Accertamento Redditi Residenti Black List: Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate perché hai percepito redditi da Paesi inseriti nella black list? Ti accusano di non aver dichiarato somme estere o di essere fiscalmente residente in Italia nonostante tu viva all’estero?

Gli accertamenti sui redditi provenienti da Stati a fiscalità privilegiata (black list) sono tra i più insidiosi, perché il Fisco applica presunzioni gravi, e spesso inverte l’onere della prova, obbligandoti a dimostrare che i redditi non sono imponibili in Italia. Ma esistono difese legittime e strumenti per tutelarti.

Quando scatta l’accertamento su redditi da Paesi black list?
– Se l’Agenzia rileva conti correnti, partecipazioni o investimenti in Paesi considerati paradisi fiscali
– Se percepisci dividendi, interessi o compensi da entità con sede in black list
– Se hai una residenza estera contestata e sei sospettato di essere ancora residente in Italia
– Se risulti titolare effettivo di società estere non dichiarate

Cosa presume il Fisco in questi casi?
– Che i redditi esteri sono stati prodotti in Italia, salvo prova contraria
– Che, se non dichiarati, sono soggetti a tassazione integrale
– Che, se sei domiciliato in un Paese black list, potresti avere una residenza fittizia o di comodo
– Che i beni o conti all’estero servono a occultare redditi imponibili in Italia

Come puoi difenderti da un accertamento per redditi da black list?
– Dimostrando che non hai avuto alcun vantaggio economico reale (es. partecipazione senza utili)
– Documentando che il reddito è stato tassato all’estero in modo effettivo
– Provando che sei fiscalmente residente all’estero in modo stabile e continuativo
– Esibendo documenti bancari, fiscali e giustificativi che provano la reale provenienza dei fondi
– Contestando eventuali vizi dell’accertamento, come la mancata instaurazione del contraddittorio

Cosa puoi ottenere con la difesa giusta?
Annullamento o riduzione dell’accertamento, se riesci a dimostrare l’inesistenza del reddito imponibile
Eliminazione delle sanzioni, se agisci in buona fede e con collaborazione
– Possibilità di chiudere il contenzioso con accertamento con adesione o mediazione tributaria
Tutela legale contro indebite pretese fiscali, anche in sede giudiziale

Gli accertamenti sui redditi esteri black list sono tra i più delicati e richiedono una strategia difensiva dettagliata e documentata. Agire tempestivamente è essenziale per bloccare sanzioni e presunzioni automatiche.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario ti spiega come difenderti da un accertamento su redditi da Paesi black list, cosa verificare e come evitare le presunzioni fiscali più gravi.

Hai ricevuto un accertamento o una segnalazione per investimenti all’estero? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la tua posizione e ti diremo come difenderti legalmente, con i documenti giusti.

Introduzione

In ambito tributario italiano la residenza fiscale di una persona fisica determina l’obbligo di dichiarare in Italia tutti i redditi, ovunque prodotti nel mondo (c.d. worldwide taxation). Per questo motivo, molti contribuenti valutano il trasferimento all’estero, talvolta verso Paesi a fiscalità privilegiata (i cosiddetti paradisi fiscali), al fine di ridurre il carico fiscale. L’Amministrazione finanziaria italiana tuttavia vigila attentamente su tali situazioni e dispone di strumenti normativi e poteri di accertamento mirati a contrastare i trasferimenti di residenza fittizi all’estero (fenomeno noto come esterovestizione).

Tra questi strumenti, uno dei più incisivi è la presunzione legale relativa di residenza in Italia per i cittadini italiani che si trasferiscono in Stati o territori a regime fiscale privilegiato (c.d. Paesi black list). Ai sensi dell’art. 2, comma 2-bis del TUIR (D.P.R. 917/1986), introdotto nel 2000, un cittadino italiano cancellato dall’anagrafe residente e trasferito in un Paese “black list” è considerato comunque residente fiscale in Italia, salvo prova contraria. In altre parole, si inverte l’onere della prova: sarà il contribuente a dover dimostrare l’effettività del trasferimento e l’assenza di legami fiscali con l’Italia, per evitare di subire la tassazione italiana sui redditi esteri.

Le conseguenze di una contestazione di residenza fiscale possono essere assai gravose. Se l’Agenzia delle Entrate ritiene che un soggetto formalmente espatriato in realtà debba considerarsi ancora residente in Italia, recupererà le imposte italiane su tutti i redditi esteri non dichiarati, con sanzioni elevate e interessi, e nei casi più seri potrà trasmettere atti alla procura per violazioni penali tributarie (come omessa dichiarazione). Diventa dunque fondamentale, per chi si trasferisce all’estero (specie in Paesi a bassa tassazione), conoscere le regole del gioco ed essere preparato a difendersi in caso di accertamento.

In questa guida – dal punto di vista del contribuente (debitore) – esamineremo in modo approfondito come difendersi efficacemente da un accertamento fiscale sui redditi esteri fondato sulla presunzione di residenza in Italia per espatrio in Paesi black list. Illustreremo anzitutto il quadro normativo italiano aggiornato a luglio 2025, includendo i criteri di residenza fiscale delle persone fisiche (e le novità normative dal 2024) e l’elenco aggiornato dei Paesi a fiscalità privilegiata. Analizzeremo poi gli strumenti utilizzati dall’Amministrazione finanziaria per individuare i casi a rischio (questionari, indagini finanziarie, scambi di informazioni internazionali) e descriveremo le possibili strategie difensive sia in sede pre-contenziosa (fase di risposta al Fisco, produzione di prove, istanze di autotutela) sia in sede processuale (ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria, onere della prova, eccezioni procedurali). Verranno citate le più recenti sentenze della Corte di Cassazione e i chiarimenti ufficiali (Agenzia Entrate) per evidenziare gli orientamenti attuali su questa materia. Inoltre, la guida include tabelle riepilogative, una sezione di domande e risposte (FAQ) e alcune simulazioni pratiche riguardanti contribuenti italiani con residenza estera, per aiutare professionisti (avvocati, consulenti) ma anche privati cittadini e imprenditori a comprendere in concreto come prevenire e affrontare al meglio un’accertata contestazione di residenza fiscale. Il linguaggio utilizzato sarà tecnico-giuridico ma anche divulgativo e chiaro, così da unire il rigore normativo alla comprensibilità.

In sintesi: chi trasferisce la residenza in un paradiso fiscale deve sapere che il Fisco italiano partirà dal presupposto (relativo) che si tratti di un espediente elusivo, e pertanto dovrà prepararsi a difendere con prove solide la genuinità del proprio espatrio. Vediamo dunque quali sono le regole e come impostare la difesa.

Criteri di residenza fiscale e presunzioni (black list e non)

Prima di addentrarci nello specifico della presunzione da “black list”, è opportuno riepilogare i criteri generali in base ai quali l’ordinamento italiano determina la residenza fiscale delle persone fisiche, nonché le recenti modifiche normative entrate in vigore dal 2024. Questo ci aiuterà a capire su quali elementi concreti si gioca la partita in caso di contestazione.

Criteri ordinari di residenza (art. 2 TUIR): L’art. 2 del TUIR definisce residenti in Italia, ai fini delle imposte sui redditi, le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno 183 giorni l’anno, anche non consecutivi) soddisfano anche uno solo di questi requisiti alternativi:

  • Iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente (A.P.R.) di un Comune italiano, per oltre 183 giorni nell’anno;
  • Domicilio in Italia ai sensi del codice civile (art. 43 co.1 c.c.), inteso come sede principale degli affari e interessi della persona, prevalentemente di tipo personale e familiare (dopo la riforma 2024);
  • Residenza (civile) in Italia ai sensi del codice civile (art. 43 co.2 c.c.), cioè dimora abituale della persona in Italia, ossia il luogo in cui vive con regolarità la propria vita quotidiana.

Tali criteri sono alternativi: è sufficiente che uno solo di essi ricorra per oltre metà anno perché il soggetto sia considerato residente fiscale in Italia. Storicamente, fino al 2023, l’iscrizione anagrafica in Italia costituiva di per sé uno di questi criteri ed era interpretata come condizione formale sufficiente (cioè se un soggetto restava iscritto all’Anagrafe italiana, veniva considerato residente fiscale, senza possibilità di prova contraria). Ciò comportava che un italiano emigrato all’estero, se ometteva di iscriversi all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) e quindi risultava ancora residente in un Comune italiano, veniva in automatico trattato come residente fiscale italiano. La giurisprudenza aveva più volte ribadito che l’iscrizione AIRE (o la mancata iscrizione) non è decisiva di per sé se altri elementi fattuali indicano diversamente (in altri termini, un’iscrizione all’AIRE non salva il contribuente se di fatto mantiene domicilio o dimora in Italia, e viceversa la mancata iscrizione non esclude una residenza effettiva estera).

Novità 2024: a seguito della riforma operata con il Decreto Legislativo 29 novembre 2023 n. 209 (attuativo della delega fiscale 2022), i criteri di collegamento per la residenza fiscale delle persone fisiche sono stati parzialmente modificati dal 1° gennaio 2024. In particolare, è stato introdotto un nuovo criterio basato sulla presenza fisica in Italia e l’iscrizione anagrafica è stata declassata a presunzione relativa. Oggi l’art. 2 TUIR (come novellato) prevede che è residente fiscale in Italia chi, per più di metà anno, ha la residenza civile oppure il domicilio in Italia, ovvero è semplicemente presente nel territorio italiano. Contestualmente la norma stabilisce che “salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte dell’anno nelle anagrafi della popolazione residente”. In sostanza: (a) viene esplicitato che passare in Italia più di 183 giorni annui fa scattare la residenza fiscale (criterio prima solo implicito), e (b) l’iscrizione in anagrafe diviene un elemento presuntivo superabile con prova contraria (non più una conditio sine qua non assoluta). La ratio è allineare la definizione italiana agli standard OCSE e alle prassi internazionali, dando maggior peso alla realtà sostanziale rispetto alle sole formalità. Va evidenziato però che queste novità non hanno portata retroattiva: lo stesso art. 2 novellato specifica che i nuovi criteri si applicano dal periodo d’imposta 2024 in poi. Dunque, per gli accertamenti relativi a anni fino al 2023 continueranno a valere i criteri previgenti (ad es. rilevanza “assoluta” dell’iscrizione APR per gli anni passati).

Dal punto di vista pratico, ai fini della nostra analisi, questo significa che:

  • Se un contribuente non era iscritto all’AIRE ed è rimasto nell’anagrafe italiana per l’anno in verifica (cosa da evitare), per gli anni fino al 2023 il Fisco lo considererà senz’altro residente in Italia (criterio formale incontrovertibile); per il 2024 e seguenti, lo considererà presuntivamente residente e il contribuente potrà provare eventualmente il contrario (anche se, chiaramente, la mancata iscrizione all’AIRE resta un grave handicap difensivo).
  • Se invece il contribuente risulta iscritto all’AIRE nell’anno in contestazione, si valuteranno i criteri sostanziali di domicilio e dimora abituale: l’onere probatorio iniziale dipenderà dal Paese di destinazione (black list vs white list, come vedremo a breve). In ogni caso, l’Amministrazione finanziaria cercherà elementi per dimostrare che in realtà il soggetto ha mantenuto in Italia il centro effettivo dei propri interessi o la presenza prevalente.

La presunzione per i trasferimenti nei “Paesi black list”: una regola speciale – centrale in questa guida – si applica quando il contribuente trasferisce la residenza in taluni Stati esteri ritenuti a fiscalità privilegiata. L’art. 2, comma 2-bis TUIR stabilisce infatti che si considerano residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con apposito decreto ministeriale. In pratica, la norma elenca in negativo i Paesi “non virtuosi”: chi si sposta in uno Stato non compreso nell’elenco ministeriale è presunto residente in Italia. Detto altrimenti, esiste un elenco di Paesi considerati “a regime fiscale privilegiato” (non collaborativi sul piano fiscale) e il trasferimento in uno di essi fa scattare automaticamente una presunzione (relativa) di residenza italiana continuativa. La norma fu introdotta nel 1999-2000 con finalità anti-evasive: l’intento è scoraggiare espatri “di comodo” verso paradisi fiscali, ponendo a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il trasferimento è genuino e non finalizzato a eludere il fisco italiano.

Va sottolineato che questa presunzione è legale relativa: non crea un’irrefutabile status di residenza italiana, ma costituisce un’inversione dell’onere della prova. Il contribuente può vincere la presunzione fornendo prova contraria, ovvero dimostrando che la sua residenza fiscale effettiva è all’estero, malgrado il Paese di approdo sia “black list”. La Cassazione ha chiarito che l’art. 2 comma 2-bis TUIR non introduce un autonomo criterio di collegamento ulteriore, ma opera sul piano probatorio: si applicano comunque i parametri ordinari (domicilio, residenza, ecc.), ma si presume che chi è emigrato in un paradiso fiscale li soddisfi ancora in Italia, a meno che non dimostri il contrario.

Per individuare quali siano i Paesi black list rilevanti ai fini di questa presunzione, occorre fare riferimento al decreto ministeriale 4 maggio 1999 (emanato in attuazione proprio dell’art. 2, c.2 TUIR) e successive modifiche. Tale decreto contiene l’elenco degli Stati e territori con regime fiscale privilegiato rispetto all’Italia ai fini IRPEF. Negli anni la lista è stata più volte aggiornata, poiché molti Paesi hanno stipulato trattati e accordi di scambio di informazioni con l’Italia e l’OCSE, uscendo così dalla black list. Ad esempio, la Svizzera – un tempo inclusa – è stata rimossa dalla lista a partire dal 2024, grazie agli accordi di cooperazione fiscale con l’UE e l’Italia (decreto MEF 28/07/2023). Oggi rimangono in lista prevalentemente i paradisi fiscali classici (piccoli Stati offshore con tasse nulle o basse, e scarsa trasparenza finanziaria). Nella tabella seguente si riportano i principali Paesi black list aggiornati al 2025, come risultanti dal D.M. 4.5.1999 e successive modifiche:

Tabella – Elenco Paesi “black list” ai fini della presunzione di residenza fiscale (art. 2 co.2-bis TUIR)

N.Paese (Stato o territorio)Note
1Alderney (Isole del Canale)
2AndorraUscita da lista UE non-cooperativi nel 2018; accordo scambio info con ITA.
3Antigua e Barbuda
4Antille Olandesi (ex territorio, ora Curaçao, Sint Maarten, etc.)
5Aruba
6Bahamas
7Bahrain
8Barbados
9Belize
10Bermuda
11Brunei
12Costa Rica
13Dominica
14Emirati Arabi UnitiConvenzione contro doppie imposizioni in vigore dal 2015.
15Ecuador
16Filippine
17Gibilterra
18Gibuti
19Grenada
20Guernsey (Isole del Canale)
21Hong KongAccordo contro doppie imposizioni dal 2015.
22Isola di Man
23Isole Cayman
24Isole Cook
25Isole Marshall
26Isole Vergini Britanniche
27Jersey (Isole del Canale)
28Libano
29Liberia
30LiechtensteinTrattato doppie imposizioni dal 2015.
31Macao
32Malaysia
33Maldive
34Mauritius
35Montserrat
36Nauru
37Niue
38Oman
39Panama
40Polinesia Francese
41Principato di MonacoNo convenzione; accordo informativo dal 2016. Italiani a Monaco presunzione.
42Sark (Isole del Canale)
43Seychelles
44SingaporeTrattato contro doppia imp. dal 1977 (rivisto 2012).
45Saint Kitts e Nevis
46Saint Lucia
47Saint Vincent e Grenadine
48Taiwan
49Tonga
50Turks e Caicos
51Tuvalu
52UruguayTolto da lista UE 2018; accordo scambio info.
53Vanuatu
54Samoa

(Nota: l’elenco sopra riproduce la lista aggiornata dall’ultimo decreto ministeriale di modifica, D.M. 12/02/2014, con l’aggiornamento del 2023 relativo alla Svizzera. Dal 2024 la Svizzera è esclusa dalla black list ai fini art.2 co.2-bis, quindi il trasferimento in Svizzera non attiva più la presunzione legale di residenza italiana. Restano comunque obblighi di monitoraggio fiscale per attività finanziarie detenute in Svizzera, ma senza inversione dell’onere della prova sulla residenza.)

White list e altri criteri: come si nota, l’art. 2 c.2-bis TUIR fa riferimento ai Paesi “diversi da quelli individuati con decreto”. In pratica, il D.M. 4.5.1999 e s.m. individua i Paesi black list (a fiscalità privilegiata) ancora rilevanti per le persone fisiche. Per le imprese e altre norme, il concetto di black list è stato in gran parte superato da criteri oggettivi: ad esempio, la disciplina CFC (Controlled Foreign Companies) dopo il 2015 non usa più elenchi fissi ma paragona l’aliquota estera a quella italiana (se < 50% di quella italiana, il regime è considerato privilegiato). Anche per la deducibilità dei costi da paradisi fiscali, la legge di Stabilità 2016 ha abolito l’elenco ex art. 110 TUIR, introducendo un criterio generale sul livello di tassazione estero. Tuttavia ai fini delle persone fisiche la lista del 1999 rimane in vigore proprio per applicare la presunzione di residenza fittizia.

In sintesi: se un cittadino italiano trasferisce la residenza in un Paese non presente nell’elenco ministeriale sopra (dunque un Paese black list), l’Agenzia delle Entrate presume che il trasferimento sia fittizio e che il contribuente sia rimasto residente in Italia. Viceversa, se il Paese di destinazione non è un paradiso fiscale (es. è un Paese UE o un Paese white list con adeguata tassazione e scambio info), non opera la presunzione legale e l’Amministrazione dovrà provare con elementi concreti che il soggetto, nonostante l’espatrio, conservava ancora in Italia il proprio domicilio o residenza ai sensi civilistici. In altre parole, per chi si trasferisce in un Paese “normale” l’onere iniziale della prova grava sul Fisco; per chi si trasferisce in un Paese black list l’onere è invertito e ricade sul contribuente.

Questa differenza è cruciale nel predisporre la strategia difensiva: “chi parte per un Paese a bassa tassazione deve prepararsi a raccogliere ogni indizio utile a provare la genuinità del trasferimento, molto più di chi va in un Paese collaborativo”. Nel capitolo seguente vedremo come l’Agenzia individua i casi sospetti e quali tipi di prove possono entrare in gioco.

Controlli fiscali sui trasferimenti all’estero: come opera il Fisco

L’Amministrazione finanziaria italiana – attraverso l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza – dispone di ampi poteri di controllo e indagine per verificare la veridicità dei trasferimenti di residenza dichiarati dai contribuenti. Negli ultimi anni questi controlli si sono intensificati, grazie anche allo scambio automatico di informazioni internazionali (p.es. il Common Reporting Standard – CRS OCSE) e all’incrocio di banche dati digitali. Di seguito descriviamo sinteticamente come viene svolto un accertamento sulla residenza e come il contribuente viene tipicamente coinvolto sin dalle fasi preliminari.

Selezione dei contribuenti a rischio e questionari preliminari

Ogni anno l’Amministrazione elabora analisi di rischio per individuare i profili potenzialmente riconducibili a falsa residenza estera. Vengono incrociati molteplici dati per segnalare nominativi “a rischio esterovestizione”, ad esempio:

  • Italiani iscritti all’AIRE che conservano interessi significativi in Italia. Sono considerati sospetti i soggetti che, pur risultando formalmente emigrati, mantengono proprietà, famiglia o affari in Italia (immobili, cariche sociali, imprese attive, ecc.). Classico è il caso di chi trasferisce la residenza fiscale a Monaco, ma lascia in Italia la moglie e i figli o continua a dirigere società italiane: tali situazioni attirano l’attenzione del Fisco.
  • Trasferimenti verso Paesi “black list”. Un cambiamento di residenza verso un noto paradiso fiscale (ad es. Bahamas, Dubai, Panama) è di per sé sufficiente ad attivare un controllo: l’Agenzia ha liste di chi si è cancellato dall’anagrafe per espatriare in Stati a fiscalità privilegiata, e questi nominativi sono monitorati con priorità.
  • Dati finanziari e patrimoniali incoerenti. Si procede all’incrocio tra l’Anagrafe tributaria e altre banche dati: ad esempio, se un contribuente risulta AIRE ma continua ad avere consistenti conti bancari o investimenti in Italia, scatta un allarme. Allo stesso modo, grazie al CRS, l’Italia riceve dagli altri Paesi informazioni sui conti bancari esteri di soggetti che quell’altro Paese considera residenti italiani; se Tizio dichiara di risiedere a San Marino ma quest’ultimo segnala conti di Tizio come residente italiano, significa che Tizio per San Marino non risulta residente locale – forte indizio di residenza rimasta in Italia.
  • Utenze, consumi e abitazione in Italia. L’Agenzia può verificare i consumi di utenze domestiche (luce, gas, telefono) intestate al contribuente in immobili italiani. Ad esempio, se Caio si è trasferito all’estero ma le bollette della sua casa in Italia mostrano consumi elevati, è segno che probabilmente la casa è utilizzata (forse dallo stesso Caio). Analogamente, l’intestazione di abbonamenti (telepass, pay-tv) o la presenza di auto di proprietà circolanti in Italia sono elementi che contraddicono un effettivo espatrio.
  • Legami familiari e sociali rilevabili. Vengono considerati segnali come la presenza di figli ancora iscritti a scuole in Italia, oppure il ruolo in attività locali (associazioni, club, incarichi pubblici). Se, ad esempio, i figli dell’emigrato continuano a frequentare scuole italiane, ciò depone per una permanenza della famiglia sul territorio italiano.

Il primo passo formale dell’accertamento di solito consiste nell’invio di un questionario o invito a fornire informazioni. L’Agenzia delle Entrate invia al contribuente (all’indirizzo estero comunicato all’AIRE, o tramite PEC se disponibile) un questionario nel quale chiede di compilare dettagli relativi alla propria residenza e attività: ad esempio dati sul domicilio estero, sulla casa in cui vive, sull’eventuale abitazione in Italia, sulla famiglia, sul lavoro svolto all’estero, sulle fonti di reddito e patrimoni detenuti ecc. Lo scopo è raccogliere elementi utili a verificare se ricorrono i requisiti di residenza in Italia. Contestualmente, può invitare il contribuente a un colloquio o a produrre documentazione (contratti di affitto, bollette, contratti di lavoro, certificati di iscrizione ai registri locali, ecc.). È importante compilare con attenzione il questionario e rispondere nei termini: ignorare questa fase iniziale è sconsigliabile, perché induce l’ufficio a procedere d’ufficio con le informazioni che ha (quasi certamente sfavorevoli). Mostrarsi invece collaborativi, fornendo spiegazioni e documenti, può talvolta convincere l’ufficio a archiviare il caso se emergono chiaramente le prove di un’effettiva residenza estera. In ogni caso, è bene farsi assistere da un esperto nel rispondere, per evidenziare da subito i punti di forza della propria posizione ed evitare affermazioni imprecise che possano essere usate contro in seguito.

Poteri istruttori e raccolta delle prove

Se i sospetti permangono, l’Amministrazione passa a un’istruttoria approfondita, esercitando i poteri di indagine previsti dalle norme. Durante l’accertamento sulla residenza, gli uffici possono:

  • Effettuare accessi, ispezioni e verifiche presso eventuali immobili in Italia collegati al contribuente, per constatare ad esempio se un’abitazione dichiarata “non più utilizzata” è invece arredata e vissuta, o per identificare documenti e presenze in loco. La Guardia di Finanza può presentarsi presso l’abitazione italiana (se esistente) o la sede di eventuali società del soggetto.
  • Svolgere indagini finanziarie sui conti correnti intestati (anche cointestati) al contribuente in Italia. Tramite l’Archivio dei Rapporti Finanziari, l’Agenzia acquisisce movimenti bancari: se emergono spese di vita in Italia incoerenti con un trasferimento (ad es. pagamenti ricorrenti di utenze domestiche italiane, prelievi bancomat frequenti in Italia, ecc.), questi dati costituiranno prove a carico.
  • Richiedere informazioni ad altre Pubbliche Amministrazioni: ad esempio, chiedere ai Comuni dati su residenza e stato di famiglia (verificando se i familiari sono rimasti in Italia), oppure consultare i registri immobiliari per vedere se il soggetto possiede case in Italia e come le utilizza (es. se le ha date in locazione o risultano sfitte ma con consumi).
  • Attivare lo scambio di informazioni con l’estero: attraverso i canali di cooperazione internazionale, l’Agenzia delle Entrate può chiedere al Paese estero informazioni sulla posizione fiscale del contribuente (es. se ha presentato dichiarazioni dei redditi all’estero, se risulta residente per le autorità locali, se ha immobili o società registrate). Se il Paese estero collabora, le risposte possono fornire elementi chiave. Ad esempio, se l’Ufficio italiano scopre che il contribuente non ha mai presentato tax returns nel Paese in cui afferma di essere residente, questo contraddice la tesi di un effettivo trasferimento.

Tutti gli elementi raccolti – tanto in Italia quanto dall’estero – vengono valutati dall’Ufficio per decidere se vi siano sufficienti indizi di residenza in Italia. La giurisprudenza tributaria richiede che, in assenza di presunzioni legali, l’Amministrazione dimostri la residenza con “elementi gravi, precisi e concordanti”. Esempi di tali elementi probatori (nei casi non-black list) possono essere: la permanenza della famiglia in Italia, la disponibilità di un’abitazione principale in Italia, il centro degli affari economici rimasto in Italia, l’assenza di un’abitazione effettivamente utilizzata all’estero, i movimenti finanziari incoerenti, ecc. In presenza invece della presunzione black list, l’onere è a carico del contribuente; tuttavia, in pratica, l’Ufficio cercherà comunque di raccogliere più elementi possibili per rafforzare la propria posizione, sapendo che in sede contenziosa il giudice valuterà in concreto chi abbia fornito la prova più convincente (essendo la presunzione iuris tantum, il giudice può infatti ritenerla superata se le prove del contribuente prevalgono).

Dall’istruttoria all’avviso di accertamento

Se dall’istruttoria emergono evidenze sufficienti per ritenere che il contribuente fosse in realtà fiscalmente residente in Italia nonostante la formale residenza estera, l’Agenzia delle Entrate procede ad emettere un avviso di accertamento per i periodi d’imposta contestati. In genere verranno accertati:

  • I redditi esteri non dichiarati in Italia, assoggettandoli ad imposta italiana (IRPEF, addizionali) come redditi di un residente. Ad esempio, se il contribuente aveva redditi da lavoro o d’impresa nel Paese estero, e in Italia non li ha dichiarati ritenendosi non residente, l’atto li recupererà a tassazione integrale (salvo applicazione di eventuali crediti d’imposta per imposte pagate all’estero, se riconosciuti).
  • Le sanzioni per omessa o infedele dichiarazione: tipicamente la mancata dichiarazione di redditi esteri configura dichiarazione infedele (se il contribuente ha comunque presentato la dichiarazione dei redditi in Italia, ma omettendo quelli esteri) ovvero omessa dichiarazione (se non ha presentato affatto la dichiarazione ritenendo di non esservi tenuto). Le sanzioni amministrative vanno dal 90% al 180% dell’imposta evasa per infedele, e dal 120% al 240% (minimo €250) per omessa dichiarazione. Inoltre, per l’omessa compilazione del Quadro RW (monitoraggio attività estere) è prevista una sanzione dal 3% al 15% dell’importo non dichiarato (raddoppiata dal 6% al 30% se le attività sono in Paesi black list). Tali sanzioni sono cumulabili e di natura tributaria (amministrativa).
  • Interessi di mora calcolati sulle imposte non versate, dal giorno in cui erano dovute (in base ai vari tassi legali annuali).

Inoltre l’ufficio indicherà nell’avviso i motivi della rettifica, ossia gli elementi fattuali e giuridici su cui fonda la contestazione di residenza (esempio: “il contribuente, pur formalmente residente in X, ha mantenuto in Italia il centro dei propri interessi per le seguenti ragioni…”). Una motivazione dettagliata è necessaria a pena di nullità dell’avviso: se l’atto non espone chiaramente le ragioni per cui l’Agenzia ritiene sussistente la residenza in Italia, il contribuente potrà eccepirne l’annullamento per difetto di motivazione (ex art. 42 DPR 600/73). In genere però, soprattutto in casi complessi come questi, gli uffici curano molto la motivazione, elencando i fatti accertati (es. “moglie e figli residenti in Italia alla data X”, “utenze attive presso immobile in Italia con consumi Y”, “assenza di stabile dimora all’estero comprovata da…”, “mancata presentazione di prova di iscrizione all’AIRE nel periodo”, “trasferimento in Paese inserito nella lista di cui al DM 4/5/99”, ecc.) e allegando la documentazione raccolta o richiamando i verbali della Guardia di Finanza.

Esempio pratico: Tizio, cittadino italiano, si trasferisce formalmente nel Principato di Monaco nel 2019, iscrivendosi all’AIRE. La moglie e i figli però restano a Roma, dove Tizio mantiene la villa di famiglia; inoltre Tizio continua a comparire come amministratore di società italiane e rientra in Italia molto spesso. L’Agenzia avvia un controllo: dal questionario emerge che la famiglia è in Italia, si scopre che le carte di credito di Tizio hanno spese mensili in Italia e che la casa a Roma risulta abitata e con consumi elevati. Monaco è nella black list, quindi opera la presunzione di residenza italiana. Difesa di Tizio: prova a sostenere che viveva a Montecarlo dove aveva un appartamento in affitto, ma fornisce poche prove (contratto di affitto estero prodotto tardivamente, nessuna iscrizione a circoli o comunità locale, passaporto con pochi timbri di uscita dall’Italia). Esito probabile: la presunzione non viene vinta. L’Agenzia emette accertamento per il 2019–2020, considerando Tizio residente in Italia e tassando i redditi esteri (p.es. dividendi da una società monegasca) che Tizio non aveva dichiarato. In sede di ricorso, la Corte di Giustizia Tributaria conferma la residenza in Italia: seguendo un orientamento costante, viene ritenuto che Tizio avesse in Italia il suo centro degli interessi economici e familiari, prevalenti su qualsiasi legame con Monaco. (Situazione analoga è stata affrontata dalla Cassazione con la sentenza n. 19843/2024, riguardante un contribuente formalmente residente a Montecarlo ma con famiglia e affari in Italia, in cui la Corte ha confermato la residenza italiana).

Esempio pratico 2: Caio, alto dirigente d’azienda, si trasferisce nel Emirati Arabi Uniti (Dubai) nel 2023, spostando l’intera famiglia e iscrivendosi all’AIRE. Gli Emirati sono nella black list italiana, ma tra Italia ed Emirati vige una Convenzione contro le doppie imposizioni dal 1995. Caio trascorre meno di 30 giorni l’anno in Italia per vacanza, ha venduto la casa in Italia e si è integrato a Dubai (ha una villa in affitto, figli in scuole locali). L’Agenzia avvia un accertamento perché il reddito di lavoro dipendente percepito da Caio a Dubai non è stato dichiarato in Italia nel 2024. Di fronte alla presunzione di residenza (Paese BL), Caio invoca i criteri della Convenzione Italia–Emirati: dimostra di avere negli Emirati la dimora permanente e gli interessi familiari, e inoltre gli Emirati (pur non avendo imposta sul reddito delle persone fisiche) lo considerano fiscalmente residente in base alla propria legge. Esito: la presunzione viene superata in virtù del tie-breaker convenzionale: Caio è riconosciuto residente negli Emirati. Il reddito di lavoro dipendente da attività svolta a Dubai risulta tassabile esclusivamente negli EAU e quindi l’accertamento viene annullato. Questo esito è coerente con la giurisprudenza più recente: la Cassazione (sent. n. 35284 del 18/12/2023) ha chiarito che la presunzione di residenza art.2 c.2-bis può essere vinta applicando i criteri della Convenzione contro le doppie imposizioni – art. 4 OCSE – anche se nel Paese estero il contribuente non paga un’imposta sul reddito (basta che sia soggetto potenziale alla fiscalità locale). In casi del genere, dunque, il Trattato internazionale prevale sulla normativa interna anti-elusiva, riconoscendo la residenza estera con conseguente esclusiva tassazione nello Stato estero.

Nota: come si evince dagli esempi, la presenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e il Paese estero gioca un ruolo chiave. In assenza di Convenzione (es. Paesi come Monaco, o molti micro-Stati caraibici), la controversia sarà risolta solo in base al diritto interno (criteri del TUIR) e la presunzione black list pone un fardello probatorio considerevole sul contribuente. Invece, se esiste un Trattato, il contribuente può far valere le tie-breaker rules per dimostrare la propria residenza all’estero. La Cassazione ha ormai affermato esplicitamente che le norme convenzionali prevalgono anche nei confronti di Stati black list, a condizione che il soggetto sia effettivamente considerato residente dall’altro Stato (anche solo in termini di potestà impositiva potenziale, come visto per gli Emirati). Approfondiremo più avanti come sfruttare questo elemento in sede di difesa.

Termini di accertamento e annualità accertabili

Un aspetto importante per il contribuente è capire fino a quanti anni pregressi l’Agenzia può contestare redditi esteri non dichiarati. I termini di decadenza per l’accertamento delle imposte sui redditi sono, in generale: 5 anni dopo l’anno di presentazione della dichiarazione (in caso di dichiarazione infedele) oppure 7 anni dopo l’anno in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (in caso di omessa dichiarazione). Ad esempio, per l’anno d’imposta 2018, se il contribuente ha presentato dichiarazione in Italia ma omettendo redditi esteri (infedele), il termine scade al 31/12/2024; se non ha proprio presentato dichiarazione (omessa), al 31/12/2025.

In passato esisteva un raddoppio dei termini per i redditi/attività detenuti in Paesi black list: il D.L. 78/2009 prevedeva che, in caso di investimenti o attività estere non dichiarate in Paesi a fiscalità privilegiata, i termini raddoppiassero (arrivando quindi a 10 anni e 14 anni rispettivamente). Questa norma, tuttavia, è stata abrogata a decorrere dal periodo d’imposta 2016 (Legge 208/2015). Pertanto per gli anni dal 2016 in poi valgono i termini ordinari (5 e 7 anni). Per gli anni precedenti al 2016, l’Agenzia ha potuto beneficiare del raddoppio se la notifica dell’atto avveniva oltre i termini brevi ma entro quelli raddoppiati (in presenza di violazioni connesse a paradisi fiscali). Ad esempio, se il contribuente aveva attività non dichiarate alle Cayman nel 2014, l’accertamento poteva essere notificato fino al 31/12/2022 grazie al raddoppio. In sede di difesa, verificare il rispetto dei termini è fondamentale: qualora l’avviso sia stato notificato oltre il termine decadenziale applicabile, esso è nullo per decadenza.

(Si segnala per completezza che, secondo la Circolare Ag. Entrate 19/E/2017, nel conteggiare i termini raddoppiati pre-2016 si teneva conto anche dell’eventuale voluntary disclosure: ma trattandosi di situazioni molto particolari ed essendo tali finestre ormai chiuse, sorvoliamo su questi dettagli.)

Come difendersi: strategie e onere della prova del contribuente

Passiamo ora al cuore della questione: come impostare una difesa efficace di fronte a un’accertata contestazione di residenza fiscale in Italia, specialmente nei casi di trasferimento in Paesi black list. La difesa si gioca sia sul piano fattuale-probatorio (dimostrare con evidenze concrete la propria effettiva residenza all’estero) sia sul piano giuridico-procedurale (far valere diritti, garanzie e strumenti processuali a tutela del contribuente). Esamineremo entrambi i profili.

Prova contraria: quali elementi possono vincere la presunzione

Di fronte a una presunzione legale di residenza (Paese black list) oppure, in generale, a una contestazione di residenza estera, il contribuente deve mettere in campo prove solide e coerenti a supporto della propria tesi (residenza effettivamente trasferita all’estero). La Cassazione ha affermato – specularmente a quanto richiesto al Fisco – che servono elementi “gravi, precisi e concordanti” anche da parte del contribuente per ribaltare la presunzione nei Paesi black list. In pratica, bisogna convincere l’Amministrazione finanziaria (o in ultima analisi il giudice) che il contribuente ha stabilito all’estero il centro effettivo della sua vita personale ed economica, senza mantenere in Italia legami significativi.

Ecco alcuni elementi probatori chiave che il contribuente dovrebbe raccogliere e produrre:

  • Abitazione principale all’estero: dimostrare di disporre di un’abitazione effettivamente utilizzata nel Paese estero (contratto di acquisto o locazione di una casa, bollette e utenze intestate che attestino consumi e presenza in loco). Se ad esempio l’interessato ha comprato casa a Dubai o affittato un appartamento stabile a Lugano, occorre fornire i relativi contratti e magari ricevute di pagamento utenze, foto dell’immobile, ecc.
  • Trasferimento del nucleo familiare: la presenza della famiglia (coniuge, figli) nel Paese estero è forse la prova più efficace della genuinità del trasferimento. Documentare che i figli sono iscritti a scuole estere, che l’eventuale coniuge lavora o risiede anch’egli all’estero, aiuta enormemente. Viceversa, se la famiglia resta in Italia, la difesa si complica molto (il centro degli interessi affettivi resta in Italia, un elemento che i giudici reputano spesso prevalente).
  • Attività lavorativa/professionale principale all’estero: esibire il contratto di lavoro estero, buste paga, lettera di assunzione, o – per imprenditori – atti costitutivi di società estere, visure camerali del Paese estero con cariche ricoperte. Se il contribuente ha avviato un’impresa all’estero, presentare bilanci, fatture, sito web dell’attività, ecc. Tutto ciò dimostra che la fonte dei redditi è effettivamente estera e radicata lì.
  • Iscrizioni e integrazione locale: ad esempio l’iscrizione al sistema sanitario estero o a enti previdenziali locali, l’apertura di conti correnti esteri (con evidenze di spese correnti all’estero), l’eventuale ottenimento di una carta di soggiorno o cittadinanza, l’iscrizione a circoli, associazioni sportive o professionali nel Paese estero. Anche piccoli dettagli aiutano: ad es. l’iscrizione dell’auto con targa straniera, la stipula di polizze assicurative estere, abbonamenti locali (palestra, pay-tv locale). Tutto serve a dipingere un quadro di radicamento all’estero.
  • Assenza (o dismissione) di legami in Italia: parallelamente, è importante provare di avere reciso o quantomeno attenuato i legami con l’Italia. Ad esempio: aver venduto o affittato a terzi la precedente casa in Italia (così da non averne disponibilità), aver chiuso le utenze o ridotto al minimo indispensabile i consumi, aver ceduto partecipazioni societarie o incarichi amministrativi in società italiane (o quantomeno dimostrato di non partecipare attivamente alla loro gestione). Se qualche interesse in Italia permane (es. un immobile non venduto), occorre fornire spiegazioni plausibili sul perché non intacchi la residenza (magari è dato in affitto a lungo termine, oppure è inutilizzato ma conprove di non utilizzo personale).
  • Documentazione di viaggio e presenza fisica: per corroborare la propria tesi, può essere utile ricostruire i periodi di permanenza nei vari luoghi. Ad esempio, raccogliere timbri sul passaporto, carte d’imbarco di voli aerei, estratti conto che mostrino spese con carta di credito effettuate all’estero vs in Italia. Questo per dimostrare che si è trascorso meno di 183 giorni in Italia e la maggior parte dell’anno nel nuovo Paese. Con la normativa 2024, la presenza fisica è diventata criterio autonomo: se il Fisco sostiene che il soggetto era presente in Italia oltre metà anno, il contribuente deve smentirlo con un calendario preciso dei propri spostamenti (magari supportato da timbrature di lavoro, utilizzo di carte, celle telefoniche, ecc.).

Tutta questa mole di prove va idealmente predisposta sin dal momento del trasferimento. Il consiglio, per chi intende trasferirsi in un Paese a rischio black list, è di curare sia la forma che la sostanza sin dall’inizio: iscriversi immediatamente all’AIRE, trasferire effettivamente famiglia e interessi, tenere traccia di ogni evidenza della nuova vita all’estero e, se possibile, farsi assistere da un professionista in fase di pianificazione. Prevenire è meglio che curare: molto spesso le contestazioni nascono da superficialità (es. continuare a usare la vecchia casa in Italia per comodità, o non aprire un conto nel Paese estero e pagare tutte le spese col vecchio conto italiano, ecc.). Ogni connessione con l’Italia lasciata aperta sarà un appiglio per il Fisco.

Esempio (nuova norma 2024): un cittadino italiano si trasferisce formalmente in Portogallo a gennaio 2024, iscrivendosi all’AIRE. Tuttavia torna in Italia molto frequentemente: somma circa 190 giorni di presenza in Italia nel 2024 (pur frazionati). Nonostante la residenza anagrafica estera, in base al nuovo art. 2 TUIR – criterio di presenza fisica – sarà considerato comunque residente fiscale in Italia per il 2024, avendo passato più di metà anno sul suolo italiano. Conseguenza: dovrà dichiarare in Italia anche i redditi eventualmente prodotti in Portogallo. Questo esempio sottolinea l’importanza di limitare le permanenze in Italia dopo l’espatrio: “fare avanti e indietro” frequentemente potrebbe vanificare gli sforzi di trasferimento, ora che la legge lo prevede espressamente.

La difesa nei confronti della presunzione black list consiste dunque nel costruire un dossier di controprove tale da neutralizzare gli indizi accumulati dall’ufficio. Se le prove prodotte dal contribuente risultano più persuasive e mostrano un radicamento estero genuino, l’ufficio dovrà prenderne atto e riconoscere la non residenza, disapplicando la presunzione iniziale (in autotutela o in sede contenziosa).

Va segnalato che quando è in gioco una Convenzione contro le doppie imposizioni, una strategia difensiva efficace è quella di inquadrare il caso nei termini della Convenzione stessa. Ad esempio, se c’è conflitto di doppia residenza, applicare nell’argomentazione gli articoli 4(2) e seguenti del modello OCSE (tie-breaker: casa permanente, centro interessi vitali, soggiorno abituale, cittadinanza) e mostrare che portano a individuare come Stato di residenza quello estero. Se il Fisco non ha considerato affatto la Convenzione, ciò costituisce un vizio anche di diritto dell’atto (violazione di norma internazionale prevalente). Cassazioni come la n. 24246/2015 e la n. 35284/2023 hanno dato ragione al contribuente proprio perché la Convenzione assegnava la residenza all’estero, prevalendo sulle presunzioni interne. Dunque, conoscere i propri diritti convenzionali è fondamentale: a volte i funzionari non tengono pienamente conto di questi aspetti internazionali, e spetta al contribuente (o al suo difensore) richiamarli con forza.

In conclusione, l’onere della prova varia a seconda dei casi: se il Paese non è black list, formalmente è il Fisco che deve provare la residenza in Italia, ma di fatto il contribuente dovrà comunque difendersi portando contro-elementi; se il Paese è black list, i ruoli si invertono e sarà il contribuente a dover attivamente dimostrare la propria non-residenza italiana. In giudizio, comunque, il giudice tributario valuterà il complesso delle prove offerte da entrambe le parti secondo il criterio del “più probabile che non”. Pertanto conviene sempre presentare il massimo delle evidenze possibili a proprio favore, indipendentemente da chi abbia l’onere iniziale.

Tattiche difensive in sede amministrativa

Prima di arrivare al contenzioso vero e proprio, vi sono alcune mosse difensive che il contribuente può attuare nella fase amministrativa (cioè davanti all’ufficio accertatore):

  • Rispondere compiutamente al questionario e al contraddittorio endoprocedimentale. Come già detto, ignorare le richieste istruttorie dell’ufficio è sconsigliabile. Invece, fornire già in questa fase documenti e spiegazioni può talvolta convincere l’ufficio a non procedere. È bene inviare le risposte per iscritto, in modo protocollato, conservandone copia. Se l’ufficio convoca per un’intervista, ci si può far assistere da un professionista. Ogni elemento fornito sarà vagliato: è importante non dichiarare il falso (vi sono anche sanzioni penali per false dichiarazioni), ma allo stesso tempo enfatizzare gli aspetti favorevoli. Ad esempio, se si possiede ancora una casa in Italia ma la si è data in affitto, allegare il contratto di locazione registrato e spiegare che l’immobile è a disposizione del terzo conduttore – così da disinnescare il sospetto che la si usi personalmente. Se si è trascorso poco tempo in Italia, quantificarlo con riferimenti concreti (biglietti aerei, timbri doganali).
  • Istanze di autotutela: Se l’avviso di accertamento è già stato emesso (o sta per esserlo), il contribuente può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio, chiedendo l’annullamento totale o parziale dell’atto in via di autotutela. L’autotutela è a discrezione dell’Amministrazione (salvo casi obbligatori per legge, non usuali qui), ma tentarla è sempre opportuno qualora vi siano errori evidenti nell’atto. Ad esempio, se l’ufficio ignorava l’esistenza di una Convenzione e il contribuente glielo fa notare allegando il testo e magari un’interpello risolto favorevolmente in caso analogo, potrebbe ricredersi e annullare/riformare l’atto. La Circolare AE n. 21/E del 7/11/2024 ha incoraggiato gli uffici a usare di più l’autotutela per evitare contenziosi inutili in presenza di errori palesi. In materia di residenza, un caso di autotutela “tipico” potrebbe essere: contribuente che vince in primo grado in Commissione Tributaria con sentenza chiara a suo favore – l’ufficio, anziché appellare prolungando la causa, decide di adeguarsi e annullare l’atto riconoscendo la residenza estera. Sono situazioni rare ma non impossibili, specie con l’evolversi delle norme sulla responsabilità dei funzionari in caso di liti perse. In ogni caso, l’istanza di autotutela va presentata, perché non preclude comunque la possibilità di ricorso (se l’ufficio la ignora o la respinge, si procederà in Commissione).
  • Accertamento con adesione: Dopo la notifica dell’avviso, prima di fare ricorso, il contribuente ha la facoltà di avviare una definizione concordata presentando istanza di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). In questo procedimento l’ufficio e il contribuente si siedono ad un tavolo per eventualmente “trattare” una riduzione delle pretese (soprattutto sanzioni) ed evitare il giudizio. Nelle contestazioni di residenza, però, è raro trovare un accordo intermedio: o il contribuente è residente o non lo è, tertium non datur, e le somme in ballo spesso sono elevate. Tuttavia, l’adesione può essere utile se il contribuente intende chiudere la vicenda evitando rischi: ad esempio, può proporre di pagare le imposte ma con sanzioni ridotte ad un terzo (beneficio previsto dalla legge in caso di adesione) e senza ulteriori liti. È una scelta da valutare caso per caso, considerando anche il profilo penale: una definizione con adesione estingue il debito tributario ma non estingue il reato eventualmente configurabile (omessa dichiarazione), sebbene in genere l’adesione riduca l’imposta evasa sotto soglia penale. Quindi va ponderata con l’avvocato se è opportuna.
  • Acquiescenza e ravvedimento: Se il contribuente riconosce di essere effettivamente in torto (magari perché l’accertamento verte su questioni oggettive difficilmente contestabili), può valutare l’acquiescenza (pagamento entro 60 giorni con sanzioni ridotte a 1/3) o persino un ravvedimento operoso per regolarizzare annualità non ancora contestate (specie sul monitoraggio RW). Queste opzioni permettono di ridurre le sanzioni. È chiaro che ciò vale se il contribuente sa di non poter dimostrare la residenza estera: in tal caso, la strategia potrebbe essere ridurre i danni economici anziché ingaggiare una causa persa. Se invece il contribuente ha buone argomentazioni, conviene non arrendersi e procedere col ricorso per ottenere l’annullamento completo.

Il contenzioso tributario: ricorso, processo e prove

Se non si è trovata soluzione in via amministrativa, l’ultimo baluardo è il ricorso alla giustizia tributaria. Vediamo gli aspetti principali della difesa in giudizio:

  • Presentazione del ricorso: Il contribuente ha 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento per presentare ricorso presso la competente Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado (nuova denominazione dal 2023 delle Commissioni Tributarie). La competenza territoriale, nei casi di residenza, è di regola quella dell’ultimo domicilio fiscale noto in Italia del contribuente (ossia la sede dell’ufficio che ha emesso l’accertamento). Il ricorso è un atto scritto, da notificare all’Agenzia e poi depositare, contenente i motivi di fatto e di diritto per cui si contesta l’atto. È fondamentale che nel ricorso siano articolate tutte le eccezioni: ad esempio, si dedurrà che il contribuente non soddisfaceva i criteri dell’art.2 TUIR per la residenza in Italia in quell’anno; che l’ufficio ha mal applicato la presunzione art.2 co.2-bis perché il contribuente ha fornito prova contraria ignorata o sottovalutata; eventualmente che vi è violazione della Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni (se applicabile) in quanto l’Italia non risulta lo Stato di residenza secondo i criteri convenzionali. Si allegheranno al ricorso tutti i documenti utili a supporto (contratti, certificati esteri, bollette, ecc. presentati magari già in istruttoria, oltre a quelli nuovi). È buona prassi richiamare precedenti giurisprudenziali favorevoli analoghi, per orientare il giudice: le sentenze di Cassazione soprattutto possono essere citate a sostegno. Ad esempio, si potrà citare Cass. n. 24246/2015 per l’idea di prevalenza dei criteri convenzionali (utile in caso di trattato), oppure Cass. 21694/2020 che ribadisce come l’iscrizione AIRE non sia decisiva se rimane il domicilio in Italia, o ancora Cass. 32975/2018 (caso di imprenditore a Montecarlo, in cui vinse il Fisco per via dei sostanziali interessi economici rimasti in Italia). Citare sentenze non è obbligatorio ma aiuta a dare forza alla tesi, mostrando che non è isolata ma già riconosciuta da altri giudici.
  • Sospensione della riscossione: L’avviso di accertamento oggi è immediatamente esecutivo decorsi 60 giorni dalla notifica. Significa che, se non si paga o non si ottiene sospensione, l’Agenzia potrebbe iniziare a riscuotere coattivamente un importo pari ad almeno 1/3 delle imposte contestate anche durante il processo. Per evitare effetti rovinosi, il contribuente può presentare istanza di sospensione al giudice tributario, tipicamente insieme al ricorso, allegando la prova che: (a) il ricorso non è infondato (fumus boni iuris) e (b) l’esecuzione immediata dell’atto causerebbe un danno grave (periculum in mora), ad esempio metterebbe a rischio la sua situazione economica. Nelle cause di residenza, spesso le somme richieste sono molto alte (più anni di imposte su redditi esteri, con sanzioni), il che giustifica la sospensione. Il giudice, se trova ragionevoli i motivi e il pericolo, emette un’ordinanza di sospensione temporanea fino all’esito della causa di primo grado. Inoltre, va ricordato che la riforma del 2023 ha introdotto una tutela ulteriore: se il contribuente vince in primo grado, l’esecuzione resta sospesa automaticamente per l’appello (l’Erario non può pretendere pagamenti fino a che non vinca eventualmente in appello). Questo allevia la pressione sul contribuente vittorioso in primo grado, mentre se invece il contribuente perde in primo grado dovrà versare quanto dovuto (di solito i 2/3 residui) per proseguire in appello.
  • Fase di trattazione e decisione: Nel merito, il giudizio tributario verte soprattutto sulla valutazione delle prove. La caratteristica del processo tributario (diversamente dal penale) è la libertà di formazione del convincimento del giudice sulla base di qualsiasi elemento probatorio, anche presunzioni semplici e documenti, senza formalità particolari (non ci sono testimoni giurati, ma si possono produrre dichiarazioni scritte, perizie di parte, ecc.). In queste cause di residenza il giudice dovrà comparare le risultanze fornite dall’ufficio e quelle fornite dal contribuente. Se il Paese era black list, l’onere probatorio era a carico del contribuente, ma ciò non toglie che se il Fisco non ha portato nulla a sostegno la sua posizione è debole. Se il Paese non era black list, formalmente doveva provare il Fisco, ma in pratica se il contribuente non ha prodotto alcuna prova contraria rischia di perdere. Dunque tutto dipende da cosa c’è sul tavolo delle prove. È un contenzioso di merito dove contano i fatti: il giudice professionale (dal 2023 i giudici tributari sono togati o equiparati) valuterà con la sua sensibilità. Alcuni giudici tendono a dare peso alle formalità (es. iscrizione anagrafica, residenza dichiarata), altri guardano più alla sostanza economico-familiare. Molto dipenderà dalla qualità e quantità della documentazione prodotta. Un contribuente ben assistito, che presenta un dossier completo a suo favore, avrà buone chance di successo; viceversa, difese generiche e non suffragate da documenti difficilmente convinceranno il giudice. L’esito in primo grado potrà essere: accoglimento totale del ricorso (annullamento dell’accertamento, riconoscimento della residenza estera), rigetto totale (conferma integrale dell’accertamento) oppure soluzioni intermedie (es. annullamento per alcuni anni e conferma per altri, se erano contestati più anni, oppure riduzione parziale delle sanzioni). Chi risulta soccombente può proporre appello entro 60 giorni alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale). Infine, dopo l’appello, l’eventuale ulteriore impugnazione è il ricorso per Cassazione (ammesso solo per motivi di diritto, non sulle valutazioni di fatto). L’intero iter può durare diversi anni (mediamente 2-3 anni per ogni grado), salvo deflazioni o definizioni stragiudiziali nel frattempo.
  • Spese e rischi accessori: Va considerato che, oltre alle imposte e sanzioni, sono in gioco le spese processuali (in caso di sconfitta, il giudice può condannare il contribuente a rifondere le spese legali all’Agenzia, e viceversa in caso di vittoria può disporre il contrario). Inoltre, come detto, se la pretesa supera certe soglie, la vicenda può avere strascichi penali: per omissione di dichiarazione (imposta evasa > €50.000) o dichiarazione infedele (imposta evasa > €100.000 e oltre il 10% del reddito). Il processo penale segue vie separate, ma un’eventuale sentenza penale (di condanna o assoluzione) può influire psicologicamente o indirettamente sul giudice tributario e viceversa. Ad esempio, se in sede penale il contribuente viene assolto perché il fatto non costituisce reato (mancanza di dolo, magari perché credeva in buona fede di non essere residente), ciò non annulla automaticamente il debito fiscale, ma è un elemento che la difesa potrà enfatizzare anche in sede tributaria. All’opposto, una condanna penale per evasione qualora definitiva può rendere più difficile sostenere l’assenza di volontarietà in Commissione. In ogni caso, se c’è un procedimento penale parallelo, è indispensabile coordinare la difesa (solitamente gli argomenti sono gli stessi: il contribuente dirà in entrambi i fori che era non residente, quindi non ha omesso nulla). Da notare che definire la questione in sede tributaria con pagamento (adesione, acquiescenza, ecc.) non estingue automaticamente il reato, ma certamente, eliminando l’evasione d’imposta, può facilitare percorsi risolutivi nel penale (es. applicazione della particolare tenuità, o cause di non punibilità per pagamento integrale di quanto dovuto, introdotte dal d.lgs. 74/2000 per alcuni reati tributari).

Consiglio: in caso di procedimento penale connesso (ad esempio per omessa dichiarazione), affidarsi a un avvocato penalista coordinato col tributarista. Le due vicende viaggiano separate ma con punti di contatto: una solida prova sulla residenza estera presentata nel processo tributario potrà essere utilizzata anche nel penale per escludere il dolo, e viceversa la dimostrazione nel penale che l’imputato era in buona fede potrà essere spesa nel tributario per sostenere l’assenza di intenti elusivi.

Riepilogo delle difese operative del contribuente

In questa sezione concludiamo elencando in punti sintetici alcuni consigli operativi per chi voglia difendersi efficacemente da un accertamento basato sulla residenza fiscale italiana nonostante espatrio:

  • Curare le apparenze formali tanto quanto la sostanza: se si decide di trasferirsi all’estero, adempiere scrupolosamente a tutte le formalità (cancellazione anagrafica, iscrizione AIRE, comunicazione all’ASL, ecc.) e contemporaneamente trasferirsi davvero con famiglia e interessi. Una trascuratezza burocratica può costare caro: ad esempio dimenticare l’iscrizione AIRE può, da solo, far perdere la causa per gli anni fino al 2023. Dal 2024, pur essendo presunzione relativa, resta comunque un fattore di sospetto.
  • Minimizzare le connessioni con l’Italia: prima di espatriare fare un “check-up” delle proprie radici in Italia. Ci sono immobili, conti, cariche sociali, investimenti che rimarrebbero in patria? Se sì, pianificare come gestirli: vendere o affittare gli immobili, chiudere conti non necessari, dimettersi da cariche attive, ecc. Più legami si lasciano, più difficile sarà poi sostenere di essersi davvero distaccati. (Ovviamente qualche collegamento può permanere, ma l’importante è che non configuri un centro di interessi attivo – ad esempio si può mantenere una piccola partecipazione passiva, ma non continuare a dirigere di fatto una società italiana).
  • Tenere traccia di tutto fin dall’inizio: costruirsi un archivio personale con tutta la documentazione che prova la vita all’estero. Contratti di casa, iscrizioni scolastiche, ricevute di trasloco, abbonamenti, tessere sanitarie estere, visti sul passaporto, bollette estere pagate, ecc. A distanza di anni, quando arriverà magari un controllo, sarà prezioso avere a disposizione queste prove senza doverle rincorrere (alcune cose potrebbero non essere più recuperabili in seguito). Un esempio concreto: molti dimenticano di conservare le carte d’imbarco dei voli o le ricevute del telepedaggio autostradale – documenti che invece possono dimostrare i giorni di presenza in un luogo.
  • Rispondere alle comunicazioni del Fisco e mantenere un dialogo aperto: non fare l’errore di sparire. Se si riceve un questionario o una convocazione, rispondere nei termini (anche per evitare eventuali presunzioni di legge sfavorevoli, come l’art. 32 DPR 600/73 che in alcuni casi di mancata risposta a questionari consente al Fisco di considerare non documentati alcuni oneri). Mostrarsi collaborativi ma fermi sulle proprie ragioni: dare spiegazioni, fornire documenti, ma senza cedere su punti non dovuti. Questo atteggiamento può anche predisporre meglio l’ufficio a valutare eventuali integrazioni probatorie.
  • Concretezza nelle prove contrarie: dichiarazioni di intenti o generiche non bastano. Frasi come “mi sentivo residente all’estero” non hanno alcun valore probatorio. Servono pezze d’appoggio oggettive. Se si afferma “non ho abitato la casa in Italia in quel periodo”, sarebbe utile allegare magari una dichiarazione dell’inquilino o dei vicini che confermano che la casa era vuota, oppure provare che la si è data in affitto breve su Airbnb (così non potevi starci tu). Se si sostiene “ho passato 250 giorni all’estero quell’anno”, cercare di ricostruirli con timbri, biglietti, registro ingressi/uscite (la Polizia di Frontiera su richiesta può certificare le transitate ai valichi, almeno per l’UE dove c’è il TCN – sistema di ingressi). Insomma, ogni affermazione va corroborata da evidenze.
  • Valorizzare le norme convenzionali: qualora esista una Convenzione tra Italia e Stato estero, studiarla attentamente (in particolare l’art. 4, e gli articoli sulle varie categorie di redditi: ad es. art. 15 per lavoro dipendente, art. 7 per imprese, art. 23 per eliminazione doppie imposte) e farla valere sin da subito con l’ufficio. Se il funzionario sembra ignorarla, metterglielo per iscritto. In sede di ricorso, dedicare un motivo specifico alla violazione convenzionale può essere decisivo, specialmente se la controparte non la considera a sufficienza.
  • Attenzione al penale (soglie di reato): come detto, se l’importo evaso è rilevante, dietro l’angolo c’è la denuncia penale. Il contribuente deve essere conscio che se sa di aver evaso cifre grosse, potrebbe valutare di ridurre l’evaso sotto soglia (ad esempio presentando una dichiarazione integrativa tardiva per uno degli anni, pagando qualcosa, in modo da far scendere l’imposta evasa sotto €50.000 per anno). Questo rientra in valutazioni strategiche da fare con l’avvocato: a volte “cedere” qualcosa sul piano tributario può salvare da un procedimento penale lungo e incerto.
  • Professionisti competenti al fianco: di fronte a contestazioni complesse come la residenza fiscale internazionale, è cruciale farsi assistere da consulenti esperti di fiscalità internazionale e contenzioso. Un avvocato tributarista o un commercialista esperto in espatri saprà quali documenti raccogliere, quali argomenti giuridici sollevare, e potrà interloquire efficacemente con l’ufficio o in giudizio. Il costo della difesa professionale è spesso ampiamente giustificato dalle somme in gioco e dalla difficoltà tecnica della materia.

Seguendo questi principi, un contribuente onesto che effettivamente risiede all’estero potrà vedere riconosciute le proprie ragioni e tutelare i propri redditi esteri dalla doppia tassazione italiana. Viceversa, chi ha simulato l’espatrio dovrà realisticamente valutare i rischi di una capitolazione: la legge oggi offre strumenti affinché chi ha tentato furbescamente di sottrarsi al fisco venga riportato all’ovile, con tanto di sanzioni e interessi (oltre a possibili conseguenze penali per gli abusi più gravi).

Domande frequenti (FAQ)

D: Quali sono i principali Paesi black list secondo la normativa italiana?
R: Sono considerati Paesi a fiscalità privilegiata (black list) quelli elencati nel D.M. 4 maggio 1999 e aggiornamenti. Tra i principali figurano: Principato di Monaco, vari paradisi caraibici (come Bahamas, Barbados, Isole Cayman, Panama, etc.), alcuni Stati del Medio Oriente e Asia (es. Emirati Arabi Uniti, Oman, Singapore, Hong Kong), micro-Stati europei (es. Andorra, Liechtenstein) e altri territori offshore. La lista completa conta oltre 50 nomi (vedi tabella sopra). Negli ultimi anni molti Paesi ne sono usciti grazie ad accordi (es. Svizzera dal 2024 non è più black list). Se un Paese non è in tale elenco, viene considerato “white list” ai fini della presunzione art. 2 c.2-bis TUIR.

D: Trasferirsi in un Paese UE (es. Portogallo, Malta, Cipro) comporta rischi simili di presunzione?
R: No, i Paesi UE non sono nella black list del 1999 (nemmeno Malta o Cipro, che pur hanno regimi fiscali agevolati per residenti esteri). Pertanto un trasferimento in un Paese UE (o in generale white list) non attiva la presunzione legale di residenza italiana. Ciò non significa che il Fisco non possa controllare – controllerà comunque se vede situazioni anomale – ma in questi casi spetta all’Agenzia provare che il contribuente in realtà è rimasto residente in Italia. Saranno applicati i criteri ordinari e il Fisco dovrà portare indizi concreti (famiglia in Italia, ecc.) per contestare la residenza estera. In sintesi: con un Paese UE collaborativo la posizione è un po’ più tutelata, ma bisogna comunque trasferire sostanza, perché se si trasferisce solo la residenza formale e si rimane di fatto in Italia, l’accertamento può arrivare lo stesso (senza presunzione, ma con prova fattuale).

D: L’iscrizione all’AIRE basta per evitare problemi col Fisco italiano?
R: No, l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) è necessaria ma non sufficiente. È un passo formale indispensabile per essere considerati non residenti, ma la legge prevede che si possa essere considerati residenti fiscali in Italia anche se iscritti all’AIRE, qualora si conservino in Italia domicilio o dimora abituale. La Cassazione ha più volte ribadito che l’iscrizione all’AIRE di per sé “non salva” se la sostanza indica residenza in Italia. Tuttavia, non iscriversi all’AIRE è ancora peggio: significherebbe restare nell’anagrafe italiana e dunque essere considerati residenti ipso iure (almeno fino al 2023 come criterio assoluto, dal 2024 come forte presunzione). Quindi: iscriversi sempre all’AIRE subito, ma poi comportarsi coerentemente (trasferire effettivamente la vita fuori).

D: Che prove devo raccogliere per dimostrare di non essere più residente in Italia?
R: Bisogna documentare che il centro degli interessi vitali si è spostato all’estero. In pratica: casa e famiglia all’estero, lavoro o attività all’estero, integrazione locale, e parallelamente assenza di casa disponibile in Italia, pochi giorni presenti in Italia, niente famiglia in Italia. Prove utili: contratto di affitto o acquisto casa estera, bollette estere, iscrizione figli a scuola estera, contratto di lavoro estero o licenza di impresa estera, iscrizione al sistema sanitario estero, conti bancari esteri con movimenti di spesa quotidiana, iscrizione ad AIRE (ovviamente), biglietti di viaggio a/r, ricevute che mostrino permanenza all’estero, ecc.. Più prove si hanno, meglio è. Vanno presentate sia in sede di contraddittorio con l’ufficio sia (soprattutto) in sede di ricorso, come allegati.

D: Se il Fisco mi considera ancora residente in Italia, cosa rischio esattamente?
R: Rischi un accertamento fiscale retroattivo su tutti i redditi esteri non dichiarati in Italia per gli anni che risulterai (secondo l’Agenzia) residente. In pratica dovrai pagare le imposte italiane su quei redditi, con aliquote ordinarie IRPEF fino al 43%, oltre a interessi e sanzioni amministrative molto pesanti (vedi sopra: 90-180% imposta evasa per infedele, 120-240% per omessa dichiarazione). Se avevi conti o investimenti esteri non dichiarati (quadro RW), ci sono sanzioni aggiuntive (3-15% del valore, raddoppiate al 6-30% in black list). Inoltre, se l’imposta evasa supera le soglie di rilevanza penale (50.000 € per omessa, 100.000 € per infedele), scatta la denuncia penale: potresti subire un procedimento per reati tributari (ad es. omessa dichiarazione punita con reclusione 2-5 anni se >€50k). Insomma, le conseguenze economiche e legali sono gravissime: si rischiano importi molto elevati e persino la reclusione (anche se quest’ultima in concreto si applica raramente, spesso si arriva a patteggiamenti con pene sospese, ma resta una minaccia seria).

D: Cosa devo fare quando ricevo un questionario dell’Agenzia sulle mie residenze estere?
R: Occorre rispondere con cura e tempestività. Il questionario è spesso il primo segnale di verifica: ignorarlo o rispondere superficialmente aumenterà la convinzione del Fisco che ci sia qualcosa da nascondere. Invece, conviene compilarlo allegando già alcuni documenti chiave (es. copia iscrizione AIRE, contratto affitto estero, ecc.) per mostrare buona fede e solidità. È consigliabile farsi assistere da un professionista nel preparare la risposta, per evitare di fornire involontariamente informazioni ambigue o dannose. Ricorda di spedire il questionario compilato entro la scadenza indicata (generalmente 30 giorni) tramite raccomandata o PEC, conservando prova dell’invio. Spesso il questionario chiede cose come: indirizzo estero, data espatrio, composizione nucleo familiare e dove risiede, informazioni sul lavoro svolto all’estero, proprietà immobiliari in Italia ed estero, utilizzo di carte di credito, etc. Rispondi in modo coerente con la realtà: ogni bugia può essere scoperta attraverso incroci, peggiorando la situazione (fornire false informazioni al Fisco può essere sanzionato). Se non hai tutti i dati in tempo (es. stai aspettando un certificato estero), è meglio dirlo e chiedere un breve rinvio, piuttosto che inventare o saltare la domanda. In sintesi: affronta il questionario come un’interrogazione seria, preparandoti bene e documentando le risposte.

D: Fino a quanti anni indietro può contestare l’Agenzia le mie omissioni sui redditi esteri?
R: Dipende. In generale, l’Agenzia può controllare gli ultimi 5 anni (se presentavi la dichiarazione) o 7 anni (se non la presentavi proprio). Ad esempio, un accertamento notificato nel 2025 può riguardare al massimo l’anno d’imposta 2018 (dich. 2019) se avevi presentato qualcosa, oppure il 2017 (dove la dich. 2018 era omessa). Fanno eccezione le annualità più vecchie dove si applicava il “raddoppio dei termini” per paradisi fiscali: fino al 2015 incluso, se avevi attività/redditi in Paesi black list non dichiarati, l’ufficio poteva andare fino a 10 anni (dichiarazioni infedeli) o 14 anni indietro (omesse). Ma attenzione: questo raddoppio è stato eliminato a partire dai controlli sui periodi 2016 e seguenti. Quindi oggi, per gli anni recenti, ci si attiene ai 5 o 7 anni standard. Esempio: se hai omesso redditi esteri nel 2016 e in Svizzera (che era black list fino al 2018), teoricamente l’ufficio avrebbe potuto notificare fino al 2024 (8 anni dal 2017, anno di scadenza presentazione, in virtù del doppio termine di allora). Ma per 2017 in poi non c’è più raddoppio. In ogni caso, se arriva un accertamento per anni molto lontani (tipo 2010-2011) va controllato attentamente se il termine era raddoppiato e ancora valido oppure se è decaduto. Un bravo difensore verifica sempre la tempistica: se l’avviso è fuori termine, è nullo. Ad esempio, un avviso del 2025 per il 2017 (omessa) sarebbe tardivo, perché 2017+7 = fine 2024.

D: Se esiste un Trattato contro le doppie imposizioni con il Paese dove risiedo, posso evitare la tassazione in Italia nonostante la black list?
R: , un accordo contro le doppie imposizioni può essere l’asso nella manica. Le Convenzioni (come quella Italia–UAE, Italia–Hong Kong, Italia–Singapore, ecc.) contengono criteri per risolvere i conflitti di residenza (art. 4) e assegnare la tassazione dei vari redditi (artt. 6-21 per categorie di reddito). Se in base a questi criteri risulti residente solo nell’altro Stato, l’Italia deve riconoscerlo. Ad esempio, Cassazione 2023 su Emirati Arabi ha stabilito che la presunzione italiana cede di fronte al fatto che la persona era residente negli Emirati secondo la Convenzione. Quindi, in sede difensiva, se c’è un Trattato bisogna invocarlo espressamente: l’accertamento dell’Agenzia sarà illegittimo se ignora la Convenzione. Tuttavia attenzione: bisogna dimostrare di avere i requisiti per essere residente per la Convenzione nell’altro Stato. Spesso le Convenzioni dicono che una persona è residente di uno Stato se ivi soggetta a tassazione illimitata (liable to tax). Se l’altro Stato non tassa i redditi (es. paradiso puro), talvolta il Fisco italiano obiettava che non c’è “dual residence” perché non paghi di là. Ma la Cassazione ha chiarito che conta la soggezione potenziale, non che si paghi effettivamente. Quindi anche in assenza di imposta estera (es. Emirati, Monaco su certi redditi) puoi essere considerato residente lì ai fini del Trattato se ne hai i criteri (casa permanente, interessi vitali, etc.). In definitiva: sì, la Convenzione può farti vincere, ma devi farla valere tu, perché l’Agenzia potrebbe non applicarla spontaneamente (errore che poi puoi far valere come motivo di ricorso).

D: Ho dimenticato di cancellarmi dall’anagrafe italiana (niente AIRE) ma in realtà vivo all’estero: posso ancora difendermi?
R: È molto difficile, ma dal 2024 c’è uno spiraglio. Per gli anni fino al 2023, purtroppo l’iscrizione in anagrafe in Italia ti rende residente fiscale italiano senza scampo: la legge non ammetteva prova contraria su quello. La giurisprudenza equiparava la mancata iscrizione AIRE a residenza in Italia. Se quindi hai dimenticato di iscriverti all’AIRE e l’ufficio se ne accorge, per quegli anni non c’è modo legale di sostenere la residenza estera (anche se di fatto vivevi fuori, la legge era implacabile). Per gli anni 2024+, la nuova norma qualifica l’iscrizione anagrafica come presunzione relativa: in teoria dunque potresti provare che nonostante fossi iscritto in Italia, in realtà risiedevi altrove. In pratica però, pensa a come convincere un giudice: se non ti sei cancellato, per lo Stato eri ufficialmente qui; dovrai portare prove straordinarie per ribaltare questa situazione (es. dimostrare che è stato un errore amministrativo, che tu eri via 365 giorni l’anno e lo puoi provare minutamente). È una strada in salita, sconsigliabile. La cosa giusta è evitare a monte questo scenario: iscriviti sempre all’AIRE quando parti, è un obbligo di legge tra l’altro (va fatto entro 90 giorni dall’espatrio). Se ormai il danno è fatto, preparati ad argomentare che l’omessa iscrizione è stato un disguido ma la tua vita era altrove – e raccogli tutto il possibile a sostegno. Potresti anche provare a sanare tardivamente (iscrizione retrodatata, se l’ufficio consolare acconsente, ma spesso non lo fanno se sono passati anni).

D: Quali sono le soglie penali per omessa o infedele dichiarazione dei redditi esteri?
R: Le soglie sono stabilite dal D.Lgs. 74/2000: omessa dichiarazione se imposta evasa > €50.000 (per singola imposta, quindi IRPEF >50k); dichiarazione infedele se imposta evasa > €100.000 e superiore al 10% del reddito dichiarato (quest’ultima condizione serve a non punire errori marginali su grossi redditi). Nel caso di espatri fittizi, spesso si configura l’omessa dichiarazione, perché il soggetto di solito non presenta affatto la dichiarazione dei redditi in Italia (ritenendo di non doverlo fare). Se l’imposta calcolata sui redditi esteri non dichiarati supera 50mila €, scatta il reato di omessa dichiarazione (pena base 2 anni a 5 anni di reclusione). Ad esempio, redditi esteri per €500.000 l’anno generano IRPEF di circa €200k: è ampiamente sopra soglia, reato configurato. Se invece il soggetto presentava dichiarazione in Italia (magari per redditi italiani minori) ma non includeva quelli esteri, è dichiarazione infedele, soglia 100k. Attenzione: la prescrizione per questi reati è di 8 anni (dich. infedele) o 6 anni (omessa) salvo sospensioni, quindi un procedimento penale potrebbe avviarsi anche dopo diversi anni dall’infrazione. È indipendente dal contenzioso tributario: uno potrebbe vincere in Commissione ma intanto essere sotto processo penale, o viceversa. In caso di contestazioni grosse, conviene far valutare la situazione da un esperto penalista per eventualmente attivare strategie come il pagamento del dovuto (che oggi può attenuare la pena, e per alcuni reati se paghi tutto prima del dibattimento ottieni una causa di non punibilità).

D: Se ho pagato tasse nello Stato estero dove vivevo, dovrò pagarle di nuovo in Italia?
R: In linea di massima, se vieni considerato residente in Italia dovrai dichiarare tutti i redditi, ma avrai diritto a un credito per le imposte pagate all’estero su quei redditi (per evitare la doppia imposizione). Questo se l’Italia ha con quel Paese una Convenzione contro le doppie imposizioni o anche unilateralmente (art. 165 TUIR) riconosce il credito d’imposta. Ad esempio, se hai pagato il 20% di tasse in Country X su un reddito, l’Italia applicherà la sua aliquota (poniamo 43%) ma ti scalerà il 20% già pagato: pagherai la differenza (23%). Tuttavia, va detto, molti paradisi fiscali hanno imposte nulle o basse, quindi spesso non c’è molto credito da scontare e pagherai quasi tutto qui. Inoltre, il credito è limitato all’imposta italiana relativa a quel reddito, e devi documentare quanto hai pagato fuori (es. con certificato del fisco estero). Se non c’è convenzione, l’Italia può non riconoscere crediti per imposte estere. Quindi il rischio doppia tassazione c’è. Nei casi di trasferimenti fittizi in Paesi black list spesso non c’è proprio imposizione estera, quindi in caso di soccombenza pagherai l’intero dovuto in Italia. Un caso particolare: se il reddito estero era una plusvalenza o dividendo da società estera su cui hai già scontato ritenute estere elevate, potresti alla fine pagare poco in Italia grazie al credito. Ma attenzione: se il Paese estero era black list e non ha convenzione, e magari le imposte estere erano sostitutive, l’Italia potrebbe non riconoscere il credito (andando sul tecnico, l’art. 165 TUIR esclude crediti per imposte non similari all’IRPEF). In sintesi: pagare imposte all’estero non ti esonera dal dichiarare in Italia se sei considerato residente, ma ti evita almeno la doppia imposizione integrale, consentendo un accredito in diminuzione.

D: Ho ricevuto un accertamento per redditi esteri: mi conviene fare ricorso o trattare?
R: Dipende dalle tue prove e dalla forza del caso. Se sei convinto di avere ragione (residenza effettiva estera) e hai buone prove, generalmente conviene presentare ricorso e far valere i tuoi diritti fino in fondo. Le Commissioni Tributarie (ora Corti di Giustizia) in molti casi hanno dato ragione ai contribuenti che dimostravano un reale trasferimento (ci sono sentenze favorevoli, ad es. una CTR Lombardia 2019 sul caso di un calciatore trasferito all’estero con famiglia, annullato l’accertamento). Quindi non bisogna scoraggiarsi: se hai un dossier solido, il giudice terzo potrebbe ribaltare la pretesa fiscale. D’altro canto, se la tua posizione è oggettivamente indifendibile (es. hai simulato tutto, zero prove di vita all’estero, famiglia in Italia ecc.), allora il ricorso rischia di essere tempo perso e aggravare spese. In questi casi può aver senso cercare un accordo con l’Agenzia: l’accertamento con adesione ad esempio riduce le sanzioni di 1/3 e puoi magari spuntare qualche sconto presentando alcune evidenze (es. “okay ero residente, però quel reddito l’ho già tassato in parte all’estero, riconoscetemi questo credito…”). Valuta anche il profilo psicologico: se temi molto il penale, definire presto la questione tributaria può mettere te in luce di buona volontà (anche se legalmente non estingue il reato, può influenzare positivamente). In generale il consiglio è: consulta un esperto per un parere sulle probabilità di vittoria in giudizio. Se la probabilità è alta, vai avanti col ricorso; se è bassa, negozia il meglio possibile. Tieni presente che l’Agenzia in adesione non potrà mai eliminare l’imposta interamente se davvero eri residente secondo loro – al massimo toglie sanzioni e forse qualche anno borderline. Quindi l’adesione ha senso se vuoi chiudere subito pagando il dovuto con sconti sulle pene pecuniarie. Se invece vuoi far valere un principio (non eri residente), devi litigare in commissione.

D: In tutto questo, quanto conta rivolgersi a un professionista specializzato?
R: Moltissimo. Le questioni di residenza fiscale internazionale sono tra le più complesse in ambito tributario: intrecciano diritto interno, convenzioni internazionali, analisi fattuali minuziose e procedure sia tributarie che penali. Un errore nelle scelte può costare caro (in senso letterale). Un avvocato tributarista esperto di fiscalità internazionale saprà indirizzarti al meglio: ad esempio quali documenti raccogliere, come rispondere ai funzionari, quali eccezioni sollevare, come impostare il ricorso citando le giuste sentenze, come chiedere la sospensione, ecc. Inoltre può coordinare la difesa penale se necessario. Considera che spesso le somme in gioco sono elevatissime (centinaia di migliaia di euro): investire in una difesa tecnica qualificata è quasi obbligatorio in questi scenari. Certamente si può studiare e presentare da soli, ma si rischia di non conoscere qualche cavillo che poteva salvare (ad es. la questione dei termini decaduti, o l’argomento convenzionale). Dunque il nostro suggerimento è: non affrontare il Fisco da solo in casi del genere, affidati a professionisti con esperienza specifica in contestazioni da redditi esteri/esterovestizione.

Conclusione

L’accertamento dei redditi esteri per residenza “fittizia” all’estero è una materia insidiosa, in cui l’Amministrazione finanziaria parte spesso da una posizione di vantaggio (grazie a presunzioni di legge e a una capacità investigativa crescente). Tuttavia, come abbiamo visto, il contribuente ha a disposizione strumenti e argomentazioni per difendersi in modo efficace, a patto di agire con tempestività, preparazione e con il supporto di esperti.

Il punto di vista adottato in questa guida è stato quello del debitore-contribuente, evidenziando come far valere i propri diritti e mettere in luce la realtà dei fatti quando questa non coincide con le apparenze formali. Non tutti i trasferimenti all’estero di italiani nascondono intenti evasivi: vi sono casi genuini di espatrio per lavoro, famiglia o qualità della vita. Il nostro ordinamento – specialmente grazie all’adeguamento ai principi internazionali – riconosce che la sostanza deve prevalere: un contribuente che davvero risiede stabilmente all’estero non può essere tassato in Italia sui redditi esteri. Il suo compito, in caso di contestazione, è di dimostrare con forza questa realtà.

Abbiamo illustrato come raccogliere le prove, come interloquire col Fisco e come affrontare un eventuale processo tributario. Si tratta in definitiva di convincere l’Agenzia (o il giudice) ricostruendo la propria storia: dove si vive, con chi, dove si lavora, dove sono gli interessi e affetti. Se questa storia è coerente e supportata da evidenze, le chances di successo sono elevate. Al contrario, per chi ha effettivamente simulato la residenza estera mantenendo tutto in Italia, la legge riserva un trattamento severo e difficilmente ci si potrà sottrarre alle conseguenze fiscali (e sanzionatorie) di tale scelta.

In conclusione, il messaggio per i contribuenti onesti è: non fatevi intimorire oltre misura dagli accertamenti, ma preparatevi accuratamente. Per i meno onesti: valutate bene costi e benefici dell’esterovestizione, perché oggi il Fisco ha gli strumenti per scoprirla e punirla. Con competenza, trasparenza e le giuste tutele, è possibile far valere le proprie ragioni e difendersi da un accertamento sui redditi dei (presunti) residenti black list.


Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate al 2025)

  • D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (TUIR), art. 2 – Definizione di residenza fiscale delle persone fisiche e presunzione per trasferimenti in Stati a fiscalità privilegiata.
  • D.M. 4 maggio 1999 (Ministero Finanze) – Individuazione degli Stati e territori a regime fiscale privilegiato ai fini dell’art. 2 c.2-bis TUIR (black list persone fisiche).
  • Decreto Legislativo 29 novembre 2023 n. 209 – Riforma dei criteri di collegamento della residenza fiscale (persone fisiche e società) in attuazione della L. 111/2023; modifica art. 2 TUIR dal 2024 (introduzione criterio presenza, presunzione iscrizione anagrafica relativa).
  • Circolare Agenzia Entrate n. 20/E del 28 luglio 2024 – Chiarimenti sulle novità in materia di residenza fiscale introdotte dal D.Lgs. 209/2023 (enfasi sul criterio personal-familiare del domicilio e presenza fisica).
  • D.M. 28 luglio 2023 (MEF) – Rimozione della Svizzera dall’elenco degli Stati black list ai fini art. 2 co.2-bis, con effetto dal periodo d’imposta 2024.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 24246 del 30/11/2015 – Doppia residenza Italia-UK, prevalenza dei criteri convenzionali sulle presunzioni interne (tie-breaker a favore del Regno Unito).
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 21694 del 07/10/2020 – Iscrizione AIRE non decisiva: un soggetto AIRE può essere considerato residente in Italia se mantiene qui domicilio o residenza ex art. 43 c.c. (AIRE come indizio formale superabile).
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 16634 del 26/06/2018 – Conferma orientamento passato: iscrizione nelle anagrafi italiane costituiva presunzione assoluta di residenza (precedente regime, superato dalla riforma 2024).
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 32975 del 20/12/2018 – Caso di imprenditore italiano formalmente residente a Montecarlo: riconosciuta residenza fiscale in Italia data la permanenza di interessi economici sostanziali in Italia (presunzione black list non superata).
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 35284 del 18/12/2023 – Caso di contribuente in Emirati Arabi Uniti: affermato che la presunzione legale relativa di residenza in Italia (art. 2 c.2-bis TUIR) può essere vinta applicando i criteri convenzionali ex art. 4 della Convenzione Italia-EAU; riconosciuta residenza estera nonostante assenza di imposta sugli individui negli EAU.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 19843 del 18/07/2024 – Caso di contribuente formalmente residente nel Principato di Monaco: confermata residenza fiscale in Italia 2006-2010 valutando prevalenza di legami economici e patrimoniali in Italia rispetto a legami esteri (domicilio in Italia); ribadito che le novità normative 2024 non hanno effetto retroattivo.
  • Cassazione Civ. Sez. Trib. n. 1291 del 20/01/2025 – (Massima) Conferma che l’art. 2 c.2-bis TUIR non introduce un ulteriore status di residenza, ma una presunzione relativa di permanenza della residenza in Italia per iscritti AIRE trasferiti in paradisi fiscali (onere a carico contribuente di provare il trasferimento effettivo).
  • Risposta a Interpello Agenzia Entrate n. 6/2025 (17/01/2025) – Caso di cittadino iscritto AIRE e residente fiscale in Lussemburgo con lavoro dipendente estero: l’Agenzia conferma che non è soggetto a IRPEF in Italia su tali redditi, evidenziando importanza di centro interessi effettivo all’estero (esempio virtuoso di effettiva residenza estera riconosciuta).
  • Circolare Agenzia Entrate n. 19/E del 23/05/2017 – (Voluntary Disclosure bis) Chiarimenti su monitoraggio fiscale: confermati increases sanzioni RW al 6-30% per Paesi black list e raddoppio dei termini di accertamento ex art. 12 DL 78/2009 per attività estere non dichiarate in Paesi non collaborativi (norma vigente fino al 2015).
  • Circolare Agenzia Entrate n. 51/E del 06/10/2010 – Criteri di individuazione Paesi white list vs black list ai fini CFC dopo L. 122/2010: livello di tassazione effettiva estera inferiore al 50% di quella italiana come parametro.
  • Circolare Agenzia Entrate n. 21/E del 07/11/2024 – Istruzioni operative agli uffici sull’uso dell’autotutela: incoraggia annullamento in via di autotutela in casi di evidente errore o sopravvenienze, per evitare contenziosi inutili (richiamato in materia di contestazioni residenza fiscale).

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Conclusione

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