Come Regolarizzare Le Mie Partecipazioni Societarie Estere

Hai partecipazioni in una società estera che non hai mai indicato nella tua dichiarazione dei redditi? Ti stai chiedendo se puoi regolarizzare e come evitare sanzioni, accertamenti o problemi futuri con il Fisco?

Le partecipazioni estere – anche se non producono redditi – devono essere dichiarate nel quadro RW della dichiarazione dei redditi. Non farlo può comportare sanzioni gravi, ma è ancora possibile sistemare la tua posizione in modo spontaneo e vantaggioso, se agisci prima di un controllo.

Quando devi dichiarare una partecipazione societaria estera?
– Se sei fiscalmente residente in Italia e detieni quote in società straniere, anche inattive
– Se sei titolare effettivo, anche se la partecipazione è intestata a terzi
– Se controlli una società tramite fideiussioni, trust, intestazioni fiduciaria o accordi informali
– Se la partecipazione ha valore o ha generato redditi (dividendi, plusvalenze, rivalutazioni)

Cosa rischi se non l’hai mai dichiarata?
Sanzioni dal 3% al 15% annuo sul valore della partecipazione
– Sanzioni raddoppiate se la società estera ha sede in un Paese non collaborativo
Accertamenti su redditi esteri non dichiarati, anche in assenza di dividendi
– Presunzioni legali di evasione o occultamento di patrimonio all’estero
Possibili rilievi penali, se l’omissione è rilevante e reiterata

Come puoi regolarizzare spontaneamente la tua posizione?
– Presentando una dichiarazione integrativa per ogni anno omesso
– Indicando correttamente la partecipazione nel quadro RW
– Calcolando l’IVAFE dovuta, se applicabile
– Versando le sanzioni ridotte tramite ravvedimento operoso
– Documentando la provenienza e il valore delle quote
– In caso di complessità o annualità multiple, è raccomandato l’intervento di un legale esperto

Cosa ottieni regolarizzando in tempo?
Sanzioni drasticamente ridotte, anche fino a 1/9 del minimo
Nessuna responsabilità penale, se l’omissione viene sanata prima di un accertamento
Protezione del tuo patrimonio estero e regolarizzazione definitiva della tua posizione
Piena compliance fiscale, utile anche per eventuali passaggi generazionali, cessioni o residenze estere

Le partecipazioni estere non dichiarate sono oggi facilmente rilevabili dal Fisco, grazie allo scambio automatico di informazioni bancarie internazionali (CRS). Agire prima dell’avvio di un controllo è fondamentale per limitare i danni.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e difesa da accertamenti esteri ti spiega come dichiarare correttamente una partecipazione estera, quando puoi ravvederti e come evitare rischi fiscali futuri.

Hai partecipazioni estere da regolarizzare? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Verificheremo la tua posizione e ti diremo come sanare tutto in sicurezza e senza sorprese.

Introduzione

Negli ultimi anni, la cooperazione internazionale in materia fiscale è notevolmente aumentata: lo scambio automatico di informazioni finanziarie tra Stati (sistema CRS dell’OCSE, accordi FATCA con gli USA, ecc.) consente oggi all’Agenzia delle Entrate di venire a conoscenza di conti esteri, investimenti e partecipazioni detenute da residenti italiani. Parallelamente, le normative interne si sono fatte più stringenti e le sanzioni per chi omette di dichiarare beni esteri sono molto severe. In questo contesto, regolarizzare le partecipazioni societarie detenute all’estero – volontariamente, prima di subire contestazioni – è fondamentale per evitare pesanti conseguenze economiche e, talvolta, penali.

Scopo di questa guida: offrire, dal punto di vista del contribuente (debitore), un quadro avanzato e aggiornato a luglio 2025 su come sanare la mancata dichiarazione di partecipazioni estere secondo la normativa tributaria italiana. Il taglio è tecnico-giuridico (adatto a professionisti legali e fiscali, imprenditori e privati informati), ma con un linguaggio il più possibile chiaro e divulgativo. Verranno analizzati i riferimenti normativi, gli obblighi dichiarativi (monitoraggio fiscale nel Quadro RW e dichiarazione dei redditi esteri), le sanzioni previste in caso di omissione, gli strumenti pratici di regolarizzazione (come il ravvedimento operoso) e le eventuali tutele. La trattazione include sentenze recentissime della Corte di Cassazione e documenti ufficiali, con tabelle riepilogative, esempi e una sezione finale di domande e risposte per chiarire i dubbi più frequenti. L’obiettivo è guidare l’utente – sia esso un avvocato che assiste un cliente, un imprenditore o un privato cittadino – a comprendere come regolarizzare le proprie partecipazioni societarie estere evitando il peggio.


Principio di tassazione mondiale e obblighi sui redditi esteri

L’ordinamento tributario italiano si fonda sul principio della tassazione mondiale (worldwide taxation). Ciò significa che i soggetti fiscalmente residenti in Italia (persone fisiche residenti, società ed enti residenti) sono tenuti a dichiarare tutti i redditi, ovunque prodotti nel mondo, nella propria dichiarazione annuale. Questo principio è sancito dall’art. 3 del TUIR (D.P.R. 917/1986) e comporta che, ad esempio, vanno dichiarati in Italia gli utili o dividendi percepiti da una società estera, le plusvalenze realizzate mediante cessione di partecipazioni estere, o altri redditi derivanti da attività estere.

Tale obbligo generale è temperato dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, che prevedono meccanismi di credito d’imposta estero. In base all’art. 165 TUIR, un reddito estero già tassato a titolo definitivo all’estero può evitare la doppia tassazione in Italia tramite detrazione dell’imposta estera, fino a concorrenza dell’imposta italiana sul medesimo reddito. Ad esempio, se una società estera distribuisce dividendi a un residente italiano e subisce una ritenuta estera, il contribuente dovrà comunque dichiarare il dividendo in Italia, ma potrà scomputare la ritenuta estera nei limiti previsti. La giurisprudenza più recente si è mostrata favorévole al contribuente su questo fronte: la Corte di Cassazione ha affermato che il diritto al credito per imposte estere non decade automaticamente se non esercitato nell’anno di produzione del reddito. In particolare, Cass. n. 10642/2025 ha stabilito che la mancata indicazione di un’imposta pagata all’estero nella dichiarazione originaria non fa perdere il diritto al credito, purché il contribuente lo richieda entro il normale termine di prescrizione di 10 anni. Ciò significa che, anche in sede di regolarizzazione, un soggetto che abbia pagato tasse all’estero potrà far valere il relativo credito d’imposta in Italia (evitando doppia tassazione), purché agisca entro i termini e documenti il pagamento estero.

In sintesi, un residente italiano che detiene partecipazioni in società estere deve: (a) dichiarare in Italia gli eventuali redditi derivanti da tali partecipazioni (dividendi, plusvalori, ecc.), salvo spettanza di crediti d’imposta o esenzioni da convenzioni, e (b) adempiere agli obblighi di monitoraggio fiscale, dichiarando al Fisco l’esistenza stessa di quelle attività estere, a prescindere dalla percezione di redditi (come si vedrà nel dettaglio nel prossimo paragrafo). Omettere questi obblighi espone a sanzioni significative e, in taluni casi, può configurare evasione fiscale o elusione. Prima di analizzare le sanzioni e i rimedi, esaminiamo dunque quali sono gli obblighi dichiarativi per le partecipazioni estere.

Monitoraggio fiscale: Quadro RW e dichiarazione delle attività estere

Oltre alla dichiarazione annuale dei redditi, il legislatore impone ai contribuenti fiscalmente residenti in Italia un ulteriore obbligo verso i patrimoni detenuti all’estero: il cosiddetto monitoraggio fiscale. Tale obbligo si realizza tramite la compilazione dell’apposito Quadro RW nella dichiarazione (Modello Redditi PF, oppure Quadro W nel 730). Il Quadro RW è previsto dal D.L. 167/1990 (come modificato e confluito nell’art. 4, comma 1, D.L. 167/90) e ha lo scopo di segnalare al fisco italiano gli investimenti e le attività finanziarie che il contribuente detiene fuori dai confini nazionali. In altri termini, mentre la dichiarazione dei redditi serve a tassare i flussi di reddito, il Quadro RW serve a “monitorare” la ** consistenza** dei patrimoni esteri (anche se non produttivi di reddito immediato).

Attività estere da indicare: l’obbligo RW è molto ampio. Devono essere dichiarati, ad esempio, i conti correnti e depositi bancari esteri, le partecipazioni in società estere, gli immobili situati all’estero, le polizze assicurative estere, i metalli preziosi detenuti all’estero, le criptovalute detenute su piattaforme estere, e in generale qualsiasi attività finanziaria o patrimoniale oltreconfine. Inoltre, vanno monitorati in RW anche i trasferimenti da e verso l’estero di denaro o investimenti, se effettuati senza l’intervento di intermediari finanziari residenti (ad esempio bonifici transfrontalieri diretti). Questo per consentire all’Amministrazione finanziaria di tracciare i movimenti di capitale da e verso l’estero e individuarne la provenienza o destinazione.

Soggetti obbligati: devono compilare il Quadro RW tutte le persone fisiche residenti in Italia, nonché gli enti non commerciali residenti (es. associazioni, trust o fondazioni residenti) e le società semplici ed equiparate residenti. Non devono invece presentare il RW le società di capitali ed enti commerciali residenti (Spa, Srl, cooperative, etc.), poiché per questi soggetti si presume che eventuali attività estere risultino dalle scritture di bilancio e dalle dichiarazioni dei redditi (il monitoraggio è stato concepito per i soggetti “privati” non tenuti a bilancio). Sono esonerati anche i soggetti non residenti (che non sono tassati in Italia) e alcune categorie particolari espressamente escluse dalla legge o da prassi (ad es. diplomatici italiani all’estero in determinate condizioni, lavoratori frontalieri per i beni detenuti nel Paese di lavoro, ecc., come previsto dall’art. 4 D.L. 167/90 e circolari interpretative).

Detenzione indiretta – titolare effettivo: è fondamentale evidenziare che l’obbligo di monitoraggio si estende anche alle attività estere detenute indirettamente tramite soggetti interposti. In pratica, se un individuo residente controlla di fatto un’entità estera (società, trust, fondazione) che a sua volta detiene beni all’estero, il soggetto residente viene considerato titolare effettivo di quegli investimenti e deve indicarli nel proprio Quadro RW. Ad esempio, se un contribuente italiano ha costituito una società offshore o un trust all’estero e tramite essi possiede conti o partecipazioni, non potrà aggirare il monitoraggio: dovrà dichiarare in RW sia la partecipazione nella società estera/trust, sia – in caso di interposizione fittizia – i beni sottostanti. La giurisprudenza tributaria ha più volte confermato questo principio di sostanza economica: conta la realtà effettiva del possesso. La Cassazione ha ribadito che, ai fini del monitoraggio, non ci si può nascondere dietro un’entità di comodo: se il contribuente controlla sostanzialmente un bene estero attraverso un soggetto interposto, quell’entità viene “trasparente” e l’obbligo dichiarativo ricade sul contribuente stesso. (Si veda infra il paragrafo su trust e titolare effettivo per i dettagli di recente giurisprudenza).

Soglie di esenzione: la regola generale è che qualsiasi importo investito all’estero vada indicato, ma esistono alcune soglie di esonero per semplificare i casi di minima entità. In particolare, per i conti correnti e depositi bancari esteri, le istruzioni ministeriali prevedono che se il valore massimo complessivo dei depositi non supera 15.000 € nel corso dell’anno, il conto è esonerato dall’indicazione in RW. Attenzione: il limite va riferito alla giacenza massima raggiunta anche solo in un giorno dell’anno; ad esempio, un conto che mediamente ha saldo basso ma che per una settimana ha avuto 20.000 € supererà la soglia e andrà dichiarato. Al di sotto, può essere omesso dal monitoraggio (restando ovviamente imponibili gli eventuali interessi attivi). Nessuna soglia di esenzione è invece prevista per altre attività finanziarie (come partecipazioni, investimenti, immobili): anche se di modesto valore, vanno dichiarate in RW se detenute fuori Italia, fatta salva qualche residuale esenzione prevista da norme speciali.

Valorizzazione delle partecipazioni: nel Quadro RW occorre indicare il valore delle attività estere. Per le partecipazioni in società non quotate, generalmente si utilizza il costo di acquisto o il patrimonio netto proporzionale, a seconda delle istruzioni e della disponibilità dei dati (in alternativa, può essere usato il valore nominale della quota). Se la partecipazione è in una società quotata in mercati regolamentati, va indicato il valore di mercato (ad esempio il valore di borsa al 31 dicembre dell’anno). Queste regole di valorizzazione sono importanti sia ai fini del monitoraggio sia per il calcolo di eventuali imposte patrimoniali dovute.

IVAFE e imposte patrimoniali: infatti, tramite il Quadro RW si determina anche l’eventuale IVAFE (Imposta sul valore delle attività finanziarie estere) dovuta annualmente dallo stesso contribuente. Fortunatamente, il possesso di partecipazioni societarie estere non comporta di per sé il pagamento dell’IVAFE, in quanto tale imposta si applica principalmente a conti correnti, libretti e prodotti finanziari esteri (0,2% annuo o €34,20 fissi per depositi) e ad altre attività finanziarie, ma non colpisce le quote di capitale di società estere detenute dal contribuente. Diverso è il caso di immobili esteri, per i quali è dovuta l’IVIE (Imposta sul valore degli immobili esteri, pari allo 0,76% annuo sul valore catastale o di mercato, analogamente all’IMU). In pratica, chi detiene solo partecipazioni azionarie estere non paga alcuna patrimoniale annuale su di esse (mentre chi ha un conto estero paga l’IVAFE, chi ha una casa all’estero paga l’IVIE), ma è comunque obbligato al monitoraggio RW.

Riassumendo gli obblighi dichiarativi: un residente italiano titolare di una partecipazione estera deve: (1) indicare la partecipazione nel Quadro RW ogni anno, riportandone la quota di possesso e il valore, salvo esoneri non applicabili al caso; (2) dichiarare nel quadro Redditi gli eventuali redditi generati da tale partecipazione (dividendi distribuiti, utili derivanti da liquidazione, plusvalenze da cessione delle quote, etc.), secondo le regole di tassazione italiani; (3) versare eventuali imposte patrimoniali collegate (in genere non dovute per le sole partecipazioni, come visto sopra, ma solo se la partecipazione sottende altri beni tassabili); (4) in caso di trasferimenti di denaro da/verso l’estero legati alla partecipazione (es. apporti di capitale, incasso di utili su conti esteri, vendite con accredito estero), assicurarsi di poterli documentare e monitorare se ricadono nell’obbligo RW.

Nel prossimo paragrafo vedremo come la mancata ottemperanza a questi obblighi – in particolare l’omessa indicazione delle partecipazioni estere – venga sanzionata dal nostro ordinamento e quali norme antielusive esistono per contrastare l’occultamento di società estere da parte di soggetti italiani. Dopodiché, passeremo agli strumenti di regolarizzazione.

Norme antielusive sulle partecipazioni estere: CFC, esterovestizione e interposizione

Detenere partecipazioni in società estere può, in alcuni casi, prestarsi a finalità elusive o evasive (ad esempio, creare società in paradisi fiscali per accumulare utili tassati meno, o spostare la residenza fittiziamente all’estero). Il legislatore italiano e la prassi hanno approntato varie norme antielusione specifiche per queste situazioni, che il contribuente deve conoscere quando intende regolarizzare la propria posizione. Di seguito esaminiamo le più rilevanti: le regole sulle Controlled Foreign Companies (CFC), le presunzioni di esterovestizione (residenza fittizia all’estero) e il principio dell’interposizione fittizia (titolare effettivo).

Regime CFC (Controlled Foreign Companies) e paradisi fiscali

Se la partecipazione estera è localizzata in un Paese a bassa fiscalità (cosiddetto paradiso fiscale o giurisdizione non cooperativa) e il contribuente italiano ne detiene il controllo (generalmente più del 50% dei diritti di voto o degli utili, direttamente o anche indirettamente), possono trovare applicazione le stringenti norme sulle società controllate estereControlled Foreign Companies – di cui all’art. 167 e 167-bis del TUIR. In base a tali norme, se una società estera è controllata da soggetti italiani e beneficia di un livello di tassazione significativamente inferiore a quello italiano (in termini di aliquota effettiva, indicativamente meno della metà di quanto pagherebbe in Italia), i suoi redditi vengono imputati per trasparenza ai soci italiani e tassati immediatamente in Italia, indipendentemente dalla effettiva distribuzione. In altre parole, la società estera “CFC” viene trattata come fiscally transparent: l’Agenzia delle Entrate può pretendere che il socio italiano dichiari ogni anno la sua quota di utili della controllata estera come reddito proprio (con un credito per eventuali imposte pagate all’estero, se spettante).

Il regime CFC è molto complesso e prevede eccezioni (ad esempio se la società estera svolge un’attività economica effettiva nello Stato di insediamento, con una struttura adeguata, il contribuente può chiederne la disapplicazione dimostrando che non si tratta di una costruzione artificiosa). Ma ai fini della nostra guida, è importante capire che l’omessa dichiarazione di una partecipazione estera “qualificata” in un paradiso fiscale è una violazione particolarmente grave. Non solo viola l’obbligo di monitoraggio, ma significa anche sottrarre all’Erario eventuali redditi esteri che avrebbero dovuto essere tassati in Italia per trasparenza. Ad esempio, se un imprenditore italiano possiede al 100% una società in un Paese a fiscalità privilegiata e non l’ha dichiarata, non solo ha omesso il Quadro RW, ma potrebbe aver omesso di dichiarare (e pagare imposte su) tutti gli utili maturati da quella società negli anni: al momento della regolarizzazione dovrà quindi dichiarare retroattivamente tali utili imponibili (nei limiti dei termini accertabili) e versare le relative imposte, oltre a sanzioni e interessi.

Va segnalato che la normativa CFC italiana è stata riformata in recepimento delle direttive UE anti-elusione (Atad). Attualmente, per la configurabilità di una CFC si richiede, semplificando: (a) il controllo, diretto o indiretto, della società estera da parte di soggetti italiani (in genere >50% partecipazione, oppure >20% se gli altri soci sono collegati: definizioni puntuali sono in art. 167 TUIR), (b) una tassazione effettiva dell’entità estera inferiore al 50% di quella cui sarebbe stata soggetta se residente in Italia. In tali casi, salvo prova di esclusione (substantial economic activity), scatta l’imputazione degli utili. In un’ottica di regolarizzazione, chi detiene una società in un paradiso fiscale dovrà valutare non solo il monitoraggio RW omesso, ma anche gli obblighi CFC violati, perché l’Agenzia potrebbe contestare entrambe le cose: sanzione RW e tassazione degli utili non dichiarati. La Cassazione ha definito queste violazioni particolarmente insidiose, rilevando che l’omessa indicazione di una partecipazione estera finalizzata a occultare utili può configurare condotta elusiva o evasiva aggravata.

In pratica: se state regolarizzando una partecipazione in una società estera “black list” (es. in un paradiso fiscale classico), preparatevi a dichiarare tutti i redditi societari pregressi come vostri (per la quota di partecipazione), oppure a dimostrare che la società aveva sostanza economica propria tale da escludere la CFC. Questo ovviamente aumenta il costo della regolarizzazione (in termini di imposte arretrate da versare), ma è necessario per sanare completamente la posizione.

Presunzione di residenza in Italia (esterovestizione)

Un altro strumento anti-evasione riguarda la fittizia residenza estera di società in realtà gestite dall’Italia, fenomeno noto come esterovestizione. L’art. 73 del TUIR definisce i criteri di residenza fiscale delle società (sede legale, oggetto principale, sede dell’amministrazione) e, ai commi 5-bis e seguenti, prevede presunzioni legali per alcune ipotesi tipiche di esterovestizione. In particolare, la norma (aggiornata dalla L. 208/2015 e da ultimo dal D.Lgs. 209/2023) stabilisce che si considerano residenti in Italia, salvo prova contraria, le società ed enti esteri che: (i) detengono partecipazioni di controllo in società residenti in Italia, e (ii) sono controllati da soggetti residenti in Italia oppure hanno amministratori prevalentemente residenti in Italia. In parole semplici, se una società estera funge da holding di società italiane (è capogruppo di società italiane) e risulta di fatto controllata o amministrata da italiani, la legge presume che la sua sede di direzione effettiva sia in Italia e quindi la considera fiscalmente residente in Italia. Questa è una presunzione relativa: il contribuente può fornire prova contraria dimostrando che la società estera è realmente gestita all’estero e ha sostanza economica propria, ma nel frattempo il fisco può fondare l’accertamento su tale presunzione, invertendo l’onere della prova.

L’obiettivo di tale norma è chiaro: colpire le holding esterovestite di comodo, costituite da soggetti italiani solo per schermare la titolarità di aziende italiane dietro una scatola estera e delocalizzare fittiziamente i profitti. Se i requisiti della presunzione sono soddisfatti, l’esito è che la società estera viene trattata come se fosse sempre stata residente in Italia: ciò implica che avrebbe dovuto presentare dichiarazioni in Italia e pagare le imposte qui sui propri redditi. In sede di regolarizzazione, dunque, una situazione di questo tipo è particolarmente delicata: far emergere la partecipazione estera in una holding esterovestita potrebbe portare il fisco ad accertare che la holding stessa andava tassata come soggetto italiano (con recupero di IRES, IRAP, ritenute, etc., più sanzioni) e che il contribuente amministratore ha omesso di presentare dichiarazioni per essa.

È importante notare che la presunzione di cui al comma 5-bis si applica solo al caso specifico di società estera holding di partecipazioni italiane. Al di fuori di questo scenario, resta comunque possibile per l’Agenzia contestare l’esterovestizione in via generale, provando con gli indizi tradizionali che la sede amministrativa effettiva della società estera è in Italia. In assenza della presunzione legale, però, l’onere della prova è interamente a carico del fisco, che deve raccogliere elementi gravi, precisi e concordanti (luogo in cui si prendono le decisioni, dove operano gli amministratori, dove sono gli affari e clienti, esistenza o meno di strutture e personale all’estero, flussi finanziari verso l’Italia, ecc.) per dimostrare che l’estero è solo di facciata. Cassazione ha confermato che si può far ricorso a presunzioni semplici per accertare la residenza effettiva, purché valutate globalmente: non basta un certificato formale di residenza estera se tutti gli indizi sostanziali indicano l’Italia come centro di direzione. Ad esempio, in Cass. n. 2458/2025 la Corte ha annullato una decisione di merito che aveva dato eccessivo peso a un attestato di residenza estera, trascurando molteplici indizi di gestione in Italia raccolti dal Fisco.

Perché rileva ciò ai fini della regolarizzazione? Perché un contribuente che ha occultato una partecipazione in una società estera di comodo – magari usata per gestire aziende o asset italiani – rischia, emergendo dall’ombra, di portare alla luce una posizione di esterovestizione. Dovrà quindi essere pronto, in fase di interlocuzione con l’Agenzia, a difendere la reale sostanza estera della società (se esiste) o a negoziare la sistemazione retroattiva degli obblighi fiscali come se la società fosse stata italiana (dichiarazioni integrative, pagamento IRES arretrate, sanzioni ridotte per ravvedimento se possibile). In altre parole, regolarizzare partecipazioni estere “schermo” può non limitarsi a pagare una multa RW: può significare sistemare interi bilanci societari non dichiarati.

Interposizione fittizia e titolare effettivo (trust, fiduciarie, prestanome)

Collegato al monitoraggio fiscale c’è il principio generale anti-elusivo dell’interposizione fittizia, codificato dall’art. 37, comma 3 del D.P.R. 600/1973: l’Amministrazione finanziaria, quando vi è sostanza economica diversa dalla forma giuridica apparente, può imputare i redditi al titolare effettivo invece che al soggetto interposto. Abbiamo già anticipato che, ad esempio, se una persona fisica trasferisce il proprio patrimonio a un trust estero ma ne mantiene il controllo gestionale, o se costituisce una società offshore come schermo ma la gestisce direttamente, il fisco può disconoscere la separazione formale. In tali casi, i beni e redditi formalmente intestati all’entità estera vengono considerati come detenuti dal contribuente e vanno dichiarati da quest’ultimo (sia in Quadro RW sia come redditi imponibili).

La Corte di Cassazione ha di recente ribadito con forza questo concetto. In Cass. n. 9445/2025 è stato affermato che l’art. 37, co.3 citato introduce un criterio sostanziale di titolarità, in base al quale ciò che conta è la situazione di fatto del possesso dei beni e redditi, anche desunta per via indiziaria. In altri termini, se tutti gli indizi mostrano che dietro un trust o una società estera c’è il pieno controllo del contribuente, quel trust/società sarà considerato interposto: il contribuente dovrà adempiere al monitoraggio e sarà tassato su quei redditi, ignorando la separazione fittizia.

Un caso illuminante è quello deciso da Cass. n. 9096/2025: un contribuente aveva trasferito le proprie azioni in una società estera a un trust formalmente indipendente, cercando così di “schermare” il possesso. La Cassazione ha ritenuto che, poiché il disponente manteneva di fatto il controllo (dando istruzioni e beneficiando dei redditi), l’operazione era fittizia e volta a evadere; di conseguenza, l’accertamento tributario ha legittimamente imputato i dividendi e le plusvalenze di quelle partecipazioni direttamente al disponente, tassandoli in Italia. In sintesi: inserire un trust o un prestanome tra sé e un bene estero non mette al riparo dall’obbligo dichiarativo né dalle imposte, se sostanzialmente si rimane padroni di quel bene.

Questi principi si applicano sia in fase di accertamento sia in fase di regolarizzazione volontaria. Chi si appresta a regolarizzare situazioni complesse con trust, fiduciarie o prestanomi deve considerare che il fisco potrebbe già considerarlo titolare effettivo di quei beni ab initio. Sarà dunque opportuno dichiarare proattivamente tutto ciò che anche indirettamente era nella propria disponibilità estera. Ad esempio, se Tizio ha una partecipazione estera intestata a Caio (prestanome), Tizio farebbe bene a includerla in RW come propria, spiegando la situazione; se ha conferito le quote a un trust ma continua a gestirle, dovrà dichiarare sia le quote sia i redditi prodotti come propri. Ciò eviterà future contestazioni per infedeltà o frode dichiarativa.

Sanzioni per omessa dichiarazione di partecipazioni estere

Veniamo ora alle conseguenze sanzionatorie in cui incorre chi non ha dichiarato le proprie partecipazioni societarie estere. Le violazioni da considerare sono principalmente di due tipi: (A) la violazione dell’obbligo di monitoraggio (omessa o infedele compilazione del Quadro RW) e (B) la violazione degli obblighi di dichiarazione dei redditi (omessa dichiarazione di dividendi, plusvalenze o altri redditi esteri). A queste si aggiungono eventuali profili penali tributari in caso di evasione sopra soglie di rilevanza penale, che tratteremo a parte. Analizziamo prima le sanzioni amministrative.

Sanzioni amministrative per il monitoraggio (omesso Quadro RW)

Le sanzioni per l’omessa indicazione di attività estere nel Quadro RW sono previste dall’art. 5, comma 2, D.L. 167/1990 (nel testo vigente) e sono particolarmente gravose. In generale, è stabilita una sanzione dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato (valore dell’investimento estero) per ogni periodo d’imposta in cui l’omissione si è verificata. Se l’attività estera era detenuta in un Paese a fiscalità privilegiata (cosiddetto Stato Black List, oggi definibile come Stato non cooperativo sullo scambio di informazioni), la sanzione raddoppia: dal 6% al 30% dell’ammontare non dichiarato. Queste percentuali si applicano per ciascun anno di omissione, tipicamente calcolate sul valore massimo che l’attività finanziaria ha avuto in quell’anno (ad esempio, per un conto corrente estero, il saldo massimo annuo; per una partecipazione, il valore al termine dell’anno). Importante: tali sanzioni si applicano anche se l’attività estera non ha prodotto redditi imponibili in Italia. Il presupposto della norma, infatti, è punire la mancata trasparenza (monitoraggio), a prescindere dalla tassazione del reddito. Dunque, anche chi possedeva una partecipazione estera che non ha mai distribuito utili né generato plusvalenze può essere multato pesantemente solo per non averla indicata nel RW.

Vediamo uno schema riassuntivo delle sanzioni RW (importi non dichiarati riferiti al singolo anno fiscale):

  • Attività in Paese “white list” (collaborativo): sanzione dal 3% al 15% del valore non dichiarato.
  • Attività in Paese “black list” (non cooperativo): sanzione dal 6% al 30% del valore non dichiarato.

La misura esatta della sanzione (entro questi range) sarà determinata dall’ufficio in base ai criteri generali (gravità, durata, entità); in caso di più anni di violazione ripetuta, in genere la sanzione si applica per ciascun anno in modo autonomo (la Cassazione ha chiarito che l’omissione pluriennale non è un unico illecito continuato, ma tanti illeciti quanti sono gli anni non dichiarati, sebbene si possa tener conto della continuatività ai fini della quantificazione nella misura minima o massima). Dunque, ad esempio, se un contribuente non ha dichiarato per 5 anni una partecipazione estera dal valore di €100.000, in teoria potrebbe subire 5 sanzioni separate del 15% (o 30% se black list) di €100.000 ciascuna, salvo riduzioni in caso di adesione o conciliazione.

Da notare che dal 2017 l’elenco delle giurisdizioni considerate non cooperative è allineato alle liste UE/OCSE e non coincide più con le vecchie “black list” statiche: oggi sono paesi non white-list quelli che non garantiscono un adeguato scambio di informazioni. In pratica però i paesi classici a fiscalità privilegiata rientrano in tale categoria (alcuni paesi caraibici, asiatici, ecc., mentre la Svizzera e San Marino ad esempio ora sono considerati collaborativi). Le sanzioni 6-30% si applicano se, nell’anno oggetto di violazione, quel Paese era classificato a fiscalità privilegiata secondo la normativa tempo per tempo vigente.

Oltre alla sanzione proporzionale, si consideri che l’omessa compilazione del quadro RW costituisce violazione formale di un obbligo fiscale: non sono previste imposte evase collegate (salvo la presunzione di redditi occultati, di cui diremo tra poco). Dunque non c’è un “minimo fisso” in euro: il minimo è dato proprio dal 3% del valore (che per importi piccoli può anche essere pochi euro, ma la legge prevede comunque un importo minimo sanzionatorio non inferiore a €258 per singola violazione, stante le regole generali sulle sanzioni amministrative).

Sanzioni per infedele compilazione: se il contribuente ha compilato il Quadro RW ma in modo infedele (ad esempio indicando un valore inferiore o omettendo alcune attività), si applicano le stesse sanzioni sopra indicate (3-15% e 6-30%) sulla parte non dichiarata. In tal caso l’ufficio valuta la proporzione dell’omissione. Ad ogni modo, ai fini pratici di regolarizzazione, che il quadro RW sia omesso del tutto o compilato ma errato, occorre integrare e si incorrerà nelle stesse sanzioni base (salvo il favor rei eventualmente applicabile se la normativa sanzionatoria è cambiata in melius negli anni – caso per lo più teorico, poiché le percentuali sono rimaste costanti, ma la Circolare 38/E/2013 dell’Agenzia consente di applicare la sanzione più favorevole quando la legge è cambiata).

Sanzioni per omessa dichiarazione dei redditi esteri

Se la partecipazione estera ha prodotto redditi (dividendi, utili, interessi, plusvalenze) non dichiarati in Italia, si applicano anche le sanzioni relative all’omessa o infedele dichiarazione dei redditi. Queste sanzioni, disciplinate dal D.Lgs. 471/1997, sono tipicamente proporzionali all’imposta evasa. In particolare:

  • Dichiarazione infedele (art. 1, c.2 D.Lgs. 471/97): quando il contribuente ha presentato la dichiarazione dei redditi ma ha omesso di includere alcuni redditi esteri (o li ha dichiarati in misura inferiore), la sanzione va dal 90% al 180% dell’imposta corrispondente alla differenza tra il dichiarato e il dovuto. In caso di redditi esteri provenienti da paesi non cooperativi, questa sanzione è aumentata di 1/3 (quindi potenzialmente fino al 240% dell’imposta evasa). Ad esempio, se ho omesso di dichiarare €10.000 di dividendi esteri che avrebbero comportato €2.600 di IRPEF, rischio una sanzione da €2.340 fino a €4.680 (90%-180% di 2.600); se i dividendi provenivano da un paese black list, il massimo può salire a circa €6.240.
  • Omessa dichiarazione (art. 1, c.1 D.Lgs. 471/97): se il contribuente non ha proprio presentato la dichiarazione dei redditi per quell’anno (caso meno comune, riguarda chi era completamente sconosciuto al fisco o non ha presentato il Modello Redditi), allora la sanzione è ancora più alta: dal 120% al 240% dell’imposta evasa, con un minimo di €250. Anche qui si applica l’aumento di 1/3 se i redditi omessi provengono da paradisi fiscali. Tuttavia, nel nostro contesto tipicamente il contribuente presentava la dichiarazione (per altri redditi italiani) ma non indicava quelli esteri – configurando quindi la fattispecie di dichiarazione infedele, non di totale omissione, a meno che la persona risulti non aver presentato affatto il quadro RN.

Da notare: se l’omessa dichiarazione del reddito estero si accompagna all’omessa compilazione del RW, le sanzioni si cumulano. Avremo quindi la sanzione sul tax gap (90-180%) in aggiunta alla sanzione sul monitoraggio (3-15% del valore patrimoniale). Ad esempio, un contribuente che non ha dichiarato un dividendo estero di €100.000 percepito su una partecipazione e non ha indicato né il dividendo né la partecipazione in RW rischia: sanzione del 90-180% sull’IRPEF evasa (supponiamo aliquota 26%, quindi €26.000 di imposta evasa, sanzione da €23.400 a €46.800 circa) più sanzione 3-15% sul valore della partecipazione (se la partecipazione valeva €1 mln, sono da €30.000 a €150.000). È evidente come le conseguenze economiche possano divenire enormi se l’importo non dichiarato è elevato o pluriennale.

Presunzione di redditi occulti (art. 12 D.L. 78/2009): va segnalata un’ulteriore insidia normativa. Dal 2009 esiste una presunzione secondo cui le attività finanziarie estere non dichiarate si presumono formate con redditi sottratti a tassazione in Italia, salvo prova contraria (art. 12, co. 2, D.L. 78/2009, conv. L. 102/2009). In pratica, se il fisco scopre capitali all’estero non monitorati, può presumere che quei capitali derivino da redditi “in nero” prodotti in passato dal contribuente e mai tassati. Ciò consente di emettere accertamenti per recuperare imposte anche su tali importi a titolo di Irpef non dichiarata. Ad esempio, se Tizio ha €500.000 in una holding estera non dichiarata, l’ufficio potrebbe sostenere che quei €500.000 sono redditi accumulati illecitamente (profitti non dichiarati in anni passati) e procedere a tassarli come redditi diversi o redditi d’impresa sottratti. È una presunzione relativa: il contribuente può difendersi dimostrando l’origine lecita e già tassata di quei fondi (ad esempio, che erano risparmi di redditi dichiarati, o provengono da donazioni, ecc.). Ma se non riesce, rischia oltre al danno la beffa: pagare imposte e sanzioni anche sul capitale accumulato, non solo sui redditi generati dallo stesso. Questa presunzione è stata applicata in varie contestazioni e la Cassazione ne ha confermato la legittimità come strumento anti-evasione. Pertanto, regolarizzare spontaneamente prima di essere scoperti consente in genere di evitare l’invocazione di tale presunzione, mentre chi viene accertato d’ufficio sul passato potrebbe subire anche questo trattamento (specie per disponibilità finanziarie estere di cui non sa provare l’origine fiscale).

Riepilogo: l’omessa dichiarazione di partecipazioni estere comporta una doppia categoria di sanzioni amministrative – sul monitoraggio (fino al 30% annuo del valore) e sui redditi evasi (fino al 180% dell’imposta) – che possono cumulativamente incidere per importi elevatissimi. Ciò evidenzia l’importanza di avvalersi degli strumenti di definizione agevolata (vedi ravvedimento operoso) per ridurre drasticamente queste somme, come vedremo nel prossimo capitolo. Prima, però, completiamo il quadro esaminando brevemente i profili penali tributari connessi a queste violazioni.

Rischi penali tributari

La mera violazione formale del monitoraggio (mancata compilazione del Quadro RW) di per sé non costituisce reato. Infatti, i reati tributari sono previsti dal D.Lgs. 74/2000 e richiedono generalmente l’omessa o infedele dichiarazione di imposte dovute oltre soglie penalmente rilevanti. Il Quadro RW non determina direttamente un’imposta evasa, quindi la sua omissione è sanzionata solo in via amministrativa. La Cassazione ha più volte confermato che l’omessa compilazione del RW, pur potendo integrare un tentativo di occultamento di patrimoni, non configura il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) in assenza di un effettivo debito fiscale già accertato. In altri termini, il solo tenere nascosti dei beni all’estero non è penalmente punibile se non c’è ancora un’imposta liquidata da sottrarre; diventa reato di sottrazione fraudolenta solo se, dopo che il Fisco li pretende, il contribuente compie atti simulati o fraudolenti per impedire la riscossione.

Diverso discorso per i redditi non dichiarati: se l’evasione di imposta supera determinate soglie, scatta il reato di dichiarazione infedele o omessa dichiarazione. In particolare, ai sensi degli artt. 4 e 5 D.Lgs. 74/2000:

  • Dichiarazione infedele (art.4): si ha reato se l’imposta evasa supera €100.000 e i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o comunque €2 milioni. Ad esempio, se non ho dichiarato utili esteri per €3 milioni e ciò ha portato a evadere €780.000 di imposta, ricorro nella fattispecie penale (superati sia 100k di imposta che 2M di base). La pena è la reclusione da 2 a 4 anni (limiti aumentati dalla L.157/2019) in caso di condanna.
  • Omessa dichiarazione (art.5): si ha reato se l’imposta evasa supera €50.000, indipendentemente dalla percentuale di redditi. Questo potrebbe colpire, ad esempio, chi non presentava proprio la dichiarazione dei redditi pur dovendolo fare (meno frequente in contesto di partecipazioni estere, a meno che il soggetto abbia presentato dichiarazione con solo redditi italiani irrilevanti e totalmente omesso quelli esteri oltre soglia, che alcuni considerano comunque art.4 infedele e non art.5; art.5 tipicamente è per chi non presenta nulla). La pena qui è da 2 a 5 anni.

Va detto che questi reati penali tributari scatteranno solo nei casi di evasione più gravi (molto elevate). Nella gran parte delle regolarizzazioni volontarie il contribuente tende ad agire prima di accumulare imposte evase di tale portata, proprio per evitare rischi penali. Anche qualora le soglie fossero superate, esistono nel sistema strumenti per mitigare: ad esempio, il pagamento integrale del dovuto prima del dibattimento può escludere la punibilità per i reati di omessa o infedele dichiarazione (art. 13 D.Lgs. 74/2000, come modificato), mentre resta punibile la frode fiscale se configurabile (che però richiede artifici o documenti falsi, situazioni di solito non presenti nella mera omissione di redditi esteri). In altre parole, chi regolarizza spontaneamente pagando il dovuto si mette sostanzialmente al riparo dal penale, anche perché dimostra l’assenza di dolo evasivo persistente.

Un appunto su due ulteriori fattispecie:

  • il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art.11) già citato, punisce chi, al fine di non pagare imposte dovute o sanzioni, compie atti simulati sui propri beni (vendite fittizie, trust fasulli, distrazione di asset). Come detto, la Cassazione ha escluso che la sola detenzione non dichiarata di beni all’estero integri questo reato in assenza di un credito tributario già accertato. Quindi nascondere patrimoni all’estero prima di un accertamento non è penalmente rilevante ex art.11; lo diventerebbe se, dopo aver ricevuto notifiche del Fisco, uno sposta o occulta quei beni per non farseli pignorare (es: viene avviato un accertamento e il contribuente trasferisce i fondi su conti offshore non tracciabili).
  • il reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), introdotto nel 2015, punisce chi reimpiega, ostacolando l’identificazione della provenienza, denaro o beni frutto di un proprio delitto. L’evasione fiscale può costituire il delitto presupposto (ad esempio omessa dichiarazione oltre soglia) e quindi l’occultamento sistematico di capitali evasi all’estero potrebbe in teoria configurare autoriciclaggio. Tuttavia, la giurisprudenza finora è cauta: perché vi sia autoriciclaggio servono condotte attive di occultamento/impiego volte a mascherare l’origine, non la mera detenzione statica del capitale evaso. Un caso limite sarebbe: dopo aver evaso imposte milionarie non dichiarando redditi, il soggetto trasferisce tali fondi su conti cifrati o li fa transitare in trust con lo scopo di ripulirli. In sede di regolarizzazione volontaria comunque questo rischio penale è pressoché scongiurato: l’importante è attivarsi prima che l’autorità contesti formalmente l’evasione, così da dimostrare l’intento collaborativo e non la volontà di ostacolare la ricostruzione.

Cassazione, ordinanza n. 20649/2025: è utile citare un recente pronunciamento dove la Suprema Corte ha confermato che l’omessa indicazione di attività estere in RW, da sola, non realizza ipotesi di reato tributario né ex art.4 (dichiarazione infedele) né ex art.11 (sottrazione fraudolenta), se non accompagnata da un’effettiva evasione d’imposta e da condotte fraudolente ulteriori. Tale ordinanza offre un orientamento rassicurante per i contribuenti: le sanzioni per RW restano amministrative. Ciò non toglie che, come visto, se quelle attività occultate producevano redditi significativi, il fatto diventi penalmente rilevante sotto il profilo dell’omessa/infedele dichiarazione dei redditi.

In sintesi, i rischi penali per chi ha occultato partecipazioni estere sono limitati ai casi di grande evasione e, in ogni caso, possono essere neutralizzati dal comportamento collaborativo: regolarizzare spontaneamente prima di accertamenti o procedimenti consente non solo di fruire di sanzioni ridotte amministrative, ma anche di evitare incriminazioni. Nel prossimo capitolo vedremo proprio gli strumenti di regolarizzazione – in primis il ravvedimento operoso – e come utilizzarli al meglio.

Strumenti per regolarizzare le partecipazioni estere non dichiarate

Abbiamo visto cosa prevede la legge in termini di obblighi e sanzioni. Fortunatamente, l’ordinamento offre anche strumenti per sanare spontaneamente le violazioni commesse, con benefici rilevanti in termini di riduzione delle sanzioni e talvolta esclusione di punibilità. In questa sezione analizziamo i metodi pratici per regolarizzare le partecipazioni estere non dichiarate, distinguendo il caso in cui il contribuente si muova prima di ricevere contestazioni (migliore situazione, in cui si applica il ravvedimento operoso) dai casi in cui sia già in corso un accertamento (in cui restano possibilità di definizione agevolata ma meno vantaggiose, come l’adesione). Faremo inoltre cenno alle precedenti voluntary disclosure e ad alcune misure straordinarie recenti.

Ravvedimento operoso: come funziona e quali vantaggi offre

Il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/1997) è lo strumento generale che consente al contribuente di regolarizzare spontaneamente omissioni e irregolarità fiscali, beneficiando di sanzioni ridotte, purché ciò avvenga prima che l’Amministrazione fiscale avvii un accertamento o una contestazione formale sulla violazione. In altre parole, il ravvedimento è ammesso solo se il contribuente non ha ancora ricevuto notifiche di accertamento, processi verbali di constatazione (PVC) o altre comunicazioni specifiche di irregolarità per l’anno e il tema in questione. Se invece l’ufficio ha già scoperto la violazione e notificato un atto, il ravvedimento ordinario non è più esperibile.

Cosa è possibile regolarizzare col ravvedimento in ambito estero? Praticamente tutto ciò che abbiamo descritto finora:

  • la mancata compilazione del Quadro RW per le partecipazioni estere (o la compilazione infedele dello stesso);
  • l’omessa dichiarazione di redditi esteri (dividendi non dichiarati, plusvalenze su partecipazioni cedute, utili da CFC non dichiarati, ecc.);
  • l’omesso versamento di IVAFE/IVIE eventualmente dovute (anche se, come detto, per sole partecipazioni non c’è IVAFE, ma potrebbe esserci IVIE se la società detiene immobili);
  • in generale ogni violazione tributaria connessa.

Il ravvedimento consente di presentare dichiarazioni integrative per gli anni passati, andando a includere i dati omessi, e di versare contestualmente imposte dovute, interessi e sanzioni in misura ridotta. Il vantaggio sta proprio nella riduzione delle sanzioni: l’entità dello sconto dipende da quanto tempo è trascorso dal momento in cui si sarebbe dovuto fare il dichiarativo corretto a quando ci si ravvede.

Le misure di riduzione delle sanzioni sono graduate così (tempi calcolati dalla scadenza originaria della dichiarazione/adempimento omesso):

  • Ravvedimento entro 14 giorni dal termine (ravvedimento Sprint): sanzioni ridotte a 1/15 del minimo. (Nel caso del monitoraggio, non applicabile perché la violazione RW scatta dopo il 30° giorno; riguarda più versamenti tardivi.)
  • Ravvedimento entro 90 giorni dalla scadenza: sanzioni ridotte a 1/9 del minimo. Nel caso di quadro RW omesso, 1/9 di 3% = 0,33% circa annuo (se white list) o 1/9 di 6% = 0,66% (se black list).
  • Ravvedimento entro 1 anno (cioè entro il termine di presentazione della dichiarazione dell’anno successivo): sanzioni a 1/8 del minimo. Quindi ~0,375% annuo (white) o ~0,75% (black).
  • Ravvedimento entro 2 anni: sanzioni a 1/7 del minimo. Quindi ~0,4286% annuo (white) o ~0,857% (black).
  • Ravvedimento oltre 2 anni: sanzioni a 1/6 del minimo. Quindi 0,5% annuo (white) e 1% annuo (black). Questa è la situazione tipica per chi regolarizza molti anni dopo.
  • Ravvedimento post-contestazione (cioè dopo p.v.c. ma prima di accertamento): teoricamente, la normativa prevede ulteriori riduzioni (1/5) in alcuni casi particolari, ma sono fattispecie complesse. In genere, dopo un PVC della G.d.F. si può definire con la cosiddetta adesione ai PVC con sanzioni ridotte a 1/6 (equiparato a ravvedimento tardivo). Comunque, l’obiettivo è evitare di arrivare a questo stadio.

La tabella seguente (tratta da Fisco7) riassume le sanzioni RW in caso di ravvedimento (aliquota percentuale sul valore non dichiarato per ciascun anno):

Tempo del RavvedimentoPaese White ListPaese Black List
Entro 90 giorni (1/9 min)0,33%0,66%
Entro 1 anno (1/8 min)0,375%0,75%
Entro 2 anni (1/7 min)0,4286%0,8571%
Oltre 2 anni (1/6 min)0,5%1,0%
Dopo PVC (1/5 min, teorico)0,6%1,2%

(Fonte: rielaborazione dati Circolare AdE 38/E/2013 e L. 197/2022)

Come si nota, ravvedersi spontaneamente riduce la sanzione RW a importi irrisori (nell’ordine dello 0,5% annuo del valore) rispetto al 15-30% annuo potenzialmente applicabile se scoperti. Lo stesso vale per le sanzioni sui redditi evasi: ad esempio, la sanzione del 120-180% sull’imposta evasa scende, col ravvedimento oltre 2 anni, a 1/6 di detto importo (quindi 20-30% dell’imposta evasa anziché 120-180%). Pertanto, il ravvedimento operoso è quasi sempre estremamente conveniente rispetto a subire un accertamento: si paga tutta l’imposta arretrata e gli interessi legali (attualmente gli interessi sono in crescita, 5% annuo dal 2023, ma sono importi contenuti rispetto alle sanzioni) e si beneficia di sanzioni ridotte a frazioni minime.

Come effettuare concretamente il ravvedimento: bisogna presentare una dichiarazione integrativa per ciascun anno da sanare (Modello REDDITI Integrativo) includendo:

  • il Quadro RW compilato correttamente con i dati delle partecipazioni estere detenute in quell’anno;
  • gli eventuali redditi esteri omessi indicati nei quadri di reddito (es. quadro RL o RT per plusvalenze, RM per alcuni redditi a tassazione separata, etc., a seconda dei casi);
  • il ricalcolo delle imposte dovute per quell’anno (tenendo conto di crediti d’imposta spettanti se imposte pagate all’estero, ecc.).

Contestualmente, occorre versare tramite modello F24:

  • le imposte arretrate dovute (IRPEF o IRES sulle somme non dichiarate, addizionali, eventuale IVAFE/IVIE non pagata, etc.);
  • gli interessi legali su tali importi, calcolati giorno per giorno dalla scadenza originaria a quella del pagamento ravvedimento (interesse legale variato: 0,05% fino al 2018, 0,1% 2019, 0,05% 2020-2021, 1,25% 2022, 5% 2023, 5% 2024 – va usato il tasso pro tempore di ciascun periodo);
  • le sanzioni ridotte: per le imposte evase (codice tributo 8901 ad es., per infedele) e per il monitoraggio RW (codice tributo 8911) nella misura ridotta come da tabella sopra.

È consigliabile allegare (o almeno conservare) una breve relazione di accompagnamento che spieghi la regolarizzazione, specie se riguarda molti anni o importi significativi, in modo da chiarire che si tratta di ravvedimento volontario e non di correzione su richiesta. Questo può essere utile se in futuro l’ufficio dovesse interrogarsi su questi integrativi: vedrà che sono stati spontanei e dunque non dovrebbero far scattare controlli (al netto di verificare la correttezza del calcolo).

Limiti temporali: in teoria si può ravvedere qualsiasi annualità per cui non sia decaduto il potere di accertamento (attualmente fino all’anno d’imposta 2018 se non dichiarato, estendibile al 2017 se omissione RW perché considerata violazione “formale” con tempi diversi?). In generale, il ravvedimento è ammesso finché l’ufficio può ancora emettere atto (e anzi anche oltre: la legge di Bilancio 2023 ha previsto che si possano ravvedere anche violazioni formali già contestate e in giudizio, ma è un tema molto tecnico). Di norma, comunque, si ravvedono gli ultimi 5-6 anni. Oltre tali annualità, gli eventuali redditi sono prescritti fiscalmente (non tassabili) e le sanzioni pure non più irrogabili; l’omessa dichiarazione RW essendo violazione formale potrebbe farsi rientrare nelle regolarizzazioni formali se previste, ma come vedremo la sanatoria formale 2023 ha escluso il RW. Quindi focalizziamoci sul sanare gli anni ancora aperti.

E se la violazione riguarda anni coperti da voluntary disclosure passata? Ad esempio, un contribuente aveva aderito alla voluntary disclosure 2015 ma per errore aveva dimenticato di includere una piccola partecipazione estera. Può oggi ravvedere quella posizione? La risposta è : la collaborazione volontaria chiusa in passato non preclude di effettuare ora un ravvedimento su qualcosa che allora non emerse. Ovviamente bisogna stare attenti che non fossero state rese dichiarazioni mendaci in sede di VD (dove si attestava di aver dichiarato tutto): in tal caso potrebbero esservi questioni penali di falso, ma nella pratica per un elemento minore normalmente non si procede. Quindi si può integrare adesso per quell’attività non inclusa, pagando il dovuto.

Confronto costi/benefici: vale la pena sottolineare un punto: regolarizzare col ravvedimento conviene quasi sempre, a meno che il contribuente sia certo di non poter mai essere scoperto (ipotesi ormai remota dati gli scambi internazionali). Le sanzioni ridotte sono spesso dell’ordine di pochi punti percentuali, mentre se si viene scoperti si rischia decine di punti percentuali di sanzione e addirittura implicazioni penali. Come osservato da esperti, un ravvedimento ben fatto porta a pagare magari lo 0,5% annuo sul patrimonio non dichiarato, contro un rischio del 30% annuo più imposte arretrate e guai giudiziari se si attende l’accertamento. Il rapporto rischio/beneficio è nettamente a favore del ravvedimento.

Procedure di definizione in corso di accertamento

Se il contribuente non ha fatto in tempo a ravvedersi e riceve una contestazione dall’Agenzia delle Entrate riguardante le sue attività estere (ad es. una comunicazione di compliance da CRS, un PVC dalla Guardia di Finanza o direttamente un avviso di accertamento), esistono comunque strumenti per limitare i danni:

  • Compliance spontanea su lettera di compliance: spesso l’Agenzia, quando riceve segnalazioni di conti esteri, invia una lettera al contribuente invitandolo a regolarizzare. Queste lettere non precludono il ravvedimento, perché non sono un atto impositivo formale ma un invito. Quindi, se si riceve una comunicazione di questo tipo (es. “abbiamo evidenza di un conto estero non dichiarato”), si può ancora correre ai ripari con ravvedimento operoso integrale su quell’anno, beneficiando delle riduzioni (l’Agenzia in genere concede 90 giorni per rispondere prima di procedere). È importante non ignorare tali avvisi: mostrano che il Fisco sa, per cui se non reagiamo, seguirà l’accertamento vero e proprio e a quel punto niente sconti.
  • Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997): se è già stato notificato un avviso di accertamento (o un PVC), il contribuente può attivare la procedura di adesione. Ci si “siede al tavolo” con l’ufficio per definire consensualmente le imposte dovute. In sede di adesione, c’è uno sconto del 1/3 sulle sanzioni applicate dall’ufficio (es. se l’ufficio avrebbe applicato il 100% di sanzione, si riduce a ~66%). Non è vantaggioso come il ravvedimento (dove la sanzione poteva scendere al 5% del dovuto!), ma è comunque meglio di nulla. L’adesione sospende anche i termini per impugnare e consente di spiegare situazioni specifiche magari ottenendo una parziale riduzione di imponibile. Una volta raggiunto l’accordo, si paga quanto concordato (imposte + sanzioni ridotte + interessi) in unica soluzione o rate.
  • Acquiescenza: se l’avviso di accertamento è arrivato e il contribuente decide di non fare ricorso, può ottenere una riduzione del 1/3 delle sanzioni irrogate semplicemente pagando entro 30 giorni e rinunciando a impugnare. Anche qui, dunque, se ci si arrende subito, le sanzioni amministrative calano di un terzo. L’acquiescenza non è cumulabile con l’adesione (sono alternative a seconda delle tempistiche).
  • Definizione agevolata delle liti: se si è finiti in contenzioso tributario, talvolta il legislatore apre finestre di definizione delle liti pendenti (ad esempio nel 2023 c’era la possibilità di chiudere le liti pendenti pagando un po’ meno). Queste sono misure sporadiche e non strutturali.

Da quanto sopra, si deduce che agire prima (ravvedimento) è di gran lunga preferibile. Una volta scattato l’accertamento, le uniche riduzioni possibili sulle sanzioni sono 1/3 in adesione o acquiescenza (e 2/3 in caso di conciliazione in primo grado). Ad esempio, la sanzione RW 15% può scendere a 10% con adesione, mentre col ravvedimento sarebbe scesa allo 0,5%. Lo stesso per le sanzioni sui redditi evasi: dal 120% si può scendere a 80% in adesione, ma col ravvedimento magari era 20%. La differenza è enorme.

Voluntary disclosure e altre sanatorie

In passato lo Stato ha varato procedure di collaborazione volontaria (voluntary disclosure) specifiche per l’emersione dei patrimoni esteri:

  • Nel 2015 (L. 186/2014) e poi una replica nel 2017, i contribuenti potevano autodenunciarsi versando tutte le imposte arretrate dovute, con sanzioni amministrative ridotte e soprattutto con la non punibilità per alcuni reati (dichiarativi e riciclaggio) derivanti dall’occultamento di capitali all’estero. Questi programmi hanno portato a massicce regolarizzazioni di conti e partecipazioni (soprattutto in Svizzera). Ad esempio, grazie alla VD 2015 molti contribuenti hanno potuto ottenere il rimborso dell’“euroritenuta” (la ritenuta UE del 35% sugli interessi) che le banche svizzere avevano applicato in passato, una volta dichiarati quegli importi. Cass. n. 798/2023 ha proprio statuito che il rimborso dell’euroritenuta spetta anche a chi ha aderito alla voluntary disclosure, riconoscendo che la regolarizzazione cancella gli effetti pregressi della mancata dichiarazione e riattiva il diritto al credito/rimborso. Ciò a riprova dell’orientamento favorevole verso chi collabora: non si viene penalizzati due volte (niente doppia imposizione) se si è sanato il passato.
  • Oggi (2025) non esiste una voluntary disclosure aperta: chi vuole regolarizzare deve usare l’istituto ordinario del ravvedimento operoso. La VD aveva il plus dell’immunità penale, ma come detto anche col ravvedimento, pagando prima, i reati sono esclusi per legge nella maggior parte dei casi. Dunque l’assenza di un programma ad hoc non impedisce affatto di sanare in modo efficiente.

Un cenno va fatto alla Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) che ha introdotto alcune misure di condono/ravvedimento speciale:

  • Un “ravvedimento speciale” per le dichiarazioni fiscali fino al 2021, con sanzioni ridotte a 1/18, ma espressamente escluso per l’emersione di attività estere non dichiarate. Ciò significa che non è stato possibile sanare i Quadri RW omessi pagando solo 1/18 della sanzione: il legislatore lo ha vietato, probabilmente per non premiare eccessivamente chi ha occultato capitali fuori (preferendo mantenere la procedura ordinaria). Dunque, niente scappatoia speciale per RW: chi aveva patrimoni esteri doveva usare il ravvedimento ordinario.
  • Una sanatoria delle violazioni formali (errori formali senza imposta) pagando €200 per anno: anche qui, il comma 170 escludeva chiaramente le violazioni dell’obbligo di monitoraggio dal novero di quelle definibili. Quindi non si poteva sanare il Quadro RW omesso con 200 euro; l’Agenzia Entrate ha ribadito questa esclusione nella Circolare 2/E del 2023. Ci sono state discussioni su alcuni obblighi a carico di intermediari, ma per i contribuenti rimane che RW non era condonabile forfettariamente.

In sostanza, nel 2023 il messaggio del legislatore è stato: sulle attività estere occulte non facciamo sconti extra rispetto al ravvedimento ordinario. Ed effettivamente il ravvedimento ordinario già offre sconti notevoli come visto. Quindi, al luglio 2025, la via maestra è questa.

Non si può escludere che in futuro vengano introdotti nuovi programmi di pacificazione fiscale internazionale (specie se emergono ancora molti capitali non dichiarati all’estero). Ma dato lo scenario attuale di scambio dati CRS capillare, è forse più probabile che il Fisco confidi di scovare i rimanenti furbetti senza bisogno di incentivi speciali.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito riportiamo alcune domande comuni, in forma domanda-risposta, per chiarire ulteriormente punti pratici sulla regolarizzazione di partecipazioni estere.

D. È obbligatorio dichiarare tutte le partecipazioni estere, anche se di piccola entità o se la società non distribuisce utili?
R. Sì. Il monitoraggio fiscale tramite Quadro RW prescinde dall’entità dell’investimento (non c’è una soglia minima in valore, a parte il caso dei conti sotto 15.000€). Qualsiasi partecipazione al capitale di società non residenti, detenuta da una persona fisica residente (o altro soggetto obbligato), va indicata in RW. Ciò indipendentemente dal fatto che la partecipazione sia piccola (es. 1% di una società estera): non esiste un esonero per “quota modesta”. Anche se la società estera è inattiva o non ha distribuito utili, l’obbligo RW sussiste comunque – perché serve a segnalare l’asset patrimoniale all’estero. Ovviamente, se non ci sono stati redditi, non vi saranno imposte sui redditi da dichiarare, ma il monitoraggio va fatto lo stesso. L’unico caso in cui la partecipazione estera non va indicata è quando è indiretta tramite società italiane: es. persona fisica italiana detiene il 100% di una Srl italiana che a sua volta ha il 100% di una società estera – in RW la persona fisica indica solo la Srl italiana (che è domestica), mentre sarà la Srl italiana a dichiarare nei propri quadri RW eventuali investimenti esteri (anche se le società di capitali non compilano RW, in questo caso la società italiana segnala la partecipazione estera nel quadro EC/FC di bilancio, etc.). In sintesi: partecipazione estera detenuta direttamente da persona fisica = da dichiarare in RW sempre.

D. Se la società estera non ha prodotto redditi (nessun dividendo né plusvalenza realizzata), devo comunque fare qualcosa oltre al Quadro RW?
R. In assenza di redditi percepiti o maturati tassabili in Italia, non c’è nulla da dichiarare nel quadro Redditi (nessuna imposta dovuta). Tuttavia, come detto, l’obbligo di monitoraggio rimane. Quindi andrà compilato il Quadro RW riportando la partecipazione estera e il suo valore. Il fatto che non vi fossero utili distribuibili non esonera dall’RW. Dal punto di vista sanzionatorio, chi ha omesso la dichiarazione RW di una partecipazione “inattiva” all’estero è in una posizione leggermente migliore rispetto a chi ha anche evaso redditi: infatti dovrà sanare solo la violazione formale RW (sanzione 3-15% annuo), ma non ci saranno imposte arretrate né sanzioni per omessa dichiarazione di redditi (perché i redditi non c’erano). Rimane comunque consigliabile regolarizzare anche queste posizioni “dormienti”, perché il Fisco potrebbe presumere che dietro quella partecipazione c’erano redditi occultati (art. 12 D.L.78/2009) e avviare accertamenti. Regolarizzando spontaneamente, si evita questo rischio.

D. Ho pagato già delle tasse all’estero sui redditi della partecipazione (es: la società estera ha pagato imposta sugli utili, o io ho subito una ritenuta estera su dividendi). Devo pagare di nuovo in Italia?
R. Dipende dal tipo di reddito e dagli accordi tra i paesi, ma generalmente no, non “doppiamente”. L’Italia applica il principio del credito d’imposta: tu dichiari qui il reddito estero e calcoli l’imposta italiana, ma puoi detrarre l’imposta estera già pagata su quel reddito, fino a concorrenza della nostra imposta. Ad esempio, se hai preso €1.000 di dividendi da una società USA, subendo una ritenuta del 15% negli USA (150€), in Italia dichiarerai i €1.000 imponibili al 26% = 260€ di imposta lorda, ma potrai detrarre i 150€ pagati negli USA, pagando qui solo la differenza (110€). In molti casi, specie con paesi con cui l’Italia ha trattati, la ritenuta estera è pari o inferiore al nostro 26%, quindi in Italia qualcosa paghi (o azzeri se la ritenuta estera già era 26% o più). Diverso è il caso in cui la società estera abbia pagato tasse sugli utili societari (es. IRES locale): quelle non sono direttamente detraibili dal socio, perché il credito spetta sulle imposte sul reddito del socio, non su quelle pagate dalla società (a meno che tu non attivi la tassazione per trasparenza tipo branch exemption o simili, ma è complesso). Comunque, su dividendi e interessi la ritenuta subita all’estero si accredita. Fai attenzione: per avere il credito devi documentare l’avvenuto pagamento dell’imposta estera (es. certificato della società o del fisco estero). Se non lo hai fatto nell’anno giusto, la Cassazione – come visto – ti concede comunque 10 anni per richiederlo. Quindi anche in sede di integrativa ora, puoi chiedere il credito d’imposta per quell’anno passato. In caso di voluntary disclosure, addirittura Cass. 798/2023 ha riconosciuto il rimborso dell’euroritenuta (un 35% prelevato in Svizzera) anche se l’Italia inizialmente diceva “niente credito se non hai dichiarato per tempo”. La Corte ha detto: no, niente doppia imposizione, se sei in regola paghi solo una volta complessivamente. Quindi, nella regolarizzazione, assicurati di valorizzare i crediti d’imposta esteri spettanti, così paghi in Italia solo l’eventuale differenza.

D. La partecipazione estera è in realtà una holding che possiede solo aziende italiane. Se la dichiaro, rischio che la considerino esterovestizione?
R. Sì, questo rischio c’è e va valutato. Come spiegato nella sezione sull’esterovestizione, se hai creato una società estera che funge solo da contenitore di società italiane ed è controllata da te (residente), la legge presume che quella società sia in realtà fiscalmente italiana. Dunque regolarizzando la partecipazione, potresti attirare l’attenzione dell’Agenzia su di essa. Ciò non significa che non devi dichiararla (anzi, devi comunque), ma devi prepararti a giustificare la presenza all’estero. Se la holding ha reale sostanza all’estero (uffici, management locale, ecc.), potrai confutare la presunzione di esterovestizione. Se invece era puramente fittizia, il Fisco potrebbe chiederti le dichiarazioni dei redditi arretrate come se la holding fosse residente qui. Cosa fare in pratica? Nella dichiarazione integrativa, indichi intanto il possesso della partecipazione. Poi è bene, tramite un professionista, avviare un dialogo con l’ufficio (anche presentando un’istanza di regolarizzazione) spiegando la situazione. Potrebbe emergere la necessità di sanare la posizione della società estera stessa (magari con un accertamento con adesione ad hoc per farle pagare le imposte come se fosse italiana per gli anni trascorsi). È un caso complesso, dove conviene farsi assistere da un tributarista esperto. L’importante è non continuare a occultarla: se il Fisco la scopre da sé, l’atteggiamento sarà molto più ostile. Dichiarandola tu e mostrando collaborazione, hai più margine per negoziare una soluzione (ad esempio, farla rientrare in Italia con una tassazione concordata su eventuali riserve).

D. Possedevo le partecipazioni estere tramite un trust straniero di cui ero disponente e beneficiario. Come le regolarizzo?
R. In casi di trust interposto, la strada seguita dall’Agenzia è trattare tutto come fosse intestato direttamente a te. Quindi dovrai: compilare il Quadro RW indicando sia la quota del trust (se hai modo di quantificarla) sia, preferibilmente, look-through, i beni sottostanti (cioè le partecipazioni detenute dal trust come se fossero tue). Le istruzioni ministeriali prevedono che il titolare effettivo di trust esteri indichi il valore complessivo dei beni del trust in un unico rigo RW, conservando un prospetto analitico. Quindi potresti indicare un rigo RW col codice “4 – altro diritto (beneficiario di trust)” e il valore totale delle partecipazioni possedute via trust. Nel quadro Redditi, dovrai dichiarare eventuali redditi prodotti da quelle partecipazioni come se percepiti da te (dividendi, ecc.), perché se il trust era fittizio vanno imputati a te. In sostanza tratti il trust come trasparente. È opportuno anche qui allegare una nota descrittiva spiegando che si tratta di regolarizzazione di trust estero interposto. Se il trust ha pagato tasse all’estero sui redditi, puoi rivendicare i crediti d’imposta analogamente a quanto detto prima. Anche questo è un ambito complesso: in alcune situazioni particolari potrebbe convenire sciogliere il trust e far rientrare gli asset. Ma dal punto di vista della compliance dichiarativa, ora sai che devi inserire tutto come se il trust non esistesse.

D. Sono già oggetto di un’indagine/accertamento fiscale che ha scoperto le mie partecipazioni estere non dichiarate. Posso ancora sanare o evitare il peggio?
R. Se l’accertamento è in corso (es. ti hanno fatto un PVC), il ravvedimento ordinario non è più consentito. Tuttavia, sei ancora in tempo per utilizzare gli strumenti di fase accertativa come l’adesione o l’acquiescenza di cui sopra. In pratica, puoi cercare di negoziare col fisco un accordo sul dovuto. Spiega tutto, mostra pentimento e collaborazione: magari l’ufficio potrebbe limitarsi a chiederti le imposte sui redditi evasi e applicare le sanzioni minime, evitando aggravanti. Ricorda che se paghi integralmente le imposte prima che il procedimento penale (eventuale) arrivi al dibattimento, per i reati di omessa/infedele dichiarazione c’è causa di non punibilità (art. 13 D.Lgs.74/2000) – quindi pagare subito conviene anche per chi è sotto processo, perché estingue il reato o attenua moltissimo la pena. Quindi la strategia migliore se sei ormai scoperto è: aderire e pagare. Puoi chiedere la rateazione (fino a 8 rate trimestrali in adesione) per diluire l’esborso, ma cerca di saldare il prima possibile soprattutto se c’è un procedimento penale pendente. Infine, valuta con l’avvocato se eventualmente patteggiare o richiedere la sospensione condizionale in sede penale: spesso chi paga tutto non va in carcere, specie se incensurato. È un percorso difficile, ma molto peggio sarebbe ignorare l’accertamento e lasciare che diventi definitivo con sanzioni piene e iscrizioni a ruolo che poi portano a cartelle esattoriali e possibile sequestro di beni.

D. Cosa succede se ignoro il problema e non regolarizzo affatto?
R. In breve: molto probabilmente verrai prima o poi scoperto, e a quel punto pagherai molto di più e rischierai molto di più. Con l’accordo CRS, tutti i paesi finanziariamente evoluti trasmettono ogni anno all’Italia i dati dei conti finanziari intestati a residenti italiani. Se la tua partecipazione estera è collegata a un conto corrente (es. depositi titoli) o a flussi finanziari, c’è un’alta probabilità che l’Agenzia prima o poi riceva un’informazione (nel “cruscotto” del programma compliance compaiono saldi di conti esteri, ecc.). Anche senza CRS, l’Agenzia ha poteri istruttori, scambi di informazioni su richiesta, e se la società estera interagisce con l’Italia (es. ha clienti italiani, o è partecipata da italiani noti) può emergere. Una volta scoperto, come abbiamo visto, ti applicheranno il massimo delle sanzioni (fino al 30% annuo del valore non dichiarato, più fino al 180% dell’imposta evasa) e se le cifre sono grosse ti denunceranno alla Procura per evasione fiscale. Inoltre, a seguito di accertamento, se non paghi immediatamente, scattano fermi e ipoteche sui tuoi beni in Italia e procedure di riscossione forzata. Insomma, lo scenario no compliance è fortemente sconsigliato. Va detto che l’Agenzia sta inviando ogni anno migliaia di lettere di compliance incrociando dati: è così che molti si sono “ravveduti” per conti esteri negli ultimi tempi. Inoltre, gli istituti di credito esteri ormai spesso chiedono ai correntisti di certificare la propria residenza fiscale e segnalano ai paesi d’origine: diventare invisibili è sempre più arduo. In sintesi, ignorare il problema non lo farà sparire, anzi peggiorerà la tua posizione negoziale quando verrai preso.

D. Regolarizzare conviene solo per evitare guai penali? Io ho importi non enormi, non rischio la galera…
R. Conviene comunque, perché le sanzioni amministrative sono di per sé salate. Anche se evadi, poniamo, €5.000 di imposte l’anno (sotto soglia penale), in 5 anni sono €25.000 di imposte più sanzioni 90-180%, cioè altri forse €30.000, più sanzioni RW (diciamo 15% su un patrimonio di 200k per 5 anni = €150k!). Ti arriverebbe una cartella magari da 200 mila euro. Niente penale, ma ti rovina finanziariamente. Regolarizzando, forse pagheresti 25k di imposte + interessi + 1/10 di quelle sanzioni, magari in tutto 35-40k, risolvendo per sempre. Inoltre pensiamo alla pace mentale: dormire sapendo di aver sistemato tutto, contro vivere nel timore costante che una banca estera ti chiuda il conto o ti segnali, o che arrivi una raccomandata del Fisco. Non vale la pena.

D. Dopo la regolarizzazione, potrò mantenere la mia partecipazione estera o devo dismetterla/rientrarla in Italia?
R. Non c’è alcun obbligo di dismettere gli investimenti esteri. L’importante è d’ora in avanti dichiararli correttamente ogni anno. Se la struttura estera è lecita e ha ragione d’essere, puoi assolutamente continuare a detenerla. Certo, dovrai convivere con l’onere annuale di compliance (Quadro RW, eventuali dichiarazioni di dividendi). Molti decidono spontaneamente di repatriare gli asset una volta regolarizzati, per semplificarsi la vita ed evitare futuri sospetti. Ad esempio, alcuni chiudono il conto estero e riportano la liquidità in Italia (tanto ormai è “bianca”), o liquidano la holding estera accorpando tutto in una società italiana. Ma ripeto, non è obbligatorio. Tieni però presente che se la tua partecipazione estera era in un paese a fiscalità nulla e l’hai regolarizzata come CFC, continuare a tenerla significherà dover dichiarare ogni anno i suoi utili per trasparenza e pagarci le tasse italiane: a quel punto forse è più efficiente spostare l’azienda in Italia o in un paese con fiscalità ordinaria, perché tanto il vantaggio del paradiso lo perdi comunque per effetto delle norme CFC.

D. Quali documenti devo conservare o predisporre in caso di regolarizzazione?
R. Consigliamo di predisporre un “dossier” con: copia delle dichiarazioni integrative inviate telematicamente; ricevute di versamento F24 di imposte, interessi e sanzioni; documentazione di supporto, ad esempio estratti conto esteri (per calcolare i saldi e i redditi percepiti per ciascun anno), eventuali bilanci della società estera (per stimare il valore della partecipazione, specie se hai usato il metodo del patrimonio netto), eventuali certificati delle imposte pagate all’estero (per giustificare i crediti d’imposta richiesti) e copie di eventuali comunicazioni del Fisco ricevute (es. se stai ravvedendo a seguito di lettera di compliance, allega quella lettera e la tua risposta). Conserva anche la corrispondenza con eventuali consulenti o rulings ottenuti. Questo fascicolo non va inviato a nessuno (a meno di richieste), ma tenerlo ti tutela: se domani l’Agenzia avesse dei dubbi sulla tua integrativa, tu hai già tutto pronto per dimostrare esattamente cosa hai regolarizzato e su quali basi. Normalmente, comunque, un ravvedimento completo e corretto chiude la partita: l’Agenzia incassa e non ha interesse ad aprire un nuovo caso, a meno che non sospetti omissioni ulteriori.

Conclusioni

Regolarizzare le proprie partecipazioni estere non dichiarate può sembrare un percorso oneroso e complesso, ma è senza dubbio la scelta più saggia per chiudere col passato e tornare ad essere in regola. Abbiamo esaminato nel dettaglio tutti gli aspetti – dalla normativa di riferimento alle sentenze di Cassazione più aggiornate – evidenziando come il sistema italiano, pur severo con chi occulta ricchezze oltreconfine, offra al tempo stesso opportunità di redenzione fiscale attraverso istituti come il ravvedimento operoso.

Dal punto di vista del contribuente (debitore), il messaggio è chiaro: grazie alle riduzioni sanzionatorie, la collaborazione volontaria conviene sotto ogni profilo (economico, legale, penale). Al contrario, l’inerzia o la resistenza espongono a conseguenze ben peggiori, inevitabili nell’era della trasparenza finanziaria globale.

Un professionista tributario può assistere nel predisporre le dichiarazioni integrative, nel calcolo esatto del dovuto e – se necessario – nel negoziare con l’Amministrazione finanziaria i casi più complessi (es. situazioni di esterovestizione o trust). Fondamentale è agire tempestivamente: ogni giorno di ritardo potrebbe essere quello in cui il Fisco scopre l’irregolarità, facendo perdere il diritto al ravvedimento.

In definitiva, per un avvocato o consulente che assiste un cliente, o per un imprenditore o privato cittadino che si riconosca nelle situazioni descritte, questa guida intende fungere da mappa per orientarsi nel percorso di regolarizzazione. Un percorso non semplice, ma ben definito nelle sue tappe: dalla presa di coscienza degli obblighi violati, al calcolo dei costi della sanatoria, fino alla predisposizione degli atti e al pagamento del dovuto. Compiuto questo percorso, ci si potrà affacciare al futuro con maggiore serenità, avendo messo in sicurezza la propria posizione fiscale internazionale e potendo concentrare le energie sullo sviluppo dei propri affari in modo lecito e trasparente.


Fonti utilizzate

D.P.R. 917/1986 (TUIR), art. 3 e art. 165 – Principio di tassazione mondiale e credito per imposte estere.

D.L. 167/1990 (conv. L. 227/1990), art. 4 e 5 – Obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW) e sanzioni amministrative.

Agenzia Entrate – Circolare 38/E del 23.12.2013 – Chiarimenti sul monitoraggio fiscale e compilazione Quadro RW.

Agenzia Entrate – Risposta a interpello n. 181/2024 – Chiarimenti sulla dichiarazione di criptovalute ai fini RW/IVAFE.

Cassazione Civile, Sez. Trib. – sentenza n. 10642/2025 (deposito 21/04/2025) – Diritti del contribuente in tema di credito per imposte estere non dichiarate.

Cassazione Civile, Sez. Trib. – ordinanza n. 9445/2025 (deposito 10/04/2025) – Trust estero e interposizione fittizia: conta la titolarità effettiva ai fini RW e reddituali.

Cassazione Civile, Sez. Trib. – sentenza n. 9096/2025 (deposito 04/04/2025) – Trasferimento di azioni a trust estero e imputazione al disponente dei relativi redditi (evasione mediante schermo fiduciario).

Cassazione Civile, Sez. Trib. – sentenza n. 2458/2025 (deposito 31/01/2025) – Accertamento esterovestizione: prova per presunzioni e prevalenza della sostanza sulla forma (certificato estero non decisivo).

Cassazione Civile, Sez. Trib. – ordinanza n. 20649/2025 (deposito 20/07/2025) – Omessa compilazione Quadro RW non costituisce reato in sé (no sottrazione fraudolenta senza imposta accertata).

Cassazione Civile, Sez. Trib. – sentenza n. 798/2023 (deposito 12/01/2023) – Voluntary disclosure: diritto al rimborso dell’euroritenuta versata all’estero anche se i redditi non erano stati dichiarati originariamente.

Cassazione Civile, Sez. Trib. – ordinanza n. 23225/2022 (deposito 26/07/2022) – Residenza fiscale ex art.73 TUIR prescinde dal fine elusivo: esterovestizione contestabile oggettivamente.

D.Lgs. 74/2000, artt. 4, 5, 11, 13 – Reati tributari di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione, sottrazione fraudolenta al pagamento e circostanze di non punibilità.

D.L. 78/2009, art. 12 – Presunzione di provenienza reddituale dei capitali esteri non dichiarati.

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Conclusione

Dichiarare le partecipazioni estere è un obbligo di legge, ma farlo correttamente ti protegge da sanzioni e accertamenti futuri.
Con il giusto supporto legale puoi metterti in regola senza rischi e difenderti se sei già stato segnalato.

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