Hai ricevuto un accertamento per IMU, TARI o TASI da parte del Comune? Ti contestano il mancato pagamento, una dichiarazione inesatta o ti chiedono somme che ritieni non dovute? Non sei obbligato a subire l’atto: puoi difenderti legalmente e far valere le tue ragioni.
Gli accertamenti su tributi locali – imposta municipale (IMU), tassa sui rifiuti (TARI) e tributo sui servizi indivisibili (TASI) – sono sempre più frequenti. Ma spesso si basano su presunzioni, banche dati non aggiornate, errori catastali o interpretazioni arbitrarie del regolamento comunale.
Quando può arrivare un accertamento IMU, TARI o TASI?
– Quando il Comune rileva mancati versamenti o presunti errori nei calcoli
– Quando risulta una superficie dichiarata inferiore a quella catastale
– Quando ti contestano omessa denuncia TARI o mancata iscrizione dell’immobile
– Se hai venduto o acquistato un immobile e il Comune ritiene ancora dovuto il tributo
– Se risultano utenze attive (luce, acqua, gas) non coerenti con la tua dichiarazione
– Quando c’è una presunta mancata comunicazione di variazioni (locazioni, disdette, decessi, trasferimenti)
Cosa può contestare l’Ufficio tributi?
– Mancato o parziale pagamento dell’IMU sugli immobili non abitazione principale
– TARI calcolata su superficie superiore a quella effettivamente utilizzata
– TASI dovuta per fabbricati locati o per uso diverso da abitazione principale
– Decadenza da agevolazioni, come esenzioni per residenza o uso strumentale
– Sanzioni per omessa o infedele dichiarazione fino al 200% dell’importo
Come puoi difenderti da un accertamento su tributi locali?
– Verifica la motivazione dell’atto: deve indicare chiaramente errori e presupposti
– Controlla superficie e categoria catastale del tuo immobile
– Raccogli la documentazione: atti di compravendita, volture, disdette, visure, contratti di locazione
– Confronta gli importi richiesti con quanto effettivamente versato
– Se ci sono errori o mancanze formali, presenta istanza di autotutela o ricorso
– Affidati a uno studio legale esperto per analizzare la fondatezza della pretesa e, se necessario, impugnare l’atto davanti alla Corte di Giustizia Tributaria
Cosa puoi ottenere con una difesa ben impostata?
– Annullamento dell’accertamento, se l’imposta non è dovuta o la procedura è viziata
– Riduzione dell’importo richiesto, in caso di errore sulla metratura o categoria
– Esclusione o riduzione delle sanzioni, in caso di buona fede o ravvedimento
– Rettifica della situazione catastale o tributaria, con aggiornamento degli archivi comunali
– Sospensione della riscossione, per evitare iscrizioni a ruolo e cartelle esattoriali
Quando è il momento di agire?
Subito: hai solo 60 giorni per impugnare un accertamento notificato. Trascorso questo termine, l’atto diventa definitivo e può sfociare in iscrizione a ruolo, pignoramenti e fermi amministrativi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso sui tributi locali ti spiega come difenderti da accertamenti su IMU, TARI e TASI, quali strumenti legali usare e cosa puoi ottenere.
Hai ricevuto un avviso dal Comune e vuoi sapere se è legittimo? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Valuteremo insieme la tua posizione e ti aiuteremo a contestare l’atto o ridurre la pretesa.
Introduzione
Gli avvisi di accertamento emessi dai Comuni per IMU, TARI e TASI sono atti tributari formali con cui l’ente locale contesta al contribuente il mancato o insufficiente pagamento di queste imposte. Ricevere un accertamento del genere può destare preoccupazione: si tratta infatti di atti esecutivi che intimano il pagamento di imposte, sanzioni e interessi entro un termine preciso (tipicamente 60 giorni) e avvertono che, in caso di mancata impugnazione o pagamento, si procederà al recupero forzoso delle somme dovute. In altre parole, trascorso il termine senza reazione del contribuente, l’avviso diviene definitivo ed è immediatamente utilizzabile per pignoramenti, ipoteche su immobili, fermi amministrativi e altre azioni esecutive senza bisogno di ulteriori atti, al pari di una cartella esattoriale. È quindi essenziale per ogni debitore conoscere i propri diritti e gli strumenti di difesa disponibili di fronte a tali accertamenti, al fine di evitare indebite richieste o conseguenze patrimoniali gravi.
Questa guida – aggiornata a luglio 2025 – offre un quadro normativo completo sulle strategie di difesa contro gli accertamenti IMU (Imposta Municipale Propria sugli immobili), TARI (Tassa sui Rifiuti) e TASI (Tributo per i Servizi Indivisibili). Il taglio è giuridico-divulgativo, rivolto sia a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) sia a privati cittadini e imprenditori, con un linguaggio tecnico ma accessibile. Verranno analizzati i riferimenti normativi italiani più rilevanti, illustrate le procedure di impugnazione dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria (già Commissioni Tributarie) e descritte le strategie difensive più efficaci dal punto di vista del contribuente (il “debitore” destinatario dell’atto). Troverete inoltre tabelle riepilogative, esempi pratici di casi reali, una sezione di Domande & Risposte frequenti, nonché richiami alle sentenze più aggiornate e ai provvedimenti normativi più recenti (inclusa la riforma del processo tributario del 2023/2024). Particolare attenzione sarà data ai rimedi alternativi al ricorso giurisdizionale – come autotutela, accertamento con adesione, conciliazione, definizioni agevolate – che possono talvolta risolvere la controversia senza arrivare in giudizio.
Prima di entrare nel dettaglio delle singole imposte, è utile inquadrare brevemente cosa sono IMU, TARI e TASI, e come si caratterizzano gli accertamenti per ciascuna di esse:
Tributo locale | Presupposto e natura | Soggetto obbligato | Calcolo e aliquote | Principali esenzioni |
---|---|---|---|---|
IMU (Imposta Municipale Propria) | Possesso di immobili (fabbricati, aree fabbricabili, terreni) siti nel Comune. È un’imposta patrimoniale sugli immobili, dovuta annualmente. | Il proprietario o titolare di diritto reale sull’immobile (usufruttuario, enfiteuta, ecc.). Non l’inquilino in affitto (che non paga IMU). | Base imponibile: valore catastale (rendita catastale rivalutata per i moltiplicatori di legge) per i fabbricati; valore venale per le aree edificabili; reddito dominicale per terreni agricoli (con coefficiente). Aliquote decise dal Comune entro limiti statali (es. fino 10,6‰ per seconde case). Si paga in due rate (acconto e saldo) solitamente. | Abitazione principale (esente se non di lusso, cat. A/1, A/8, A/9), pertinenze prima casa (limitate), immobili di enti non profit se destinati ad attività esenti, fabbricati rurali strumentali, terreni agricoli in alcuni casi (coltivatori diretti), fabbricati invenduti dalle imprese costruttrici, ecc. |
TARI (Tassa Rifiuti) | Possesso o detenzione di locali e aree scoperte idonee a produrre rifiuti urbani nel territorio comunale. È una tassa destinata a finanziare il servizio di raccolta e smaltimento rifiuti. Dovuta per ogni anno di occupazione. | Chi detiene o utilizza i locali (es. occupante, inquilino, azienda conduttrice). Il proprietario è obbligato in solido se l’immobile è occupato temporaneamente per <6 mesi (in tal caso paga il possessore). Se più coobbligati (es. famiglia, comproprietari) vige solidarietà. | Si calcola in base alla superficie calpestabile (mq) e alla destinazione d’uso (abitazione, ufficio, negozio, capannone, ecc.), applicando una tariffa composta da quota fissa (costi fissi del servizio per mq) e quota variabile (costi variabili per quantità di rifiuti, spesso parametrata ai componenti familiari per le utenze domestiche). Le tariffe sono deliberate dal Comune annualmente in base al piano finanziario rifiuti. Sanzione per omesso pagamento: 30% del tributo non versato; interessi legali o quelli previsti da regolamento comunale. | Riduzioni o agevolazioni previste da regolamento comunale: es. riduzione per unico occupante, per abitazioni a disposizione non utilizzate (se il regolamento lo prevede e ad es. se utenze staccate), per zone con distanza elevata dal punto di raccolta o servizio ridotto, per attività che smaltiscono in proprio rifiuti speciali, compostaggio domestico, ecc. Esenzioni totali rare (aree pertinenziali scoperte non operative, parti comuni condominiali non utilizzate). Nessuna esenzione generale per prima casa (si paga su tutte le abitazioni occupate). |
TASI (Tributo Servizi Indivisibili) – Applicabile fino al 2019 | Possesso o detenzione di immobili destinati a servizi comunali indivisibili (illuminazione, sicurezza, verde pubblico, ecc.). Introdotta nel 2014 come componente della IUC, abolita dal 2020 con accorpamento nell’IMU. | Proprietario e occupante (in caso di immobile dato in uso a terzi) sono entrambi tenuti: l’occupante versa una quota stabilita (tra 10% e 30% secondo delibera; 10% se il Comune non ha deliberato), il proprietario paga la restante percentuale. Se l’immobile è abitazione principale dell’occupante, dal 2016 TASI non dovuta né da occupante né da proprietario. | Base imponibile analoga a IMU (valore catastale). Aliquote TASI determinate dal Comune con limite: la somma di aliquota IMU + TASI su ciascun immobile non poteva eccedere il massimo IMU (es. 10,6‰ sulle seconde case). In pratica, nei 2014-2019 molti Comuni hanno applicato la TASI principalmente alle abitazioni principali (che erano esenti IMU) fino al 2015, e/o aliquote ridotte su altri immobili già soggetti ad IMU. Pagamento in due rate come IMU. | Dal 2016 in poi quasi tutte le abitazioni principali (non di lusso) sono state esentate TASI per legge. Restavano soggetti TASI alcuni immobili particolari (es. ville di lusso anche se prima casa, come da IMU) e le seconde case/immobili produttivi in quei Comuni che avessero aliquote TASI in aggiunta a IMU (nei limiti di legge). Erano esenti per legge, analogamente all’IMU, gli immobili di Stato, enti pubblici, enti religiosi e ONLUS per usi istituzionali (art. 7 D.Lgs. 504/92). Dal 2020 il tributo TASI è stato abolito e incorporato nella “nuova IMU”. |
Nota: la TASI non si paga più dal 2020 (legge 160/2019), ma è ancora possibile ricevere accertamenti TASI per annualità pregresse non prescritte (2015–2019, notificati entro fine 2025 al più tardi) e dunque è incluso in questa guida.
Come si vede dalla tabella, i tre tributi locali presentano differenze quanto a presupposti e modalità di calcolo, ma condividono anche molte regole procedurali comuni: termini di accertamento, modalità di notifica, sanzioni, iter di riscossione e organi competenti per l’eventuale ricorso. Nel prosieguo analizzeremo dunque prima il quadro normativo generale sugli accertamenti tributari locali e gli strumenti di difesa pre-contenzioso validi per tutti e tre i tributi; successivamente entreremo nello specifico delle strategie difensive per IMU, TARI e TASI, evidenziando per ciascuno i motivi di ricorso più frequenti e gli accorgimenti particolari. Infine, verranno fornite FAQ (domande e risposte) riassuntive e le fonti normative e giurisprudenziali di riferimento.
Accertamenti esecutivi dei tributi locali: normativa generale
Dal 1° gennaio 2020 gli avvisi di accertamento emessi dagli enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane, Unioni di Comuni, ecc.) in materia di tributi sono per legge atti “impo-esecutivi”, ossia atti di accertamento che contengono anche un’intimazione ad adempiere e che, trascorsi i termini di legge, costituiscono titolo esecutivo per la riscossione coattiva. Questa disciplina uniforme – introdotta dalla legge 27 dicembre 2019 n. 160, art. 1 comma 792 – vale per IMU, TARI, TASI e in genere per tutti i tributi locali propri dell’ente. In pratica, un avviso di accertamento odierno include già al suo interno la richiesta di pagamento delle somme dovute (imposta evasa, sanzioni, interessi) entro 60 giorni dalla notifica, avvisando che decorso tale termine senza pagamento né impugnazione, il Comune potrà procedere direttamente alla riscossione forzata. Non verrà quindi notificata una cartella di pagamento separata: l’accertamento stesso, una volta divenuto definitivo, è sufficiente per iscrivere ipoteca, disporre fermi amministrativi e pignorare beni o crediti del debitore.
Questa procedura, analoga a quella già vigente per le imposte statali, rende ancora più cruciale la tempestività della reazione del contribuente. In passato, infatti, dopo un accertamento il Comune doveva iscrivere a ruolo le somme dovute e far emettere una cartella esattoriale entro 3 anni dalla definitività dell’accertamento (termine decadenziale ex art. 1 c.163 L.296/2006). Oggi invece l’avviso stesso diventa esecutivo dopo 60 giorni, e la riscossione può essere attivata subito dopo (salvo alcune cautele che vedremo) senza ulteriori passaggi formali.
L’accertamento esecutivo deve indicativamente contenere gli stessi elementi di un accertamento tradizionale più le indicazioni proprie di un atto della riscossione. In particolare, la legge e lo Statuto del Contribuente richiedono che nell’atto siano presenti, a pena di nullità:
- Le motivazioni di fatto e di diritto che giustificano la pretesa tributaria. L’atto deve cioè spiegare chiaramente cosa si contesta (es. “omesso versamento IMU anno 2021 sulla particella catastale XX”) e perché (norme applicate, aliquote, eventuali dichiarazioni omesse, ecc.), in modo da mettere il contribuente in condizione di capire le ragioni dell’ente impositore. Un difetto assoluto di motivazione rende nullo l’atto per violazione dell’obbligo di motivazione (art. 7 L.212/2000; art. 3 L.241/1990).
- L’indicazione degli immobili, periodi d’imposta e importi accertati. Ad esempio, un avviso IMU deve elencare ogni immobile con relativo anno e rendita catastale o valore imponibile, l’aliquota applicata e il tributo calcolato; un avviso TARI deve specificare gli anni contestati, i metri quadri tassati, la tariffa unitaria applicata (quota fissa e variabile) e il calcolo della tassa dovuta. Devono essere separatamente indicati l’imposta o tassa evasa, la sanzione amministrativa irrogata e gli interessi maturati fino alla data dell’accertamento. Esempio: per omesso versamento IMU, la sanzione è in genere pari al 30% dell’imposta non pagata (art. 13 D.Lgs. 471/1997); se però il contribuente paga entro 30 giorni dalla notifica, l’ente può ridurla a 1/3 (ossia al 10%). Gli interessi legali decorrono giorno per giorno (per i tributi locali gli interessi possono essere quelli legali o quelli stabiliti dal regolamento comunale, spesso pari al tasso legale).
- Le istruzioni per il contribuente riguardo a come adempiere o come impugnare. L’atto deve indicare l’ufficio comunale competente (es. Ufficio Tributi) e il responsabile del procedimento (figura prevista dallo Statuto del Contribuente, art. 7 L.212/2000); le modalità di pagamento (di solito allegando un modello F24 o bollettini) e il termine per effettuarlo (60 giorni); l’autorità a cui è possibile ricorrere (la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio, ex Commissione Tributaria Provinciale). Va esplicitato che il termine per presentare ricorso è di 60 giorni dalla notifica e che, scaduto tale termine, l’atto diverrà definitivo ed esecutivo.
- L’intimazione ad adempiere e l’avvertimento sugli effetti esecutivi: deve essere chiarito che, decorso il termine di 60 giorni senza pagamento, l’importo sarà affidato all’Agente della Riscossione per il recupero forzoso. Inoltre, in base alla normativa vigente, se il contribuente propone ricorso deve comunque versare, in pendenza di giudizio, una parte dell’imposta accertata: precisamente 1/3 dell’imposta (oltre interessi) entro il termine di proposizione del ricorso. Questo significa che, pur impugnando l’atto, è richiesto un pagamento provvisorio di tutela per 1/3 dell’importo contestato (come avviene per le imposte erariali, ex art. 15 del DPR 602/1973). Il restante 2/3 rimane sospeso fino all’esito del primo grado di giudizio, salvo casi eccezionali di pericolo per la riscossione (ad es. quando vi è il fondato timore che il contribuente possa sottrarsi al pagamento). In mancanza del versamento del terzo, il Comune può comunque far procedere coattivamente per tale importo parziale anche durante il processo. Si tratta di un meccanismo di garanzia per l’ente impositore, spesso ignorato dal contribuente: per questo, in caso di ricorso, è prudente chiedere al giudice la sospensione dell’esecutività dell’atto, come vedremo, così da evitare qualsiasi azione di recupero su quel terzo dovuto.
- Le informazioni sulla riscossione coattiva e sulle ulteriori notifiche: per trasparenza, l’atto dovrebbe riportare le previsioni di legge relative alla fase esecutiva. Ad esempio, la legge prevede che dall’affidamento all’Agente della Riscossione decorra una sospensione di 180 giorni prima dell’avvio dell’esecuzione forzata. Ciò significa che, una volta che il Comune trasmette il carico all’esattore (es. Agenzia Entrate-Riscossione), quest’ultimo attende 180 giorni prima di iniziare pignoramenti, purché il contribuente abbia presentato ricorso e chiesto al giudice la sospensione dell’atto impugnato. Questa moratoria semestrale serve a dare tempo al contribuente di ottenere dal giudice tributario una sospensiva. Se invece non viene proposto ricorso, oppure non è chiesta/ottenuta la sospensione, l’esecuzione può essere avviata anche prima (in caso di pericolo nel ritardo, immediatezza dell’esecuzione dopo i 60 giorni). Inoltre, se l’esecuzione forzata inizia oltre un anno dopo la notifica dell’accertamento, l’Agente della riscossione dovrà notificare un’intimazione di pagamento (ulteriore avviso) almeno 5 giorni prima di procedere, ai sensi dell’art. 50 DPR 602/1973, norma applicata in via analogica.
In sintesi, un avviso di accertamento deve: 1) pervenire entro i termini di legge; 2) contenere tutti gli elementi essenziali (soggetti, motivi, importi, riferimenti normativi, istruzioni su cosa fare); 3) essere notificato correttamente. In mancanza anche di uno solo di tali requisiti, l’atto può essere annullato perché illegittimo. Vedremo più avanti quali sono i vizi formali e sostanziali più comuni da far valere in un ricorso. Prima, però, analizziamo i termini di notifica e le regole sulla decadenza dell’attività accertativa, che rappresentano spesso un primo fondamentale motivo di difesa.
Termini di notifica e decadenza dell’accertamento
La legge impone ai Comuni stringenti termini di decadenza entro cui notificare gli avvisi di accertamento per tributi locali, a pena di nullità degli atti tardivi. In base all’art. 1 commi 161 e 163 della legge 296/2006 (Finanziaria 2007), gli avvisi di accertamento per omesso, insufficiente o tardivo versamento di tributi locali devono essere notificati entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento dovuto. In altre parole, il Comune ha al massimo cinque anni di tempo per accertare un tributo locale non pagato. Ad esempio, per l’IMU dovuta per l’anno d’imposta 2020, il termine ultimo per la notifica dell’accertamento è il 31 dicembre 2025; oltre tale data l’accertamento sarebbe nullo per intervenuta decadenza. Allo stesso modo, un avviso TARI 2019 andava notificato entro il 31/12/2024, un avviso TASI 2015 entro il 31/12/2020, e così via. Il principio vale anche per le eventuali dichiarazioni omesse o infedeli (ad es. omessa dichiarazione TARI in caso fosse dovuta): in tal caso il termine di 5 anni decorre dall’anno in cui andava presentata la dichiarazione (spesso coincide comunque con l’anno successivo a quello d’imposta).
Occorre segnalare che questi termini possono essere sospesi o prorogati solo per espliche previsioni di legge (situazioni straordinarie). Ad esempio, durante l’emergenza Covid nel 2020 vi fu una sospensione dei termini di accertamento per alcuni mesi, che ha di fatto esteso la scadenza per gli atti che cadevano a fine 2020 (analoghe sospensioni si sono avute per gli eventi sismici o altre emergenze locali). Al di là di tali eccezioni, la regola generale resta il quinquennio: un avviso notificato oltre il 31 dicembre del quinto anno è insanabilmente tardivo e il giudice, su eccezione del contribuente, lo annullerà per decadenza temporale. Su questo punto la giurisprudenza è consolidata nel ritenere invalido l’atto oltre i termini senza necessità di provare alcun concreto pregiudizio per il contribuente, essendo la decadenza posta a tutela di interessi generali (certezza dei rapporti tributari).
Dal punto di vista della riscossione coattiva, fino al 2019 esisteva, come accennato, un distinto termine triennale per l’emissione della cartella esattoriale o ingiunzione dopo che l’accertamento era divenuto definitivo. Tale termine triennale, fissato al 31 dicembre del terzo anno successivo alla definitività (art. 1 c.163 L.296/2006), oggi ha perso rilievo pratico perché l’accertamento stesso è titolo esecutivo. In pratica, una volta decaduto il potere di accertare oltre il quinto anno, l’ente perde il tributo; se invece ha notificato l’avviso tempestivamente (entro il 5° anno) e questo è divenuto definitivo (perché non impugnato o confermato in giudizio), per la riscossione del credito trova applicazione il normale regime della prescrizione civile. I tributi locali come IMU, TARI, TASI sono considerati crediti di natura periodica e si prescrivono in 5 anni (art. 2948, n.4 c.c.) salvo che intervenga una sentenza passata in giudicato. La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato dal 2016 in poi che la scadenza del termine di impugnazione non “trasforma” la prescrizione breve in decennale, restando questi tributi soggetti al termine quinquennale proprio delle prestazioni periodiche. Ad esempio, Cass. n. 17667/2024 ha ribadito che la TARI è soggetta a prescrizione quinquennale, distinta dal regime decennale applicabile invece alle imposte erariali come IVA o IRPEF. Ne consegue che, anche dopo un accertamento definitivo, il Comune o l’agente della riscossione hanno cinque anni per attivare o proseguire l’esecuzione; decorso tale periodo senza atti interruttivi (altri avvisi, intimazioni, pignoramenti, ecc.), il debito si estingue per prescrizione. La prescrizione quinquennale può quindi essere un ulteriore motivo di opposizione, ad esempio contro una cartella di pagamento tardiva o un’ingiunzione fiscale notificata oltre 5 anni dopo l’ultimo atto valido (si veda più avanti).
Ricapitolando i termini principali: un avviso di accertamento va notificato entro 5 anni dall’anno d’imposta (decadenza quinquennale); una volta notificato e divenuto definitivo, il credito può essere riscosso entro 5 anni tramite esecuzione forzata (prescrizione quinquennale della riscossione), salvo atti interruttivi che facciano decorrere un nuovo quinquennio. Queste tempistiche – riassunte in tabella sottostante – costituiscono un primo fondamentale check da effettuare quando si riceve un atto: un accertamento notificato fuori tempo o una riscossione avviata su annualità prescritte possono essere contestate con successo senza entrare nel merito della pretesa.
Termine | IMU | TARI | TASI |
---|---|---|---|
Decadenza accertamento (notifica avviso) | 5 anni dopo l’anno d’imposta (es: IMU 2020 -> entro 31/12/2025) | 5 anni dopo l’anno d’imposta (es: TARI 2020 -> entro 31/12/2025) | 5 anni dopo l’anno d’imposta (TASI 2019 -> entro 31/12/2024). TASI abolita dal 2020. |
Prescrizione della riscossione (dopo definitività) | 5 anni (credito IMU periodico) in assenza di titolo giudiziale | 5 anni (credito TARI periodico) – v. Cass. 17667/2024 | 5 anni (credito TASI periodico). N.B.: Per avvisi divenuti definitivi ante 2020, vi era decadenza 3 anni per emissione cartella. |
Notifica degli avvisi e vizi riscontrabili
Un altro aspetto cruciale è come l’accertamento viene notificato al contribuente, poiché da ciò decorrono i 60 giorni per il ricorso e poiché eventuali vizi di notifica possono inficiare la validità dell’atto. La notifica degli avvisi di accertamento può avvenire con le stesse modalità previste per gli atti tributari in generale (art. 60 DPR 600/1973 richiamato dall’art. 1 c.161 L.296/2006):
- Notifica a mezzo posta raccomandata A/R: molto diffusa. Il plico raccomandato contenente l’atto viene inviato all’indirizzo del contribuente. Per il Comune, la notifica si perfeziona alla data di spedizione, mentre per il destinatario alla data in cui riceve e firma l’avviso di ricevimento. Può essere eseguita direttamente dall’ufficio tributi comunale (in quanto abilitato ex lege) o tramite l’Agente della Riscossione se il Comune gli delega il servizio notifiche. In caso di destinatario assente temporaneamente, le Poste rilasciano l’avviso e consentono il ritiro o dispongono la giacenza (compiuta giacenza dopo 10 giorni). In caso di destinatario sconosciuto o trasferito, il plico è restituito e si dovrà tentare al nuovo indirizzo o con altre forme.
- Notifica tramite messo comunale o ufficiale giudiziario: l’incaricato si reca all’indirizzo risultante e consegna copia conforme dell’atto al destinatario o a persone abilitate (familiare convivente, addetto alla casa, portiere, etc., con relative formalità di legge). Se il destinatario è irreperibile, il messo può depositare l’atto presso la Casa Comunale (Comune) e inviare raccomandata di avviso di deposito (cd. CAD). Se invece vi è irreperibilità assoluta (nessuno ha residenza o domicilio noto), si applica la notifica mediante pubblici proclami o come stabilito dall’art. 60 DPR 600/73 (affissione all’albo comunale).
- Notifica via PEC (Posta Elettronica Certificata): per i soggetti dotati di un domicilio digitale (PEC registrata in pubblici elenchi), i Comuni ora spesso prediligono questa modalità. L’atto viene trasmesso in formato elettronico (generalmente PDF con firma digitale) all’indirizzo PEC del contribuente. La notifica si dà per avvenuta quando la PEC risulta consegnata nella casella (ricevuta di avvenuta consegna) e il destinatario può aprirla. Se il destinatario non legge la PEC, comunque la notifica si considera perfezionata trascorsi i termini di giacenza digitale (30 giorni) dalla consegna senza che sia scaricato il messaggio. In sostanza, la PEC ha lo stesso valore della raccomandata tradizionale, con il vantaggio di essere immediata.
È importante controllare chi ha ricevuto l’atto e quando. Se l’avviso è stato consegnato a persona diversa dal destinatario, la notifica è valida solo se il consegnatario rientra nelle categorie autorizzate (familiare convivente, addetto alla casa o all’ufficio, portiere, etc., ai sensi dell’art.139 c.p.c.). La consegna a persona non autorizzata (es. un vicino di casa, o un collega senza delega) rende la notifica inesistente o nulla. Parimenti, una notifica inviata a un indirizzo sbagliato (ad esempio, numero civico errato, o vecchio indirizzo non aggiornato) è nulla se il contribuente non ne è venuto a conoscenza. Tuttavia, va precisato che in materia tributaria la distinzione tra nullità sanabile e inesistenza della notifica è sottile: se il contribuente impugna l’atto e dimostra il vizio di notifica, spesso la giurisprudenza annulla l’atto (o meglio dichiara la nullità della notifica, con necessità di rinnovarla entro termini, che però magari sono decorsi). Se invece il contribuente è comunque venuto a conoscenza dell’atto e ha potuto difendersi, alcuni vizi formali di notifica possono considerarsi sanati (principio di raggiungimento dello scopo ex art.156 c.p.c.). In ogni caso, è sempre opportuno esaminare con attenzione le relate di notifica o le ricevute di ritorno.
Un capitolo a parte riguarda la notifica a mezzo PEC di atti firmati digitalmente. La Corte di Cassazione ha chiarito che se l’ente notifica l’atto via PEC inviando una copia informatica destinata poi ad essere stampata dal contribuente (c.d. copia per immagine di documento informatico), è necessario che tale documento rechi l’attestazione di conformità all’originale digitale, altrimenti non vi è certezza giuridica che il destinatario abbia ricevuto lo stesso contenuto dell’atto originale. In pratica, se il Comune invia un PDF con firma digitale, e il contribuente lo stampa, quella stampa deve riportare una dicitura di conformità all’originale informatico. In mancanza, secondo Cassazione, la notifica è nulla perché non si può verificare la corrispondenza all’atto ufficiale. Su tale tema, vi sono state pronunce contrastanti: alcune decisioni del 2021 avevano ritenuto valida la notifica cartacea di un atto digitale se era presente un QR code o un codice identificativo per risalire all’originale (ritenendo implicita la conformità). Ma sentenze più recenti – ad es. Cass. n. 29945/2022 – hanno sancito la nullità degli avvisi firmati digitalmente ma notificati senza attestazione di conformità nella copia. Il consiglio pratico, dunque, è: se ricevete un avviso via PEC, controllate che sul documento (specie se lo stampate) compaia l’attestazione di conformità all’originale digitale e gli estremi della firma elettronica. L’assenza di tali indicazioni è un potenziale vizio formale che può essere fatto valere nel ricorso (difetto di notifica).
In conclusione, verificate sempre: (a) la data di notifica (per calcolare i 60 giorni); (b) la correttezza della procedura di notifica (persona ricevente, indirizzo, PEC); (c) la presenza di tutti gli elementi obbligatori nell’atto (motivazione, responsabile, riferimenti normativi, ecc.). Qualora si riscontri un’irregolarità, questa potrà essere invocata come motivo di annullamento dell’accertamento. Nei prossimi paragrafi esamineremo come reagire all’accertamento, dapprima attraverso strumenti amministrativi (in via di autotutela o di accordo bonario) e poi con il ricorso giudiziario vero e proprio, illustrando i passaggi fondamentali del contenzioso tributario.
Prima del ricorso: verifiche e rimedi amministrativi (autotutela, adesione, acquiescenza)
Ricevuto un avviso di accertamento, il contribuente ha di fronte a sé 60 giorni per decidere il da farsi. Non è sempre necessario – né a volte consigliabile – andare subito in giudizio: esistono alcuni strumenti pre-contenziosi che possono risolvere o attenuare la controversia prima di presentare un ricorso in Commissione (oggi Corte di Giustizia Tributaria). Questi strumenti, detti deflativi del contenzioso, permettono talvolta di evitare la causa o ridurre le sanzioni, con risparmio di tempo e costi. Dal punto di vista del contribuente (debitore), vale la pena prenderli in considerazione appena ricevuto l’atto, specialmente se l’importo non è elevato o se l’accertamento contiene errori evidenti. Ecco i principali rimedi in via amministrativa:
- Pagare con acquiescenza (definizione agevolata in misura ridotta): Se dalla verifica preliminare l’atto risulta corretto oppure il contribuente preferisce chiudere la pendenza per evitare rischi, egli può decidere di pagare integralmente quanto richiesto entro 60 giorni dalla notifica. In tal caso la legge concede una significativa riduzione delle sanzioni amministrative: le sanzioni sono dovute in misura ridotta ad 1/3 del minimo previsto. Questo istituto è regolato dall’art. 15, comma 1, D.Lgs. 218/1997 (pur essendo noto come “ravvedimento operoso” si applica specificamente agli accertamenti notificati, in pendenza di giudizio). Ad esempio, a fronte di una sanzione base del 30%, pagando entro i 60 giorni il contribuente versa solo il 10%. L’acquiescenza (cioè il pagamento senza ricorso) impedisce l’impugnazione: è un atto di adesione tacita all’accertamento. In pratica si paga l’imposta, gli interessi e la sanzione ridotta, rinunciando a contestare. Questo strumento è utile se si riconosce la fondatezza del debito o se, valutati rischi e costi di un ricorso, si opta per chiudere subito la questione con lo sconto sulle sanzioni. Attenzione: per ottenere la riduzione è necessario pagare tutto entro il termine (anche tramite rateazione, se ammessa, ma l’importo va definito entro 60 giorni). Un pagamento tardivo fa perdere l’agevolazione.
- Istanza di autotutela (richiesta di annullamento/rettifica in via amministrativa): L’autotutela è la possibilità per l’ente impositore di correggere o annullare d’ufficio un atto erroneo o illegittimo, su richiesta motivata del contribuente. Se si riscontrano errori palesi nell’avviso, conviene presentare al più presto un’istanza di autotutela al Comune (di solito all’Ufficio Tributi), chiedendo il riesame e l’annullamento/rettifica dell’atto senza dover ricorrere al giudice. Esempi tipici in cui l’autotutela è efficace: errore sulla persona (avviso intestato al soggetto sbagliato), errori di calcolo negli importi, errata applicazione di aliquote o esenzioni (ad es. l’IMU calcolata come “seconda casa” quando invece l’immobile era prima casa esente), doppia imposizione (si richiede un pagamento per un periodo già versato o già accertato in passato), oppure pagamento effettuato entro i termini ma non risultante negli archivi comunali. In questi casi è bene allegare all’istanza i documenti che provano l’errore (ricevute di pagamento F24, visure catastali, copia della dichiarazione presentata, delibere comunali di esenzione, ecc.). L’autotutela è una facoltà dell’amministrazione, non un obbligo: il Comune può accogliere la richiesta e annullare l’atto, ma non è obbligato a farlo. Molte amministrazioni, se l’errore è evidente, accolgono l’istanza emettendo un provvedimento di annullamento in autotutela o rettificando l’importo dovuto. Tuttavia, è fondamentale sapere che la presentazione dell’autotutela non sospende il termine di 60 giorni per il ricorso. Quindi, se il Comune non risponde in tempi rapidi (spesso non c’è risposta formale entro 60 giorni), il contribuente, per sicurezza, dovrebbe comunque predisporre il ricorso giurisdizionale entro la scadenza, altrimenti perderebbe definitivamente la possibilità di difendersi. In alcuni casi l’ufficio, ricevuta l’istanza, invita informalmente a non presentare ricorso in attesa dell’esito: attenzione, tale invito non ha valore legale vincolante e non proroga il termine di legge. Dunque, se si è prossimi alla scadenza dei 60 giorni ed ancora non si ha l’annullamento scritto, è opportuno depositare comunque il ricorso (si potrà sempre rinunciarvi successivamente se l’ente annulla l’atto).
- Accertamento con adesione (definizione concordata): L’adesione all’accertamento è un procedimento di tipo conciliativo: contribuente e ufficio si siedono a tavolino (in senso figurato) per rideterminare consensualmente il tributo dovuto, con benefici sulle sanzioni. Previsto dal D.Lgs. 218/1997 per i tributi erariali, l’istituto è stato reso facoltativo anche per gli enti locali: il Comune può introdurlo nel proprio regolamento tributario (art. 50 L. 449/1997). Molti Comuni lo hanno adottato, applicando in sostanza le stesse regole dell’adesione statale anche a IMU, TARI, ecc.. In pratica, chi riceve un avviso può presentare entro 60 giorni un’istanza di accertamento con adesione (spesso esistono moduli predisposti sul sito comunale). La presentazione dell’istanza sospende automaticamente il termine per ricorrere per 90 giorni (art. 6 co. 3 D.Lgs. 218/97). In altri termini, i 60 giorni di ricorso vengono “congelati” e ricominceranno a decorrere dopo 90 giorni, qualora non si raggiunga un accordo (si può arrivare così a 150 giorni totali). Durante questo periodo, l’ufficio tributi inviterà il contribuente a un contraddittorio: si discuterà dell’accertamento, valutando le prove e le argomentazioni, per vedere se è possibile una riduzione o un’assestamento della pretesa. Spesso si raggiunge un compromesso su un importo inferiore, riconoscendo magari alcune ragioni del contribuente o correggendo dati sbagliati. Se si trova l’accordo, viene redatto un atto di adesione con la nuova somma dovuta: firmandolo, il contribuente rinuncia al ricorso e si impegna a pagare quanto concordato. I vantaggi dell’adesione per il contribuente sono notevoli: la sanzione viene ridotta a 1/3 del minimo (che di fatto, come visto, equivale al 10% se la sanzione base era il 30%); inoltre l’importo definito può essere pagato a rate (fino a 8 rate trimestrali, o 16 rate se l’importo supera 50.000 €). L’adesione chiude la controversia senza giudizio, eliminando il rischio di processo e relative spese. Svantaggi: se non si trova l’accordo, i 90 giorni trascorrono e il contribuente dovrà comunque presentare ricorso – avendo però “guadagnato” tempo. Occorre dunque usare l’adesione quando ci sono margini ragionevoli di trattativa. Per esempio, se la contestazione riguarda valori (es. valore catastale, area edificabile) o quantità (mq tassati, quote di possesso, percentuali di detrazione) su cui è possibile mediare, l’adesione è utile. Se invece la questione è di puro diritto (es. il Comune nega un’esenzione prima casa ma la legge o una sentenza la darebbe ragione al contribuente), probabilmente l’ufficio non transigerà e preferirà far decidere il giudice: in tali casi l’adesione rischia solo di far perdere tempo. Da sapere: dal 2023-2024 l’adesione è stata coordinata con il nuovo “contraddittorio preventivo” introdotto nella riforma del processo tributario (D.Lgs. 130/2022 e D.Lgs. 13/2024). In sostanza, oggi se per un certo tipo di accertamento è previsto per legge un contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio (cioè l’ente deve invitare il contribuente a fornire osservazioni prima di emettere l’atto), allora dopo la notifica dell’atto definitivo l’adesione ha termini più brevi (15 giorni) perché il contribuente ha già avuto modo di interloquire prima. Se invece l’atto non richiedeva un contraddittorio preventivo, resta il termine di 60 giorni per chiedere l’adesione. In ogni caso, verificate se il vostro Comune prevede l’adesione (di solito è indicato nello stesso avviso, nelle istruzioni sul retro). Se sì, valutate di usarla quando l’accertamento è almeno in parte fondato e volete ridurre le sanzioni ed evitare causa. L’adesione, ricordiamo, sospende i termini e non preclude di fare ricorso se non si raggiunge l’accordo.
- Reclamo e mediazione tributaria (per atti fino al 2023): Fino al 2023 era in vigore un ulteriore istituto deflattivo, il reclamo/mediazione obbligatoria per le liti di valore sino a 50.000 €. In pratica, il contribuente che voleva ricorrere contro un atto di valore contenuto doveva prima presentare il ricorso come “reclamo” allo stesso ente impositore e attendere 90 giorni: se entro tale termine il Comune (o la sua Commissione di mediazione interna) non accoglieva o non trovava un accordo, il ricorso diventava efficace e proseguiva in Commissione. Questo procedimento, disciplinato dall’art. 17-bis D.Lgs. 546/92, mirava a ridurre il contenzioso minore ma ha avuto efficacia limitata (circa il 30% di esiti positivi secondo statistiche ufficiali). La riforma 2022/2023 del processo tributario ha abolito il reclamo per i ricorsi notificati dal 1° gennaio 2024 in poi (art. 17-bis abrogato dal D.Lgs. 156/2022 e D.Lgs. 130/2022). Dunque oggi (nel 2025) non è più necessario presentare preventivamente un reclamo al Comune per poter ricorrere: si può andare direttamente in giudizio senza passaggi intermedi. Resta comunque sempre possibile, anche dopo aver depositato il ricorso, cercare un accordo transattivo con l’ente attraverso la conciliazione giudiziale (art. 48 D.Lgs. 546/92). La conciliazione può avvenire davanti al giudice, fino all’udienza di trattazione in primo grado (e, in appello, solo nella prima udienza), e consente un’ulteriore riduzione delle sanzioni al 50% in caso di esito positivo. In sostanza, oggi il reclamo non è più un passaggio obbligato, ma nulla vieta che il contribuente, prima di notificare il ricorso, possa informalmente inviare all’ente una proposta di mediazione o di definizione bonaria: se il Comune accetta, si può conciliare la lite già in fase iniziale (magari con rinuncia parziale del tributo o sanzioni ridotte) e poi chiudere il contenzioso in sede giudiziale con un accordo.
Riassumendo i rimedi alternativi al ricorso: se l’accertamento presenta errori chiari, l’autotutela è il primo tentativo da fare; se la pretesa è fondata ma si vuole ridurre la sanzione, meglio valutare l’adesione o il pagamento in acquiescenza; se invece si ritiene l’atto totalmente infondato, conviene prepararsi al ricorso, magari preceduto (facoltativamente) da un’istanza di riesame bonario all’ente per tastare il terreno. In ogni caso è fondamentale tenere d’occhio il termine di 60 giorni per il ricorso, che – a meno di sospensioni dovute ad adesione o ricadute nel periodo feriale di agosto – resta perentorio. Nel prossimo capitolo illustreremo come impostare e presentare correttamente un ricorso all’autorità competente.
Tabella – Rimedî pre-contenziosi in sintesi:
Rimedio | Come si attiva | Effetti su termini | Benefici per il contribuente | Note |
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Acquiescenza (pagamento) | Pagamento integrale di imposta + interessi + sanzioni ridotte entro 60 gg dalla notifica. | Termine ricorso: atto definito (rinuncia implicita al ricorso). | Sanzioni ridotte a 1/3 del minimo (es. 10% invece di 30%). Niente lite, chiusura immediata. | Conveniente se il tributo è dovuto e non vi sono motivi solidi di ricorso. Necessaria liquidità per saldare entro 60 gg (possibile rateazione solo se l’ente la consente, ma spesso il beneficio pieno richiede pagamento immediato). |
Autotutela (annullamento in autotutela) | Istanza motivata all’Ufficio tributi, allegando prove di errore/illegittimità (quanto prima, preferibilmente entro i 60 gg). | Termine ricorso: non sospeso (rimane 60 gg). | Se l’ente riconosce l’errore, può annullare o correggere l’atto senza costi né attese di giudizio. | L’ente decide discrezionalmente. Da provare errori evidenti. Se a ridosso dei 60 gg non c’è risposta, presentare comunque ricorso per evitare decadenza. |
Accertamento con adesione | Istanza di adesione entro 60 gg dalla notifica (modulo comunale). Incontro/i con l’ufficio per negoziare. | Termine ricorso: sospeso per 90 gg dal giorno di presentazione istanza. (Quindi ricorso possibile entro 150 gg totali se niente accordo). | Riduzione sanzioni a 1/3 del minimo (come acquiescenza). Pagamento rateale fino a 8 rate trimestrali (16 rate se > 50k). Niente spese legali, esito concordato e certo. | Serve disponibilità del Comune a trattare. Utile per questioni quantitative (importi, valori) o casi dubbi; meno utile su questioni principiali dove l’ente non vuole cedere. Se fallisce, usare i 60 gg residui per proporre ricorso. |
Reclamo/Mediazione | (Non più obbligatorio dal 2024). Fino al 2023, ricorso da inviarsi come reclamo all’ente per liti ≤ €50.000; dal 2024 non si applica. | (Non applicabile ai ricorsi dal 2024). | Oggi non richiesto. Rimane la possibilità di conciliazione giudiziale a processo avviato. | La conciliazione può ridurre sanzioni al 50% se l’accordo si chiude in primo grado. È facoltativa e richiede intesa tra le parti, possibile fino all’udienza. |
Ricorso | Predisposizione atto di ricorso motivato e notifica all’ente entro 60 gg dalla notifica avviso. Successivo deposito in CGT entro 30 gg dalla notifica. | Termine fisso 60 giorni (proroghe solo per adesione, sospensione feriale di agosto, o eventi eccezionali). | Sospende la definitività dell’atto (oltre eventualmente 1/3 già dovuto). Possibilità di far valere tutti i vizi davanti a giudice terzo. Se si vince, annullamento del tributo e spese rifuse. | Necessario rispettare formalità e termini del D.Lgs. 546/92. Oltre 60 gg l’atto diventa definitivo e non più impugnabile. Si consiglia assistenza tecnica (obbligatoria > €3.000 valore). Si può chiedere al giudice la sospensione dell’atto per bloccare la riscossione durante la causa. |
Il ricorso contro l’accertamento: procedura davanti alla Corte di Giustizia Tributaria
Se si decide di impugnare l’avviso di accertamento, occorre seguire le regole del processo tributario previste dal D.Lgs. 546/1992 (come modificato dalle riforme 2022/2023). Di seguito descriviamo i passaggi fondamentali per presentare correttamente un ricorso tributario avverso un accertamento IMU, TARI o TASI.
1. Giudice competente e termini per ricorrere. La competenza sui ricorsi relativi a tributi locali spetta alle Corti di Giustizia Tributaria di primo grado (CGT I grado), denominate fino al 2022 Commissioni Tributarie Provinciali. La competenza territoriale è individuata in base al luogo in cui ha sede l’ente impositore. Dunque, per un accertamento emesso dal Comune di Milano, il ricorso andrà proposto avanti la CGT di Milano; se l’avviso è del Comune di un piccolo centro, competente sarà la CGT della Provincia relativa. Il ricorso deve essere notificato al Comune entro 60 giorni dalla data in cui l’avviso è stato validamente notificato al contribuente. Attenzione: i 60 giorni decorrono dal ricevimento dell’atto (se consegnato a mano o via PEC) o dalla data di compiuta giacenza se l’atto è rimasto in giacenza postale/PEC. Nel calcolo del termine si esclude il giorno di notifica e si include l’ultimo giorno utile; se questo cade di sabato o festivo, è prorogato al primo giorno lavorativo successivo (art. 16 co. 5 D.Lgs. 546/92). Sospensione feriale: dal 1° al 31 agosto di ogni anno i termini processuali tributari sono sospesi (L. 742/1969 e succ. mod.); ciò significa, ad esempio, che per un avviso notificato il 30 giugno, i 60 gg scadrebbero il 29 agosto, ma poiché l’intero mese di agosto non conta, la scadenza effettiva slitta al 29 settembre. Altre cause di sospensione del termine di ricorso: la presentazione dell’istanza di adesione (sospende 90 gg come visto sopra) o il decesso/perdita di capacità del contribuente, che proroga il termine di 6 mesi per gli eredi o rappresentanti (art. 22 co.1 D.Lgs. 546/92).
2. Assistenza tecnica e procura alle liti. Per le controversie di valore superiore a €3.000 (importo del tributo al netto di interessi e sanzioni) è necessario farsi assistere da un difensore abilitato (professionista iscritto all’albo dei difensori tributari: tipicamente avvocato, dottore commercialista, consulente del lavoro, ecc.). Sotto tale soglia, il contribuente può stare in giudizio da solo (cosiddetto ricorso “in proprio”); tuttavia, data la complessità della materia, è spesso opportuno avvalersi comunque di un esperto per evitare errori formali o sostanziali. Dal 2023, la riforma del processo tributario (L. 130/2022) ha stabilito che i ricorsi in Cassazione in materia tributaria possono essere patrocinati solo da avvocati (mentre prima anche altri professionisti abilitati potevano farlo); in primo e secondo grado rimangono invece abilitati anche commercialisti e altri iscritti previsti dalla legge. Se ci si avvale di un difensore, occorre rilasciargli una procura alle liti, su foglio separato o in calce al ricorso, firmata dal contribuente, per rappresentarlo dinanzi al giudice.
3. Contenuto del ricorso. Il ricorso è un atto scritto che deve contenere, a pena di inammissibilità, una serie di elementi indicati dall’art. 18 D.Lgs. 546/92. In sintesi, deve includere:
- Le generalità del ricorrente: dati anagrafici (o denominazione sociale), codice fiscale/Partita IVA, indirizzo di residenza o sede, ed eventuale domicilio eletto (se diverso) o l’indirizzo PEC a cui desidera ricevere le comunicazioni di segreteria.
- L’ente convenuto (resistente): nel caso di tributi locali, è il Comune che ha emesso l’atto. Conviene indicare sia l’ente impositore (es. “Comune di X”) sia eventualmente l’ufficio da cui proviene l’atto (es. “Ufficio Tributi del Comune di X”), e se noto anche l’Agente della riscossione incaricato, se già menzionato nell’atto (ma formalmente la controparte resta il Comune).
- L’atto impugnato: va identificato con i suoi estremi – numero o protocollo, data dell’avviso, anno d’imposta e importo contestati – e va allegata copia integrale dell’atto. È utile scrivere una frase tipo: “Si impugna l’avviso di accertamento IMU n… emesso dal Comune di … notificato in data … (doc. 1)”.
- I motivi del ricorso: questa è la parte centrale, dove si articolano le censure contro l’atto. È buona pratica dividere per punti distinti ciascun motivo di illegittimità o infondatezza. Esempio: (1) Violazione dei termini di decadenza – l’avviso per l’anno 2016 è stato notificato il 02/01/2023, oltre il termine del 31/12/2022; (2) Erronea determinazione dell’imposta – applicata aliquota seconda casa invece di esenzione prima casa; (3) Vizio di motivazione – l’atto non spiega le ragioni del recupero; (4) Violazione art. 7 L.212/2000 – manca l’indicazione del responsabile del procedimento, ecc.. Per ciascun motivo andranno citate le norme pertinenti (es. art. 1 c.161 L.296/06 per la decadenza, art. 7 L.212/2000 per il responsabile, art. 13 D.Lgs. 471/97 per la sanzione) e, se possibile, la giurisprudenza di supporto (sentenze di Cassazione, Commissioni, Corte Costituzionale). I motivi possono riguardare vizi formali (procedurali, come notifica, difetto di motivazione, incompetenza del funzionario che ha firmato) e/o vizi di merito (sostanziali, es. il tributo non era dovuto perché c’era un’esenzione, o gli importi sono calcolati su basi errate, ecc.). È essenziale essere chiari e precisi: il giudice tributario decide nei limiti dei motivi dedotti, quindi tutto ciò che non viene contestato nel ricorso iniziale difficilmente potrà essere introdotto dopo.
- Le conclusioni: ovvero la richiesta che si rivolge al giudice. Tipicamente si chiede di annullare integralmente l’atto impugnato; in subordine, di annullarlo parzialmente (se, ad esempio, una parte dell’imposta è riconosciuta come dovuta e si contesta solo l’eccedenza); e di condannare l’ente al pagamento delle spese di giudizio. Si può anche inserire la riserva di chiedere la conciliazione o la compensazione delle spese in caso di definizione bonaria. Qualora si abbia urgenza di sospendere l’atto (per evitare pagamenti o esecuzioni), è possibile richiedere la sospensiva nelle conclusioni del ricorso stesso, ma normalmente è preferibile presentare una istanza separata di sospensione contestualmente al ricorso, per maggiore evidenza.
- Data e firma: il ricorso va datato e sottoscritto. Se il contribuente è assistito da difensore, firma il difensore (con firma digitale se il deposito è telematico) e va allegata la procura alle liti firmata dal contribuente. Se il ricorso è proposto in proprio dal contribuente (ammissibile nei limiti visti), firma solo il contribuente.
4. Notifica del ricorso all’ente impositore. Prima di depositare il ricorso in tribunale, esso va notificato al Comune che ha emesso l’accertamento (art. 20 D.Lgs. 546/92). La notifica può avvenire in diversi modi equivalenti:
- PEC: modalità oggi prevalente. Il difensore invia il ricorso (in PDF firmato digitalmente) dalla propria casella PEC all’indirizzo PEC ufficiale del Comune (spesso indicato sull’avviso stesso, oppure reperibile sull’Indice PA). L’oggetto della PEC deve contenere la dicitura di legge (“Notificazione ai sensi del DM 163/2013”). Si allega il ricorso p7m e la procura scansionata. La notifica via PEC si perfeziona con la ricevuta di consegna. Entro il giorno successivo, il difensore invia anche il ricorso (con le ricevute PEC) alla CGT tramite PEC per costituirsi (v. punto 5).
- Posta raccomandata (notifica in proprio dell’avvocato): il difensore, se autorizzato, può spedire copia del ricorso a mezzo raccomandata A/R al Comune, con relata di notifica allegata. La notifica si perfeziona alla data di spedizione per il notificante e alla ricezione per il Comune (fa fede l’avviso firmato dall’ufficio ricevente).
- Ufficiale giudiziario: metodo tradizionale meno usato ormai. L’UNEP presso il tribunale provvede a notificare materialmente l’atto al Comune secondo il Codice di rito.
La notifica del ricorso deve avvenire (o quantomeno essere presa in carico, se fatta via posta) entro il 60° giorno dalla notifica dell’accertamento. Attenzione: notificare il ricorso entro 60 gg è necessario ma non sufficiente; poi bisogna anche depositare il ricorso (costituirsi in giudizio) presso la segreteria della Corte Tributaria entro 30 giorni da quando lo si è notificato. In pratica, dopo aver spedito o inviato via PEC il ricorso al Comune, si hanno al massimo 30 giorni per presentarlo anche al giudice, allegando la prova dell’avvenuta notifica (ricevute PEC o ricevute postali). Se il deposito avviene oltre 30 giorni, il ricorso verrà dichiarato inammissibile (come perentoriamente previsto dall’art. 22 D.Lgs. 546/92). Nota: per i ricorsi presentati nel primo semestre 2024 c’è stato un breve dibattito se valesse ancora il vecchio termine di costituzione di 90 giorni (previsto durante il regime del reclamo obbligatorio). La prudenza suggerisce comunque di rispettare i 30 giorni canonici, come infatti chiarito poi dal legislatore e dalla prassi ministeriale.
5. Costituzione in giudizio (deposito del ricorso). Oggi il processo tributario è telematico: il difensore deve caricare il ricorso notificato, con relativi allegati (copia dell’atto impugnato, ricevute di notifica, procura alle liti, documenti di prova), sul portale SIGIT – Giustizia Tributaria. La costituzione avviene ottenendo le ricevute di accettazione dal sistema telematico. In alternativa, un contribuente non assistito da difensore può ancora depositare in cartaceo presso la segreteria della CGT, ma per i professionisti dal 2019 il deposito telematico è obbligatorio. Al momento del deposito va pagato il contributo unificato tributario (una sorta di tassa di iscrizione a ruolo), il cui importo dipende dal valore della lite: ad esempio €30 per liti fino a €2.582, €60 fino a €5.000, €120 fino a €25.000, €250 fino a €75.000, e così via (D.P.R. 115/2002, art. 13, modificato). Il pagamento può avvenire con modello F23 o online con pagoPA, e la ricevuta va allegata. Se il contributo unificato non è versato o è insufficiente, la segreteria può assegnare un termine per integrarlo; la mancata regolarizzazione comporta problemi procedurali (in passato l’inammissibilità, ora più sfumata come irregolarità sanabile).
6. Svolgimento del giudizio di primo grado. Una volta costituito il ricorso, la palla passa al Comune, che deve costituirsi a sua volta depositando presso la CGT le proprie controdeduzioni (la memoria difensiva dell’ente impositore, detta “memoria di costituzione”). L’ente ha 60 giorni dal ricevimento del ricorso per costituirsi. In caso di mancata costituzione, il giudizio prosegue lo stesso (contumacia del resistente) ma il Comune non potrà poi produrre documenti e repliche se non entro certi limiti. Il processo tributario è prevalentemente scritto: entrambe le parti possono depositare memorie aggiuntive (nei termini di 30 giorni prima dell’udienza per memorie integrative, 15 giorni prima per memorie di replica). Se richiesto o necessario, si terrà un’udienza pubblica di discussione davanti al Collegio giudicante (o in camera di consiglio per determinate materie). Il contribuente può comparire personalmente oppure, più spesso, si discute sulla base degli atti scritti. La CGT emette quindi la sentenza, che verrà depositata e notificata alle parti (o da esse ritirata via PEC). I possibili esiti: accoglimento totale del ricorso (annullamento dell’atto), accoglimento parziale (annullamento in parte qua, ad esempio riduzione del tributo), rigetto del ricorso (conferma dell’avviso) o pronuncia di cessazione materia del contendere se nelle more le parti hanno conciliato o l’atto è stato ritirato. La sentenza dispone anche sulle spese di giudizio: di regola chi perde paga le spese dell’altra parte, salvo compensazione in caso di soccombenza reciproca o altre ragioni.
7. Sospensione giudiziale dell’atto (tutela cautelare). Vale la pena spendere qualche parola sulla possibilità di chiedere al giudice tributario la sospensione dell’efficacia esecutiva dell’accertamento impugnato. Come visto, l’accertamento esecutivo consente al Comune di iniziare la riscossione dopo 60 giorni. Se il contribuente ha presentato ricorso ma non paga il famoso “1/3” provvisorio, potrebbe rischiare azioni esecutive su tale importo. Pertanto, l’ordinamento consente di chiedere al Collegio tributario una sospensione cautelare dell’atto, in attesa della sentenza di merito, quando ricorrano gravi e fondati motivi (art. 47 D.Lgs. 546/92). In pratica bisogna dimostrare fumus boni iuris (motivi di ricorso non pretestuosi, con probabilità di successo almeno parziale) e periculum in mora (danno grave e irreparabile che subirebbe il contribuente dall’esecuzione, ad es. se costretto a pagare somme ingenti o minacciato da pignoramenti che mettono a rischio la sua attività, ecc.). La richiesta di sospensiva può essere inserita nelle conclusioni del ricorso o, meglio, presentata con istanza separata depositata subito dopo il ricorso. La CGT fisserà una camera di consiglio urgente per valutare l’istanza e potrà emettere un’ordinanza che sospende (fino alla decisione finale) l’esecutività dell’accertamento. Se concessa, la sospensione tutela il contribuente dal dover pagare nel frattempo e blocca le azioni di riscossione dell’ente, in attesa della sentenza.
8. Gradi successivi: appello e cassazione. La sentenza di primo grado può essere appellata da chi risulta soccombente (in tutto o in parte) presso la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (già Commissione Tributaria Regionale). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado ad opera della controparte, oppure entro 6 mesi dal deposito della sentenza se nessuno la notifica (termine lungo di impugnazione). La procedura in appello è simile a quella di primo grado, con la differenza che in appello non si possono introdurre nuove domande ma solo contestare la decisione di primo grado. È prevista la possibilità di conciliazione anche in appello (solo nella prima udienza). La sentenza di secondo grado è a sua volta impugnabile con ricorso per Cassazione (se sono stati violati legge o principi giuridici); la Cassazione però non rivede i fatti, ma giudica solo questioni di diritto e può cassare o confermare la sentenza d’appello. In Cassazione, dal 2023, il difensore deve necessariamente essere un avvocato iscritto nell’apposito albo (avvocato cassazionista) – non sono più ammessi altri professionisti in questo ultimo grado. I termini per il ricorso per Cassazione sono di 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello o 6 mesi dal deposito. È opportuno sottolineare che la riforma del 2022 ha introdotto, per taluni casi, il giudice monocratico in primo grado (liti fino a €3.000) e il giudice onorario aggregato ai collegi, nonché nuove regole probatorie (es. possibilità di prova testimoniale scritta). Trattandosi di aspetti molto tecnici, si rimanda alla normativa per i dettagli; ai fini pratici, per le controversie ordinarie su tributi locali, la trattazione ricalca quanto descritto.
Avendo delineato il come difendersi, passiamo ora ad esaminare il cosa contestare: i possibili motivi di ricorso contro gli accertamenti IMU, TARI e TASI. Affronteremo separatamente le peculiarità di ciascun tributo, fermo restando che molti vizi (es. vizi di notifica, decadenza, difetto di motivazione) sono comuni a tutti.
Difendersi da un Accertamento IMU
Un avviso di accertamento IMU viene solitamente emesso quando il Comune ritiene che il contribuente non abbia pagato l’IMU dovuta su uno o più immobili, oppure che abbia versato meno del dovuto (magari applicando aliquote o esenzioni non spettanti). Le contestazioni IMU più frequenti riguardano: omesso pagamento di una o più rate annuali; versamento insufficiente per aliquota errata; errata fruizione di esenzioni (es. dichiarazione di abitazione principale non spettante); mancata presentazione della dichiarazione IMU in casi obbligatori (es. immobili merce, concessioni, ecc.); oppure recupero di IMU su aree edificabili sottovalutate (valore venale ritenuto maggiore di quanto dichiarato). Vediamo quali sono i principali motivi di ricorso e le strategie difensive specifiche per l’IMU.
1. Esenzione o non imponibilità dell’immobile: Uno dei primi aspetti da verificare è se l’immobile oggetto di accertamento doveva effettivamente pagare l’IMU. La normativa IMU prevede infatti varie ipotesi di esenzione totale o parziale. Il caso tipico è l’abitazione principale (la casa dove il contribuente risiede anagraficamente e dimora abitualmente) non di lusso: essa è esente da IMU, tranne che per le categorie catastali A/1, A/8 e A/9 (immobili signorili, ville e castelli). Spesso gli accertamenti nascono da disallineamenti su questo punto, ad es.: il Comune considera “seconda casa” un immobile che il contribuente invece ritiene prima casa. Occorre sapere che la definizione di abitazione principale ai fini IMU fino al 2022 richiedeva la residenza e la dimora del nucleo familiare; ciò ha generato problematiche per i coniugi con residenze in case diverse in Comuni differenti (il fisco tendeva a negar loro la doppia esenzione, concedendola per una sola casa). Importantissimo aggiornamento: la Corte Costituzionale, con sentenza n. 209/2022, ha dichiarato illegittima la norma nella parte in cui non consente, a determinate condizioni, l’esenzione per entrambe le abitazioni principali dei coniugi che vivono in comuni diversi. Dopo questa pronuncia, si riconosce il diritto all’esenzione IMU per ciascun coniuge sull’immobile dove ognuno risiede e dimora abitualmente, anche se il nucleo familiare risulta “sdoppiato” (purché non sia un artificio per eludere l’imposta). Quindi: se l’accertamento IMU riguarda la “seconda casa” del coniuge, valutare se applicabile la sentenza della Consulta n. 209/2022, che di fatto estende il concetto di abitazione principale anche ai coniugi con residenze separate per comprovate ragioni (lavoro, ecc.). In generale, altri casi di esenzione IMU da far valere in ricorso: l’immobile posseduto da anziano ricoverato permanentemente in casa di riposo (molti Comuni equiparano ad abitazione principale una casa non affittata di proprietà di anziani ricoverati); gli immobili merce (costruiti dall’impresa e destinati alla vendita – questi dal 2022 sono esenti IMU per legge, mentre prima pagavano aliquota ridotta); gli edifici dichiarati inagibili o inabitabili (hanno una riduzione del 50% della base imponibile IMU, su perizia tecnica); i fabbricati rurali strumentali (esenti); i terreni agricoli in comuni montani o posseduti da coltivatori diretti (esenti). Se il contribuente rientrava in una di queste casistiche ma il Comune non l’ha considerato, l’atto è contestabile: si dovranno documentare i requisiti (es. certificato di ricovero, visura catastale con categoria D/10 rurale, perizia di inagibilità depositata, iscrizione come coltivatore diretto, ecc.) e citare le norme di esenzione.
2. Erronea soggettività passiva (il destinatario non doveva pagare): L’IMU è dovuta da chi possiede l’immobile al 1° gennaio dell’anno di imposta (o per il periodo di possesso nel corso dell’anno, frazionando per mesi). Un motivo di opposizione è se il contribuente non era il proprietario/possessore nel periodo contestato. Ad esempio, un accertamento intestato a Tizio per l’anno 2021 sarà errato se l’immobile era stato venduto nel 2020 a Caio: in tal caso Tizio deve provare la vendita (rogito, voltura catastale) e il Comune avrebbe semmai dovuto accertare Caio per 2021. Oppure, potrebbe capitare che l’avviso sia inviato all’usufruttuario quando invece l’IMU dovuta spettava al nudo proprietario (o viceversa): ricordiamo infatti che l’IMU la paga l’usufruttuario (avendo diritto reale), non il nudo proprietario. Così come la paga il coniuge assegnatario della casa coniugale (equiparato a titolare di diritto di abitazione). Se l’ente ha individuato il soggetto passivo sbagliato, l’atto è totalmente nullo per errore di persona. Ancora, se l’immobile ricadeva in un trust o fondo patrimoniale o comunione e il Comune ha accertato la persona fisica non tenuta, va eccepita la carenza di legittimazione passiva. Attenzione: per comproprietari, ciascuno è obbligato pro quota e il Comune può notificare l’intero dovuto a uno solo di essi in quanto obbligati in solido; però le modalità di riparto interno poi rilevano (es. un comproprietario pagante può rivalersi sugli altri). In genere comunque l’accertamento viene intestato a tutti gli intestatari noti. Se ciò non è avvenuto e un coerede/comproprietario ignaro riceve cartella senza essere stato avvisato prima, potrebbe eccepire di non aver ricevuto l’atto presupposto (ma se un avviso fu notificato a un contitolare, vale anche per gli altri solidali essendo obbligazione solidale? La giurisprudenza recente tende a dire che in materia tributaria ciascun coobbligato va destinatario di proprio atto, non valendo la notifica per altri – principio di personalità dell’obbligazione tributaria). Questo è argomento avanzato che può essere esplorato con difensore.
3. Errori nel calcolo della base imponibile o aliquota: L’IMU si calcola (salvo aree edificabili) su rendite catastali. Può accadere che la rendita utilizzata dal Comune sia sbagliata: ad esempio l’immobile ha ottenuto una riduzione di rendita (classamento più basso) ma l’ente ha usato la vecchia rendita maggiore. In tal caso, allegando la visura catastale aggiornata, si dimostra l’errore e si chiede l’annullamento parziale (ricalcolo). Oppure l’immobile potrebbe essere stato accatastato diversamente (es. come collabente F/2, unità inagibile esente) e il Comune non ne era a conoscenza. Ancora, per le aree fabbricabili l’IMU si basa sul valore venale al 1° gennaio di ciascun anno: qui spesso si creano contenziosi, poiché il Comune fissa valori di mercato minimi con delibere o con stime (a volte troppo elevate). Se l’accertamento IMU riguarda un’area edificabile “sottostimata” dal contribuente, la difesa consisterà nel dimostrare che il valore utilizzato dall’ente è eccessivo rispetto al reale mercato (magari tramite perizia di un tecnico che valuta l’area, o portando comparazioni di vendite similari). La Cassazione ha affermato che i valori indicati dal Comune non sono vincolanti ma presunzioni semplici, contestabili con elementi di prova. Dunque si può ottenere la riduzione dell’imponibile con il giudice che accoglie in parte il ricorso. Un altro errore può riguardare l’aliquota: se ad esempio il Comune ha applicato l’aliquota “seconda casa” (es. 10 per mille) mentre l’immobile rientrava in categorie agevolate (ad es. comodato a figlio, con aliquota ridotta 8.6 per mille e riduzione base imponibile 50% se si avevano i requisiti di legge). In tal caso, esibendo la documentazione del comodato registrato, si ottiene la riliquidazione al tasso corretto. Oppure il Comune potrebbe aver preteso IMU su immobili di categoria D (capannoni, fabbricati industriali) usando un’aliquota erronea: ricordiamo che l’IMU sui “immobili D” ha una quota riservata allo Stato (aliquota base 7.6 per mille) e una eventuale maggiorazione comunale; se l’ente calcola male la propria parte, l’avviso risulterà eccessivo. Altra svista: se l’immobile era storico (vincolo Belle Arti) ha base imponibile ridotta del 50%, se il Comune non l’ha considerato, si impugna allegando certificato d’interesse storico.
4. Violazione di norme procedurali (motivi “formali”): Spesso gli accertamenti IMU vengono annullati per vizi di forma. I più comuni: mancata indicazione del responsabile del procedimento (obbligatorio ex art. 7 L.212/2000) – alcuni giudici considerano la sua assenza causa di nullità dell’atto, altri una mera irregolarità; difetto di motivazione – se l’atto non spiega da dove scaturisce la pretesa (ad es. non indica per quali immobili e annualità viene richiesto il tributo), allora è nullo perché impedisce la difesa (Corte Cass. n. 2599/2021, etc.); errata sottoscrizione – l’avviso deve essere sottoscritto dal dirigente/responsabile dell’ufficio tributi o da altro funzionario delegato dal Sindaco (art. 1 c. 87 L. 549/1995): se mancava la firma oppure se ha firmato un soggetto privo di delega valida, l’atto è nullo per incompetenza. Su quest’ultimo punto, è importante verificare le delibere di delega: diverse sentenze di merito hanno annullato accertamenti IMU firmati da funzionari non aventi titolo o con deleghe generiche. Vizi di notifica: come già trattato, se la notifica non è valida l’atto non è mai giuridicamente arrivato a conoscenza del contribuente – ma in giudizio va eccepito subito. Un caso peculiare: la notifica via PEC senza attestazione di conformità (si è detto prima) è stata ritenuta nulla dalla Cassazione. Dunque, ad esempio, un contribuente ha ottenuto l’annullamento di un avviso IMU firmato digitalmente dal dirigente perché la copia ricevuta via PEC non riportava la dicitura di conformità all’originale: vizio formale ma sufficiente per invalidare l’atto. Anche l’omessa indicazione dell’autorità cui ricorrere e dei termini di impugnazione è in teoria causa di nullità (Statuto contrib. art. 7): di solito l’avviso lo riporta, ma se mancasse del tutto, sarebbe un vulnus del diritto di difesa.
5. Altri profili di illegittimità sostanziale: Vi possono essere motivi più complessi, ad es. questioni di doppia imposizione o illegittimità derivata da norme. Ad esempio: l’IMU si considera incostituzionale su determinate fattispecie? (Finora, a parte il caso coniugi citato, non vi sono altre dichiarazioni di incostituzionalità). Oppure: conflitti con normative UE (per immobili enti non commerciali, aiuti di Stato? ma qui entriamo in ambiti particolari). In generale, per l’IMU le difese sono spesso di merito (non era dovuta per esenzione, o errori importi) oppure procedurali. Un’altra difesa che talvolta paga è verificare se il Comune ha rispettato l’obbligo di deliberare aliquote e regolamenti nei termini di legge. Lo Statuto del Contribuente (art. 3) e la normativa finanziaria stabiliscono che le delibere di aliquota devono essere approvate e pubblicate entro una certa data dell’anno (di solito entro il 14 ottobre dell’anno d’imposta sul sito del MEF). Se la delibera è tardiva o non pubblicata, si applicano le aliquote dell’anno precedente e gli aumenti non sono efficaci. Dunque, se un Comune tenta di recuperare IMU con aliquota maggiore deliberata tardivamente, il contribuente può eccepirne l’inapplicabilità. Questo è un motivo di ricorso avanzato ma riconosciuto: in passato la giurisprudenza ha annullato accertamenti basati su delibere illegittime o tardive.
6. Esempio pratico (IMU): Mario riceve un accertamento IMU per il 2019 su una seconda casa, ma lui aveva acquistato l’immobile solo a metà 2019. Il Comune gli richiede l’intero anno. Mario verifica l’atto: in effetti l’avviso indica erroneamente come periodo soggetto tutto il 2019. Egli recupera l’atto di compravendita: risulta che fino al 30 giugno 2019 il proprietario era il Sig. Rossi. Mario può proporre ricorso motivando: “Violazione soggettiva – l’avviso è stato notificato a persona non legittimata per il periodo antecedente luglio 2019. Il tributo relativo a gen-giu 2019 è eventualmente dovuto dal precedente proprietario Sig. Rossi, soggetto passivo IMU fino al trasferimento. Si chiede pertanto annullamento parziale per i mesi non di competenza, con conseguente rideterminazione dell’imposta dovuta solo per luglio-dicembre 2019”. Allegando il rogito, molto probabilmente il Comune annullerà in autotutela l’atto verso Mario (magari emettendo separato avviso pro-quota verso Rossi) oppure in giudizio il ricorso di Mario sarà accolto limitatamente al periodo di possesso effettivo.
In conclusione sul fronte IMU: il contribuente ha buonissime chance di vittoria quando l’accertamento è tardivo (oltre 5 anni), quando l’immobile rientra in esenzione prevista (prima casa, ecc.), o quando vi sono errori oggettivi (calcoli, aliquote) o vizi formali (notifica scorretta, difetto di motivazione). I casi più incerti riguardano valutazioni (es. valore aree) o contestazioni su norme di nicchia, dove è opportuno produrre perizie e giurisprudenza di supporto. Importante: anche se l’IMU è “locale”, la materia è complessa e giurisprudenza e norme generali (Statuto contribuente, Codice civile, ecc.) vanno sapute maneggiare – ecco perché è consigliato farsi assistere.
Difendersi da un Accertamento TARI
Gli avvisi di accertamento TARI mirano a recuperare la tassa rifiuti non pagata o non dichiarata correttamente per uno o più anni. Trattandosi di un tributo legato alla superficie e all’uso degli immobili, le contestazioni tipiche riguardano: omessa dichiarazione TARI (il contribuente ha occupato locali ma non ha mai presentato denuncia di iscrizione al ruolo rifiuti), superficie dichiarata inferiore al reale, categoria tariffaria errata (es. locale usato come ufficio ma denunciato come magazzino a tariffa inferiore), oppure più semplicemente omesso pagamento delle bollette TARI entro le scadenze. Prima di tutto, la TARI ha natura di tassa (corrispettivo per servizio, sebbene in realtà sia gestita come tributo) e quindi soggiace anch’essa alle regole generali su notifica e decadenza già viste. Rivediamo i punti chiave di difesa specifici per la TARI:
1. Verificare la superficie e i dati catastali utilizzati: L’importo TARI dipende dai metri quadrati tassabili. È fondamentale controllare quanti mq risultano nell’accertamento. Il Comune solitamente prende i dati catastali o quelli dichiarati a suo tempo dal contribuente. Se c’è discrepanza – ad esempio l’atto calcola 120 mq ma l’immobile è di 100 mq – occorre evidenziarlo. Potrebbe essere che il Comune includa anche parti non tassabili (es. aree scoperte pertinenziali, balconi, cantine comuni, ecc. che per legge non generano rifiuti) oppure abbia considerato errate planimetrie. Si può produrre una planimetria o un documento tecnico che attesti la superficie calpestabile esatta. Spesso, errori di questo tipo inficiano l’importo: la TARI va pagata solo sulla superficie calpestabile dei locali suscettibili di produrre rifiuti, esclusi ad es. box auto pertinenziali se il Comune li esenta, o parti comuni condominiali non a uso esclusivo. Inoltre, verificare la voce “categoria utente”: per le utenze domestiche di solito la tariffa varia in base al numero di occupanti (desunto dallo stato di famiglia). Se nell’avviso risulta un numero di persone errato (ad es. 4 invece di 2), l’importo sarà gonfiato. Il contribuente può provare lo stato di famiglia anagrafico nell’anno considerato per rettificare.
2. Errori nella tariffa o nel computo quota variabile: La TARI si compone di una quota fissa (€/mq) e una quota variabile (€/utenza domestica o, per utenze non domestiche, legata ad altri parametri come quantità rifiuti medi). Un errore che in passato molti Comuni fecero fu quello di moltiplicare indebitamente la quota variabile per ogni pertinenza (es. per garage e cantina), gonfiando la bolletta. Il Ministero dell’Economia nel 2017 chiarì che ciò era sbagliato e bisognava applicare una sola quota variabile per utenza. Se il vostro accertamento TARI recupera importi di anni in cui la quota variabile era stata calcolata male, potete contestare l’errato calcolo con riferimento alle circolari ministeriali e alle delibere comunali corrette. Alcuni contribuenti si sono visti riconoscere il rimborso di somme pagate in eccesso proprio per questa ragione. Nel contenzioso, si può chiedere al giudice di ricalcolare correttamente la tassa.
3. Omessa dichiarazione iniziale o di variazione: Molti avvisi TARI vengono emessi perché il contribuente non ha presentato la dichiarazione TARI quando avrebbe dovuto (ad esempio all’inizio dell’occupazione, o quando c’è stata una variazione significativa di superficie/uso, o cessazione). In tali casi l’ente accerta dall’anno in cui presume la decorrenza dell’occupazione, applicando la tassa e spesso una sanzione per omessa dichiarazione (che è del 100% del tributo evaso, ridotta a 1/3 se paghi con adesione, ma negli avvisi spesso già la comminano per intero). La difesa qui può consistere nel dimostrare che non vi era obbligo di dichiarazione o che comunque il Comune era già a conoscenza dei dati. Ad esempio, se il Comune aveva i dati catastali o aveva volturato l’utenza da precedente occupante, il contribuente può sostenere che non c’era occultamento volontario. O magari la dichiarazione era stata presentata ma il Comune l’ha persa: se si trova copia protocollata, l’avviso è sbagliato. Inoltre, va controllato se la decorrenza è giusta: un contribuente potrebbe essersi insediato in un locale in data successiva a quella ipotizzata dall’ente (ad es. contratto di locazione iniziato ad aprile ma l’ente addebita da gennaio): in tal caso, con il contratto di affitto come prova, si chiederà la rideterminazione.
4. Errori sulla categoria tariffaria (destinazione d’uso): Le tariffe TARI per le utenze non domestiche variano in base all’attività svolta (alimentari, uffici, ristoranti, negozi abbigliamento, industrie, etc.). Può succedere che un locale sia stato classificato in categoria sbagliata, con tariffa più alta. Ad esempio un piccolo laboratorio artigiano assimilato a “industria” invece che ad “artigianato”, o un agriturismo tassato come ristorante. Il ricorso può far leva sul fatto che l’attività reale era diversa e l’errata classificazione ha portato a tassa sproporzionata. Vanno allegati documenti (visura Cciaa, codice ATECO, foto dei locali) per dimostrare la destinazione effettiva. Inoltre, per alcune categorie produttive che producono rifiuti speciali non assimilati, la normativa prevede l’esclusione dalla TARI della parte di superficie dove si formano tali rifiuti (che l’azienda smaltisce a proprie spese). Ad esempio, officine meccaniche con residui d’olio, attività sanitarie con rifiuti speciali, ecc. Se l’azienda aveva diritto a esclusione parziale ma il Comune non l’ha concessa, l’accertamento può essere contestato in parte. Bisogna però aver presentato a suo tempo la documentazione richiesta (dichiarazione e convenzioni di smaltimento) per ottenere l’esclusione. Se l’avete fatto e malgrado ciò vi tassano tutta la superficie, è un ottimo motivo di ricorso.
5. Omessi pagamenti e sanzioni: Se l’avviso contesta mancati pagamenti di bollette TARI precedenti, la difesa possibile è dimostrare di aver invece pagato (allegando ricevute, MAV, F24 effettuati). Può capitare che il Comune non abbia correttamente registrato un versamento. Questo rientra nell’ipotesi di errore materiale risolvibile anche in autotutela: presentando le copie delle ricevute di pagamento delle rate TARI, l’ente dovrebbe annullare l’atto. In mancanza, il giudice certamente annullerà l’accertamento per insussistenza del debito (pagamento già avvenuto). Un’altra linea difensiva è controllare il computo delle sanzioni: per legge, se il mancato pagamento è dovuto a omesso versamento, la sanzione è il 30% dell’importo non pagato. Se l’ente ha irrogato sanzioni maggiori (magari cumulando sanzione da infedele dichiarazione 50% + omesso pagamento 30%), si può discutere se vi sia doppia sanzione per la stessa condotta (principio del ne bis in idem). In genere però se c’è omessa dichiarazione e omesso pagamento, entrambe le sanzioni sono applicabili in cumulo materiale. Va però verificato che il totale non superi i massimi di legge.
6. Aspetti formali negli avvisi TARI: Anche gli accertamenti TARI devono rispettare requisiti formali di motivazione, indicazione del responsabile, ecc., come visto per IMU. In aggiunta, siccome la TARI è regolata molto dai Regolamenti comunali (che dettagliano riduzioni, obblighi dichiarativi, etc.), un profilo spesso dibattuto è il contrasto dell’avviso con il regolamento comunale. Ad esempio, se il regolamento prevedeva una riduzione del 30% per locali non utilizzati con utenze staccate e il contribuente aveva i requisiti ma l’ente non l’ha concessa, l’atto è illegittimo per violazione del regolamento. Oppure il regolamento stabiliva che in caso di mancato invio del bollettino il contribuente può pagare entro 60 giorni senza sanzioni, ma l’ente lo sanziona lo stesso: anche questo può essere fatto valere. Un caso concreto recente: un contribuente romano ha contestato un avviso TARI perché il Comune non gli aveva reso accessibili i documenti di calcolo nonostante avesse fatto istanza di accesso agli atti – la CGT ha annullato l’avviso riconoscendo la violazione del diritto di accesso e difesa (sent. CGT II grado Lazio 2022). Dunque anche vizi procedurali “amministrativi” possono rilevare. Un’altra verifica: come per l’IMU, anche per TARI il Comune deve deliberare ogni anno le tariffe entro il termine di approvazione del bilancio (solitamente entro aprile). Se per l’anno X la tariffa è stata approvata in ritardo, teoricamente la richiesta potrebbe essere nulla (o comunque va applicata tariffa anno precedente). Su ciò però c’è giurisprudenza oscillante: alcuni dicono che la TARI essendo una tassa sui costi non può restare senza tariffa annuale, quindi seppur tardiva viene sanata. Ma è argomento che il legale potrebbe sollevare per scrupolo.
7. Prescrizione del recupero TARI: Come già evidenziato, la TARI segue la prescrizione breve di 5 anni. Dunque, se arriva un accertamento nel 2025 che include l’anno 2019, quest’ultimo anno è all’ultimo giorno utile (31/12/2024) per la notifica. Se invece un atto arrivasse a gennaio 2025 pretendendo TARI 2019, sarebbe tardivo (5 anni scaduti) e andrebbe impugnato chiedendone la nullità per decadenza. Inoltre, quando un accertamento TARI diventa definitivo, il Comune aveva (fino al 2019) 3 anni per la cartella. Ora l’accertamento è esecutivo, ma come per IMU l’azione esecutiva si prescrive in 5 anni. Quindi, se ad esempio avete una cartella TARI ricevuta nel 2023 per annualità 2015, e dal 2015 a quella cartella non c’erano stati atti interruttivi, potete eccepire la prescrizione. Le Commissioni si sono espresse più volte a favore del contribuente in casi simili, richiamando la Cassazione univoca sulla prescrizione quinquennale.
8. Esempio pratico (TARI): Un piccolo ristorante riceve nel 2024 un avviso TARI per gli anni 2019-2020. Il Comune contesta una superficie maggiore di quella dichiarata (150 mq invece di 120) e applica la tariffa piena, senza esenzione. Il ristoratore però ricorda che nel seminterrato di 30 mq produce rifiuti speciali (olio esausto, vetro) che smaltisce con ditta privata. Aveva infatti comunicato al Comune all’epoca che quei 30 mq erano da esentare. Nel ricorso, egli potrà sostenere: “Il calcolo è errato: la superficie tassabile è di 120 mq, come da planimetria e dichiarazione presentata, poiché 30 mq sono destinati a deposito di rifiuti speciali esclusi da TARI (art… regolamento). L’avviso viola il regolamento comunale e l’art. 198 D.Lgs.152/2006, avendo tassato superfici non soggette. Si chiede quindi annullamento parziale riducendo la base imponibile e riliquidando la tassa”. Allegando la planimetria e le copie delle fatture di smaltimento rifiuti speciali, con ogni probabilità l’ufficio stesso potrebbe annullare o ridurre l’atto in autotutela, oppure il giudice darà ragione al contribuente.
In definitiva, per difendersi dalla TARI occorre un duplice controllo: dei dati fattuali (mq, categoria, occupanti, periodo) e del rispetto delle regole locali (regolamento e tariffe). Le controversie TARI sono spesso tecniche, ma il contribuente vince facilmente se dimostra errori di conteggio, mancata applicazione di riduzioni dovute, o se rileva vizi formali analoghi a quelli dell’IMU (termini decaduti, notifica nulla). Anche qui, documentare tutto (foto dei locali, contratti, dichiarazioni fatte) è la chiave per averla vinta.
Difendersi da un Accertamento TASI
Un capitolo a parte, in termini soprattutto storici, riguarda il tributo TASI, che è stato in vigore dal 2014 al 2019. Come detto, dal 2020 la TASI è stata abolita e inglobata nell’IMU (legge 160/2019). Tuttavia, i Comuni possono ancora emettere accertamenti TASI per annualità fino al 2019, purché entro il quinto anno successivo (dunque entro fine 2024 per l’anno 2019). Pertanto, è possibile che nel 2025 un contribuente si veda recapitare – sebbene sempre più raramente – un avviso TASI (ad esempio per omesso versamento 2017 o 2018). La difesa da un accertamento TASI presenta alcune analogie con l’IMU, trattandosi di tributo patrimoniale, ma con peculiarità proprie dovute alla compartecipazione tra possessore e detentore.
1. Anzitutto, verificare l’anno d’imposta. Qualunque accertamento TASI notificato nel 2025 non può riguardare anni anteriori al 2019 (perché sarebbero decaduti i termini). Se arrivasse un avviso per TASI 2018, sarebbe nei termini (ultimo giorno 31/12/2023); se fosse per TASI 2017 notificato nel 2024, fuori termine -> nullità per decadenza. Quindi il primo check è temporale: spesso i Comuni negli ultimi giorni del 2019 inviarono accertamenti TASI in extremis per il 2014 (termine al 31/12/2019). Ora, nel 2025, residuano possibili atti solo su 2019 (termine al 31/12/2024). Tutto il resto è decaduto.
2. Esenzione abitazione principale (dal 2016 in poi): La TASI nel 2014-2015 si pagava anche sulle prime case (essendo la “tassa servizi” complementare all’IMU che le esentava). Dal 2016 invece la legge ha escluso dall’applicazione TASI tutte le abitazioni principali non di lusso, allineando l’esenzione a quella IMU. Pertanto, se un avviso TASI riguarda un’abitazione principale per un anno dal 2016 in avanti, esso è manifestamente illegittimo (non era dovuto alcun tributo). Ad esempio, un accertamento TASI 2017 sulla prima casa del contribuente va fatto annullare perché la TASI 2017 non era dovuta su quell’immobile (esibire residenza, catasto non A/1-A/8-A/9, ecc.). Per il 2014-2015, invece, l’abitazione principale era tassabile TASI: però attenzione, molti Comuni deliberarono aliquote TASI basse (o zero) proprio su essa, per ridurre l’impatto. Quindi potrebbe capitare di discutere se l’aliquota applicata è corretta. Esempio: se l’ente aveva deliberato TASI 2014 prima casa 2‰ ma il contribuente non ha pagato nulla, è giusto l’accertamento. Ma se il contribuente credeva erroneamente di non dover pagare perché equiparato a residente all’estero (alcune eccezioni per AIRE pensionati), bisogna vedere se c’era esenzione. In generale per 2014-2015 le difese sulla prima casa sono deboli, salvo casi particolari (immobile di cooperative a proprietà indivisa assegnato a socio: assimilato a prima casa, quindi esente TASI anche 2014-15 per espressa previsione).
3. Verificare il soggetto destinatario: La TASI aveva una particolarità: proprietario e occupante (inquilino o utilizzatore) condividevano l’obbligo, in proporzione. La legge prevedeva che il Comune decidesse una percentuale a carico dell’occupante (tra 10% e 30%); se il Comune non deliberava nulla, valeva l’occupante 10%, proprietario 90%. Ora, può succedere che un accertamento TASI sia stato notificato solo al proprietario per l’intero ammontare, quando invece c’era un inquilino tenuto alla sua quota. Cosa fare in questo caso? In teoria, proprietario e occupante erano obbligati in solido solo ciascuno per la propria parte? La norma dice “soggetti passivi sono sia possessore che detentore, con obbligazioni autonome ciascuno per la rispettiva quota”. Ciò farebbe pensare che il Comune debba accertare ad ognuno la sua quota. Alcuni Comuni tuttavia, in mancanza di pagamento, inviavano un unico avviso cumulativo al proprietario per l’intero. A nostro avviso, questo è errato: il proprietario potrebbe impugnarlo dicendo: “Non è dovuta la parte di TASI che spetterebbe all’occupante, in quanto obbligazione autonoma di quest’ultimo”. In sostanza il proprietario può contestare l’addebito del 100% chiedendo la riduzione alla sua quota (es. 90%). Contestualmente, sarebbe bene indicare le generalità dell’inquilino per correttezza. Non essendoci molta giurisprudenza in merito (la TASI è durata poco), si può far leva sulla lettera della legge e su principi di capacità contributiva. Viceversa, se siete l’occupante e ricevete un avviso TASI per la vostra quota (es. 10%), verificate che anche il proprietario abbia pagato il suo (spesso l’ente per far prima colpiva chi poteva, magari l’occupante se più solvibile). L’occupante potrebbe contestare che il Comune sta richiedendo a lui più del dovuto percentualmente – oppure in casi limite se l’avviso richiede anche la quota proprietario all’inquilino, ancora più illegittimo. Comunque, l’importante è capire la situazione: se c’è stata contemporanea inadempienza sia di proprietario che di inquilino, il Comune può emettere atti separati. In mancanza, non può recuperare due volte lo stesso importo; quindi un controllo incrociato va fatto.
4. Aliquota e delibere: La TASI aveva un meccanismo di cap sulle aliquote: la somma di aliquota IMU + TASI su un immobile non poteva superare il massimo IMU (es. 10,6‰). Dunque, se ad esempio su una seconda casa il Comune già applicava IMU 10,6‰, non poteva imporre TASI aggiuntiva. Se ciò fosse accaduto (difficile, ma verificare), l’accertamento TASI sarebbe illegittimo perché l’aliquota combinata supera il tetto. Più frequente è il caso delle aree fabbricabili o degli immobili merce invenduti delle imprese: su questi la legge poneva aliquote TASI massime specifiche (es. fabbricati merce max 2,5‰). Se un costruttore si vede recapitare TASI su un invenduto con aliquota più alta, può far valere il limite di legge violato. Inoltre, come per IMU, controllare la delibera comunale: se l’aliquota TASI per quell’anno non fu deliberata nei termini di legge o non pubblicata, potrebbe non essere applicabile. Ad esempio, la legge di bilancio 2017 consentì ai Comuni di confermare la maggiorazione TASI dello 0,8‰ solo se deliberata entro il 2015 e confermata negli anni successivi. Se un Comune avesse tentato di introdurre ex novo nel 2017 un’aliquota TASI col +0,8‰ senza basi, quell’aliquota era illegittima. Questi dettagli richiedono spesso l’analisi delle delibere di consiglio comunale di quei anni, cosa che un legale tributarista farà. A livello di ricorso, si può scrivere “Violazione art. 1 c. 28 L. 208/2015: la maggiorazione TASI non risulta deliberata conformemente, dunque l’aliquota dovuta era quella base”.
5. Vizi formali negli avvisi TASI: Valgono esattamente quelli già detti per IMU: motivazione, termini, firma, notifica. Con in più il fatto che la TASI essendo ormai “in pensione”, alcuni uffici hanno meno attenzione e magari l’atto è standard e non molto dettagliato. Se ad esempio un avviso TASI recita solo “omesso versamento TASI anno 2017: €X” senza specificare gli immobili, le percentuali, ecc., è un difetto di motivazione lampante. Il contribuente potrebbe non capire come è stato calcolato quell’importo (peggio se possiede più immobili). Quindi potrebbe chiedere l’annullamento per difetto di motivazione, citando l’art. 7 L.212/2000 e la giurisprudenza (Cass. n. 1223/2020 ad esempio ha annullato un avviso TARI generico). La difesa su questo piano è trasversale.
6. Prescrizione e decadenza: Ripetiamo: TASI 2014-2019, 5 anni decadenza per accertamento. Se l’accertamento è stato notificato e non pagato, la prescrizione per riscuoterlo è 5 anni. Vale tutto quanto detto su IMU/TARI.
7. Esempio pratico (TASI): Supponiamo che Luigi nel 2024 riceva un avviso TASI per l’anno 2018, relativo a un appartamento di sua proprietà locato a terzi. Il Comune gli chiede €200. Luigi controlla: nel 2018 quell’appartamento era affittato a Maria, che vi risiedeva come abitazione principale. La legge dice che in tal caso TASI 2018 non era dovuta né da Maria né da Luigi (perché dal 2016 prima casa esente, anche se di occupante, e proprietario di conseguenza esente). Inoltre, se pure fosse stata dovuta, Luigi come proprietario avrebbe dovuto pagare solo il 90% e Maria 10%. Quindi Luigi ha due motivi forti: esenzione prima casa dell’occupante e comunque errata percentuale. Nel ricorso Luigi scriverà: “Il tributo non era dovuto ex lege: l’immobile nel 2018 era abitazione principale dell’inquilino (sig.ra X, residente dall’anno …), quindi ai sensi art. 1 comma 14, L. 208/2015 l’unità è esclusa da TASI per quell’anno. In subordine, qualora si ritenesse dovuta, si evidenzia che il Comune non poteva richiedere al solo possessore l’intera quota, spettando all’occupante una quota del 10% (Comune di … deliberazione TASI 2018). Pertanto l’importo risulta comunque errato. Si chiede l’annullamento integrale dell’avviso impugnato.” Con tali argomenti, l’annullamento è praticamente certo.
In sintesi, la TASI può ancora affacciarsi nei contenziosi ma solo per trascinamenti del passato. Le difese sono spesso “automatiche” (anno prescritto, immobile esente, applicazione percentuale scorretta, ecc.). Data la sua abolizione, molti Comuni hanno preferito non intestardirsi in recuperi marginali di TASI, ma se ciò accade, il contribuente dispone di solide armi per contestare, specie sulle abitazioni principali dal 2016 in poi e sulla ripartizione occupante/proprietario.
Cosa succede dopo: esiti del ricorso e riscossione coattiva
Dopo aver impostato la difesa e affrontato eventualmente il giudizio, è importante comprendere gli scenari possibili post-ricorso o post-accertamento non impugnato:
- Se il ricorso del contribuente viene accolto (sentenza favorevole): l’avviso di accertamento viene annullato, in tutto o in parte. In tal caso nulla è dovuto (o è dovuto solo quanto eventualmente riconosciuto legittimo in caso di annullamento parziale). Se durante la pendenza c’era stato pagamento del famoso “1/3 provvisorio” o di somme in acconto, il contribuente ha diritto al rimborso di quanto non dovuto. Si può presentare istanza di rimborso al Comune allegando la sentenza passata in giudicato. Di norma il Comune rifonde anche le spese di lite (come da sentenza) entro 90 giorni. La sentenza favorevole, una volta definitiva, è titolo per lo sgravio dell’accertamento.
- Se il ricorso viene respinto (sentenza sfavorevole): l’avviso viene confermato. In tal caso il contribuente dovrà corrispondere quanto dovuto. Se aveva pagato 1/3 e la sentenza arriva entro un anno, dovrà versare i restanti 2/3 più ulteriori interessi maturati. Se non aveva pagato nulla (e magari non aveva ottenuto sospensiva), probabilmente il Comune avrà già attivato la riscossione per quel 1/3 durante il processo; ora, a esito noto, potrà procedere per l’intero importo. Il contribuente può valutare se appellare in secondo grado (entro 60 gg come detto). Se decide di non appellare o perde anche in appello, la partita si chiude a favore del Comune. A quel punto, l’importo accertato diventa definitivamente esigibile. Attenzione: non pagare neanche dopo la sentenza definitiva comporta l’avvio di procedure esecutive ben più incisive.
- Se il contribuente non ha presentato ricorso entro 60 giorni e non ha pagato: l’accertamento è divenuto definitivo per acquiescenza tacita. L’importo iscritto a ruolo potrà essere affidato all’Agente della Riscossione decorso il termine. Come visto, la legge prevede una maggior attesa se c’è ricorso (180 gg con sospensiva), ma se non c’è alcun ricorso, l’ente può procedere anche subito trascorsi i 60 gg (in realtà, spesso i Comuni attendono qualche settimana aggiuntiva, e inviano magari un sollecito bonario). In ogni caso, dopo la definitività, il debito verrà affidato ad Agenzia Entrate-Riscossione (o al concessionario privato) per l’esazione forzata. Non verrà notificata una cartella separata, ma il concessionario può attivare direttamente misure cautelari ed esecutive sulla base dell’accertamento esecutivo. Solitamente, il processo è: l’Agente della riscossione manda una comunicazione di presa in carico (può essere un semplice avviso che informa del carico iscritto, talvolta allegato al sollecito di pagamento di 30 giorni). Se il contribuente ancora non paga, trascorso il preavviso, possono scattare:
- Fermo amministrativo su veicoli (iscrivibile per debiti >= €1.000): blocco del mezzo con preavviso di 30 giorni per pagare, altrimenti iscrizione in PRA e divieto di circolazione.
- Ipoteca su immobili di proprietà: per debiti sopra €20.000, l’Agente può iscrivere ipoteca legale sugli immobili del debitore, previa comunicazione. L’ipoteca tutela il credito ma non comporta immediata espropriazione.
- Pignoramento di conti correnti, stipendi, pensioni, crediti verso terzi: sono le azioni esecutive vere e proprie. L’Agente con atto notificato al debitore e al terzo (banca, datore di lavoro, ecc.) dispone il sequestro delle somme fino a concorrenza del debito. Ad esempio, può pignorare il conto corrente (con il limite che lasci €1.000 se persona fisica), oppure pignorare presso l’INPS un quinto della pensione, etc.
- Espropriazione immobiliare: caso estremo. La legge attuale (DL 69/2013) vieta la vendita forzata della prima casa se è l’unico immobile di proprietà e non di lusso. Quindi l’Agente non può espropriare l’abitazione principale se il contribuente ne ha una sola e vi risiede, a meno che non sia categoria A/8 o A/9. Può però iscrivere ipoteca (che di fatto impedirà atti di vendita finché non si paga). Se il debitore ha altri immobili (seconde case, terreni, locali commerciali), questi sì sono pignorabili e vendibili all’asta per soddisfare il debito, previa iscrizione di ipoteca e trascorsi 30 giorni dal preavviso.
Va detto che per debiti modesti (qualche migliaio di euro) è raro si arrivi a pignoramenti immobiliari: più frequenti fermi auto o pignoramenti conto. L’Agente della Riscossione agisce gradualmente e proporzionatamente.
Rimedi tardivi: se l’atto è definitivo e non impugnabile più nel merito, resta qualche chance solo per vizi procedurali gravi nelle fasi esecutive. Ad esempio, se arriva un intimazione di pagamento (ex art. 50 DPR 602/73) oltre un anno dopo, uno potrebbe verificare se l’Agente ha rispettato il termine. Oppure, si può presentare una richiesta di rateizzazione all’Agente della riscossione: su debiti fino a €120.000 c’è diritto a 72 rate mensili, oltre servono requisiti di comprovata difficoltà (72 o 120 rate straordinarie). La rateazione però non annulla il debito, anzi comporta l’ammissione dello stesso. È comunque un’opzione per evitare azioni immediate: chiedendo la dilazione, i fermi e ipoteche già iscritti vengono sospesi e non se ne attivano di nuovi se si rispettano i pagamenti.
Definizioni agevolate e stralci: la materia dei tributi locali talvolta è stata oggetto di provvedimenti normativi di “pace fiscale”. Ad esempio, la Legge 197/2022 (Bilancio 2023) ha previsto lo stralcio automatico dei debiti fino a €1.000 affidati agli agenti della riscossione dal 2000 al 2015, inclusi quelli per IMU, TARI, ecc., salvo diversa scelta del Comune. Molti Comuni hanno però deliberato di non aderire allo stralcio automatico, per cui non tutti i micro-debiti sono stati annullati. Inoltre, la stessa legge ha introdotto una rottamazione-quater delle cartelle (anni 2000-2017) cui i debitori potevano aderire entro giugno 2023, con beneficio di stralcio sanzioni e interessi. I tributi locali rientravano se affidati all’Agenzia Entrate-Riscossione (non se riscossi con ingiunzione locale, a meno di provvedimenti ad hoc del Comune). Quindi, chi avesse oggi un debito derivante da accertamento locale passato a cartella potrebbe – se in tempo – aver aderito alla definizione agevolata pagando solo il capitale e interessi legali. Nel futuro, potrebbero esservi ulteriori sanatorie. Consiglio: monitorare sempre le normative vigenti; talora conviene aderire a una sanatoria se il contenzioso è incerto e la legge consente di chiudere pagando meno (ad es. in passato condoni sul 20% del tributo locale in lite).
Transazione fiscale nei procedimenti concorsuali: un cenno infine per gli imprenditori: se il contribuente è un’impresa in crisi che accede a procedure di composizione del debito (piano di ristrutturazione, concordato preventivo, ecc.), anche i debiti IMU/TARI/TASI possono essere inclusi in una transazione fiscale o in un piano di risanamento col Fisco. È un ambito specialistico, ma significa che il Comune potrebbe accettare di ridurre parzialmente il credito nell’ambito di un accordo di sovraindebitamento o concorsuale, se approvato dal giudice. Per i privati sovra-indebitati c’è il procedimento ex L. 3/2012 (Codice crisi attuale) in cui pure i tributi locali rientrano e possono essere falcidiati. Questa è l’ultima spiaggia per chi ha debiti molto elevati e non solvibili, ed esula dal normale percorso di impugnazione degli avvisi, ma è bene sapere che esiste.
Domande Frequenti (FAQ)
D: Quanto tempo ho per presentare ricorso contro un avviso di accertamento IMU/TARI/TASI?
R: Il termine ordinario è di 60 giorni dalla data di notifica dell’atto. Sono previste proroghe in due situazioni principali: se presenti istanza di accertamento con adesione, il termine è sospeso per 90 giorni (quindi in totale fino a 150 giorni); inoltre, dal 1º al 31 agosto di ogni anno c’è la sospensione feriale, quindi i 60 giorni “si fermano” in agosto. Esempio: avviso notificato il 10 giugno, scadenza ricorso 9 agosto, ma il periodo 1-31 agosto è sospeso, quindi ultimo giorno utile diventa il 9 settembre. Se il 60° giorno cade di sabato/festivo, si slitta al primo giorno lavorativo successivo. Attenzione: il computo dei 60 giorni parte dal ricevimento (o dalla compiuta giacenza) dell’atto, non dalla data sull’atto stesso. Se perdi il termine, l’accertamento diventa definitivo.
D: Devo farmi assistere da un avvocato per impugnare l’accertamento?
R: Dipende dal valore in contestazione. Se l’importo del tributo (senza interessi/sanzioni) supera €3.000, la legge impone l’assistenza tecnica di un difensore abilitato (avvocato, commercialista o altri iscritti). Sotto tale soglia, potresti anche fare da solo (ricorso “in proprio”). Tuttavia, è fortemente consigliato avvalersi di un professionista anche per importi minori, poiché il diritto tributario è pieno di insidie procedurali: un errore di notifica del ricorso o di formulazione dei motivi può comprometterne l’accoglimento. Inoltre dal 2023 solo un avvocato può eventualmente seguire la causa fino in Cassazione. Quindi, soprattutto se vuoi far valere eccezioni complesse o giurisprudenza, affidati a un esperto in materia tributaria.
D: L’avviso mi è arrivato via PEC. È valido anche se non l’ho aperto subito?
R: Sì. La notifica via PEC è pienamente legale per i titolari di un domicilio digitale (imprese, professionisti, e privati che abbiano una PEC risultante da registri). La notifica si considera perfezionata quando la PEC è consegnata nella tua casella (ricevuta di avvenuta consegna). Non importa se tu leggi o meno la mail: dopo un tot di giorni di giacenza (generalmente 30) la PEC si considera comunque notificata. Quindi controlla regolarmente la tua casella certificata. Unica cosa: verifica che l’atto allegato sia integro e conforme all’originale informatico. Come detto, se il documento è firmato digitalmente, nella copia PDF dovrebbe esserci l’attestazione di conformità; se manca, segnala la cosa al tuo difensore perché potrebbe essere un vizio di notifica. Ma la mancanza di lettura non è scusante: l’atto decorre comunque.
D: Ho ricevuto l’accertamento a mezzo raccomandata ma ero assente e l’ho ritirato in posta dopo parecchi giorni. Da quando decorrono i 60 giorni?
R: Se hai ritirato la raccomandata in giacenza, la notifica per te destinatario si perfeziona il giorno del ritiro. Però attenzione: se non fossi mai andato a ritirarla, la notifica si sarebbe considerata perfezionata per compiuta giacenza dopo 10 giorni dall’inizio giacenza (secondo le regole della legge 890/1982 sulle notifiche postali). In pratica, nel tuo caso concreto, fa fede la data in cui hai ritirato all’ufficio postale (c’è un timbro/annotazione sulla ricevuta di ritorno). Da quella data conti i 60 giorni. Se invece non l’avessi ritirata affatto, il conteggio sarebbe partito dal 10º giorno dopo che il postino ti ha lasciato l’avviso di giacenza. Quindi recupera la cartolina (o la busta) dove è indicata la data di ritiro o compiuta giacenza, e prendi quella a riferimento.
D: Posso impugnare in Commissione anche una semplice bolletta TARI o devo aspettare l’accertamento?
R: In generale, sono impugnabili davanti al giudice tributario gli atti di accertamento o comunque gli atti con cui l’ente manifesta una pretesa tributaria definita. La bolletta TARI (avviso di pagamento annuale) di per sé è un atto “liquidatorio” e non un provvedimento autoritativo di accertamento – tradizionalmente non impugnabile finché non arriva, appunto, un avviso di accertamento per omesso pagamento. Tuttavia, la Cassazione ha aperto alla possibilità di impugnare anche atti “preparatori” se da essi deriva una immediata lesione. Ad esempio, Cass. SS.UU. 19704/2015 ha ammesso il ricorso contro le bollette TARI in alcuni casi, specie quando equivalgono a un avviso di liquidazione contestato. Diciamo che, in linea prudenziale, conviene attendere l’atto di accertamento formale (che ti dà anche accesso alla riduzione sanzioni con acquiescenza ecc.). Se però la bolletta contiene errori macroscopici (mq, tariffa) e vuoi subito agire, puoi fare ricorso chiedendo al giudice di dichiarare l’obbligo di ricalcolo: qualche Commissione lo esamina nel merito, altre lo dichiarano inammissibile. Valuta col tuo legale in base alla giurisprudenza locale. Spesso comunque è più semplice presentare reclamo in autotutela all’ufficio per far correggere la bolletta: se non lo fanno e ti mandano accertamento con sanzioni, allora impugni quello.
D: Cosa devo pagare se presento ricorso? Devo versare intanto un terzo?
R: Di per sé la presentazione del ricorso non obbliga automaticamente a pagare. La norma prevede che saresti tenuto a versare 1/3 dell’imposta accertata entro il termine di ricorso, lasciando sospesi i 2/3 fino alla sentenza. In realtà, molti contribuenti non versano spontaneamente quel terzo e attendono l’esito del ricorso; il Comune, dal canto suo, spesso non attiva la riscossione coattiva di tale terzo se sa che hai impugnato e magari hai anche chiesto la sospensiva. Però giuridicamente potrebbe farlo. Quindi: se l’importo non è elevatissimo e vuoi stare tranquillo, potresti pagare il terzo entro 60 gg e indicarlo nel ricorso (chiedendo eventualmente la restituzione in caso di vittoria). Altrimenti, puoi non pagare nulla e contestualmente chiedere al giudice la sospensione dell’esecutività dell’atto. Se il giudice concede la sospensiva, il Comune non potrà riscuotere quel terzo (né oltre) finché non decide nel merito. Se invece la sospensiva è negata, il rischio è che l’Agente di riscossione proceda sul terzo: potrebbe, ad esempio, emettere subito ingiunzione/fermo per riscuotere almeno quel 30%. Fai questa valutazione con il tuo difensore in base alla tua situazione economica. Ricorda comunque che chiedere la sospensiva è importante se la cifra è grande: serve a congelare tutto fino alla sentenza.
D: Il Comune non ha risposto alla mia istanza di autotutela entro i 60 giorni e il termine di ricorso sta scadendo. Posso avere una proroga?
R: Purtroppo no. L’istanza di autotutela non sospende né proroga i termini di impugnazione. Se vedi che il 60º giorno si avvicina e l’ente non ha annullato l’atto, devi presentare il ricorso tributario per non restare decaduto. È una situazione antipatica (perché magari il Comune avrebbe poi accolto l’autotutela), ma la legge non tutela l’attesa del contribuente. In certi casi l’ufficio suggerisce informalmente “aspetti la risposta, non faccia ricorso subito”: tu però, a scanso di equivoci, deposita comunque il ricorso entro i termini (magari poi se l’autotutela viene accolta, rinuncerai al ricorso). L’unico strumento che dà una proroga di legge è l’accertamento con adesione ( +90 gg ). L’autotutela no.
D: Ho già pagato una parte dell’IMU (o TARI) richiesta, perché avevo versato qualcosa spontaneamente. Posso fare ricorso lo stesso per il resto?
R: Sì. Se, ad esempio, l’avviso IMU ti chiede €1000 ma tu avevi in realtà versato €400 (magari li avevi versati su codice tributo sbagliato, o come acconto), puoi certamente impugnare l’atto per ottenere lo scomputo di quanto già pagato. Nel ricorso indicherai i pagamenti effettuati (allegando gli F24) e chiederai l’annullamento parziale dell’atto per €400, con consequenziale rideterminazione del saldo dovuto. Il giudice, verificate le prove, annullerà la parte non dovuta. In alternativa, puoi anche rivolgerti prima all’ufficio presentando quietanze e chiedendo in autotutela lo sgravio parziale: spesso lo fanno senza arrivare a giudizio. L’importante è non pagare due volte per errore: se hai prove di versamenti, usale.
D: Il Comune mi ha inviato due avvisi per lo stesso immobile e anno, uno IMU e uno TASI. Non è una doppia imposizione?
R: Potrebbe sembrarlo ma, se si tratta del 2014-2015, in realtà IMU e TASI coesistevano (la IUC). Ad esempio, per il 2014 su una seconda casa potevi avere IMU al 10‰ e TASI allo 0,8‰ deliberati dal Comune: sono due tributi diversi, legittimo ricevere due atti (uno per ciascun tributo). La doppia imposizione illegittima sarebbe pagare due volte la stessa cosa. Invece, IMU e TASI avevano basi imponibili comuni ma aliquote diverse e destinazioni diverse (IMU andava in parte allo Stato per i fabbricati D, TASI restava al Comune). Se però i due avvisi si riferiscono a fattispecie che oggi sarebbero “accorpate”, esempio: TASI 2019 e IMU 2019 (che nel 2019 si pagavano entrambe su alcuni immobili), lì bisognerebbe controllare il rispetto del limite delle aliquote cumulate. Se superano il massimo, allora c’è illegittimità. Dal 2020 in poi il problema non si pone più perché c’è solo IMU. Quindi se nel 2020 o 2021 avessi ricevuto erroneamente un avviso TASI, quello sì che sarebbe una pretesa duplicata e andrebbe annullato (non esistendo più la TASI). In pratica: verifica annualità e delibere, ma salvo errori, pagare IMU + TASI su stesso immobile nel 2014-2015 era normale.
D: Mi è arrivata una cartella esattoriale da Agenzia Riscossione riferita a IMU/TARI di anni fa, ma io non ho mai ricevuto l’accertamento prima. Posso contestarla?
R: Sì. La cartella di pagamento per tributi locali è valida solo se c’è un precedente titolo legittimo (accertamento notificato e non impugnato). Se tu giuri di non aver mai visto l’accertamento, potrebbe esserci stato un vizio di notifica o addirittura che il Comune non te l’ha proprio inviato. In questi casi, puoi fare ricorso contro la cartella eccependo la nullità radicale per difetto dell’atto presupposto. La giurisprudenza conferma che la cartella TARI/IMU è nulla se non era stato notificato l’avviso prima. Il giudice verificherà in udienza: il Comune dovrà esibire la prova della notifica dell’accertamento. Se non la esibisce o è viziata, la cartella verrà annullata. Fai attenzione ai termini: la cartella si impugna entro 60 gg dalla notifica anch’essa, davanti alla CGT competente. In alternativa, potresti fare un’istanza in autotutela al concessionario allegando una dichiarazione del Comune che attesti la mancata notifica dell’atto presupposto (ma il Comune raramente ammette i propri errori così). Meglio il ricorso.
D: Hanno ipotecato la mia seconda casa per IMU non pagata. È legittimo? Posso oppormi?
R: Se l’IMU non pagata è definitiva e supera €20.000, purtroppo l’iscrizione di ipoteca legale è ammessa dalla legge (DPR 602/73 art. 77). L’Agente deve averti notificato una comunicazione preventiva di ipoteca almeno 30 gg prima. Se non l’hai ricevuta, quello è un vizio impugnabile. Ma se hanno seguito la procedura, l’ipoteca in sé non puoi farla cancellare dal giudice tributario se il debito è dovuto. Puoi però chiedere la dilazione del debito: con la rateizzazione concessa, l’Agente in teoria sospende i provvedimenti esecutivi e potresti negoziare la cancellazione di ipoteca al pagamento di un tot di rate. Se ritieni comunque sproporzionato il mezzo (es. ipoteca per €21.000 su immobile che vale 300.000), qualche volta si è eccepito l’abuso del mezzo (richiamando principi di proporzionalità anche costituzionali). Ma raramente il giudice fiscale entra nel merito dell’opportunità di ipoteca, essendo strumento previsto. Piuttosto controlla che l’importo sia effettivamente sopra soglia: se fosse inferiore a 20k, l’ipoteca sarebbe illegittima ex lege e potresti farla rimuovere.
D: Ho vinto il ricorso in Commissione ma il Comune non mi rimborsa né annulla l’atto, anzi mi è arrivato un sollecito ugualmente. Che fare?
R: Una sentenza favorevole, se definitiva (non appellata nei termini), obbliga il Comune a ottemperare. Se il Comune fa orecchie da mercante, esiste uno strumento ad hoc: il giudizio di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. 546/92). Puoi rivolgerti alla stessa Corte di Giustizia Tributaria che ha emesso la sentenza, trascorsi 30 gg dalla notifica della sentenza al Comune, per chiedere che venga ordinata l’esecuzione. Il giudice può anche nominare un commissario ad acta che annulli l’atto o disponga il rimborso al posto del Comune. Prima di arrivare a ciò, conviene comunque inviare al Comune (a mezzo PEC) una diffida ad adempiere allegando la sentenza passata in giudicato e chiedendo lo sgravio/rimborso entro, say, 30 giorni. Spesso smuove. Se ancora nulla, vai di ottemperanza. Quanto al sollecito arrivato post sentenza, se riferito allo stesso tributo annullato, è illegittimo: informa subito l’ente dell’errore (alleghi sentenza) e, se non sospendono, potresti impugnare anche il sollecito per annullamento (ma lo risolverai in ottemperanza verosimilmente).
D: In caso di accordo col Comune (adesione o conciliazione), devo pagare subito tutto?
R: No, uno dei vantaggi è la rateazione. Nell’adesione, come detto, puoi avere fino a 8 rate trimestrali (12 se oltre 50k). Nella conciliazione giudiziale, la legge prevede generalmente 20 giorni per pagare dal verbale di conciliazione (ma le parti possono pattuire di più e di solito si applicano le regole del 218/97 analoghe all’adesione). Se però salti una rata, l’accordo decade e l’intero importo può essere riscritto a ruolo con le sanzioni intere (occhio!). Quindi prenditi impegni sostenibili. La mediazione reclamo (quando c’era) prevedeva invece pagamento entro 20 gg dall’accordo per perfezionarsi. Ad ogni modo, sì, nelle soluzioni bonarie è contemplato il pagamento dilazionato, diversamente dal pagamento con acquiescenza (che richiede tutto entro 60 gg, salvo eventuale mini-rateazione se l’ente la consente discrezionalmente caso per caso).
D: Quali sono i costi di un ricorso tributario?
R: Ci sono i costi vivi: il contributo unificato (da 30 a 1.500 euro circa a seconda del valore della causa, come accennato), eventuali marche da bollo (16 euro) se depositi in cartaceo, e spese di notifica (PEC costa nulla, posta raccomandata sui 10-15 euro, ufficiale giudiziario sui 20-30 euro). Poi c’è l’onorario del difensore, che varia in base alla complessità e al valore: molti avvocati chiedono un fisso + eventuale quota in caso di vittoria. Le spese legali possono essere poste a carico del Comune soccombente in sentenza; tuttavia, sappi che anche vincendo spesso i giudici compensano le spese, soprattutto nelle liti minori (ciascuno paga il proprio). Quindi non dare per scontato di recuperare l’avvocato. Se perdi, di norma ti tocca pagare, oltre al tuo legale, anche un contributo alle spese dell’ente (di solito qualche centinaio di euro salvo cause grosse). Quindi valuta bene costi-benefici: per 100 euro di imposta forse non conviene muovere un contenzioso, per 1.000 euro magari sì.
D: Meglio pagare subito con sanzioni ridotte o fare ricorso?
R: È una valutazione caso per caso. La definizione agevolata (acquiescenza) con sanzioni ridotte al 10% conviene se sai di avere torto marcio o comunque se la pretesa è palesemente dovuta: risparmi il 20% di sanzione e chiudi subito. Esempio: hai dimenticato di pagare una rata IMU €500, l’avviso ti chiede €500 + €150 sanzioni; pagando entro 60 gg riduci sanzioni a ~€50, totale €550. Ti eviti anche il pensiero. Se invece ci sono fondati motivi per ritenere l’atto illegittimo (aliquota sbagliata, esenzione, errore del Comune), allora il ricorso può azzerare tutto – molto più conveniente che pagare, anche ridotto. Considera anche l’importo assoluto: se ti chiedono cifre alte, tentare il ricorso per eliminare o ridurre il dovuto ha senso (magari puoi comunque poi conciliarti con riduzione sanzione al 50%). Se sono cifre piccole, a volte la pace fiscale di pagare e finirla ha un valore. Inoltre, dipende dal rischio: se la normativa e la giurisprudenza sul tuo caso sono chiare a tuo favore, ricorri. Se c’è incertezza, valuta la probabilità di vincere e i tempi (un processo dura anche 1-2 anni in primo grado). Un avvocato bravo saprà consigliarti prospettando gli scenari.
D: Il Comune può accorgersi di non avermi accertato qualcosa dopo aver emesso un primo accertamento? Cioè può farmi un secondo avviso integrativo?
R: Sì, è possibile emettere un accertamento integrativo o di rettifica, purché entro i termini di decadenza. Se ad esempio nel primo avviso IMU 2018 si erano “dimenticati” un immobile o hanno riscontrato un ulteriore errore, possono notificare un secondo avviso sempre entro il 31/12/2023 (per il 2018). Naturalmente non possono raddoppiare sanzioni sullo stesso tributo già contestato: se è un’integrazione, la sanzione andrà calcolata solo sulla nuova differenza. Se succedesse oltre i termini, il secondo avviso sarebbe tardivo. E comunque se ritieni che il secondo sia in contrasto con un eventuale accordo/adesione già fatto sul primo, c’è da discuterne (in adesione di solito ti fanno firmare rinuncia anche su elementi connessi). In linea generale, se c’è ulteriore materia imponibile non accertata prima, entro i 5 anni il Comune può farlo. E tu potrai impugnare anche quello.
D: Cosa significa che il tributo locale si prescrive in 5 anni?
R: Significa che dal momento in cui il tributo è definitivamente dovuto, l’ente ha 5 anni di tempo per attivarne la riscossione coattiva, trascorsi i quali il debito si estingue per prescrizione. Applicato alle varie fasi: se non ti notificano l’accertamento entro 5 anni, scatta la decadenza (di cui abbiamo parlato, vizio dell’atto). Se te lo notificano e tu non paghi né ricorri, quell’accertamento diventa un titolo: il Comune per riscuoterlo deve muoversi entro 5 anni altrimenti il diritto a riscuotere si prescrive. Se notifica entro 5 anni un primo atto di riscossione (es. una cartella o ingiunzione) quello atto interrompe la prescrizione e ne decorrono altri 5 da lì. Insomma, ogni volta che c’è un atto “ricognitivo” del credito (ingiunzione, intimazione, pignoramento) i 5 anni ripartono da capo dal giorno dell’atto. Se per 5 anni non succede nulla, il debito non è più esigibile (anche se avevi perso il ricorso o non l’avevi fatto). Ad esempio: accertamento TARI 2016 mai impugnato, il Comune avrebbe dovuto affidarlo a riscossione entro fine 2019 (3 anni, decadenza ruolo) ma oggi quella decadenza non conta, contano i 5 anni di prescrizione dal 2017 (60gg dopo notifica). Se nulla è successo entro il 2022, ora il 2023 non puoi più esigerlo. Sono questioni tecniche: per far valere la prescrizione, devi sollevarla tu come eccezione (non è rilevata d’ufficio dal giudice). Quindi occhio alle date di ultimo atto e successivo. Un consiglio: conservare tutte le comunicazioni e atti ricevuti, così da avere traccia chiara dell’ultimo evento interruttivo. La prescrizione quinquennale per IMU/TARI/TASI è stata confermata dalla Cassazione a Sezioni Unite e sentenze recenti. Solo se c’è una sentenza passata in giudicato nel mezzo (es. condanna il contribuente), la giurisprudenza ritiene che da quella scatti il termine decennale ordinario dell’actio iudicati, altrimenti resta sempre 5 anni (non c’è “conversione in decennale” solo perché l’accertamento è divenuto definitivo senza giudizio).
D: Perché i tributi locali prescrivono in 5 anni e non 10 come altre tasse?
R: Perché la Cassazione li qualifica come prestazioni periodiche, rientranti nell’art. 2948 n.4 c.c. (che prevede la prescrizione breve per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o frazioni di anno). Mentre le imposte statali (Irpef, IVA…) secondo un diverso orientamento sarebbero obbligazioni non periodiche e quindi decennali dopo accertamento. In realtà, sulle imposte erariali ci sono termini ad hoc di legge. Sui tributi locali la legge non fissa espressamente la prescrizione, quindi si applica il Codice Civile: i giudici hanno optato per i 5 anni data la periodicità annua di IMU/TASI/TARI. Questo orientamento è stato consolidato da vari arresti e ora è pacifico.
D: Se non pago un accertamento e non ho beni intestati, possono farmi qualcosa?
R: Domanda classica da “nullatenente”. Diciamo: se ufficialmente non possiedi immobili, non hai stipendio/pensione, né conti correnti, la riscossione coattiva sarà difficoltosa. Il Fisco potrebbe iscrivere ipoteca su eventuali diritti (ma se non hai immobili, niente ipoteca), potrebbe segnalarti al credit bureau pubblico (Indice affidabilità fiscale) ma per tributi locali non c’è ancora un sistema simile. Potrebbe attendere tempi migliori (la prescrizione può essere interrotta e quindi andare avanti anni sperando che in futuro tu abbia qualcosa). Nei casi estremi di irreperibilità assoluta del debitore, l’ente locale spesso mette il debito a “saldo inesigibile”. Tieni però a mente che i Comuni iniziano a usare strumenti come il FERMO AMMINISTRATIVO auto: se hai un veicolo, te lo possono bloccare e non potrai usarlo né rivenderlo facilmente. Molti “nullatenenti” hanno l’auto e si ritrovano col fermo, il che è fastidioso. Inoltre, se un giorno erediti qualcosa, quell’ipoteca può saltare fuori. E se hai conti cointestati con qualcuno, possono colpire la tua quota. Quindi non è che sei al riparo al 100%. Senza contare le sanzioni penali: attenzione, su IMU/TARI non pagate in sé non c’è reato (i reati tributari valgono per imposte erariali), però se si configura evasione fraudolenta (tipo occultamento di immobili al catasto, o false attestazioni in dichiarazione) potrebbero farti causa di falso o altro. Ma casi rari. Insomma, se sei davvero incapiente e rimarrai tale, è probabile che la maggior parte degli enti a un certo punto lasci perdere perché spenderebbero a vuoto. Tuttavia, legalmente il debito rimane tuo e ogni nuovo sviluppo reddituale/patrimoniale potrà essere agganciato dal Fisco locale entro i termini di legge. Meglio dunque risolvere a monte con un ricorso (se hai buone ragioni) o con un accordo/istanza se la somma è alta e non puoi pagarla (ad esempio, alcuni Comuni accettano transazioni fuori giudizio, specie per aziende in crisi, riducendo l’importo). Vale il proverbio: “meglio un cattivo accordo che una buona causa”… e, aggiungiamo, meglio un accordo che un fantasma a vita: evadi pure la TARI, ma poi niente casa, niente auto, niente conto… è una scelta di vita discutibile.
Conclusione: La difesa contro gli accertamenti IMU, TARI e TASI richiede un mix di conoscenza normativa, analisi tecnica dei dati e tempestività nelle azioni. I contribuenti (privati o imprese) hanno a disposizione vari strumenti per far valere i propri diritti: dal dialogo con l’ente (autotutela, adesione) al ricorso in Commissione Tributaria, sino a eventuali rimedi straordinari. Fondamentale è non ignorare mai un avviso di accertamento: reagire subito, facendolo esaminare da un professionista, consente spesso di evitare esborsi non dovuti e di tutelare il proprio patrimonio. Anche dal punto di vista dell’ente impositore, l’accertamento non è infallibile: negli ultimi anni la giurisprudenza ha più volte censurato prassi scorrette (notifiche via PEC difettose, pretese su prime case, errori di calcolo TARI, ecc.), fornendo ai contribuenti un valido appiglio per contestare. In ogni caso, la parola d’ordine è “giocare d’anticipo”: se sai di avere posizioni IMU/TARI non regolari, valuta il ravvedimento operoso prima che il Comune ti accerti (ti costerebbe molto meno in sanzioni). Se invece l’accertamento è arrivato, studialo nei dettagli alla ricerca di ogni eventuale vizio o appiglio di difesa. Questa guida ha fornito un approfondimento avanzato – con taglio sia pratico che giuridico – per orientarti nella materia: con le fonti normative e le sentenze citate potrai ulteriormente documentare la tua posizione ed eventualmente convincere il giudice della bontà delle tue ragioni.
In ultima analisi, “difendersi” da un tributo non significa voler sottrarsi ingiustificatamente al dovere fiscale, ma far valere la corretta applicazione della legge affinché ciascuno paghi il giusto senza subire errori od arbitri. Dal punto di vista del debitore, è importante conoscere i propri diritti e non subire passivamente: spesso una semplice lettera ben scritta all’ufficio tributi o un ricorso impostato su solide basi portano all’annullamento di pretese indebite. E nei casi in cui il tributo è effettivamente dovuto, ricordiamo le opportunità di ridurre sanzioni (adesione, conciliazione) e di rateizzare per attenuare l’impatto. Con un approccio informato e tempestivo, anche il confronto con il Fisco locale può essere affrontato con successo e senza paura.
Fonti e Riferimenti Normativi e Giurisprudenziali
- D.Lgs. 30 dicembre 1992 n. 504: art. 7 (Esenzioni ICI per Stato, enti pubblici, ecc. – richiamato da normativa IMU/TASI)
- D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, conv. L. 214/2011: art. 13 (Istituzione IMU sperimentale, definizione di abitazione principale ai fini IMU)
- Legge 27 dicembre 2013 n. 147 (Legge di Stabilità 2014): commi 639-731 (IUC – Istituzione TARI e TASI)
- D.L. 16/2014, conv. L. 68/2014: art. 1 (esenzioni TASI analoghe IMU, aliquote massime, maggiorazione 0,8‰ per 2014-2015)
- Legge 28 dicembre 2015 n. 208 (Legge di Stabilità 2016): commi 10-14 (abolizione TASI sulle abitazioni principali dal 2016)
- Legge 27 dicembre 2006 n. 296 (Finanziaria 2007): art. 1 commi 161-170 (Termini di decadenza per accertamenti tributi locali: 5 anni; termini per riscossione: 3 anni)
- Legge 27 dicembre 2019 n. 160 (Legge di Bilancio 2020): art. 1 commi 738-787 (Nuova IMU 2020, abolizione TASI) e commi 792-795 (accertamento esecutivo per tributi locali dal 2020)
- Statuto del Contribuente (L. 212/2000): art. 7 (motivazione e responsabile del procedimento negli atti tributari); art. 10 (tutela affidamento, sanzioni non retroattive); art. 11 (interpello); art. 3 (efficacia temporale norme tributarie – delibere tariffe entro bilancio).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 471: art. 13 (Sanzione 30% per omesso versamento tributi).
- D.Lgs. 19 giugno 1997 n. 218: art. 6 (accertamento con adesione – sospensione termini 90 gg); art. 8 (perfezionamento adesione, rateazione); art. 15 (definizione agevolata – sanzioni ridotte 1/3 se pagamento entro termini ricorso).
- D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546: art. 2 (giurisdizione commissioni tributarie – tributi locali); art. 17-bis (reclamo/mediazione, abrogato dal 2023); art. 18 (contenuto ricorso); art. 19 (atti impugnabili); art. 20-22 (notifica ricorso e costituzione); art. 48 (conciliazione giudiziale, sanzioni ridotte 50%); art. 47 (sospensione cautelare) ; art. 57 (spese di giudizio); art. 68 (pagamento provvisorio 1/3 in caso di ricorso: rinvio a DPR 602/73).
- D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602: art. 50 (intimazione di pagamento dopo un anno dal titolo); art. 77 (ipoteca esattoriale ≥ €20.000); art. 86 (fermo amministrativo ≥ €1.000).
- Cassazione Civile – Sezioni Unite n. 23397/2016: principi su prescrizione tributi locali – il mancato ricorso non “allunga” la prescrizione, che resta quella breve se il tributo è periodico.
- Cass. SS.UU. n. 19704/2015: impugnabilità degli “atti atipici” se esprimono compiuta pretesa (apre a impugnare bollette TARI in alcuni casi).
- Cass. Sez. V n. 15647/2022: conferma prescrizione quinquennale per TARI, Tosap, ecc. (tributi locali periodici).
- Cass. Sez. V n. 17667/2024: ulteriore conferma prescrizione 5 anni tassa rifiuti, nulla conversione in 10 anni.
- Cass. Sez. V n. 1150/2021 e n. 1557/2021: sulla notifica via PEC di atti digitali – ammissibile con QR code o link accesso, discussa.
- Cass. Sez. V n. 29945/2022: notifica PEC di avviso firmato digitalmente senza attestazione di conformità – nullità dell’atto.
- Cass. Sez. V n. 1223/2020: ribadisce obbligo motivazione atti tributari locali (annulla avviso TARI generico).
- Corte Costituzionale n. 209/2022: dichiarata l’illegittimità parziale della disciplina IMU sull’abitazione principale dei coniugi (art. 13 DL 201/2011) – riconosciuta esenzione doppia se risiedono in Comuni diversi per ragioni oggettive.
- Decreti Legislativi attuativi riforma processo tributario 2022-23: D.Lgs. 30 luglio 2022 n. 130 (abolizione reclamo dal 2023, giudice monocratico, testimonianza scritta, Corte Giustizia Tributaria); D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 149 (ufficio del processo tributario).
- Circolari e prassi: Circ. Min. Finanze n. 1/DF 2017 (errore calcolo quota variabile TARI pertinenze); Risoluzione MEF n. 2/DF 2023 (chiarimenti abolizione reclamo dal 2023); Vari Regolamenti Comunali IMU/TARI/TASI (consultare quello del Comune specifico per esenzioni/riduzioni locali).
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