Accertamento Fiscale A Società Di Persone: Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento fiscale nei confronti della tua società di persone? L’Agenzia delle Entrate contesta ricavi non dichiarati, costi indeducibili, irregolarità IVA o violazioni contabili? Ti stai chiedendo come difenderti e cosa rischiano i soci?

Le società di persone – come le SNC e le SAS – sono fiscalmente trasparenti: significa che i redditi accertati vengono imputati direttamente ai soci, anche se l’accertamento riguarda formalmente la società. Ma non tutti gli accertamenti sono fondati, e ci sono strumenti legali per reagire con efficacia.

Quando può scattare un accertamento a una società di persone?
– In caso di dichiarazione dei redditi incompleta o errata
– Se ci sono movimenti bancari non giustificati
– Quando il Fisco rileva disallineamenti tra IVA, contabilità e ricavi
– Se la società ha omesso fatture, dedotto costi fittizi o non ha tenuto i registri in modo corretto
– Se vi è un ISA anomalo o incongruenze nei parametri di settore

Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate?
Ricavi non dichiarati, anche sulla base di presunzioni
Costi non documentati o considerati non inerenti
Fatture soggettivamente o oggettivamente inesistenti
Compensi distribuiti ai soci in nero
Omissioni IVA o detrazioni non spettanti
Compensazioni indebite con crediti non spettanti

Chi risponde dell’accertamento: la società o i soci?
– La società di persone è il soggetto accertato, ma
I soci rispondono pro-quota dei redditi accertati, anche se non hanno percepito utili
– Il Fisco può notificare avvisi di accertamento personali ai soci, con effetti immediati
Anche i soci accomandanti (nelle SAS) possono essere coinvolti, se il reddito è attribuito loro

Come difendersi da un accertamento a società di persone?
– Esamina la dichiarazione dei redditi e la contabilità in modo dettagliato
– Controlla che l’accertamento sia stato notificato correttamente alla società e poi ai soci
– Raccogli documenti a supporto: contratti, fatture, bilanci, estratti conto
– Presenta memorie difensive entro i termini
– Valuta l’adesione all’accertamento se conveniente, per ridurre sanzioni
– In caso di errori o illegittimità, presenta ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria

Cosa puoi ottenere con una buona difesa?
Annullamento totale o parziale dell’accertamento, se fondato su presunzioni errate
Riduzione delle sanzioni, anche per buona fede o errore materiale
Protezione del patrimonio personale dei soci, se dimostri assenza di distribuzione utili
Sospensione della riscossione, per evitare fermi, ipoteche e pignoramenti

Un accertamento su una società di persone può avere gravi effetti personali sui soci, ma è possibile difendersi con efficacia se si agisce con tempestività e documentazione in ordine.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa di società e soci ti spiega come affrontare un accertamento fiscale a una SNC o SAS, quali errori può fare il Fisco e come proteggerti.

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Introduzione

L’accertamento fiscale è il procedimento attraverso cui l’Amministrazione finanziaria (tipicamente l’Agenzia delle Entrate, spesso coadiuvata dalla Guardia di Finanza) verifica la correttezza delle dichiarazioni dei redditi e delle altre imposte dovute, rideterminando d’ufficio il reddito o il volume d’affari e contestando eventuali imposte evase, sanzioni e interessi. Nel caso delle società di persone (come società in nome collettivo – S.n.c., società in accomandita semplice – S.a.s., società semplice – S.s., nonché società di fatto), l’accertamento presenta particolarità rilevanti: queste società non sono soggette all’IRES (imposta sul reddito delle società) ma godono del regime di “trasparenza fiscale”, per cui i redditi vengono imputati direttamente ai soci e tassati in capo a questi ultimi (art. 5 del TUIR). Ciò significa che un avviso di accertamento rivolto a una società di persone coinvolge inevitabilmente anche i soci, i quali saranno chiamati a rispondere pro-quota delle maggiori imposte accertate. Difendersi efficacemente in questi casi richiede quindi di tutelare sia la società che i suoi soci, muovendosi con cognizione delle norme tributarie e processuali applicabili.

In questa guida – aggiornata a luglio 2025 con le novità normative e giurisprudenziali più recenti – esamineremo in dettaglio come affrontare un accertamento fiscale relativo a società di persone, adottando il punto di vista del debitore/contribuente che subisce la pretesa fiscale. Adotteremo un linguaggio tecnico-giuridico ma con intento divulgativo, adatto tanto a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) quanto a imprenditori e privati interessati.

Tratteremo in primo luogo le caratteristiche delle società di persone in ambito fiscale e le peculiarità degli accertamenti che le riguardano. Successivamente analizzeremo le fasi del procedimento di controllo e accertamento, i metodi utilizzati dal Fisco (accertamento analitico, induttivo, sintentico ecc.), e le garanzie difensive previste dall’ordinamento (ad esempio il contraddittorio endoprocedimentale e i termini di decadenza). Illustreremo tutte le tipologie di accertamento applicabili – comprese le verifiche in contabilità semplificata o le situazioni di regime forfettario – evidenziando come prepararsi alla difesa in ciascun caso.

Ampio spazio sarà dato alle strategie difensive, sia nella fase amministrativa (strumenti deflattivi come l’accertamento con adesione, l’istanza di autotutela, la definizione agevolata) sia nel contenzioso tributario innanzi alle Corti di Giustizia Tributaria (già Commissioni Tributarie). Approfondiremo inoltre i profili penali connessi all’accertamento: quando un accertamento fiscale può sfociare in una denuncia per reati tributari, quali sono i principali reati (dall’omessa o infedele dichiarazione fino alle frodi fiscali), le relative soglie di punibilità e le strategie per difendersi in sede penale, anche alla luce della riforma del 2024 che ha rafforzato il coordinamento tra processo tributario e processo penale.

Saranno inclusi esempi pratici e simulazioni per chiarire concretamente come applicare i principi esposti (dal caso della “società di fatto” familiare accertata mediante indagini bancarie, alla difesa in presenza di verifiche della Guardia di Finanza, fino al caso di società già cessata destinataria di un avviso di accertamento). Utilizzeremo inoltre tabelle riepilogative per riassumere dati chiave – ad esempio i termini di decadenza dell’azione accertatrice, le differenze tra tipi di società, le soglie penal-tributarie, gli strumenti deflattivi disponibili – in modo da fornire un riferimento immediato. Infine, una sezione di Domande e Risposte (FAQ) affronterà i quesiti più frequenti dal punto di vista del contribuente sottoposto ad accertamento.

Nota bene: tutte le fonti normative e giurisprudenziali richiamate nel testo sono elencate in fondo alla guida, nella sezione Fonti. Si tratta di riferimenti aggiornati e autorevoli (leggi, decreti, sentenze di Cassazione, circolari dell’Agenzia delle Entrate, ecc.), utili per approfondire ulteriormente i temi trattati. Con queste premesse, possiamo addentrarci nell’argomento, iniziando dalle basi: cosa sono le società di persone e cosa comporta, in termini di fisco e responsabilità, farne parte quando scatta un accertamento.

Società di persone: caratteristiche fiscali e responsabilità dei soci

Le società di persone sono forme societarie disciplinate dal codice civile che includono principalmente la società semplice (S.s.), la società in nome collettivo (S.n.c.) e la società in accomandita semplice (S.a.s.). A queste, la prassi e la giurisprudenza aggiungono la società di fatto, figura non prevista espressamente dalla legge ma riconosciuta quando più persone, senza atto costitutivo formale, esercitano insieme un’attività economica come soci. Indipendentemente dalla forma, tali società condividono alcune caratteristiche fiscali cruciali per il tema degli accertamenti:

  • Trasparenza fiscale del reddito: ai sensi dell’art. 5 del DPR 917/1986 (TUIR), il reddito imponibile prodotto dalla società di persone non viene tassato in capo alla società, ma è attribuito pro-quota ai soci e concorre alla formazione del reddito personale di ciascuno (viene cioè “trasfuso” nei redditi IRPEF dei soci). Ad esempio, se una S.n.c. consegue €100.000 di reddito imponibile e due soci hanno quote al 50%, ciascun socio dovrà dichiarare €50.000 aggiuntivi nei propri redditi IRPEF. La società funge dunque da soggetto dichiarante (presenta la dichiarazione dei redditi “Unico SP”) ma non da soggetto passivo d’imposta per le imposte sui redditi. Fanno eccezione eventuali imposte proprie della società, come l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) e l’IVA, in cui la società di persone è debitore d’imposta diretto in quanto esercente attività d’impresa.
  • Obblighi contabili e dichiarativi: le S.n.c. e S.a.s. commerciali devono tenere le scritture contabili previste dalla legge (libri sociali, registro dei beni ammortizzabili, registri IVA, ecc.) e presentare annualmente la dichiarazione dei redditi e IVA. Le società semplici, che per definizione non possono svolgere attività commerciali (sono utilizzate per attività agricole o di gestione di patrimoni immobiliari, ad esempio), hanno obblighi contabili minori ma anch’esse presentano la dichiarazione dei redditi per imputare ai soci il reddito (tipicamente redditi agrari, da fabbricati, finanziari, ecc.). Le società di fatto, non essendo costituite formalmente, spesso non adempiono ad alcuna tenuta contabile né presentano dichiarazioni – ma ciò non le esonera affatto dalle pretese fiscali: in caso il Fisco ne contesti l’esistenza, potrà accertare un reddito d’impresa non dichiarato riqualificando come “società occulta” il rapporto tra le persone coinvolte.
  • Responsabilità illimitata dei soci per i debiti tributari: una caratteristica chiave delle società di persone (eccetto il socio accomandante di S.a.s., come si dirà) è la responsabilità personale e solidale dei soci per le obbligazioni sociali (artt. 2267 e 2291 c.c. per S.n.c.; art. 2313 c.c. per S.a.s.). Ciò significa che in caso di debiti, inclusi i debiti fiscali, i creditori possono rivalersi sul patrimonio personale di ciascun socio (oltre che su quello sociale) e ciascun socio risponde per l’intero debito (salvo il regresso interno fra soci). In ambito tributario, l’Agenzia delle Entrate e gli agenti della riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) possono dunque esigere il pagamento delle imposte evase e delle sanzioni sia dalla società (ove abbia patrimonio aggredibile) sia direttamente dai soci, in forza della menzionata responsabilità solidale. Nelle società in accomandita semplice (S.a.s.), i soci accomandatari hanno responsabilità illimitata e solidale (come i soci di S.n.c.), mentre i soci accomandanti rispondono delle obbligazioni sociali limitamente al capitale conferito (art. 2313 c.c.), salvo abbiano ingerito nell’amministrazione della società (nel qual caso perdono il beneficio della responsabilità limitata, art. 2320 c.c.). Tuttavia, va precisato che l’imputazione dei redditi per trasparenza fa sì che anche il socio accomandante sia destinatario di pretese fiscali in proprio: ad esempio, se un accomandante non dichiara la propria quota di reddito imputato, sarà sanzionato per dichiarazione infedele al pari dell’accomandatario. La Cassazione ha confermato che il maggior reddito accertato in capo a una società di persone “comporta l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione” – ciò in quanto il socio, pur non amministratore, ha il dovere/diritto di controllare la gestione sociale e conoscere gli utili reali conseguiti. Dunque, il socio accomandante non può sottrarsi alle conseguenze tributarie invocando la propria posizione defilata: per le imposte sui redditi dovute sulla sua quota e relative sanzioni egli ne risponderà integralmente, mentre per i debiti sociali (es. IVA o IRAP dovuta dalla società e non versata) la sua responsabilità rimane limitata al conferimento, salvo il caso di ingerenza gestionale.
  • Presunzione di distribuzione degli utili extracontabili: nelle società di capitali a ristretta base societaria (pochi soci) vige una presunzione giurisprudenziale secondo cui eventuali utili non contabilizzati scoperti dal Fisco si presumono distribuiti ai soci, a meno di prova contraria (principio anti-elusivo per evitare che i soci occultino utili facendo figurare utili non distribuiti). Ebbene, per le società di persone tale presunzione è in un certo senso “superflua”, poiché per legge tutto l’utile (anche quello extrabilancio accertato) è immediatamente imputato ai soci, che lo abbiano prelevato oppure no. In altre parole, in sede di accertamento il Fisco rettifica il reddito sociale e questo automaticamente si riverbera sui soci. Ne consegue che la difesa del socio di fronte a un accertamento che aumenta il reddito sociale non può consistere nel dire “quei maggiori utili non li ho presi io” – rileva semmai dimostrare che tali utili in realtà non esistono o sono inferiori a quanto contestato. Un ambito in cui invece i soci possono avere margine di difesa personale è il caso di “soci occulti” o estranei: ad esempio, se l’Agenzia contesta l’esistenza di una società di fatto tra certi soggetti, qualcuno potrebbe difendersi sostenendo di non essere affatto socio. Vedremo più avanti la tematica della prova dell’“affectio societatis” nelle società di fatto e delle conseguenze sul litisconsorzio necessario in giudizio.

In sintesi, quando si affronta un accertamento su una società di persone, bisogna tenere presente che i destinatari economici finali dell’imposizione sono sempre i soci (per le imposte sui redditi) e che l’eventuale riscossione coattiva potrà colpire il patrimonio dei soci (per ogni tipo di imposta dovuta). Questo giustifica l’importanza di un coordinamento difensivo: spesso converrà che società e soci si difendano congiuntamente, presentando un fronte comune nelle osservazioni al Fisco o nei ricorsi, per evitare che azioni scoordinate possano pregiudicare uno o più dei coobbligati. Anche la giurisprudenza riconosce che il giudizio tributario deve coinvolgere necessariamente tutti i soci e la società (c.d. litisconsorzio necessario), come vedremo, proprio perché la decisione deve essere uniforme verso tutti.

L’accertamento tributario: definizione, tipi e fasi principali

Cos’è un accertamento fiscale? È il procedimento mediante il quale il Fisco controlla il corretto adempimento degli obblighi tributari di un contribuente e, in caso di irregolarità, emette un atto (tipicamente l’avviso di accertamento) che rettifica la dichiarazione e quantifica le maggiori imposte dovute, con relative sanzioni e interessi. Nel gergo comune si parla di “fare un accertamento” per indicare sia l’attività istruttoria di verifica (controlli, ispezioni, richieste di documenti) sia l’atto finale che cristallizza la pretesa tributaria. Dal punto di vista giuridico, l’avviso di accertamento è un atto amministrativo motivato, emanato dall’ufficio finanziario competente, che deve indicare con chiarezza il maggior reddito o imposta accertati, le prove o presunzioni su cui si fonda, le norme violate e le sanzioni applicate, nonché le modalità e i termini per impugnarlo (art. 7 L. 212/2000 – Statuto del Contribuente). La corretta motivazione è essenziale: un avviso privo di adeguata spiegazione dei fatti e delle ragioni giuridiche è nullo per difetto di motivazione. Ciò rientra tra i profili di difesa su cui torneremo.

Nel contesto delle società di persone, una particolarità è che la legge prevede (art. 40 DPR 600/1973) che l’Agenzia delle Entrate provveda con unico atto alla rettifica dei redditi della società e contemporaneamente dei redditi dei singoli soci. In pratica, l’ufficio emette un solo avviso di accertamento che contiene sia la rettifica del reddito dichiarato dalla società di persone, sia le conseguenti rettifiche delle quote di reddito attribuite a ciascun socio (ai fini IRPEF). Questo principio di “unicità” evita duplicazioni e garantisce che il calcolo avvenga in modo coordinato. Ad esempio, se una S.n.c. ha dichiarato €0 di reddito ma il Fisco accerta che vi sono ricavi nascosti per €50.000, verrà emesso un avviso in cui si attribuisce €50.000 di reddito in più alla società e, poniamo, €25.000 aggiuntivi al socio A e €25.000 al socio B (se due soci al 50%). Prima del 2024, la prassi era che la competenza territoriale per notificare gli atti ai singoli soci seguisse il domicilio fiscale di ciascuno: poteva quindi accadere che l’avviso per il socio residente in altra provincia fosse emesso da un ufficio diverso. Dal 30 aprile 2024, per effetto del D.Lgs. 12/2024, la competenza è stata unificata: l’ufficio competente per l’accertamento sulla società lo è anche per quello verso i soci, a prescindere dal loro domicilio. Questo semplifica le procedure ed evita conflitti di competenza. In caso di inosservanza di tale regola sui nuovi atti (ad es. se dopo il 30/4/2024 un ufficio diverso emettesse avvisi separati ai soci fuori provincia), il contribuente potrà eccepire un vizio dell’atto per incompetenza dell’ufficio ai sensi dell’art. 7-bis L. 212/2000.

Fasi del controllo e poteri istruttori del Fisco

Un accertamento fiscale tipicamente si sviluppa in più fasi:

  1. Selezione del contribuente da controllare: L’Agenzia delle Entrate individua i soggetti a rischio evasione attraverso varie tecniche: incrocio di dati delle dichiarazioni, segnalazioni di irregolarità (es. incoerenze IVA), applicazione di indicatori di rischio (come gli ISA – Indici Sintetici di Affidabilità fiscale – che hanno sostituito gli studi di settore), liste selettive, informazioni provenienti da altre autorità (es. operazioni sospette segnalate). Ad esempio, una società di persone con ricavi dichiarati sistematicamente molto bassi rispetto alla media di settore potrebbe essere selezionata per un controllo approfondito.
  2. Avvio della verifica – inviti e accessi: Il Fisco può iniziare con un controllo formale a tavolino (richiedendo documenti o chiarimenti tramite questionari o inviti ex art. 32 DPR 600/1973) oppure con una verifica sul posto (accesso presso la sede dell’azienda, ispezione dei luoghi e dei documenti, eventualmente perquisizioni se autorizzate, ecc.). Nel caso delle società di persone, soprattutto se di piccole dimensioni o a conduzione familiare, non è raro che intervenga la Guardia di Finanza con una verifica fiscale completa in loco, esaminando la contabilità (se esiste) o cercando fonti extra-contabili (bloc-notes, agende con contabilità occulta, inventari di fatto, ecc.). Durante un accesso, il contribuente ha alcuni diritti sanciti dallo Statuto del Contribuente: ad esempio, l’accesso deve avvenire durante l’orario di ufficio o di esercizio dell’attività; il contribuente può farsi assistere da un professionista di fiducia; i verificatori devono redigere un processo verbale delle operazioni compiute. Inoltre, salvo casi di particolare urgenza e previa motivazione, tra la consegna del verbale di chiusura delle operazioni (PVC) e l’emissione di un avviso di accertamento devono intercorrere almeno 60 giorni, durante i quali il contribuente può presentare memorie e osservazioni difensive (art. 12 c.7 L. 212/2000). La violazione di questo intervallo può determinare la nullità dell’accertamento, a tutela del contraddittorio.
  3. Indagini finanziarie: Uno strumento istruttorio importantissimo, spesso utilizzato nelle verifiche a società di persone, è l’indagine bancaria (art. 32 co.1 n.7 DPR 600/1973 e art. 51 DPR 633/1972 per l’IVA). L’amministrazione può chiedere a banche e intermediari l’estratto conto e i movimenti dei conti correnti intestati alla società o ai soci, nonché informazioni su depositi, finanziamenti, cassette di sicurezza, ecc. I dati bancari ottenuti diventano base per presumere ricavi non dichiarati: secondo la legge, qualsiasi versamento non giustificato si considera un ricavo tassabile, e qualsiasi prelievo non giustificato si considera destinato a spese non dedotte (quindi a ricavi in nero). La Cassazione ha ribadito di recente (ord. nn. 2928/2024 e 4765/2025) che questa presunzione pone il contribuente in posizione di difesa passiva – ovvero, spetta al contribuente provare la natura non imponibile di ogni movimento bancario sospetto. In pratica, se la società (o un socio) ha un conto su cui affluiscono somme non registrate in contabilità, tali somme saranno considerate vendite non dichiarate a meno che si dimostri concretamente che, ad esempio, erano apporti di capitale, prestiti personali, trasferimenti da altri conti già tassati, ecc. (ciascun movimento va giustificato analiticamente con documenti). Le indagini finanziarie sono spesso avviate anche in assenza di una contabilità ufficiale, come avviene nelle società di fatto: l’utilizzo di conti personali/cointestati con transazioni comuni è un indice tipico di gestione occulta, e permette al Fisco di ricostruire il volume d’affari reale.
  4. Esiti del controllo e contraddittorio: Terminata l’istruttoria, l’ufficio procede a formulare le contestazioni. Se c’è stato un Processo Verbale di Constatazione (PVC) della Guardia di Finanza, questo viene notificato ai contribuenti interessati, che hanno 60 giorni per presentare osservazioni. L’ufficio, valutate le controdeduzioni, emetterà eventualmente un avviso di accertamento motivato. In altri casi, l’ufficio può inviare un “invito al contraddittorio” prima di emettere l’avviso, soprattutto oggi dopo la riforma del 2023-2024 che ha introdotto l’obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo per gli accertamenti tributari (esteso dall’ambito IVA a tutte le imposte): in pratica, prima di emettere un avviso su imposte dirette, l’Agenzia deve convocare il contribuente a un confronto, salvo casi di particolare urgenza o di mancata risposta. Questo obbligo mira a favorire il dialogo e la possibile definizione anticipata. In ogni caso, il contribuente ha diritto di accesso agli atti e di conoscere le prove raccolte a suo carico. L’avviso di accertamento, come detto, deve riportare i fatti accertati, gli elementi probatori o indiziari e le norme applicate. Ad esempio, se si tratta di un accertamento induttivo basato su conti bancari, l’atto elencherà i versamenti non giustificati (date e importi) che si considerano ricavi, e citerà l’art. 32 DPR 600/73 a fondamento della presunzione. Se è un accertamento derivato da uno studio di settore/ISA non congruo, indicherà i ricavi stimati secondo gli indici e il contraddittorio intercorso. Tutto questo è rilevante perché, in sede di difesa, eventuali lacune nella motivazione o errori (ad es. un ricavo calcolato due volte, o riferito a soggetto diverso) possono essere sfruttati per far annullare o ridurre la pretesa.
  5. Notifica dell’avviso di accertamento: L’atto deve essere notificato (mediante PEC per i soggetti dotati di domicilio digitale, altrimenti tramite posta raccomandata o messo notificatore) entro i termini di decadenza previsti dalla legge (si vedano più avanti i dettagli sui termini di accertamento). Per le società di persone, come visto, l’atto è unico ma destinato a più soggetti: viene tipicamente intestato alla società e ai singoli soci, oppure vengono emesse contestualmente più copie (una per la società e una per ciascun socio), con identico contenuto, notificandole a tutti gli interessati. Notificare a tutti è importante anche per evitare contestazioni in giudizio: la Suprema Corte ha affermato che in caso di mancata partecipazione in giudizio di tutti i soci l’intero processo tributario è affetto da nullità assoluta (litisconsorzio necessario). Approfondiremo questo aspetto nel paragrafo sul contenzioso.

Va sottolineato che l’accertamento fiscale può riguardare tutte le imposte: nelle società di persone, spesso l’attenzione è sull’IRPEF (in capo ai soci), sull’IVA e sull’IRAP. L’avviso di accertamento può contenere contestazioni multiple (es. maggior reddito non dichiarato ai fini IRPEF/IRAP e vendite non fatturate ai fini IVA). In fase difensiva, occorrerà considerare ogni aspetto (talvolta un rilievo può cadere per un’imposta ma rimanere valido per un’altra).

Infine, uno scenario particolare: l’accertamento verso società cessate o trasformate. Può accadere che la società di persone si sciolga o si trasformi (es. in società di capitali) prima che arrivi un avviso di accertamento. In tal caso, la legge (art. 2495 c.c. per società estinte, analogia per persone) e la giurisprudenza prevedono che l’avviso debba essere notificato ai soci come successori della società estinta. Notificare un avviso ad una società oramai estinta è atto inesistente o nullo. La Cassazione, ad esempio, ha ritenuto illegittimi gli avvisi notificati solo alla società di persone ormai cancellata dal registro imprese. Occorre quindi che l’Ufficio indirizzi la pretesa ai soci (indicando magari “in qualità di ex soci della società XYZ estinta”). Un’ordinanza recente (Cass. 35153/2024) ha chiarito che un avviso intestato alla società estinta può tuttavia considerarsi validamente notificato ai soci se a loro effettivamente consegnato, trattandoli in sostanza come destinatari ex lege del debito. In ogni caso, in sede di difesa, un socio che riceve atti intestati a società defunta potrà eccepire l’eventuale vizio, anche se la tendenza è di evitare formalismi che impediscano il recupero del tributo (l’importante è che il socio sia stato informato dell’accertamento). La problematica della società cessata si ricollega anche ai limiti di responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali: se la società si è sciolta con dei debiti tributari, i soci ne rispondono nei limiti di quanto incassato col bilancio finale di liquidazione (art. 2312 c.c.); ma l’Agenzia delle Entrate tende a chiedere l’intero ai soci illimitatamente responsabili, lasciando a loro l’onere di dimostrare l’eventuale incapienza patrimoniale della società.

Metodi di accertamento: analitico, induttivo, sintetico, ecc.

Nel condurre un accertamento, l’ufficio può seguire diversi metodi di determinazione della materia imponibile, a seconda della completezza e attendibilità delle evidenze trovate:

  • Accertamento analitico (o analitico-contabile): È il metodo ordinario, previsto dall’art. 39 co.1 DPR 600/1973 per le imposte sui redditi (art. 54 DPR 633/72 per l’IVA). L’ufficio prende le mosse dalla contabilità e dalle dichiarazioni presentate e corregge analiticamente le singole poste ritenute irregolari. Si utilizza quando la contabilità è formalmente tenuta ma emergono, ad esempio, ricavi non registrati, costi indebiti da eliminare, errori materiali. In pratica si “rettificano” i componenti di reddito: aggiungendo redditi o stornando costi. Esempio: la S.n.c. Alfa ha dichiarato ricavi per €200.000 e un costo per consulenze di €50.000; se si scopre che quel costo era in realtà fattura per operazione inesistente, l’accertamento analitico toglierà €50.000 di costi (aumentando così l’utile di pari importo) e ricalcolerà le imposte. Nell’accertamento analitico vige il principio di capacità contributiva e attendibilità delle scritture: il fisco non può prescindere dalla contabilità senza motivo, e ha l’onere di provare le singole violazioni (con documenti, riscontri incrociati, ecc.). Il contribuente può difendersi confutando tali prove o fornendo interpretazioni diverse (es. quel costo è legittimo perché…).
  • Accertamento analitico-induttivo: È una variante intermedia (art. 39 co.1 lett. d DPR 600/73) applicabile quando, pur non essendoci i presupposti per l’induttivo puro, emergono irregolarità, inesattezze o contraddizioni nella contabilità tali da renderla in parte inattendibile. In tal caso, l’ufficio può effettuare estrapolazioni o ricostruzioni di singoli elementi basandosi su presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti. Ad esempio, se in una contabilità formalmente tenuta si riscontrano percentuali di ricarico anormalmente basse su alcuni prodotti, l’ufficio potrebbe induttivamente rideterminare i ricavi applicando una percentuale di ricarico media del settore a quelle vendite, anche se non c’è prova diretta di vendite in nero. È dunque un accertamento “misto”: in parte fondato su dati contabili, in parte su presunzioni. La difesa consisterà nel dimostrare che quelle presunzioni non sono affidabili nel caso concreto (ad esempio: il margine basso era giustificato da vendite promozionali o da merci obsolete svendute).
  • Accertamento induttivo (puro): Previsto dall’art. 39 co.2 DPR 600/73, si ha quando il contribuente non ha presentato dichiarazione, oppure non ha tenuto/ha sottratto all’ispezione le scritture contabili, oppure le scritture sono talmente inattendibili e lacunose da rendere impossibile ricostruire il reddito. In queste circostanze estreme, l’ufficio può prescindere completamente dalle risultanze contabili e determinare il reddito d’impresa in via induttiva, utilizzando qualsiasi elemento probatorio o indizio in suo possesso. È il caso tipico dei “ricostruiti a tavolino”: ad esempio, l’ufficiale accertatore può utilizzare i consumi di materie prime, gli acquisti di merci, gli indicatori standard del settore, i movimenti bancari, ecc., per stimare il volume d’affari. Può anche basarsi su coeffici presumtivi determinati da precedenti esperienze. Questo metodo, estremamente invasivo, dà grande discrezionalità all’amministrazione, ma non è arbitrario: occorre sempre una motivazione che spieghi i criteri adottati e gli indizi raccolti (art. 39 co.2 ultimo periodo). Esempio: se una società di fatto non ha tenuto alcuna contabilità, ma dal conto corrente dei soci emergono versamenti per €100.000, il fisco potrà presumere ricavi almeno pari a quella cifra (o maggiorati da ricarichi standard se pensa siano al netto di costi). La difesa qui è la più difficile, perché il contribuente si trova a dover confutare una ricostruzione globale: si potrà cercare di introdurre elementi che riducano la base (ad es. dimostrare che una parte dei versamenti erano finanziamenti soci non ricavi, ecc.) o evidenziare errori di metodo grossolani (es. doppio conteggio dello stesso elemento). In generale, se si arriva a un induttivo puro, significa che la posizione era molto irregolare a monte.
  • Accertamento sintetico sul socio (redditometro): Sebbene l’accertamento sintetico sia uno strumento riferito alle persone fisiche (art. 38 DPR 600/73), è rilevante citarlo perché i soci di società di persone sono persone fisiche (spesso imprenditori piccoli). L’accertamento sintetico determina il reddito complessivo netto della persona basandosi sulle spese di vita sostenute o sul patrimonio accumulato, prescindendo dalla specifica fonte. Ad esempio, se un socio persona fisica negli anni spende per acquisti di beni di lusso molto più di quanto dichiara come reddito personale (comprensivo della quota di utili della società), il Fisco potrebbe attivare un redditometro sul socio, ipotizzando redditi in nero (magari derivanti dalla società). In tal caso il socio dovrà giustificare la provenienza dei fondi (utili pregresse, redditi esenti, donazioni, etc.). Questo tipo di accertamento, dunque, aggira l’ambito societario e colpisce direttamente il socio come contribuente IRPEF. È importante tenerlo a mente: anche se la società sfugge a un controllo formale, i soci potrebbero essere controllati sulla congruità del loro tenore di vita rispetto ai redditi ufficiali. D’altronde, c’è coerenza: se una S.n.c. dichiara utili irrisori ma i soci manifestano ricchezza, qualcosa non torna.
  • Studi di settore e ISA: Fino al periodo d’imposta 2017 erano in vigore gli studi di settore, parametri statistici per varie attività economiche che stimavano ricavi e compensi attesi in base a dati strutturali dell’azienda. Dal 2018 sono stati sostituiti dagli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA), che attribuiscono un punteggio al contribuente: punteggi bassi possono far scattare controlli, punteggi alti danno benefici (come l’esclusione da accertamenti di tipo presuntivo). Nel contesto delle società di persone, se l’azienda applica gli ISA e risulta “non affidabile” (punteggio basso), è elevato il rischio di accertamento. Tuttavia, dal 2018 in poi l’ufficio non può più determinare il reddito esclusivamente in base allo studio di settore/ISA: deve comunque instaurare un contraddittorio e reperire altri elementi. In epoca pre-ISA, l’ufficio poteva (previo invito a presentarsi) emettere un accertamento basato sullo scostamento dagli studi di settore. Oggi quell’approccio è stato attenuato, ma rimane il fatto indiziante: una società di persone “disallineata” rispetto agli indicatori del settore (per es., margini troppo bassi) può essere un caso da approfondire con altre metodologie.
  • Parametri presuntivi per contabilità semplificata: Le piccole imprese in contabilità semplificata (regime contabile semplificato consentito a chi non supera certi ricavi, ex art. 18 DPR 600/73) non redigono bilanci completi e spesso adottano il regime di cassa (dichiarano i redditi in base agli incassi/pagamenti effettivi, non competenza). In caso di accertamento, l’amministrazione può utilizzare i “parametri” stabiliti con D.P.C.M. 29/1/1996 e succ. mod., cioè coefficienti per stimare ricavi e compensi minimi in base a poche variabili (es. acquisti, spese per dipendenti, ecc.), qualora manchino elementi contabili approfonditi. Anche questi parametri fungono da indizi e devono essere accompagnati dal contraddittorio. Per una società di persone in contabilità semplificata, dunque, il difensore dovrà essere pronto a confutare eventuali calcoli presuntivi standardizzati (magari mostrando che l’attività aveva peculiarità non colte dai parametri medi).

Riassumendo, il contribuente deve conoscere il metodo con cui è stato accertato il reddito, perché le strategie difensive variano: se l’accertamento è analitico, si lavorerà sui singoli elementi contestati (fornendo giustificativi, spiegazioni, perizie ecc.); se è induttivo puro, occorrerà scalzare la tenuta complessiva della ricostruzione (magari con contro-analisi globali o evidenziando violazioni procedurali); se è sintetico sul socio, la difesa sarà sul piano personale e patrimoniale del socio; se è da studi/ISA, si può puntare su elementi specifici che spiegano lo scostamento. Un avvocato tributarista esperto sa che anche le presunzioni tributarie hanno dei limiti: devono essere quantomeno ragionevoli e circostanziate. Ad esempio, la Cassazione ha annullato accertamenti troppo generici (basati su mere mediane di ricarico senza considerare la specificità dell’azienda) o privi di contraddittorio quando obbligatorio. Dunque, una linea difensiva è spesso contestare la “gravità, precisione e concordanza” delle presunzioni: se si riesce a dimostrare che le congetture del Fisco sono fragili o contraddittorie, l’accertamento può cadere per mancanza di prova.

Regimi contabili particolari: semplificata e forfettario

Un breve cenno meritano i casi di regimi fiscali agevolati o contabilità semplificata:

  • Contabilità semplificata: Molte società di persone di piccole dimensioni optano (o sono di diritto) per la contabilità semplificata, prevista per chi non supera certi limiti di ricavi (attualmente 500.000 € per attività di servizi e 800.000 € per altre attività). Dal 2017, il reddito in semplificata si determina con il regime di cassa salvo opzione per la competenza. Questo può influire sugli accertamenti: l’ufficio, se ricostruisce induttivamente i ricavi, deve tenere conto dell’eventuale tempo di incasso. Ad esempio, un accertamento potrebbe inizialmente imputare a un anno tutti i corrispettivi di vendite fatturate, ma se l’azienda era in regime di cassa occorre considerare che alcune fatture non pagate al 31/12 non concorrono al reddito di quell’anno. In sede di difesa, attenzione quindi al regime di cassa: può fornire argomenti per spostare la tassazione su annualità differenti (con eventuali decadenze di termini) o per escludere componenti non effettivamente percepiti. Inoltre, in contabilità semplificata è più frequente l’uso di coefficienti presuntivi da parte del fisco, data la minore documentazione: ad esempio, parametri basati sul consumo di energia elettrica per stimare i ricavi di un artigiano. Il contribuente deve controbattere con dati reali (es. lavorazioni esternalizzate, inefficienze produttive, ecc. che rendono quei consumi poco significativi).
  • Regime forfettario: Il regime forfettario (L. 190/2014 e successive modifiche) è un regime agevolato per le persone fisiche esercenti impresa o professione sotto una certa soglia di ricavi (85.000 € annui dal 2023), caratterizzato da imposta sostitutiva al 15% (o 5%) e semplificazioni contabili. Le società di persone non possono aderire al regime forfettario, in quanto riservato esclusivamente a imprenditori individuali e professionisti “persona fisica”. Pertanto, se un contribuente sceglie di operare attraverso una società di persone, non avrà accesso a questa flat tax: sarà soggetto alle regole ordinarie IRPEF sui redditi imputati. Tuttavia, può capitare una situazione affine: l’impresa familiare. Un’impresa familiare (ditta individuale con coadiuvanti familiari che ricevono una quota di reddito) rientra in art. 5 TUIR come le società di persone, e alcuni forfettari potrebbero trovarsi a gestire collaboratori familiari. La legge esclude dal forfettario chi abbia una partecipazione in società di persone o chi devolva quote di reddito a familiari, quindi di fatto un forfettario non può avere un’impresa familiare in senso tecnico. Dunque questo aspetto non genera problemi di accertamento “trasparente”. In generale, se si è in forfettario e si costituisce una società, si esce dal regime.

In conclusione, le società di persone operano sempre in regime fiscale ordinario (semplificato o ordinario) ai fini delle imposte, e non esistono regimi super-agevolati equiparabili al forfettario per esse. Questo significa che gli strumenti di controllo standard si applicano interamente. La difesa dovrà quindi far leva sulle regole generali: rispetto dei termini, onere probatorio a carico del fisco almeno per l’inizio della prova, legittimità delle presunzioni usate, rispetto del contraddittorio, ecc., senza aspettarsi soglie di tolleranza particolari (come invece avviene per i forfettari, i quali ad esempio sono esonerati da studi di settore, ISA e IVA: tutte semplificazioni che non valgono per S.n.c. & C.).

Garanzie del contribuente e vizi dell’accertamento: come rilevarli

Durante tutto il procedimento di verifica e accertamento, il contribuente (società e soci) gode di una serie di diritti e garanzie procedurali. Conoscerli è importante perché eventuali violazioni da parte dell’ufficio possono costituire motivi di nullità o annullabilità dell’atto impositivo. Vediamo le principali tutele:

  • Statuto del Contribuente (L. 212/2000): È la “Carta” dei diritti del contribuente. Abbiamo già citato alcuni articoli: l’art. 7 impone la motivazione chiara degli atti e l’indicazione delle norme su cui si fondano; l’art. 12 regola i diritti in sede di verifiche in loco (durata massima delle verifiche presso i locali dell’impresa – normalmente 30 giorni prorogabili, salvo grandi imprese; divieto di reiterare verifiche sull’stesso periodo salvo circostanze particolari; tempo di 60 giorni post-verifica per presentare memorie prima dell’accertamento, etc.). L’art. 6 garantisce il diritto al contraddittorio e alla conoscenza degli atti (il contribuente deve essere informato delle cause di accertamento e può fornire elementi a discarico). Da ultimo, il nuovo art. 7-bis (introdotto nel 2020) afferma l’obbligo per l’amministrazione di agire secondo buona fede e leale collaborazione. Questo principio di carattere generale può essere invocato, ad esempio, in caso di comportamenti abusivi dell’ufficio (come notificare atti in massa a ridosso della decadenza impedendo di fatto un efficace contraddittorio, o rifiutare senza motivo proroghe ragionevoli per rispondere a questionari). Pur non esistendo una sanzione diretta per la “mala fede”, alcuni giudici tributari tengono conto di queste condotte quando valutano la legittimità degli atti.
  • Obbligo di contraddittorio preventivo: In materia di tributi armonizzati (IVA), già da anni la giurisprudenza comunitaria e poi quella interna hanno stabilito che prima di emettere un avviso l’ufficio deve consentire al contribuente di esprimere le sue osservazioni, pena la nullità dell’atto, salvo che l’urgenza di evitare la decadenza non lo consenta. Per le imposte dirette, invece, fino a poco tempo fa non vigeva un obbligo generalizzato (a parte il caso del PVC con 60 giorni). La Riforma fiscale 2023 ha cambiato lo scenario: con il D.Lgs. 13/2024 è stato introdotto l’obbligo di invito al contraddittorio per praticamente tutti gli accertamenti, anche sulle imposte non armonizzate, con previsione che il mancato avviso al contribuente comporta l’invalidità dell’atto (salvo il caso in cui l’amministrazione dimostri in giudizio che l’atto avrebbe avuto lo stesso contenuto anche svolgendo il contraddittorio). Questa innovazione, applicabile agli atti emessi dal 2024 in avanti, porta a ritenere che il contribuente debba sempre essere interpellato prima dell’avviso. Ciò non toglie che, se l’ufficio omette tale passaggio e emette direttamente l’atto, convenga comunque presentare ricorso (non è una nullità autoesecutiva) sollevando subito la violazione dell’obbligo di contraddittorio come motivo. In giudizio si discuterà se la norma nuova è applicabile al caso concreto e se la lesione c’è stata.
  • Termini di decadenza dell’accertamento: Il Fisco può esercitare il potere di accertamento solo entro precisi termini, oltre i quali scatta la decadenza (il contribuente può eccepire l’intempestività e l’atto è nullo). I termini ordinari (dopo la riforma del 2015) sono: 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (per imposte sui redditi e IVA); se la dichiarazione non viene presentata, il termine è 31 dicembre del settimo anno successivo. Ad esempio, per il periodo d’imposta 2019 (dichiarazione presentata nel 2020), il termine è il 31/12/2025; se la dichiarazione 2019 era omessa, il termine diviene 31/12/2027. Fino al 2015 vigevano termini più brevi (4 e 5 anni) ma con raddoppio in caso di reati tributari; dal 2016 il raddoppio è stato eliminato e incorporato nei termini base (estesi a 5 e 7). Attenzione: il raddoppio dei termini continua a trovare applicazione per annualità fino al 2015 in presenza di denuncia penale per reati tributari (la Cassazione ha confermato che la disciplina previgente si applica transitoriamente). Quindi, per fare un esempio concreto: anno 2015 con dichiarazione omessa, se nel 2020 è stata presentata denuncia per evasione, il termine di 31/12/2022 sarebbe raddoppiato a 31/12/2029 (ma in mezzo c’è stata la riforma, dunque la materia è complessa e andrebbe valutata con attenzione caso per caso, anche perché la Corte Costituzionale ha escluso applicazioni retroattive del raddoppio oltre certi limiti). Per gli anni dal 2016 in poi, ci atteniamo al 5° e 7° anno. Eccezioni: l’IVA ha stessi termini dell’imposte sui redditi; altre imposte come il registro hanno termini diversi (in genere 5 anni dall’atto da registrare o dalla registrazione, o anche 8 in caso di occultazione di corrispettivo). Le violazioni formali (es. omessa fatturazione) possono emergere anche dopo, ma l’azione per il recupero imposta resta limitata a questi termini. Una recente novità: durante la pandemia Covid, i termini 2020 sono stati sospesi per alcuni mesi, introducendo un prolungamento di 85 giorni per gli atti in scadenza a fine 2020. Questo ha avuto un effetto trascinamento: gli accertamenti relativi all’anno 2015 (che scadevano ordinariamente al 31/12/2020) erano prorogati di 85 giorni (quindi circa metà marzo 2021). Per evitare complicazioni, il legislatore ha stabilito che tale “trascinamento” cessa con il 2025: dal 31/12/2025 in poi non si applicano più gli 85 giorni extra. In sintesi, fino all’anno d’imposta 2019 compreso si potrebbe discutere di qualche giorno di proroga Covid, ma per il 2020 e seguenti tornerà la scadenza netta al 31/12 del 5° o 7° anno. In difesa, verificare sempre la data di notifica dell’avviso e il periodo d’imposta: se il Fisco è fuori tempo massimo, è un motivo dirimente di annullamento. Ad esempio, un avviso per il 2016 notificato dopo il 31/12/2022 è decaduto (salvo raddoppio per reato formalmente contestato entro 12/2022). La decadenza è rilevabile d’ufficio dal giudice ed è insanabile.
  • Nullità della notifica o difetti formali: Un’altra linea di difesa è controllare la regolarità della notifica dell’avviso. Se fatta via PEC, verificare che l’indirizzo PEC usato fosse quello corretto della società/socio; se postale, che la relata di notifica sia compilata a dovere, ecc. Vizi di notifica possono rendere l’atto inesistente (se proprio non pervenuto) o annullabile (se notificato a soggetto sbagliato). Ad esempio, se l’avviso è stato consegnato a un indirizzo non risultante dalla sede legale né dalla residenza del socio, e il contribuente lo viene a sapere magari per vie traverse, si può eccepire la nullità della notifica e quindi l’inesistenza dell’atto (salvo la sanatoria per raggiungimento dello scopo se poi lo si impugna comunque). Un caso peculiare per le società di persone è il già menzionato avviso a società estinta: se notificato solo alla società defunta e non ai soci, quell’atto è inutilizzabile (anche se come visto Cass. 35153/2024 ha cercato di salvare gli atti intestati alla società ma recapitati ai soci, la prudenza porta a notificare correttamente ai soci).
  • Litisconsorzio necessario tra società e soci: Ne abbiamo accennato: secondo la Cassazione, nelle liti da accertamento di redditi di società di persone devono essere parti in causa tutti i soggetti interessati, quindi la società e tutti i soci, altrimenti la sentenza è invalida erga omnes. Questo ha portato a pronunce di nullità dell’intero giudizio quando, ad esempio, solo il socio impugnava l’avviso senza chiamare in causa la società o gli altri soci. Dal 2024, grazie all’atto unico emesso dallo stesso ufficio, sarà più agevole gestire il litisconsorzio, ma per le controversie di anni precedenti o casi in cui erroneamente non si è notificato a qualcuno, resta un tema delicato. In fase difensiva, se ricevete un avviso come socio, assicuratevi che tutti i coobbligati facciano ricorso unitariamente, o che chi ricorre citi espressamente gli altri come litisconsorti necessari. Se ciò non avviene, il giudice tributario deve disporre l’integrazione del contraddittorio chiamando gli altri soci. Se questo non accade e si arriva a sentenza senza tutti i soggetti coinvolti, la sentenza è affetta da nullità insanabile rilevabile anche in Cassazione. Dal punto di vista pratico, conviene coordinare la difesa: spesso si fa un ricorso cumulativo di società + tutti soci rappresentati dallo stesso difensore, così da evitare problemi. Se invece, poniamo, un socio non vuole impugnare, gli altri soci ricorrenti dovrebbero almeno chiamarlo in causa come litisconsorte. Questo è un tecnicismo processuale, ma fondamentale: molti accertamenti altrimenti fondati sono caduti in Cassazione perché non era stato rispettato il litisconsorzio sin dal primo grado.
  • Vizi di motivazione o errori grossolani: L’avviso deve spiegare il “perché” del maggior imponibile. Se non lo fa adeguatamente, l’atto è nullo. Ad esempio, se il fisco si limitasse a dire “reddito d’impresa accertato €100.000 in più in quanto così si presume”, senza indicare elementi, sarebbe un atto nullo per difetto assoluto di motivazione. Più spesso avvengono motivazioni carenti: es. omesso esame delle controdeduzioni del contribuente nel provvedimento finale (la giurisprudenza chiede che l’ufficio confuti, anche sommariamente, le difese presentate in sede di contraddittorio). Oppure errori come richiamare una verifica della GdF e fondarsi su essa, ma non allegarla né riportarne i passi salienti: il contribuente potrebbe lamentare di non aver potuto conoscere le basi dell’accusa. La legge in effetti obbliga ad allegare all’avviso gli atti richiamati che non siano già stati notificati al contribuente (art. 7 L.212/2000). Dunque, se l’ufficio emette avviso richiamando un PVC o un rapporto GdF non notificato prima, deve allegarlo, pena nullità. Un’altra situazione: l’ufficio motiva “in fotocopia” atti di soci diversi senza tener conto di differenze. Ciò può essere indice di carente istruttoria e essere contestato. La difesa potrà far leva su questi aspetti per invalidare l’atto o comunque minarne la credibilità.
  • Errori del soggetto emanante o difetti di sottoscrizione: L’avviso di accertamento deve essere sottoscritto dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato. Se firmato da soggetto non titolato e senza delega valida, è nullo per incompetenza. Negli ultimi anni sono fioriti contenziosi sulle deleghe di firma: occorre verificare se chi ha firmato l’avviso aveva la qualifica necessaria o una delega regolarmente disposta dal dirigente. La Cassazione (SS.UU. n. 22800/2015) ha stabilito che la delega di firma è legittima se specifica e conferita a funzionari di livello adeguato. Molti uffici hanno sanato eventuali difetti, ma è buona prassi in giudizio chiedere all’ente di produrre la delega del firmatario se non è già indicata. Un vizio su questo punto porta all’annullamento totale dell’avviso.

In generale, possiamo dire che l’analisi formale dell’accertamento è il primo passo difensivo: a volte vizi procedurali consentono di far annullare l’atto indipendentemente dal merito. Tuttavia, non bisogna farci eccessivo affidamento: alcune violazioni procedurali vengono considerate sanabili o non invalidanti se non c’è un effettivo pregiudizio. Ad esempio, la mancata allegazione di un documento può essere superata se comunque il contribuente ne era a conoscenza; il mancato contraddittorio potrebbe non invalidare l’atto se il giudice ritiene che, nel merito, non ci sarebbe stato nulla da discutere (è successo in passato per taluni casi di frodi IVA “a prova evidente”). Comunque, vale sempre la pena eccepire tutti i vizi riscontrati, perché costituiscono argomenti ulteriori a favore.

Difendersi prima del contenzioso: strumenti deflattivi e definizioni agevolate

Quando un contribuente (società o socio) riceve un avviso di accertamento, non è obbligato a impugnarlo immediatamente davanti al giudice. L’ordinamento tributario offre infatti alcuni strumenti “deflattivi” del contenzioso, che consentono di evitare (o ritardare) il ricorso giurisdizionale trovando un accordo o accettando con beneficio l’esito dell’accertamento. Dal punto di vista del debitore, valutare queste opzioni fa parte di una strategia difensiva o transattiva. Le principali opzioni sono:

  • Istanza di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997): L’adesione è una procedura mediante la quale il contribuente e l’ufficio si siedono attorno a un tavolo (non letteralmente, spesso oggi è via PEC o telematicamente) e cercano un accordo sull’entità delle imposte accertate. Il contribuente può presentare istanza di adesione entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso (termine di impugnazione), il che sospende per 90 giorni i termini per fare ricorso. Durante la discussione in adesione, il contribuente può fornire ulteriori elementi, proporre una rideterminazione più favorevole (ad esempio ammettendo parzialmente i rilievi ma ottenendo sconti su imponibili o sanzioni). Se si raggiunge l’accordo, viene redatto un atto di adesione con le nuove somme dovute, le sanzioni sono ridotte a un terzo del minimo (molto conveniente rispetto a quelle piene che sarebbero applicate in caso di soccombenza in giudizio), e il contribuente può pagare il tutto anche ratealmente (fino a 8 rate trimestrali, 16 rate se importi sopra 50.000 €). Importante per le società di persone: l’adesione ha effetto anche per i soci. Ciò significa che se la società di persone attiva la procedura di adesione su un avviso che la riguarda (e riguarda pro-quota i soci), l’accordo concluso vincola anche i soci sulla loro quota di reddito. Anzi, la norma (art. 5-bis D.Lgs. 218/97) prevede che, nel caso di accertamenti riguardanti redditi imputati per trasparenza, la definizione perfezionata dalla società produce automaticamente adesione anche per i soci, i quali beneficeranno delle sanzioni ridotte sugli importi di loro spettanza. Questo è un forte incentivo: evitare che i soci debbano fare cause separate. Ovviamente i soci possono partecipare al contraddittorio insieme alla società. Se invece è solo un socio a volersi attivare (caso raro, di solito l’avviso parte dalla società), c’è la complicazione del litisconsorzio, ma in genere la sede propria è la società. Quando conviene l’adesione? Quando il contribuente ritiene che in effetti vi sia fondatezza, totale o parziale, nell’accertamento, e preferisce negoziare una riduzione di danno anziché affrontare un contenzioso lungo e incerto. Ad esempio, se emergono ricavi non documentati per 100k euro e la società sa di non avere pezze giustificative solide, in adesione potrebbe puntare a farsi riconoscere qualche costo correlato, scendendo magari a un imponibile netto di 70k, e pagare su quello con sanzione ridotta. L’adesione non è un’ammissione di colpa penalmente rilevante (anzi, è spesso un punto a favore in sede penale aver definito e pagato il tributo, può evitare il processo penale per alcuni reati come vedremo). Una volta firmato l’accordo e pagata la prima rata, non si può più impugnare l’accertamento (diventa definitivo). È quindi un compromesso finale. Da notare: la riforma fiscale ha potenziato l’adesione e parallelamente eliminato la “mediazione tributaria” (vedi oltre) per rendere questo lo strumento principe di risoluzione ante giudizio. Dunque, difendersi vuol dire anche saper cogliere l’opportunità di adesione quando questa porta vantaggi concreti (ad es. risparmio di sanzioni e immediata certezza, soprattutto se la pretesa era quasi sicuramente fondata). L’adesione può essere avviata anche prima dell’emissione dell’avviso in alcuni casi: se c’è un PVC o un invito a comparire con rilievi già quantificati, il contribuente può proporre adesione su quelli (c.d. adesione al PVC). Spesso può ridurre le sanzioni a 1/6 (se si aderisce entro 30 giorni al PVC) e bloccare sul nascere l’emissione dell’avviso. Questa è una mossa difensiva possibile quando le violazioni contestate sono nette e si vuole evitare almeno un terzo di sanzione in più.
  • Acquiescenza all’accertamento: È la scelta di non impugnare e pagare, beneficiando di una riduzione delle sanzioni del 1/3 (art. 15 D.Lgs. 218/97). Se il contribuente ritiene di non avere chance o comunque decide di evitare la lite, pagando l’importo entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso ottiene automaticamente lo sconto sanzioni (es. sanzione dal 100% scende al 66%). Questo istituto, chiamato “acquiescenza”, è diverso dall’adesione: qui non si discute l’importo, si accetta integralmente l’atto, ma c’è il beneficio normativo della sanzione ridotta. In genere lo si usa quando l’errore contestato è palese e inoppugnabile, oppure quando grazie allo sconto la cifra da pagare è abbastanza bassa da preferire il pagamento immediato alla spesa e rischio di un ricorso. Attenzione: l’acquiescenza non è ammessa se sullo stesso atto si è già fatta istanza di adesione (bisogna scegliere). Spesso il Fisco stesso, nel notificare l’avviso, invita all’acquiescenza segnalando l’importo ridotto se si paga entro 60 gg. Nel caso di società di persone, se la società fa acquiescenza vale anche per i soci, ovviamente: i soci pagheranno le loro imposte sulla base del reddito maggiorato (di solito l’Erario chiede alla società il pagamento di IVA/IRAP e sanzioni, e ai soci il pagamento dell’IRPEF e relative sanzioni su quota, ma nei fatti può essere coordinato). Se solo alcuni soci volessero pagare e altri no, potrebbe generarsi confusione perché l’accertamento è unico: in teoria o si impugna per tutti o no. Quindi acquiescenza di regola o è generale, o il litisconsorzio richiesto impedisce a uno di chiudere e all’altro di continuare. In tali casi, meglio optare per adesione con definizione parziale? Ma non esiste definizione parziale: se una parte non firma adesione, la lite prosegue per tutti. Quindi, a livello pratico: decisioni come adesione o acquiescenza vanno coordinate tra soci, altrimenti si rischiano pasticci (il Fisco comunque se incassa da uno andrà avanti verso l’altro per differenza, e in giudizio la faccenda si complica con possibili estinzioni parziali del giudizio).
  • Ravvedimento operoso (prima dell’accertamento): Più che uno strumento post-accertamento, il ravvedimento (art. 13 D.Lgs. 472/97) è la regolarizzazione spontanea di errori o omissioni tributarie con sanzioni ridotte, purché non sia già iniziata un’attività di controllo sul periodo d’imposta in questione. Se il contribuente, prima di ricevere qualunque avviso o comunicazione di verifica, si accorge di un’evasione (es. redditi non dichiarati) e provvede a presentare dichiarazione integrativa e versare imposta, sanzione ridotta e interessi, evita l’accertamento sul punto e soprattutto evita le sanzioni piene (che sarebbero dal 90% al 180% per infedele dichiarazione): col ravvedimento si pagano ad esempio sanzioni del 30% (1/3 del minimo). Dunque, la miglior difesa è prevenire l’accertamento: se dopo aver presentato una dichiarazione ci si rende conto di un errore in minus (o se si temono controlli imminenti perché magari è arrivata voce di ispezioni in zona), valutare il ravvedimento è essenziale. Una volta notificato un PVC o un invito formale, il ravvedimento non è più ammesso per quei rilievi. Tuttavia, per alcune violazioni omissive (es. omesso versamento di ritenute) la legge speciale concede un ravvedimento persino tardivo (entro certe scadenze, anche se c’è stata constatazione, per evitare il penale). In generale, però, se siamo già alla fase finale (avviso) il ravvedimento non è applicabile, si passa a adesione o acquiescenza. È opportuno menzionare il ravvedimento qui solo per dire: se durante una verifica il contribuente comprende che verrà contestato un importo, può tentare di anticipare l’ufficio pagando e regolarizzando – magari l’ufficio terrà conto positivamente (in sede penale, il ravvedimento estingue il reato tributario se completo, come vedremo nei profili penali).
  • Mediazione/reclamo tributario: Fino agli atti notificati entro dicembre 2022, per le controversie di valore fino a 50.000 € era obbligatorio presentare un reclamo all’ufficio prima di adire la Commissione Tributaria, e l’ufficio poteva formulare una proposta di mediazione con riduzione sanzioni al 35%. Dal 2023 questo istituto è stato abolito per gli atti dell’Agenzia Entrate (rimane per altri enti locali), proprio perché si punta tutto sull’adesione preventiva e, semmai, sulla conciliazione giudiziale in corso di processo. Dunque, oggi se un accertamento è di modesto importo, non c’è più il passaggio obbligato di mediazione: si può andare in giudizio direttamente, oppure meglio ancora cercare un accordo prima via adesione. Per completezza: la conciliazione giudiziale (art. 48 D.Lgs. 546/92) è un accordo transattivo tra contribuente e ufficio dopo che il ricorso è presentato, davanti al giudice (in primo grado, o ora anche in appello dal 2023). Consente sanzioni ridotte al 40% (primo grado) o 50% (secondo grado). È un’opzione se l’adesione è fallita o non utilizzata e si preferisce chiudere la lite in tribunale con un compromesso.
  • Definizioni agevolate (“pace fiscale”): Negli ultimi anni spesso il legislatore è intervenuto con misure straordinarie per definire in via agevolata liti pendenti o somme accertate. Ad esempio, la Definizione agevolata degli avvisi di accertamento non impugnati prevista dalla Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) permetteva di definire con sanzioni ridotte al 3% alcuni avvisi 2019-2021. Oppure la rottamazione delle cartelle ha permesso di pagare debiti iscritti a ruolo senza sanzioni né interessi di mora. Nel 2023 vi era la “definizione delle liti pendenti” pagando percentuali variabili a seconda del grado di giudizio. Per il contribuente è utile mantenersi informato su eventuali opportunità legislative in tal senso. Ad esempio, se arriva un accertamento oggi, può chiedersi: è prevista una “sanatoria” se non faccio ricorso? (nel 2023 c’era: se l’avviso era pendente o impugnabile al 1/1/23 si poteva definire al 90% imposte e 1/18 sanzioni, art.1 co.179 L.197/22). Queste norme però sono una tantum. Al luglio 2025, non risultano nuove “pacificazioni” all’orizzonte immediate, ma il quadro politico può sempre cambiarlo. Quindi, oltre alle difese tecniche, l’avvocato tributarista deve valutare anche le opzioni di sanatoria legislativa: talvolta accettare il compromesso di legge (se disponibile) conviene più che andare in giudizio con esito incerto.

In sintesi, prima di intraprendere un contenzioso tributario è doveroso valutare tutte le vie alternative: dall’adesione (che permette di ridiscutere il merito e ridurre sanzioni) all’acquiescenza (se conviene economicamente), senza scordare di iniziare eventualmente a pagare quanto non contestabile per ridurre accumulo di interessi. Inoltre, un contribuente che mostra collaborazione (adesione, pagamento) può ottenere un trattamento migliore anche in futuro (si pensi al rating fiscale negli ISA). Ovviamente, se l’accertamento è manifestamente infondato, la strada sarà invece il ricorso in Commissione, di cui parliamo ora.

Il contenzioso tributario: come affrontare il ricorso contro l’accertamento

Se non si è addivenuti a un accordo con l’ufficio, oppure se si ritiene l’accertamento totalmente sbagliato, occorre imbastire la difesa in sede giurisdizionale, dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria (la nuova denominazione, dal 2023, delle ex Commissioni Tributarie, a seguito della riforma operata con L. 130/2022). Vediamo i punti salienti del contenzioso dal punto di vista del contribuente:

  • Termine e organo a cui presentare ricorso: Il ricorso va proposto entro 60 giorni dalla notificazione dell’atto (avviso di accertamento), salvo sospensioni (ad esempio, se è stata presentata istanza di adesione, il termine è sospeso 90 giorni e quindi in totale 150 giorni circa dalla notifica). Il ricorso si deposita telematicamente alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio (in genere, quella relativa al domicilio fiscale del contribuente; dal 2024, essendo unificata la competenza per società e soci come visto, sarà quella del domicilio della società per tutti). Nel caso di società di persone, il ricorso potrà essere unico per società e soci (fortemente consigliato, data la necessità di litisconsorzio). Esempio: S.n.c. Beta e i soci X e Y ricevono avviso: faranno un unico ricorso “S.n.c. Beta in persona di… e i signori X e Y, ricorrenti, contro Agenzia Entrate…”. Se invece solo uno dei soggetti ricorre, dovrà notificare il ricorso anche agli altri litisconsorti oltre che all’Ufficio, per integrarli nel processo. (NB: Dal 2023 il processo tributario è interamente telematico, quindi notifiche via PEC e deposito su piattaforma SIGIT; è opportuno farsi assistere da un professionista abilitato, solitamente avvocato o commercialista). Il pagamento in pendenza di giudizio: presentare ricorso non sospende automaticamente la riscossione. Per gli avvisi di accertamento emessi dal 1° gennaio 2016, vige la regola che dopo 60 giorni dalla notifica, se non c’è stato pagamento, l’Agenzia delle Entrate Riscossione può iniziare le procedure di riscossione per un importo pari al 1/3 delle imposte accertate (non delle sanzioni). Il resto viene “congelato” fino a sentenza di primo grado. Se poi il contribuente perde in primo grado, deve pagare un altro 1/3 (quindi cumulando 2/3) per andare in appello; se perde in secondo grado, il residuo (3/3). Questa regola del “pagamento frazionato” serve a bilanciare interessi. Tuttavia, è possibile chiedere la sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato al giudice tributario, se si dimostra che l’esecuzione immediata dell’atto (ossia il pagamento del 1/3) arrecherebbe un danno grave e irreparabile e che il ricorso ha fondamento fumus (cioè non è pretestuoso). La sospensiva viene decisa con ordinanza motivata in tempi rapidi. Ad esempio, se la società di persone versa in difficoltà economica gravi, potrebbe ottenere la sospensione della riscossione in attesa del giudizio di merito, evitando pignoramenti o fermi amministrativi sul 1/3. La riforma del 2022 ha in realtà reso più facile ottenere la sospensione, prevedendo che in presenza di fondati motivi il giudice “deve” sospendere. Quindi, è buona prassi presentare sempre istanza cautelare nel ricorso quando l’importo è rilevante e la liquidità scarseggia.
  • Svolgimento del processo e prova: Il processo tributario è prevalentemente documentale. Le memorie scritte (ricorso, controdeduzioni dell’Agenzia, eventuali repliche) costituiscono la base, e l’udienza orale – se c’è – è generalmente breve e senza esame testimoni (fino a poco fa era vietato). Novità: dal 2023 è stata ammessa la prova testimoniale scritta in talune circostanze. In pratica, le parti possono chiedere al giudice di ammettere testimonianze rese per iscritto da terzi, su specifici fatti. È però ancora da valutare come i giudici applicheranno tale possibilità (la norma prevede la discrezionalità del giudice nell’ammettere la prova, e spesso in tributario i fatti sono documentali). Comunque, se vi fossero testimoni chiave (es. clienti che attestano di aver pagato con certi mezzi, ecc.), ora c’è uno spiraglio per inserirne le dichiarazioni formalmente. Il contribuente può produrre nuovi documenti in giudizio, anche se non esibiti in verifica, purché li avesse già all’epoca dei fatti: la legge consente la produzione di ogni documento non prodotto prima per causa non dipendente dalla volontà (e Cassazione è ormai più elastica su questo, tendendo a far prevalere la ricerca della verità). Ad esempio, se si trova una ricevuta bancaria che giustifica un versamento contestato, la si può depositare in giudizio: non è precluso. Diverso è se il documento viene creato ex novo (es. un’auto-fattura redatta dopo): quello non ha valore probatorio forte. Quindi, il ricorso del contribuente deve mettere in luce: a) eventuali vizi procedurali (come visto prima); b) la fragilità nel merito delle pretese dell’ufficio, confutando punto per punto le argomentazioni dell’accertamento; c) se del caso, sollevare questioni di legittimità (ad es. in passato la mancanza di contraddittorio, ora colmata, ma questioni come doppia punizione amministrativa+penale possono essere dedotte in ottica CEDU, etc.). Il tutto va sostenuto da documenti e riferimenti normativi e giurisprudenziali. In queste controversie complesse (società di persone con più imposte e più soggetti) è auspicabile farsi assistere da professionisti esperti, data la tecnicità.
  • Decisione e oltre: La Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (collegiale, ma se il valore è sotto 3.000 € è giudice monocratico) emetterà una sentenza che può: accogliere totalmente il ricorso (annullando l’atto impugnato), accoglierlo parzialmente (annullare in parte o rideterminare l’imponibile), respingerlo (confermando l’atto) oppure dichiararlo inammissibile (se vizi procedurali del ricorso stesso). Se la sentenza è favorevole al contribuente e diviene definitiva (non appellata dall’Agenzia), l’accertamento cade e, se si era pagato il 1/3, va chiesto il rimborso. Se è sfavorevole, il contribuente può proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado). L’appello è un riesame completo, sia su fatti che su diritto, ma nuove domande non sono ammesse (nuove prove sì, se pertinenti). Nell’appello, come detto, se si era perso, bisogna versare un ulteriore 1/3 (a meno di sospensione in appello, anch’essa richiedibile). Il processo d’appello termina con sentenza anch’essa appellabile solo per Cassazione. La Cassazione (terzo grado) può essere adita entro 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello per soli motivi di legittimità (errori di diritto o vizi gravi di motivazione). In Cassazione la presenza di un avvocato cassazionista è obbligatoria. La Cassazione può confermare la decisione di appello o cassarla (annullarla) eventualmente rinviando a nuovo giudice di appello per rivalutare. Non di rado in materia di litisconsorzio la Cassazione annulla in blocco processi che non vede regolari. Ad esempio Cass. 3954/2024 ha annullato un processo perché un socio non era stato coinvolto sin dall’inizio, con necessità di ripartire da zero integrando le parti.
  • Strategie difensive in giudizio – merito: Nel merito, la difesa in giudizio consiste nel smontare le argomentazioni dell’ufficio. Qualche esempio tipico:
    • Se l’accertamento è basato su movimenti bancari: fornire giustificazioni dettagliate per ogni movimento contestato (es. versamento di €5.000 il 10/06 sul conto del socio: provare con scrittura privata e bonifico corrispondente che era un finanziamento infruttifero del socio alla società e non ricavo da terzi; prelievo di €3.000 in data X: dimostrare che servì per pagare un fornitore in contanti il giorno dopo, con fattura a supporto, etc.). Documentare analiticamente è cruciale, come sottolineato anche dalla giurisprudenza. Se qualcosa rimane non giustificato, ci si può attaccare a proporzionalità: ad esempio, contestare il metodo dell’ufficio se ha considerato sia i versamenti sia i prelievi come ricavi aggiuntivi (ci sarebbe doppia imputazione della stessa ricchezza, in quanto i prelievi spesso sono utilizzo di quei versamenti). La legge oggi considera imponibili anche i prelievi solo per imprese senza contabilità se non si dimostra il beneficiario, ma la Consulta nel 2014 ha dichiarato illegittimo farlo per i prelievi dei professionisti. Insomma, c’è margine per ragionare.
    • Se l’accertamento si fonda su presunzione di utili ai soci (caso tipico per società di capitali): per società di persone non c’è molto da fare perché la legge li attribuisce comunque. Ma il socio potrebbe difendersi se, ad esempio, quell’anno era uscito dalla società prima della fine dell’anno: in tal caso, la sua quota di reddito dev’essere calcolata pro-rata temporis. Cassazione (ord. 16968/2024) ha affrontato il caso di socio uscito da società a ristretta base e ha stabilito che non gli si possono imputare utili extracontabili di anni successivi alla sua uscita. Quindi un socio receduto nel 2019 non va tassato per utili occulti 2020. Può sembrare ovvio, ma serve sottolinearlo in giudizio se occorre.
    • Se l’accertamento è induttivo basato su coefficiente standard (es. percentuale di ricarico generica): contrastarlo con dati effettivi dell’azienda. Spesso conviene anche produrre una CTU (consulenza tecnica di parte) contabile per dimostrare che, dati i registri e i flussi finanziari, il ricarico reale non poteva che essere X%. Anche se la testimonianza orale era bandita, le perizie tecniche sono ammissibili come documenti. Il giudice può anche nominare un proprio CTU, ma raramente avviene in tributario.
    • Se la questione è qualitativa (ad es. l’ufficio contesta che taluni costi non siano di competenza, o siano indetraibili per norma): qui la difesa è giuridica, interpretare la norma a proprio favore, citare circolari ministeriali o precedenti di Cassazione a supporto. Ad esempio, sostenere la deducibilità di un accantonamento che l’ufficio ha ripreso a tassazione, sulla base di pronunce che hanno ritenuto lecito quell’accantonamento.
    • Se il punto è la qualifica di società di fatto: il contribuente (presunto socio occulto) dovrà portare prove contrarie all’affectio societatis, per convincere che quell’attività era individuale di quell’altro soggetto e lui era un estraneo. Potrà ad esempio mostrare che non partecipava agli utili (magari percepiva uno stipendio fisso come dipendente? Se documentato, contrasterebbe la tesi del socio occulto). O far emergere che i beni strumentali non erano condivisi, ecc. La giurisprudenza richiede prova robusta per escludere una società di fatto una volta che indizi la suggeriscono, ma ci si può provare. Anche qui, eventuali dichiarazioni di terzi (clienti che confermano che trattavano solo con l’altro socio, ecc.) possono aiutare, ora che la testimonianza è (in teoria) ammissibile.
    • Contestare le sanzioni amministrative: Nel ricorso tributario si può chiedere anche l’annullamento (o la riduzione) delle sanzioni, in quanto parte dell’atto. Motivi: mancanza di dolo/colpa (secondo l’art. 5 D.Lgs. 472/97 le sanzioni sono applicabili solo se c’è almeno colpa; si può sostenere ad es. che l’errore fu dovuto a incertezza normativa oggettiva, o a un errore scusabile). Oppure invocare la non punibilità per particolare tenuità (art. 6 c.5-bis D.Lgs. 472/97 prevede di non sanzionare violazioni con imposta evasa <3% del dichiarato e comunque sotto 30.000 €, purché pagata). O ancora, chiedere al giudice l’uso del potere di cui all’art. 7 D.Lgs. 472/97 di ridurre la sanzione se manifestamente sproporzionata. Ad esempio, per errori formali o di poco conto, il giudice può disapplicare la sanzione. Nel caso di società di persone, come visto, tutti i soci rispondono delle sanzioni tributarie in solido, tranne quelle strettamente personali (es. dichiarazione infedele propria del socio). Se un socio prova che l’infrazione è dovuta esclusivamente a un altro socio (amministratore) e lui non poteva sapere, potrebbe chiedere l’esclusione della propria sanzione in base all’art. 6 co.3 D.Lgs. 472/97 (il famoso caso di socio estraneo). Cassazione però è rigida: anche il socio non amministratore, avendo poteri di controllo (specie accomandante ex art. 2320 c.c.), risponde se non altro per omesso controllo. È difficile dunque scansare sanzioni per i soci, ma si può tentare la carta della esimente di buona fede.
  • Profilo penale parallelo: Se nel frattempo (o sin dall’inizio) è partita una denuncia penale per reati tributari, il contribuente si troverà su due fronti: il processo tributario e quello penale. Fino al 2023, i due procedevano quasi del tutto indipendenti. Con la riforma del 2024 (D.Lgs. 87/2024), ci sono alcuni punti di integrazione: ad esempio, una sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso diventa vincolante nel processo tributario. Cioè, se in penale un socio viene assolto con formula piena dall’accusa di aver nascosto redditi, non si potrà in tributario dire che quei redditi esistevano. Viceversa, le sentenze tributarie o gli accertamenti definitivi possono essere acquisiti come prova nel processo penale. Quindi oggi c’è più comunicazione. Strategicamente, se il penale è in corso, il difensore valuterà se convenga chiedere al giudice tributario un rinvio in attesa dell’esito penale (soprattutto se pensa che il penale si concluderà con assoluzione) o viceversa chiedere di accelerare il tributario per usare poi la sentenza tributaria nel penale (ad esempio, se vince in tributario dimostrando che il reddito non c’era, porterà la decisione nel penale come prova che il fatto non sussiste). In passato, i giudici tributari spesso negavano la sospensione in attesa del penale, e i due procedimenti andavano ognuno per la sua strada. Ora, con il nuovo art. 20 co.1-bis D.Lgs. 74/2000, le pronunce irrevocabili tributarie possono entrare nel penale. E c’è un nuovo art. 21-bis che rende vincolante l’assoluzione penale in ambito tributario. Non c’è, invece, simmetria per la condanna penale: una condanna penale per evasione non vincola il giudice tributario, sebbene fattualmente ponga il contribuente in cattiva luce. Comunque, il difensore dovrà coordinare i due fronti: spesso la migliore strategia penale è pagare il dovuto (vedi oltre causa di non punibilità), il che risolve anche il tributario (paghi e fine, magari con adesione). Se però si è convinti di essere nel giusto, si combatte in tribunale tributario e penale parallelamente, magari facendo valere nel penale l’eventuale incertezza normativa o l’assenza di dolo (basi per assoluzione penale, se non per annullare l’imposta).

Da quanto sopra, è evidente che difendersi in giudizio richiede un approccio a 360 gradi: conoscere i fatti (contabili e finanziari) a menadito, avere pezze giustificative pronte, saper inquadrare giuridicamente le questioni e non trascurare gli aspetti procedurali. La compresenza di società e soci rende il tutto più articolato, ma seguendo queste linee guida si può impostare una difesa robusta.

Profili penali dell’accertamento fiscale e tutela del contribuente

Una verifica fiscale su una società di persone – specie se vengono accertati importi significativi di imposta evasa – può avere implicazioni anche sul piano penale tributario. La normativa di riferimento è il D.Lgs. 74/2000 (come aggiornato da vari interventi, da ultimo il D.Lgs. 87/2024), che prevede una serie di reati connessi a dichiarazioni dei redditi e IVA fraudolente o omissive, all’emissione/utilizzo di fatture false, nonché all’omesso versamento di talune imposte. Analizziamo i principali reati tributari che potrebbero configurarsi in relazione a un accertamento e quali strumenti di difesa e garanzie esistono per il contribuente-indagato (o imputato). Si tenga presente che nelle società di persone i responsabili penali sono le persone fisiche (soci o gestori) che hanno posto in essere la condotta illecita: la società in sé, non avendo personalità giuridica distinta per questi fini, non può essere destinataria di sanzioni penali (e peraltro i reati tributari non rientrano tra quelli che possono generare responsabilità “231” dell’ente, se non in marginali ipotesi transnazionali). Quindi il focus è sul socio amministratore, sul liquidatore o su chi ha materialmente deciso di evadere.

Principali reati tributari in ambito dichiarativo

Ecco in sintesi i reati più rilevanti che possono emergere da un accertamento:

  • Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000): Si ha quando il contribuente, nella dichiarazione annuale, riporta elementi passivi fittizi (costi, IVA a credito) avvalendosi di fatture false o documenti falsi. Tipico caso: registrare fatture di fornitori inesistenti per abbattere il reddito. È un delitto punito severamente: reclusione da 4 a 8 anni nei casi più gravi (sopra soglia), e da 1 anno e 6 mesi a 6 anni negli altri. La soglia di punibilità introdotta nel 2019 prevede che se i passivi fittizi superano €100.000 la condotta è di maggiore gravità (pena nel range più alto). Nel contesto di società di persone, l’autore sarà chi ha predisposto la dichiarazione infedele (di solito il socio amministratore). I soci accomandanti di norma non rispondono di questo reato salvo abbiano concorso (es. sapendo e partecipando alla frode). Strategia difensiva penale: dimostrare che le fatture contestate non erano totalmente false (magari erano sovrafatturazioni di operazioni reali: questo sposterebbe il fatto verso l’art. 3, vedi dopo, con pena un po’ minore); oppure contestare la consapevolezza dell’imputato (es. “pensavo fossero fatture genuine fornite dal consulente” – anche se è difficile, essendo amministratore, provare ignoranza totale). Un buon esito nel giudizio tributario – provare che in realtà quelle operazioni c’erano in parte – può aiutare a ridurre l’accusa (da costi fittizi a costi sovrastimati). Va ricordato che l’integrale pagamento del debito tributario collegato (imposte, interessi, sanzioni) prima del dibattimento costituisce causa di non punibilità anche per questo reato, come introdotto dal DL 124/2019 e confermato: quindi, se si vuole evitare il penale, una via è pagare tutto il maltolto (in adesione o ravvedimento) tempestivamente.
  • Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000): Reato di “frode fiscale” più generico, che ricorre quando, con mezzi fraudolenti diversi dalle false fatture, si evade l’imposta. Esempio: annotare doppia contabilità, gonfiare rimanenze, simulare operazioni di triangolazione, ecc. La pena è leggermente inferiore rispetto all’art. 2: reclusione da 3 a 8 anni massima (ora elevata dal 2019), e minima 1 anno e 6 mesi a 6 anni. Soglie di punibilità: imposta evasa > €30.000 e attivo sottratto a tassazione > €1,5 milioni (dati storici, potrebbero essere stati aggiornati a €100k e €2M analogamente all’art.4? In realtà art.3 non aveva soglia percentuale ma qualitativa: è punibile la frode a prescindere, con soglie piuttosto basse). Per le società di persone, scenario tipico: vengono contestati artifizi contabili per mascherare vendite. La difesa qui punta a negare la sussistenza degli “artifizi” (ad es., se l’accusa è di aver usato documenti falsi diversi da fatture, dimostrare che non erano falsi, o che non c’era quel grado di pianificazione fraudolenta ma solo errori). Anche per questo reato, il pagamento integrale del debito tributario entro certi termini estingue il reato (come per art.2).
  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): È il reato più comune e “di base”, che punisce chi, al di fuori di frodi, dichiara un reddito inferiore a quello effettivo o un’imposta inferiore al dovuto, superando però specifiche soglie. Attualmente (dopo modifiche del 2019) è punibile se l’imposta evasa > €100.000 oppure gli elementi attivi sottratti a tassazione > €2.000.000. Occorre anche che l’infedeltà non derivi da valutazioni di stima con scostamento <10% (c’è una franchigia del 10% per differenze valutative). Esempio: una società di persone non ha dichiarato ricavi per €500.000, con €150.000 di imposte evase in totale (considerando IRPEF sui soci e IVA): soddisfa le soglie (150k >100k, e 500k <2M ma imposta sì) e quindi è reato. La pena è relativamente minore: reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi (dopo le ultime modifiche). Tuttavia, niente affatto trascurabile. Gli autori sono di solito i medesimi (soci amministratori, consulenti se concorrono). Molte contestazioni da accertamento ricadono in questa fattispecie se non ci sono elementi di frode. Difese tipiche: contestare il calcolo dell’imposta evasa per farlo scendere sotto soglia (es. dedurre che c’erano crediti d’imposta compensabili, ridurre quindi l’imposta netta evasa sotto 100k); oppure sostenere che la differenza deriva da valutazioni discrezionali (ad es. “il Fisco ritiene non deducibile questo costo, ma è una valutazione giuridica, quindi anche se porta 200k imponibile in più non è reato se era una questione interpretativa”). Spesso dichiarazione infedele scatta per errori volutamente border-line su deduzioni, su cui si può dibattere la natura soggettiva. Anche qui, la causa di non punibilità per pagamento integrale del debito tributario opera (estesa nel 2019 agli art.4 e 5). Quindi pagando tutto prima del dibattimento, il reato è non punibile (più avanti spieghiamo meglio la tempistica). In aggiunta, è possibile talvolta invocare la causa di particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) se l’evasione è di poco superiore alla soglia e non ci sono circostanze aggravanti: la riforma 2024 ha specificato criteri per la tenuità nei reati tributari, come lo scostamento dalla soglia e l’eventuale pagamento rateale in corso. Un’indicazione difensiva: se un socio/cliente sta per essere imputato di infedele e la cifra non è enorme, pagare subito e rateizzare può portare il giudice penale a ritenere il fatto tenue (sanzioni amministrative già assolte, residuo modesto, ecc.). La legge delega infatti vuole evitare punizioni penali inutili per i cosiddetti “evasori di necessità” di piccolo cabotaggio.
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): Questo reato si ha quando non viene presentata affatto la dichiarazione dovuta (redditi o IVA), con imposta evasa superiore a €50.000. Punito con reclusione da 2 a 5 anni. Nel contesto societario, se la società di persone omette la dichiarazione, l’obbligo in genere ricade sull’amministratore o liquidatore, che ne risponde penalmente. Anche il socio accomandante potrebbe teoricamente rispondere se aveva delega di amministrazione (cosa vietata, ma se di fatto gestiva). Omessa dichiarazione è più facile da dimostrare (è oggettivo che non fu presentata). Difese possibili: dimostrare che l’imposta evasa (cioè il tributo dovuto se avesse dichiarato) non superava 50k – a volte calcoli su perdite pregresse o crediti possono abbassare il netto dovuto; oppure che c’era assenza di dolo, cioè non c’era volontà di evadere ma cause di forza maggiore (questo però raramente esime, se c’era debito rilevante). Anche per l’omessa dichiarazione la strada maestra di difesa penale è pagare il dovuto: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede la non punibilità se si estingue integralmente il debito prima del dibattimento. Ad esempio, se una S.n.c. non ha presentato Unico 2022 e deve €60k di imposte, se i soci versano tutto con sanzioni e interessi prima che inizi il processo, non saranno punibili penalmente (reato estinto). La riforma 2024 inoltre introduce la non punibilità per crisi di liquidità non imputabile nei reati di omesso versamento (v. oltre) che per analogia potrebbe influire sull’omessa dichiarazione se la causa era incapacità finanziaria (anche se art.5 riguarda l’omissione della formalità, non del versamento, quindi bisogna distinguere: uno può aver presentato dichiarazione ma non versato, art.10-bis/ter; se non presenta affatto, l’attenuante di crisi di liquidità non si applica strettamente, ma magari come valutazione di tenuità).

Va segnalato che con D.Lgs. 87/2024 sono state introdotte ulteriori cause di non punibilità speciali:

  • per i reati di omesso versamento (art. 10-bis e 10-ter, ne parliamo a parte) è ora previsto (nuovo art.13 co.3-bis) che se il mancato versamento dipende da cause di forza maggiore sopravvenute non imputabili all’imprenditore, questi non è punibile. Precisamente, il giudice deve valutare se c’è stata una crisi di liquidità non transitoria dovuta a insolvenze di clienti o mancati pagamenti dalla PA, ecc., e l’imprenditore non poteva fare diversamente. Questa è una novità importante per casi di mancate ritenute o IVA in situazioni di fallimento imminente. Per le società di persone, significherà che un amministratore potrà difendersi dicendo: “non ho versato l’IVA perché la società era travolta da crediti insoluti, ho pagato stipendi invece delle tasse, non c’era volontà di evasione” – se il giudice crede alla forza maggiore economica, niente condanna. Dovrà però essere convincente: ad es. presentare bilanci, estratti conto, cause del dissesto.
  • per i reati dichiarativi (2,3,4,5) continua ad applicarsi la causa generale di non punibilità per integrale pagamento, che con la riforma del 2019 si applica fino all’apertura del dibattimento di primo grado. La riforma 2024 ha confermato questo e aggiunto la possibilità di sospendere il processo penale se c’è pagamento in corso a rate. Quindi, se un socio imputato sta pagando a rate l’accertamento tramite adesione, può chiedere la sospensione del processo penale per attendere l’esito dei pagamenti: se completerà i pagamenti, scatterà la non punibilità e il processo verrà estinto; se non paga, si riprende il processo. Ciò incoraggia la definizione tributaria anche ai fini penalistici.

Reati omissivi di versamento (ritenute e IVA) e indebite compensazioni

Altri reati che possono emergere, sebbene non direttamente dall’accertamento in sé, ma in parallelo, sono:

  • Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis): Se la società di persone è datore di lavoro e non versa le ritenute fiscali operate ai dipendenti/terzi, per un importo > €150.000 annui, scatta questo reato (punito con reclusione fino a 3 anni, ora innalzata a 6 anni come tetto nel 2015, e ribassata a 4 anni nel 2024, poi fissata a 2-5 anni? Bisogna aggiornare: riforma 2024 ha confermato soglia 150k e ridefinito il termine di pagamento al 31 dicembre dell’anno successivo al 770). L’accertamento fiscale raramente tratta di ritenute, perché il mancato versamento risulta dai modelli 770 non seguiti da F24. È comunque un problema penale che i soci accomandatari potrebbero affrontare. Difesa: solitamente, invocare la causa di non punibilità per forza maggiore finanziaria introdotta nel 2024; oppure pagare il dovuto prima del processo (per art.13, in passato se pagato entro dichiarazione di apertura dibattimento era causa di non punibilità specifica per 10-bis e 10-ter, ora integrata nella generale). La riforma 2024 inoltre concede la non punibilità se il debito è in corso di rateazione regolare (in realtà prevede che se rate in corso, niente sequestro, e sospensione processo). Comunque, se un socio versa pian piano le ritenute non pagate, è probabile che eviti la condanna.
  • Omesso versamento IVA (art. 10-ter): Simile al precedente, se non si versa l’IVA dovuta annuale per importo > €250.000. Per società di persone, l’obbligo è in capo alla società (quindi ai soci amministratori). Pena da 6 mesi a 2 anni (poi portata a 3 anni nel 2015, ora 2024 – confermata soglia 250k e previste cause non punibilità analoghe a 10-bis). Idem come sopra: difesa = pagare se possibile, o motivare la crisi di liquidità, oppure rientrare nella soglia (se l’IVA evasa è 240k niente reato). Attenzione: la soglia è cumulativa annua, quindi se in quell’anno la S.n.c. ha saltato 3 liquidazioni IVA per 90k ciascuna, totalizza 270k e c’è reato. A volte l’accertamento fiscale può far emergere l’omesso versamento (es. il controllo vede che non sono stati fatti F24 IVA), e segnala la procura.
  • Indebita compensazione di crediti d’imposta inesistenti o non spettanti (art. 10-quater): Reato commesso se si utilizzano in compensazione crediti fiscali inesistenti sopra €50.000 (questo punito da 1½ a 6 anni) o non spettanti sopra €50.000 (punito meno severamente, da 6 mesi a 2 anni). Una società di persone potrebbe aver compensato crediti fittizi (es. un falso credito IVA) per non pagare imposte – ciò oltre a portare sanzioni amministrative 200%, è anche reato. La riforma 2024 ha chiarito molto bene la distinzione tra crediti inesistenti (che proprio non hanno base fattuale o creati con artifici) e non spettanti (esistono ma non utilizzabili per requisiti formali), ed ha introdotto una causa di non punibilità per i casi di compensazioni non spettanti in situazioni di obiettiva incertezza tecnica sulla spettanza del credito. Quindi, se un socio compensò un credito dubbio (tipo bonus fiscale su cui c’erano dubbi interpretativi) e l’Agenzia lo contesta, in sede penale si potrà evitare condanna se c’era effettiva incertezza normativa. Inoltre, per i crediti non spettanti, è ammessa la causa di non punibilità per integrale pagamento del debito (credo già lo fosse). Questo reato appare quando l’accertamento scopre, ad esempio, che la società si è compensata un credito di imposta mai maturato: l’ufficio glielo contesterà con sanzione e segnalerà la cosa.

In generale, quando un accertamento fiscale accerta violazioni gravi (evasione grossa, false fatture), la prassi è che la Guardia di Finanza o l’Agenzia segnalino la notizia di reato alla Procura (è un obbligo ex art.331 c.p.p. per pubblico ufficiale). Scatta così un procedimento penale parallelo. Il contribuente si troverà indagato e potrà subire misure cautelari reali: ad esempio, sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni fino a concorrenza dell’imposta evasa. Questo è molto comune e può bloccare conti, immobili, ecc. Cassazione ha affermato che il sequestro (e poi la confisca) possono applicarsi anche se il contribuente ha ottenuto una rateazione del debito: solo a pagamento completato può cessare. La riforma 2024 ha mitigato questa durezza: ora l’art. 12-bis D.Lgs.74/2000 stabilisce che il sequestro non è disposto se il debito tributario è in corso di estinzione mediante rateazione e il contribuente è in regola coi pagamenti, salvo pericolo concreto di dispersione dei beni. Quindi, se un socio ottiene un piano di rate e paga le rate, non dovrebbero più sequestrargli i beni – a meno che il giudice tema stia vendendo tutto di nascosto (in quel caso può comunque sequestrare). Questa è un’ottima tutela nuova: prima si sequestrava comunque, e il pagamento rateale serviva solo a ridurre l’importo sequestrato proporzionalmente. Adesso, pagando regolarmente, si può chiedere il dissequestro.

Doppio binario e ne bis in idem: Per anni c’è stato il problema del “ne bis in idem”, ovvero la doppia punizione per lo stesso fatto: sanzione amministrativa tributaria + sanzione penale. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (caso Grande Stevens 2014 e altri) ha stigmatizzato questa prassi. L’Italia, per conformarsi, ha qualificato le sanzioni tributarie come “amministrative” (quindi teoricamente non penali in senso CEDU) e introdotto accorgimenti come la proporzionalità e il coordinamento delle pene. La riforma 2024 aggiunge l’art. 21-ter D.Lgs.74/2000 che dice: se uno stesso fatto è punito penalmente e con sanzione amministrativa, l’autorità che infligge la seconda tiene conto della prima riducendo la sua entità. Ciò per evitare cumuli eccessivi. Inoltre, l’integrazione di cui sopra che una assoluzione penale blocca pretese tributarie contrarie è un altro passo verso un sistema equo. Quindi, ad esempio, se un socio viene assolto perché “il fatto non sussiste” (cioè non c’era l’evasione), l’accertamento fiscale dovrebbe cadere (se non era già definito) e comunque non si potranno applicare sanzioni tributarie su un fatto dichiarato inesistente in giudizio penale definitivo. Inverso: se viene condannato penalmente, non è che automaticamente il Fisco può fargli pagare due volte; però la condanna penale di solito include la confisca pari all’evaso, quindi di fatto lo Stato recupera via confisca. L’art.21-ter nuovo dice che in questi casi, se c’è confisca penale, l’Agente della riscossione ridurrà le sue pretese per non oltrepassare il totale (il giudice/autorità deve tener conto di quanto già incassato dall’altra sede). Dunque, non si finirà più per pagare sia la sanzione amministrativa piena sia il carcere + confisca su stesso importo, ma ci sarà compensazione.

Come si difende il contribuente indagato/imputato?

Dal punto di vista pratico difensivo:

  • Appena c’è sentore di penale (PVC che segnala reati, ecc.), è fondamentale avvalersi di un avvocato penalista tributario. Bisognerà valutare se conviene patteggiare (spesso si, specie se si è in colpa e si riesce a pagare qualcosa: il patteggiamento può ridurre pena fino a 1/3 e evitare carcere se sotto 2 anni, convertibile in pene alternative; inoltre estingue le pene accessorie fiscali).
  • Se la scelta è combattere, si raccolgono prove a discarico: es. per crisi di liquidità, preparare documenti per dimostrare insolvenze subite; per buona fede, raccogliere pareri o istruzioni ricevute (es. “il commercialista mi aveva detto che era lecito” – se c’è una mail o testimone, utile).
  • Usare la leva del pagamento: se possibile, pagare almeno parzialmente prima del giudizio. Il DLgs 87/2024 consente la sospensione del procedimento penale se prima della chiusura del dibattimento di primo grado si sta pagando a rate il debito. Si può arrivare a una sospensione fino a 1 anno + 3+3 mesi proroghe per completare i pagamenti. Se si completa, probabilmente la punibilità viene esclusa; se non si completa, il processo riprende ma intanto si è guadagnato tempo. Questa è una chance di fatto di “redimersi” pagando.
  • Fare attenzione alle misure cautelari: se c’è sequestro dei beni, valutarne la legittimità (può contestare se sproporzionato o se i beni non c’entrano). Ottenere il sequestro su beni sociali se i soci rispondono? Di solito sequestro colpisce i beni personali dell’imputato. Per le società di persone, può colpire anche i beni sociali, essendo patrimoni di fatto dei soci (ma la giurisprudenza li considera terzi? In S.n.c., no, la società può subire sequestro come diretto interessato).
  • Non punibilità per particolare tenuità del fatto: se l’evasione è minima sopra soglia (ad es. imposta evasa 110k, soglia 100k), e magari i soci hanno pagato in parte poi, c’è un margine per chiedere l’archiviazione o sentenza di proscioglimento per tenuità (131-bis c.p.). Con i criteri del nuovo 13-ter, il giudice deve guardare l’entità dello scostamento dalla soglia, se c’è rateazione in corso, ecc. Se tutti favorevoli, potrebbe applicarla. Ad esempio, Cass. 2024 potrebbe iniziare ad applicare la tenuità se uno evase 120k ma ha già versato 80k su 120k in ravvedimento.
  • Tempistiche e prescrizione: I reati tributari hanno prescrizioni piuttosto lunghe (art. 2 e 3 arrivano a 8 anni base + eventuali aumenti, interruzioni portano a 10 anni e più; art.4 è 6 anni base, quindi ~7.5 con interruzioni). Non si può contare su prescrizione breve. Però una difesa può a volte puntare su vizi procedurali (es. inutilizzabilità di prove acquisite illegalmente – raro, ma se la GdF ha violato garanzie nelle perquisizioni senza autorizzazione ad esempio, si può far escludere certe prove).
  • Relazione con processo tributario: Se il processo tributario è favorevole (accertamento annullato), far valere nel penale almeno come elemento di dubbio sulla sussistenza del fatto. Ora con la norma nuova, la sentenza tributaria definitiva può essere portata nel penale come prova di quanto accertato in essa. Attenzione: c’è scritto “ai fini della prova del fatto in essi accertato”. Quindi se la sentenza tributaria definitiva dice “non c’è evasione, atto annullato perché il reddito non era occulto”, l’imputato la presenta e dice: vedete? la giustizia tributaria ha stabilito che non c’era imponibile nascosto, ergo manca il fatto materiale del reato. Il giudice penale può tenerne conto molto seriamente (anzi deve, direi).

In conclusione, dal punto di vista del debitore-contribuente, la cosa fondamentale è:

  1. Prevenire il penale: fare ravvedimento prima possibile se c’è rischio (ad esempio, se l’importo evaso è grande, sanare spontaneamente riduce molto la possibilità di denuncia perché se paghi tutto prima, il reato nemmeno sussiste più ai fini punibilità).
  2. Se scatta, attenuare: aderire all’accertamento, pagare ratealmente, cooperare per ridurre l’imposta evasa anche in sede di accertamento con adesione. Questo riduce le soglie e magari porta sotto soglia il reato (il calcolo del reato di infedele si basa sull’imposta evasa dovuta: se col adesione paghi una parte, quell’imposta non è più “evasa”, quindi potresti scendere sotto 100k).
  3. Difendersi sul merito: come detto, provare mancanza di dolo (es. errore del commercialista, normativo, ecc.), e su questo le sentenze tributarie che riconoscono incertezza normativa possono aiutare (ad es. se Commissione annulla sanzioni amministrative ex art.6 comma 2 D.Lgs.472 per obiettiva incertezza normativa, quell’accertamento aveva un punto controverso -> in penale potrebbe escludere elemento soggettivo del dolo).
  4. Usufruire delle novità legislative: la riforma 2024 è piuttosto favorevole al contribuente in situazioni di crisi o che vuole rimediare: sospensione del processo per pagamento, non punibilità per crisi di liquidità, efficacia esimente di pronunce assolutorie tributarie, coordinamento sanzioni per evitare doppi castighi. Quindi far valere questi strumenti.

Passiamo ora dalla teoria alla pratica, con alcuni esempi concreti di situazioni in cui un contribuente, socio di una società di persone, potrebbe trovarsi, e ipotizziamo possibili esiti e difese.

Esempi e simulazioni pratiche

Per chiarire meglio come applicare i principi esposti, presentiamo alcuni casi pratici (scenari semplificati ma realistici) e indichiamo l’approccio difensivo del contribuente-debitore in ciascuno di essi:

Caso 1 – Conti correnti cointestati e accertamento induttivo: Due fratelli, Mario e Luigi, gestiscono di fatto un’attività di vendita di ferramenta, senza aver costituito formalmente una società. Ciascuno dichiara solo il proprio (modesto) reddito individuale. L’Agenzia delle Entrate però scopre che esiste un conto bancario cointestato ai due fratelli, su cui transitano entrate e uscite compatibili con un’attività commerciale comune (incassi giornalieri, pagamenti a fornitori). Avvia quindi un accertamento come società di fatto. Tramite indagini finanziarie (ex art. 32 DPR 600/73), rileva versamenti sul conto non giustificati per €50.000 nell’anno, e li considera ricavi non dichiarati. Inoltre individua prelievi dal conto per €20.000 senza giustificazione, che presume impiegati per acquisti in nero, generando ricavi ulteriori non dichiarati. Sommando, l’ufficio contesta un maggior reddito di €70.000 attribuito alla società di fatto “Ferramenta MF” e lo imputa pro-quota ai due soci di fatto (35k € ciascuno). Viene notificato un avviso di accertamento congiunto a Mario e Luigi, come soci al 50% di tale società occulta. Difesa: In primo luogo, Mario e Luigi dovranno riconoscere il litisconsorzio – impugnano l’atto insieme, in un unico ricorso. Nel merito, preparano documenti per giustificare i movimenti bancari: ad esempio, dimostrano che €30.000 dei versamenti provenivano da un finanziamento ottenuto da Mario a titolo personale e poi girato sul conto comune (producono il contratto di finanziamento e l’accredito originario), e altri €10.000 erano frutto di vendite di un vecchio magazzino personale di Luigi (esibiscono ricevute). Rimangono €10.000 non spiegati: per questi propongono che si trattava di piccole vendite occasionali già tassate separatamente (difesa debole). Per i prelievi di €20.000, mostrano che €15.000 furono usati per pagare forniture (presentano fatture di acquisto già contabilizzate, pagate in contanti prelevati dal conto) – quindi non erano ricavi “in nero” ma uscite a fronte di costi già considerati. Residuo non giustificato: €5.000. In adesione, allora, negoziano col Fisco il seguente: riconoscimento di maggior ricavi per soli €15.000 (i €10k versamenti residui e €5k prelievi non giustificati), da imputare 7.500€ a testa. Ottengono così la definizione dell’accertamento con riduzione delle sanzioni a 1/3. Penalmente, l’importo evaso in termini d’imposta risulta modesto (su 15k ricavi, ipotizzando IVA e IRPEF, l’imposta evasa è sotto 5k €), quindi nessun reato (sotto soglie). Inoltre, avendo definito tutto, non scatterà neppure la verifica per annualità successive. Nota: se invece Mario impugnasse senza Luigi, come visto, il ricorso sarebbe inammissibile – la difesa deve sempre includere tutti.

Caso 2 – Società estinta e responsabilità solidale dei soci: L’S.n.c. Gamma (due soci, Anna e Bianca) si è sciolta nel 2023. Dopo la liquidazione, emergono verifiche su annualità precedenti: l’Agenzia contesta che la società, nel 2020, ha omesso di dichiarare ricavi per €100.000, evadendo ~€30.000 di IRAP e IVA. Nel settembre 2025, l’Agenzia notifica cartelle di pagamento direttamente ad Anna e Bianca, quali ex socie, per il totale del debito (imposte + sanzioni + interessi) pari a €50.000. Bianca aderisce a una definizione agevolata (“rottamazione-ter”) e versa subito €15.000, ottenendo dilazione per il resto. Anna, invece, non paga nulla. L’Agente della Riscossione, vedendo il residuo €35.000 non pagato, procede con il pignoramento del conto corrente di Anna per l’intero importo residuo. Situazione: Anna protesta perché sostiene che Bianca, avendo aderito alla sanatoria, non avrebbe dovuto far proseguire l’azione esecutiva per la sua parte. Tuttavia, essendo il debito solidale, finché non è interamente estinto, il Fisco può rivalersi sull’altro socio per l’intero residuo. Difesa di Anna: In sede di opposizione (ricorso in Commissione Tributaria avverso la cartella/atti della riscossione), Anna può contestare irregolarità nella notifica (era stata notificata correttamente?), oppure eccepire che, essendo la società estinta, l’atto avrebbe dovuto esserle notificato come socio e non solo come coobbligata (questione formale debole, perché in realtà glielo hanno notificato proprio come socio). Sul merito, Anna può far valere che una parte del debito è stata definita da Bianca, chiedendo eventualmente la sospensione della riscossione limitatamente alla quota in corso di definizione – ma poiché la solidarietà è totale, questa argomentazione difficilmente evita il pignoramento, al più porta l’Agente a incassare da Anna e poi Bianca e Anna faranno i conti tra di loro. Strategia migliore per Anna: era attivarsi in tempo per aderire anche lei alla definizione agevolata, oppure coordinarsi con Bianca per pagare pro-quota. Nel processo tributario, Anna può comunque verificare se l’accertamento originario fu notificato alla società già estinta (che sarebbe nullo) o se fu notificato ai soci (come corretto). Se ci fu vizio (ad es. avviso solo a società defunta), può far invalidare tutto e quindi annullare la cartella. In assenza di ciò, purtroppo Anna come socio illimitatamente responsabile deve pagare: potrà semmai esercitare diritto di regresso verso Bianca per la parte eccedente la sua metà, ma internamente (cause civili fra ex socie). Questo caso illustra il rischio di solidarietà: un socio diligente può trovarsi a pagare anche per l’altro. Dal punto di vista del Fisco, la definizione fatta da un coobbligato non libera l’altro se non per la quota effettivamente riscossa. Finché l’intero debito non è estinto, il Fisco può perseguitare gli altri soci.

Caso 3 – Accesso della Guardia di Finanza e scritture extra-contabili: Una società di fatto familiare (padre e figlio) gestisce un ristorante senza forma giuridica regolare. Durante un accesso ispettivo al locale, la Guardia di Finanza trova, nascosto in cucina, un quaderno con annotazioni giornaliere di incassi in contanti non registrati sul registratore di cassa ufficiale. Il figlio ammette di aver usato quel quadernetto per tenere conto di alcune vendite “senza scontrino”. Incrociando i dati, la Finanza constata che, in un anno, gli incassi “in nero” annotati ammontano a €80.000. Conseguentemente redige un PVC imputando alla società di fatto padre-figlio un maggior reddito di €80.000, oltre alla corrispondente IVA evasa. L’accertamento dell’Agenzia delle Entrate riprende pedissequamente questi dati e notifica avvisi ai due (unico atto) con la pretesa tributaria. Possibile difesa: Padre e figlio potrebbero tentare di sostenere che quel quaderno non rappresentava realmente vendite, ma ad esempio somme che il figlio aveva ricevuto dal padre a titolo di prestito, o risparmi personali del figlio reimmessi in attività. Tuttavia, data la concretezza delle annotazioni (date, importi giornalieri tipici di incassi), questa linea è debole. Inoltre, l’esistenza stessa di un fondo comune e di una gestione congiunta è difficilmente confutabile: c’è “affectio societatis” evidente, essendo padre e figlio entrambi presenti nell’attività. Senza prove chiare contrarie (ad es. che il figlio non partecipava alle perdite, o che quei soldi erano solo suoi per spese personali), sarà arduo convincere i giudici che non ci fosse una società di fatto. La migliore strategia in questo caso è probabilmente limitare i danni: ad esempio verificare se tutti quegli €80.000 sono effettivamente imponibili (il difensore potrebbe controllare se per caso una parte erano già registrati ufficialmente e duplicati sul quaderno per errore, o includere IVA al 10% tipica della ristorazione – magari i verificatori hanno già fatto questi calcoli, ma vanno ricontrollati). Inoltre, il padre e figlio potrebbero avvalersi dell’adesione per negoziare sanzioni ridotte e magari una rideterminazione al ribasso (ad esempio, se riescono a dimostrare costi correlati non considerati, come materie prime acquistate in nero a fronte di quegli incassi, potrebbero ottenere di tassare solo il margine e non l’intero incasso). Penalmente, €80.000 di ricavi occultati su un volume d’affari magari dichiarato di 100k configura sicuramente reato di dichiarazione infedele (imposta evasa probabilmente sopra 50k sommando IVA e IRPEF). Anche di ciò tener conto: in difesa penale potrebbero poi dire che il quaderno è stato mal interpretato (ma la confessione iniziale del figlio complica le cose). Esito probabile: se non emergono elementi nuovi, dovranno riconoscere il reddito occulto. Forse otterranno una rateazione. In giudizio, difficilmente vinceranno perché la presunzione di attualità di quelle annotazioni come prova di maggior reddito è forte e per vincerla servirebbero prove contrarie solide (che paiono assenti).

Questi esempi mostrano come la difesa del contribuente vada calibrata sul caso concreto: talvolta è possibile contrastare efficacemente l’accertamento (Caso 1, grazie a giustificativi per i movimenti bancari), altre volte occorre puntare a soluzioni transattive o attenuanti (Caso 2, gestione del pagamento solidale; Caso 3, adesione per ridurre sanzioni e rischi penali). Preparazione documentale, tempestività e coordinamento tra i soggetti coinvolti (soci tra loro, consulenti tributari e legali, ecc.) sono fattori determinanti per l’esito.

Tabelle riepilogative

Di seguito presentiamo alcune tabelle riassuntive utili per avere una visione d’insieme dei principali aspetti trattati.

Tabella 1: Termini di decadenza per l’accertamento fiscale (imposte sui redditi e IVA)

Periodo d’impostaDichiarazione presentataDichiarazione omessa
Fino al 2015 (regime previgente)Entro 31 dicembre del 4° anno successivo (ad es. redditi 2015 entro 31/12/2019) – ma raddoppio termini se entro tale data è inviata notizia di reato tributarioEntro 31 dicembre del 5° anno successivo (es. 2015 entro 31/12/2021) – raddoppio in caso di reato come a lato.
Dal 2016 in poi (regime attuale)Entro 31 dicembre del 5° anno successivo a quello di presentazione. (Esempio: dichiarazione 2020 presentata, accertabile fino al 31/12/2025).Entro 31 dicembre del 7° anno successivo all’anno in cui la dichiarazione andava presentata. (Esempio: omessa 2020, accertabile fino al 31/12/2027).
Eccezioni e sospensioni– Periodo 2020 (dich.2019) Covid-19: +85 giorni di proroga (accert. 2019 notificabili fino al 26/03/2026 invece che 31/12/2025). – In caso di pacificazioni fiscali (es. definizione 2023) i termini possono differire per gli aderenti.– Stessi +85gg per omesse dich.2019 (sarebbe 26/03/2028). – Note: il raddoppio termini per reati non si applica ai periodi dal 2016 in poi (abrogato).

Nota: Gli accertamenti devono essere notificati entro il 31 dicembre del termine indicato. Per le annualità dal 2021, salvo modifiche, non vi sono ulteriori proroghe straordinarie. I termini per imposte diverse (registro, successione, ecc.) seguono regole proprie non trattate qui.

Tabella 2: Principali reati tributari (D.Lgs. 74/2000) e soglie di punibilità

Reato (articolo)Descrizione sinteticaSoglia di punibilità (attuale)Pena prevista (massima)
Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti falsi (art. 2)Inserimento in dichiarazione di elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture/documenti falsi (es: costi mai reali).€100.000 di imposta evasa tramite detti documenti oppure uso di fatture false sopra tale importo di crediti fittizi. (Sopra 100k € passivi fittizi: fattispecie aggravata).Reclusione da 4 a 8 anni (aggravata >100k€ falsi); altrimenti da 1 anno 6 mesi a 6 anni.
Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3)Frode fiscale senza fatture false (es. doppie scritture, artifici contabili).Nessuna soglia di esclusione per definizione di “fraudolenza”, ma in pratica ogni frode rilevante è punita. (Confisca allargata se imposta evasa >100k).Reclusione da 3 a 8 anni. (Pena aumentata rispetto a pre-2019).
Dichiarazione infedele (art. 4)Dichiarazione mendace con omissione di ricavi o indicazione di costi indebiti senza frode.Imposta evasa > €100.000 e elementi attivi sottratti > €2.000.000. (Entrambe le soglie vanno superate). Escluso reato se differenze da valutazioni <10%.Reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi. (Rideterminata nel 2019; niente custodia cautelare in carcere poiché max <5 anni).
Omessa dichiarazione (art. 5)Mancata presentazione della dichiarazione annuale (redditi o IVA).Imposta evasa > €50.000.Reclusione da 2 a 5 anni.
Emissione di fatture o documenti falsi (art. 8)Emissione di fatture per operazioni inesistenti (per consentire frodi ad altri).Nessuna soglia minima (punibile anche per piccole somme).Reclusione da 4 a 8 anni (come art.2 simmetrico).
Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis)Manca il versamento di ritenute (es. IRPEF dipendenti) risultanti da certificazioni.> €150.000 di ritenute non versate nell’anno. (Termine pagamento considerato entro 31/12 anno succ. a modello 770).Reclusione fino a 3 anni (ora portata max a 4 anni? Riforma 2015 la alzò a 3, riforma 2024… ha tolto la sanzione <-> confusione. LCA indica soglia 150k confermata e dettagli rateazione).
Omesso versamento IVA (art. 10-ter)Manca il versamento dell’IVA annuale dovuta.> €250.000 di IVA non versata per periodo d’imposta. (Termine pagamento considerato 31/12 anno succ. a dichiarazione IVA).Reclusione fino a 2 anni (elevata a 3 anni dal 2015). Riforma 2024 ha mantenuto max 2 anni? In LCA c’è soglia 250k invariata, ma non chiarito se pena invariata).
Indebita compensazione (art. 10-quater) – crediti non spettantiUtilizzo in compensazione di crediti in realtà non spettanti (es. oltre il limite o in mancanza di requisiti).> €50.000 di crediti non spettanti usati in F24.Reclusione fino a 2 anni. (Riforma 2024 ha introdotto causa non punibilità per obiettiva incertezza).
Indebita compensazione (art. 10-quater) – crediti inesistentiUtilizzo in compensazione di crediti completamente inesistenti (fittizi).> €50.000 di crediti falsi compensati.Reclusione da 1½ a 6 anni.

Note: Per tutti i reati dichiarativi (2,3,4,5) e omessi versamenti (10-bis, 10-ter), l’integrale pagamento dei debiti tributari (imposta, interessi, sanzioni admin) prima del dibattimento di primo grado causa la non punibilità del reo. Inoltre, per 10-bis e 10-ter vige causa di non punibilità se, al verificarsi del fatto, esisteva una crisi di liquidità non imputabile (es. insolvenze subite) che ha reso impossibile il pagamento. Le soglie si intendono per periodo d’imposta; le pene indicate sono semplificate (possono variare con attenuanti/aggravanti). La prescrizione dei reati è generalmente di 6 anni (infedele, omessi) o 8 anni (fraudolenti) aumentabili fino a un quarto per atti interruttivi.

Tabella 3: Strumenti deflattivi e difensivi pre-contenzioso

StrumentoTermine/CondizioniVantaggi per il contribuenteRiferimenti normativi
Accertamento con adesione (definizione concordata)Entro 60 gg da avviso si può presentare istanza; procedimento da concludersi entro 90 gg (sospende termini ricorso). Possibile adesione su PVC entro 30 gg da PVC.– Sanzioni ridotte a 1/3 del minimo.– Possibilità di rateizzare (fino 8 rate trimestrali, 16 se >50k).– Si evitano costi e rischi del giudizio, con esito definitivo.D.Lgs. 218/1997, artt. 2-6.Nota: per società di persone, adesione della società estende effetti ai soci (redditi imputati).
Acquiescenza (pagamento) dell’avvisoPagamento di imposte, interessi e sanzioni ridotte a 1/3 entro 60 gg dalla notifica dell’atto (o 90 gg se rateazione) senza impugnazione.– Sanzioni ridotte a 1/3 (invece che 100%).– Niente spese legali, chiusura immediata della partita.Art. 15 D.Lgs. 218/97. Non ammessa se presentata istanza di adesione.
Ravvedimento operoso (pentimento attivo)Eseguito prima che il contribuente abbia conoscenza di accessi, ispezioni, verifica o altri accertamenti sul periodo. Consiste in presentare eventuale dichiarazione integrativa e versare spontaneamente imposta dovuta + interesse + sanzione ridotta proporzionalmente alla tempestività (fino a 1/5 del minimo se oltre 2 anni).Esclude l’accertamento su quanto regolarizzato (il Fisco al più liquida il dovuto).– Sanzioni amministrative molto ridotte (ad es. infedele dichiarazione passa dal 90%-180% al 15% se ravvedimento oltre 2 anni).– In caso di futuro giudizio penale, dimostra buona fede e può evitare il processo (per molti reati, il ravvedimento = causa di non punibilità se totale).Art. 13 D.Lgs. 472/97. Nota: non possibile dopo notifica di PVC, accertamento o altro atto ormai conosciuto.
Definizione agevolata e sanatorie (“pace fiscale”)Disposte con leggi speciali (es. L. 197/2022) per periodi o atti specifici. Ad es. definizione avvisi 2019-21: pagamento imposta intera + sanzioni ridotte a 1/18. Liti pendenti: percentuale del valore del contendere a seconda grado e esito.Sanzioni ridotte o azzerate, interessi ridotti.– Si elimina il contenzioso con pagamento facilitato (spesso rateale).– Valido anche se il ricorso è pendente in Cassazione (chiusura tombale).Leggi di bilancio o decreti ad hoc (sono straordinarie). Esempi: L. 197/22 (Definizione avvisi, liti pendenti, stralcio mini cartelle, rottamazione quater).

Tabella 4: Ruoli e responsabilità nelle società di persone

FiguraResponsabilità fiscale verso il FiscoPossibili difese specifiche
Società di persone (S.n.c., S.a.s., S.s., società di fatto)– Debitrice d’imposta per IVA, IRAP e altri tributi propri.– Non soggetta IRES; reddito imputato ai soci per IRPEF.– Inadempimento della società = escussione diretta su soci (no beneficium excussionis, respons. solidale illimitata salvo accomandanti).– Sanzioni tributarie amministrative: comminate di regola alla società (es. sanzione per infedele dichiarazione Unico SP).Difese procedurali: contestare vizi degli atti sociali (nullità motivazione, notifica errata alla società).– Eventuale scarico responsabilità sui soci gestori: la società può rivalersi internamente se uno dei soci ha causato la violazione (ma per il Fisco sono tutti obbligati).– Società di fatto: contestare l’insussistenza del vincolo societario (se possibile) per non imputare utili ai presunti soci.
Socio amministratore (S.n.c.) / Socio accomandatario (S.a.s.)Illimitatamente e solidalmente responsabile di tutte le obbligazioni sociali (imposte, sanzioni, interessi).– Obbligato principale a presentare le dichiarazioni per la società e a tenere le scritture (in caso di omissioni, ne risponde).– Responsabile penale in caso di reati tributari commessi nella gestione (dichiarazioni fraudolente/infedeli, omessi versamenti etc.).– Può opporre al Fisco le stesse difese della società (è parte necessaria nel processo).– In tema sanzioni amministrative, non può di norma sottrarsi invocando “colpa altrui”: come gestore aveva dovere di controllo.– In caso di illecito penale, può attenuare la posizione se prova di aver agito senza dolo (es. si affidava a dati errati forniti da altri in buona fede). Difficile però per l’amministratore, che per definizione controlla.
Socio non amministratore (S.n.c.)Illimitatamente e solidalmente responsabile anch’egli verso il Fisco per i debiti tributari sociali.– Sanzioni amministrative per dichiarazione infedele: la Cassazione le applica anche al socio non amministratore, in quanto comunque obbligato alla dichiarazione IRPEF sulla quota di reddito e in grado di controllare la gestione. (Quindi anch’egli colpevole di infedele dichiarazione se la società occulta utili).– Penale: il socio non admin di solito non risponde dei reati dichiarativi commessi dall’amministratore, salvo provata compartecipazione (es. concorso se sapeva e avallava).– Può tentare di invocare l’assenza di colpa nelle violazioni tributarie commesse dagli amministratori: ex art. 6 co.3 D.Lgs. 472/97, se prova di non aver potuto impedire la violazione, potrebbe chiedere esonero da sanzioni. La giurisprudenza però è sfavorevole: si presume che il socio potesse vigilare (soprattutto in società piccole).– In sede penale, usualmente non coinvolto a meno di ruolo attivo; se imputato per concorso può difendersi mostrando estraneità gestionale.
Socio accomandante (S.a.s.)Responsabilità patrimoniale limitata al capitale conferito per debiti sociali verso terzi (incluso Fisco), purché non compia atti di amministrazione (art. 2313 c.c.). Se ingerisce nella gestione, diviene di fatto illimitatamente responsabile (art. 2320 c.c.).– Tuttavia, per la quota di reddito imputata, il socio accomandante ha obbligo di dichiararla e pagarci l’IRPEF. Se la società occulta redditi, anche l’accomandante ometterà la quota: Cassazione ha stabilito che anche il socio accomandante risponde delle sanzioni per infedele dichiarazione sulla sua parte di reddito, perché ha diritto di controllo e conosce l’andamento. (L’accomandante spesso è paragonato a un non admin di S.n.c. sul piano sanzionatorio).– Penale: l’accomandante di regola non è soggetto attivo dei reati tributari societari (a meno che abbia partecipato dolosamente).– Può far valere la limitazione di responsabilità patrimoniale per non essere escusso oltre i conferimenti. In pratica, se la S.a.s. non paga, il Fisco potrà chiedere al accomandante solo nei limiti di quanto eventualmente ancora dovuto sul conferimento (se interamente versato, non oltre). Spesso però gli atti esattoriali vengono notificati anche agli accomandanti per sicurezza: costoro potranno opporre l’inesigibilità ultra vires (in sede di esecuzione civile).– Sul fronte sanzioni amministrative, la giurisprudenza, come detto, non esime l’accomandante: difendersi sostenendo di essere all’oscuro raramente prospera. Solo se provasse di essere stato completamente tenuto all’oscuro e senza poteri (ma ha pur sempre diritto di ispezionare libri, ex art.2320 c.c.).– In penale, normalmente fuori dal radar se rispettava il divieto d’ingerenza. Se però viene coinvolto (es. accusato di architettare insieme la frode), potrà difendersi evidenziando che formalmente non aveva ruolo attivo (ma se emergono prove contrarie, la limitazione societaria non lo salva dalla corresponsabilità penale).
Garanti e altri soggettiProfessionisti (commercialista, consulente): non sono responsabili d’imposta, ma se concausano violazioni possono risponderne in solido per sanzioni (art. 9 D.Lgs.472) e anche penalmente come concorrenti (es. il consulente fiscale che predispone la frode può essere coimputato).– Eredi dei soci: per le obbligazioni tributarie del de cuius vige la regola generale che gli eredi rispondono dei debiti tributari (imposte e interessi) nei limiti dell’attivo ereditario. Sanzioni amministrative tributarie personali non si trasmettono agli eredi (principio di personalità) a meno di definizione già avvenuta.– Socio uscente: se una società di persone prosegue con gli altri soci, il socio uscito rimane corresponsabile per i debiti tributari relativi al periodo in cui era in società (anche se accertati dopo). Se però l’accertamento riguarda periodi successivi alla sua uscita, non ne risponde. La presunzione di distribuzione utili extracontabili non si applica all’ex socio per anni successivi.– Professionisti possono invocare di aver agito secondo diligenza professionale e che le decisioni fiscali erano dei soci (non sempre convincente: esistono casi di sanzioni ai consulenti per concorso). In sede penale, il consulente può ottenere attenuanti se non traeva profitto diretto dall’evasione.– Eredi: nella fase contenziosa possono eccepire errori sulla quantificazione imputabile (attivo ereditario) e non sono tenuti a pagare sanzioni (quindi cartelle dovrebbero già escluderle). Se l’atto era stato notificato in vita al de cuius, gli eredi devono impugnarlo nei termini continuando il giudizio.– Socio uscente: se riceve un avviso per annualità quando era socio, deve difendersi come tale (può eccepire litisconsorzio con gli altri soci attuali). Se invece erroneamente coinvolto per periodi post-uscita, segnalerà l’errore (esibendo l’atto di recesso) e dovrebbe essere estromesso dalla pretesa.

Tabella 5: Fasi del processo tributario e peculiarità

Fase / IstanzaDescrizione e tempiNote difensive
Ricorso in primo grado (Corte Giust. Trib. I grado)Entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnabile (avviso, cartella, rifiuto rimborso…). Si deposita telematicamente; dal 2023 il giudice può essere monocratico se valore < €3.000 (solo imposta).– Ricorso va motivato, con indicazione specifica dei vizi di legittimità e/o merito e dei motivi di doglianza. Allegare copia atto impugnato e documenti di prova.– Chiedere eventualmente sospensione dell’esecuzione (con istanza motivata di pericolo grave). Il giudice decide di solito entro 180 gg.
Pagamento provvisorioDopo 60 gg dalla notifica dell’atto, se non sospeso, si deve versare 1/3 delle imposte accertate (oltre a interessi). Il resto è sospeso fino a sentenza I grado.– Se il contribuente ottiene sospensione giudiziale, non paga finché dura la sospensione (fino sentenza).– Attenzione: la sospensione va chiesta specificamente e non è automatica. Se negata, occorre pagare il terzo per evitare aggravi (fermi amministrativi, ipoteche, ecc.).
Primo grado – decisioneSentenza emessa in nome del popolo italiano. Termine teorico 30 gg per deposito, spesso più lungo. Vincendo il contribuente, l’atto è annullato (in toto o in parte).– Se vittoria totale contribuente, può richiedere (se non automatica) la refusione delle spese legali a carico dell’Ufficio soccombente.– Se parziale, l’obbligazione tributaria viene rideterminata in sentenza (es. imponibile dimezzato, sanzioni ridotte).
Appello (C.G. Tribut. II grado)Entro 60 gg da notifica (o 6 mesi se non notificata) della sentenza di primo grado. Processo di secondo grado in fatto e diritto.– Occorre riproporre le questioni perse in primo grado per non perderle (es. motivi assorbiti o non accolti dal giudice vanno ripresi in appello).– Dopo sentenza I grado, se il Fisco è vincitore anche solo parziale, il contribuente deve versare un ulteriore importo fino a 2/3 del dovuto (quindi un altro terzo) per evitare azioni esecutive durante l’appello.
Conciliazione giudizialeIn primo o secondo grado, le parti possono trovare un accordo transattivo sulle somme. Se formalizzato e omologato dal giudice, chiude la lite.Sanzioni ridotte al 40% (conciliazione in primo grado) o 50% (in appello).– Il giudice emette decreto di conciliazione = titolo definitivo.
Ricorso per Cassazione (legittimità)Entro 60 gg da notifica della sentenza d’appello. La Corte di Cassazione esamina solo vizi di diritto (violazione di legge o nullità della sentenza impugnata).– Non sospende di per sé l’esecutività: dopo sentenza appello sfavorevole, il contribuente deve versare tutto il residuo dovuto.– Possibile però chiedere sospensione in Cassazione (rara, solo se grave e irreparabile danno).– In Cassazione serve avvocato abilitato e motivi tecnici precisi (errori iuris o motivazione apparente/contraddittoria).
Esecutività e riscossioneDopo sentenza definitiva (non più impugnabile), l’atto è definitivo. Se contributore vittorioso, niente da pagare/si rimborsa; se Fisco vittorioso, può procedere su eventuali importi residui e agire coattivamente.– Nel 2023 è stato previsto un filtro per ricorsi in Cassazione dell’Agenzia quando ha perso doppio grado: in tali casi, se insiste, deve versare una fideiussione pari al 50% delle somme in contestazione per evitare di dilatare il rimborso al contribuente vincitore (principio di tutela del vincitore; questo per ora previsto dal DL 146/2021 e L.130/2022).

Domande e Risposte frequenti

D: Che cos’è esattamente un accertamento fiscale e in che modo interessa i soci di una società di persone?
R: L’accertamento fiscale è il procedimento con cui il Fisco rettifica i redditi o i dati dichiarati dal contribuente, calcolando maggiori imposte dovute. Per le società di persone, l’accertamento viene fatto con un unico atto che riguarda sia la società che i soci: ciò perché il reddito della società è “trasparente” e va imputato ai soci. Quindi, se l’Agenzia delle Entrate scopre che la S.n.c. Alfa ha sottodichiarato redditi, emanerà un avviso di accertamento che aumenta il reddito di Alfa e, contestualmente, aumenta i redditi personali imponibili di ciascun socio proporzionalmente. In pratica, i soci vedranno aumentare il proprio IRPEF a causa dell’accertamento sulla società. Inoltre, in caso di mancato pagamento, i soci di S.n.c. e accomandatari di S.a.s. rispondono del debito con il proprio patrimonio. Dunque l’accertamento a carico della società di persone riguarda direttamente anche i suoi soci.

D: Perché tutti i soci devono partecipare al ricorso contro un avviso di accertamento? Cosa succede se solo uno fa ricorso?
R: La legge e la Cassazione richiedono il litisconsorzio necessario in materia di accertamenti a società di persone: significa che la società e tutti i soci coinvolti devono essere parte dello stesso processo. Ciò avviene perché la decisione incide inscindibilmente su tutti (non avrebbe senso, ad esempio, confermare l’accertamento per la società ma annullarlo per un socio – c’è un’unica base imponibile comune). Dunque, se l’avviso viene notificato, è opportuno che il ricorso sia unico, presentato congiuntamente dalla società (se ancora esistente) e da tutti i soci. Se per caso solo uno dei soci impugna l’atto senza chiamare gli altri, il giudizio è viziato: il giudice dovrebbe integrare il contraddittorio chiamando dentro gli altri soci; se ciò non avviene, la sentenza può essere annullata in Cassazione per violazione del litisconsorzio. In pratica, se solo uno fa ricorso e gli altri no, il rischio è che quel ricorso venga dichiarato inammissibile o che comunque la sentenza non sia valida. Spesso gli uffici notificano l’atto a tutti e specificano l’obbligo di litisconsorzio: è importante coordinarsi tra soci per fare fronte comune. Va detto che dal 2024, con la competenza unificata, è più semplice: un unico ufficio emette l’atto per tutti, quindi non dovrebbero più verificarsi casi di soci “dimenticati”. In sintesi: tutti i soci (e la società) devono comparire insieme in giudizio, altrimenti il processo è nullo.

D: Quali diritti ha un contribuente durante una verifica fiscale della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate? Possono presentarsi senza preavviso?
R: In caso di verifica sul posto (accesso presso la sede aziendale), i funzionari hanno facoltà di ispezionare libri e registri, controllare merci, chiedere spiegazioni. Tuttavia, lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) prevede tutele: gli accessi devono avvenire in orario di lavoro, con ordine di accesso esibito; il contribuente può farsi assistere da un professionista; le operazioni devono concludersi di regola entro 30 giorni (nelle piccole aziende) salvo proroghe. Al termine, viene rilasciato un Processo Verbale di Constatazione (PVC) su cui il contribuente può apporre osservazioni. Senza preavviso? Sì, un accesso può avvenire a sorpresa, specie per evitare occultamento di prove. Non c’è obbligo di preavviso (tranne per alcune categorie di controlli formali su documenti, in cui talvolta inviano un invito a comparire). Ma se parliamo di un blitz della Guardia di Finanza, questo può essere senza preannuncio. Durante la verifica, il contribuente ha diritto di essere trattato con rispetto, di chiedere spiegazioni sulle richieste, e soprattutto, conclusa la verifica, ha diritto a un periodo di 60 giorni per presentare memorie prima che l’ufficio emetta l’accertamento (questo vale se la verifica si conclude con PVC; se invece è un accertamento da scrivania, può non esserci PVC ma c’è comunque il diritto al contraddittorio in molti casi). Altro diritto: la motivazione dell’accertamento deve tenere conto delle memorie presentate dal contribuente in quei 60 giorni; se l’ufficio emette l’avviso prima dei 60 giorni senza urgenza, l’atto è nullo. Quindi, in sintesi: il contribuente può collaborare ma anche difendersi già in fase di verifica, fornendo documenti e successivamente osservazioni scritte, e ha diritto che queste vengano valutate.

D: Come funziona e a cosa serve l’accertamento con adesione? Conviene farlo in caso di accertamento su una società di persone?
R: L’accertamento con adesione è una procedura di natura facoltativa e concordataria: in pratica, consente di “trattare” col Fisco prima di andare in giudizio. Si presenta un’istanza (entro 60 giorni dal ricevimento dell’avviso) chiedendo di essere convocati; l’ufficio vi incontrerà (anche solo telefonicamente o via PEC, oggi) per discutere i rilievi. Potrete portare nuovi documenti, evidenziare errori nell’accertamento e magari proporre un compromesso. Se si arriva a un accordo, si firma un atto di adesione in cui si fissano i nuovi importi (imponibile e imposte) e le sanzioni vengono automaticamente ridotte a un terzo del minimo previsto. Dopodiché si paga quanto concordato (subito o a rate) e la questione è chiusa: non si potrà più fare ricorso. Conviene? – Sì, in molti casi conviene, soprattutto se l’accertamento ha profili fondati e si riesce ad ottenere uno sconto (ad esempio su un imponibile troppo alto) e comunque la riduzione delle sanzioni del 66%. Nel caso di società di persone, un vantaggio ulteriore è che l’adesione conclusa dalla società copre anche i soci. Cioè, l’ufficio farà un unico atto di adesione dove definisce il reddito di società e quote dei soci: i soci non dovranno fare atti separati. Se invece si andasse in giudizio, bisognerebbe fare un ricorso cumulativo (come detto sopra). Con l’adesione si risolve tutto in sede amministrativa, risparmiando tempo e spese. Ovviamente, conviene se l’Agenzia mostra disponibilità a ridurre la pretesa o se comunque la pretesa iniziale è corretta ma si vuole evitare il contenzioso beneficiando dello sconto sanzioni. Se invece ritenete l’accertamento totalmente sbagliato e avete prove solide, potreste preferire fare ricorso e puntare all’annullamento completo. Ma attenzione: presentare adesione non vi impedisce, se non trovate accordo, di fare poi ricorso (i termini si sospendono e ripartono). Quindi spesso vale la pena tentare l’adesione: non si ha nulla da perdere (a parte il tempo di attesa) e potreste ottenere un risultato favorevole. In sintesi, è uno strumento deflattivo utile per risolvere in modo negoziato e meno sanzionatorio la controversia col Fisco.

D: Se un socio riceve una cartella di pagamento per debiti fiscali della società, cosa può fare per difendersi?
R: Ricevere una cartella significa che c’è un atto esecutivo (di solito conseguente a un accertamento divenuto definitivo o a controllo automatico) e che l’Agente della Riscossione (AER) chiede il pagamento. Come socio di società di persone, può capitarti perché i soci sono obbligati in solido. La prima cosa: verifica la regolarità formale. La cartella deve indicare la provenienza del debito (ad es. “da avviso di accertamento n… notificato alla S.n.c. in data …, divenuto definitivo per mancata impugnazione” oppure “da dichiarazione modello Redditi 20XX controllo ex art.36-bis DPR 600/73”). Se non riconosci il debito o non ti risulta il precedente atto, potresti avere motivo di ricorso. Le possibili difese contro una cartella:
Ricorso in Commissione Tributaria entro 60 gg, se contesti nel merito il debito (ma attenzione: se la cartella deriva da un accertamento non impugnato nei termini, quel merito è ormai definitivo e non attaccabile, salvo vizi di notifica).
Opposizione all’esecuzione al giudice ordinario, ma questo in tributi si limita a vizi della cartella successivi (es. prescrizione sopravvenuta, pagamento già avvenuto, ecc.).
Nel contesto di socio di società di persone, di solito la cartella arriva perché la società o gli altri non hanno pagato. Puoi controllare se la società ha patrimonio: la responsabilità dei soci è sussidiaria (nel senso che in teoria dovrebbero escutere prima la società). In realtà, con società di persone, spesso Agente notifica contestualmente a tutti, senza aspettare. Se la società esiste ancora, potresti eccepire che andava escussa prima la società (ma giurisprudenza dice che per soci illimitatamente responsabili non serve preventiva escussione – quella vale per soci accomandanti semmai).
Se sei socio accomandante, e ti notificano cartella per debito intero, puoi opporre che la tua responsabilità è limitata e quindi non possono chiederti oltre il tuo conferimento. In sede di riscossione, questo va fatto valere.
Altre difese: vizi di notifica dell’atto presupposto. Se tu non hai mai ricevuto l’accertamento presupposto, la cartella è nulla perché salterebbe un passo. Devi allora contestare che l’atto precedente non ti fu notificato correttamente (magari alla società sì ma tu non lo sapevi e dovevano notificarlo anche a te socio – se era obbligatorio, come in litisconsorzio). Ad esempio Cass. ha annullato cartelle a soci se l’avviso alla società era nullo.
Se il debito è giusto ma non riesci a pagare, puoi chiedere rateizzazione all’Agente Riscossione (fino a 72 rate o 120 se gravi). Questo non è “difesa” ma gestione.
Riassumendo: contro una cartella, le “difese” tipiche sono 1) ricorso per vizi sostanziali (se credi che il tributo non fosse dovuto o la sanzione andava tolta – ma ciò presuppone che l’atto precedente sia ancora contestabile, cosa non sempre); 2) ricorso per vizi formali (notifica invalida, cartella priva di motivazione sufficiente ecc.); 3) in alcuni casi, eccepire la prescrizione (ad esempio, tributi come contributi previdenziali o sanzioni in genere hanno prescrizioni a 5 anni dal titolo definitivo, controlla date).
Specifico per soci: se la società era estinta, la cartella andava notificata entro un certo termine anche agli ex soci (entro l’anno successivo all’estinzione, il fisco deve attivarsi): se tardano troppo, potresti dire che non potevano più colpire soci (c’è discussione su termine).
In ogni caso, agire entro 60 giorni dalla notifica della cartella è fondamentale: o paghi o presenti ricorso. Non ignorare la cartella perché poi partono fermi, ipoteche, pignoramenti.

D: Quali sono le conseguenze penali più comuni per un socio amministratore se l’accertamento rivela una grossa evasione?
R: Se dall’accertamento emerge che la società di persone ha evaso imposte oltre certe soglie, il socio amministratore rischia l’incriminazione per reati tributari. I casi più comuni:

  • Dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs.74/2000) – se l’imposta evasa supera €100k e gli elementi nascosti > €2 milioni. Ad esempio, se non dichiara 300k di ricavi (imposta evasa 120k), è reato. Pena fino a 4 anni e mezzo di reclusione.
  • Omessa dichiarazione (art.5) – se proprio non presentava la dichiarazione dei redditi/IVA e doveva, con imposta evasa > 50k.
  • Dichiarazione fraudolenta (artt.2 o 3) – se usava fatture false o altri artifici per evadere. Questo è più grave (pene fino a 8 anni).
  • Omesso versamento IVA (art.10-ter) – se non versa l’IVA dichiarata sopra 250k€.
  • Omesso versamento ritenute (art.10-bis) – se non versa le ritenute dipendenti sopra 150k.
    In una società di persone, l’amministratore firma la dichiarazione: se è infedele, lui ne risponde. Quindi, in pratica, oltre alla sanzione amministrativa, potrebbe aprirsi un procedimento penale. Ad esempio, se il Fisco accerta €1 milione di ricavi in nero su più anni, aspettati che la Procura aprirà un fascicolo per dichiarazione infedele o frode fiscale a tuo carico.
    Le conseguenze: in caso di condanna penale, oltre alla pena detentiva (spesso patteggiata, magari ridotta sotto 2 anni con sospensione condizionale se è il primo reato), ci sono anche sanzioni accessorie (tipo l’interdizione dai pubblici uffici, se la pena supera 2 anni; interdizione da attività imprenditoriali in casi gravi; e la confisca dei beni equivalenti all’imposta evasa). Ad esempio, se evasi €200k, possono confiscarti beni (conto, casa) per quell’importo.
    Va però detto che ci sono modi per attenuare queste conseguenze: la legge prevede che se paghi integralmente il debito tributario (imposte, interessi, sanzioni) prima del dibattimento, il reato viene estinto (per dichiarazione infedele, omessa, ecc.) oppure la pena è fortemente attenuata (per frodi, era una circostanza attenuante, ora estesa come non punibilità anche lì in certi casi). Quindi, un amministratore che si vede contestato penalmente può evitare la condanna se riesce a racimolare e pagare tutto l’evaso prima del processo (non semplice, ma è un incentivo a saldare).
    Inoltre, la recente riforma ha introdotto la non punibilità per crisi di liquidità per omessi versamenti di IVA/ritenute: se, ad esempio, non hai versato l’IVA perché la tua società era in decozione e i clienti non pagavano, e lo provi, potresti evitare la condanna.
    In pratica però, il rischio penale c’è ed è serio se l’evasione è grossa. Bisogna prepararsi con un avvocato, magari patteggiare (spesso si chiude con una pena contenuta se paghi parzialmente) o dimostrare circostanze attenuanti (non c’era dolo, etc.).
    Riassumendo: la conseguenza più comune per un socio amministratore evasore è il processo penale con possibile condanna a multa e reclusione, e misure come sequestro/confisca dei beni fino a concorrenza del profitto evasivo. È quindi fondamentale, in caso di contestazioni rilevanti, attivare subito strategie difensive (ad esempio, il “ravvedimento operoso speciale”: pagando, si salva penalmente) e tenere presente che il giudizio penale e quello tributario pur separati ora comunicano (un’assoluzione piena penale vincola il giudice tributario e viceversa certe cose).

D: Una contabilità semplificata può essere soggetta ad accertamento induttivo? Cosa cambia rispetto a una contabilità ordinaria?
R: Sì, anche chi è in contabilità semplificata (ad esempio piccole società di persone sotto i limiti di ricavi) può subire accertamenti, compreso induttivo. Quello che cambia non sono tanto i poteri del Fisco, ma i dati disponibili. In contabilità semplificata, non hai libri mastri completi o bilanci annuali dettagliati, registri IVA e poco altro. Quindi, l’ufficio se riscontra omissioni può usare i metodi presuntivi con più facilità: ad esempio, se trova movimenti bancari non annotati, assumerà quelli come ricavi nascosti come farebbe in ordinaria. Oppure userà i parametri o gli ISA per stimare un reddito congruo, specie se non hai inventari di magazzino da controllare.
La differenza è che in semplificata, dal 2017, sei a regime di cassa: dunque, se ti contestano ricavi, bisogna stare attenti alle date di incasso. Ad esempio, se hai emesso fatture a fine anno non incassate, in semplificata non le dichiari quell’anno. Il Fisco potrebbe erroneamente considerarle ricavi “non dichiarati”, ma tu puoi difenderti dicendo: “Ero semplificato cassa, incassato l’anno dopo, quindi è regolare”. Quindi occhio a questo aspetto.
Comunque, se la contabilità (semplificata) è tenuta male o incompleta, il Fisco può procedere ad accertamento induttivo puro come in ordinaria: la norma (art.39 DPR 600) non fa differenza se sei ordinario o semplificato – guarda se le scritture sono affidabili. Se hai solo registro acquisti/vendite e mancano le altre informazioni, useranno quel poco e poi presunzioni per il resto.
In pratica, in contabilità semplificata c’è meno documentazione a tuo favore (es. non hai uno stato patrimoniale ufficiale da confrontare), quindi devi essere pronto a giustificare diversamente. Ad esempio, una difesa tipica: se ti applicano un coefficiente di ricarico standard del settore perché non hai magazzino inventariato, puoi replicare mostrando con fatture d’acquisto e listini di vendita tuoi che il tuo margine era inferiore per X motivi.
Un’altra cosa: essendo spesso piccole attività, magari non tengono il conto cassa con precisione, quindi il Fisco guarderà i conti bancari o farà il redditometro ai soci. Quindi sì, l’accertamento può colpirti anche se semplificato, e anzi spesso le piccole imprese sono quelle più soggette a controlli basati su presunzioni fiscali (ISA, indagini finanziarie, ecc.).
In conclusione, contabilità semplificata non significa esente da accertamenti, ma solo che l’azienda produce meno dati contabili formali. Questo a volte rende più agevole per il Fisco ricostruire induttivamente (meno dati da smontare). D’altro canto, il contribuente semplificato può usare la peculiarità del regime di cassa come scudo in alcune circostanze, evidenziando incongruenze nei calcoli del Fisco se questi non lo hanno considerato.

D: Se il Fisco mi contesta utili non dichiarati in società a ristretta base (familiare), presume automaticamente che io li abbia intascati? Posso difendermi dicendo che li ho lasciati in azienda?
R: Nelle società di capitali a ristretta base (pochi soci, spesso familiari) c’è una presunzione giurisprudenziale che eventuali utili extra contabili scoperti siano stati distribuiti ai soci. Questo per evitare che si tenga occulto profitto nella società a beneficio comunque dei soci. Tuttavia, per le società di persone la questione è leggermente diversa: di default, fiscalmente, l’utile è attribuito ai soci a prescindere dalla distribuzione. Quindi non è neanche una presunzione, è proprio la regola (art.5 TUIR). In sostanza, se trovano €100 di reddito in più in una S.n.c., quel €100 viene tassato sui soci comunque, che lo abbiano prelevato o no. Dunque, nel tuo caso (familiare, direi società di fatto o S.n.c.), non potrai difenderti dicendo “non li ho presi” – ai fini delle imposte, non rileva: verranno imputati a te pro quota.
Forse stai pensando a difenderti sulle sanzioni o sul fatto sostanziale: se è una società di capitali e la contestazione è su utili extra bilancio, allora i soci cercano di dire “no, li abbiamo lasciati in società, non li abbiamo percepiti personalmente” per evitare la tassazione come dividendi. In una società di persone, questa distinzione non c’è: anche se li aveste lasciati in cassa, fiscalmente sono considerati reddito vostro.
La difesa possibile semmai è contestare l’esistenza stessa di quegli utili extra (cioè dire che il Fisco li ha calcolati male, o che erano redditi esenti, ecc.), ma se effettivamente l’utile in nero c’era, verrà tassato su di voi.
Riassumendo: Sì, l’amministrazione presume che quei proventi in nero abbiano incrementato il reddito dei soci, e in società di persone ciò non è neppure presunzione ma legge. Quindi non puoi evitare la tassazione dicendo di non averli incassati: al massimo, potresti evitare sanzioni penali se convinci che li ha trattenuti tutti l’altro socio senza che tu sapessi (scenario: socio occulto che nega di aver beneficiato dei proventi – ma fiscalmente li paga comunque).
In conclusione: la difesa “utili non distribuiti” non funziona nelle società di persone dal punto di vista fiscale. Devi concentrarti piuttosto nel dimostrare che l’utile non esiste o è minore.

D: Dopo un accertamento, l’Agenzia mi ha messo un’ipoteca sulla casa e un fermo amministrativo sull’auto per i debiti contestati (società di cui ero socio). È legittimo? Posso farli togliere?
R: L’Agenzia delle Entrate-Riscossione ha il potere di iscrivere ipoteca sui beni immobili del debitore e disporre fermo amministrativo sui veicoli, a garanzia del credito erariale, se il debito supera certe soglie (ipoteca sopra €20.000, fermo sopra €1.000, previa notifica preavviso). Nel tuo caso, se sei socio e coobbligato, e il debito non è stato pagato né sospeso, purtroppo l’ipoteca e il fermo possono essere legittimi strumenti cautelari.
Puoi però verificare alcuni aspetti:
– Ti avevano notificato la comunicazione di preavviso di ipoteca o fermo? Devono inviarti un preavviso (30 gg prima) per darti modo di saldare o rateizzare, altrimenti il provvedimento potrebbe essere impugnabile per difetto di comunicazione.
– Se il debito era in contestazione (ricorso pendente con richiesta di sospensiva), di solito Agenzia Riscossione non dovrebbe procedere con misure cautelari, o se lo fa, puoi chiedere al giudice tributario la sospensione anche di quelle per “grave danno”.
– Quanto alla rimozione: se il debito resta in piedi, l’ipoteca verrà cancellata solo quando pagherai tutto o se decideranno di sostituirla con altro. Lo stesso per il fermo auto: se saldi o entri in rateazione, puoi chiedere la revoca del fermo.
Quindi, modalità per toglierli: 1) Pagare o rateizzare il debito (AER rimuove il fermo entro 20 gg dal pagamento integrale; l’ipoteca entro 60 gg dal saldo). 2) Vincere il ricorso contro l’accertamento (in tal caso, cessa il debito e devi farlo presente ad AER perché liberi i vincoli; se fanno resistenza, fai istanza o giudice le ordinerà).
A volte, c’è la possibilità di chiedere la sostituzione dell’ipoteca: ad esempio, offrire una fideiussione bancaria al posto dell’ipoteca (ma questo è più tipico per liti pendenti, come garanzia per sospendere la riscossione in appello).
Se pensi che l’ipoteca o il fermo siano stati messi senza giusto motivo (ad es. importo sproporzionato: ipotecare casa per 30k di debito… è legale perché sopra 20k può, ma se la casa vale milioni potresti discutere l’eccesso di garanzia in tribunale ordinario per abuso di mezzi).
In pratica: purtroppo, se il debito c’è ed è definitivo o non sospeso, le misure cautelari sono legittime. L’unica è togliere la causa (debito) o trovare accordo. Verifica comunque col tuo avvocato se magari il preavviso non ti è giunto, perché quello è un vizio che consente ricorso per far revocare i provvedimenti (anche se poi te li potrebbero rimettere dandoti il preavviso corretto).
In conclusione: per farli togliere volontariamente, devi regolarizzare il debito (pagamento integrale o dilazione e poi chiedi revoca). Altrimenti, se il debito non esiste (lo stai contestando), devi ottenere una sospensiva dal giudice tributario e poi fare istanza di sospensione a AER allegando quell’ordinanza: di solito sospendono atti esecutivi e anche misure cautelari.

D: La mia società di persone è stata accertata e ho un processo tributario in corso. Nel frattempo però ho anche un procedimento penale per dichiarazione infedele sugli stessi fatti. Devono aspettare l’esito del penale prima di decidere in Commissione Tributaria?
R: In passato, i due procedimenti viaggiavano su binari indipendenti (“doppio binario”). Il giudice tributario poteva decidere senza attendere il penale, e viceversa. Si poteva chiedere la sospensione del processo tributario in attesa del penale, ma non era un diritto automatico – spesso negata, salvo casi rari.
Con la riforma del 2024, c’è ora un maggiore coordinamento: ad esempio, una sentenza penale definitiva di assoluzione con formula piena (“fatto non sussiste” o “non commesso”) vincola il giudizio tributario, rendendo quei fatti non più addebitabili. Quindi, se foste assolti penalmente perché non c’era evasione, il processo tributario dovrebbe conformarsi (e di regola annullare l’accertamento).
Al contrario, se condannato penalmente, non è che automatico perdi in tributario, ma sicuramente quell’accertamento troverebbe riscontro. E c’è anche una norma nuova che consente di acquisire la sentenza tributaria nel penale e viceversa.
Quindi, oggi un avvocato potrebbe chiedere al giudice tributario di sospendere il giudizio in attesa della definizione del penale (soprattutto se ritiene che il penale si risolva a suo favore). C’è un articolo nel codice di giustizia tributaria (art. 6 D.Lgs. 546/92) che consente la sospensione in caso di giustificato motivo. Il pendere di un penale per gli stessi fatti può essere un giustificato motivo, ma non obbligatorio. Dipende dalla strategia: a volte conviene decidere prima in tributario se si è molto convinti – una vittoria in tributario (soprattutto in secondo grado) potrebbe essere usata a tua difesa nel penale come prova forte.
Non c’è una regola rigida di aspettare: non devono necessariamente aspettare. Ma puoi fare istanza di sospensione del processo tributario per pregiudizialità penale. Alcune Commissioni la concedono se dal penale ci si attende un esito chiarificatore decisivo. Sappi che con la nuova legge, se il penale ti assolve pienamente, tu anche dopo potrai far valere quell’esito in ogni stato e grado del tributario (anche in Cassazione) per ottenere l’annullamento.
In sintesi: non è obbligatorio sospendere il giudizio tributario in attesa del penale, ma può essere richiesto. Bisogna valutare caso per caso: se hai buone chance penali, forse conviene attendere l’assoluzione e poi usarla; se invece il penale è incerto o lungo, magari vuoi farti annullare l’atto intanto in Commissione (sgravandoti anche penalmente perché se l’atto viene annullato per motivi sostanziali, è un ottimo argomento nel penale sul fatto che l’imponibile non esiste).
Considera anche che le sanzioni amministrative e penali ora devono essere coordinate (ne bis in idem sostanziale). Quindi c’è un nuovo articolo (21-ter) che dice che se c’è una condanna penale definitiva e anche una sanzione amministrativa, si tiene conto reciprocamente: non ti puniscono due volte sommando pienamente. Questo però è a posteriori, non incide sul processo in corso.
Quindi la risposta breve: no, non è automatico aspettare il penale. Puoi chiederlo, ma dipende dalla convenienza tattica e dalla discrezione del giudice. Molti giudici tributari preferiscono risolvere la questione fiscale senza attendere anni di penale. Con le nuove norme, comunque, c’è minore rischio di conflitti: un’assoluzione penale immediatamente riflette sul tributario. Il contrario (condanna penale) non vincola, ma ormai se il penale ti condanna per frode, dubito la Commissione ti assolva dall’imposta – però formalmente potrebbero, in teoria. Questo scenario doppio binario è rarissimo però (di solito se c’è condanna penale è perché prove forti c’erano).
In pratica, parlane col tuo avvocato: se in penale sei molto avanti e confidente, forse chiedere sospensione in Commissione può aver senso per evitare decisioni contrastanti.


Come abbiamo visto, la materia degli accertamenti fiscali verso società di persone è complessa ma affrontabile con gli strumenti giuridici adeguati. Il punto di vista del debitore dev’essere sempre quello di: conoscere i propri diritti procedurali, mantenere ordine nella contabilità, reagire in modo tempestivo agli atti (valutando adesione, ricorso, ecc.), e se vi sono errori del Fisco sfruttarli a proprio favore. In caso di errore proprio, ammetterlo presto e magari definirlo può limitare danni economici e penali. Le normative più recenti offrono opportunità di definizioni agevolate e di tutela nel “doppio binario” amministrativo-penale, segno che l’approccio sta diventando più equilibrato verso il contribuente cooperativo.

In conclusione, difendersi efficacemente da un accertamento fiscale richiede un mix di conoscenze fiscali, giuridiche e procedurali. Per un socio di società di persone, significa difendere non solo se stesso ma un’intera compagine, in un unico contesto, con attenzione a tutti i fronti (tributario, patrimoniale e, nei casi seri, penale). Con la giusta preparazione e l’assistenza di professionisti, è possibile far valere le proprie ragioni e, se del caso, rimediare agli errori con il minimo impatto. La chiave è agire in modo tempestivo, informato e strategico.

Fonti

  • Normativa nazionale:
    • Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 – artt. 31, 32, 39, 40 (accertamento imposte sui redditi).
    • Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) – art. 5 (trasparenza delle società di persone).
    • Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del Contribuente) – artt. 6, 7, 7-bis, 12 (diritti del contribuente nelle verifiche e obblighi di motivazione).
    • Decreto Legislativo 19 giugno 1997, n. 218 – artt. 2-6, 15 (accertamento con adesione e acquiescenza).
    • Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 – artt. 5, 6, 7, 8, 13 (principi generali sanzioni tributarie e ravvedimento).
    • Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 – artt. 6, 14, 48 (processo tributario: sospensione e litisconsorzio).
    • Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – artt. 2, 3, 4, 5, 10-bis, 10-ter, 10-quater, 12-bis, 13, 13-bis, 20, 21-bis, 21-ter (reati tributari, pene e cause di non punibilità).
    • Decreto Legislativo 14 giugno 2024, n. 87 – riforma delle sanzioni penali tributarie (modifiche al D.Lgs. 74/2000, introd. artt. 13 co.3-bis e 3-ter, 20 co.1-bis, 21-bis, 21-ter).
    • Decreto Legislativo 12 febbraio 2024, n. 13 – riforma dell’accertamento (modifica art. 31 DPR 600/73: competenza uffici).
  • Giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione):
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 398/2014 – Necessario contraddittorio endoprocedimentale per accertamenti (principio recepito in Statuto).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 10501/2014 – Il socio, anche non amministratore, risponde delle sanzioni da infedele dichiarazione pro quota, avendo poteri di controllo (conferma orientamento).
    • Cass. civ. Sez. Un. n. 22800/2015 – Validità delle deleghe di firma negli accertamenti (vizi sanabili solo con deleghe specifiche).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 22168/2015 – Nullità dell’atto emesso prima dei 60 giorni dal PVC senza urgenza (violazione art.12 Statuto).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 8981/2016 – Definizione di società di fatto e responsabilità solidale: esteriorizzazione del vincolo sociale fa presumere solidarietà passiva dei soci occulti.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 27145/2016 – Litisconsorzio necessario tra società di persone e soci: nullità del giudizio se non integrato.
    • Cass. pen. Sez. III n. 40272/2018 – Principio di ne bis in idem sostanziale: coordinamento sanzioni tributarie e penali (recepito poi in art. 21-ter D.Lgs.74/00).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 20099/2018 – Socio accomandante risponde delle sanzioni da infedele dichiarazione, non essendo esonerato da obblighi di controllo.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 32951/2018 – Litisconsorzio: se un socio non è parte, nullità rilevabile in ogni stato e grado.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 16536/2019 – Società di fatto tra familiari: onere probatorio stringente per contestarne l’esistenza (presunzioni sintomatiche).
    • Cass. pen. Sez. Unite n. 31022/2019 – Ravvedimento operoso quale causa di non punibilità estesa ai reati dichiarativi (confermata estensione DL 124/2019).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 25766/2019 – Il raddoppio dei termini per reato è applicabile (transitoriamente) alle annualità fino al 2015 se denuncia presentata entro termini ordinari.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 2530/2021 – Nullità dell’atto per incompetenza territoriale dell’ufficio (ora superata da norma 2024).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 3954/2024 (dep. 13/02/2024) – Litisconsorzio tra soci: giudizio nullo se non partecipano tutti i soci di una società di persone, anche se qualcuno ne contesta la qualifica.
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 18038/2024 – Presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili in società a base ristretta: onere della prova contraria a carico contribuente (principio confermato).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 16968/2024 (dep. 19/06/2024) – Presunzione di utili ai soci in caso di socio uscente: non opera per periodi successivi al recesso; l’accertamento va rapportato al periodo di partecipazione.
    • Cass. pen. Sez. III n. 2383/2025 (dep. 21/01/2025) – Omesso versamento IVA: rilevanza della crisi di liquidità sopravvenuta per escludere il dolo (anticipa principi poi codificati in art.13 co.3-bis D.Lgs.74/00).
    • Cass. civ. Sez. Trib. n. 4712/2024 (dep. 22/02/2024) – Infedele dichiarazione e società di persone: ribadito che la maggiore imposta imputata alla società comporta sanzione anche a carico del socio accomandante.

Accertamento fiscale a società di persone? Fatti Difendere da Studio Monardo

Hai ricevuto un accertamento fiscale nei confronti della tua S.n.c. o S.a.s.?
L’Agenzia delle Entrate ti contesta ricavi non dichiarati, spese indeducibili o violazioni nei versamenti?

Le società di persone rispondono in solido e per trasparenza: ciò significa che l’accertamento colpisce sia la società che i singoli soci, con possibili riflessi immediati su patrimoni personali e posizioni fiscali. Ma non tutto è perduto: esistono difese concrete.


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  • 📂 Analizza l’avviso di accertamento e la contabilità della società
  • 📌 Verifica la legittimità dell’accertamento e i criteri di imputazione ai soci
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  • ⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio e nel processo tributario
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario per società e soci
  • ✔️ Specializzato in fiscalità delle società di persone e accertamenti con trasparenza fiscale
  • ✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia

Conclusione

Un accertamento fiscale a una società di persone può coinvolgere direttamente il patrimonio dei soci.
Con una strategia legale chiara e tempestiva puoi difendere l’attività, evitare sanzioni indebite e proteggere i tuoi beni personali.

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