’onere iniziale è sul contribuente: presentare istanza e, se negata o ignorata, attivare i rimedi. La mancata presentazione dell’istanza rende inammissibile il ricorso: ciò significa che non si può saltare la fase amministrativa e andare subito in causa (il giudice respingerebbe il ricorso per difetto di interesse attuale, non essendoci ancora un rifiuto su cui decidere).

6. Presentazione dell’istanza e strumenti ausiliari: assicurarsi sempre di avere prova della presentazione dell’istanza (ricevuta PEC, ricevuta protocollo). È utile inoltre registrare il numero di protocollo interno attribuito dall’ufficio, perché con quello si può monitorare la pratica (tramite il cassetto fiscale online, sezione “rimborsi”, o contattando l’ufficio competente). L’Agenzia delle Entrate mette a disposizione servizi online per comunicare l’IBAN su cui accreditare i rimborsi e per verificare lo stato dei rimborsi richiesti. Ad esempio, accedendo all’area riservata sul sito AdE (Fisconline/Entratel) è possibile consultare la lista dei propri rimborsi in corso e il loro status (es: “in lavorazione”, “in pagamento”, “sospeso per verifica”, ecc.). Questo può dare indicazioni preliminari sulle ragioni di un eventuale ritardo. In ogni caso, dopo aver atteso un periodo congruo (i famosi 90 giorni), se i soldi non arrivano né si ricevono risposte formali, è opportuno passare alle azioni successive illustrate nei prossimi capitoli.

Tempi di erogazione dei rimborsi e interessi dovuti

Quanto tempo impiega normalmente l’Agenzia delle Entrate a rimborsare? La risposta varia molto in base alla tipologia di rimborso, all’importo e alle circostanze. Di seguito alcune indicazioni generali sui tempi ordinari e su quando scattano gli interessi per il contribuente:

  • Rimborsi da 730: di regola i più rapidi. Se il contribuente ha indicato un sostituto d’imposta, il conguaglio a credito arriva generalmente nella busta paga del mese di luglio (per lavoratori dipendenti) o nel rateo di pensione di agosto/settembre (per pensionati). In assenza di sostituto, l’Agenzia accredita sul conto corrente (o invia un assegno/vaglia) in un arco di tempo che va dall’estate fino a dicembre dello stesso anno. Molti contribuenti senza sostituto hanno riscontrato l’accredito dei rimborsi 730 entro ottobre-novembre dell’anno di presentazione. Tuttavia, come detto, se il 730 viene selezionato per controlli preventivi, il pagamento può slittare di alcuni mesi (in casi estremi fino all’anno successivo).
  • Rimborsi annuali IVA: in presenza di visto di conformità e requisiti regolari, spesso vengono eseguiti entro 3-6 mesi dalla richiesta (soprattutto per importi medio-piccoli sotto i 30.000€ che non necessitano garanzie). Se invece occorrono garanzie o verifiche sostanziali, il termine si allunga; la legge prevedeva un termine di 3 mesi per l’erogazione dei rimborsi trimestrali IVA e entro l’anno successivo per quelli annuali, ma nella pratica questi termini non sono perentori e l’importante è che, se superati, maturino gli interessi (lo vedremo tra poco).
  • Rimborsi imposte dirette su istanza (IRPEF, IRES, IRAP): qui la variabilità è ampia. Per importi modesti e cause non controverse (es: doppio versamento palese), talvolta l’ufficio provvede già entro 90-120 giorni con un provvedimento di accredito. In altri casi più complessi, si può attendere parecchio. Alcuni contribuenti hanno ricevuto rimborsi solo dopo 1-2 anni dall’istanza, se non oltre, specie se l’ufficio richiede chiarimenti integrativi o se vi sono stati rallentamenti burocratici. È importante sapere che trascorsi 90 giorni il contribuente ha diritto di agire (silenzio-rifiuto), quindi non è obbligato ad aspettare passivamente oltre; può scegliere di attendere ancora se confida in un riscontro, ma oltre una certa soglia conviene attivarsi (ne parleremo sotto).
  • Rimborsi derivanti da sentenze: idealmente dovrebbero essere immediati se la sentenza è definitiva. In pratica, l’Agenzia delle Entrate spesso impiega diversi mesi (talora oltre un anno) per ottemperare alle pronunce di condanna al rimborso. Ciò anche per ragioni di bilancio: in passato si è detto che i rimborsi extrabudget potevano subire attese legate ai capitoli di spesa. Tuttavia, la Cassazione ha affermato che i limiti di spesa autorizzata non possono giustificare il mancato pagamento – il giudice dell’ottemperanza può ordinare comunque il rimborso indipendentemente da vincoli di bilancio. Quindi i tempi dovrebbero essere congrui, ma se non lo sono occorre procedere con diffide e eventualmente ottemperanza (se ad esempio sono passati inutilmente 90 giorni dalla notifica della sentenza definitiva senza pagamento, si può chiedere al giudice di intervenire ex art.70 D.Lgs.546/92).

Interessi per ritardato rimborso: la normativa prevede che se il Fisco paga in ritardo i rimborsi dovuti, debba corrispondere degli interessi al contribuente. Tali interessi hanno natura compensativa (non è necessario il dolo o la mora dell’amministrazione) e mirano a compensare la temporanea privazione di denaro subìta dal contribuente. Non sono quindi interessi “punitivi” ma semplicemente legali o semilegali. Ecco alcuni punti chiave sugli interessi:

  • Interessi su imposte sui redditi (IRPEF/IRES): l’art. 44 del DPR 602/1973 stabilisce il tasso e la decorrenza. Attualmente, tale norma prevede un interesse del 1,375% per semestre (pari al 2,75% annuo) per ogni semestre intero di ritardo, escluso il primo semestre. Ciò significa che i primi 6 mesi successivi al pagamento non danno interessi; dal 7° mese in poi, ogni semestre maturato genera interessi al tasso indicato. La decorrenza non è dalla data della domanda di rimborso, bensì dalla data del versamento eccedente. Esempio: Tizio versa IRPEF a giugno 2020 non dovuta; fa istanza e ottiene rimborso solo a giugno 2023. Gli interessi decorrono dal versamento (giugno 2020) e maturano al termine di ogni semestre: dicembre 2020, giugno 2021, dicembre 2021, giugno 2022, dicembre 2022, giugno 2023 – escludendo il primo, quindi da dicembre 2020 in poi. Il tasso può variare se la norma viene aggiornata, ma dal 2014 è fissato così (in passato era 4,5% annuo, poi 3%, ecc., le leggi di bilancio hanno ritoccato questi saggi). Nota: la legge finanziaria 2008 ha previsto che dopo 10 anni dalla richiesta di rimborso, gli interessi divengano giornalieri e non più semestrali (per evitare effetti distorsivi per lungaggini ultradecennali: passati 10 anni, l’interesse si calcola giorno per giorno al tasso vigente senza più aspettare la fine del semestre per maturare).
  • Interessi su IVA: per l’IVA, l’art. 38-bis DPR 633/72 richiama in parte l’art. 44 DPR 602 ma con alcune peculiarità. In generale gli interessi sui rimborsi IVA spettano dal 90° giorno successivo alla richiesta (o alla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione annuale, se successivo) al tasso determinato periodicamente. Negli ultimi anni tale tasso è stato allineato a quello delle imposte dirette o leggermente differente secondo decreti ministeriali. Ad esempio, per un certo periodo era 2% annuo, poi 1%. Al 1° gennaio 2023 il tasso di interesse per i rimborsi IVA è stato fissato all’1% annuo, ma successivamente sono intervenute modifiche normative (il tasso potrebbe essere stato adeguato all’andamento dei tassi di interesse legali, che nel 2023-2024 sono aumentati). È buona norma controllare l’ultimo provvedimento ministeriale sui tassi di interesse per i rimborsi. In ogni caso, se l’Agenzia paga in ritardo, dovrà aggiungere una quota di interessi calcolati sul periodo di ritardo (in genere gli interessi vengono liquidati contestualmente al rimborso, visibili in un separato prospetto).
  • Interessi su altri tributi: dipende dalla legge d’imposta. Per i rimborsi di imposte indirette come registro o bollo, spesso gli interessi decorrono dalla data della domanda (diversamente dalle imposte sui redditi) e al tasso legale. Ad esempio, l’imposta di registro rimborsata porta interessi legali dal giorno in cui l’ufficio avrebbe dovuto pagare. In mancanza di norma specifica, si applica il tasso di interesse legale civile (che nel 2023 era 5% annuo, nel 2024 salito al 5% – questi variano annualmente). Lo Statuto del Contribuente all’art.8 comma 4 prevede l’obbligo di corrispondere interessi sui rimborsi “nella misura prevista dalle singole leggi d’imposta”. Ciò significa che bisogna cercare nella legge del tributo in questione l’eventuale articolo sugli interessi di rimborso; se non c’è, di solito si applicano i principi generali (spesso analogia con art.44 DPR 602 o con tasso legale).

In definitiva, gli interessi tutelano il contribuente dal danno economico del ritardo, ma va detto che i tassi stabiliti dalla legge sono spesso modesti e non pienamente compensativi dell’inflazione reale. Ad esempio, incassare un rimborso IRPEF dopo 3 anni con un 2,75% annuo di interesse può essere ben al di sotto dell’inflazione cumulata. Purtroppo, non c’è possibilità di ottenere più di quanto previsto normativamente, a meno di dimostrare un danno ulteriore da ritardo colpevole (ma ciò esula dal contenzioso tributario ordinario, potendosi configurare solo in ipotesi eccezionali di responsabilità civile).

Ritardi considerevoli: se passano molti anni e l’Agenzia ancora non rimborsa, il contribuente accumula interessi ma potrebbe voler comunque accelerare l’incasso. Ad esempio, se un rimborso è bloccato da 8-9 anni, attendere 10 anni comporterebbe sì il calcolo giornaliero degli interessi dal decimo anno, ma è generalmente preferibile agire prima (anche perché dopo 10 anni potrebbe intervenire la prescrizione del diritto alla riscossione del credito riconosciuto: la giurisprudenza infatti indica che il diritto al rimborso si prescrive in 10 anni). A tal proposito, è bene chiarire: decadenza vs prescrizione – la decadenza (48 mesi) è il termine per chiedere il rimborso; la prescrizione (10 anni) è il termine entro cui far valere in giudizio il proprio diritto. Dunque, una volta presentata l’istanza, il contribuente ha tempo fino a 10 anni per proporre ricorso (vedi art.21 D.Lgs.546/92); analogamente, se l’Agenzia riconosce il diritto al rimborso ma poi non paga, il contribuente deve agire entro 10 anni per riscuotere (ad esempio con ottemperanza). Trascorso tale periodo, l’obbligazione si estingue per prescrizione, e anche gli interessi cessano.

In sintesi, i tempi di attesa dei rimborsi possono variare dal breve (pochi mesi) al lungo (diversi anni), ma dopo 90 giorni senza esito è facoltà del contribuente attivare i rimedi del caso. Durante l’attesa, maturano interessi secondo legge – tipicamente dal momento del pagamento indebito e accreditati al momento del rimborso – sebbene tali interessi spesso non compensino integralmente il disagio del ritardo. Pertanto, più che accontentarsi degli interessi, molti contribuenti preferiscono agire per ottenere il rimborso in tempi accettabili, come vedremo nelle prossime sezioni.

Di seguito una tabella riepilogativa dei principali tributi e regole sui rimborsi:

TributoTermine per chiedere (decadenza)Decorrenza interesseTasso interesse (2025)Note
IRPEF/IRES/IRAP48 mesi dal versamento eccedenteDal giorno del pagamento eccedente (interessi semestrali, maturano dal 2° semestre)2,75% annuo (1,375% a semestre)Interessi semestrali; oltre 10 anni calcolo giornaliero. Rimborso su istanza o da dichiarazione.
IVA2 anni per rimborso annuale (domanda nella dichiarazione annuale) 3 mesi per rimborso trimestrale (domanda modello TR)90 giorni dopo domanda (o scadenza presentazione dichiarazione)1% annuo (tasso su rimborsi IVA, soggetto a variazioni DM)Necessario visto di conformità >5.000€; >30.000€ garanzia salvo esonero.
Ritenute (es. non residenti)48 mesi dal versamento della ritenutaDal 90° giorno dopo domanda (salvo diverse convenzioni)Tasso legale (5% annuo nel 2024)Procedure tramite Centro Operativo Pescara per non residenti, spesso.
Registro, Ipotecaria, Successione3 anni (per imposta registro, art.77 DPR 131/86)Dalla data della domanda (in genere)Tasso legale annuo (5% nel 2024)Rimborsi gestiti da uffici territorio/entrate; modulistica specifica.
AcciseVariabile per singolo caso (es. trimestrale per gasolio autotrasporti)Dalla domanda o dal versamento, a seconda del casoTasso legale annuo (salvo disposizioni speciali)Gestiti da Agenzia Dogane; meccanismi dedicati.
Altre (bollo, canone TV, ecc.)48 mesi (salvo diversa previsione)Di norma dalla domandaTasso legale (salvo previsioni speciali)Ad esempio, canone RAI non dovuto: rimborso con modulistica AdE.

Nota: La tabella semplifica la complessità normativa; per ciascun tributo è bene consultare le norme specifiche. Il tasso legale è soggetto a revisione annuale; il 5% indicato è quello vigente nel 2024, ma è stato elevato al 10% nel 2023 e soggetto ad aggiornamenti (riferimento: DM Economia su interessi legali). I tassi specifici per rimborsi possono essere aggiornati con decreti ministeriali.

Cause comuni di ritardo o mancato rimborso

Quando un rimborso tarda ad arrivare, occorre indagare il perché. Le cause possono essere molteplici, dalle più banali alle più complesse. Conoscerle aiuta a scegliere la strategia giusta per sbloccare la situazione. Ecco le più frequenti:

a) Compensazione con debiti del contribuente: se il contribuente ha debiti fiscali pendenti, la legge prevede meccanismi per trattenere il rimborso e destinarlo a coprire quei debiti (compensazione d’ufficio). Questo è spesso il motivo numero uno per cui un rimborso atteso “non arriva”. Ad esempio, se Caio attende €5.000 di rimborso IRPEF ma ha cartelle esattoriali non pagate per €2.000, l’Agenzia delle Entrate (tramite Agenzia Entrate-Riscossione) potrebbe trattenere quei 2.000 ed erogare solo la differenza. Dal 2025 le regole su queste compensazioni automatiche sono state rafforzate: il D.Lgs. 110/2024 ha introdotto una procedura per cui tutti i rimborsi superiori a €500 vengono verificati. In pratica, oggi se un contribuente vanta un rimborso sopra 500 euro, l’Agenzia delle Entrate controlla se esistono debiti a ruolo non pagati (cartelle esattoriali, debiti INPS, ecc.). Se sì, scatta un procedimento: l’Agenzia trasmette i dati del rimborso all’Agente della Riscossione (AdER) il quale entro breve notifica al contribuente una proposta di compensazione volontaria. Il contribuente ha 60 giorni per accettare o rifiutare. Durante questi 60 giorni, le azioni esecutive sono sospese. Se il contribuente accetta, il rimborso viene usato (in tutto o in parte) per saldare i debiti e l’eventuale eccedenza gli viene pagata. Se rifiuta o non risponde, attenzione: con la nuova normativa il rimborso viene bloccato comunque. Le somme spettanti restano congelate presso l’Agente della Riscossione fino al 31 dicembre dell’anno successivo, periodo durante il quale AdER potrà attivare il pignoramento di quelle stesse somme. In sostanza, dal 2025 se il contribuente non accetta la compensazione, non riceve comunque i soldi indietro: questi vengono messi da parte per essere eventualmente pignorati a copertura dei debiti. Questa procedura (art. 28-ter DPR 602/73 modificato) mira a evitare che il Fisco paghi un rimborso a chi ha debiti e poi debba inseguirlo con esecuzioni.

Esempio concreto: Mario attende un rimborso di €1.000. Ha però una cartella esattoriale di €800 scaduta. L’Agenzia verifica il debito (supera la soglia di €500) e invia i dati ad AdER. AdER propone a Mario: “Hai €1.000 di credito e €800 di debito, vuoi compensare?”. Mario decide di non rispondere (quindi rifiuta implicitamente). Risultato: Mario non riceverà alcun accredito sul conto; i €1.000 restano bloccati presso AdER, che li userà entro l’anno successivo per pagare la cartella (anche mediante pignoramento presso terzi, tecnicamente pignorando se stesso che detiene le somme per conto di Mario). Mario quindi perderà quei €800 di rimborso per coprire il debito, e se restano €200 glieli daranno solo dopo l’azione di esecuzione (oppure li terranno per compensare altri eventuali ruoli).

Prima del 2025, invece, in uno scenario simile il contribuente poteva rifiutare e l’Agenzia comunque doveva erogare il rimborso, limitandosi poi a usare le normali vie di recupero coattivo (pignoramenti di conti, ecc.). Ora questo “escamotage” è stato chiuso: rifiutare la compensazione non conviene più perché i soldi restano bloccati e comunque verranno sottratti.

Dunque, una causa frequente di mancato rimborso è proprio la presenza di debiti fiscali o contributivi del contribuente. Spesso il contribuente non ne è pienamente consapevole: può capitare che il rimborso non arrivi e solo indagando si scopre che l’importo è stato trattenuto per pagare una vecchia cartella. Notare che già dal 2011 c’era una norma (DL 78/2010, art.31) che vietava la compensazione “fai-da-te” se esistevano debiti oltre €1.500: in pratica, un contribuente con ruoli scaduti > €1.500 non poteva autonomamente compensare crediti erariali in F24 oltre tale soglia. Quella norma impediva la compensazione orizzontale in presenza di debiti, ma ora con l’art.28-ter riformulato si agisce sul rimborso stesso. Va aggiunto che la soglia storica di €1.500 per i controlli di debiti sui pagamenti della PA (art.48-bis DPR 602/73) è stata abbassata a €500 dal D.Lgs.110/2024. Ciò significa che anche piccoli debiti ora fanno scattare il campanello sui rimborsi.

Come rimediare? Se la causa del mancato rimborso è questa, le opzioni sono: regolarizzare i debiti pendenti (ad esempio pagando le cartelle, magari aderendo a piani di rateazione o definizioni agevolate se disponibili) prima che il rimborso venga incamerato; oppure accettare la compensazione proposta, soprattutto se il debito è legittimo e si preferisce chiuderlo sfruttando il credito (evitando ulteriori sanzioni o interessi di mora sul debito). Rifiutare senza motivo rischia solo di far perdere tempo e tenere bloccate le somme. Si noti che non sono considerati “inadempimenti” i debiti che sono già in un piano di rateazione attivo o in una definizione agevolata in corso. Quindi, se Tizio ha un debito ma lo sta rateizzando regolarmente, un eventuale rimborso non dovrebbe essere bloccato (perché il debito non è “scaduto” in senso stretto). Ciò è un incentivo a mettere a posto la propria posizione prima di attendere rimborsi.

Infine, attenzione: se il rimborso è trattenuto per un debito derivante da una cartella definitiva non impugnata, non si può fare ricorso sostenendo che il credito doveva essere rimborsato. La Cassazione ha chiarito che se non si è impugnata la cartella nei termini, il debito diventa definitivo e non ci si può opporre usando una richiesta di rimborso come escamotage. Ad esempio, se Sempronio aveva un credito IRPEF e l’ha usato in compensazione per pagare una cartella che riteneva illegittima, ma la cartella era definitiva per mancato ricorso, Sempronio non può poi chiedere rimborso di quel credito sostenendo che il debito non era dovuto. La Suprema Corte (Cass. 31236/2020) ha infatti affermato che l’omessa impugnazione della cartella preclude ogni successiva pretesa di rimborso riferita a quella imposta.

Riassunto dal punto di vista del contribuente-debitore: se attendi un rimborso ma hai debiti esattoriali, è altamente probabile che non vedrai il rimborso in contanti. Invece, quel credito verrà utilizzato per i tuoi debiti. Per sbloccare la situazione l’unica strada è sanare o contestare quei debiti: paga le cartelle (anche con rate/rottamazione) o, se le ritieni errate e sei ancora in tempo, impugnale. Finché risulti debitore inadempiente, l’Erario difficilmente ti restituirà somme. Dal 2025, con la procedura di sicurezza introdotta, questo è praticamente certo per importi > €500.

b) Verifiche e controlli in corso: un’altra causa tipica di ritardo è quando l’Agenzia sospende il rimborso in attesa di effettuare dei controlli aggiuntivi. Ciò succede, ad esempio, per i rimborsi IVA di importo rilevante: l’ufficio può decidere di eseguire un controllo fiscale (ispezione contabile, verifica della documentazione) prima di dare il via libera. Oppure per rimborsi IRPEF conseguenti a detrazioni particolari: in passato, l’Agenzia ha congelato alcuni rimborsi in attesa di controlli su bonus o detrazioni edili (es. bonus ristrutturazioni) se c’erano incongruenze. Durante questi controlli, l’Agenzia in genere non comunica formalmente nulla al contribuente, che quindi vede solo un silenzio. È possibile però che arrivi una richiesta di documenti: se vi viene notificata una richiesta di integrazione documentale riguardante la dichiarazione da cui emerge il rimborso, significa che è in atto il controllo. Fornire prontamente quanto richiesto può accelerare la definizione. Se l’esito del controllo è favorevole, il rimborso verrà sbloccato; se emergono problemi, l’Agenzia potrebbe emettere un provvedimento (ad es. avviso di accertamento o di minor rimborso) per rettificare l’importo richiesto. In tal caso, almeno c’è un atto impugnabile.

Spesso i controlli per rimborsi si concentrano su possibili frodi o indebiti: ad esempio, false eccedenze IVA, crediti da dichiarazioni integrative sospette, identità del beneficiario (verifica IBAN intestato al contribuente per evitare truffe). Se siete un soggetto che ha acquistato crediti d’imposta (fenomeno dei bonus edilizi ceduti) e ne chiedete rimborso, aspettatevi grande cautela dall’Amministrazione. Idem se avete presentato una dichiarazione integrativa a favore (correttiva che aumenta un credito): l’ufficio può verificare l’effettiva spettanza.

Come comportarsi? In caso di ritardo prolungato per motivi di controllo, si può contattare l’ufficio per chiedere spiegazioni. A volte gli stessi funzionari, su richiesta, indicano ufficiosamente che la pratica è “in fase di verifica documentale”. Se c’è collaborazione e il contribuente fornisce tutto ciò che serve, il controllo potrebbe concludersi senza contenzioso e con sblocco del rimborso. Tuttavia, non sempre è così celere. Il contribuente ha comunque il diritto di non attendere indefinitamente: 90 giorni restano il limite oltre il quale formalmente c’è diniego tacito. Quindi, se a 90 giorni (o comunque a un tempo ragionevole superiore) l’ufficio dice “stiamo controllando, aspetti”, è facoltà del contribuente insistere con diffide o anche passare al ricorso per costringerli a chiudere il controllo e prendere posizione. Spesso la notifica del ricorso spinge l’ufficio a emanare un provvedimento motivato (diniego o parziale accoglimento) prima dell’udienza, per evitare di discutere il silenzio in giudizio. Insomma, il controllo in corso spiega il ritardo ma non sospende i diritti del contribuente, a meno che vi sia una norma di sospensione (come per i 730 con controllo preventivo, dove la legge dà 4-5 mesi all’Agenzia).

c) Errori o incompletezze del contribuente: talvolta il rimborso non arriva perché c’è un errore materiale nella richiesta. Ad esempio, IBAN sbagliato o intestato a persona diversa (in quel caso il mandato di pagamento va a vuoto). Oppure l’indirizzo del contribuente non aggiornato e il vaglia torna indietro. O ancora: codice fiscale errato nella domanda, che impedisce all’ufficio di associare il credito al soggetto giusto. Queste situazioni si risolvono relativamente facilmente: bisogna accorgersene e fornire le informazioni corrette. L’Agenzia delle Entrate, se rileva IBAN errato, in genere invia una comunicazione al contribuente (talora per lettera cartacea all’indirizzo di residenza, o via PEC se disponibile) chiedendo di aggiornare le coordinate bancarie tramite l’apposito servizio online o con comunicazione scritta. Se sospettate un problema del genere, potete recarvi all’ufficio o accedere al cassetto fiscale: c’è una sezione “verifica IBAN per rimborsi” dove potete vedere se l’IBAN risulta “non validato”. In tal caso, reinserite i dati corretti. Dopo la correzione, i tempi ripartono (di solito nel successivo ciclo di pagamento il rimborso va a buon fine).

Un’altra incompletezza può essere nella documentazione: se per un certo rimborso era richiesta espressamente una documentazione (es. nulla-osta da un ente, copia quietanza originale, ecc.) e non è stata allegata, l’istanza potrebbe essere rimasta “in sospeso”. Ad esempio, per i rimborsi di ritenute a non residenti spesso servono dichiarazioni delle autorità estere o originali di certificati. Se mancano, l’Agenzia non definisce la pratica. In tali casi, integrando la domanda con quanto necessario, si può sbloccare l’empasse.

d) Contestazione sulla spettanza del rimborso: in alcuni casi l’Agenzia ritiene che il contribuente non abbia diritto al rimborso (o non ne abbia per l’intero importo richiesto). Ciò può avvenire per divergenze interpretative della norma, per decadenze, per questioni di merito. In queste situazioni l’ufficio dovrebbe emettere un provvedimento di diniego esplicito motivato. E spesso lo fa, ma non sempre in tempi brevi. Può darsi che internamente l’ufficio segnali la pratica come “da rigettare”, ma per lentezza burocratica il provvedimento non viene spedito subito. Così il contribuente resta in attesa senza notizie. Oppure l’ufficio può anche non rispondere affatto confidando che il contribuente non insisterà (abuso del silenzio). Tra le contestazioni frequenti ci sono: “istanza tardiva” (presentata oltre i 48 mesi), “credito insussistente” (ad es. in dichiarazione integrativa che l’ufficio reputa non valida), “imposta dovuta” (l’Agenzia ritiene che il contribuente abbia invece dovuto pagare). Ad esempio, molti professionisti che chiedevano rimborso IRAP si sono sentiti rispondere dall’ufficio: “il requisito dell’autonoma organizzazione sussiste, quindi l’IRAP era dovuta, rigetto l’istanza”.

Quando c’è un disaccordo del genere, inevitabilmente se il contribuente vuole perseverare deve prepararsi al contenzioso. Vedremo nella prossima sezione che il contribuente dovrà farsi attore in giudizio e dimostrare le proprie ragioni (e.g., provare che l’imposta non era dovuta). La Cassazione ha di recente ribadito che l’onere della prova nel contenzioso sul rimborso incombe sul contribuente, attore sostanziale della domanda. Quindi l’ufficio potrebbe giocare su questo, rifiutando e sfidando il contribuente a dimostrare il contrario in Commissione.

In tali circostanze, in realtà, la parte positiva è che almeno c’è un provvedimento espresso contro cui ricorrere (o che comunque chiarisce la posizione dell’Agenzia). Ma se questo provvedimento tarda ad arrivare, il contribuente può comunque non attendere e considerare formato il silenzio-rifiuto dopo i 90 giorni, impugnando quello.

e) Problemi di bilancio o autorizzazione di spesa: storicamente, alcuni rimborsi molto ingenti o di massa sono stati soggetti ai cosiddetti “limiti di budget”. Ad esempio, rimborsi di imposte ambientali o agevolazioni venivano erogati nei limiti dei fondi disponibili, su base pro-rata. Questo è accaduto in passato, generando contenziosi. Oggi, per i tributi principali (IRPEF, IVA, ecc.) non ci sono più tali vincoli: se un rimborso è dovuto, va pagato e basta, eventualmente si chiede un’integrazione di fondi al MEF. La Corte di Cassazione ha chiarito che i limiti di spesa non possono essere opposti al giudice: se un contribuente ha diritto a X, il giudice può ordinare il pagamento di X indipendentemente da capitoli di bilancio. Quindi è una “causa” di ritardo che può essere invocata dagli uffici come giustificazione ma che non ha dignità giuridica: in un giudizio di ottemperanza, ad esempio, il fatto che “non c’erano fondi” non esime dal pagamento e il giudice può nominare un commissario ad acta per prelevare le somme dovute al contribuente dalle casse erariali. Pertanto, su questo fronte, il consiglio è di non lasciarsi scoraggiare: se vi dicono “attenda il prossimo esercizio finanziario perché il capitolo rimborsi è esaurito”, sappiate che avete diritto comunque agli interessi e che potete forzare la mano col giudice. Questi casi, comunque, sono rari e circoscritti (più frequenti in rimborsi extra-fiscali o incentivi, meno in tasse ordinarie).

Riassumendo, le cause di ritardo possono rientrare in: compensazioni con debiti, controlli in corso, errori del contribuente, dinieghi non dichiarati, questioni di bilancio. Il primo passo per il contribuente è identificare la causa nel proprio caso. Spesso una telefonata all’ufficio o una visura al cassetto fiscale può chiarire: se il rimborso risulta “utilizzato in compensazione su cartella XYZ”, avete la vostra risposta (compensazione); se risulta “in lavorazione – verifica art.36-ter”, sapete che c’è controllo; se risulta “in pagamento – IBAN errato”, risolvete col nuovo IBAN; se risulta “istanza non presente”, forse non è mai pervenuta e dovete ripresentarla. Una volta capita la ragione, si può procedere con gli strumenti più appropriati.

Nel prossimo capitolo vediamo cosa fare concretamente per ciascuna di queste situazioni: come sollecitare l’ufficio, quando fare ricorso, come comportarsi se arriva un diniego, ecc., sempre nell’ottica di far valere i propri diritti di creditore verso il Fisco.

Cosa fare in caso di ritardo: strumenti non giudiziari (solleciti, garanzie, autotutela)

Se l’Agenzia delle Entrate non rimborsa nei tempi dovuti, il contribuente ha a disposizione una gamma di azioni prima di ricorrere al giudice. È di norma consigliabile esaurire questi tentativi preliminari, sia per una questione di economicità (evitare un contenzioso se non necessario) sia perché spesso si riesce a risolvere in via amministrativa. Vediamo i principali strumenti stragiudiziali:

1. Verifica e sollecito informale: come detto, il primo step è informarsi sullo stato del rimborso. Questo può avvenire tramite: accesso al proprio cassetto fiscale online (area “rimborsi” o “comunicazioni”), contatto telefonico al call center dell’Agenzia (numero verde o ufficio locale), oppure di persona recandosi all’ufficio territoriale competente. Spesso gli operatori sanno dire se il ritardo è dovuto a un controllo o altro. Una volta ottenuta l’informazione, si può procedere con un sollecito. Il sollecito può essere anche orale (es. telefonando o allo sportello, si chiede gentilmente se possono evadere la pratica), ma è meglio lasciare traccia scritta. Una lettera di sollecito via PEC o raccomandata è uno strumento semplice e poco oneroso: in essa si cita l’istanza di rimborso presentata (con estremi e data), si fa presente che sono trascorsi tot mesi senza esito, e si invita l’ufficio a provvedere entro un termine ragionevole (ad esempio 30 giorni), facendo presente che in mancanza ci si attiverà nelle sedi opportune. Questo spesso smuove la pratica, perché il funzionario vede il sollecito protocollato e sa che il contribuente è attento e pronto eventualmente a litigare. A volte, prima di arrivare al contenzioso, un paio di solleciti ben fatti possono bastare.

2. Istanza di autotutela: l’autotutela è la possibilità per la P.A. di correggere volontariamente i propri errori o rivedere atti sfavorevoli. Nel caso di rimborso, l’autotutela entrerebbe in gioco se l’Agenzia avesse negato o ritardato per ragioni errate. Ad esempio, se l’ufficio rigetta l’istanza ritenendola tardiva ma il contribuente dimostra che non lo era (magari c’era stata una sospensione dei termini per legge, o un calcolo sbagliato della data), può presentare una richiesta in autotutela per riesaminare il diniego. L’autotutela non sospende i termini di ricorso: va usata con cautela perché, se c’è un diniego formale, il termine di 60 giorni per impugnarlo continua a decorrere anche mentre si attende risposta dall’ufficio. Quindi in quei casi conviene contestualmente fare ricorso (o almeno predisporlo) per non perdere tempo. Tuttavia, quando non c’è ancora un atto formale ma solo inerzia, si può inviare una diffida in autotutela evidenziando eventuali errori dell’ufficio che stanno causando il blocco. Ad esempio: “Ho verificato che il mio IBAN era sbagliato, ora corretto; chiedo in autotutela di disporre il rimborso”, oppure “Vi segnalo che l’istanza non è tardiva perché la scadenza è stata prorogata dalla legge X; si invita a rivalutare la posizione ed evitare inutile contenzioso”. L’autotutela è particolarmente utile se ci si rende conto di aver fornito inizialmente dati sbagliati: presentare una nuova istanza correttiva in autotutela, riferita alla precedente, può rimettere la pratica sui binari giusti. Ricordiamo che l’autotutela è discrezionale per l’amministrazione: l’ufficio non è obbligato ad accogliere o a rispondere. Ma tentare non nuoce, specie quando si ha chiaramente ragione su un punto (il voler evitare un contenzioso può motivare l’ufficio ad aderire).

3. Garante del Contribuente: ogni regione ha un Garante del Contribuente, figura istituita dallo Statuto del Contribuente (art. 13, L.212/2000). Il Garante è un organo indipendente (di solito un collegio di tre membri) cui il contribuente può rivolgersi con esposti o richieste di intervento in caso di presunte violazioni dei propri diritti da parte del Fisco. Sebbene il Garante non abbia poteri decisori vincolanti, la sua moral suasion può essere efficace. Nel caso di rimborsi non erogati, il contribuente può scrivere al Garante regionale descrivendo la vicenda (es: “istanza presentata, tot tempo passato, l’ufficio è inerte o non dà spiegazioni, il mio diritto violato all’art.8 Statuto Contribuente sulla tempestività dei rimborsi”) e chiedere un intervento. Il Garante di norma, ricevuto l’esposto, chiede chiarimenti all’ufficio e sollecita una soluzione, informando contestualmente l’istante. Non sempre questo risolve, ma l’ufficio tende a evitare di collezionare note negative dal Garante, quindi potrebbe velocizzare la pratica. L’azione del Garante è gratuita e relativamente rapida. Non si sovrappone al ricorso: è un canale parallelo amministrativo. Vale la pena attivarlo soprattutto in casi di palese violazione dei tempi o scorretta gestione (ad esempio, rimborso dimezzato senza motivo e senza atto, o silenzi protratti oltre ogni ragione). Anche organizzazioni di tutela consumatori e ordini professionali talvolta coinvolgono i Garanti regionali su casi diffusi di ritardi sistemici.

4. Tentativo di conciliazione pre-contenzioso (quando applicabile): dal 2023, come visto, la mediazione tributaria obbligatoria è stata abolita. Tuttavia, resta possibile – in via facoltativa – cercare un accordo con l’ufficio prima di formalizzare un ricorso. Nella prassi, se un contribuente è prossimo a fare ricorso per un rimborso negato/taciuto, può convocare o contattare l’ufficio legale dell’Agenzia manifestando la disponibilità a conciliare. Ad esempio, se la questione riguarda l’entità di un rimborso (magari il contribuente chiede €100k, l’ufficio contesta metà), una soluzione bonaria potrebbe essere prospettata (del tipo: rinuncio a parte delle sanzioni o trovo un accordo sull’importo). Purtroppo, nei rimborsi la conciliazione è meno frequente, perché o l’imposta è dovuta o non lo è; non c’è una via di mezzo, a meno che il contenzioso non riguardi solo interessi o sanzioni. Comunque, dopo l’abolizione del reclamo-mediazione obbligatoria, la conciliazione giudiziale rimane uno strumento nel processo (anche in appello e Cassazione) e le parti possono accordarsi con un abbattimento delle sanzioni (1/3 invece che metà come prima). Quindi, è possibile che, una volta incardinato il ricorso, l’ufficio proponga un accordo conciliativo: ad esempio, riconosce il rimborso ma senza interessi, o riduce del 50% una parte contestata, ecc. Il contribuente valuterà in base alla convenienza.

5. Revoca della richiesta di rimborso in favore di compensazione: questo è un caso particolare. Poniamo che il contribuente, stanco di attendere, decida: “anziché aspettare il cash, uso il credito in F24 per pagare le mie prossime imposte”. È possibile? Sì, in certi limiti. Se il rimborso deriva da una dichiarazione dei redditi, la scelta rimborso/compensazione può essere cambiata presentando una dichiarazione integrativa a favore entro il termine di presentazione della dichiarazione dell’anno successivo. Ad esempio, Società Alfa chiede rimborso IRES 2023 di €10k; nel 2024 vede che ritarda e entro il 30 novembre 2024 (termine dichiarazione 2024) presenta una integrativa al 2023 optando per la compensazione al posto del rimborso. Così quel credito viene “sbloccato” e può usarlo in F24. L’Agenzia aveva chiarito con circolare 35/E 2015 e risoluzione 99/E 2014 che il contribuente può revocare la richiesta di rimborso per trasformarla in credito da compensare, attraverso appunto una integrativa. Ci sono però condizioni: deve essere fatto entro certi termini (di solito entro l’anno successivo come detto, o entro la scadenza di legge per la dichiarazione integrativa). Inoltre, se nel frattempo il rimborso era già stato erogato, ovviamente non si può più revocare. Questa strada è utile per crediti fiscali di importo medio che si preferisce recuperare più rapidamente per autofinanziarsi, specie se nel frattempo si hanno imposte da pagare (compensabili). Attenzione: non sempre il fai-da-te è possibile; ad esempio per IVA, la risoluzione 82/E 2018 ha ammesso la possibilità di rettificare la scelta rimborso/detrazione presentando dichiarazione integrativa entro il termine del modello IVA dell’anno successivo. La Cassazione stessa ha confermato (sent. 1946/2022) che per modificare la richiesta originaria (da rimborso a compensazione) occorre presentare dichiarazione integrativa nei termini. Quindi non basta fare finta di niente e compensare: bisogna formalizzare la revoca via integrativa, altrimenti quel credito risulta chiesto a rimborso e non utilizzabile, pena sanzioni.

Se il termine per integrativa è scaduto, rimane la possibilità, in casi estremi, di rinunciare formalmente al rimborso e comunque compensare (ma è rischioso e non consigliato senza accordo con l’ufficio). Ad esempio, contributi a fondo perduto COVID: alcuni hanno rinunciato al rimborso e lo hanno scalato su altro, ma si tratta di situazioni peculiari. Nel contesto di tributi classici, meglio non intraprendere compensazioni non autorizzate: il sistema AdE-F24 spesso le blocca se il credito risulta in attesa di rimborso.

6. Interessi di mora e azione civile? Una domanda che sorge: posso chiedere danni ulteriori per il ritardo? Nel processo tributario ordinario, no, si può ottenere solo quanto previsto (credito + interessi da ritardato rimborso). Non è ammessa una richiesta di risarcimento danni da ritardo in Commissione Tributaria (non è di loro competenza, sarebbe tema amministrativo/civile). Un eventuale risarcimento per lesione di interessi legittimi richiederebbe un’azione separata dinanzi al giudice amministrativo o civile, difficilissima da vincere se non in casi di dolo estremo. Quindi, realisticamente, il massimo che si può ottenere è il rimborso dovuto più i suoi interessi. È però possibile, come “minaccia”, far presente che il perseverare dell’inerzia costringerà il contribuente a valutare ogni azione a tutela, “compresa la segnalazione agli organi di giustizia contabile per eventuale danno erariale” (quando l’amministrazione fa perdere tempo e soldi, si potrebbe configurare un danno erariale per gli interessi maturati inutilmente). Anche questa è più che altro retorica, ma a volte efficace.

Riassumendo le azioni pre-contenziose in ordine crescente di formalità:

  • Informarsi
  • Sollecito scritto all’ufficio
  • Esposto al Garante del Contribuente
  • Autotutela (diffida/istanza di riesame)
  • Accordi bonari / conciliazione
  • Revoca della domanda per usare il credito diversamente.

Se nessuna di queste risolve, al contribuente non resta che indossare l’elmetto e passare al piano giudiziario, cioè il ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria). Nel prossimo capitolo affronteremo proprio questo: come e quando fare ricorso, distinguendo tra silenzio-rifiuto e diniego espresso, e quali sono gli orientamenti giurisprudenziali più recenti da tenere a mente.

Il ricorso in Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria) per ottenere il rimborso

Quando l’Agenzia delle Entrate non rimborsa spontaneamente, il contribuente ha la facoltà di ricorrere al giudice tributario per far valere il suo diritto. Il contenzioso tributario in materia di rimborsi assume connotati particolari, soprattutto in relazione al meccanismo del silenzio-rifiuto. In questa sezione analizzeremo:

  • Il ricorso contro il silenzio-rifiuto (diniego tacito dopo 90 giorni).
  • Il ricorso contro un diniego esplicito (provvedimento dell’Agenzia).
  • I termini e le modalità procedurali (60 giorni, 10 anni, ecc.).
  • L’onere della prova e gli orientamenti giurisprudenziali attuali.
  • Cosa accade se l’Agenzia interviene tardivamente (diniego dopo i 90 giorni) e come ciò impatta il ricorso.

Ricorso avverso il silenzio-rifiuto (diniego tacito)

Come già anticipato, trascorsi 90 giorni dalla presentazione dell’istanza di rimborso senza che l’amministrazione abbia risposto, si considera formato un diniego tacito (silenzio-rifiuto). Questo consente al contribuente di impugnare la situazione di inerzia come se vi fosse un provvedimento di rifiuto.

Termine per impugnare: a differenza degli atti espliciti (che vanno impugnati entro 60 giorni dalla notifica), il ricorso contro il silenzio-rifiuto gode di un termine molto ampio. L’art. 21, co.2, D.Lgs. 546/92 stabilisce che esso “può essere proposto dopo il 90° giorno dalla domanda e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto”. In pratica, il contribuente può presentare ricorso in qualsiasi momento a partire dal giorno 91 successivo alla domanda di rimborso, fino a 10 anni (termine ordinario di prescrizione decennale dei diritti). Questa facoltà “aperta” è stata confermata in numerose sentenze: il silenzio-rifiuto è sempre impugnabile fino a che il diritto non sia prescritto. Ciò significa che, ad esempio, se un contribuente ha chiesto rimborso nel 2018, potrebbe decidere di fare ricorso nel 2025, ed è ancora nei termini (salvo eventuale interruzione della prescrizione, ma in genere coincide col decennio). Ovviamente, attendere così a lungo può essere sconsigliabile per altre ragioni (difficoltà probatorie, ecc.), ma la legge lascia questa ampia finestra per venire incontro al contribuente, in controtendenza rispetto ai rigidi termini brevi tipici di altri atti.

Forma e contenuto del ricorso: il ricorso si presenta alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado competente (ex Commissione Tributaria Provinciale) – generalmente quella del domicilio fiscale del contribuente. Con la riforma del processo tributario (L. 130/2022) ci sono nuovi nomi ma la sostanza è la stessa. Il ricorso deve essere notificato all’Agenzia delle Entrate (di solito via PEC all’indirizzo ufficiale “PEC del contenzioso” dell’ufficio locale) e poi depositato (telematicamente tramite SIGIT/PST giustizia tributaria). Nel ricorso occorre indicare, oltre ai propri dati e alla rappresentanza (se ci si avvale di un difensore abilitato, obbligatorio per controversie sopra €3.000 di valore): gli estremi dell’istanza di rimborso presentata (data, oggetto, importo), la formazione del silenzio-rifiuto (citando l’art.21 co.2), e le ragioni di diritto per cui il rimborso spetta. Praticamente, il contribuente deve esporre la propria tesi: ad esempio, “il tributo X non era dovuto perché… e ne ho chiesto la restituzione; decorso il termine senza esito, impugno il silenzio rifiuto e chiedo al giudice di accertare il mio diritto al rimborso di €…, oltre interessi”. Importante: vanno allegate le prove a sostegno: tipicamente la copia dell’istanza presentata (protocollo), la prova dei versamenti effettuati (quietanze F24, ecc.), documenti che dimostrino il perché non erano dovuti (es: copia di sentenza che annulla un accertamento, certificati, calcoli, etc.). Il tutto per convincere la Commissione che il credito esiste e spetta proprio al ricorrente.

Onere della prova: come anticipato, in giudizio spetta al contribuente provare il fondamento della sua pretesa di rimborso. Ciò è stato ulteriormente rafforzato con la L.130/2022 che ha inserito nell’art.7 del processo tributario un comma specifico: “Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.”. Significa che, salvo il caso in cui il rimborso derivi dall’annullamento di un accertamento (dove in qualche modo è già stato discusso), in tutti gli altri casi il contribuente è attore sostanziale e deve provare i fatti costitutivi del suo diritto. L’Agenzia delle Entrate in questo contenzioso ha il ruolo di convenuto: può limitarsi a difendersi e a contestare, senza dover emanare un atto impositivo (non c’è accertamento, c’è un silenzio). Questa posizione processuale comporta, ad esempio, che l’Agenzia può anche portare in giudizio eccezioni e argomenti nuovi (che magari non aveva esplicitato, dato che non c’è un atto) senza incorrere in preclusioni, salvo il caso estremo del giudicato interno se non contesta alcuni fatti specifici. La Cassazione, nell’ordinanza n.27845/2023, ha ribadito che il contribuente in questi giudizi deve dimostrare che non sussiste alcun motivo legittimo per negargli il rimborso – in pratica deve provare di aver diritto e smontare preventivamente le possibili ragioni di rifiuto. È un rovesciamento rispetto ai ricorsi contro accertamenti, dove è il Fisco che deve provare il proprio assunto.

Svolgimento del processo: il giudizio sul silenzio-rifiuto è in tutto e per tutto un giudizio di merito sul diritto al rimborso. Il giudice tributario è chiamato non solo a censurare l’inerzia amministrativa, ma proprio a stabilire se il contribuente ha diritto ai soldi oppure no. In caso affermativo, la pronuncia tipica del giudice sarà una sentenza che accoglie il ricorso e “accerta il diritto del ricorrente al rimborso di €X, oltre interessi di legge”. Notare: spesso i giudici si limitano ad accertare il diritto, lasciando poi all’amministrazione il compito di eseguire (pagare). In altre sentenze i giudici scrivono anche “condanna l’amministrazione al pagamento”; la differenza può rilevare per l’ottemperanza (vedi oltre). Se il giudice invece ritiene che il rimborso non spetti (ad es. perché il tributo era dovuto, oppure l’istanza è decaduta, etc.), rigetta il ricorso e quindi il contribuente non ottiene nulla (e dovrà anche pagare le spese processuali in genere).

Valore della causa: nei ricorsi da rimborso, il valore della lite è l’ammontare del rimborso richiesto (al netto di interessi). Ciò rileva, ad esempio, per la competenza territoriale (valori minori a volte accorpano sezioni, ma non più), per il contributo unificato da pagare (che varia a scaglioni in base al valore) e storicamente rilevava per la mediazione (ormai non più obbligatoria dal 2023). Anche se la mediazione obbligatoria è abolita, vale ricordare la sospensione feriale dei termini: i 60 giorni di impugnazione decorrono normalmente, ma dal 1° al 31 agosto sono sospesi (quindi se cadono in mezzo, aggiungi 31 giorni). Nel caso del silenzio-rifiuto non c’è un termine di 60 gg, c’è un termine lungo decennale – qui la sospensione feriale non incide, perché semmai la prescrizione decennale è soggetta al codice civile e la sospensione feriale in teoria non vi si applica (quella opera per i termini processuali, e non c’è un “termine perentorio” per ricorrere se non il concetto di prescrizione). Quindi su questo aspetto il contribuente ha grande flessibilità.

Tuttavia, non è sempre strategicamente saggio aspettare troppo a ricorrere: se si attendono molti anni, l’Agenzia potrebbe nel frattempo aver perso documenti o l’istruttoria diventare difficoltosa; inoltre, presentare ricorso tardivamente non dà diritto ad interessi extra oltre quelli legali (non c’è un “risarcimento” per la latenza). D’altro canto, a volte è opportuno aspettare degli sviluppi giurisprudenziali prima di avventurarsi: ad esempio, su questioni incerte (tipo rimborso di una nuova tassa controversa), un contribuente potrebbe aspettare che Cassazione si pronunci in casi analoghi, e solo dopo lanciare il proprio ricorso forte di precedenti favorevoli. Ecco spiegata la ratio di lasciare 10 anni di tempo.

Ricorso collettivo o per singolo? In linea di massima ogni richiesta di rimborso è personale e il ricorso va presentato dal singolo contribuente. Non esiste una class action tributaria che obblighi l’amministrazione a rimborsare a tutti, anche se se vi è una causa pilota in Cassazione su una certa questione, poi l’Agenzia può decidere di adeguarsi per tutti i casi analoghi (ma su base volontaria). Per esempio, quando la Consulta dichiarò illegittima l’IMU sulla prima casa di coniugi in Comuni diversi, in teoria tutti dovevano chiedere rimborso; non c’era un automatismo se non un successivo intervento normativo. Nel nostro ordinamento, quindi, ogni contribuente deve curare il proprio ricorso. È possibile tuttavia presentare un ricorso congiunto se si tratta dello stesso contribuente e stesso ufficio ma più annualità: es. società che chiede rimborso IRES 2018 e 2019, può fare un solo ricorso cumulando i due periodi (se questioni simili). Oppure coniuge e moglie, se il rimborso è su imposta comune (difficile, casi particolari).

Esito del ricorso: se il contribuente vince in primo grado e l’Agenzia non appella (o l’appello viene respinto), la sentenza diventa definitiva e il contribuente ha finalmente un titolo esecutivo per ottenere il pagamento (in teoria l’amministrazione dovrebbe ottemperare spontaneamente entro 90 giorni dalla notifica della sentenza passata in giudicato, se condannata). Se invece il contribuente perde, può valutare appello e poi Cassazione, ma qui i tempi si allungano (anche oltre 5-6 anni totali).

Va detto che l’Agenzia a volte, di fronte a ricorsi su silenzio-rifiuto, adotta una tattica: se ritiene di avere poche chance in giudizio (es: il diritto è chiaro), può anticipare i tempi rimborsando prima dell’udienza (magari per evitare la condanna alle spese). Ciò rende il ricorso cessato motivo e lo estingue. Capita ad esempio su piccoli importi dove l’ufficio non aveva voglia di lavorare ma nemmeno di andare in giudizio: quando arriva il ricorso, preferisce pagare. In altri casi, l’Agenzia può emanare un provvedimento di diniego “tardivo” dopo aver ricevuto il ricorso, e presentarlo al giudice per chiedere l’inammissibilità del ricorso per silenzio (tattica subdola che affrontiamo dopo).

Ricorso avverso un diniego espresso (provvedimento di rifiuto del rimborso)

Se l’Agenzia delle Entrate, invece di tacere, notifica al contribuente un provvedimento di diniego (espresso) del rimborso, allora lo scenario cambia leggermente. In tal caso:

  • Termine per impugnare: il diniego è un atto impugnabile ai sensi dell’art.19 D.Lgs.546/92 (rientra tra i “provvedimenti di rigetto di domande di restituzione di tributi”). Dalla data di notifica (o comunicazione) del diniego, il contribuente ha 60 giorni per presentare ricorso. Qui valgono le regole usuali: 60 giorni effettivi, estesi a 61 se l’ultimo è festivo, sospesi ad agosto, prorogabili di 90 se si presenta istanza di accertamento con adesione (anche se per i rimborsi raramente c’è accertamento con adesione, essendo un rigetto e non un avviso). Attenzione a rispettare questo termine, perché trascorsi i 60 giorni il diniego diventa definitivo e cristallizza la situazione: non si potrà più ottenere quel rimborso, salvo riesame in autotutela improbabile.
  • Contenuto del ricorso: sarà un ricorso avverso atto, perciò occorrerà indicare l’atto impugnato (numero e data del provvedimento di diniego) e i motivi per cui lo si ritiene illegittimo. Essenzialmente i motivi saranno gli stessi che supportano il diritto al rimborso (es: “il diniego è illegittimo perché l’imposta non era dovuta per ragioni X e la PA ha errato nel negarla”), eventualmente contestando eventuali argomentazioni dell’ufficio presenti nella motivazione del diniego. L’onere probatorio rimane a carico del contribuente (sempre lui deve dimostrare il diritto), ma almeno qui l’ufficio ha scoperto le carte in termini di motivazione e il contribuente sa su cosa focalizzarsi.
  • Differenze procedurali rispetto al silenzio: nel ricorso contro atto, a differenza del silenzio, i termini sono stringenti (60 gg) e se perdi quel treno non puoi più ricorrere – non c’è il decennio. Inoltre, se l’ufficio ha negato parzialmente (ad es. riconosciuto €5.000 su €10.000 richiesti e negato il resto), e il contribuente non impugna, egli accetta tacitamente di rinunciare alla parte negata (anche se a dire il vero in caso di rimborso parziale, parte della dottrina ritiene che il silenzio-rifiuto persista sulla parte non evasa, ma per prudenza conviene impugnare la parte non data come fosse un diniego implicito su quella). In genere però se c’è un atto di diniego formale, copre tutto l’importo richiesto (o nega in toto o indica cosa paga e cosa no).
  • Ruolo della mediazione (storicamente): Fino a fine 2023 i ricorsi fino a €50.000 di valore dovevano passare dal reclamo-mediazione. Quindi un diniego su €10k di rimborso IRPEF, notificato nel 2023, avrebbe richiesto la presentazione di un reclamo e l’attesa di 90 giorni. Dal 2024, questo non serve più; per i ricorsi notificati dal 1/1/2024 in poi, si va diretti in causa senza mediazione obbligatoria. Quindi oggi, se ricevete un diniego, potete notificare ricorso subito (e la procedura andrà avanti senza quella pausa). Nel depositare il ricorso, chiaramente non si scriverà nulla di reclamo, a meno che il caso soggiaccia ancora al regime transitorio (es: atto notificato dicembre 2023, ricorso gennaio 2024, in teoria sarebbe ancora mediabile). Ma questi casi ormai decrescono.
  • Il “diniego tardivo” e le sue conseguenze: può accadere – e spesso accade – che l’ufficio notifica un diniego dopo che sono già trascorsi i 90 giorni e quindi si era già formato il silenzio. Come visto, questo atto esplicito sostituisce il silenzio-rifiuto legale, ma sorge il problema: se il contribuente aveva già presentato ricorso contro il silenzio, o stava per farlo, come ci si regola? La giurisprudenza più recente ha chiarito che, in caso di diniego espresso notificato tardivamente, non è ammissibile un ricorso contro il silenzio proposto dopo l’emanazione di quel diniego. La Cassazione (ordinanza n.20837 del 18/07/2023) ha sancito che se l’Agenzia emette un provvedimento espresso, ancorché oltre il termine di silenzio, il contribuente non ha più interesse ad agire contro il silenzio perché ormai c’è un atto vero su cui eventualmente concentrarsi. Quindi un ricorso presentato successivamente verrebbe dichiarato inammissibile per carenza di interesse. In pratica, se arriva il diniego, bisogna impugnare quello (entro 60 gg), e non si può più ignorarlo e procedere come se nulla fosse col silenzio (il silenzio viene “assorbito” dall’atto).
    • Caso tipico: contribuente presenta istanza, passano 6 mesi, si prepara a fare ricorso per silenzio; all’ottavo mese l’Agenzia notifica un diniego. A quel punto, se il contribuente non aveva ancora presentato ricorso, dovrà impugnare il diniego entro 60 giorni. Se aveva già presentato ricorso magari al sesto mese, e poi arriva diniego, l’Agenzia in giudizio eccepirà l’inammissibilità del ricorso perché ormai c’è atto espresso: e secondo Cassazione quell’eccezione è fondata. Il contribuente in tal caso dovrebbe convertire il ricorso, o integrarlo impugnando anche il diniego. Dal punto di vista pratico, conviene in questi casi fare un nuovo ricorso contro il diniego e chiederne la riunione al precedente, per sicurezza.
    • Diniego tardivo in corso di causa: l’Agenzia a volte usa la tattica di emettere il diniego dopo aver ricevuto il ricorso, per farlo dichiarare inammissibile. Questo comportamento non è vietato (il diniego può sempre essere emanato, non ci sono preclusioni per l’ufficio in tal senso) ed è un modo per spostare il tiro sulla necessità di impugnare l’atto. La giurisprudenza più recente, come visto, avalla che il contribuente debba a quel punto seguire l’iter dell’atto. È quindi fondamentale per il contribuente non perdere i termini se arriva un diniego: non pensare “ormai ho fatto ricorso per silenzio, ignoro il diniego”, perché sarebbe un errore. Occorre invece integrarsi.
    • Diniego tardivo e conseguenze processuali: se il contribuente non impugna il diniego nei 60 gg, questo diventa definitivo. Un eventuale ricorso contro il silenzio presentato dopo sarebbe respinto perché l’atto espresso ha chiuso la partita. Se il diniego arriva quando il ricorso per silenzio è già pendente ma oltre i 60 gg prima dell’udienza e il contribuente non lo impugna con motivi aggiunti, c’è il rischio che in udienza il giudice dichiari cessata materia del contendere o inammissibilità del ricorso. Pertanto, massima attenzione: alla notifica di qualunque atto successivo dell’AdE, reagire subito.
    In conclusione su questo punto, possiamo dire: il Fisco non perde il potere di emettere un atto dopo i 90 giorni, e se lo fa bisogna affrontarlo sul piano giusto. A volte potrebbe persino convenire al contribuente: avere un atto motivato chiarisce le ragioni e consente di focalizzare il contenzioso. Ad esempio se l’ufficio contesta un aspetto documentale nel diniego, il contribuente saprà di dover puntare su quello in giudizio.
  • Processo sul diniego: dal punto di vista processuale, il giudizio su un diniego espresso è analogo a quello sul silenzio quanto a merito (sempre diritto al rimborso in discussione). Cambia solo che c’è un atto impugnato, con eventuali vizi formali oltre che sostanziali da poter eccepire (es: l’atto è stato notificato oltre il termine di 90 giorni – ma questo non lo rende nullo, come chiarito, semplicemente il termine era ordinatorio; oppure atto privo di motivazione sufficiente – si può lamentare in ricorso la carenza di motivazione, ma attenzione: il silenzio-rifiuto non ha motivazione per definizione e ciò non impedisce al giudice di valutare nel merito; per un atto espresso la motivazione è comunque richiesta per legge, se fosse del tutto assente il giudice potrebbe annullarlo per vizio di forma, ma di solito scrivono almeno due righe). In sostanza, non conviene puntare su cavilli formali nel contenzioso da rimborso: il giudice di merito tende ad andare al sodo, ossia il tributo era dovuto o no? il credito esiste o no? Quindi conviene argomentare su quello. Se si ha ragione nel merito, anche un eventuale vizio formale non aggiunge molto, se non forse evitare spese se si vince su forma senza entrare nel merito (ma poi l’ufficio potrebbe reiterare l’atto correggendolo, se la sentenza non copre la sostanza).
  • Casi particolari di diniego parziale: se l’ufficio rimborsa parzialmente e nega il resto, siamo di fronte a un diniego implicito sulla parte residua. La Cassazione considera impugnabile anche il silenzio parziale: ovvero, se chiedi 100 e ti danno 70, sui 30 mancanti si forma silenzio-rifiuto decorsi 90gg (a meno che l’ufficio non formalizzi un diniego per i 30). Quindi il contribuente può impugnare quel silenzio (o quell’atto se c’è). Il termine in caso di silenzio parziale, secondo alcuni, decorre comunque decorsi 90gg sulla parte inevasa. Però spesso in queste situazioni l’ufficio notifica direttamente un diniego per differenza. In tal caso i 60 gg partono dal diniego. Se invece l’ufficio tace sui 30, teoricamente il contribuente avrebbe 10 anni dal 90° giorno per i 30.

Orientamenti giurisprudenziali recenti e strategie in giudizio

Nel portare avanti un contenzioso tributario per rimborso, è utile tener presenti alcuni principi affermati dalle sentenze più recenti:

  • Istanza di rimborso eccessivamente generica: come già detto, Cass. 10603/2025 ha stabilito che se l’istanza manca di elementi essenziali, il ricorso è inammissibile perché quel silenzio non è opponibile. Quindi, se l’Agenzia eccepisce in giudizio che l’istanza era vaga (es. non indicava l’anno d’imposta), il giudice potrebbe accogliere tale eccezione e dichiarare inammissibile la domanda di rimborso. Strategia: nel dubbio, presentare una nuova istanza meglio dettagliata e ricorrere su quella, se ancora nei termini, oppure insistere provando che comunque l’istanza era sufficientemente intelligibile. Ma prevenire è meglio: formulare bene le richieste.
  • Presupposti sostanziali del tributo: molte cause di rimborso ruotano attorno alla definizione se un tributo fosse dovuto. Ad esempio per IRAP, c’era un conflitto interpretativo su cosa costituisce “autonoma organizzazione”. La Cassazione a Sezioni Unite nel 2016 e successive ha dato linee guida: il professionista senza dipendenti né beni capitali significativi non la deve. Quindi oggi in un ricorso IRAP, si porta la prova di non avere quei requisiti, come nel caso di Cass. 27845/2023 citato, dove però il professionista non ha vinto perché non ha convinto i giudici di non avere collaboratori significativi. Dunque la lezione è: portare prove concrete (contratti, fatture) che dimostrino la situazione di fatto che dà diritto al rimborso. A volte servono anche perizie tecniche (es: per l’IVA se la detrazione spettava o no, ecc.). Non dare per scontato che il giudice “creda” al contribuente senza riscontri.
  • Silenzio-rifiuto e termini di impugnazione degli atti presupposti: abbiamo già visto il principio di Cass.31236/2020. Questo è importante: non si può usare il giudizio di rimborso per riaprire termini scaduti di contestazione di un atto. In concreto, se un contribuente ha subito un accertamento, l’ha pagato e non l’ha impugnato, non può chiedere rimborso di quel pagamento sostenendo dopo 2 anni che l’accertamento era infondato – no, doveva opporsi nei 60 giorni dall’accertamento. Quindi il giudice respingerà il ricorso per rimborso qualificandolo come inammissibile tentativo di eludere la decadenza di impugnazione. Questo per dire: il ricorso per rimborso non è un jolly per problemi contenziosi non affrontati a tempo debito.
  • Sentenze di merito ed esecuzione: la Cassazione ha di recente (sent. 27710/2022) ribadito che il giudice dell’ottemperanza può ordinare il pagamento anche in presenza di limiti di bilancio. Non direttamente rilevante per decidere la causa di rimborso, ma dà sicurezza che vincere serve a qualcosa concretamente.
  • Casi di dichiarazione omessa e rimborso: in passato c’era giurisprudenza per cui se non presentavi la dichiarazione dei redditi, perdevi il diritto al rimborso emergente. Orientamenti più recenti sono divenuti più sostanzialistici: hanno ammesso rimborsi richiesti anche in dichiarazioni tardive oltre i termini o in altre forme (Cass. 36050/2022 ha confermato la possibilità di riconoscere crediti da dichiarazioni integrative presentate tardivamente). La ratio è che l’omissione di un modello non può precludere la ripetizione di un indebito tributario entro i termini di decadenza dell’istanza (principio di “capacità contributiva” e di non arricchimento indebito dello Stato). Quindi, sebbene sia meglio seguire le forme, sappiate che la giurisprudenza attuale tende a favorire il rimborso se nel merito è dovuto, pur se c’è qualche irregolarità formale (da sanare con sanzione magari). Questo può essere argomentato dal difensore in causa invocando i principi costituzionali di giustizia tributaria.
  • Spese di lite: se il contribuente vince, l’Agenzia in genere viene condannata a rifondere le spese legali (salvo controversie minori in cui il giudice può compensarle). Questo è uno stimolo per l’Agenzia a non opporsi su cause palesemente sfavorevoli. Se il contenzioso è stato causato da un comportamento dilatorio del Fisco, si può anche chiedere al giudice di valutare la condotta ai fini delle spese (per esempio, mancata risposta a solleciti, ecc.), magari ottenendo spese maggiorate. Di contro, se il contribuente perde, rischia di pagare le spese all’Agenzia.

Conclusione su come procedere in giudizio: la strategia per il contribuente sarà: raccogliere tutta la documentazione probatoria possibile, inquadrare bene la normativa di riferimento (spesso citando anche circolari o risoluzioni se favorevoli, perché i giudici a volte le considerano), e magari portare precedenti giurisprudenziali analoghi a supporto. Ad esempio, se si tratta di rimborso di un’imposta dichiarata incostituzionale, allegare la sentenza della Corte Costituzionale; se Cassazione ha già riconosciuto il rimborso in casi identici, citare e allegare quelle pronunce. Questo orienta il giudice di merito.

Un’ulteriore risorsa: esistono i cosiddetti “ricorsi collettivi” in forme di appello pilota o Cassazione pilota. Ad esempio, se decine di contribuenti hanno cause simili sullo stesso rimborso, spesso i legali possono concordare con le Commissioni di trattare un caso esemplare e tenere sospesi gli altri (ex art.39 D.Lgs.546, sospensione in attesa di definizione di altra causa). È un meccanismo deflattivo possibile, specie in liti seriali (si pensi ai rimborsi delle addizionali comunali illegittime, ecc.). Il contribuente può chiedere tramite il suo legale di sospendere il suo giudizio in attesa della sentenza X che è già in Cassazione sul medesimo tema. Questo può far risparmiare tempo e denaro se la causa pendente sembra favorevole.

Infine, va ricordato che dal 2023 sono stati introdotti importanti cambiamenti nel processo tributario: tra cui la possibilità di chiedere testimonianze scritte (non giurata, ma forma di dichiarazione) e la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado in appello con garanzia. Nel contesto dei rimborsi, se il contribuente vince in primo grado e ottiene una condanna a suo favore, teoricamente l’Agenzia dovrebbe pagare 90% subito anche se appella (art.68 D.Lgs.546/92, una volta il 90% andava pagato, oggi però questa norma è stata temperata e per le parti in rimborso c’è ottemperanza speciale). In pratica però l’Agenzia spesso non paga in pendenza di appello e il contribuente deve avviare ottemperanza, che di solito è sospesa se c’è appello in corso. Insomma, la vera certezza si ha a fine giudizi.

In ogni caso, l’azione in Commissione Tributaria è la via maestra se l’Agenzia non molla: è lo strumento che la legge offre per far valere i propri diritti quando ogni altra strada amministrativa è fallita.

Caso particolare: rimborso bloccato per compensazione con debiti (focus “debitore”)

Abbiamo già trattato la questione nella sezione cause di ritardo, ma data la sua importanza pratica e il riferimento esplicito al “punto di vista del debitore” nella richiesta, dedichiamo un paragrafo riassuntivo focalizzato su cosa può fare un contribuente che ha debiti fiscali pendenti e contemporaneamente attende un rimborso.

Scenario: il contribuente è allo stesso tempo debitore verso l’Erario (per cartelle/avvisi non pagati) e creditore (per somme a rimborso). Questa situazione in passato consentiva qualche manovra: fino al 2024, se il contribuente rifiutava la compensazione, l’Agenzia comunque gli pagava il rimborso e poi continuava a pretendere il debito attraverso la riscossione. Alcuni contribuenti “furbetti” ne approfittavano per incassare e magari rendersi nullatenenti per i debiti. Proprio per evitare ciò, come visto, il D.Lgs. 110/2024 (attuativo della Delega Fiscale L.111/2023) ha introdotto un nuovo art.28-ter DPR 602/73 rafforzando la tutela erario in questi casi.

Ricapitolando i punti chiave della “procedura di compensazione volontaria” in vigore dal 2025:

  • Se il rimborso dovuto (compresi gli interessi maturati fino a quel momento) è superiore a €500, l’Agenzia deve verificare se esistono debiti a ruolo scaduti intestati al beneficiario.
  • Se tali debiti ci sono, l’Agenzia segnala telematicamente all’Agente della Riscossione l’importo da rimborsare e i dettagli del contribuente.
  • L’Agente della Riscossione (AdER) notifica una proposta di compensazione al contribuente, indicando quali debiti potrebbero essere estinti col rimborso e sospende ogni azione esecutiva per 60 giorni.
  • Il contribuente ha 60 giorni per accettare (anche parzialmente, ad esempio accetta di compensare alcune cartelle e altre no, se l’importo del rimborso non copre tutti i debiti) oppure rifiutare/non rispondere.
  • In caso di accettazione, la compensazione ha effetto: AdER “trattiene” dal rimborso le somme fino a concorrenza dei debiti, versa allo Stato quanto dovuto per chiudere le cartelle e comunica all’Agenzia delle Entrate di erogare l’eventuale eccedenza residua al contribuente. Di fatto, il contribuente vede il suo debito ridotto/annullato grazie al suo credito, e riceve solo la parte eccedente (se c’è).
  • In caso di rifiuto o silenzio del contribuente, scaduti i 60 gg il rimborso viene congelato presso AdER, che non lo restituisce al contribuente ma lo accantona fino al 31 dicembre dell’anno successivo. Durante questo periodo, AdER potrà procedere ad escutere quelle somme con azioni esecutive: in pratica, potrà pignorarle definitivamente e prenderle per pagare i debiti pendenti dopo il 31 dicembre. In realtà, la norma consente già dal 1° gennaio successivo di procedere, quindi il rimborso in pratica è perso dal contribuente a copertura dei debiti (solo se per qualche ragione esiste eccedenza dopo aver saldato i debiti, quella eventuale gli dovrebbe essere corrisposta).
  • Questa procedura vale per tutti i debiti affidati ad AdER: non solo imposte erariali, ma anche contributi previdenziali, sanzioni amministrative, ecc., qualunque carico iscritto a ruolo in essere. E si applica a qualunque tipo di rimborso fiscale (IRPEF, IVA, IRES, imposta sostitutiva, accisa).

Soglia di €500: prima era €1.500, quindi molti “piccoli” rimborsi passavano indenni. Dal 2025, un rimborso di €600 verrà controllato: se ho anche solo una cartella da €100, scatterà la proposta. Se rifiuto, perdo €100 (più spese) entro l’anno seguente. Ciò significa che per importi esigui ormai conviene regolarizzare. Sotto €500 invece il rimborso viene pagato normalmente senza verifiche (quindi uno scenario: Mario deve avere €480, ha debiti di €5.000 – per assurdo, questi non impediscono il rimborso perché sotto soglia. Riceverà €480 e i debiti rimarranno per altra via. Ma basta €501 di rimborso e cambia tutto).

Dal punto di vista del contribuente indebitato (debitore): cosa può fare?

  • Prima di tutto, sapere se si hanno debiti e di che natura. Può sembrare ovvio, ma capita che contribuenti dimentichino vecchie cartelle o multe. Controllare sul sito di Agenzia Entrate-Riscossione, area riservata, l’elenco dei propri carichi pendenti. Se emergono debiti sopra soglia, aspettarsi la compensazione.
  • Valutare di sanare o rateizzare il debito: se si è in tempo, attivare una rateazione o aderire a rottamazione può “disinnescare” la procedura. Infatti, come visto, debiti rateizzati o in definizione agevolata non sono considerati “inadempimenti” ai fini del blocco rimborso. Quindi, ad esempio, se ho una cartella da €10.000 scaduta ma la metto in rateazione prima che arrivi la proposta di compensazione, in teoria quando scatta il controllo il debito risulterà non inadempiuto (perché sto pagando le rate) e l’Agenzia Entrate dovrebbe procedere a erogare il rimborso senza attivare l’art.28-ter. Questa è un’ottima strategia per i debitori: attivare un piano di pagamento (anche minimo) per far risultare i debiti “in corso di pagamento” anziché scaduti. Naturalmente, poi bisognerà onorare quelle rate, sennò in futuro si ripresenterà il problema.
  • Se la proposta arriva: decidere se accettarla o no. Accettare ha l’effetto positivo di ridurre immediatamente il proprio debito fiscale usando il credito, e si evita di dover sborsare liquidità. Può essere intelligente specialmente se altrimenti AdER farebbe pignoramenti più onerosi (con aggravi). Inoltre, se il debito comportava interessi di mora e sanzioni in crescita, estinguerlo subito col credito blocca maturazione di ulteriori oneri. Rifiutare, come visto, non porta vantaggi: il rimborso non viene liberato al contribuente comunque. Si potrebbe ipotizzare di rifiutare solo se si ha una ragione specifica: ad esempio, il debito è oggetto di ricorso in sospeso e si confida di annullarlo in giudizio (per cui non si vuole pagarlo via rimborso). In tal caso, si deve mettere in conto però che il rimborso resterà congelato. Se poi in giudizio il contribuente vince ed elimina il debito, allora a fine anno successivo quell’importo, non dovendo essere pignorato, forse verrebbe sbloccato (il decreto non chiarisce del tutto, ma parrebbe che se non c’è più “inadempimento”, l’agente non ha titolo per trattenere). Quindi un rifiuto sensato è: “non accetto la compensazione perché quella cartella la sto vincendo in Cassazione, quindi preferisco aspettare”. È una scommessa, con il rischio però che se si perde il giudizio, poi i soldi erano lì e verranno persi comunque.
  • Contestare la procedura? Il contribuente potrebbe chiedersi: posso oppormi legalmente al blocco del rimborso? Purtroppo, la procedura di cui sopra è normativamente prevista, quindi non si può dire sia illegittima in sé. Potrebbe generare contenziosi su dettagli applicativi (ad es. notifica errata della proposta, calcolo sbagliato degli interessi inclusi, etc.), ma in sostanza non c’è un appiglio per impedirla se ci sono debiti certi. Forse l’unico caso potrebbe essere eccepire che il debito non è “definitivo” (se magari c’è sospensione giudiziale, allora non è esigibile e non doveva bloccare). In tali frangenti si può ricorrere al giudice dell’esecuzione o al giudice amministrativo per sbloccare l’importo, ma sono casi rari e complessi.
  • Effetti collaterali sul contribuente: se il rimborso era atteso per problemi di liquidità, sapere che verrà trattenuto è comunque un colpo. Tuttavia, guardando il bicchiere mezzo pieno, se quell’importo va a ridurre i propri debiti, migliora la propria posizione debitoria (meno rischio di pignoramenti futuri su conti o stipendi). In alcuni casi, inoltre, l’operazione può evitare l’iscrizione di ipoteche o fermi amministrativi: se avevo un debito in scadenza e l’ho saldato col rimborso, l’Agente della riscossione potrebbe non procedere con misure cautelari che magari erano imminenti. Quindi, per un imprenditore ad esempio, potrebbe equivalere a compensare crediti e debiti, che è un’operazione efficiente dal punto di vista finanziario (non escono soldi dall’azienda, si usano crediti fiscali per ridurre passività fiscali).

Esempio pratico sintetico (recap): L’impresa Alpha vanta un rimborso IVA di €50.000. Ha però cartelle esattoriali per €30.000 su IVA di anni precedenti. Nel 2025, l’Agenzia la avvisa: “vuoi compensare 30k di debiti con questi 50k di credito?”. Alpha valuta: i 30k di debiti includono 5k di interessi moratori e sanzioni, in crescita; compensandoli ora li chiude. Accetta. AdER trattiene €30k dal rimborso per estinguere i debiti e Alpha riceve i restanti €20k. Debiti zero, 20k incassati, fine. Se avesse rifiutato, i 50k rimanevano fermi. Forse Alpha sperava di ottenere quei 50k per investimenti immediati, ma con debiti pendenti non li avrebbe comunque visti, e in più i 30k di debito sarebbero rimasti gravanti con possibili pignoramenti di lì a un anno. Dunque, meglio accettare. Dal lato opposto, Beta attende €10.000 di rimborso IRPEF, ma ha una cartella da €12.000 che contesta in tribunale. Beta rifiuta la compensazione perché spera entro l’anno di vincere la causa fiscale: se ci riesce e il debito viene annullato, quei €10.000 forse gli verranno sbloccati (almeno dovrà attivarsi per richiederli, ma non saranno stati pignorati, perché il titolo del debito è venuto meno). Se Beta invece perde la causa sul debito, AdER prenderà i 10k e per il restante debito rimarranno in essere le altre azioni.

Conclusione (consigli al debitore): se hai debiti fiscali e aspetti un rimborso, la nuova normativa ti pone di fronte a scelte ridotte. In generale:

  • Regolarizza i debiti se possibile (pagamento, rate, rottamazione) prima che arrivi la fase di rimborso, così da non far scattare il blocco.
  • Se arriva la proposta, valuta di accettare a meno che tu non abbia validi motivi per rifiutare (debiti ingiusti in contestazione).
  • Sappi che rifiutando non ottieni il rimborso comunque, quindi quel denaro non potrai usarlo né per altri scopi né per saldare diversamente i debiti (è in stallo).
  • Comunica con AdER se ci sono situazioni particolari: ad esempio, se hai già pagato il debito il giorno prima della proposta, segnala subito l’avvenuto pagamento mostrando le ricevute, così potrebbero liberare il rimborso.

Infine, dal 2024 c’è anche un’altra novità: il divieto di compensazione “fai da te” per debiti > €100.000 introdotto dalla L.197/2022 (Bilancio 2023). Significa che un contribuente con debiti a ruolo sopra 100k non può utilizzare in compensazione crediti fiscali (nel mod. F24) finché non scende sotto quella soglia (questa norma incide sulle compensazioni autonome, non sui rimborsi, ma disegna un contesto dove chi ha grossi debiti non può neppure farsi giustizia da solo compensando crediti di altra natura). In sostanza, c’è una stretta generale sui contribuenti non in regola: prima li si obbliga a pagare i debiti, poi si concedono utilizzi di crediti.

Il messaggio per il “debitore” è chiaro: non pensare di ricevere soldi dal Fisco se sei in arretrato con altri pagamenti verso di esso. La logica del sistema è diventata “prima compensiamo i debiti, poi eventualmente ti diamo qualcosa”.

Esempi pratici e simulazioni

Per meglio comprendere l’applicazione concreta di tutte queste regole, presentiamo alcuni casi pratici simulati, con la descrizione della situazione e l’indicazione di come dovrebbe comportarsi il contribuente e quali esiti attendersi. Gli esempi riguardano scenari tipici incontrati da privati e imprese in Italia.

Esempio 1: Ritardo nel rimborso IRPEF di un contribuente persona fisica

Situazione: Maria, lavoratrice dipendente, nel 2024 presenta il modello 730 indicando un credito IRPEF di €1.200 (derivante da detrazioni per ristrutturazioni edilizie). Poiché nel 2023 è rimasta senza sostituto d’imposta per alcuni mesi, ha pagato più IRPEF del dovuto e il 730 risulta a credito. Maria ha indicato l’IBAN per ottenere il rimborso dall’Agenzia delle Entrate (il suo datore di lavoro attuale non ha effettuato il conguaglio perché il credito è emerso a fine anno quando non aveva sostituto). Maria attende il rimborso sul conto entro l’autunno 2024, ma a dicembre ancora nulla. Sul suo cassetto fiscale vede che il rimborso risulta “in elaborazione”.

Approccio: Trascorso gennaio 2025, Maria decide di agire. Per prima cosa verifica se ci sono possibili cause: non ha debiti fiscali pendenti (ha solo un vecchio finanziamento in corso ma nulla col Fisco), ha comunicato correttamente l’IBAN (lo ricontrolla: è giusto ed è intestato a lei). Dunque, il ritardo non sembra dovuto a compensazioni né a errori nei dati. Potrebbe essere incappata in un controllo preventivo 730. Infatti Maria ha usufruito di una detrazione edile abbastanza alta, e l’Agenzia spesso controlla tali crediti. Nel frattempo però Maria non ha ricevuto alcuna richiesta di documenti. Non sapendo altro, Maria decide di inviare un sollecito scritto via PEC all’ufficio locale: indica il suo codice fiscale, riferisce del 730 a credito presentato il 30/09/2024 e del credito di €1.200, chiede se ci sono problemi e sollecita il pagamento. Trascorrono 30 giorni senza risposta.

A questo punto (siamo a fine febbraio 2025), Maria potrebbe già ricorrere per silenzio-rifiuto (i 90 giorni dalla richiesta – in questo caso dalla trasmissione del 730 – sono ampiamente passati). Tuttavia, per un importo di 1.200 euro, valutare un ricorso tributario (con avvocato o commercialista) è oneroso. Maria prova un’ultima carta: contatta telefonicamente il Garante del Contribuente della sua regione, spiegando il disservizio. L’ufficio del Garante la invita a mandare un esposto via mail, cosa che Maria fa subito, allegando il sollecito già inviato all’Agenzia. Dopo qualche settimana, l’ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate risponde via PEC a Maria scusandosi del ritardo e informando che il rimborso è stato sbloccato. Nel giro di un altro mese, Maria riceve €1.200 sul conto, più circa €5 di interessi maturati (calcolati al tasso semestrale 1,375% dal gennaio 2025, visto che il primo semestre dal versamento decorreva dal luglio 2024).

Analisi: in questo esempio, Maria ha ottenuto il rimborso senza dover ricorrere ma utilizzando sollecito e Garante. Probabilmente c’era in effetti un controllo preventivo o un intoppo informatico e la sua pratica era rimasta in coda; il sollecito l’ha rimessa in priorità. Ciò mostra che per cifre modeste conviene tentare tutti i rimedi gratuiti prima di andare in giudizio. Maria ha rispettato i suoi diritti (poteva ricorrere dal gennaio 2025, ma ha preferito mediare) e ha avuto successo a marzo 2025. Se l’Agenzia avesse continuato a tacere, Maria a quel punto avrebbe valutato se valesse la pena un ricorso (magari assistita da un CAF – entro 3.000 euro può stare in giudizio da sola, ma meglio farsi assistere). Fortunatamente non è servito.

Esempio 2: Rimborso IVA ad un’azienda bloccato da verifiche

Situazione: La società Gamma Srl opera nel settore dell’export di macchinari. Nel 2024 chiude l’anno con un credito IVA di €200.000, dovuto al fatto che il 80% del suo fatturato è verso clienti extra-UE (operazioni non imponibili) e ha sostenuto molti acquisti locali con IVA. Gamma Srl presenta la dichiarazione IVA 2025 chiedendo rimborso dell’intero credito. Dato l’importo, allega il visto di conformità e una garanzia fideiussoria per 200.000 € (preferisce il rimborso anziché compensare, per questioni di bilancio). Si aspetta di ricevere la somma entro pochi mesi (ha soddisfatto tutti i requisiti formali). Tuttavia, a luglio 2025 il rimborso non è ancora arrivato. Gamma Srl riceve invece una comunicazione dall’Agenzia: è stata avviata una verifica fiscale (accesso della Guardia di Finanza in azienda) focalizzata proprio sul credito IVA richiesto a rimborso. La verifica si protrae per qualche settimana, controllando registri e fatture.

Approccio: La società collabora pienamente. Dal verbale finale emerge solo un rilievo minore su un paio di fatture di acquisto (forse indetraibili), ma nulla di macroscopico. Il credito contestato è al più di €5.000. Il consulente fiscale di Gamma suggerisce di rinunciare a quella piccola quota per chiudere velocemente la questione: Gamma invia quindi all’ufficio un’integrazione riducendo il rimborso richiesto a €195.000, dichiarandosi disponibile a compensare i €5.000 (evitando ulteriori lungaggini). L’ufficio concorda informalmente.

A settembre 2025, l’Agenzia autorizza il rimborso di €195.000 (liberando la garanzia per quella parte) e invita Gamma a presentare un F24 di compensazione per i restanti 5.000. Contestualmente, vengono liquidati interessi per il ritardo: il pagamento è avvenuto oltre il termine di legge (fine giugno 2025), quindi l’Agenzia versa a Gamma circa €1.000 di interessi (calcolati 1% annuo circa per 3 mesi di ritardo su 200k euro). Gamma Srl è soddisfatta: ha ottenuto quasi tutto il rimborso e si è tolta la verifica con un piccolo sacrificio.

Analisi: in questo caso l’Agenzia aveva tutto il diritto di verificare un grosso rimborso IVA. La società avrebbe potuto teoricamente ricorrere dopo 90 giorni (quindi già a luglio) per sollecitare la somma, ma essendo sotto controllo ciò non sarebbe stato opportuno (il giudice probabilmente avrebbe sospeso in attesa dell’esito della verifica). Agire in modo collaborativo e pragmatico (accettando di ridurre leggermente il credito) ha permesso di accelerare il pagamento. Notiamo che qui non c’erano debiti a ruolo di mezzo, se no sarebbe scattata anche la procedura di compensazione. Se Gamma avesse avuto, ipoteticamente, €50.000 di cartelle pendenti, prima del rimborso di 195k l’Agenzia l’avrebbe obbligata a compensarle. Gamma, prevedendo ciò, avrebbe potuto pagarle o rateizzarle prima di chiedere rimborso.

Esempio 3: Compensazione forzata di un rimborso con cartelle esattoriali pendenti

Situazione: Luigi è un piccolo imprenditore individuale. Nel 2023 ha cessato l’attività e, presentando la dichiarazione Redditi 2024, risulta un credito IRPEF di €7.000 (aveva versato acconti su redditi che poi per calo lavoro non si sono realizzati). Luigi chiede il rimborso di questi €7.000 perché intende utilizzarli per coprire spese personali. Tuttavia, Luigi ha anche alcune cartelle esattoriali non pagate: una per contributi INPS (€3.000) e due per IVA di anni precedenti (€4.500 totali), tutte definitivamente scadute e non impugnate, per un debito totale €7.500.

Approccio: L’Agenzia delle Entrate, nel processare il rimborso, vede i debiti. A settembre 2025 Luigi riceve una comunicazione da Agenzia Entrate-Riscossione: gli propongono di compensare il suo credito di €7.000 con parte delle cartelle (che ammontano a 7.500, quindi non copre tutto). Luigi ha 60 giorni per decidere. Luigi inizialmente pensa di rifiutare, perché quei €7.000 gli servirebbero per pagare fornitori arretrati; oltretutto uno dei debiti IVA da €2.000 risale a molti anni fa ed è maturato solo per sanzioni e interessi, gli “brucia” pagarli. Valuta anche se c’è possibilità di ricorso su quelle cartelle: purtroppo no, i termini sono passati da tempo.

Ragionandoci (magari col consiglio di un commercialista), Luigi comprende che se rifiuta, comunque non vedrà un euro e poi AdER gli pignorerà quei 7.000 entro l’anno dopo, lasciandogli ancora 500 di debito più spese legali. Tanto vale accettare e azzerare gran parte dei suoi debiti. Decisione: Luigi invia accettazione formale entro i 60 gg. Di conseguenza, AdER trattiene i 7.000 del rimborso, li destina a chiudere interamente la cartella INPS e quasi tutte le due IVA (resta scoperto €500 + accessori). Luigi quindi non riceve alcun bonifico ma in compenso i suoi debiti residui calano a circa €600 (che poi provvederà a saldare a parte).

Analisi: Luigi da “debitore” ha visto il suo rimborso sparire a copertura delle sue morosità. Se avesse rifiutato, non avrebbe comunque ottenuto il rimborso, ma i debiti sarebbero rimasti €7.500, da pagare magari con pignoramenti e aggravio. Così, invece, ora deve gestire solo €600. Da notare: Luigi non aveva un margine di manovra significativo per evitare ciò, a parte pagare spontaneamente le cartelle prima (ma se avesse avuto i soldi l’avrebbe già fatto; contava sul rimborso). Avrebbe potuto tentare di mettere in rateazione i debiti in anticipo: se Luigi a giugno 2025 avesse attivato un piano rate per i 7.500, in base alla norma ciò non sarebbe stato considerato “inadempimento”. Così forse l’Agenzia avrebbe pagato i 7.000 a Luigi. Ma attenzione: Luigi poi avrebbe dovuto usare quei 7.000 per pagare le rate, altrimenti il default rateale lo riportava punto e a capo. Sarebbe stato un modo di guadagnare tempo e avere i soldi in mano, ma rischioso.

In sintesi, questo esempio evidenzia la ineluttabilità della compensazione forzata per chi è debitore. Dal punto di vista emotivo, Luigi percepisce di non aver mai “visto” quei soldi, ma contabilmente li ha avuti perché gli hanno ridotto il debito equivalentemente.

Esempio 4: Rimborso riconosciuto in giudizio ma non erogato – ricorso per ottemperanza

Situazione: Un caso più complesso: la società Delta SpA nel 2019 aveva versato un’imposta sostitutiva su un’operazione straordinaria (circa €100.000). Successivamente, si è scoperto che per una modifica normativa retroattiva quell’imposta non era dovuta. Delta nel 2020 presenta istanza di rimborso. L’Agenzia non risponde; Delta fa ricorso per silenzio-rifiuto nel 2021. Dopo un contenzioso arrivato fino in Cassazione (perché vi era discussione se quella norma retroattiva le spettasse), finalmente nel marzo 2025 la Cassazione accoglie in via definitiva le ragioni di Delta: la sentenza accerta il diritto al rimborso di €100.000, oltre interessi ex lege. La sentenza passa in giudicato ad aprile 2025 (depositata e non suscettibile di altre impugnazioni). A questo punto Delta è entusiasta, attende il pagamento.

Problema: passano 4 mesi, 5 mesi… l’Agenzia delle Entrate però non paga spontaneamente. Delta sollecita formalmente a giugno e luglio 2025 (essendo passati 90 giorni dal giudicato). Ancora nulla. Adducendo mancanza di provvista (budget), l’ufficio non fa decreti di pagamento. Delta quindi ad ottobre 2025 presenta un ricorso per ottemperanza alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (quella che aveva emesso la sentenza di primo grado rimasta poi confermata). Nel ricorso Delta chiede che venga ordinato all’Agenzia di eseguire la sentenza e, in difetto, di nominare un commissario ad acta. La Corte esamina l’istanza e, vista la chiara inadempienza, a novembre 2025 emette sentenza di ottemperanza: assegna all’Agenzia un ultimo termine di 60 giorni per pagare, dopodiché nominerà un commissario (individuato nel Direttore Regionale delle Entrate, ad esempio) con potere di effettuare il pagamento anche attingendo coattivamente ai fondi ministeriali.

Sotto questa pressione, l’Agenzia provvede entro i 60 giorni: a dicembre 2025 Delta finalmente riceve il bonifico di €100.000 + interessi maturati (circa €11.000, dato che il versamento originale era del 2019 e la sentenza Cassazione ha riconosciuto interessi semestrali dal 2019 al 2025). Inoltre, la sentenza di ottemperanza condanna l’Agenzia anche a €3.000 di spese legali per aver costretto Delta a quest’ulteriore azione.

Analisi: questo esempio mostra l’ultima fase possibile: quando pure con una vittoria giudiziaria in mano il contribuente non vede i soldi, esiste lo strumento dell’ottemperanza (art.70 D.Lgs.546/92). Va attivato presso lo stesso organo di primo grado che ha emesso la sentenza da eseguire, una volta che la sentenza è definitiva e scaduti inutilmente 90 giorni. Il giudice dell’ottemperanza assume un ruolo quasi amministrativo: verifica se la P.A. ha ottemperato, in caso negativo adotta misure. Da notare: se la sentenza originale si era limitata ad “accertare il diritto” senza condannare espressamente al pagamento, la giurisprudenza dice che l’ottemperanza è limitata. Serve che vi sia una condanna esplicita o quantomeno un importo determinato. Nel nostro caso, trattandosi di rimborso, il giudice aveva quantificato l’importo quindi è ottemperabile. L’ottemperanza è di solito efficace: difficilmente si arriva a nominare un commissario esterno, già la minaccia smuove l’Agenzia (che non vuole perdere il controllo e preferisce pagare da sé).

Un errore che alcuni fanno è provare ad andare dal giudice civile con un decreto ingiuntivo sulla sentenza di rimborso. Non è ammesso: la giurisdizione resta tributaria, e l’unico mezzo esecutivo è l’ottemperanza.

Pertanto, chi – come Delta – ottiene ragione in giudizio, se il Fisco non paga deve insistere col giudice tributario stesso perché faccia valere la propria sentenza. Questo finalizza il percorso di tutela del contribuente creditore.


Questi esempi coprono alcune delle situazioni più comuni e dimostrano come le normative e gli strumenti descritti nella guida si applicano nella pratica, evidenziando anche l’importanza di scelte strategiche (collaborazione vs impugnazione, accettare compensazione vs rifiutare, ecc.) in base alle circostanze.

Domande frequenti (FAQ)

D: Quanto tempo ha l’Agenzia delle Entrate per rimborsare le imposte pagate in più?
R: Non esiste un termine “perentorio” univoco per l’erogazione, ma trascorsi 90 giorni dalla richiesta di rimborso senza risposta si forma il silenzio-rifiuto. In teoria l’Agenzia dovrebbe provvedere entro quei 90 giorni o poco più, ma spesso impiega tempi maggiori. In ogni caso dopo 90 giorni il contribuente può attivarsi (ricorso). Per alcuni rimborsi “automatici” (es. 730) l’obiettivo è di pagare entro pochi mesi (es. entro dicembre per i 730 presentati entro settembre). Rimborsi IVA trimestrali dovrebbero arrivare entro 3 mesi dalla richiesta, quelli annuali entro pochi mesi dall’anno successivo, ma se ci sono controlli si ritardano. Insomma, 90 giorni è il riferimento legale per poter agire, ma nella pratica molti rimborsi arrivano in 6-12 mesi.

D: Cos’è il silenzio-rifiuto?
R: È la figura del diniego tacito: quando presenti un’istanza di rimborso e l’ufficio non risponde entro un certo tempo (90 giorni), la legge fa finta che ti abbiano detto di no, così puoi andare dal giudice. Senza questo meccanismo, l’amministrazione potrebbe non rispondere mai e il contribuente resterebbe sospeso. Con il silenzio-rifiuto, trascorso il termine hai un “provvedimento negativo implicito” contro cui proporre ricorso. In sostanza è uno strumento di tutela contro l’inerzia della PA. Da notare: puoi comunque aspettare oltre 90 giorni se vuoi, il silenzio-rifiuto non ti obbliga a ricorrere subito, ti consente di farlo (fino a 10 anni). Se poi l’Agenzia risponde tardivamente, occorrerà impugnare l’atto esplicito invece del silenzio.

D: Ho chiesto un rimborso e dopo 4 mesi non ho ricevuto nulla: cosa mi conviene fare come primo passo?
R: Verifica la situazione: controlla sul tuo cassetto fiscale se il rimborso risulta “in elaborazione”, “in pagamento” o altro. Verifica di aver comunicato correttamente l’IBAN e se eventualmente il rimborso è stato compensato con debiti (troveresti una voce). Se non emergono info chiare, contatta l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate: a volte sanno dirti se è in corso un controllo o se mancano documenti. Quindi invia un sollecito scritto (PEC/raccomandata) citando la tua istanza e chiedendo riscontro. Questo spesso smuove le acque. Se hai urgenza di soldi, potresti valutare la revoca della richiesta per usare il credito in compensazione (se ancora in tempo a fare integrativa). Solo se tutto ciò non dà risultati entro qualche settimana/mese, procedi con ricorso (considera i costi/benefici di un’azione legale in base all’importo in ballo).

D: Posso utilizzare in compensazione (modello F24) un credito che avevo chiesto a rimborso, per non aspettare i tempi lunghi?
R: Sì, ma con condizioni. Se ti sei ricreduto e preferisci compensare, devi modificare la dichiarazione con una dichiarazione integrativa presentata entro il termine del periodo d’imposta successivo (in genere entro l’anno dopo). Ad esempio, se a luglio hai chiesto rimborso nel 730, potresti annullarlo in una dichiarazione Redditi integrativa trasformandolo in eccedenza a credito da usare in compensazione, entro novembre. L’Agenzia consente questa “rinuncia al rimborso” in tempi utili. Se il termine è passato, ufficialmente non potresti, a meno di forzature come usare comunque il credito in F24: ma attenzione, se per l’Agenzia quel credito risulta in attesa di rimborso, una tua compensazione autonoma potrebbe essere bloccata o sanzionata. Quindi segui la procedura corretta (integrativa) o, se scaduta, valuta di concertare la cosa con l’ufficio (magari annullano il rimborso su tua istanza e ti permettono di compensare). Cassazione ha confermato che senza integrativa non puoi cambiare l’utilizzo di un credito IVA già chiesto a rimborso.

D: L’Agenzia delle Entrate mi ha negato un rimborso con un provvedimento scritto. Se voglio contestarlo, entro quanto devo farlo?
R: Devi presentare ricorso entro 60 giorni dalla notifica/comunicazione del diniego. Il ricorso andrà fatto alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione) competente. Attenzione a rispettare i 60 giorni: se li sfori, il diniego diventa definitivo e perdi il diritto al rimborso. Se ad esempio ricevi una lettera di diniego datata 1° marzo, hai tempo fino circa ai primi di maggio (salvo sospensioni di mezzo). Nel ricorso argomenterai perché il diniego è sbagliato e tu hai diritto al rimborso. Nota: se l’Agenzia ti ha negato solo in parte (es. chiesto 100, rimborsato 60, negato 40), dovresti impugnare per la parte negata entro 60 gg ugualmente, altrimenti quella parte andrà persa.

D: Sono trascorsi più di 60 giorni da un diniego di rimborso e non ho fatto ricorso. Posso ancora fare qualcosa?
R: Purtroppo, se il diniego è stato regolarmente notificato e sono passati oltre 60 giorni, non puoi più impugnarlo in via ordinaria (termine decaduto). Non puoi nemmeno ripiegare sul silenzio-rifiuto: la Cassazione ha chiarito che quando c’è un diniego espresso, non puoi ignorarlo e appellarti al silenzio successivamente. L’unica cosa sarebbe tentare un’autotutela (chiedere all’ufficio di rivedere la decisione), ma l’Agenzia non è obbligata a farlo e spesso non lo fa salvo errore evidente. Se ci sono motivi forti (tipo scopri documenti nuovi che provano il tuo diritto), puoi presentare un’istanza di autotutela sperando che l’ufficio riveda il diniego. In mancanza, purtroppo il rimborso è perso. In futuro, conviene sempre tenere d’occhio le notifiche di atti e agire entro i termini.

D: Che prove devo portare in giudizio per vincere un ricorso sul rimborso?
R: Devi provare l’esistenza del credito e il fondamento giuridico del tuo diritto. In concreto: documenti che mostrino il pagamento che hai eseguito (ricevute F24, quietanze), documenti che mostrino perché non era dovuto (es. legge, sentenza, calcoli da dichiarazione, ecc.), e la prova di aver presentato l’istanza di rimborso nei termini (protocollo o ricevuta). Se ad esempio richiedi IRPEF per detrazioni, porta ricevute delle spese detraibili; se è un rimborso da doppio versamento, porta entrambe le quietanze; se è un tributo non dovuto per legge, allega la norma o sentenza che lo sancisce. Insomma, devi dare al giudice tutti gli elementi per capire che: (a) hai effettivamente versato quei soldi; (b) secondo la legge, non li dovevi o li hai versati in più; (c) hai chiesto indietro in tempo; (d) l’amministrazione non te li ha dati. A quel punto, se non ci sono contrarie ragioni, il giudice riconoscerà il rimborso. Ricorda che è onere tuo fornire le prove, non basta affermare “ho pagato troppo” senza riscontri.

D: Ho un credito ma anche cartelle esattoriali non pagate: mi daranno il rimborso?
R: Con ogni probabilità, no (non in denaro). Se il rimborso supera €500, scatta la procedura di verifica dei debiti. Se hai debiti a ruolo scaduti, l’Agenzia Entrate-Riscossione ti proporrà di compensarli col tuo credito. Se accetti, il tuo rimborso verrà usato per pagare le cartelle (e ti daranno solo l’eventuale eccedenza). Se rifiuti, il rimborso resterà bloccato e l’AdER potrà pignorarlo per saldare comunque le cartelle l’anno seguente. Quindi, di fatto, se sei debitore verso il Fisco per importi rilevanti, non aspettarti di ricevere materialmente i soldi del rimborso: verranno trattenuti a copertura dei tuoi debiti. L’unico caso in cui ti pagano comunque è se il rimborso è piccolo (<= €500), oppure se i debiti sono non esigibili (ad es. in quanto sospesi o rateizzati regolarmente). Ad esempio, se hai un debito già in rateazione e stai pagando puntuale, non dovresti essere considerato inadempiente e il rimborso dovrebbe arrivarti (ma vigila, potresti doverlo segnalare). In sintesi, la regola è: debiti fiscali pendenti bloccano i rimborsi.

D: Ho vinto il ricorso e la sentenza dice che ho diritto al rimborso, ma non vedo ancora i soldi: che fare?
R: Quando ottieni una sentenza definitiva a tuo favore, l’Agenzia delle Entrate normalmente ha 90 giorni per eseguirla (ottemperanza spontanea). Se non lo fa, devi attivare il giudizio di ottemperanza (art.70 D.Lgs.546/92). Presenti un’istanza alla Commissione/Corte che ha emesso la sentenza (primo grado se la sentenza è passata in giudicato lì, oppure secondo grado se la vittoria è in appello non appellato, ecc.) chiedendo che sia ordinato all’ufficio di pagare. Il giudice fisserà un termine all’amministrazione e, se ancora inadempiente, nominerà un commissario ad acta che effettuerà il pagamento al posto suo. Questo è l’unico modo per forzare l’adempimento. Non puoi, ad esempio, fare un pignoramento presso terzi allo Stato perché serve una pronuncia di ottemperanza. Fortunatamente, spesso la sola presentazione del ricorso di ottemperanza stimola l’ufficio a pagare, per evitare la nomina del commissario. Nota bene: la sentenza deve quantificare ciò che ti è dovuto o essere comunque sufficientemente chiara; se era solo dichiarativa potrebbe sorgere dibattito, ma in materia di rimborsi di solito c’è un importo o criterio definito, quindi non ci sono problemi. Quindi, se la PA non paga, ricorso per ottemperanza – è in effetti un secondo round di ricorso, ma stavolta per far eseguire ciò che hai già vinto. Le spese di questa procedura di solito ricadono sulla PA inadempiente.

D: L’Agenzia può rifiutare un rimborso motivando che è passato troppo tempo?
R: Sì, se tu hai presentato l’istanza oltre i termini di decadenza. Ad esempio, la legge ti dava 48 mesi per chiedere e tu l’hai fatto dopo 5 anni: l’ufficio opporrà la decadenza (e avrebbe ragione). Oppure se chiedi un rimborso su un versamento del 2010 presentando istanza nel 2020, sono passati 10 anni quindi il diritto potrebbe essere prescritto (anche se decadenza e prescrizione in ambito tributario a volte decorrono diversamente). Quindi conviene sempre rispettare i termini (48 mesi per imposte sui redditi, 2-3 anni per altri tributi, etc.). Se invece tu hai chiesto nei termini ma è l’ufficio che ritarda a rispondere, non possono rifiutare per “decorrenza del termine di rimborso” perché tu hai fatto il tuo dovere. La prescrizione decennale però indica quanto tempo hai per far causa: se lasci passare 12 anni dopo la tua domanda senza fare nulla, il diritto potrebbe prescriversi e a quel punto non potresti più agire. L’Agenzia potrebbe eccepire in giudizio la prescrizione se tu facessi ricorso troppo tardi (oltre 10 anni). Quindi occhio: decadenza per presentare domanda (fissa, non rimediabile), e prescrizione per ricorrere (10 anni dal formarsi del silenzio).

D: Se la mia istanza di rimborso viene respinta, devo prima pagare e poi ricorrere? (serve il “solve et repete”?)
R: No, nel caso di rimborsi non c’è nulla da pagare – hai già pagato semmai. Il principio solve et repete (“paga e poi litiga”) storicamente valeva per imposte accertate, non per rimborsi. In questa situazione, tu hai un credito e ne chiedi la restituzione, quindi non devi anticipare nulla ulteriormente. Semplicemente, se ti negano il rimborso, ricorri per ottenerlo senza dover “versare” qualcosa (diverso sarebbe se stessi compensando un credito contestato su cartelle: lì se perdi devi pagare il debito). Ma nel processo tributario attuale non esiste più l’obbligo di versare prima di ricorrere, salvo che per accedere a definizioni agevolate.

D: Il giudice mi ha riconosciuto il rimborso, ma l’Agenzia dice che non ha fondi nel bilancio per pagare quest’anno. Può farlo?
R: No, non è una giustificazione valida legalmente. La Corte di Cassazione ha chiarito che i limiti di spesa o la mancanza di fondi non possono ritardare un rimborso dovuto e riconosciuto. In sede di ottemperanza, il giudice può ordinare il pagamento anche se il capitolo di bilancio è esaurito, eventualmente attingendo ad altri fondi o coinvolgendo organi superiori. Lo Statuto del Contribuente prevede il diritto al rimborso e non ammette eccezioni di cassa. Quindi, se vi sentite dire “non ci sono soldi, aspetti il prossimo esercizio”, sappiate che avete comunque diritto agli interessi nel frattempo e potete forzare l’adempimento. Spetta al Ministero trovare la copertura finanziaria, non al contribuente aspettare. In pratica, certe volte grossi rimborsi slittano per motivi di bilancio dello Stato, ma formalmente se fai pressione (con ottemperanza) devono pagarti indipendentemente da ciò.

D: In caso di vittoria in causa, avrò anche il rimborso delle spese legali?
R: Di regola, sì, il giudice tributario se ti dà ragione condanna l’amministrazione a pagarti le spese di lite (onorario del difensore, contributo unificato, ecc.). L’importo viene stabilito secondo parametri e discrezione del giudice. Può capitare in questioni nuove o in caso di soccombenza reciproca che il giudice compensi le spese (ognuno paga le proprie). Ma se tu vinci chiaramente e avevi dovuto fare causa per avere il rimborso, normalmente le spese ti saranno riconosciute e dovranno esserti pagate dall’Agenzia (di solito aggiungendole al rimborso o con mandato separato). Questo è un ulteriore motivo per cui l’Agenzia a volte preferisce pagare prima, per evitare spese. Attenzione: se la differenza vinta è minima (ad es. chiedi 10.000, il giudice ti riconosce 500 in più rispetto a quanto già dato dall’AdE), può considerare la vittoria parziale e compensare o attribuire spese ridotte.

D: In quali casi l’Agenzia delle Entrate non è tenuta a rimborsare anche se ho versato?
R: Oltre ai casi di decadenza già detti, ci sono situazioni particolari. Ad esempio, se il pagamento è avvenuto in esecuzione di un accertamento definitivo non impugnato, quel pagamento non è ripetibile (a meno di cause di annullamento straordinario). Oppure, se hai rinunciato espressamente al rimborso (magari in un accordo transattivo), poi non puoi richiederlo. Un altro caso: imposte versate in adempimento di un’interpretazione poi cambiata ma per cui il legislatore non ha previsto rimborsi. Ad esempio, se pagavi un tributo seguendo circolari e poi la legge cambia idea ma non retroattivamente, non hai rimborso per gli anni passati. Ci sono poi i casi di “errore del contribuente”: se il versamento in più è frutto di una tua scelta irretrattabile (tipo opti per un regime e paghi, poi cambi idea fuori tempo), non è rimborso dovuto. In linea generale, però, se c’è un indebito oggettivo, salvo norme speciali contrarie, il rimborso spetta. Lo Statuto del Contribuente dice che il rimborso va fatto quando è accertato che il contribuente non doveva pagare, quindi è un principio ampio.

D: Ho scoperto dopo la dichiarazione di avere diritto a una deduzione che mi avrebbe dato un rimborso, posso correggere?
R: Puoi presentare una dichiarazione integrativa a favore entro il termine di decadenza dell’istanza di rimborso (48 mesi). Dal 2016 la normativa consente di correggere dichiarazioni anche a favore oltre l’anno successivo, purché entro 5 anni (poi portato a 4 anni come l’istanza). L’integrativa vale come istanza di rimborso (quadro RX). Se scopri dopo 4 anni, purtroppo sei decaduto. Ad esempio, redditi 2018 presentata nel 2019: potevi integrarla fino al 2023. Se nel 2025 scopri un errore sul 2018, ormai non puoi ottenere il rimborso in via ordinaria. In rari casi, come errori “di fatto” riconosciuti dall’ufficio, si può sperare in un’autotutela ultra termini, ma è un terno al lotto.

D: Ci sono differenze tra contribuente privato e impresa nelle procedure di rimborso?
R: Le procedure di base (istanza, silenzio, ricorso) sono le stesse. Cambiano i modelli e alcuni termini: ad esempio, un privato di solito chiede il rimborso IRPEF tramite 730 o istanza generica; un’impresa utilizza dichiarazioni IVA, Redditi SC, ecc. Le imprese hanno più spesso crediti IVA di routine e usano molto la compensazione per recuperare crediti, mentre il privato punta al rimborso cash perché non ha tanti tributi su F24 da compensare. Inoltre, per importi elevati, le imprese devono apporre visti di conformità e garanzie (specialmente per IVA) – un privato raramente ha tali incombenze perché i suoi rimborsi sono di solito minori. Infine, storicamente c’era la mediazione per liti fino a 50k che coinvolgeva sia privati che imprese (ora abolita). Ma nel contenzioso non c’è differenza di trattamento: sia il privato che la società devono provare il loro diritto e seguire i medesimi passi.


In conclusione, dal punto di vista del contribuente-creditore (sia esso un privato o un’azienda), la chiave è conoscere i propri diritti (tempestività del rimborso, maturazione di interessi, facoltà di compensazione) e i propri doveri procedurali (presentare l’istanza entro i termini, eventualmente ricorrere nei termini). Armato di queste informazioni e degli strumenti giuridici disponibili, il contribuente può affrontare in maniera efficace l’eventuale inerzia o opposizione dell’Agenzia delle Entrate, assicurandosi di non rinunciare a ciò che gli spetta.

Conclusioni

Ottenere un rimborso fiscale a cui si ha diritto può rivelarsi un percorso ad ostacoli, ma il nostro ordinamento fornisce una serie di garanzie e strumenti di tutela che, se ben utilizzati, permettono al contribuente di far valere le proprie ragioni. In questa guida abbiamo esaminato, con un livello di approfondimento avanzato ma con approccio pratico, cosa fare se l’Agenzia delle Entrate non rimborsa spontaneamente.

Al di là dei dettagli tecnici, alcuni principi generali emergono chiaramente:

  • Proattività: Il contribuente creditore deve essere attivo nel seguire la propria pratica di rimborso. Ciò significa monitorare lo stato dell’istanza, sollecitare l’amministrazione quando necessario, fornire eventuale documentazione integrativa prontamente e, in caso di inerzia prolungata, non esitare ad utilizzare i rimedi predisposti (dal Garante fino al ricorso tributario). Restare passivi può portare a perdere diritti per decadenza o prescrizione.
  • Rispetto di termini e forme: La tempestività è fondamentale. Presentare la richiesta di rimborso entro i termini di legge (spesso 48 mesi) è la condizione primaria per poter poi rivendicare il credito. Ugualmente, se si riceve un diniego, occorre reagire entro 60 giorni. Le forme (istanza ben motivata, ricorso ben articolato) non sono meri formalismi: un’istanza chiara e completa può evitare un contenzioso; un ricorso ben supportato da prove può vincere la causa.
  • Conoscenza dei propri debiti e crediti: Dal “punto di vista del debitore” – ossia del contribuente che da un lato deve avere e dall’altro deve dare al Fisco – è essenziale avere una visione integrata della propria posizione. L’amministrazione ormai la considera in modo unificato: non esistono più compartimenti stagni tra dare e avere. Pertanto, sapere di avere debiti e gestirli (mediante pagamento, rateazione, contestazione se illegittimi) è parte integrante della strategia per incassare eventuali crediti. Il nuovo meccanismo di compensazione forzata rende questa consapevolezza imprescindibile.
  • Documentazione e prova: In ambito tributario, soprattutto nei rimborsi, chi afferma un credito deve dimostrarlo. Ciò si traduce in preparare accuratamente il dossier: versamenti effettuati, basi legali del rimborso, calcoli, norme, giurisprudenza pertinente. Presentarsi davanti al giudice (o anche solo all’ufficio in fase di contraddittorio) con le carte in regola e ben ordinate aumenta considerevolmente le chance di successo.
  • Perseveranza ma anche pragmatismo: Bisogna saper insistere sui propri diritti, ma anche valutare soluzioni conciliative quando convengono. Se l’importo è modesto, forse è più efficiente insistere amichevolmente che ingaggiare una causa lunga; se emergono contestazioni circoscritte (come nell’esempio 2 del rimborso IVA), talvolta cedere su un punto può velocizzare la riscossione del grosso. L’obiettivo del contribuente deve essere sostanziale: recuperare ciò che gli spetta nel minor tempo possibile, anche adattando la strategia in corso d’opera (ad esempio revocando una richiesta di rimborso per compensare, se i tempi si allungano e se ciò è fattibile). Allo stesso modo, se la normativa cambia in corso (si pensi all’abolizione della mediazione dal 2023), adeguarsi subito al nuovo contesto procedurale.

In ultima analisi, il sistema tributario italiano – pur con le sue complessità – mette a disposizione del contribuente vari livelli di tutela: amministrativa, giurisdizionale di merito (Commissioni Tributarie) e giurisdizionale di esecuzione (giudizio di ottemperanza). È fondamentale sfruttarli in modo coordinato. Un contribuente informato dei propri diritti saprà prima prevenire i problemi (presentando correttamente le istanze e conoscendo i limiti, come quello decennale) e poi, se necessario, risolverli con gli strumenti idonei (dal sollecito al ricorso in Commissione, fino all’ottemperanza per far rispettare una sentenza).

Ricordiamo che dietro ogni pratica fiscale c’è comunque un rapporto tra persone: mantenere un dialogo corretto con gli uffici (anche duro se serve, ma factual e documentato) spesso aiuta a risolvere più di quanto non faccia l’ostilità preconcetta. Molti funzionari riconoscono un rimborso dovuto se vedono che il contribuente ha ragione ben documentata e che, in caso di giudizio, l’amministrazione perderebbe (magari con spese).

In conclusione, se l’Agenzia delle Entrate non rimborsa, il contribuente ha diversi passi da compiere: inizialmente chiedere spiegazioni e sollecitare, poi eventualmente contestare formalmente con gli strumenti del processo tributario. Armato di pazienza, precisione e, se necessario, di un bravo consulente legale/fiscale, il contribuente potrà far valere il proprio diritto ed ottenere ciò che gli spetta di rimando dal Fisco – fosse anche necessario arrivare fino alla Cassazione e oltre.

L’auspicio è che, nel futuro, i rimborsi legittimi vengano erogati in modo più celere e automatizzato, riducendo la necessità di queste battaglie. Nel frattempo, questa guida fornisce le conoscenze per affrontarle e vincerle, riportando il giusto equilibrio nel rapporto Fisco-contribuente: se è giusto pagare le tasse dovute, è altrettanto giusto che il Fisco restituisca prontamente quelle non dovute.

Fonti

  • Agenzia delle Entrate – “Richiesta di rimborso generico – Rimborsi su istanza” (sito ufficiale). Descrive le modalità di richiesta e indica che trascorsi 90 giorni senza risposta si configura il silenzio-rifiuto impugnabile.
  • DPR 29/09/1973 n.602, art.38. “Rimborso di versamenti diretti”. Termina di decadenza quadriennale per chiedere il rimborso di imposte sui redditi indebitamente versate.
  • DPR 29/09/1973 n.602, art.44. “Interessi per ritardato rimborso”. Prevede interesse dell’1,375% semestrale (2,75% annuo) dal secondo semestre successivo al versamento eccedente. Cassazione 11189/2022 ha confermato che gli interessi decorrono dalla data del versamento, maturando ogni semestre.
  • Statuto del Contribuente (L.212/2000), art.8. Tutela dell’integrità patrimoniale. Stabilisce che il rimborso va effettuato quando è accertato che l’imposta non era dovuta o era eccedente.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. ordinanza n.27845 del 3/10/2023. Ha ribadito che nei giudizi di rimborso l’onere della prova grava sul contribuente, conforme all’art.7 co.5-bis D.Lgs.546/92 introdotto nel 2022.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. ordinanza n.20837 del 18/07/2023. Ha sancito che se l’Amministrazione emette un diniego espresso oltre i 90 gg, un ricorso avverso il silenzio proposto dopo tale atto è inammissibile per carenza di interesse.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. sentenza n.31236 del 30/12/2020. Ha affermato che l’omessa impugnazione di una cartella preclude la possibilità di chiedere in seguito il rimborso del credito collegato a quella pretesa, non potendo il contribuente eludere i termini di impugnazione dell’atto impositivo definitivo.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. sentenza n.10603 del 23/04/2025 (massimata da Redazione Fiscale). Principio: un’istanza di rimborso priva di elementi essenziali (vaga) non produce un silenzio-rifiuto impugnabile; il ricorso contro il silenzio su domanda generica è inammissibile.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. sentenza n.1946 del 21/01/2022. In tema di IVA, ha chiarito che il contribuente può revocare la richiesta di rimborso optando per la compensazione solo presentando dichiarazione integrativa nei termini.
  • Ministero Economia – tassi di interesse legale e di mora (varie fonti). Dal 01/01/2023 il tasso sui rimborsi IVA era 1% annuo. Interessi legali civili 2023 al 5% (poi 2024 al 5%).
  • D.Lgs. 29/07/2024 n.110 (riordino riscossione) – art.1 ha inserito art.28-ter DPR 602/73. Procedura di compensazione rimborsi >€500 con debiti a ruolo. Soglia ridotta da 1.500 a 500 euro; proposta di compensazione e, in caso di rifiuto, blocco del rimborso sino a esecuzione forzata.
  • Agenzia delle Entrate-Riscossione – informative su compensazione rimborsi. Es. verifica ex art.48-bis DPR 602/73 per importi > €5.000, abbassata a €5.000 con L. 205/2017 e ulteriormente modificata da L.197/2022 (soglia 100.000 per divieto compensazione in F24).
  • Giurisprudenza di merito su ottemperanza: Cass. 27710/2022 ha confermato poteri del giudice dell’ottemperanza di disporre il pagamento anche contro limiti di bilancio. Art.70 D.Lgs.546/92 consente ricorso in ottemperanza dopo 90 gg per ottenere esecuzione del rimborso. Hub Tributario 2021: l’ottemperanza è ammessa solo se la sentenza da eseguire contiene condanna o importo certo, non se si è limitata ad accertare il diritto (difetto eseguibilità).
  • Circolare Agenzia Entrate 35/E del 27/10/2015 e Risoluzione 99/E 2014 – confermano la possibilità di revocare (in tutto o in parte) un rimborso richiesto tramite dichiarazione integrativa, per chiedere invece compensazione.
  • Artt.19-21 D.Lgs. 546/1992 (disciplina del processo tributario). Art.19 include i dinieghi di rimborso tra gli atti impugnabili. Art.21 comma 2 (come modificato) prevede ricorso proponibile dopo 90 gg e entro prescrizione decennale per silenzio-rifiuto.
  • L.130/2022 (riforma giustizia tributaria). Ha introdotto l’art.7 c.5-bis D.Lgs.546/92 sul riparto dell’onere della prova nei rimborsi (a carico contribuente). Ha abolito il reclamo-mediazione obbligatorio dal 2023. Ha introdotto altri istituti (testimonianza scritta, conciliazione rafforzata).

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