Avviso Di Accertamento Per Esterovestizione Della Società: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento per esterovestizione della società? L’Agenzia delle Entrate sostiene che la tua società, formalmente residente all’estero, in realtà ha la sede effettiva in Italia? Ti stai chiedendo se è legittimo e come puoi difenderti da una contestazione così pesante?

L’accusa di esterovestizione è una delle più gravi in ambito tributario, perché comporta la riqualificazione della residenza fiscale della società e l’applicazione della tassazione italiana su tutti i redditi ovunque prodotti. Ma non basta una sede legale all’estero per evitare il Fisco italiano, né basta una presunzione per giustificare un accertamento: servono prove concrete.

Cosa significa esterovestizione?
È la contestazione per cui una società, pur avendo la sede legale all’estero, viene ritenuta fiscalmente residente in Italia, in base a:
– Sede dell’amministrazione effettiva in Italia
– Luogo in cui vengono prese le decisioni strategiche
– Presenza di soci, amministratori o strutture operative nel territorio italiano
– Assenza di reale autonomia operativa nel paese estero
– Utilizzo dello schema estero solo per motivi fiscali

Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate?
– Che la società è amministrata di fatto dall’Italia
– Che i contratti, i bonifici e le email gestionali partono da soggetti italiani
– Che la sede estera è solo formale o di comodo, senza uffici o dipendenti
– Che la società estera serve a canalizzare profitti di imprese italiane
– Che l’azienda non ha autonomia economica e organizzativa all’estero

Cosa comporta l’accertamento per esterovestizione?
– Tassazione in Italia di tutti i redditi della società estera
– Applicazione di sanzioni per omessa dichiarazione e imposte evase
– Possibile denuncia penale per dichiarazione fraudolenta
– Riscossione coattiva dei tributi con pignoramenti e fermi
– Iscrizione nei registri delle società con sede fittizia

Come difendersi dall’accusa di esterovestizione?
– Dimostra che la sede amministrativa è effettivamente all’estero
– Prova che le decisioni societarie vengono assunte nel paese estero
– Esibisci contratti di lavoro, affitti, utenze, documenti contabili e fiscali esteri
– Mostra che la società estera ha clienti, fornitori e operatività reale
– Dimostra l’indipendenza economica e la non interferenza dei soci italiani
– Presenta memorie difensive e richiedi l’accesso agli atti per verificare la base della contestazione
– Se necessario, proponi ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento

Cosa puoi ottenere con una difesa solida?
Annullamento totale o parziale dell’accertamento, se manca la prova della sede effettiva in Italia
Dimostrazione della legittima residenza fiscale estera
Sospensione della riscossione, per bloccare cartelle e fermi
Evita il penale, se provi che non c’è stata simulazione né volontà evasiva

L’esterovestizione non può essere presunta: serve una verifica concreta della realtà societaria. La sola presenza in Italia di un socio, un amministratore o di un commercialista non basta a giustificare l’accertamento.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario ti spiega come difenderti da un avviso di accertamento per esterovestizione, quali prove presentare e quali strategie legali adottare.

Hai ricevuto un avviso fondato su residenza fiscale presunta o su una sede estera contestata? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Valuteremo la tua struttura societaria e ti diremo come tutelarti legalmente contro un’accusa infondata.

Introduzione

L’esterovestizione societaria indica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società al solo scopo di sottrarla al fisco italiano. In pratica, una società formalmente costituita in un altro Paese viene di fatto amministrata dall’Italia e beneficia indebitamente di un regime fiscale estero più vantaggioso, mentre avrebbe dovuto pagare le imposte in Italia. L’Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza considerano queste situazioni come pratiche elusive o abusive, prive di reale sostanza economica all’estero e finalizzate principalmente al risparmio d’imposta in Italia.

Questa guida, aggiornata a luglio 2025, offre un’analisi avanzata su come difendersi da un avviso di accertamento per esterovestizione. Esamineremo la normativa italiana vigente (art. 73 del TUIR e successive modifiche), la prassi amministrativa e le più recenti sentenze delle corti tributarie e penali. Verranno fornite tabelle riepilogative dei criteri di residenza e degli indizi di esterovestizione, con i relativi elementi di difesa. Saranno illustrate simulazioni pratiche in vari settori (digitale, consulenza, manifatturiero, holding, immobiliare) dal punto di vista del debitore (contribuente) accusato di esterovestizione. Una sezione Domande e Risposte affronterà i quesiti più frequenti di imprenditori e professionisti. Infine, chiuderemo con le strategie difensive, incluse le procedure di contenzioso tributario e gli strumenti deflativi (come mediazione e accertamento con adesione), nonché con un elenco completo delle fonti normative e giurisprudenziali citate.

Quadro normativo italiano sull’esterovestizione

Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)

Il primo passo per capire l’esterovestizione è conoscere i criteri con cui la legge italiana determina la residenza fiscale di società ed enti. L’art. 73, comma 3 del TUIR (D.P.R. 917/1986) stabilisce che una società si considera fiscalmente residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno 183 giorni l’anno), presenta almeno uno dei seguenti collegamenti con il territorio italiano:

  • Sede legale in Italia: la sede legale (o statutaria) risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto è situata in Italia. Questo è un criterio formale.
  • Sede dell’amministrazione in Italia: il luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell’ente è in Italia. Equivale al concetto di “place of effective management” usato nei trattati internazionali, cioè il luogo da cui promanano le decisioni operative effettive.
  • Oggetto principale in Italia: il luogo in cui la società esercita prevalentemente la propria attività economica o realizza l’insieme degli affari sociali è in Italia. In altre parole, l’oggetto sociale si realizza in misura prevalente sul territorio italiano.

Questi criteri sono considerati alternativi e di pari dignità: basta che uno solo di essi ricorra (per oltre metà dell’anno) perché la società sia considerata residente in Italia e quindi soggetta all’IRES italiana su tutti i redditi ovunque prodotti. La legge dunque privilegia elementi sostanziali come la sede effettiva di gestione o il luogo di attività economica, rispetto al solo criterio formale della sede legale. In sintesi, una società di capitali con sede legale all’estero ma direzione effettiva o attività principale in Italia sarà comunque considerata residente fiscale in Italia.

Esempio: una SRL costituita in uno Stato estero ma amministrata quotidianamente da soci e dirigenti che operano in Italia, sarà molto probabilmente ritenuta fiscalmente residente in Italia in base al criterio della sede dell’amministrazione.

Queste regole possono comportare casi di doppia residenza fiscale (dual residence) quando anche un altro Stato, con criteri analoghi, rivendica la residenza della società. Tali conflitti si risolvono tramite le Convenzioni contro le doppie imposizioni (treaties), di solito applicando il cosiddetto tie-breaker della sede di direzione effettiva (place of effective management). In base all’art. 4(3) del Modello OCSE, la società duale è considerata residente nel Paese in cui si trova la sua direzione effettiva, salvo diversi accordi tra Stati. Le evoluzioni più recenti (Modello OCSE 2017 e Multilateral Instrument) prevedono anche che, in caso di dual residence, le autorità fiscali dei due Paesi possano accordarsi caso per caso, privilegiando sempre un approccio sostanziale sulla base dei fatti economici.

Di seguito, Tabella 1 riassume i principali criteri di collegamento per la residenza fiscale di una società in Italia, con riferimento all’art. 73, comma 3 TUIR:

Tabella 1 – Criteri di collegamento per la residenza fiscale di una società (art. 73 co.3 TUIR)

CriterioDescrizione
Sede legale in ItaliaLa sede legale (statutaria) è fissata in Italia.
Sede dell’amministrazione in ItaliaLa direzione effettiva e la gestione ordinaria avvengono in Italia (place of effective management).
Oggetto principale in ItaliaL’attività principale (oggetto sociale) è svolta prevalentemente in Italia.
Durata (>183 giorni)I criteri suddetti devono sussistere per oltre metà del periodo d’imposta (più di 6 mesi).
EffettiSe almeno uno dei criteri sopra è soddisfatto, la società è considerata residente fiscale in Italia ed è tassata in Italia sui redditi ovunque prodotti.

Presunzione legale anti-esterovestizione (art. 73, comma 5-bis TUIR)

Oltre ai criteri generali appena visti, esiste una specifica norma anti-esterovestizione introdotta per facilitare il Fisco nel contrastare le società “esterovestite”. Si tratta dell’art. 73, comma 5-bis del TUIR, che prevede una presunzione legale relativa di residenza in Italia al ricorrere di certi requisiti.

La disposizione, inserita originariamente dal D.L. 223/2006 e modificata dalla L. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016), recita in sostanza che “salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione delle società ed enti che detengono partecipazioni di controllo in società/enti residenti in Italia (art. 73, co.1 lett. a) e b)), qualora si verifichi alternativamente: (a) che tali società estere siano controllate, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia; oppure (b) che siano amministrate da un consiglio di amministrazione (o organo analogo) composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia.

In parole più semplici, la presunzione di esterovestizione scatta quando una società formalmente estera presenta contemporaneamente questi elementi chiave:

  • Funzione di holding italiana: la società estera possiede una partecipazione di controllo in una società o ente residente in Italia.
  • Controllo o gestione italiana: inoltre si verifica almeno una delle due condizioni: (a) la società estera è a sua volta controllata (anche indirettamente) da soggetti residenti in Italia; (b) l’organo di amministrazione della società estera è composto in maggioranza da persone residenti in Italia.

Se entrambi i presupposti sono soddisfatti (holding di società italiane e controllo/gestione italiana), la legge presume che la sede di amministrazione della società estera sia in Italia. In tal caso la società estera è considerata fiscalmente residente in Italia a tutti gli effetti, «salvo prova contraria» fornita dal contribuente. Essendo una presunzione legale relativa, comporta l’inversione dell’onere della prova: l’Agenzia delle Entrate può dedurre la residenza italiana in base a quegli elementi formali, e spetta poi al contribuente l’onere di confutare la natura artificiosa dello schema, dimostrando che la società estera ha invece una reale operatività all’estero.

Ambito di applicazione: la norma del comma 5-bis mira soprattutto a colpire le società estere “di mero assetto”, ossia costituite da soggetti italiani per interporre un guscio societario estero a capo di società italiane. Tipicamente rientrano in questo campo le holding esterovestite (società capogruppo estere senza attività propria, usate per spostare fittiziamente profitti di società italiane). Nella Relazione governativa al D.L. 223/2006 e nella prassi (Circolare AdE 28/E/2006) si evidenziò infatti che è complesso accertare caso per caso la sede effettiva e l’oggetto principale, specialmente con holding o società estere create per gestire beni immateriali (es. società di licensing per royalties). La presunzione è stata introdotta proprio per “facilitare il compito del verificatore” in tali casi, fornendo indici univoci che attivano subito il controllo fiscale. L’obiettivo è frenare le localizzazioni fittizie della sede societaria all’estero fatte con il prevalente scopo di eludere il fisco italiano, privilegiando il principio di substance over form (la sostanza economica prevale sulla forma giuridica).

È importante sottolineare che la presunzione non esaurisce tutte le ipotesi di esterovestizione contestabili. Fuori dai casi specifici previsti dal comma 5-bis, l’Amministrazione finanziaria mantiene il potere di contestare la residenza effettiva in Italia di società estere diverse (es. società estera senza partecipazioni in Italia ma sospettata comunque di essere gestita dall’Italia). In tali situazioni, non potendo applicare la presunzione automatica, il Fisco dovrà condurre un accertamento “pieno” della sede di direzione effettiva, assumendosene l’onere probatorio mediante una meticolosa dimostrazione fattuale.

Evoluzione normativa: originariamente (nel 2006) la presunzione del comma 5-bis scattava se la società estera era controllata da italiani o con CdA in maggioranza italiano, anche se non fungeva da holding di società italiane. Ciò la rendeva molto ampia, includendo qualsiasi società estera controllata o gestita da italiani. La Legge 208/2015 ha ristretto la portata, introducendo l’ulteriore requisito che la società estera detenga partecipazioni di controllo in soggetti italiani. Dunque oggi la presunzione si applica principalmente alle holding esterovestite: se manca il presupposto della partecipazione in società italiane, la norma non opera (come confermato dall’Agenzia delle Entrate stessa in recenti interpelli). Ad esempio, la Risposta AdE n. 27/2022 ha escluso l’applicazione della presunzione a una società estera controllata da italiani ma priva di partecipazioni in Italia, mancando la funzione di holding. Analogamente, la Risposta n. 164/2023 ha ribadito che senza partecipazioni italiane il comma 5-bis non si attiva; tuttavia ha avvertito che ciò non impedisce all’Amministrazione di valutare comunque la residenza in base ai criteri ordinari del comma 3, se la gestione di fatto risulta italiana. In quella risposta l’Agenzia ha anche riconosciuto che la norma anti-esterovestizione mira alle strutture meramente fittizie, mentre “nel caso di un’azienda commerciale estera effettivamente operativa è corretto che i profitti vengano tassati nello Stato estero ove la società svolge la propria attività”. Questo principio sottolinea che non è illegittimo avere società all’estero: diventa un problema solo se sono gusci vuoti creati al solo scopo di elusione fiscale.

Prassi amministrativa e orientamenti ufficiali

Negli anni l’Agenzia delle Entrate ha affinato gli strumenti per individuare e combattere l’esterovestizione, emanando circolari e risoluzioni e sfruttando metodi investigativi mirati. Ecco alcuni riferimenti chiave di prassi amministrativa:

  • Circolare AdE 28/E del 4 agosto 2006: prima circolare esplicativa dopo l’introduzione dei commi 5-bis e 5-ter art. 73 TUIR. Sottolinea la volontà del legislatore di colpire le costruzioni elusive di “puro artificio” e di facilitare l’accertamento della sede effettiva. La circolare conferma che i criteri del comma 5-bis (controllo italiano e CdA italiano) sono indicatori “astrattamente idonei” della residenza in Italia, poiché riconosciuti anche a livello OCSE come sintomatici della direzione effettiva. Si chiarisce inoltre che la norma non impedisce al Fisco di contestare l’esterovestizione anche in altri casi, assumendosene l’onere (come già detto sopra). Un passaggio significativo riguarda l’interpretazione di “attività principale” nel concetto di sede dell’amministrazione: l’Italia, in sede OCSE, ha osservato che il luogo di direzione effettiva coincide spesso con quello in cui si esercita l’attività principale. Ciò amplia l’analisi sostanziale: non solo dove si prendono decisioni, ma anche dove si svolge concretamente la principale attività d’impresa. Infine, la circolare evidenzia l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente nelle fattispecie di cui al 5-bis, in linea col principio di prevalenza della sostanza sulla forma.
  • Risoluzione AdE 312/E del 5 novembre 2007: in risposta a un interpello di una holding italo-olandese, ha chiarito che non è possibile utilizzare l’interpello per ottenere “a priori” la non applicazione del comma 5-bis. L’Agenzia vi afferma che la prova contraria all’esterovestizione deve essere fornita in sede di accertamento, non tramite interpello, perché si tratta di valutazioni fattuali complesse e perché l’interpello disapplicativo riguarda solo norme antielusive sul quantum d’imposta, non sulla residenza. Nel caso specifico, la società era dual resident (Italia e Paesi Bassi); la risoluzione richiama la Convenzione Italia-Paesi Bassi che applica il tie-breaker della sede di direzione effettiva, lasciando intendere che la questione sarebbe stata risolta in base alla sostanza dei fatti (luogo di effettiva direzione). Questa risoluzione è significativa perché sancisce l’approccio “no interpello” in materia di esterovestizione: il contribuente non può blindare anticipatamente la propria posizione con un interpello, ma dovrà eventualmente difendersi in sede di verifica.
  • Risoluzione AdE 9/E del 19 gennaio 2015: (pur riferita a un altro ambito, l’imposta di registro) offre una definizione di “sede dell’amministrazione” di una società come “luogo in cui si svolgono le attività amministrative e di direzione dell’ente”, coincidente con la sede effettiva. Questa nozione, perfettamente in linea con la giurisprudenza, è utile anche nelle contestazioni di esterovestizione, confermando che conta il luogo di effettiva amministrazione indipendentemente dalla sede legale formale.
  • Risposte a interpello 2020-2023: come visto sopra, l’Agenzia ha pubblicato varie risposte ad interpelli riguardanti società estere con assetti transnazionali. Pur dichiarando inammissibili gli interpelli sulla residenza (per i motivi suesposti), in tali risposte spesso l’Agenzia fornisce interpretazioni utili: ad es. la Risposta 27/2022 e la Risposta 164/2023 (citate prima) confermano i limiti di applicabilità del 5-bis solo a società estere con partecipazioni in Italia, e ribadiscono che in assenza di tali elementi il Fisco dovrà – se del caso – fare un accertamento ordinario ex art. 73(3) TUIR. Nella risposta 164/2023, inoltre, l’Agenzia evidenzia che solo l’attività di mera gestione passiva (holding vuota) giustifica la riqualificazione della residenza per contrastare evasione; al contrario, una società commerciale estera con reale operatività non va attratta in Italia, perché i suoi profitti spettano allo Stato estero dove l’attività è svolta. È un riconoscimento importante del principio di effettività economica: le norme anti-esterovestizione colpiscono le società-schermo prive di sostanza, non le imprese autenticamente radicate all’estero.

Accertamenti fiscali per esterovestizione: come opera il Fisco

Quando l’Agenzia delle Entrate (spesso insieme alla Guardia di Finanza) sospetta un caso di esterovestizione, attiva specifiche procedure di controllo fiscale. In genere il percorso inizia con un’attività istruttoria approfondita, seguita – se emergono indizi sufficienti – dalla notifica di un avviso di accertamento al contribuente. Vediamo come opera tipicamente il Fisco in questi casi e quali sono i suoi poteri:

  • Analisi dei collegamenti Italia-estero: Gli uffici fiscali monitorano le società estere riconducibili a soggetti italiani. Alcuni segnali d’allarme (red flags) sono ad esempio: soci o amministratori italiani di società estere, società estere che controllano aziende italiane, flussi finanziari consistenti tra Italia e società offshore, ecc. Anche le informazioni raccolte dall’Anagrafe tributaria (es. trasferimenti di capitale all’estero) possono innescare verifiche.
  • Questionari e richieste di informazioni: Spesso il primo contatto è l’invio di un questionario al contribuente o alla società, con richieste di documentazione (verbali assemblee, organigrammi, bilanci, contratti di sede estera, ecc.) per capire dove si svolge effettivamente l’attività di direzione. In altri casi, soprattutto se c’è il coinvolgimento della Guardia di Finanza, si passa direttamente a un’ispezione o verifica fiscale.
  • Verifiche in loco: la Guardia di Finanza può eseguire accessi, ispezioni e perquisizioni presso sedi in Italia legate al sospetto schema esterovestito (ad esempio l’abitazione o l’ufficio di amministratori italiani, se si ritiene che da lì venga gestita la società estera). Se possibile, può richiedere la collaborazione internazionale per sopralluoghi all’estero presso la sede legale dichiarata: ad esempio, mediante rogatorie o cooperazione amministrativa, funzionari italiani possono verificare se all’indirizzo estero esiste realmente un ufficio operativo o se è solo una domiciliazione fittizia.
  • Poteri istruttori finanziari: il Fisco utilizza ampi poteri di indagine finanziaria. Può acquisire i movimenti bancari dei soggetti coinvolti, sia italiani sia (attraverso accordi di scambio dati) esteri, per vedere se la società estera di fatto movimenta fondi in Italia o riceve pagamenti dall’Italia per prestazioni non giustificate. Ad esempio, se una società estera formalmente di Hong Kong ha conti bancari da cui partono bonifici per pagare stipendi o spese in Italia, è un indizio che l’attività è gestita dall’Italia.
  • Cooperazione internazionale e banche dati: grazie agli strumenti di scambio automatico di informazioni tra Stati (ad es. il Common Reporting Standard – CRS, o accordi di mutua assistenza), l’Agenzia delle Entrate può ottenere informazioni sull’operatività estera della società sospetta. Si possono ottenere dati quali: numero di dipendenti della società all’estero, bollette di utenze attive (telefono, energia) a suo nome, contratti di affitto di uffici, fatture di fornitori locali, ecc. Tutti elementi che servono a capire se la società ha una presenza economica reale nel Paese di costituzione. Negli ultimi anni, il Fisco italiano incrocia anche dati digitali: residenze anagrafiche degli amministratori, localizzazione di indirizzi IP da cui vengono inviate email aziendali, meta-dati di comunicazioni (es. se tutte le email aziendali partono da IP italiani), ecc.. Queste moderne tecniche aiutano a ricostruire dove si svolge davvero la gestione quotidiana della società.
  • Valutazione degli indizi secondo la legge: Una volta raccolti, tutti questi elementi indiziari devono essere valutati globalmente secondo i principi legali sulle prove presuntive. La Cassazione ha più volte ribadito che gli indizi di esterovestizione vanno considerati nel loro insieme, in modo grave, preciso e concordante, senza frammentarne la portata. Ad esempio, un singolo elemento (come il certificato di residenza fiscale estero) non può essere considerato in isolamento come prova risolutiva: occorre guardare al quadro completo. Se il complesso degli indizi dimostra una “concreta svolgimento dell’attività di direzione in Italia”, allora l’ufficio può legittimamente concludere che la sede effettiva è in Italia. Al contrario, se emergono anche elementi a favore della reale operatività all’estero, il caso diventa borderline e potrà essere deciso dal giudice in sede contenziosa.
  • Notifica dell’Avviso di Accertamento: Se l’esito delle indagini è ritenuto solido, l’Agenzia delle Entrate emette l’avviso di accertamento per esterovestizione. Questo atto impositivo contesta formalmente che la società estera è in realtà residente in Italia dall’anno X (o per determinati anni d’imposta) e ricalcola le imposte dovute in Italia sui redditi di quegli anni, con relative sanzioni e interessi. Spesso l’accertamento copre più anni, fino a quelli non prescritti: in caso di omessa presentazione della dichiarazione in Italia, il Fisco ha tempo fino al 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Ad esempio, per un reddito 2018 non dichiarato (omessa dichiarazione) l’accertamento può essere notificato fino al 31/12/2025. Se invece la società estera ha presentato in Italia qualche dichiarazione (ipotesi rara, perché in genere non presenta nulla), il termine sarebbe di 5 anni (dichiarazione infedele).

L’avviso di accertamento deve essere motivato, cioè deve indicare gli elementi di fatto e le norme giuridiche su cui si basa. Nel caso di esterovestizione, tipicamente l’atto riepiloga gli indizi raccolti: ad esempio, “si rileva che la società Alfa Ltd, con sede legale a Londra, è interamente partecipata dalla famiglia Rossi residente in Italia, amministrata da un soggetto residente in Italia, priva di dipendenti e uffici propri nel Regno Unito, ed ha effettuato operazioni quasi esclusivamente con società italiane controllate – circostanze dalle quali, ai sensi dell’art. 73 comma 3 e 5-bis TUIR, si presume la residenza fiscale in Italia, non avendo il contribuente fornito prova contraria…”.

In alcuni casi l’Ufficio menziona espressamente l’art. 73 comma 5-bis TUIR se ne ricorrono i presupposti formali; in altri casi (quando la presunzione non è applicabile) l’accertamento viene basato direttamente sui criteri ordinari della sede dell’amministrazione ex comma 3. Questo è avvenuto, ad esempio, in un caso recente di una società inglese che aveva ricevuto il conferimento di un immobile italiano: mancava il requisito di “holding” per applicare il 5-bis, ma la Cassazione ha comunque ritenuto valido l’accertamento fondato sugli indizi fattuali di sede effettiva in Italia.

Da ultimo, si segnala che l’accertamento per esterovestizione non riguarda solo le imposte dirette (IRES) ma può avere effetti anche su imposte indirette. Se infatti la società è considerata residente in Italia, perde eventuali agevolazioni riservate alle società estere. Ad esempio, la Cassazione ha chiarito nel 2024 che la riqualificazione come residente in Italia di una società conferitaria estera comporta la perdita del beneficio dell’imposta di registro fissa e l’applicazione dell’imposta di registro proporzionale, come se fosse italiana. Ciò in conformità alla direttiva UE 2008/7/CE, secondo cui i conferimenti societari vanno tassati nel Paese in cui si trova la sede di direzione effettiva della società conferitaria. Dunque, le conseguenze fiscali dell’esterovestizione sono a 360 gradi: imposte sui redditi, IVA (ad esempio, se omessa, possono contestare l’IVA dovuta in Italia), imposte di registro, ipotecarie e catastali su atti relativi a beni in Italia, ecc., vengono tutte ricalibrate come se la società fosse stata italiana sin dall’origine.

Sintesi degli indizi comuni: l’esperienza delle verifiche mostra che certi indicatori ricorrenti vengono utilizzati dal Fisco come prova di esterovestizione. A titolo di esempio, possiamo elencare alcuni indizi tipici rilevati dall’Amministrazione finanziaria e, in parallelo, i possibili elementi di difesa contraria che il contribuente può opporre (vedi Tabella 3):

Tabella 3 – Principali indizi di esterovestizione vs. elementi di prova contraria (sostanza estera reale)

Indizi riscontrati dal Fisco (sospetta esterovestizione)Elementi difensivi opposti (a supporto della reale operatività estera)
Sede estera meramente formale: indirizzo della società presso studi di consulenza, nessun ufficio proprio né targa sul luogo.Ufficio reale all’estero: esistenza di uffici propri nel Paese estero, con locali attrezzati. Contratto di affitto di una sede operativa, bollette/utenze intestate alla società estera (telefono, internet, energia) ad uso effettivo.
Assenza di personale locale: la società estera non ha dipendenti o impiega solo un servizio di segreteria virtuale; tutte le attività operative sono svolte da personale in Italia (es. dallo stesso titolare o da società italiane correlate).Struttura organizzativa all’estero: presenza di dipendenti assunti localmente, o amministratori operativi residenti all’estero. Organizzazione aziendale autonoma in loco (ad es. ufficio commerciale o reparto tecnico nel Paese estero).
Consiglio d’amministrazione “italiano”: la maggioranza dei membri del CdA (o equivalente) è residente in Italia; le riunioni societarie di fatto si tengono in Italia (magari “sulla carta” all’estero, ma senza che i membri si rechino fisicamente lì).Governo societario effettivo all’estero: composizione del CdA con membri locali indipendenti; verbali che attestano riunioni tenute fisicamente all’estero (con timbri, testimoni o registrazioni di viaggio). Prove che decisioni importanti sono state discusse e prese nel Paese estero (es. tramite biglietti aerei, ricevute di soggiorno dei dirigenti per partecipare alle riunioni all’estero).
Direzione operativa in Italia: le decisioni strategiche e gestionali si prendono in Italia (dal titolare o management italiano); corrispondenza e email mostrano che gli impulsi decisionali provengono da indirizzi IP o sedi in Italia.Decision-making locale: deleghe operative effettive a dirigenti sul posto all’estero, con autonomia decisionale. E-mail e comunicazioni aziendali chiave inviate da sedi estere. Documentazione di viaggi regolari dei vertici italiani presso la sede estera per riunioni (a riprova che le decisioni vengono formalmente ratificate all’estero).
Funzioni amministrative accentrate in Italia: contabilità, fatturazione, gestione finanziaria sono svolte in Italia (magari dalla controllante italiana o da consulenti italiani).Autonomia amministrativa estera: tenuta della contabilità presso la sede estera (con commercialisti locali); conti bancari aperti in banche estere e gestiti da personale locale. Pagamenti a fornitori e stipendi effettuati da conti esteri (non da conti italiani).
Clienti/fornitori quasi tutti italiani: la società estera opera principalmente con controparti italiane (spesso parti correlate). I flussi finanziari generati all’estero rientrano in Italia sotto forma di dividendi, royalties o pagamenti a società italiane.Attività rivolta all’estero: la società estera ha un mercato proprio all’estero, con clientela locale o internazionale non limitata all’Italia. Contratti stipulati e gestiti all’estero. I profitti vengono in buona parte reinvestiti o utilizzati all’estero (anziché essere immediatamente rimpatriati).
Asset localizzati in Italia non coerenti con l’attività estera: es. immobili in Italia intestati alla società estera ma usati dai soci italiani; beni mobili (auto, yacht) con base in Italia ma formalmente di proprietà della società estera.Utilizzo economico genuino degli asset: se la società estera possiede immobili o beni in Italia, prove che li utilizza in modo commerciale (es. dati di locazione a terzi a valore di mercato, contratti di gestione immobiliare). In generale, dimostrare che tali asset sono funzionali a investimenti o attività estere (e non solo al godimento personale in Italia dei soci).
Temporalità sospetta: costituzione della società estera in coincidenza di eventi fiscali rilevanti (es. poco prima di vendere un asset italiano con plusvalenza, o prima di incassare dividendi) e chiusura dell’estero vestizione dopo breve tempo. Esempi: plusvalenze su cessione di partecipazioni realizzate esentasse all’estero, distribuite a soci italiani.Storicità e piano di impresa: la società estera esiste da lungo tempo e non è nata “ad hoc” per una singola operazione fiscale. Presenta un piano industriale credibile e attività continuativa. Se anche è coincisa con un evento fiscale, dimostrare che aveva ragioni economiche indipendenti (es. riorganizzazione aziendale, espansione su mercati esteri) e che è rimasta attiva anche dopo, con vita propria.

La presenza di molti indizi nella colonna di sinistra è tipica dei casi di esterovestizione conclamata. Il contribuente, per difendersi, dovrà cercare di produrre quanti più elementi della colonna di destra possibili, al fine di controbilanciare o smentire gli indizi a suo sfavore. In sede di contenzioso, il giudice valuterà se gli elementi forniti dal contribuente siano sufficienti a creare dubbio sull’asserita natura fittizia della struttura estera.

Come difendersi da un avviso di accertamento per esterovestizione

Ricevere un avviso di accertamento che contesta l’esterovestizione della propria società è una situazione delicata e potenzialmente molto costosa. Dal punto di vista del contribuente (debitore), è fondamentale reagire tempestivamente e con una strategia chiara. In questa sezione vediamo cosa fare e quali strumenti giuridici utilizzare per difendersi, sia in fase pre-contenziosa che nel contenzioso tributario vero e proprio. Approfondiremo inoltre i profili penali, che possono sorgere parallelamente.

Reagire subito: prime mosse dopo la notifica

1. Controllo dei termini: innanzitutto, verificate la data di notifica dell’atto. Da quel momento decorrono 60 giorni (per gli atti emessi fino al 2022 erano 60 giorni, elevati a 120 giorni per gli atti notificati dal 2023 in poi in alcune situazioni di maggiore distanza, ma conviene attenersi ai 60 salvo casi particolari) entro cui presentare ricorso alla Commissione/alla Corte di Giustizia Tributaria. Non ignorate l’atto – anche se pensate che il Fisco abbia torto, è essenziale rispettare le scadenze processuali, altrimenti l’accertamento diverrà definitivo e incontestabile.

2. Valutare l’adesione o la definizione agevolata: la notifica di un accertamento vi dà la possibilità di avviare un’istanza di accertamento con adesione (conciliazione stragiudiziale). Questo strumento consente di discutere con l’ufficio le risultanze dell’accertamento e, se si trova un accordo, chiudere la vertenza pagando un importo concordato (imposte e interessi) con sanzioni ridotte ad 1/3. Presentare l’istanza di adesione entro 60 giorni sospende automaticamente i termini per fare ricorso per un periodo di 90 giorni, dando più tempo per negoziare. Se ritenete che qualche addebito dell’accertamento sia effettivamente fondato o se preferite evitare un lungo contenzioso incerto, valutate l’adesione. Tuttavia, in un caso di esterovestizione, spesso le somme in gioco sono elevate e la pretesa potrebbe essere contestata in toto: in tal caso, l’adesione può servire comunque a ottenere un primo confronto con l’ufficio e capire se esiste margine di riduzione delle pretese.

3. Raccolta della documentazione difensiva: contestualmente, iniziate a predisporre un dossier difensivo. Come visto, la chiave sarà dimostrare la sostanza estera della società. Raccogliete: contratti di affitto di sedi all’estero, fotografie degli uffici, organigrammi e contratti del personale estero, biglietti aerei e ricevute di trasferte per riunioni all’estero, verbali societari con firme e timbri locali, contratti con clienti esteri, fatture di spese effettuate all’estero, bilanci che mostrino costi e investimenti fuori Italia, certificati camerali esteri, documenti bancari su conti esteri, etc. Tutto ciò che può contro-provare l’accusa di “guscio vuoto” va raccolto e ordinato in modo chiaro. È utile predisporre sin dall’inizio un indice degli allegati e magari un breve memorandum di sintesi per ogni blocco di prove (es: “Documenti 1-5: prova dell’ufficio operativo in Madrid – contratto di locazione, bollette luce, foto ufficio”). Questo renderà più agevole presentare la documentazione sia in fase di adesione che eventualmente davanti al giudice.

4. Analisi tecnica con un esperto: è altamente consigliabile coinvolgere un professionista esperto di diritto tributario internazionale (avvocato o commercialista) fin da subito. Un esperto può valutare la solidità giuridica dell’accertamento: ad esempio, verificare se l’Agenzia ha effettivamente provato la sede dell’amministrazione in Italia o si è basata solo su presunzioni labili; controllare se vi sono vizi formali nell’atto (come errori nell’indicazione degli anni, mancata motivazione, notifica tardiva oltre i termini decadenziali, etc.) che potrebbero rendere annullabile l’atto indipendentemente dal merito. Inoltre, un tributarista esperto può impostare al meglio la strategia: decidere se conviene una difesa “di merito” (contestare i fatti e fornire controprove) o anche eccepire questioni preliminari (ad es. difetto di competenza territoriale dell’ufficio, se l’accertamento è emesso da un ufficio non competente; oppure eccepire che il caso andava trattato con la procedura anti-abuso ex art. 10-bis Statuto Contribuente, anche se come vedremo la Cassazione esclude l’obbligo di ciò). Tutte queste valutazioni raffinate richiedono un occhio esperto.

5. Sospensione della riscossione: l’avviso di accertamento esecutivo (per gli atti dal 2020 in poi) comporta che, decorsi 60 giorni, le somme contestate diventino in parte esigibili. In particolare, se fate ricorso, per evitare che nel frattempo il fisco avvii la riscossione (iscrizione a ruolo di 1/3 delle imposte in caso di ricorso pendente), potete presentare un’istanza di sospensione al giudice tributario, allegando documentazione del pregiudizio che subireste dal pagamento immediato. Se il giudice concede la sospensiva, la riscossione è bloccata fino alla sentenza di primo grado. Valutate dunque con il legale anche questo passaggio pratico, soprattutto se gli importi sono molto alti e rischiano di mettere in difficoltà l’azienda.

Il contenzioso tributario: ricorso e fasi processuali

Se non si raggiunge un accordo con l’ufficio in sede di adesione (o se non si tenta affatto l’adesione), l’unica via è presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria Provinciale) entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso. Dal 2023 il processo tributario è stato riformato, ma le modalità principali di ricorso restano simili. Punti salienti da ricordare:

  • Reclamo-mediazione: fino al 2023, per le controversie di valore non superiore a 50.000 euro, era obbligatorio presentare prima un’istanza di reclamo/mediazione all’Agenzia delle Entrate (art. 17-bis D.Lgs. 546/92) e solo in caso di esito negativo si poteva procedere col ricorso. Tuttavia, la riforma attuata con D.Lgs. 130/2022 e D.Lgs. 220/2023 ha abolito l’obbligatorietà di questo passaggio per gli atti notificati dal 2024. Ciò significa che, nel 2025, potete proporre ricorso direttamente senza mediazione anche per importi sotto 50.000 €. Resta comunque facoltà del contribuente tentare una soluzione stragiudiziale volontaria (la cosiddetta mediazione facoltativa), ma non è più condizione di ammissibilità del ricorso. Nel contesto di un’accusa di esterovestizione, spesso gli importi superano tale soglia, quindi il reclamo sarebbe stato in ogni caso non applicabile o ora comunque superfluo.
  • Atto di ricorso motivato: il ricorso va redatto con motivi chiari e specifici. Nel caso di esterovestizione, i motivi tipici possono essere:
    • contestazione della ricostruzione fattuale del Fisco (es. “erroneamente l’Ufficio afferma che la società non avesse uffici in Estonia, come provato invece dal contratto di locazione allegato…”);
    • contestazione dell’errata applicazione della presunzione legale (es. “il comma 5-bis TUIR è stato applicato impropriamente, poiché la società estera non detiene partecipazioni in soggetti italiani, quindi manca un presupposto fondamentale” – come avvenuto nella sentenza Cass. 3386/2024);
    • violazione di legge o principi comunitari (es. eccepire che l’azione fiscale lede la libertà di stabilimento UE perché la società estera aveva reale attività economica all’estero – argomento difensivo fondato sui principi Cadbury Schweppes, vedi oltre);
    • eccesso di potere nelle sanzioni (es. ridondanza delle sanzioni al massimo, o richiesta di cumulo di sanzioni non dovute).
    Il ricorso deve essere notificato all’ufficio accertatore e successivamente depositato presso la segreteria della Corte Tributaria.
  • Difese dell’Ufficio e fase istruttoria: l’Agenzia si costituirà in giudizio depositando controdeduzioni. Nelle cause di esterovestizione, è probabile che l’ufficio alleghi in giudizio il PVC (Processo Verbale di Constatazione) della Guardia di Finanza se c’è stato, e tutti i documenti raccolti. Il contribuente dal canto suo può chiedere l’ammissione di mezzi istruttori: normalmente nel tributario la prova testimoniale è vietata per legge, ma da poco la riforma 2022 l’ha ammessa in talune condizioni (anche se resta rara in pratica). Potrebbe quindi essere possibile chiedere di sentire, ad esempio, un dipendente estero sul funzionamento della società, ma va motivata molto bene la rilevanza. Più frequente è il deposito di memorie illustrative e documenti integrativi nelle varie fasi di primo grado (entro 20 giorni prima dell’udienza, ecc.).
  • Decisione di primo grado: la Corte Tributaria emetterà una sentenza che potrà confermare l’accertamento, annullarlo (in tutto o in parte) oppure annullarlo con rinvio (se rileva vizi procedurali, ma in genere in primo grado o accoglie o respinge). In caso di soccombenza, la parte perdente può appellare in secondo grado (Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado, ex CTR). Il giudizio di appello rivede sia fatti che diritto. Infine, dopo l’appello, è possibile il ricorso in Cassazione per motivi di legittimità (solo errori di diritto, non valutazione di prove).
  • Conciliazione giudiziale: in ogni stato e grado di giudizio tributario è possibile per le parti conciliare la lite. In primo e secondo grado esiste la conciliazione giudiziale: ad esempio, se in corso di causa l’ufficio riconosce qualche buon argomento del contribuente, può proporre (o accettare) una riduzione delle richieste e concordare una cifra. La conciliazione viene ratificata dal giudice e comporta il pagamento concordato con sanzioni ridotte al 40% (se avviene in primo grado) o al 50% (in secondo grado). Nel penale, una definizione transattiva in sede tributaria può avere benefici (vedi oltre), ma non estingue automaticamente il reato; tuttavia dimostrare buona fede pagando il dovuto può mitigare o talora evitare la condanna.

In sintesi, la difesa nel contenzioso si gioca su un duplice binario: da un lato tecnico-giuridico, per far valere vizi dell’atto o errori di diritto (ad esempio la mancata applicabilità del 5-bis, o il fatto che per tassare in Italia bastava provare la sede in Italia indipendentemente dall’intento evasivo – principio Cass. 23150/2022); dall’altro fattuale-probatorio, per convincere che la società estera non era un guscio vuoto ma aveva sostanza (come da principi Cass. 33234/2018 e succ. – necessità di provare l’assenza di sostanza per confermare l’esterovestizione). A breve vedremo l’evoluzione giurisprudenziale su questi principi, utilissima per orientare la strategia difensiva.

Abuso del diritto, libertà di stabilimento UE e onere della prova

Un aspetto giuridico cruciale nelle contestazioni di esterovestizione è il rapporto con il concetto generale di abuso del diritto in materia tributaria e con la libertà di stabilimento garantita dal diritto UE. Questi temi sono spesso sollevati dalla difesa.

In passato, prima della codificazione dell’abuso del diritto (art. 10-bis Statuto del Contribuente, introdotto nel 2015), le contestazioni di esterovestizione venivano ricondotte dalla dottrina al genere dell’elusione fiscale. Oggi, la Cassazione ha chiarito che l’esterovestizione è una fattispecie specifica, disciplinata dall’art. 73 TUIR, che “prescinde dalla prova di un intento elusivo specifico”. In altre parole, per il fisco non serve provare il disegno fraudolento soggettivo: è sufficiente provare i fatti oggettivi che determinano la residenza (es. che la sede effettiva era in Italia). L’eventuale fine di vantaggio fiscale indebito si desume dal fatto stesso che la sede estera era solo apparente. Questo orientamento (espresso chiaramente da Cass. 23150/2022) semplifica l’onere probatorio dell’Amministrazione in sede tributaria: non è tenuta a dimostrare il motivo economico inesistente, ma solo la fittizietà della localizzazione estera.

Tuttavia, è qui che entra in gioco la libertà di stabilimento (artt. 49-54 TFUE). La Corte di Giustizia UE, nel celebre caso Cadbury Schweppes (2006), ha stabilito che costituire una società in un altro Stato membro per godere di una fiscalità più favorevole non è di per sé abuso della libertà di stabilimento. Gli Stati possono contrastare solo le costruzioni puramente artificiose prive di effettiva realtà economica, create al solo scopo di eludere la normativa fiscale nazionale. Dunque le misure anti-esterovestizione sono legittime solo se mirano alle società “schermo” e non impediscono scelte imprenditoriali genuine di stabilirsi all’estero.

La giurisprudenza italiana recente tiene conto di questo: dare prevalenza al dato fattuale della sede effettiva (diversa da quella legale) “non confligge con la libertà di stabilimento” a patto che si persegua solo il caso di sede estera fittizia, senza attività economica reale. In altri termini, se la società ha un’autentica operatività nello Stato estero, deve poter beneficiare del regime estero; se invece è un guscio vuoto creato da italiani solo per pagare meno tasse, allora l’azione del Fisco italiano è giustificata e conforme ai limiti UE.

La difesa utilizzerà quindi spesso l’argomento: “la mia società aveva sostanza economica all’estero, quindi la vostra contestazione viola la libertà di stabilimento”. Questo argomento è efficace solo se supportato da fatti concreti, altrimenti i giudici lo respingono sottolineando che si sta contrastando un abuso e non una genuina scelta imprenditoriale. Le sentenze italiane dal 2018 in poi riflettono un bilanciamento: hanno introdotto la necessità per il Fisco di provare la costruzione di puro artificio (Cass. 33234/2018 – caso Dolce & Gabbana), ma allo stesso tempo hanno affermato che non serve provare l’intento elusivo soggettivo (Cass. 23150/2022). In apparenza potrebbe sembrare una contraddizione, ma è risolta così: per qualificare la sede estera come artificiosa, occorre sostanzialmente constatare l’assenza di reale attività estera; una volta accertato ciò (ossia provati i fatti oggettivi di gestione in Italia), non serve oltre indagare l’“animus” perché l’abuso è intrinseco alla fittizietà della struttura. Come ha ben riassunto la dottrina, “la localizzazione fittizia all’estero, al prevalente scopo di sottrarsi al regime nazionale, costituisce un abuso della libertà di stabilimento contrastabile; la localizzazione effettiva e stabile all’estero rientra invece nella libertà garantita”.

Linee guida difensive e onere della prova in giudizio

Onere della prova: in un processo tributario per esterovestizione, formalmente l’onere iniziale della prova spetta all’Amministrazione finanziaria, che deve fornire elementi almeno presuntivi della residenza in Italia. Questo onere può essere alleggerito dalla presunzione legale (se applicabile), ma anche in tal caso l’Ufficio deve quantomeno provare la sussistenza dei requisiti per applicare la presunzione (controllo e CdA italiani, funzione di holding). Una volta presentati questi elementi (es. documenti che mostrano amministratori italiani, mancanza di struttura estera, ecc.), l’onere si sposta sul contribuente che deve fornire la prova contraria. La Cassazione ha confermato più volte questo schema: il fisco offre indizi gravi di artificiosità (p.es. “società senza dipendenti né uffici, amministratore unico italiano”), dopodiché sta al contribuente dimostrare l’effettiva attività all’estero. Se il contribuente non produce prove convincenti, gli indizi del Fisco restano prevalenti e giustificano la pretesa.

Prova contraria efficace: per avere probabilità di successo, le prove difensive devono essere qualitative e quantitative. Non basta produrre documenti formali (certificato di residenza estera, atto costitutivo estero, qualche fattura): occorre dimostrare la reale “substance”. Le sentenze più recenti mostrano giudici di legittimità molto attenti alla sostanza: ad esempio, in Cass. 14485/2024 il contribuente aveva prodotto vari documenti (atti societari, aumento di capitale, ecc.) a sostegno della propria società inglese, ma la Cassazione ha detto che il giudice di merito aveva sbagliato a fermarsi alle formalità, dovendo invece dare peso agli indizi sostanziali di fittizietà evidenziati dal Fisco (società creata poco prima di conferire l’immobile, nessuna attività svolta dopo, immobili rimasti a disposizione del socio italiano, ecc.). In pratica, i giudici vogliono vedere risultati concreti: ad esempio, se si sostiene che la società estera opera davvero, portare bilanci con volume d’affari significativo all’estero, contratti con clienti non italiani, report di attività svolte localmente. Anche testimonianze scritte (per quanto non formalmente testimoniali in giudizio) come dichiarazioni giurate di partner esteri, o documenti amministrativi locali (permessi, licenze, etc.) possono aiutare a creare quel “dubbio” sulla pura artificiosità.

Aspetti procedurali da sfruttare: oltre al merito, il contribuente può talvolta vincere facendo leva su errori procedurali del Fisco:

  • Verificare se l’accertamento è stato emesso oltre i termini di decadenza (ad es. notificato dopo 7 anni in caso di omessa dichiarazione – rarissimo, ma da controllare).
  • Verificare la competenza territoriale: per regola l’ufficio competente è quello del domicilio fiscale del contribuente (che se la società è estera ma considerata italiana, di solito viene individuato nel domicilio dei rappresentanti in Italia). In alcuni casi si sono avute contestazioni sulla competenza (es. se l’atto fosse stato emesso da Direzione Regionale anziché provinciale, etc.).
  • Vizio di motivazione: se l’avviso non espone chiaramente le ragioni o non cita gli elementi probatori, si può eccepire la nullità per difetto di motivazione (anche se oggi la motivazione può essere integrata dal richiamo al PVC della Guardia di Finanza).
  • Contraddittorio endoprocedimentale: per le materie di fiscalità internazionale, vige l’obbligo di invitare il contribuente a un contraddittorio prima di emettere l’atto (principio generale per gli accertamenti anti-abuso). La giurisprudenza sul punto ha avuto oscillazioni, ma si può provare a eccepire la nullità dell’atto se l’ufficio non ha avviato un contraddittorio prima di emetterlo, soprattutto qualora il contribuente avrebbe potuto far valere le proprie ragioni (tale eccezione spesso non viene accolta in presenza di comportamento evidentemente elusivo, ma è da considerare).

Strategie parallele: in casi complessi, può essere opportuno affiancare alla difesa processuale anche altre azioni:

  • Presentare istanza di autotutela all’Agenzia, portando nuovi documenti, nella speranza (per lo più teorica) che l’ufficio riconosca l’errore e annulli o riduca l’atto. L’autotutela sospende i termini? No, quindi da fare ma senza contare sui suoi esiti.
  • Verificare se nel frattempo sono uscite norme di definizione agevolata delle liti pendenti: ad esempio, nel 2023 c’è stata la possibilità di chiudere le liti tributarie pendenti pagando percentuali ridotte. Queste norme sono straordinarie e temporanee: se ve ne fossero di applicabili al vostro caso, valutare se conviene aderire (soprattutto se la causa è incerta).
  • Regolarizzazione spontanea: se la società esterovestita decide di “rientrare nei ranghi” (ad es. trasferendo la sede legale in Italia o chiudendo l’attività estera fittizia), può essere utile procedere e comunicare questo ravvedimento, quantomeno per mostrare buona fede in sede di trattativa o penale. Non esiste più una voluntary disclosure ad hoc per esterovestizione (le VD erano per patrimoni esteri nascosti, scadute nel 2017), ma pagare spontaneamente le imposte dovute prima di eventuali sentenze può a volte mitigare le sanzioni penali (se il ravvedimento avviene prima di avere formale conoscenza di indagini penali, può escludere punibilità per taluni reati tributari).

Riassumendo, la difesa dovrà evidenziare tutte le zone d’ombra dell’accusa fiscale: se il Fisco sostiene “tutto era finto”, il contribuente deve mostrare che “qualcosa di vero c’era”. Anche una minima sostanza economica estera, nel dubbio, potrebbe salvare dalla sanzione penale (perché in dubio pro reo) – mentre in sede tributaria potrebbe non bastare a evitare il pagamento delle imposte, ma forse a convincere il giudice a un annullamento parziale o a non applicare sanzioni amministrative piene.

Passiamo ora ad esaminare gli aspetti penali, poiché difendersi dall’esterovestizione significa spesso doversi difendere su due fronti: fisco e giustizia penale.

Profili penali dell’esterovestizione

Quando l’esterovestizione comporta la sottrazione di imponibili significativi al fisco, può scattare anche l’azione penale tributaria a carico degli amministratori o dei soggetti responsabili. In particolare, il caso tipico è la mancata presentazione in Italia delle dichiarazioni dei redditi da parte di una società di fatto residente (esterovestita): ciò integra il reato di omessa dichiarazione ex art. 5 D.Lgs. 74/2000, se l’imposta evasa supera la soglia di punibilità di 50.000 € per periodo d’imposta. L’art. 5 punisce chi “essendovi obbligato, omette di presentare una delle dichiarazioni annuali dei redditi o IVA” con reclusione da 1 anno e 6 mesi a 4 anni, purché l’imposta evasa superi 50.000 €. Dunque, se una società esterovestita avrebbe dovuto dichiarare in Italia 1 milione di euro di redditi e non lo ha fatto, e l’imposta evasa (27% di 1 mln = 270.000 €) supera i 50k€, scatta il reato.

Altri reati possibili, sebbene meno frequenti in questo contesto, includono:

  • la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) se il contribuente ha presentato una dichiarazione italiana omettendo di indicare alcuni redditi trasferiti all’estero (ma spesso nelle esterovestizioni la dichiarazione in Italia è del tutto omessa, quindi si applica l’art. 5);
  • l’infedele dichiarazione mediante uso di fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000) o altri artifici (art. 3) nel caso in cui lo schema esterovestito coinvolga anche la creazione di costi fittizi o triangolazioni fraudolente;
  • il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) se, ad esempio, vengono trasferiti asset a una società estera al fine di rendere inefficace la riscossione (es. si intestano beni alla società offshore per non farli pignorare in Italia);
  • nei casi più gravi e organizzati, l’associazione per delinquere transnazionale finalizzata all’evasione (art. 3 L. 146/2006), che può essere contestata se più persone si associano per attuare sistematicamente frodi esterovestite su scala internazionale.

La pendenza del procedimento penale è spesso parallela al contenzioso tributario, ma segue regole proprie. Alcune importanti considerazioni difensive emergono dalla giurisprudenza penale su casi di esterovestizione:

  • Soglia di punibilità ed elemento soggettivo: Come detto, il penale scatta solo se l’imposta evasa supera la soglia (50.000 € annui per omessa dichiarazione) e se c’è il dolo di evadere. Nei reati tributari, il dolo è specifico: volontà di sottrarsi al pagamento delle imposte. In contesti di esterovestizione, la difesa spesso punta a negare il dolo sostenendo che si riteneva in buona fede che la società fosse effettivamente estera, o che si seguivano consulenze fiscali ecc. La buona fede può escludere il reato se realmente si prova che mancava l’intento fraudolento (caso non facile da dimostrare, ma talvolta invocato).
  • Caso emblematico – Dolce & Gabbana: I noti stilisti furono imputati per una presunta esterovestizione (avevano creato una holding in Lussemburgo, Gado Sarl, a cui cedettero i marchi). In primo grado penale vennero condannati, ma la Corte di Cassazione penale nel 2015 (sent. n. 43809/2015) annullò senza rinvio le condanne, sancendo l’insussistenza del fatto di reato. La motivazione della Cassazione penale richiamò concetti simili a quelli poi recepiti nel giudizio tributario del 2018: in sostanza, disse che non vi era prova di una esterovestizione penalmente rilevante, perché la struttura lussemburghese non era un artificio totale. La Corte affermò che anche un ufficio può essere sufficiente a integrare una stabile organizzazione ovvero luogo di effettivo esercizio dell’attività d’impresa, se non è dimostrato che sia una costruzione di puro artificio volta solo a benefici fiscali. Inoltre precisò che non basta osservare che le direttive gestionali partivano dall’Italia (dalla controllante italiana) per concludere che la direzione effettiva fosse in Italia: “non può costituire criterio esclusivo […] il luogo ove partono gli impulsi gestionali dalla controllante; in tal caso è necessario accertare che la controllata estera sia una costruzione di puro artificio, ovvero una casella postale o schermo”. Questo è un punto cruciale: in ambito penale serve un quid pluris di artificiosità manifesta, ossia la società estera deve risultare proprio un guscio vuoto senza alcuna autonomia. Nel caso D&G, emerse invece che:
    • la holding in Lussemburgo aveva un ufficio fisico e alcuni dipendenti;
    • alcune riunioni societarie si tenevano effettivamente in Lussemburgo;
    • la società aveva svolto attività (consulenze sulla proprietà industriale);
    • e, parallelamente, i giudici tributari di merito (CTR) avevano annullato gli avvisi fiscali riconoscendo la sede effettiva in Lussemburgo.
    Tutto ciò indusse la Cassazione penale a ritenere mancante la prova oltre ogni dubbio del dolo evasivo. Come commentato da autorevole dottrina, c’erano “numerosi indici a favore della concreta ed effettiva operatività” della società estera, per cui in dubio pro reo si doveva assolvere.
  • Altri casi e principio D&G: Dopo Dolce & Gabbana, varie inchieste penali per esterovestizione in Italia sono state ridimensionate o archiviate. Ad esempio, nel 2015 a Macerata un procedimento riguardante una società italiana che aveva spostato la sede legale a Madeira (controllante italiana, sede a Madeira, gestione marchi) è stato archiviato dallo stesso PM, richiamando i principi del caso D&G. Si riconobbe che la società portoghese non era “un mero schermo”: c’era parte del management in Portogallo, riunioni tenute lì, ecc., e per di più i giudici tributari avevano già annullato gli avvisi riconoscendo la residenza estera. Questo mostra un trend: un esito favorevole nel processo tributario (annullamento dell’accertamento) può praticamente salvare sul piano penale, creando quel ragionevole dubbio sull’intento fraudolento. Viceversa, quando le prove raccolte nel tributario sono schiaccianti (società letteralmente fittizia e imposte evase ingenti), si può arrivare a condanna penale. Ad esempio, la Cassazione penale n. 12084 del 22/03/2023 ha confermato il sequestro preventivo di beni in un’indagine per omessa dichiarazione basata su esterovestizione. In quel caso, a quanto risulta, gli indizi di fittizietà erano robusti e l’evasione cospicua, tanto da giustificare misure cautelari (sequestro) e presumibilmente portare a rinvio a giudizio.

In sintesi, la soglia penale è più alta: l’esterovestizione diventa reato solo se c’è imposta evasa oltre soglia e se si dimostra il comportamento doloso di occultamento. In giudizio penale vale il principio del dubbio a favore dell’imputato: quindi anche parziali tracce di sostanza all’estero possono far cadere l’accusa di società-schermo. Dal punto di vista difensivo, spesso la strategia è parallela su due binari:

  • ottenere un esito positivo nel ricorso tributario (magari anche utilizzando definizioni agevolate, pagando il dovuto con sanzioni ridotte) così da “ripulire” la situazione fiscale e mostrare collaborazione;
  • ciò può far venire meno l’evasione sopra soglia (se si paga, l’imposta evasa diventa zero) e comunque dimostrare l’assenza di fraudolenza deliberata, portando magari la Procura a chiedere l’archiviazione o il giudice all’assoluzione per mancanza di dolo.

È possibile infatti che si verifichi un esito “asimmetrico”: la società viene considerata residente in Italia ai fini fiscali (e deve pagare le imposte accertate), ma gli amministratori non vengono condannati penalmente perché non c’è prova oltre ogni dubbio del reato. Questo accade perché le regole probatorie e le finalità dei due procedimenti sono diverse: nel tributario basta la preponderanza degli indizi per far pagare le tasse, nel penale serve la certezza del dolo per condannare.

Nota: Un eventuale patteggiamento penale o condanna definitiva per omessa dichiarazione comporta anche l’applicazione di sanzioni accessorie (interdittive) e la confisca dei profitti del reato (che corrispondono di fatto alle imposte evase non versate), salvo che il contribuente non le abbia già pagate spontaneamente. Dunque, la risoluzione della vicenda tributaria pagando il dovuto è spesso propedeutica per chiudere anche la pendenza penale (nei reati tributari il pagamento integrale del debito prima del dibattimento può attenuare la pena e in alcuni casi evitare la confisca obbligatoria dei beni).

Esempi pratici di esterovestizione (simulazioni)

Di seguito presentiamo alcune simulazioni pratiche, ispirate a casi reali, per illustrare come l’esterovestizione possa manifestarsi in diversi settori e quali sarebbero in tali scenari gli esiti probabili e le linee difensive.

1. Settore digitale – Startup tech estera gestita dall’Italia:
Scenario: un giovane imprenditore italiano costituisce una startup in Irlanda (paese a bassa tassazione per imprese tech). La società irlandese sviluppa un’app mobile. In realtà, il team di sviluppo (programmatori) risiede a Milano e lavora da remoto; l’imprenditore stesso vive in Italia e coordina il progetto dall’Italia, pur avendo un piccolo ufficio preso in coworking a Dublino. Tutti i ricavi però confluiscono sul conto bancario irlandese e la società dichiara i profitti in Irlanda, pagando lì poche imposte grazie a incentivi.
Rischio esterovestizione: alto. Il Fisco italiano potrebbe facilmente sostenere che la sede dell’amministrazione è in Italia (il CEO/owner è in Italia e dirige da lì) e che l’ufficio di Dublino è solo di facciata. Inoltre i programmatori operano dall’Italia, quindi anche l’oggetto principale (sviluppo software) si svolge in Italia. Ci sono tutti gli elementi per considerare la società residente in Italia ex art. 73(3) TUIR. Non servirebbe nemmeno la presunzione 5-bis (che comunque potrebbe applicarsi se, ad esempio, la società irlandese controllasse una SRL italiana).
Difesa: per evitare la contestazione, l’imprenditore avrebbe dovuto creare substance in Irlanda: assumere almeno parte del team lì, trasferirsi lui stesso o nominare un amministratore locale che prendesse decisioni sul posto, avere sede operativa reale. In assenza di ciò, in fase difensiva potrebbe solo portare alcune evidenze minori (ad es. che ogni tanto si recava a Dublino per incontri, o che la società ha clienti globali). Ma verosimilmente, data la prevalenza dei fattori italiani, l’accertamento di esterovestizione verrebbe confermato. Il contribuente potrebbe puntare a un accordo con il fisco pagando le imposte italiane dovute, magari cercando di evitare le sanzioni penali dimostrando di aver seguito consigli fiscali errati (buona fede).

2. Settore consulenza – Società di consulenza UK operante in Italia:
Scenario: un consulente aziendale italiano decide di aprire una Ltd a Londra attraverso cui fatturare le proprie consulenze, anziché operare con partita IVA italiana. La Ltd ha sede presso uno studio di commercialisti inglesi (servizio di domiciliazione), non ha dipendenti né uffici propri. Il consulente vive sempre in Italia, svolge i lavori presso clienti italiani o via smart working da casa sua in Italia. Tutti i suoi clienti sono italiani, ma lui emette fatture con intestazione della Ltd inglese, pagando le tasse (ridotte) in UK.
Rischio esterovestizione: praticamente certo. Questa è una situazione classica di esterovestizione di persona fisica tramite società: la giurisprudenza la inquadra come esterovestizione della società (la Ltd è di fatto residente in Italia in base a sede amministrativa e oggetto, entrambi in Italia). Il fisco può facilmente dimostrare che la direzione è in Italia (il consulente è lì) e l’attività pure (consulenze a clienti italiani). In più, qui si configura spesso anche una stabile organizzazione personale in Italia (il consulente stesso che opera sul territorio).
Difesa: quasi impossibile difendersi sul merito. L’unica via potrebbe essere sostenere che la Ltd era realmente operativa in UK perché, ad esempio, il consulente ha anche clienti esteri e trascorre tempo a Londra. Ma se ciò non è vero, la difesa è debole. Probabilmente, conviene definire col fisco (pagare le imposte italiane evitate, magari con sanzioni ridotte) prima che parta un procedimento penale. In un caso del genere, l’omessa dichiarazione in Italia configura reato se superata la soglia 50k; qui parliamo di un singolo professionista, ma se il volume è alto il rischio c’è. In passato, diversi casi simili (professionisti con società UK) sono stati sanzionati. Per il futuro, il consulente farebbe meglio a redomiciliare l’attività in Italia o quantomeno a creare struttura reale all’estero (es. ufficio e collaboratori a Londra, e limitare l’attività fisica in Italia).

3. Settore manifatturiero – Delocalizzazione fittizia della produzione:
Scenario: un’azienda italiana di produzione di calzature chiude la propria SRL italiana (licenziando tutto il personale) e apre poco dopo una società in Slovenia. Sulla carta, la produzione viene spostata in Slovenia dove il costo del lavoro è minore. Di fatto, però, la nuova società slovena affitta il capannone della vecchia società italiana e continua a produrre nello stesso luogo in Italia, usando macchinari rimasti qui e riassumendo informalmente parte dei dipendenti italiani (magari come lavoratori in nero o tramite cooperative interinali). La sede legale è in Slovenia presso uno studio legale; l’amministratore è un prestanome locale ma le decisioni le prende l’ex titolare italiano. Le merci prodotte in Italia vengono esportate o vendute come provenienti dalla Slovenia.
Rischio esterovestizione: altissimo. L’Agenzia delle Entrate con la GdF avrebbero gioco facile: qui non è nemmeno un problema di “sede amministrativa”, ma proprio di luogo di produzione e quindi di stabile organizzazione materiale in Italia. La società slovena, pur avendo personalità estera, sta operando stabilmente in Italia (stabilimento produttivo in Italia). Già questo giustificherebbe tassazione in Italia dei redditi attribuibili alla stabile organizzazione. Inoltre, si può affermare che l’oggetto principale dell’impresa (produzione calzature) avviene in Italia. Le evidenze (capannone in Italia, lavoratori in loco, ecc.) sono oggettive.
Difesa: ombrello bucato. Uno schema così scoperto difficilmente regge. Il contribuente potrebbe sostenere che la società slovena ha solo appaltato la produzione ad aziende terze italiane, ma se c’è coincidenza di luoghi e persone, non convincerà. È probabile un esito sfavorevole con recupero di imposte e contributi evasi. Per il penale, questo caso potrebbe configurare anche reati ulteriori (frode fiscale, se usano fatture false per coprire i costi, e frodi contributive). La difesa potrebbe cercare di limitare i danni: ad esempio dimostrare che parte della produzione è effettivamente fatta in Slovenia (se vero), o che l’amministratore sloveno aveva qualche ruolo. Ma in sostanza la residenza effettiva e la stabile organizzazione italiana appaiono evidenti.

4. Settore holding e immobiliare – Holding estera di gruppo familiare italiano:
Scenario: una famiglia imprenditoriale italiana costituisce anni fa una holding finanziaria in Lussemburgo (Alfa Holding S.A.) a cui conferisce tutte le partecipazioni delle proprie società operative in Italia e i marchi di famiglia. La holding luxemburghese ha 3 amministratori, di cui 2 italiani (membri della famiglia) e un fiduciario locale. Ha un ufficio presso la sede di una fiduciaria in Lussemburgo, senza dipendenti propri. I dividendi delle società italiane vengono incassati dalla holding estera e spesso girati verso conti svizzeri intestati ai membri della famiglia. Nel 2024, l’Agenzia delle Entrate contesta che Alfa Holding è esterovestita: evidenzia che è controllata interamente da italiani, ha il CdA a maggioranza italiano, ed è una holding di società italiane – quindi scatta la presunzione legale ex art. 73(5-bis). Inoltre, rileva che non svolge nessuna attività a Lussemburgo se non incassare dividendi.
Rischio esterovestizione: elevato, ma con qualche possibilità difensiva. Questo scenario ricorda molto il caso reale Dolce & Gabbana (holding in LUX con marchi). In quel caso, la Cassazione tributaria nel 2018 ha escluso l’esterovestizione perché, pur riconoscendo che c’era controllo italiano e benefici fiscali, non era stato provato che la struttura fosse “di puro artificio, volta esclusivamente a un indebito vantaggio fiscale”. In altre parole, se la holding aveva anche una minima sostanza (un ufficio, qualche attività gestionale reale), non si poteva definire totalmente fittizia. Nel nostro scenario, la famiglia potrebbe sostenere che la holding svolge reali funzioni di tesoreria e finanziarie per il gruppo, che esistono ragioni economiche (Lussemburgo come piazza finanziaria per ottenere finanziamenti, tutela dei marchi, ecc.), e che almeno un amministratore risiede in Lussemburgo occupandosi del monitoraggio degli investimenti. Se portano documenti (es: consulenze pagate a società lux per gestione patrimoniale, report che la holding produce per le controllate, etc.), potrebbero creare quel margine di dubbio. Il Fisco però ha la presunzione 5-bis a suo favore (controllo italiano + CdA italiano + holding di società italiane), quindi formalmente la holding è considerata residente in Italia salvo prova contraria.
Difesa: puntare sul fatto che la holding non è un guscio vuoto: ad esempio dimostrare che ha patrimonio e attività proprie, che reinveste i dividendi all’estero, che ha ad es. partecipazioni anche in società estere, che il terzo amministratore locale ha reali poteri di veto. Inoltre, invocare la libertà di stabilimento UE: costituire una holding in Lussemburgo non è illecito di per sé (lo conferma anche la Corte di Giustizia). Si deve convincere che non era una costruzione artificiosa. Se la famiglia riesce a dimostrare un minimo di operatività sostanziale, c’è chance di successo in giudizio, alla luce del precedente D&G (che in circostanze analoghe assolse in penale e diede ragione ai contribuenti in tributario nel 2018). Bisogna però essere consapevoli che dal 2022 la Cassazione ha anche detto che il fisco non è tenuto a provare l’intento elusivo: quindi il giudice potrebbe focalizzarsi solo sui fatti oggettivi. Se questi sono: “nessun dipendente, ufficio fittizio, tutto deciso in Italia, profitti solo fiscalmente reindirizzati”, allora l’esito sarà sfavorevole (accertamento confermato). Se invece emergono “alcune attività reali in LUX, decisioni prese in parte lì, motivazioni extra-fiscali per la holding”, si potrebbe spuntare una vittoria (annullamento avviso) o almeno evitare il penale.

Esito probabile: scenario borderline. Potrebbe darsi che in primo grado l’accertamento venga annullato per insufficienza di prova di artificiosità, e poi magari in Cassazione venga ripristinato un approccio più rigoroso (come avvenne proprio nel caso D&G: CTR favorevole al Fisco, Cassazione pro contribuente nel 2018).

5. Settore immobiliare – Società estera proprietaria di immobili in Italia:
Scenario: un facoltoso imprenditore italiano possiede ville e case vacanza di lusso in Italia. Decide di intestare questi immobili a una LLC negli USA di cui è socio unico, per schermare la proprietà e (pensando erroneamente) sfuggire a tassazione su eventuali plusvalenze. La LLC non ha uffici né attività negli USA, è un “bare trustee” che possiede solo questi immobili italiani. L’imprenditore continua a usare le ville come seconde case per sé e la famiglia, senza pagare affitti ovviamente. L’Agenzia scopre la cosa (tramite registri immobiliari e segnalazioni RW) e contesta che la LLC USA è esterovestita, quindi i beni sono da tassare come se fossero di una società italiana (pagamento di IVIE, imposizione di potenziali rendite, ecc.), e inoltre configura una interposizione per celare disponibilità patrimoniali (rischio anche di sanzioni monitoraggio fiscale).
Rischio esterovestizione: molto alto. Anche se qui non c’è produzione di reddito evidente (gli immobili non sono affittati), il Fisco vede uno schema di schermatura. Già in passato l’Agenzia ha affrontato casi simili: immobili italiani intestati a società estere di comodo. Si tratta di un’esterovestizione “impropria” nel senso che più che i redditi, si mira a nascondere la titolarità (ma se l’immobile venisse venduto esentasse all’estero, allora c’è anche evasione di imposta sulla plusvalenza). Il fatto che la LLC non abbia alcuna attività negli USA ed è gestita dall’Italia rende palese la fittizietà.
Difesa: pressoché inesistente sul merito. L’imprenditore potrebbe sostenere che la LLC è un veicolo di investimento e che intendeva affittare gli immobili a terzi – se riuscisse a provare che c’era un piano economico (ad es. contratti di locazione a stranieri, gestione come casa vacanze con manager estero, etc.) potrebbe attenuare l’accusa di artificiosità. Ma se i fatti sono che la famiglia utilizzava gli immobili, la sostanza economica è nulla e l’intento elusivo (evitare tassazione e proteggere patrimonio) è lampante. Esito: l’accertamento verrebbe confermato, con recupero di eventuali imposte evitate (in primis l’IVIE, imposta sul valore degli immobili esteri, se non pagata, e altre imposte patrimoniali eventualmente). Sul penale, potrebbe configurarsi la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte se c’erano pendenze e l’hanno fatto per renderli inattaccabili dal fisco (art.11 D.Lgs 74/2000). La miglior difesa in questo caso è transigere: far emergere la situazione (magari indicando gli immobili nel quadro RW e regolarizzare tardivamente) per evitare guai peggiori.

Come si vede da questi esempi, lo scenario decisivo è sempre capire se la società estera aveva una ragion d’essere economica o se è solo una scatola vuota. Nei primi due casi (startup e consulenza) la situazione è quasi tutta a sfavore del contribuente; nel caso holding c’è margine di discussione; nel caso manifatturiero e immobiliare l’esterovestizione è plateale e difficilmente difendibile.

Domande frequenti (FAQ)

  • Cos’è esattamente l’esterovestizione societaria?
    È la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società che, in realtà, dovrebbe essere considerata italiana. In altre parole, la società è costituita o ha sede legale in un Paese estero (spesso a fiscalità privilegiata), ma la sua sede di direzione effettiva o la sua attività si trovano in Italia. Lo scopo tipico è pagare meno tasse, sfruttando il regime fiscale estero. È una pratica considerata illecita in quanto elusiva/abusiva delle norme tributarie italiane.
  • Quali criteri usa il Fisco per stabilire dove una società è residente fiscalmente?
    La legge italiana (art. 73 TUIR) prevede che una società è residente in Italia se per la maggior parte dell’anno ha in Italia la sede legale, oppure la sede dell’amministrazione (luogo da cui è effettivamente gestita), oppure l’oggetto principale (dove svolge principalmente l’attività). Basta uno di questi criteri perché scatti la residenza italiana. Inoltre, c’è una presunzione: società estere controllate da italiani e che controllano società italiane sono considerate residenti in Italia salvo prova contraria.
  • È illegale avere una società all’estero?
    No, non è vietato aprire o detenere società all’estero. È lecito anche beneficiare di regimi fiscali più favorevoli, purché la struttura estera abbia una sostanza economica reale. La Corte di Giustizia UE (caso Cadbury Schweppes) ha confermato che costituire società in un altro Stato membro per usufruire di minori imposte di per sé non è abuso. Diventa un problema (abuso della libertà di stabilimento) se la società all’estero è una “costruzione puramente artificiosa”, cioè senza reale attività economica nel paese estero e creata solo per eludere il fisco italiano. In sintesi: società estera genuina (con uffici, personale, business effettivo fuori) è ok; società estera schermo (guscio vuoto gestito dall’Italia) è illegale e contestabile.
  • Quali sono i segnali che il Fisco guarda per scoprire un’esterovestizione?
    Tra gli indizi tipici vi sono: amministratori e soci residenti in Italia; assenza di uffici e dipendenti nell’altro Stato; uso di sedi di comodo (solo domicili legali); operatività concentrata in Italia (clienti/fornitori per lo più italiani); flussi finanziari che dall’estero tornano ai soci in Italia; asset localizzati in Italia intestati alla società estera; coincidenza temporale sospetta (società estera creata subito prima di una grossa operazione fiscale). Più di questi elementi sono presenti, più è probabile che il Fisco apra un’indagine. L’Agenzia utilizza anche lo scambio informazioni internazionale (es. per sapere se la società estera ha uffici e staff) e incrocia dati bancari e digitali (email, IP) per capire da dove viene gestita.
  • Cosa contiene di solito un avviso di accertamento per esterovestizione?
    Elenca i motivi per cui l’Agenzia ritiene la società fiscalmente residente in Italia. Di solito cita i fatti: ad es. “sede amministrativa di fatto a … in Italia, amministratore residente in…, nessuna struttura operativa in… (paese estero)”, e richiama le norme violate (art. 73 TUIR e magari art. 5 D.Lgs. 74/2000 se c’è reato). Viene quindi rideterminato il reddito imponibile in Italia per gli anni contestati, con le relative imposte dovute (IRES, IRAP, IVA se applicabile) e sanzioni amministrative per omessa dichiarazione o infedele dichiarazione. Le sanzioni amministrative vanno dal 120% al 240% dell’imposta evasa (nel caso di omessa dichiarazione, minimo 250 € anche se non c’era imposta dovuta). Spesso l’atto segnala anche la trasmissione degli atti alla Procura per valutazione penale (se evaso > 50k €) – anche se non è requisito formale, è un’avvertenza frequente.
  • Che tasse si rischia di dover pagare se l’accertamento viene confermato?
    Tutte le imposte italiane che sarebbero state dovute come se la società fosse sempre stata italiana. Quindi: IRES (aliquota 24% attuale) sui redditi globali degli anni contestati, IRAP se applicabile (società di capitali normalmente soggette a IRAP, aliquota ~3.9%), IVA su operazioni che avrebbero dovuto scontarla (se la società estera vendeva in Italia senza applicare IVA italiana), imposte sostitutive su plusvalenze se del caso, ritenute non fatte, ecc. Inoltre, come visto, eventuali imposte indirette perdono agevolazioni: es. se la società estera ha acquistato immobili in Italia con imposta ridotta per società UE, dovrà pagare la differenza come se fosse italiana. Il tutto con interessi (calcolati dal giorno in cui andava pagata l’imposta) e sanzioni amministrative (generalmente 90% per infedele, 120-240% per omessa). Infine, se l’importo è grande, l’Agenzia può chiedere misure cautelari come fermo amministrativo di beni o ipoteca per garantire il credito.
  • L’esterovestizione è anche un reato? Rischio la denuncia penale?
    Non sempre, ma può esserlo. L’esterovestizione in sé non è un nome di reato, però il comportamento sottostante spesso comporta la omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000) da parte della società e di chi la rappresenta. Se l’imposta evasa per ogni anno supera 50.000 €, si configura il reato con pena 1,5–4 anni di reclusione. Quindi sì, c’è il rischio concreto di denuncia penale per il legale rappresentante (o l’amministratore di fatto) della società esterovestita. Inoltre, usare società estere per coprire redditi può costituire, in casi elaborati, anche dichiarazione fraudolenta (artt. 2 o 3 D.Lgs. 74/2000) se si sono usati artifici o documenti falsi, o sottrazione fraudolenta al pagamento (art. 11) se lo scopo era rendere inefficace la riscossione. Ogni caso va valutato: ad esempio nel caso Dolce & Gabbana alla fine in sede penale furono assolti per mancanza di prova del dolo, perché la struttura non era totalmente fittizia. In generale, per condannare penalmente serve dimostrare che la società estera era un mero schermo e che c’era volontà fraudolenta di evadere. Se c’è anche solo un dubbio di sostanza, in penalefavore dell’imputato si può arrivare all’assoluzione. Ma attenzione: la maggior parte degli accusati preferisce nel dubbio patteggiare o saldare il dovuto per evitare guai peggiori.
  • Come posso dimostrare che la mia società estera è genuina e non esterovestita?
    Dovrai fornire prove tangibili della sostanza economica all’estero. Ad esempio:
    • Documentare che hai un ufficio vero nel Paese estero (contratto di locazione, foto dell’ufficio con insegna, utenze intestate alla società).
    • Elencare il personale assunto localmente, con ruoli e mansioni (contratti di lavoro, buste paga).
    • Mostrare che le riunioni del CdA e le decisioni importanti avvengono lì: fornire verbali firmati in loco, timbri, viaggi effettuati per le riunioni.
    • Far vedere che la contabilità è tenuta da un commercialista locale, che la società ha conti correnti presso banche estere e che le operazioni finanziarie sono gestite all’estero.
    • Provare che avete un giro d’affari estero: esibire contratti con clienti stranieri, fatture di vendita all’estero, partnership internazionali. Insomma che il business non dipende soltanto dall’Italia.
    • Se la società estera possiede beni in Italia, spiegare l’uso economico di tali beni e mostrare che non sono semplicemente a disposizione gratuita dei soci (ad es. immobili: contratto di affitto a terzi, oppure progetto di vendita commerciale).
    • Evidenziare la durata: se la società esiste da tanti anni e ha operato anche indipendentemente da eventi fiscali specifici, è un punto a favore (continuità operativa).
    Tutto questo deve essere organizzato e presentato in modo coerente. L’onere della prova contraria è a tuo carico: in mancanza, il giudice considererà validi gli indizi del Fisco. È utile predisporre un “dossier sostanza estera” sin dall’inizio dell’attività all’estero, raccogliendo questi elementi man mano.
  • Se la mia società estera è presunta residente in Italia (art. 73 co.5-bis), ho speranza di vincere?
    Sì, la presunzione è relativa (rebuttable). Significa che puoi vincere se fornisci prova contraria convincente. La presunzione 5-bis applica quando sei in scenario di holding: società estera controllata da italiani che controlla società italiane. In quel caso, per superarla devi provare che la società estera non è un semplice guscio di collegamento, ma svolge un ruolo effettivo e ha sostanza propria. Ad esempio, potresti far vedere che la holding estera gestisce partecipazioni estere importanti, che gli amministratori esteri prendono decisioni indipendenti, che non c’è un “dominus” unico italiano che la usa come scatola vuota. In alcuni interpelli l’Agenzia stessa ha detto: se manca il requisito di holding (cioè la società estera non detiene società italiane), la presunzione non si applica. Ma se invece c’è, devi lavorare di prova contraria. Non è facile ma neanche impossibile: la giurisprudenza ha casi (es. Cass. 33234/2018 – caso D&G) dove, pur essendoci controllo italiano e holding di marchi, non hanno riconosciuto l’esterovestizione per mancanza di prova di artificiosità totale. Quindi si può vincere, ma devi convincere il giudice che, sebbene la presunzione si applichi, il tuo caso concreto esce dallo schema abusivo (perché la sede estera aveva un minimo di vita propria).
  • Quanto indietro nel tempo può andare il Fisco a contestare l’esterovestizione?
    Se la società estera non ha mai presentato dichiarazioni in Italia (omessa dichiarazione), il termine di accertamento è lungo: l’avviso può essere notificato entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui avresti dovuto presentare la dichiarazione. In pratica circa 7 anni e qualche mese. Ad esempio redditi 2018 (dich. da presentare 2019) → accertamento notificabile fino al 31/12/2025. Per l’IVA omessa è uguale (7 anni). Se invece qualche dichiarazione in Italia c’era (dichiarazione infedele), il termine ordinario è 5 anni. Attenzione: in presenza di violazioni penali il termine di accertamento può essere esteso di ulteriore 1 anno (la cosiddetta proroga biennale, oggi un anno, in caso di invio di notitia criminis). Inoltre per alcuni casi di investimenti in paesi “black list” c’erano termini ancora più lunghi (fino a 10 anni, secondo vecchie norme ora modificate). Per sicurezza, il Fisco tende comunque ad accertare entro 7 anni nei casi di esterovestizione. Va anche detto che se la società estera ha cessato l’attività, possono emergere problemi di notifiche: l’avviso va notificato al rappresentante in Italia o nominando un curatore fiscale. Anche qui un legale può controllare eventuali vizi.
  • Posso evitare il processo andando d’accordo con l’Agenzia?
    Sì, ci sono modi per chiudere la vicenda senza arrivare fino in Cassazione:
    • Accertamento con adesione: come detto, consente un accordo con sanzioni ridotte a 1/3. Se trovi terreno comune con l’ufficio (es: riconosci una parte dell’imponibile e loro tolgono alcune sanzioni), potete firmare un atto di adesione. Spesso l’ufficio in casi gravi chiede pagamento immediato di una quota rilevante.
    • Conciliazione giudiziale: se sei già in processo, puoi conciliare in qualsiasi momento prima della sentenza di primo grado (con sanzioni ridotte al 40%) o di secondo grado (50%). Serve l’accordo di entrambe le parti e l’omologazione del giudice. Può convenire se, ad esempio, nel frattempo hai raccolto soldi per pagare e vuoi chiudere evitando il rischio penale (pagando il dovuto riduci anche il carico penale).
    • Definizione agevolata liti pendenti: come accennato, talvolta il legislatore apre finestre per definire le cause fiscali pendenti con pagamento di percentuali ridotte (es. il 90%, 40%, ecc. a seconda gradi). Nel 2023 c’è stata una definizione per le cause fino in Cassazione pendenti al 1/1/23. Bisogna vedere se la tua rientra e se conviene.
    • Transazione fiscale (solo se fallimento): se la società o il contribuente è in procedura concorsuale, c’è l’istituto della transazione fiscale per chiudere i debiti fiscali nell’ambito del concordato/fallimento.
    In sostanza, puoi trovare un compromesso col Fisco. Devi però considerare che, ammettendo anche parzialmente le pretese e pagando, questo può aiutarti sul piano penale (dimostri ravvedimento operoso). Molti imprenditori in passato hanno scelto di pagare il dovuto per ottenere l’archiviazione del penale (perché sotto soglia o per remissione querela nei reati minori). Quindi sì, patteggiare col Fisco è spesso una via pragmatica.
  • Come prevenire problemi di esterovestizione se opero all’estero?
    La prevenzione sta tutta in una parola: “sostanza”. Se vuoi stabilire una società all’estero e non avere grattacapi:
    • Assicurati che la forma segua la sostanza: non aprire società estere fittizie solo sulla carta. Se apri all’estero, trasferisci davvero qualcosa lì (tu stesso o un manager, del personale, l’ufficio).
    • Tieni un dossier pronto con le evidenze dell’operatività estera (vedi sopra) sin dal Day-1. Così, se mai arriverà un controllo, potrai subito esibire le prove.
    • Valuta strumenti come l’interpello (anche se l’Agenzia ha detto che non risponde su casi di residenza, potresti provare un interpello anti-abuso per stare più tranquillo, sebbene quasi certamente diranno che non si può escludere in anticipo).
    • Considera il regime di Cooperative Compliance se sei grande azienda: un regime di trasparenza con il Fisco, disponibile a certe condizioni, che evita a monte il contenzioso.
    • Se hai dubbi sulla solidità della struttura estera, forse è meglio non rischiare: piuttosto riportare in Italia l’attività o darle consistenza reale fuori. O, se la struttura estera ha perso senso, scioglierla e dichiarare tutto in Italia prima che arrivi un controllo (spesso l’Agenzia apprezza quando un contribuente corregge spontaneamente situazioni border-line).

Conclusioni

L’accertamento per esterovestizione è un atto con cui il Fisco contesta una situazione di evasione/elusione internazionale complessa, spostando in Italia redditi e imponibili che il contribuente riteneva di avere lecitamente (o illecitamente) collocato all’estero. Abbiamo visto che la difesa in questi casi richiede un elevato grado di approfondimento giuridico e una robusta documentazione di supporto. Dal punto di vista del debitore/contribuente, è fondamentale comprendere che l’esterovestizione non è una semplice formalità, ma viene presa molto seriamente dall’Amministrazione finanziaria, con possibili effetti devastanti: recupero di più anni d’imposta, sanzioni pesanti (fino al 240% dell’imposta) e perfino rischi penali con potenziali pene detentive.

Tuttavia, esistono strumenti e strategie per difendersi efficacemente. La giurisprudenza recente ha affermato principi equilibrati: il Fisco può e deve colpire gli schemi artificiosi privi di sostanza (i “finti stranieri”), ma il contribuente ha diritto di scegliere di operare all’estero se lo fa in modo genuino, e in giudizio può far valere le proprie ragioni presentando prove concrete. Le corti tributarie valutano caso per caso se l’esterovestizione è reale o solo apparente, e non mancano esempi di contribuenti vittoriosi quando hanno dimostrato sostanza economica oltrecortina.

In definitiva, “come difendersi” da un accertamento di esterovestizione significa:

  • Conoscere le norme (criteri di residenza e presunzioni) e i propri punti deboli/forti rispetto ad esse.
  • Agire tempestivamente, sfruttando ogni strumento procedurale (adesione, ricorso, sospensione, ecc.).
  • Documentare ogni aspetto sostanziale dell’operatività estera, già prima che venga contestato, e ancor di più dopo.
  • Seguire i principi giurisprudenziali emersi: focalizzarsi su sostanza vs. artificio, far valere eventuali ragioni economiche genuine, invocare libertà UE solo se supportata dai fatti.
  • Coordinare la difesa tributaria e penale, perché l’esito di una può influenzare l’altra. Pagare il dovuto quando opportuno può essere parte della strategia di minimizzazione del danno (soprattutto penale).

Affrontare un’accusa di esterovestizione richiede quindi un approccio multidisciplinare, rigore nella raccolta delle prove e, preferibilmente, l’affiancamento di professionisti esperti in diritto tributario internazionale. Con una difesa tecnica, documentata e tempestiva, il contribuente potrà far valere le proprie ragioni e, se effettivamente l’operazione estera aveva sostanza, vedere riconosciute le proprie ragioni. Viceversa, se lo schema era abusivo, è opportuno cercare di limitare le conseguenze, collaborando dove possibile con l’Amministrazione per una soluzione mediata.

In ogni caso, questa guida evidenzia come il punto di vista del debitore debba sempre tener presente sia gli aspetti fiscali sia quelli penali, in un’ottica di gestione integrata del rischio. L’esterovestizione è un fenomeno complesso, ma con la giusta preparazione e assistenza legale è possibile gestirlo e, auspicabilmente, risolverlo nel modo meno impattante possibile per l’imprenditore.


Fonti

Art. 73, comma 3 e comma 5-bis, DPR 917/1986 (TUIR) – Criteri di collegamento e presunzione di residenza fiscale delle società.

Agenzia Entrate, Circolare 28/E (4 agosto 2006) – Chiarimenti introduttivi sulla disciplina anti-esterovestizione (art. 73 commi 5-bis e 5-ter), inversione onere della prova e criteri di effective management.

Agenzia Entrate, Risoluzione 312/E (5 novembre 2007) – Esclusa l’esperibilità dell’interpello per i casi di presunzione di residenza ex art. 73(5-bis); chiarimenti su dual residence Italia-Paesi Bassi.

Agenzia Entrate, Risposta a interpello n. 27/2022 – Presunzione di esterovestizione non applicabile a società estera (controllata da italiani) senza partecipazioni in società italiane.

Agenzia Entrate, Risposta a interpello n. 164/2023 – Conferma non applicabilità del 5-bis in assenza di partecipazioni italiane; principio di tassazione nello Stato estero se attività effettiva svolta colà.

Cass. civ. Sez. V, 11/04/2025 n. 2458 – Caso di società controllata italiani (Antille Olandesi): definizione di esterovestizione (“sede amministrativa in Italia ma residenza dichiarata estero al solo fine di fruire di regime fiscale vantaggioso”), utilizzo organico di indizi gravi, precisi e concordanti per provare la fittizietà.

Cass. civ. Sez. V, 06/02/2024 n. 3386 – Contestazione di esterovestizione ai fini imposta di registro: società UK con unico socio italiano conferitaria di immobile. Principi: (a) se mancano requisiti, presunzione 5-bis non opera; (b) residenza effettiva in Italia comunque accertata in base a indizi (assenza uffici e costi esteri, admin unico in Italia); (c) rettifica residenza vale anche per imposte indirette, in coerenza con Dir. 2008/7/CE (Capital Duty).

Cass. civ. Sez. V, 26/05/2024 n. 14485 – Conferimento immobiliare a società UK (socia americana): ribadita esterovestizione. La Cassazione cassa la CTR che aveva valutato prove difensive come sufficienti: enfatizza invece gli indizi di artificiosità non confutati (costituzione ad hoc, nessuna attività svolta, immobile rimasto nella disponibilità effettiva del conferente italiano). Sottolineato che documenti formali non bastano; serve vera substance all’estero.

Cass. civ. Sez. V, 25/07/2022 n. 23150 – Principio di diritto: “ai fini della residenza ex art. 73 co.3 TUIR basta l’accertamento oggettivo dei criteri di collegamento (sede legale/amministrativa/oggetto in Italia) indipendentemente dalla prova di un intento elusivo”. L’esterovestizione è quindi perseguita come fattispecie oggettiva, senza necessità di attivare la procedura generale anti-abuso.

Cass. civ. Sez. V, 08/09/2022 n. 26538 – Sentenza sistematica: ricostruisce criteri art.73 e principi UE. Conferma che l’esterovestizione è dissociazione tra realtà e forma: sede effettiva in Italia ma formale all’estero per minori imposte. Richiama Cadbury e principi anti-abuso UE (Halifax etc.), ribadendo che va accertato se lo scopo essenziale era solo il vantaggio fiscale e se manca un effettivo esercizio di attività economica nello Stato estero. Conclude che Fisco deve provare elementi di artificiosità e poi contribuente gli eventuali elementi di sostanza.

Cass. civ. Sez. V, 21/12/2018 nn. 33234-33235 (caso Dolce & Gabbana, ambito tributario) – Svolta pro contribuente: esterovestizione solo se costruzione di puro artificio volta esclusivamente a indebito vantaggio fiscale. Nel caso, la Lux Holding del gruppo non fu ritenuta esterovestita perché gli elementi raccolti (pur suggerendo controllo italiano e vantaggio fiscale) non provavano l’assenza totale di sostanza economica e finalità extra-fiscali. Principio allineato a Cadbury, innalza la soglia probatoria per il Fisco: non basta “sede estera + soci italiani”, serve dimostrare che l’entità estera è un guscio vuoto senza attività reale.

Cass. civ. Sez. V, 01/02/2013 n. 2869 – (una delle prime definizioni) “fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con trattamento fiscale più vantaggioso, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale”. Definizione poi ripresa da molte pronunce successive.

Cass. pen. Sez. III, 24/10/2015 n. 43809 (caso Dolce & Gabbana, penale) – Annulla le condanne per omessa dichiarazione: riconosce che non vi era prova oltre ogni dubbio della esterovestizione fraudolenta. Afferma che non basta che la controllante italiana dia direttive, serve dimostrare che la società estera era schermo privo di autonomia (mera casella postale). Se c’è un vero ufficio all’estero e un minimo di attività, cade il dolo. Principio del favor rei: in presenza di indici di operatività concreta all’estero, l’imputato va assolto per mancanza di dolo.

Cass. pen. Sez. III, 22/03/2023 n. 12084 – Conferma sequestro preventivo in indagine per esterovestizione (omessa dichiarazione art.5 e sottrazione fraudolenta art.11): ritenuti fondati gli indizi di fittizietà della società estera e configurabile il reato, giustificando misure cautelari reali. (Indicazione che in casi con evidenze solide l’autorità giudiziaria procede con severità).

Avviso di accertamento per esterovestizione della società? Fatti Difendere da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso di accertamento in cui l’Agenzia delle Entrate contesta che la tua società estera abbia in realtà la sede effettiva in Italia?
Ti accusano di esterovestizione, cioè di aver localizzato formalmente l’azienda all’estero per eludere il fisco italiano?

L’esterovestizione è una delle contestazioni più gravi in ambito fiscale, con conseguenze che includono recupero delle imposte, sanzioni elevate e responsabilità penali. Ma non tutte le contestazioni sono fondate: serve una difesa solida e mirata, costruita su prove reali.


🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

  • 📂 Analizza l’avviso di accertamento e ricostruisce la reale gestione della società
  • 📌 Verifica elementi oggettivi e soggettivi: luogo delle decisioni, amministrazione, operatività
  • ✍️ Redige memorie difensive e ricorso tributario per contestare l’esterovestizione
  • ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e in giudizio
  • 🔁 Ti assiste nel dimostrare l’autonomia effettiva della società estera e l’assenza di elusione

🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e contenzioso tributario
  • ✔️ Specializzato nella difesa da accuse di esterovestizione e residenza fittizia
  • ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia

Conclusione

Un avviso di accertamento per esterovestizione può compromettere la tua attività internazionale, ma non sei senza difese.
Con la giusta strategia legale puoi dimostrare la legittimità delle tue scelte e difenderti dalle accuse fiscali.

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Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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