Come Ristrutturare Un’Azienda In Crisi

Hai un’azienda in crisi e non sai da dove cominciare per risollevarla? Ti stai chiedendo come affrontare debiti, mancanza di liquidità, calo di fatturato o tensioni con fornitori e banche? Vuoi capire se esistono strumenti concreti per evitare il fallimento e ristrutturare la tua impresa?

Quando un’azienda entra in crisi, è fondamentale intervenire subito con una strategia chiara, per evitare che i problemi si aggravino. Oggi la legge prevede strumenti di ristrutturazione del debito e procedure di risanamento che possono salvare anche imprese molto esposte, se guidate da professionisti esperti.

Come capire se la tua azienda è in crisi?
Debiti fiscali e previdenziali in crescita
Difficoltà a pagare fornitori, stipendi o mutui
Richieste di rientro da parte delle banche
Conti correnti in rosso o linee di credito bloccate
Fatturato in calo e margini di profitto azzerati
Contenziosi legali o decreti ingiuntivi in arrivo

Quali sono le soluzioni per ristrutturare un’azienda in crisi?
Composizione negoziata della crisi, per trovare un accordo con banche e creditori ed evitare l’insolvenza
Piano di risanamento attestato, per ristrutturare il debito e rilanciare l’impresa con la tutela della legge
Accordo di ristrutturazione dei debiti, anche con effetti protettivi immediati
Concordato semplificato per la liquidazione controllata, se non è più possibile proseguire
Procedure di sovraindebitamento, per ditte individuali o imprenditori non fallibili
Rinegoziazione dei contratti bancari e finanziari, anche con riduzione del debito

Cosa devi fare per iniziare la ristrutturazione?
Analizzare con precisione la situazione aziendale: debiti, attivi, cash flow, esposizione bancaria
Verificare la continuità aziendale: se l’impresa può sopravvivere con un piano realistico
Affidarti a un advisor legale e finanziario esperto, che ti guidi nella scelta della procedura più adatta
Interrompere il silenzio con i creditori e iniziare trattative strutturate
Bloccare le azioni esecutive, se sono già iniziate, con strumenti protettivi previsti dalla legge

Cosa puoi ottenere se agisci con un piano serio e tempestivo?
Sospensione di pignoramenti e richieste di rientro
Riduzione dei debiti e delle rate
Tutela della tua posizione di amministratore o imprenditore
Recupero della fiducia di clienti, fornitori e collaboratori
Salvataggio dell’impresa e dei posti di lavoro

Attendere o nascondere la crisi peggiora solo la situazione. Ma con la giusta strategia e gli strumenti giuridici previsti oggi, è possibile ristrutturare anche aziende gravemente indebitate, senza passare per il fallimento.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in ristrutturazione aziendale e composizione della crisi d’impresa ti spiega come ristrutturare un’azienda in difficoltà, quali sono gli strumenti previsti dalla legge e cosa fare per salvare la tua impresa.

Hai un’azienda in crisi e vuoi sapere se puoi ristrutturarla senza fallire? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Valuteremo la tua situazione aziendale e ti diremo se puoi accedere a una procedura protetta per salvare l’impresa e ridurre i debiti.

Introduzione

In Italia la disciplina del risanamento delle imprese in crisi è stata profondamente rinnovata con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) (D.Lgs. 14/2019) e successive modifiche. Questo nuovo corpus normativo, definitivamente efficace dal 15 luglio 2022 dopo vari rinvii, ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare del 1942 introducendo strumenti più moderni e flessibili per affrontare situazioni di difficoltà aziendale. L’obiettivo della riforma è favorire l’emersione tempestiva della crisi e privilegiare, ove possibile, le soluzioni di ristrutturazione del debito e di continuità aziendale rispetto alla liquidazione giudiziale (il “fallimento” nella nuova terminologia). Le innovazioni recepiscono anche i principi della Direttiva UE 2019/1023 in materia di ristrutturazioni preventive, come ad esempio la possibilità di omologare piani non approvati da tutte le classi di creditori (c.d. cross-class cram down) e l’adozione della Relative Priority Rule (RPR) nei piani in continuità.

Questa guida, aggiornata a luglio 2025, analizza in dettaglio come ristrutturare un’azienda in crisi dal punto di vista del debitore (imprenditore o società), esaminando gli strumenti previsti dal CCII e dalla normativa collegata. Si affronteranno i concetti chiave di crisi e insolvenza, gli obblighi di monitoraggio posti a carico degli amministratori, e tutte le possibili procedure di regolazione della crisi – sia stragiudiziali (negoziate privatamente) che concorsuali (giudiziali) – inclusi i più recenti strumenti introdotti (come la composizione negoziata della crisi e il concordato semplificato). Verranno citate le novità normative fino al 2025 – ad esempio le modifiche del c.d. “Decreto Correttivo Ter” (D.Lgs. 136/2024 in vigore dal 28 settembre 2024) – nonché le pronunce giurisprudenziali più autorevoli e recenti (Cassazione e tribunali) che hanno interpretato tali norme. Troverete inoltre tabelle riepilogative per confrontare i diversi strumenti, una sezione di domande e risposte frequenti, e alcune simulazioni pratiche di casi di crisi aziendale e relativi percorsi di risanamento, il tutto con un linguaggio tecnico-giuridico ma di taglio divulgativo comprensibile anche per imprenditori e professionisti non giuristi.

Premessa fondamentale: dal punto di vista del debitore in difficoltà, la tempestività è cruciale. La legge oggi impone agli amministratori di adottare misure organizzative per intercettare presto i segnali di crisi e attivarsi per affrontarli. Un’azienda in tensione finanziaria ha diverse opzioni per ristrutturare i debiti, evitando se possibile la perdita di controllo e i danni reputazionali di un fallimento. Vediamo dunque come riconoscere uno stato di crisi e quali sono, in concreto, gli strumenti a disposizione dell’imprenditore per salvare l’impresa o, quantomeno, gestirne l’insolvenza in modo ordinato.

Crisi d’impresa: definizioni e obblighi di emersione tempestiva

Crisi vs insolvenza: definizioni normative

Il CCII distingue chiaramente tra stato di crisi e stato di insolvenza. L’art. 2 del Codice fornisce le definizioni ufficiali: per “crisi” si intende “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. In altre parole, la crisi è una situazione di tensione finanziaria in cui, pur non essendo ancora in default, l’azienda prevede di non riuscire a pagare regolarmente i debiti futuri con le risorse e i flussi previsti. Si tratta dunque di uno stadio pre-insolvenza, caratterizzato da squilibri di bilancio o di cassa che, se non corretti, condurranno verosimilmente all’insolvenza.

Per “insolvenza”, invece, si intende “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. L’insolvenza è dunque la conclamata incapacità finanziaria di far fronte ai debiti scaduti: ad esempio mancato pagamento reiterato di fornitori, stipendi, rate di mutuo, ecc. È uno stato irreversibile di illiquidità o incapienza patrimoniale tale da giustificare l’apertura di una procedura concorsuale liquidatoria (liquidazione giudiziale, ex “fallimento”) salvo che intervengano soluzioni concordate con i creditori.

Accanto a crisi e insolvenza, il Codice definisce anche il “sovraindebitamento” come lo stato di crisi o insolvenza che riguarda soggetti non fallibili: consumatori, professionisti, piccole imprese sotto soglia, imprenditori agricoli, start-up innovative, ecc.. Su questi torneremo più avanti, trattando gli strumenti speciali a loro dedicati (come il concordato minore e la ristrutturazione dei debiti del consumatore).

In sintesi: la crisi è una difficoltà seria ma potenzialmente reversibile (insolvency likely), l’insolvenza è la difficoltà ormai sfociata in default attuale (insolvency actual). La distinzione è importante perché molti strumenti di allerta e ristrutturazione possono e devono essere attivati già in fase di crisi prima che sopraggiunga l’insolvenza conclamata. Il CCII incoraggia il ricorso agli strumenti di composizione negoziata e concordata della crisi “tempestivamente, quando ragionevolmente può essere perseguito il risanamento” (come recita l’art. 4 CCII). Inoltre, tenere aperta un’attività in stato di insolvenza senza adottare misure costituisce un illecito (potenzialmente bancarotta in caso di fallimento), mentre agire allo stadio di crisi permette di salvare valore aziendale.

Segnali di allarme e dovere di intervento degli amministratori

Una delle innovazioni centrali del nuovo Codice è l’enfasi sulla prevenzione. Gli amministratori di società hanno l’obbligo legale di dotare l’impresa di “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili” (art. 2086 c.c., come riformulato dal D.Lgs. 14/2019) idonei a rilevare tempestivamente la crisi e a prendere le necessarie iniziative. In pratica, l’organo gestorio deve attivare sistemi di monitoraggio di indici finanziari, flussi di cassa e altri indicatori che segnalino squilibri. Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ha emanato apposite checklist e indici di allerta (ad esempio l’indice di DSCR – Debt Service Coverage Ratio – inferiore a 1) per misurare la sostenibilità del debito. Segnali tipici di possibile crisi includono: ritardi nei pagamenti di debiti tributari o previdenziali, stipendi arretrati oltre 30 giorni per oltre la metà dell’ammontare mensile, fornitori scaduti da oltre 90 giorni per importi superiori ai debiti non scaduti, sconfini bancari persistenti oltre 60 giorni oltre una certa soglia, ecc.. La presenza di questi elementi impone agli amministratori di attivarsi.

Il dovere di intervento tempestivo significa che gli amministratori devono non ignorare i sintomi di difficoltà. Il Tribunale di Catanzaro ha osservato che “in tema di crisi d’impresa, la violazione dell’obbligo di predisporre assetti adeguati è tanto più grave quando la società non si trova ancora in crisi, perché proprio in tale fase essa ha le risorse per adottare misure efficaci”. Dunque non ci sono scuse per attendere l’ultimo momento: quando emergono i segnali di allarme, il management deve valutare le opzioni di risanamento e avviare trattative con i creditori o ricorrere agli strumenti offerti dal legislatore.

Va ricordato che, accanto agli amministratori, anche l’organo di controllo (collegio sindacale o revisore) ha obblighi di segnalazione. Dopo le modifiche del 2023-2024, la legge prevede una “segnalazione interna anticipata”: il sindaco o revisore che rilevi fondati indizi di crisi deve segnalare per iscritto agli amministratori tali elementi, sollecitandoli a reagire. Nella comunicazione deve fissare un termine (non oltre 30 giorni) entro cui il consiglio di amministrazione riferisca le iniziative intraprese. Questo meccanismo di allerta interna mira a scongiurare inerzie colpose. Se gli amministratori ignorano la segnalazione, i sindaci potranno eventualmente riferire al tribunale nelle forme previste (ad esempio possono chiedere la convocazione d’urgenza dell’assemblea ex art.2406 c.c., o segnalare situazioni di grave irregolarità).

Esempio: Un’azienda che accumula debiti IVA elevati e non li paga per mesi, o che paga sistematicamente i fornitori con 120 giorni di ritardo, sta manifestando segnali di allarme. Gli amministratori in tal caso devono immediatamente valutare un piano di rientro o di ristrutturazione del debito. Se non lo fanno e la situazione degenera in insolvenza, potranno essere chiamati a rispondere di mala gestione dai creditori o dal curatore fallimentare (ex art. 2394 c.c. e 2394-bis c.c.). In effetti, la mancata adozione di adeguati assetti e il ritardo nell’istanza di procedura concorsuale aggravando il dissesto costituiscono spesso colpa grave degli amministratori, fonte di responsabilità personale.

Inoltre, il CCII (art. 24 e 25) prevedeva anche segnalazioni esterne da parte di creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, INPS, agente della riscossione) al superamento di certe soglie di debito scaduto. Questo sistema di “allerta esterna” è stato però sospeso durante l’emergenza Covid e rinviato; in sua vece, dal 2021 è stato introdotto lo strumento volontario della composizione negoziata (di cui diremo a breve). Resta comunque inteso che un forte indebitamento fiscale o contributivo è uno degli indicatori di crisi: oggi l’Agenzia delle Entrate-Riscossione notifica all’impresa un invito a presentare istanza di composizione negoziata se i debiti fiscali superano determinate soglie, in attesa che entri in vigore l’allerta pienamente coercitiva.

Soluzioni privatistiche e dovere di evitare la decozione

Quando i segnali di crisi ci sono, gli amministratori devono valutare piani di risanamento. Tenere “la testa sotto la sabbia” sperando in eventi risolutivi esterni è estremamente rischioso. L’ordinamento, anzi, prevede l’obbligo di chiedere un procedimento concorsuale (concordato o liquidazione giudiziale) senza indugio appena si verifica lo stato di insolvenza, e comunque prima che l’aggravamento pregiudichi irreparabilmente i creditori. Il CCII non fissa un termine perentorio in giorni, ma il principio è chiaro: il ritardo colpevole nell’attivare strumenti di regolazione della crisi costituisce violazione di legge. Pertanto, per l’imprenditore è essenziale muoversi per tempo: se la situazione è ancora di crisi reversibile, si possono adottare soluzioni come accordi con i creditori o l’accesso alla composizione negoziata; se ormai si è insolventi ma con possibilità di ristrutturare, si può avviare un concordato preventivo; se invece non vi sono prospettive di risanamento, meglio prendere atto della situazione e optare per una liquidazione ordinata (che sia una liquidazione giudiziale o, per le piccole imprese, una liquidazione controllata ex legge sul sovraindebitamento).

Ricordiamo infine che l’omesso pagamento di IVA e ritenute configura reati tributari se supera determinate soglie, e che proseguire l’attività in dissesto può aggravare la posizione anche sotto il profilo penale (bancarotta semplice o fraudolenta se poi interviene il fallimento). Dal punto di vista del debitore, quindi, affrontare la crisi con trasparenza e buona fede è doppiamente conveniente: aumenta le chance di salvataggio dell’azienda e tutela gli amministratori da conseguenze civili e penali.

Nei paragrafi successivi esamineremo i vari strumenti di ristrutturazione disponibili, distinguendo tra quelli stragiudiziali (accordi e piani raggiunti privatamente col consenso dei creditori coinvolti) e quelli concorsuali o para-concorsuali (che richiedono l’intervento o l’omologazione da parte del tribunale). La scelta dello strumento adatto dipende dalla gravità della crisi, dalla struttura dell’indebitamento, e dal livello di consenso che si può ottenere dai creditori. È fondamentale conoscere le caratteristiche di ciascun istituto per capire quale sia il percorso più efficace per ristrutturare la propria azienda in crisi.

Strumenti stragiudiziali di ristrutturazione del debito

In prima battuta, un’impresa in crisi potrebbe tentare di risanarsi tramite soluzioni extragiudiziali, ossia senza aprire formalmente una procedura concorsuale. Queste soluzioni hanno il vantaggio della maggiore riservatezza e flessibilità, evitando lo stigma di un coinvolgimento del tribunale, ma richiedono in genere il consenso (anche informale) della maggior parte dei creditori. Nel CCII gli strumenti principali di questo tipo sono: il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti (in varie forme), e il nuovo istituto della composizione negoziata della crisi. Vediamoli in dettaglio.

Composizione negoziata della crisi

La composizione negoziata è uno strumento introdotto con il D.L. 118/2021 (convertito nella L. 147/2021) e ora disciplinato nel CCII (artt. 17-25 quinquies CCII). Si tratta di un percorso volontario e riservato in cui l’imprenditore in crisi (anche già insolvente, dopo il correttivo 2024)chiede l’affiancamento di un esperto indipendente per tentare una mediazione con i creditori e trovare soluzioni per il risanamento. L’idea è fornire un “percorso guidato” di negoziazione assistita: l’esperto, nominato da una commissione presso la Camera di Commercio, analizza la situazione aziendale e facilita le trattative tra debitore e creditori, aiutando a individuare possibili accordi (piani di rientro, nuovi finanziamenti, ristrutturazione dell’indebitamento, cessione dell’azienda etc.).

Accesso: Può accedere alla composizione negoziata qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualunque dimensione, che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario e ritenga di avere concrete chance di risanamento (i presupposti non sono rigidamente definiti in termini di bilanci, basta la situazione di crisi o insolvenza reversibile). Dal 2024 non è più richiesto che l’impresa non sia insolvente: anche chi è già in insolvenza conclamata può provare questa strada, a patto che vi sia prospettiva di recupero della continuità (prima della riforma 2024 l’accesso formale era limitato allo stato di crisi, ora si è esteso de iure anche agli insolventi per incentivare soluzioni negoziate in extremis).

Procedura: L’imprenditore presenta istanza tramite una piattaforma telematica nazionale, allegando informazioni economico-patrimoniali e indicazione delle cause della crisi. Viene nominato un esperto (di norma un commercialista o avvocato con specifica formazione, pescato dall’Albo degli esperti della crisi tenuto dal Ministero della Giustizia). L’esperto verifica preliminarmente se esistono possibilità di risanamento – redigendo una prima relazione – e, in caso positivo, guida il processo. Le trattative coi creditori si svolgono in modo confidenziale: l’apertura della procedura non è di per sé pubblica, a meno che l’imprenditore richieda misure protettive (si iscriverà allora un avviso al Registro delle Imprese). L’esperto organizza incontri tra debitore e principali creditori, esamina eventuali piani o offerte, formula egli stesso proposte se opportuno. Ha il compito di mantenere la terzietà e stimolare le parti a soluzioni eque. L’imprenditore rimane pienamente in carica e continua a gestire l’azienda durante la negoziazione (non c’è spossessamento né nomina di organi commissariali).

Misure protettive: Per facilitare le trattative, il debitore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive del patrimonio, cioè una sospensione temporanea delle azioni esecutive o cautelari dei creditori. Tali misure, simili all’automatic stay, non sono automatiche ma vanno richieste con ricorso e concesse dal giudice se ricorrono i presupposti (la legge richiede che vi siano concrete trattative in corso e che la sospensione non arrechi ingiusto pregiudizio ai creditori coinvolti). La concessione può riguardare tutti o parte dei creditori, anche solo alcune categorie, secondo le necessità. Dalla pubblicazione del ricorso per misure protettive nel Reg. delle Imprese, e per massimo 4 mesi (prorogabili di 4), i creditori a cui le misure si riferiscono non possono iniziare o proseguire pignoramenti o ipoteche né acquisire nuove prelazioni sui beni del debitore. Inoltre, per legge, durante le misure protettive non può essere dichiarato il fallimento (liquidazione giudiziale) del debitore. È importante notare che, secondo il Tribunale di Roma (ord. 26 maggio 2025), le misure protettive della composizione negoziata non si trasformano mai in misure “cautelari” di tipo più ampio: se servono provvedimenti specifici (ad es. sospendere un contratto in corso, impedire la revoca di un fido bancario, ecc.), vanno richiesti separatamente come misure cautelari ex art. 54 c.1 CCII. In pratica, il debitore può ottenere uno scudo mirato dalle azioni dei creditori mentre cerca l’accordo, ma il giudice valuta caso per caso l’estensione e la durata di tale scudo, confermandolo entro 30 giorni dalla richiesta. I creditori dal canto loro possono opporsi o chiedere la revoca delle misure se il debitore agisce in malafede o le trattative si rivelano infruttuose.

Esito della composizione negoziata: Entro un termine massimo (in genere 6 mesi, prorogabili a 12 in casi complessi), l’esperto redige una relazione finale sul percorso svolto. Se le trattative hanno successo, l’imprenditore può concludere uno o più accordi coi creditori. La forma dell’accordo non è predeterminata: può essere un semplice accordo stragiudiziale privato, oppure assumere veste di uno degli strumenti concorsuali previsti (ad esempio un accordo di ristrutturazione omologato o un concordato preventivo semplificato). Spesso il percorso negoziato funge da incubatore per costruire un accordo di ristrutturazione ex art.57 CCII da omologare poi in tribunale, o per predisporre un piano di concordato. In alternativa, le parti possono perfezionare contratti di ristrutturazione del debito (es: moratorie, nuove finanze assistite da privilegio, cessione di azienda a un terzo investitore, ecc.) anche senza ricorrere all’omologazione se riescono a ottenere il consenso di tutti i creditori coinvolti. – Se invece le trattative non hanno avuto esito (ad es. i creditori non accettano alcuna proposta ragionevole), l’imprenditore ha comunque due opportunità per evitare il fallimento immediato: (1) può chiedere l’accesso a un concordato preventivo tradizionale (anche in bianco con riserva di presentare il piano), oppure (2) se ricorrono i presupposti, proporre al tribunale un concordato semplificato per la liquidazione (strumento introdotto proprio come “via d’uscita” dalla composizione fallita). Su quest’ultimo torneremo dettagliatamente più avanti. In entrambi i casi, la relazione finale dell’esperto – che attesta la corretta condotta del debitore e l’impossibilità di soluzione extra-giudiziale – è un documento chiave che deve essere allegato alla domanda di concordato (ordinario o semplificato). In particolare, per accedere al concordato semplificato è necessario che l’esperto nella relazione dichiari che non sono praticabili soluzioni alternative e che il debitore ha agito con buona fede durante le trattative.

Vantaggi e limiti: La composizione negoziata è pensata per intervenire precocemente, prima che la situazione precipit(i). I suoi punti di forza dal lato del debitore sono: riservatezza (nessuna pubblicità a meno di misure protettive, e comunque meno impatto reputazionale di un concordato), flessibilità negoziale (si possono trovare soluzioni su misura fuori dagli schemi rigidi di legge, purché i creditori chiave siano d’accordo), nessuna perdita di gestione (l’imprenditore resta al comando, affiancato ma non sostituito), eventuale possibilità di ottenere uno stay mirato e di contrarre nuova finanza prededucibile con autorizzazione del tribunale (i finanziamenti necessari durante le trattative, se autorizzati, godono di privilegio di prededuzione ex art. 21 CCII). Inoltre l’esperto funge da mediatore credibile, migliorando la fiducia dei creditori nelle prospettive di risanamento.

Di contro, i limiti sono: la procedura è volontaria e non vincola i creditori a trovare un accordo – quindi se non c’è sufficiente collaborazione o convenienza economica per i creditori, può risolversi in un nulla di fatto; durante la fase negoziale, a meno di misure protettive, i creditori possono comunque agire (pignoramenti, decreti ingiuntivi, ecc.) e ciò può mettere pressione sul debitore; anche le misure protettive, se concesse, hanno durata breve (pochi mesi) e richiedono di convincere il giudice che esiste un progetto serio di risanamento (in caso contrario il tribunale potrebbe revocarle o non prorogarle). Inoltre, la composizione negoziata non consente di imporre sacrifici ai creditori dissenzienti: qualsiasi accordo stragiudiziale che ne derivi avrà effetto solo con il consenso di ciascun creditore coinvolto, salvo poi omologarlo come accordo ex art.57 (vedi oltre) per estenderlo erga omnes. In sintesi, è uno strumento prezioso per imprese in crisi precoce e con un nucleo di creditori disponibili al dialogo – tipicamente banche e fornitori strategici – ma non risolve situazioni di insolvenza irreversibile dove serve l’intervento autoritativo del giudice.

Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII)

Il piano attestato di risanamento è lo strumento più “snello” e interamente privatistico per affrontare una crisi d’impresa. Esso consiste in un piano di risanamento aziendale, di natura strettamente contrattuale, predisposto dall’imprenditore con l’ausilio di professionisti e asseverato da un esperto indipendente circa la sua fattibilità. Il fondamento normativo attuale è l’art. 56 CCII, che ricalca l’istituto già noto nell’art. 67, co.3, lett. d) della vecchia legge fallimentare.

Cos’è e come funziona: In pratica l’imprenditore elabora un piano economico-finanziario pluriennale volto a riequilibrare la situazione aziendale (turnaround plan): possono essere previste ristrutturazioni operative (taglio costi, dismissione di rami d’azienda, aumento di capitale) e finanziarie (allungamento scadenze dei debiti, remissioni parziali, conversione di crediti in azioni, ecc.). Su questo piano un professionista indipendente (revisore, commercialista o altra figura con i requisiti di legge) rilascia un’attestazione formale in cui dichiara che – sulla base delle informazioni fornite – il piano è idoneo a garantire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e a assicurare l’equilibrio finanziario. Il piano attestato viene poi eseguito dall’imprenditore privatamente: non c’è alcun intervento del tribunale né votazione dei creditori. In effetti, i creditori non sono parti necessarie del piano attestato: alcuni possono aderirvi (ad esempio accettando una dilazione o uno stralcio del credito secondo il piano), altri potrebbero restarne estranei e tuttavia essere pagati regolarmente secondo le scadenze originarie. L’impresa, per parte sua, deve improntare la gestione ai contenuti del piano e rispettare gli impegni presi.

Perché farlo? Il vantaggio principale del piano attestato è che, se efficacemente eseguito, consente di superare la crisi senza alcuna pubblicità né procedura concorsuale – quindi l’azienda esce “pulita” dal periodo difficile senza essere passata per il tribunale. Ma soprattutto, anche qualora il piano non andasse a buon fine e si finisse in fallimento, il piano attestato offre una protezione legale: le operazioni poste in essere in esecuzione del piano attestato non possono essere soggette ad azione revocatoria fallimentare (art. 56 co.3 CCII, ex art.67 L.F.). Ciò significa che, se il debitore durante il piano ha pagato alcuni creditori o ha venduto beni secondo quanto previsto dal piano medesimo, il curatore fallimentare non potrà far annullare quei pagamenti/vendite come invece potrebbe in assenza di un piano (evitando la tagliola della revocatoria per atti preferenziali nei sei mesi/anno prima del fallimento). Questa “safe harbor” incentiva i creditori a collaborare nel piano, sapendo che le soddisfazioni ottenute non saranno toccate a posteriori. Inoltre la giurisprudenza considera il piano attestato un esimente anche per eventuali contestazioni penali di bancarotta preferenziale, in quanto atto giuridicamente legittimo finalizzato al risanamento.

Limiti: Di contro, il piano attestato non vincola affatto i creditori non consenzienti. È un accordo di natura privatistica: ogni creditore è libero di accettare o meno le modifiche proposte. Quindi il suo campo d’azione è tipicamente quando l’impresa ha pochi creditori principali e relativamente “allineati” (es: un pool di banche) disposti a concedere ristrutturazioni del credito, mentre i creditori minori vengono pagati regolarmente. Se invece c’è una platea vasta di creditori e si vuole imporre erga omnes una falcidia o una moratoria, il piano attestato non è sufficiente – occorrerà un accordo di ristrutturazione o un concordato. Inoltre il piano attestato non offre misure protettive automatiche: i creditori, se non soddisfatti, possono comunque agire esecutivamente durante l’attuazione del piano. Pertanto questo strumento funziona solo se c’è una certa consensualità di fatto e fiducia tra debitore e creditori. Spesso il piano attestato viene utilizzato quando la crisi non è ancora pubblica: l’imprenditore in silenzio rinegozia magari con le banche delle moratorie e nuova finanza, predispone un piano industriale credibile, lo fa certificare da un esperto e lo segue, evitando così di dover ricorrere al tribunale.

Esecuzione e forma: Non c’è un requisito di forma pubblica (il piano non va omologato né depositato in tribunale). Tuttavia, per poter opporre l’esenzione da revocatoria, la legge richiede che il piano e l’attestazione siano pubblicati nel Registro delle Imprese (art.56 co.2 CCII). In pratica, bisogna depositare presso il Registro un estratto del piano e la dichiarazione dell’attestatore. Ciò rende conoscibile ai terzi l’esistenza del piano (quantomeno a posteriori). L’attestatore risponde professionalmente della veridicità dei dati aziendali e della plausibilità delle assunzioni del piano: attestazioni false o grossolanamente errate possono esporlo a responsabilità (anche penali, ex art. 236-bis L.F. esteso dal CCII). Dunque di norma sono professionisti qualificati a svolgere questo ruolo, assicurando terzietà.

Esempio tipico: La società Alpha S.p.A. ha problemi di liquidità ma è potenzialmente sana. Ha 3 banche finanziatrici e vari fornitori. Nessun creditore ha ancora avviato azioni. Alpha elabora, con un advisor finanziario, un piano di risanamento a 3 anni: l’azionista immette nuovi fondi, si vende un immobile non strategico, si tagliano alcuni costi e le banche prorogano le linee di credito in cambio di un piano di rimborso graduale e garanzie aggiuntive. Un commercialista indipendente attesta che, se tutte le misure del piano verranno attuate, Alpha potrà tornare in bonis e pagare tutti i debiti alle nuove scadenze. Le banche sottoscrivono accordi bilaterali con Alpha per allungare i mutui (quindi aderiscono al piano); i fornitori vengono pagati regolarmente o con lievi ritardi (non serve il loro consenso formale). Il piano e l’attestazione sono depositati per conoscenza nel Registro Imprese. Alpha esegue diligentemente il piano: dopo 3 anni esce dalla situazione di stress finanziario, avendo evitato il default. – Se per ipotesi dopo 1 anno Alpha fosse comunque fallita, i pagamenti fatti alle banche e fornitori secondo il piano non sarebbero revocabili (purché effettuati entro i limiti del piano attestato).

In conclusione, il piano attestato è uno strumento di risoluzione “in bonis” della crisi: l’azienda non entra mai tecnicamente in procedura concorsuale e mantiene integra la propria reputazione, a patto di avere la cooperazione dei creditori più importanti e un piano realmente sostenibile.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD)

Gli accordi di ristrutturazione sono una soluzione “mista” tra il piano privatistico e il concordato giudiziale. Previsti dagli artt. 57-64 CCII (originariamente introdotti nel 2005 come art. 182-bis L.F.), consistono in uno o più accordi negoziati tra l’imprenditore e una quota qualificata dei creditori, finalizzati a ristrutturare l’indebitamento, che vengono poi omologati dal tribunale acquisendo efficacia vincolante anche verso eventuali creditori dissenzienti o non aderenti. In sostanza l’imprenditore raggiunge un accordo consensuale con la maggior parte dei creditori (tipicamente prevedendo dilazioni, stralci parziali, conversione di crediti in capitale, ecc.), dopodiché si rivolge al tribunale per rendere quell’accordo legalmente efficace verso tutti i creditori coinvolti.

Rispetto al piano attestato, qui vi è coinvolgimento del giudice limitatamente alla fase conclusiva di omologazione, ma la procedura rimane più snella e rapida di un concordato preventivo: non c’è voto in adunanza, non c’è commissario giudiziale (salvo su richiesta), l’accordo è frutto di trattativa privata e solo chi vi partecipa ne subisce gli effetti. Vediamo i punti chiave:

  • Soggetti ammessi: l’imprenditore commerciale in stato di crisi o insolvenza (anche non fallibile, secondo la prevalente interpretazione) può proporre ai creditori un accordo ex art.57 CCII. Il CCII consente anche al debitore non commerciale sovraindebitato di fare un accordo di ristrutturazione dei debiti del consumatore, ma questo rientra nelle procedure di sovraindebitamento disciplinate a parte (artt. 67 e ss. CCII, ne parleremo più avanti).
  • Contenuto: l’accordo può riguardare tutti o parte dei creditori. Spesso coinvolge finanziatori e fornitori principali, mentre garantisce il pagamento integrale degli altri (creditori estranei). L’art. 57 richiede che attraverso l’accordo l’impresa possa superare la crisi e assicurare l’integrale soddisfazione dei creditori estranei nei termini di legge. In pratica i creditori non aderenti devono per legge essere pagati per intero entro 120 giorni dall’omologazione (o 180 giorni se trattasi di crediti finanziari o tributi, eventualmente nei loro termini di scadenza se successivi). Questa è una differenza cruciale rispetto al concordato: nell’accordo di ristrutturazione, i dissenting creditors non subiscono perdite (li si deve pagare cash alle scadenze), altrimenti l’omologazione non può avvenire. La logica è: ti si concede di vincolare i non aderenti, ma solo se non li pregiudichi (salvo il differimento entro quei termini brevi previsti ex lege). Di conseguenza, il peso della ristrutturazione viene sopportato dai creditori che aderiscono volontariamente all’accordo (accettando ad esempio un taglio del credito o un piano di pagamento dilazionato). I creditori che restano fuori dall’accordo dovrebbero essere pagati integralmente. Questa caratteristica rende gli ADR adatti a situazioni in cui il numero di creditori è relativamente limitato o dove esiste un nocciolo duro di creditori finanziari con cui si può trattare il sacrificio, mentre i piccoli creditori vengono garantiti al 100% per evitare opposizioni.
  • Quorum di adesione: il requisito di maggioranza per poter richiedere l’omologazione è che l’accordo sia sottoscritto da creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. Questa soglia (60%) è invariata rispetto alla vecchia legge fallimentare. Attenzione: non è un voto di teste o per classi, conta il valore. Occorre quindi mettere insieme accordi individuali con abbastanza creditori (singoli o raggruppati) che cumulate arrivino a 60% dell’ammontare dei debiti. I creditori privilegiati contano per il loro credito per la parte non coperta da garanzia se rinunciano parzialmente al privilegio; se non aderiscono o sono pagati integralmente, non influenzano il quorum. – Novità: Il CCII ha introdotto alcune varianti: l’accordo di ristrutturazione agevolato e l’accordo ad efficacia estesa, che vedremo tra poco, con soglie diverse.
  • Procedimento: Una volta raccolte le adesioni necessarie e predisposto un piano economico-finanziario a supporto dell’accordo, l’imprenditore presenta ricorso al tribunale chiedendone l’omologazione. Devono essere depositati la documentazione contabile, l’accordo con le firme, una relazione di un attestatore indipendente sulla fattibilità dell’accordo e sulla sua idoneità ad assicurare il pagamento dei creditori estranei nei termini (è richiesta la relazione dell’attestatore anche qui, simile a quella del piano attestato, ma focalizzata su questo aspetto). Il tribunale, verificati i presupposti di legge (percentuale di adesioni raggiunta, regolarità formale, informativa corretta ai creditori) e valutata la meritevolezza del piano, convoca un’udienza per eventuali opposizioni dei creditori non aderenti (o aderenti dissenzienti) e quindi decide sull’omologazione con decreto. Se non vi sono opposizioni, il giudice può omologare in tempi rapidi. Se ci sono opposizioni, il tribunale valuta se l’accordo è comunque conveniente per i creditori estranei (cioè se riceveranno quanto a loro dovuto integralmente) e se gli aderenti sono sufficienti; può anche rigettare l’omologa se ritiene che il debitore abbia agito con frode o che l’accordo non assicuri la sostenibilità.
  • Effetti dell’omologazione: Con il decreto di omologazione, l’accordo diventa efficace erga omnes. I creditori aderenti restano vincolati ai nuovi termini convenuti. I creditori non aderenti, pur mantenendo diritto al pagamento integrale, subiscono una moratoria legale: infatti la legge prevede che dal momento della presentazione del ricorso di omologa, e per effetto dell’omologa stessa, i crediti anteriori non possono essere soddisfatti se non secondo l’accordo. In pratica i pagamenti verso tutti i creditori antecedenti sono sospesi fino all’omologazione, e poi gli estranei dovranno attendere le scadenze massime di legge (120-180 gg) per essere soddisfatti. Durante questo periodo, se necessario, il debitore può aver richiesto al tribunale misure protettive analoghe a quelle del concordato per congelare le azioni esecutive (anche negli ADR, infatti, è possibile chiedere la sospensione delle azioni nel mentre che si deposita l’accordo e si attende l’omologa, come previsto dagli artt. 54-55 CCII applicabili anche agli accordi). Con l’omologa, inoltre, cessano eventuali procedure concorsuali in corso: ad esempio, se pendeva un’istanza di fallimento, questa viene dichiarata improcedibile in virtù dell’accordo omologato salvo inadempimenti successivi. – Di converso, se poi il debitore non rispetta l’accordo omologato, i creditori possono agire esecutivamente per i propri crediti residui o chiedere il fallimento. La Cassazione (sent. 32996/2024) ha chiarito che l’apertura di un fallimento successiva all’omologazione risolve automaticamente l’accordo per impossibilità sopravvenuta, ripristinando i crediti originari dei partecipanti (al netto di quanto eventualmente incassato) da far valere integralmente nel fallimento. Inoltre le Sezioni Unite hanno stabilito che anche i creditori aderenti hanno legittimazione a chiedere il fallimento del debitore inadempiente, senza dover prima ottenere una risoluzione giudiziale dell’accordo (risolvendo un precedente contrasto). Questo a maggior ragione dopo la riforma: il CCII infatti prevede espressamente che, in caso di successivo default, il tribunale possa aprire la liquidazione giudiziale su istanza di qualunque creditore, senza passaggi intermedi (art. 48, co.4 e art. 119 CCII).
  • Protezione per i coobbligati: Un aspetto delicato è il rapporto con eventuali fideiussori o coobbligati del debitore. L’art. 59 CCII dispone che l’omologazione di un accordo di ristrutturazione produce – analogamente all’adempimento – la liberazione dei fideiussori per i crediti inclusi nell’accordo. Cioè, se il creditore accetta nell’accordo di stralciare parzialmente il suo credito verso il debitore principale, tale remissione si estende ai garanti (salvo patto contrario). In passato la legge ammetteva un’eccezione per il Fisco: il creditore pubblico dissenziente poteva proseguire verso i garanti anche se il debitore sanava il debito in un accordo. Ma la giurisprudenza recente ha precisato che quando il debito tributario viene comunque trattato nell’accordo e l’accordo è omologato, l’Erario diviene parte dell’accordo a tutti gli effetti (anche se non aveva formalmente aderito, in virtù della omologazione “cram-down” ex art.63 c.4 CCII) e dunque non può rivalersi sui fideiussori del debitore per la parte rimessa. Ad esempio, la Corte d’Appello di Brescia (30 giugno 2025) ha escluso che l’Agente della Riscossione possa escutere i coobbligati per un debito fiscale dopo che l’accordo del debitore principale è stato omologato, poiché l’omologa vincolante ha liberato anche i garanti.

Gli accordi di ristrutturazione base presentano dunque questi caratteri. Il CCII, in attuazione della direttiva UE, ne ha esteso le potenzialità introducendo varianti importanti, che ora illustriamo:

Accordo di ristrutturazione “agevolato” (art. 60 CCII): è una forma semplificata di ADR pensata per favorire la rapida emersione della crisi. Prevede una soglia di adesione ridotta al 30% dei crediti totali (invece del 60%). In sostanza, basta accordarsi con creditori rappresentanti il 30% dell’esposizione per poter poi chiedere l’omologazione. Questa agevolazione però ha un costo: il debitore non deve aver richiesto misure protettive o cautelari e non deve prevedere una moratoria dei crediti estranei nell’accordo. Significa che, affinché sia ammessa la soglia dimezzata, il piano non può imporre dilazioni di pagamento ai creditori non aderenti (vanno pagati alle loro scadenze contrattuali originarie) e il debitore rinuncia alla protezione anti-esecuzione durante la trattativa e la fase di omologa. Questa forma è quindi utile se la crisi è colta molto precocemente: l’imprenditore non è ancora bersaglio di azioni esecutive generalizzate e riesce in tempi brevi a convincere almeno un terzo dei creditori (magari le banche) ad aderire. In cambio ottiene comunque con l’omologa l’efficacia generale e la protezione dai singoli creditori che hanno aderito, oltre alla solita esenzione da revocatorie e prededuzione per i nuovi finanziamenti. L’assenza di misure protettive implica che tra deposito e omologa i creditori potrebbero attaccare: ma data la soglia bassa, di solito l’accordo agevolato viene presentato all’omologa già contestualmente all’adesione (riducendo i tempi). È uno strumento di nicchia ma può fare la differenza in crisi incipienti. (Esempio: Beta Srl è in crisi ma nessuno lo sa ancora all’esterno; ottiene immediatamente l’adesione della banca principale e di un paio di fornitori chiave che insieme coprono 35% dei debiti. Senza fare rumore né chiedere protezioni, deposita l’accordo per omologa: i creditori minori verranno pagati regolarmente, quindi non c’è motivo di opposizione. In un paio di mesi l’accordo è omologato e Beta supera la crisi con pochi strappi, avendo evitato l’apertura di un concordato).

Accordo ad efficacia estesa (art. 61 CCII): questo istituto consente di estendere gli effetti di un accordo anche ai creditori dissenzienti di una certa categoria, a patto che una maggioranza qualificata di quella categoria abbia aderito. È un meccanismo di cram-down settoriale, introdotto inizialmente col D.L. 118/2021 e ora stabilizzato nel CCII. Si applica principalmente ai creditori finanziari (banche, obbligazionisti) e, con alcuni limiti, ai fornitori strategici. In particolare, se almeno il 75% degli istituti di credito (misurati per ammontare di crediti) ha sottoscritto l’accordo, l’omologazione può renderlo vincolante anche per le banche che non hanno aderito. Similmente, se l’accordo prevede una moratoria dei crediti di fornitori essenziali per l’azienda, e la maggioranza di essi aderisce, il piano può essere esteso a quelli contrari. Questo strumento attua in parte la direttiva UE sul cross-class cram down in sede di accordo stragiudiziale, evitando che poche banche dissenzienti facciano fallire un accordo condiviso dalla maggior parte del ceto bancario. Naturalmente l’attestatore e il tribunale devono verificare che i dissenzienti non ricevano un trattamento deteriore rispetto agli aderenti della stessa classe. Di fatto, l’accordo ad efficacia estesa è una specie di concordato “parziale”: è procedura concorsuale (perché impone ad altri una ristrutturazione) ma limitata a un segmento di creditori omogeneo. Va sottolineato che l’efficacia estesa non vale per i creditori pubblici (Fisco ed enti previdenziali) né per i lavoratori (che non possono mai essere inclusi in accordi se non pagandoli integralmente).

Convenzione di moratoria (art. 62 CCII): è un particolare accordo in cui una maggioranza di creditori finanziari (75%) concorda di prorogare le scadenze dei crediti o di sospendere le azioni, e tale convenzione viene estesa ai dissenzienti della stessa categoria. È dunque limitata a differire i pagamenti (una moratoria temporale), non a ridurli, e serve a dare respiro all’impresa senza necessariamente ristrutturare in via definitiva. Questo strumento, anch’esso derivante dall’art. 182-septies L.F., ha trovato scarso impiego pratico autonomo, perché spesso la moratoria è parte di un più ampio accordo di ristrutturazione. Resta utile però se un’impresa temporaneamente illiquida vuole congelare per qualche mese le pretese delle banche in attesa di una ripresa (e riesce a convincerne la maggior parte).

Transazione fiscale e contributiva (art. 63 CCII): è la disciplina speciale per includere debiti tributari e previdenziali in un accordo di ristrutturazione. In passato tali debiti erano difficilmente falcidiabili perché gli enti spesso non aderivano. Oggi, il debitore può proporre nel suo accordo il pagamento parziale o dilazionato di imposte e contributi, e se Agenzia Entrate o INPS non aderiscono, è possibile chiedere comunque l’omologazione con cram-down di tali posizioni purché siano rispettate certe condizioni. Le norme (modificate dalla L. 176/2020 e ora dal correttivo 2024) prevedono che il piano offra ai crediti fiscali/previdenziali una soddisfazione almeno pari al miglior ricavabile nel fallimento e comunque non inferiore a determinate percentuali (collegata alla presenza di eventuali privilegio). Il legislatore ha recentemente alzato le soglie minime di recupero richieste per poter forzare il cram-down, con l’intento di tutelare maggiormente l’erario. Ad esempio, può essere necessario garantire il pagamento di almeno il 30-40% del credito fiscale chirografario perché il giudice possa omologare l’accordo anche senza il voto del Fisco. Inoltre se il debito verso il fisco costituisce oltre l’80% dell’indebitamento totale, la norma esclude la possibilità di cram-down fiscale (perché in tal caso l’accordo sarebbe di fatto privo di consenso rilevante da parte di creditori “privati”). In pratica, la transazione fiscale consente al debitore meritevole di non essere ostacolato da un rifiuto “irragionevole” del Fisco, ma impone che l’erario riceva un trattamento proporzionato e comunque migliore di quello che otterrebbe da una liquidazione (relative priority: il Fisco, spesso parzialmente chirografario, non può prendere meno in percentuale di creditori di grado inferiore). Nel 2024 la Cassazione ha chiarito che nel cram-down fiscale il giudice deve assicurare il rispetto della priorità relativa: ad esempio, se il Fisco ha parte del credito chirografario, quel credito non può ricevere un dividendo inferiore a quello offerto ad altri chirografari di rango inferiore. Si tratta di principi tecnici, ma che evidenziano come la tendenza sia di bilanciare l’esigenza di recupero erariale con quella di risanamento dell’impresa.

Procedura semplificata e controllo giudiziale: Un elemento attrattivo degli ADR è la rapidità: la legge fissa al tribunale un termine di 6 mesi (dall’istanza) per emettere il decreto di omologa, ma spesso si conclude molto prima se non ci sono opposizioni. Non vi è una fase di voto formalizzata né un commissario che stila relazioni (tranne che, se richiesto, il tribunale può nominare un ausiliario/esperto per verificare il piano, ma è raro). Il controllo del giudice in omologa è meno penetrante che nel concordato: egli verifica la legalità formale e l’assenza di pregiudizio ai creditori estranei, non entra nel merito delle convenienze per i creditori aderenti (che hanno già accettato). Tuttavia, la giurisprudenza ha statuito che il giudice deve comunque controllare la fattibilità del piano e la completezza delle informazioni fornite ai creditori, in quanto presidi di legalità. Ad esempio Cass. 12064/2019 (ancorché su vecchio 182-bis) precisava che il tribunale deve negare l’omologa se l’accordo appare strutturalmente inattuabile o se è evidente che i creditori estranei non saranno pagati nei termini di legge. Con il CCII, persistono questi principi, e anzi i tribunali sono chiamati a un vaglio anti-abuso: devono rigettare omologazioni di accordi solo apparenti, proposti magari allo scopo di prendere tempo senza reale prospettiva di successo.

Vantaggi per il debitore: rispetto al concordato, l’accordo di ristrutturazione è più discreto (si evita la lunga procedura concorsuale pubblica), la gestione resta interamente all’imprenditore, non si subisce il voto di potenziali creditori ostili minoritari (basta il 60% di supporto in valore), e si può calibrare su misura quali creditori includere (lasciando fuori ad esempio quelli strategici che si preferisce pagare per intero subito). Inoltre l’accordo non comporta automaticamente effetti come scioglimento di contratti (a differenza del concordato liquidatorio): l’azienda può proseguire l’attività senza l’ingerenza di un commissario, semplicemente eseguendo l’accordo. I costi procedurali sono minori (non c’è il compenso del commissario né spese di voto). Infine, l’accordo può concludersi e chiudersi in tempi brevi, riducendo l’incertezza per l’azienda.

Svantaggi e limiti: per contro, occorre un consenso molto ampio (60% o 30% con le restrizioni) prima di poter efficacemente depositare la domanda: questo implica negoziati intensi con i principali creditori preventivamente. Se la crisi è già aperta e litigiosa, raccogliere 60% di consensi può essere arduo senza la leva del concordato (dove bastano maggioranze per classi). Inoltre l’accordo standard non consente di imporre tagli ai creditori estranei: dunque se l’azienda ha troppi creditori piccoli da non poter pagare integralmente, l’ADR rischia di non essere adatto (in quel caso serve il concordato che invece può falcidiare anche i piccoli con omologa a maggioranza). Un altro limite: finché l’accordo non è omologato, un dissidente qualunque può presentare istanza di fallimento. È vero che il tribunale, se pende l’istanza di omologa, dovrebbe attendere l’esito e nel frattempo può aver concesso la protezione (che blocca le istanze di liquidazione); però in assenza di misure protettive c’è questo rischio. In più, gli accordi non risolvono le crisi di natura non finanziaria: se l’impresa è strutturalmente non redditizia, un ADR che riduca i debiti potrebbe non bastare nel lungo periodo – spesso serve anche un rinnovamento del modello di business. Da ultimo, va menzionato che l’accordo, una volta omologato, se poi l’impresa fallisce, come detto cade e i crediti risorgono al valore originario, con la sola consolazione per gli aderenti di avere avuto eventuali pagamenti in prededuzione non revocabili.

Tabella comparativa – Accordi di ristrutturazione (ordinario vs agevolato vs efficacia estesa)

CaratteristicaAccordo ordinario (art.57)Accordo agevolato (art.60)Accordo ad efficacia estesa (art.61)
Soglia adesioni≥ 60% dei crediti≥ 30% dei crediti≥ 75% della categoria (es. banche)
Misure protettiveRichiedibili (sospensione azioni)Non richiedibili (pena decadenza agevolazioni)Richiedibili (spec. verso categoria mirata)
Moratoria verso estraneiMax 120-180 gg da omologaNessuna moratoria extra oltre scadenze contrattualiMax 120-180 gg per estranei non estesi
Effetti su dissenzientiEstranei: pagati integrali nei termini (nessuna falcidia).Come accordo ord.: estranei fuori accordo vanno pagati secondo scadenze originarie (nessun differimento oltre quelle).Dissentienti della categoria specifica: vincolati agli stessi termini degli aderenti (falcidia o dilazione imposta). Estranei fuori categoria: come accordo ord.
Omologabilità senza adesione FiscoSì, con cram-down se condizioni (offerta ≥ valore liquidaz., soglie % minime).Sì, analogamente (ma spesso accordi agevolati usati in crisi iniziali con debiti fiscali contenuti).Sì, se la categoria estesa non include il Fisco (Fisco segue regole generali).
Voto/omologaNiente voto, solo adesioni individuali; omologa tribunale con possibile opposizione cred. estranei.Idem accordo ord., ma controllo che requisiti (no stay, no moratoria) siano rispettati.Idem ord., con controllo aggiuntivo equità estensione ai dissenzienti (pari trattamento nella classe).
Campo di applicazione tipicoCrisi di medie imprese con pochi creditori rilevanti disposti a trattare; necessità di rapidità e riservatezza.Crisi incipiente in cui si vuole coinvolgere solo pochi creditori chiave rapidamente, senza formalità (ad es. rinegoziazione con banche prima che la notizia trapeli).Crisi con molte banche/obbligazionisti: evitare che minoranza dissenziente blocchi l’intesa. Usato per ristrutturazioni finanziarie complesse (es. bond).

Nota: Tutte le forme di ADR richiedono un’attestazione di esperto sulla fattibilità e il rispetto dei diritti dei creditori estranei. Inoltre, l’omologa di un accordo (di qualsiasi tipo) impedisce ai creditori non aderenti di iniziare o proseguire azioni esecutive dal deposito al decreto (misure protettive) e, dopo l’omologa, consolida gli atti esecutivi compiuti in attuazione dell’accordo (non revocabili).

Passando oltre gli strumenti stragiudiziali, quando la situazione è troppo compromessa per trovare soluzioni consensuali rapide, il debitore può ricorrere alle procedure concorsuali vere e proprie per ristrutturare l’azienda.

Strumenti concorsuali per la ristrutturazione (procedure giudiziali)

Quando la crisi raggiunge uno stadio avanzato o coinvolge una platea ampia e variegata di creditori, spesso l’unica via è aprire una procedura concorsuale innanzi al tribunale, sfruttando gli strumenti che la legge offre per regolare collettivamente la crisi o l’insolvenza. Dal punto di vista del debitore che voglia ristrutturare e salvare l’azienda, la procedura principe è il concordato preventivo, nelle sue varianti (in continuità o liquidatorio). In aggiunta, il nuovo CCII ha introdotto un particolare concordato semplificato per i casi di esito infruttuoso della composizione negoziata. Esistono inoltre procedure minori (per i piccoli debitori, come il concordato minore) e la possibilità, estrema, della liquidazione giudiziale se il risanamento non è perseguibile. Analizziamo i principali istituti concorsuali utili al risanamento, evidenziando le novità apportate dalla riforma.

Concordato preventivo in continuità aziendale

Il concordato preventivo è la più nota procedura concorsuale “di soluzione” della crisi, consistente in un accordo tra il debitore e i creditori per il soddisfacimento, anche parziale, delle loro ragioni secondo un piano, sotto controllo del tribunale. Il concordato può avere due anime: in continuità, se l’azienda prosegue l’attività (direttamente dal debitore o tramite cessione/affitto a terzi) nell’ambito del piano; oppure liquidatorio, se l’obiettivo del piano è solo liquidare il patrimonio e ripartirne il ricavato tra i creditori, cessando l’attività. L’uno mira al risanamento e prosecuzione dell’impresa (magari ridimensionata), l’altro alla chiusura ordinata evitando il fallimento puro.

Presupposti: Può accedere al concordato l’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza (non è richiesto essere necessariamente insolvente, basta la crisi prospettica). A differenza degli accordi di ristrutturazione, qui l’accesso non dipende dal consenso dei creditori iniziale – il debitore può presentare la domanda di concordato di propria iniziativa, anche senza alcun accordo pregresso, e sarà poi la procedura a coinvolgere i creditori nel voto. Questo rende il concordato lo strumento adatto quando serve un intervento autorità per vincolare anche una maggioranza disomogenea di creditori.

Procedura in sintesi: Il debitore deposita un ricorso al tribunale contenente la proposta di concordato e un piano dettagliato (corredato da relazione giurata di un attestatore indipendente sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano). Se la domanda è completa e ammissibile, il tribunale dichiara aperta la procedura di concordato e nomina un Commissario Giudiziale (solitamente un professionista terzo) con funzioni di vigilanza. Da quel momento scattano automaticamente delle tutele: gli atti di straordinaria amministrazione del debitore richiedono autorizzazione del giudice delegato; i creditori anteriori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive né acquisire prelazioni (è un effetto protettivo automatico della pendenza del concordato, simile alle misure protettive, ex art. 54 CCII).

Si forma lo stato passivo (l’elenco dei crediti ammessi al voto). Quindi i creditori sono chiamati a votare sulla proposta di concordato. Il CCII ha innovato molto su questo punto introducendo un sistema di classi e maggioranze ispirato al modello europeo: il concordato preventivo deve prevedere la suddivisione dei creditori in classi quando non sono trattati in modo uniforme (specie se ci sono creditori privilegiati non soddisfatti integralmente, questi vanno in classi separate). Nel concordato in continuità aziendale la formazione di classi è sempre obbligatoria e viene applicata la regola della unanimità delle classi per l’approvazione (art. 109 CCII). Ciò significa che, in linea di principio, tutte le classi di creditori devono approvare il concordato perché esso sia considerato approvato nel complesso. Tuttavia, “approvazione” di una classe non richiede l’unanimità interna: basta la maggioranza nella singola classe. La legge fissa la maggioranza di classe in due possibili modi: (a) oltre il 50% in valore di crediti ammessi al voto in quella classe, oppure (b) se non si raggiunge il quorum di voto del 50%, è sufficiente che abbiano votato sì i 2/3 dei crediti votanti, purché abbia partecipato al voto almeno il 50% dei crediti della classe. Tradotto: in ogni classe deve votare almeno metà del valore dei crediti, e di questi votanti almeno i due terzi devono essere favorevoli. Ciò implica che una classe può essere approvata con circa il 33% del valore dei crediti della classe (2/3 del 50% = 33,3%). Non c’è più inoltre la vecchia richiesta anche di una maggioranza assoluta dei crediti globali: conta solo il voto per classi. Dunque, potenzialmente, un concordato in continuità può essere approvato con il voto favorevole complessivo di una minoranza di crediti (es. se in ogni classe giusto il 33% vota sì, potrebbe bastare). Questa è una novità notevole volta a facilitare l’approvazione.

Regole di omologazione (cram down): Ed ecco l’altra grande novità: se una o più classi non approvano, il debitore può chiedere comunque al tribunale di omologare il concordato nonostante il dissenso (c.d. cram-down interclassi). L’art. 112 CCII stabilisce le condizioni per l’omologazione in caso di classi dissenzienti. Le condizioni principali – semplificando – sono quattro: (1) il piano deve rispettare la Absolute Priority Rule (APR) almeno sul valore di liquidazione, e la Relative Priority Rule (RPR) sul valore aggiuntivo da continuità; (2) nessuna classe dissenziente riceve meno di quanto riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale (c.d. best interest test: ogni credito deve avere un’utilità almeno pari al dividendo in scenario fallimentare); (3) almeno una classe di creditori “economicamente rilevante” (non totalmente soddisfatta e non parte correlata) ha votato a favore – questo per evitare che si approvi solo col voto di una classe irrisoria o di comodo; (4) il piano sia fattibile e non discriminatorio. Se queste condizioni sono soddisfatte, il tribunale può omologare anche se, ad esempio, una classe di chirografari ha votato contro. Priorità Relativa (RPR) significa che, per la parte di risorse che eccede il valore di liquidazione (cioè il surplus generato dalla continuazione aziendale o da nuovi apporti), i creditori di grado inferiore possono ricevere qualcosa anche se i superiori non vengono pagati integralmente, purché nessuna classe di grado inferiore ottenga proporzionalmente più di una classe superiore dissenziente. In sostanza si supera l’idea che i chirografari non possano avere nulla finché i privilegiati non sono pagati 100% (regola di priorità assoluta) e si abbraccia quella “relativa”: basta che i privilegiati prendano di più (non necessariamente tutto) rispetto ai chirografari per giustificare un qualche soddisfo ai chirografari. Questa flessibilità è calibrata per facilitare concordati in continuità con finanza esterna o piani industriali di rilancio, dove spesso i creditori chirografari possono ottenere una percentuale anche se i bancari privilegiati subiscono un decurtamento (magari convertendo parte del credito in partecipazioni). Si noti che nel concordato liquidatorio puro invece continua a valere l’APR rigida: i privilegiati vanno pagati per intero sul valore di liquidazione dei beni su cui vantano prelazione, salvo loro consenso contrario, e solo il residuo va ai chirografari.

Omologazione e controllo del tribunale: Dopo il voto, il tribunale tiene l’udienza di omologa. Se tutte le classi hanno approvato, l’omologa è di regola concessa salvo violazioni di legge o frodi. Se vi sono classi contrarie, il debitore può aver chiesto il cram-down ex art.112 e il tribunale verifica le condizioni anzidette. I creditori dissenzienti possono proporre opposizione all’omologa se ritengono che le condizioni manchino (ad esempio contestando le stime di valore di liquidazione, o lamentando trattamenti deteriore). La Cassazione (sent. 34840/2024) ha recentemente stabilito che solo i creditori che hanno partecipato al voto opponendosi possono proporre reclamo contro l’omologa; un creditore rimasto inerte e silente non può impugnare l’omologa tardivamente. Ciò incentiva i creditori a far valere subito le proprie ragioni in sede di voto o di opposizione, dando certezza all’esito.

Una volta omologato, il concordato preventivo è vincolante per tutti i creditori anteriori (cram-down generale). I crediti restano congelati e saranno soddisfatti secondo quanto previsto nel piano (che può includere dilazioni pluriennali, percentuali di pagamento, etc.). Il commissario giudiziale cessa il suo ufficio e l’esecuzione del piano passa sotto la sorveglianza del Giudice Delegato e di eventuali liquidatori (se il piano prevede vendite di beni).

Esecuzione e risoluzione: Se il debitore adempie regolarmente agli obblighi del piano, la procedura si chiude positivamente. In caso di inadempimento rilevante (ad es. mancato pagamento delle percentuali promesse), ciascun creditore può chiedere la risoluzione del concordato ex art. 118 CCII, purché la percentuale di inadempimento superi il 10% di quanto dovuto. A differenza del passato, il CCII distingue nettamente il concordato dall’accordo: nel concordato preventivo, finché non c’è una risoluzione dichiarata dal tribunale (entro 1 anno dalla scadenza finale del piano), non si può dichiarare il fallimento su istanza del creditore per inadempimento (bisogna prima far risolvere il concordato). Invece negli accordi come visto si può procedere subito a fallimento senza bisogno di pronuncia sulla risoluzione. Tuttavia, superato l’anno dalla scadenza senza che nessuno chieda la risoluzione, il debitore è definitivamente esdebitato anche se non ha pagato integralmente le percentuali (chi non ha agito in tempo perde la possibilità di riscuotere il residuo). Questa è la regola cosiddetta del fallimento omisso medio, anch’essa toccata dalle S.U. 4696/2022, che però riguardava situazioni prima del CCII. Ora il CCII regola specificamente questi tempi.

Concordato in continuità vs liquidatorio: È opportuno chiarire alcune differenze:
– Nel concordato con continuità aziendale, il valore dell’impresa come going concern viene utilizzato per soddisfare i creditori gradualmente, mantenendo l’attività in funzione. Può essere diretto (la stessa società prosegue l’attività durante e dopo il concordato, utilizzando i ricavi per pagare i debiti secondo il piano) oppure indiretto (l’azienda viene ceduta o conferita a un soggetto terzo che ne assicura la prosecuzione, e il prezzo di cessione alimenta il piano di pagamento creditori). La legge incoraggia la continuità perché preserva posti di lavoro e valore: ad esempio, non fissa soglie minime di pagamento dei chirografari rigide (si applica la RPR invece che la regola del 20% minima – vedi oltre). Inoltre in continuità vi è l’obbligo di una relazione particolareggiata del commissario sul piano industriale, la valutazione di attestare che la continuità non è peggiorativa per i creditori rispetto alla liquidazione (il famoso test di convenienza comparativa).
– Nel concordato liquidatorio, l’azienda di fatto cessa l’attività o la continuerà giusto il tempo tecnico di vendere i beni. Il piano prevede la liquidazione di tutto l’attivo (vendita singoli beni o per lotti) e la distribuzione del ricavato ai creditori. La riforma ha mantenuto una regola: se il concordato è puramente liquidatorio, i creditori chirografari devono ricevere almeno il 20% del loro credito, salvo che intervengano apporti di risorse esterne che aumentino la distribuzione. Nel concordato in continuità invece è generalmente richiesto almeno il 10% ai chirografari (nel regime attuale: si parla di percentuali “tendenziali” in dottrina, il CCII art.84 co.4 infatti indica il 20% per liquidatorio e in caso di continuità di norma il miglioramento di almeno 10% rispetto a liquidazione, interpretato come soglia del 10%). Queste soglie sono indicative per l’ammissibilità: un piano liquidatorio che offrisse meno del 20% ai chirografari rischia di essere dichiarato inammissibile per difetto di convenienza, a meno che vi sia l’apporto di capitale esterno che giustifica una deroga. Nel concordato in continuità, una soddisfazione anche inferiore al 20% può essere accettata purché sia migliore di quella ottenibile vendendo l’azienda (es: se vendendo tutto subito i chirografari prenderebbero 5%, ma tenendo in vita l’azienda e lavorando 2 anni prenderebbero 10%, il piano in continuità con 10% è ammissibile).

In pratica, il criterio di ammissibilità per i concordati è duplice: rispetto assoluto di soglie minime (20% o 10%) e best interest test (ogni creditore deve ricevere non meno di quanto avrebbe in liquidazione giudiziale). Il tribunale in fase di ammissione e di omologa verifica questi parametri. Ad esempio, il Tribunale di Bergamo (6 dicembre 2023) ha dichiarato inammissibile un concordato semplificato in cui alcuni creditori avrebbero ricevuto meno del 5% a fronte di un’attesa del 20% in fallimento.

Vantaggi per il debitore (concordato in continuità): consente di conservare l’impresa come going concern, magari riducendo il debito a un livello sostenibile. Durante la procedura, la direzione resta agli amministratori (salvo revoche per atti di frode, evento raro) sotto la vigilanza del commissario: quindi c’è debtor-in-possession a differenza del fallimento dove c’è spossessamento totale. Il concordato offre inoltre la protezione immediata del patrimonio dall’aggressione dei creditori e sospende le azioni esecutive, compresi eventuali sequestri (le cosiddette misure protettive tipiche ex art. 54 CCII scattano ipso iure, con necessità comunque di conferma entro 30 giorni). Inoltre, con l’omologa, il debitore ottiene l’esdebitazione concordataria: pagando quanto stabilito, viene liberato dal debito residuo nei confronti dei chirografari (che subiscono la falcidia accordata). Anche i creditori privilegiati se hanno accettato riduzioni vengono soddisfatti come stabilito e non possono pretendere oltre. In altre parole, il concordato è uno strumento di fresh start: l’azienda risanata esce con un carico debitorio ridotto e può ripartire. Dal lato sociale, è preferibile al fallimento perché evita dismissioni affrettate e tutela in molti casi i livelli occupazionali (il piano in continuità deve indicare l’impatto sui lavoratori e di solito prevede la continuazione dei contratti di lavoro, eventualmente con CIGS, ecc.).

Svantaggi: è una procedura complessa e costosa. Richiede tempo (spesso 6-12 mesi almeno per arrivare a omologa), con tutti i riflettori puntati sull’impresa (notorietà pubblica della crisi). Il debitore deve sottostare alle regole di comportamento (non può pagare debiti anteriori se non autorizzato, deve mantenere la gestione ordinaria, etc.). I costi comprendono compensi per il commissario giudiziale, eventuali esperti nominati, e spese legali/non legali non indifferenti. Inoltre il controllo giudiziale è severo: un piano poco credibile può essere bocciato in partenza. Ci vuole un attestatore indipendente che si assuma la responsabilità di validare il piano. Il concordato può anche fallire in itinere se, ad esempio, emergono atti di frode del debitore (a quel punto il tribunale dichiara inammissibile o revoca la procedura e contestualmente può aprire la liquidazione giudiziale). E poi c’è sempre l’incertezza del voto dei creditori: se non si raggiungono le maggioranze richieste (e non si riesce a soddisfare i criteri per il cram-down), l’esito è il fallimento. In effetti il concordato è un “ultimo treno” per il debitore: se salta, dietro l’angolo c’è la liquidazione giudiziale (ex art. 49 CCII, il tribunale contesta in automatico l’eventuale istanza di fallimento pendente in caso di diniego di omologa). Quindi è uno strumento da usare con una seria preparazione e quando il risanamento ha concrete basi.

Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio

Il concordato semplificato (art. 25-sexies CCII) è una novità introdotta nel 2021 e resa permanente con il CCII, pensata come strumento residuale a disposizione del debitore che abbia tentato invano la composizione negoziata. In pratica, se la composizione assistita con l’esperto non porta ad alcun accordo con i creditori, l’imprenditore – solo in quel caso – può presentare una proposta di concordato liquidatorio al tribunale senza il voto dei creditori. È un istituto peculiare: un concordato imposto, che non passa per la deliberazione dei creditori, ma viene deciso dal giudice all’esito di un contraddittorio.

Condizioni di accesso: Occorre aver svolto una composizione negoziata conclusa con esito negativo (attestato dalla relazione finale dell’esperto che dichiara “nessun accordo raggiunto” e la praticabilità solo della liquidazione). Il debitore deve presentare la domanda entro 60 giorni dalla conclusione delle trattative. Dal 2024, per giunta, è ammesso proporre il concordato semplificato anche con riserva: cioè depositando un ricorso in bianco e poi il piano entro termini assegnati, esattamente come si può fare nel concordato ordinario (concordato in bianco). Questa modifica consente al debitore di bloccare subito le azioni dei creditori anche se il piano liquidatorio dettagliato non è ancora pronto – il tribunale in tal caso fissa un termine (30-60 giorni) per depositare piano e documenti. La possibilità del “in bianco” nasce per evitare che i creditori, saputo del fallimento delle trattative, aggrediscano immediatamente l’impresa prima che questa riesca a predisporre il concordato semplificato.

Caratteristiche del piano: Deve trattarsi obbligatoriamente di un concordato liquidatorio al 100%. La norma prevede espressamente che nel concordato semplificato “è sempre prevista la cessione di tutti i beni del debitore” (art.25-sexies c.1). Non è ammessa la continuità aziendale diretta da parte del debitore. Ciò non toglie che il piano possa contemplare che un terzo rilevi l’azienda e la continui, ma per il debitore uscente la prospettiva è liquidare il suo patrimonio. In sostanza, il semplificato serve a evitare il fallimento attraverso una liquidazione concorsuale concordata: il debitore cede i suoi beni, questi verranno venduti (anche qui di solito nominando un liquidatore), e il ricavato distribuito ai creditori secondo regole simili al fallimento ma con eventuali diversità stabilite dal piano. Ad esempio, il piano potrebbe prevedere che un certo asset venga trasferito direttamente a un creditore a saldo del suo credito (dazione in pagamento), oppure che un nuovo investitore versi una somma da distribuire ai creditori a fronte dell’acquisto dell’intera azienda free debts (pulita dai debiti). Tutto ciò è possibile come proposta concordataria.

Procedura e ruolo dei creditori: Non c’è adunanza di voto. I creditori sono semplicemente notificati del ricorso e possono presentare opposizione all’omologa se contrari. Il commissario giudiziale in questa procedura non c’è; il tribunale può nominare semmai un ausiliario esperto per valutare il piano (ma non sempre avviene). Dunque è più snella. Il giudice esamina il piano, tiene conto delle eventuali opposizioni dei creditori e decide se omologare. I criteri per l’omologa richiamano quelli del concordato ordinario: in particolare, va rispettato il best interest test (nessun creditore può ricevere meno di quanto otterrebbe dalla liquidazione giudiziale). Anche qui i creditori privilegiati non consenzienti non possono essere alterati nella prelazione se non nei limiti di legge. Non c’è una soglia minima di pagamento per i chirografari espressa (infatti la tabella comparativa su menzionata [25] sottolinea che nel semplificato non c’è soglia minima per i chirografari, a differenza del 20% generale). Ciò significa che, se il patrimonio è modesto, in astratto si potrebbe omologare anche con un dividendo ai chirografi molto basso (0-5%). Tuttavia, deve comunque essere un miglior risultato rispetto al fallimento o quantomeno equivalente. Se il tribunale ravvisa che il piano non offre alcun vantaggio apprezzabile rispetto a una liquidazione giudiziale, può negare l’omologa per mancanza di convenienza per i creditori. Ad esempio, se il debitore propone di liquidare e far prendere ai chirografari il 3% ma dal fallimento essi potrebbero ottenere il 10%, l’omologa va negata perché pregiudizievole.

Misure protettive: Come nel concordato ordinario, il debitore può chiedere la sospensione delle azioni esecutive presentando la domanda di concordato semplificato. Inizialmente la norma sul semplificato (art.25-sexies) non la menzionava espressamente, ma la prassi giudiziaria l’ha ammessa e il correttivo 2024 ha chiarito che anche qui si applicano gli artt. 54 e 55 CCII. Quindi il deposito della domanda (soprattutto se pubblicata al Registro delle Imprese) tutela l’azienda da assalti dei creditori, normalmente fino all’omologa. Alcuni tribunali, come citato nel testo, già nel 2023 avevano concesso misure protettive in concordato semplificato su istanza del debitore.

Organi e gestione: Non c’è commissario giudiziale, il debitore rimane in carica fino all’omologa, assistito solo dall’ausiliario eventuale del giudice. Dopo l’omologa, viene nominato un liquidatore dal tribunale, il quale cura la vendita dei beni e la distribuzione delle somme ai creditori come da piano. Il liquidatore agisce sotto la vigilanza del Giudice Delegato e di un eventuale Comitato dei creditori (il CCII prevede che il G.D. può convocare i creditori per eleggere un comitato anche nel concordato, se lo ritiene opportuno, specie per supervisionare la liquidazione).

Efficacia esdebitativa: Una volta eseguite le cessioni e pagate le percentuali promesse, il debitore ottiene l’esdebitazione residua (liberazione dai debiti non soddisfatti). Nel semplificato, essendo liquidatorio, si applica la regola generale: se il debitore è una società e viene cancellata dopo la liquidazione, i debiti insoddisfatti si estinguono con essa; se è un imprenditore individuale, può chiedere l’esdebitazione come previsto dal Codice dopo la liquidazione controllata (essendo comunque una procedura concorsuale).

Utilità pratica: Il concordato semplificato è stato concepito come alternativa “controllata” al fallimento quando le trattative stragiudiziali falliscono. Consente di risparmiare tempo (niente voto) e massimizzare il realizzo magari mediante cessione unitaria dell’azienda. Ad esempio, se durante la composizione negoziata era emersa un’offerta per rilevare l’azienda dal debitore (offerta che i creditori non hanno accettato consensualmente), con il concordato semplificato quell’offerta può essere implementata ugualmente: il tribunale omologa la cessione dell’azienda a quel prezzo e i creditori, pur non avendo votato, incassano le somme secondo il piano. In mancanza di ciò, si sarebbe andati in fallimento con possibile dispersione del valore e tempi più lunghi. I tribunali stanno però adottando un approccio prudente, vigilando che il concordato semplificato non sia abusato dal debitore per evitare il confronto coi creditori: deve essere davvero l’unica strada rimasta e portare un beneficio obiettivo. Ad esempio, la giurisprudenza richiede che il debitore abbia trattato in buona fede durante la composizione negoziata (il tribunale di Milano, decreto 23 aprile 2024, ha sottolineato che non va sindacato il merito delle trattative, ma il giudice deve almeno verificare che l’attestazione dell’esperto sulla buona fede del debitore non sia contraddittoria). Inoltre richiedono che ogni creditore riceva qualcosa: la legge impone che ogni creditore abbia un’“utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile” in concordato, per evitare che qualcuno sia lasciato a zero in modo arbitrario. Dunque anche nel semplificato occorre dare un minimo a tutti, se possibile (anche 1% ma qualcosa). Se il piano prevedesse di tagliare fuori del tutto una classe di creditori senza alcuna utilità, potrebbe essere giudicato iniquo.

Conclusione su concordati: Il ventaglio concordatario consente al debitore di scegliere: se ha prospettive di continuare, opterà per un concordato in continuità (più complesso per via del voto, ma salva l’azienda); se deve chiudere ma vuole evitare il fallimento, può tentare un concordato liquidatorio tradizionale (se riesce a ottenere il voto dei creditori) o, in extremis dopo composizione negoziata, il concordato semplificato (senza voto).

Di fatto, il concordato preventivo rimane lo strumento concorsuale cardine per il risanamento o la liquidazione concordata. I dati post-riforma indicano che c’è stata una ripresa di questi strumenti (dopo un calo nei primi anni 2010 dovuto ad abusi). L’orientamento delle corti è di favorire i concordati seri e sostenibili, mentre rigettare tempestivamente quelli meramente dilatori. Per il debitore onesto, il concordato è un’opportunità di negoziare collettivamente con i creditori sotto l’egida del tribunale e con la possibilità di imporre soluzioni di maggioranza anche ai dissenzienti, ottenendo così una soluzione definitiva alla crisi.

Strumenti per i piccoli imprenditori e per le persone (sovraindebitamento)

La trattazione sin qui è stata focalizzata sulle imprese commerciali medio-grandi (soggette a fallimento). Ma il legislatore ha previsto procedure ad hoc anche per i soggetti sovraindebitati: consumatori, professionisti, start-up innovative, imprenditori “minori” che non superano le soglie di fallibilità. Il nuovo CCII ha riunito nella Parte IV le Procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, riformulando la vecchia L.3/2012. Dal punto di vista del debitore, gli strumenti disponibili sono analoghi concettualmente al concordato e agli accordi, ma con adattamenti:

  • Concordato minore: È l’equivalente del concordato preventivo per il debitore non fallibile. Può accedervi, ad esempio, una piccola s.r.l. che rientra nei limiti dell’“impresa minore” (attivo < 300k, ricavi < 200k, debiti < 500k) o un imprenditore agricolo, oppure un professionista con debiti verso fornitori e banche. La procedura è simile al concordato: serve un piano e una proposta, viene nominato un gestore della crisi (figura analoga al commissario) dall’OCC (Organismo di Composizione della Crisi), i creditori votano e il tribunale omologa. La differenza principale è che qui vi è un unico quorum di voto del 60% dei crediti ammessi (non per classi, sebbene si possano formare classi). Inoltre non c’è il meccanismo di cramdown interclassi spinto come per le imprese maggiori: se non si raggiunge il 60%, il concordato minore non passa (salvo eccezioni per il consumatore, vedi dopo). Il concordato minore può prevedere sia continuità sia liquidazione. La transazione fiscale si applica anche qui: è necessario il voto favorevole dell’Erario salvo requisiti per cram-down fiscale. In caso di esito positivo, il debitore persona fisica è esdebitato, la società viene liquidata se era liquidatoria. – Il taglio di questa procedura è semplificato e meno costoso: il gestore è spesso un professionista nominato dall’OCC locale (Ordine dei commercialisti, ecc.), le udienze sono ridotte, etc.
  • Ristrutturazione dei debiti del consumatore: È la procedura riservata alle persone fisiche non imprenditori in situazione di sovraindebitamento (es. privati che hanno accumulato debiti per prestiti, fideiussioni, bollette non pagate, etc.). Qui non c’è voto dei creditori: il consumatore propone un piano di ristrutturazione (di solito pagamento parziale del dovuto in un certo periodo, magari attingendo al suo stipendio futuro), e il tribunale lo omologa direttamente se ritiene che il piano sia fattibile e non arrechi pregiudizio ingiusto ai creditori. I creditori possono comparire in udienza per opporsi, ma non votano. Questo strumento (ex “piano del consumatore”) dà sollievo ai privati meritevoli, permettendo loro di rientrare dai debiti in modo sostenibile, spesso con un taglio. Tuttavia, il giudice verifica la meritevolezza e l’assenza di colpa grave del consumatore nell’essersi indebitato (ad es. non si agevola chi ha fatto spese sproporzionate con dolo). Se omologato, il piano del consumatore vincola tutti i creditori (anche Fisco e banche) e libera il debitore dall’eccedenza di debito se egli adempie alle quote previste.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (sovraindebitamento): Questo è simile all’accordo ex art.57 CCII ma per i soggetti non fallibili. Il debitore deve ottenere l’adesione di almeno il 60% in valore dei crediti e poi chiedere l’omologazione. I creditori non aderenti, come nel caso generale, vanno pagati per intero. Il procedimento coinvolge anch’esso l’OCC e un giudice, con opposizioni eventuali dei non aderenti. Questa strada è poco praticata per i consumatori (che preferiscono il piano), ma utile per piccoli imprenditori non fallibili che hanno pochi creditori disposti a firmare un accordo.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato: Equivalente del fallimento per i non fallibili. Se un piccolo imprenditore o un privato non è in grado di proporre alcun piano o non ha voti sufficienti, può richiedere la liquidazione di tutti i suoi beni. Un liquidatore nominato dal tribunale (spesso lo stesso gestore) liquida il patrimonio e ripartisce il ricavato. Al termine, la persona fisica può ottenere l’esdebitazione di diritto (novità CCII: l’esdebitazione per il debitore persona fisica meritevole avviene automaticamente salvo eccezioni, decorsi 3 anni dalla chiusura, liberandolo dai debiti residui – art. 282 CCII). La liquidazione controllata è dunque un fallimento semplificato e “umanizzato”, perché volto poi a dare al debitore onesto una seconda chance liberandolo dai debiti residui.
  • Esdebitazione del debitore incapiente: Segnalo infine l’istituto introdotto dal CCII (art. 283) che consente al debitore persona fisica che non abbia proprio nulla da liquidare, di ottenere l’esdebitazione dei debiti esigibili (con esclusione di quelli di mantenimento, da risarcimento danni da illecito, etc.) una tantum, a condizione di essere meritevole e di non avere reddito né patrimonio disponibile. È una sorta di “fresh start” gratuito, che però può essere chiesto una sola volta e può essere revocato se nei 4 anni successivi il debitore migliora la sua condizione (es. riceve beni per successione). Questo istituto applica il principio di “forgiveness” previsto dalla direttiva per i casi disperati.

Dal punto di vista pratico, privati e piccoli imprenditori dovrebbero valutare i piani di sovraindebitamento prima di rassegnarsi a subire esecuzioni infinite: l’ordinamento offre loro la chance di comporre i debiti in modo ordinato e ripartire da zero. Ad esempio, un artigiano individuale con 100.000 € di debiti potrebbe proporre di pagarne 30.000 in 5 anni, e se il piano è credibile (basato sul suo reddito futuro) il tribunale potrebbe approvarlo e liberarlo del resto. Oppure, un ex imprenditore che ha garantito mutui e si trova pieno di debiti ma senza beni potrebbe avviare la liquidazione controllata, far liquidare quel poco che ha (magari una vecchia auto) e poi chiedere l’esdebitazione, cancellando i debiti residui e potendo così ricominciare l’attività senza l’ombra dei creditori.

In sintesi, anche per i debitori non fallibili esistono strumenti di ristrutturazione e liberazione dal debito. Nella guida ci siamo concentrati sulle procedure maggiori (che interessano società e imprese soggette a concordato), ma è bene ricordare questa “corsia parallela” del sovraindebitamento per completezza.

Domande Frequenti (FAQ)

D.1: Quali sono i principali strumenti per ristrutturare i debiti di un’azienda in crisi?
R: Gli strumenti si dividono in stragiudiziali e concorsuali. Tra i primi vi sono il piano attestato di risanamento (accordo privato con attestazione di un esperto, senza coinvolgere il tribunale) e gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati dal tribunale (che richiedono il consenso di una maggioranza di creditori, tipicamente ≥60%, per essere efficaci erga omnes). Inoltre dal 2021 esiste la composizione negoziata della crisi, procedura volontaria in cui un esperto indipendente aiuta imprenditore e creditori a trovare un accordo prima di arrivare all’insolvenza. Sul versante concorsuale (giudiziale), lo strumento principale è il concordato preventivo (in continuità, se c’è un piano di prosecuzione dell’attività, oppure liquidatorio) che consente di ristrutturare i debiti sotto controllo del tribunale e con omologazione anche contro il volere di minoranze dissenzienti (tramite cram-down). Per casi particolari vi sono poi varianti come il concordato semplificato (accessibile dopo composizione negoziata fallita), e, per i soggetti non fallibili, le procedure di concordato minore o piano del consumatore. La scelta dipende dalla gravità della crisi e dal grado di accordo che si può ottenere dai creditori: se c’è collaborazione, meglio soluzioni negoziali rapide; se no, si ricorre al concordato per imporre una soluzione collettiva.

D.2: Che differenza c’è tra un piano attestato di risanamento e un accordo di ristrutturazione dei debiti?
R: Entrambi sono strumenti di risanamento negoziale, ma con differenze sostanziali: il piano attestato è un accordo totalmente privato tra il debitore e alcuni creditori, formalizzato in un piano finanziario asseverato da un esperto indipendente. Non richiede omologazione né intervento del tribunale, e serve soprattutto ad evitare le azioni revocatorie in caso di successivo fallimento (gli atti eseguiti in adempimento del piano non sono revocabili). Esso non vincola i creditori dissenzienti: solo chi acconsente modifica i propri crediti, gli altri devono essere pagati regolarmente. Invece l’accordo di ristrutturazione (ADR) è un accordo omologato dal tribunale che, una volta omologato, vincola tutti i creditori coinvolti, compresi quelli che non hanno firmato. Per ottenerlo, il debitore deve però raccogliere un certo quorum di adesioni (almeno il 60% dei crediti, salvo accordi agevolati al 30%) e deve garantire il pagamento integrale dei creditori non aderenti nei termini di legge. Quindi, a differenza del piano attestato, l’ADR permette di forzare la mano a eventuali holdout (creditori che non vogliono aderire) ottenendo comunque l’efficacia generale grazie all’omologa – ma richiede di raggiungere prima un accordo con la maggioranza qualificata. Inoltre, l’ADR offre protezioni analoghe al concordato (possibilità di misure protettive su istanza durante l’omologa) e consente di includere il Fisco con eventuale cram-down, cose non previste nel piano attestato. In sintesi: riservatezza e nessun tribunale nel piano attestato vs forza vincolante erga omnes e controllo giudiziario nell’accordo di ristrutturazione.

D.3: Cos’è la composizione negoziata della crisi e in quali casi conviene utilizzarla?
R: La composizione negoziata è una procedura volontaria e confidenziale introdotta di recente, in cui l’imprenditore in crisi (anche insolvente, dal 2024) si affida a un esperto indipendente per gestire trattative con i creditori al fine di trovare una soluzione di risanamento (accordo, piano o altra operazione). Conviene usarla nelle fasi precoce della crisi, quando l’impresa intuisce di poter avere difficoltà future ma non è ancora in default conclamato. In tal modo può affrontare i problemi “a porte chiuse” con l’assistenza di un professionista super partes, mantenendo la continuità aziendale e magari ottenendo anche tutela del tribunale (sotto forma di misure protettive mirate che sospendono azioni esecutive durante le trattative). È particolarmente indicata se l’impresa crede di poter risolvere con una rimodulazione dei debiti o con l’ingresso di nuova finanza, prima che i creditori perdano fiducia. La composizione negoziata non è un percorso adatto invece se la situazione è già gravemente compromessa e i creditori sono ostili: in tal caso probabilmente fallirebbe (nessun accordo) e si dovrebbe poi ricorrere al concordato semplificato o al fallimento. Ma quando c’è un margine di recupero e l’imprenditore vuole evitare di finire subito in procedura concorsuale aperta, la negoziazione assistita offre un tentativo soft. Un esempio tipico: PMI che intravede tensioni di liquidità per il prossimo semestre; attiva la composizione negoziata, ottiene lo standstill dalle banche e in 3-4 mesi negozia un accordo di ristrutturazione con loro – poi lo omologa brevemente. Così ha risolto la crisi senza passare da un concordato lungo e pubblico. Quindi conviene quando c’è tempestività, buona probabilità di risanamento e creditori ragionevoli.

D.4: I creditori devono sempre approvare un concordato preventivo perché questo sia omologato?
R: No, non necessariamente. Nel concordato preventivo tradizionale si svolge la votazione per classi: occorre che tutte le classi di creditori votino a favore (approvazione unanime delle classi), sebbene dentro ciascuna classe basti il voto favorevole di circa il 33% dei crediti (voto per teste ponderato). Tuttavia, il nuovo Codice prevede che il tribunale possa omologare il concordato anche in presenza di classi dissenzienti, applicando il meccanismo del cross-class cram down (art. 112 CCII). Ciò è possibile se sono soddisfatte alcune condizioni stringenti: ad esempio, almeno una classe ha approvato (non può essere che tutti boccino), ogni classe dissenziente riceve almeno quanto riceverebbe in liquidazione (nessuno è sacrificato oltre il dovuto) e la distribuzione delle utilità segue la priorità relativa (nessuna classe inferiore guadagna più di una superiore). Se queste condizioni sono rispettate, il giudice può omologare d’ufficio il concordato nonostante il no di una o più classi. In pratica, la volontà della maggioranza (in classi) può prevalere su quella di una minoranza dissenziente purché il piano sia equo. Ad esempio, se i chirografari approvano ma i privilegiati votano contro perché non sono pagati integralmente, il tribunale potrebbe comunque omologare se vede che i privilegiati prendono tutto il valore di liquidazione dei loro beni (rispettando prelazioni) e semplicemente non partecipano al valore aggiunto generato dal piano (che va a chirografari secondo RPR). Questo meccanismo è appunto il “cram down interclassi”. Dunque, pur restando il voto un passaggio fondamentale, oggi non è più necessario il consenso di tutti i creditori per avere un concordato efficace – la legge consente di superare il dissenso di alcune classi di oppositori a certe condizioni di tutela dei loro interessi minimi. Una situazione in cui invece i creditori non votano affatto è quella del concordato semplificato: lì non c’è voto, i creditori possono solo fare osservazioni/opposizioni e il tribunale decide. Ma il semplificato è un caso particolare (post-composizione negoziata). In generale, nel concordato preventivo ordinario c’è il voto, con la possibilità di scavalcare le minoranze contrarie in fase di omologa se il piano è comunque vantaggioso e corretto.

D.5: Se un’impresa non riesce a ottenere l’accordo dei creditori né a far approvare un concordato, che succede?
R: Se tutti i tentativi di ristrutturazione falliscono – ad esempio i creditori bocciano la proposta di concordato in adunanza, oppure l’imprenditore nemmeno presenta un piano perché la situazione è disperata – allora normalmente si passa alla liquidazione giudiziale (ex fallimento). In pratica, il tribunale, su ricorso di un creditore o del debitore stesso, dichiara l’insolvenza e nomina un curatore che procederà a liquidare l’azienda e i suoi beni, distribuendo il ricavato secondo le regole delle prelazioni. La liquidazione giudiziale è l’extrema ratio: l’impresa viene spossessata (gli amministratori perdono la gestione) e si apre una procedura orientata a soddisfare i creditori con la dissoluzione del patrimonio aziendale. Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale comporta la perdita di controllo sull’azienda, possibili azioni di responsabilità e revocatorie sugli atti compiuti prima, e lo stigma del fallimento. Per una società, questo significa in pratica l’avvio verso la cessazione definitiva (salvo ipotesi di esercizio provvisorio disposto dal tribunale per vendere l’azienda intera, se c’è convenienza). Per le persone fisiche (imprenditore individuale), c’è poi la possibilità di chiedere l’esdebitazione dei debiti residui dopo la chiusura del fallimento, così da essere liberati dai debiti inesigibili. Ma in ogni caso il capitale investito e il patrimonio sociale vengono liquidati. – Detto ciò, bisogna anche considerare che prima di arrivare alla liquidazione giudiziale, il debitore ha alcune opportunità ulteriori. Ad esempio, se un concordato preventivo viene respinto dai creditori, in alcuni casi la legge consente la presentazione di proposte concorrenti da parte di terzi o di creditori (art. 90 CCII) per cercare soluzioni migliorative: magari un investitore offre di più e i creditori approverebbero quella proposta. Oppure, se la votazione è negativa, il debitore potrebbe tentare di convertire il concordato in un fallimento pilotato con un accordo dell’ultimo minuto (ad esempio chiedendo direttamente la liquidazione giudiziale con esercizio provvisorio per vendere l’azienda a un terzo). – Ma se niente di ciò avviene, il tribunale dichiara il fallimento (liquidazione giudiziale). Una casistica particolare è quella coperta ora dal concordato semplificato: se l’impresa ha provato la composizione negoziata senza risultato, ha quell’ultima chance di proporre al tribunale un piano di liquidazione da omologare senza voto creditori. Se il tribunale lo omologa, si evita il fallimento e si procede a liquidare in concordato; se il tribunale nega l’omologa (ad esempio perché il piano non dà sufficienti garanzie ai creditori), allora viene inevitabilmente dichiarata la liquidazione giudiziale. – In definitiva, il fallimento oggi è considerato come la soluzione finale quando ogni tentativo di risanamento o concordato è fallito o non percorribile. L’intero impianto del CCII è costruito per incentivare la soluzione anticipata: allerta, composizione negoziata, concordati, etc., proprio per evitare di arrivare alla distruzione di valore che spesso accompagna la liquidazione giudiziale. Però se il debitore non collabora, o non c’è piano sostenibile, la liquidazione concorsuale è inevitabile per tutelare i creditori residui.

D.6: I debiti fiscali e contributivi possono essere falcidiati in una ristrutturazione?
R: Sì, è possibile ristrutturare anche i debiti verso il Fisco e gli enti previdenziali, ma con alcune limitazioni e procedure specifiche (transazione fiscale). In un accordo di ristrutturazione, il debitore può includere i debiti tributari chiedendo la loro parziale remissione; se l’Agenzia delle Entrate (o l’INPS) aderisce, il problema non si pone (si comporta come un creditore qualsiasi e accetta uno stralcio). Se invece non aderisce, il tribunale può ugualmente omologare l’accordo cram-down, a condizione che al creditore pubblico venga offerto almeno quanto otterrebbe da una liquidazione e comunque sia rispettata una soglia di soddisfazione percentuale minima stabilita dalla legge. Ad esempio, attualmente la legge richiede (in via amministrativa) che il piano offra ai crediti chirografari dell’Erario almeno il 30% e ai privilegiati un certo trattamento: se queste condizioni ci sono, il giudice può forzosamente omologare anche senza il sì del Fisco. Nel concordato preventivo, similmente, la proposta può prevedere il pagamento parziale di imposte/contributi: l’adesione formale dell’Erario non è necessaria (vota come gli altri creditori chirografari). Se però vota contro e la classe di crediti pubblici risulta dissenziente, il cram-down interclassi può intervenire: il giudice, per omologare comunque, deve verificare che il trattamento rispetti la priorità relativa e che lo Stato non sia trattato peggio di creditori di rango inferiore. La Cassazione ha ad esempio chiarito che non si può dare ai crediti fiscali chirografari una percentuale inferiore a quella di altri chirografari di grado inferiore (perché ciò violerebbe la RPR). Inoltre, se il debito fiscale rappresenta la quasi totalità del passivo (≥80%), non è ammesso imporre un cram-down: in tal caso o il Fisco è d’accordo o non si può fare l’accordo. In pratica, sì ai tagli di tasse e contributi, ma entro confini che assicurino un gettito non troppo sacrificato. L’idea alla base: la Pubblica Amministrazione deve essere trattata in modo equo rispetto agli altri – no a piani che facciano pagare al Fisco prezzi troppo bassi mantenendo altri più alti. Da notare che nel concordato liquidatorio la falcidia dei crediti con privilegio fiscale è limitata: i tributi che per legge privilegiano (IVA, ritenute) possono essere dilazionati ma non ridotti nel capitale senza consenso espresso (questo principio è stato ribadito anche per le procedure di sovraindebitamento dalla Cass. 4622/2024, affermando che il pagamento dilazionato oltre il lecito di crediti privilegiati richiede assenso del creditore). Per i tributi non prioritari invece la legge consente riduzioni. In sintesi, si può prevedere nello strumento di ristrutturazione una “transazione” con il Fisco/Enti, ovvero un trattamento agevolato dei loro crediti, ma serve il rispetto delle condizioni normative e, se l’ente rifiuta, occorre convincere il giudice che quell’offerta è comunque il massimo del ragionevole e non lede la par condicio. Con le ultime riforme, la normativa è stata resa più flessibile che in passato, per agevolare la definizione anche di grossi debiti tributari in sede concorsuale, evitando che il Fisco col suo dissenso faccia saltare piani vantaggiosi per tutti (concetto appoggiato da pronunce come Cass. 34842/2024 sulla priorità relativa).

D.7: Cosa rischiano gli amministratori se non affrontano tempestivamente la crisi?
R: Gli amministratori di società hanno precise responsabilità se omettono di reagire allo stato di crisi. Dal punto di vista civilistico, la mancata adozione di adeguati assetti organizzativi e il ritardo nell’aggredire la crisi possono costituire una grave violazione dei doveri che espone gli amministratori ad azioni di responsabilità per danni sia da parte della società (azione sociale ex art. 2392 c.c.) sia da parte dei creditori sociali (azione ex art. 2394 c.c.). Ad esempio, se per negligenza l’organo amministrativo non rileva un dissesto imminente e la società fallisce con un buco peggiorato, il curatore fallimentare potrà citare in giudizio gli amministratori chiedendo il risarcimento dell’aggravamento del passivo. Il CCII rafforza questa linea: l’art. 378 del Codice ha inserito l’art. 2086 c.c. comma 2, che rende esplicito l’obbligo dell’imprenditore collettivo di dotarsi di misure idonee a prevenire la crisi – la violazione è un elemento di colpa grave. In alcune pronunce si è detto che l’inadempimento di predisporre assetti è ancora più colpevole prima che la crisi si manifesti, perché è proprio lì che si poteva intervenire. Dunque un amministratore non diligente rischia sul suo patrimonio personale in sede di causa. Dal punto di vista penale, se dall’omessa gestione correttiva deriva un fallimento, gli amministratori possono incorrere in reati di bancarotta semplice (per imprudenza o negligenza nella gestione, art. 322 CCII) o perfino bancarotta fraudolenta se hanno aggravato il dissesto con atti dolosi o per avere proseguito l’attività manifestamente in perdita aggravando il danno ai creditori. Ad esempio, continuare a accumulare debiti sapendo di essere insolventi può configurare bancarotta fraudolenta per dissipazione. Anche l’occultamento di situazione di crisi nei bilanci può portare a incriminazioni (falso in bilancio, ecc.). Da ultimo, gli amministratori rischiano provvedimenti come la revoca giudiziaria dalla carica ex art. 2409 c.c. se i soci o sindaci segnalano gravi irregolarità nella gestione (una crisi ignorata potrebbe costituire irregolarità). In sede concorsuale, l’art. 120 CCII prevede ad esempio la possibilità di revocare gli amministratori su istanza del commissario nel concordato, se la loro permanenza ostacola le soluzioni (ma con il correttivo 2022-24 questo istituto è divenuto più garantista: serve il voto dei soci, però con efficacia sospesa soggetta a omologa). In pratica, se la crisi degenera e arriva in tribunale, l’operato pregresso degli amministratori verrà passato al setaccio: se si ravvisa che non hanno agito tempestivamente o hanno compiuto atti in pregiudizio dei creditori (pagamenti preferenziali, distrazioni di beni), ne risponderanno duramente. Il miglior modo per evitare tutto ciò è appunto agire tempestivamente e con trasparenza: attivare l’allerta interna, negoziare con i creditori, ricorrere a composizione negoziata o procedure concorsuali quando necessario. Mostrare di aver fatto tutto il possibile per salvare l’azienda o per contenere il danno ai creditori è spesso la differenza tra essere considerato un amministratore diligente (che potrebbe evitare sanzioni penali e attenuare quelle civilistiche) e un amministratore negligente o peggio doloso (che verrà perseguito). Quindi il rischio concreto per chi non affronta la crisi è di trovarsi a pagare di tasca propria i debiti rimasti e, nei casi peggiori, subire condanne penali con pene anche rilevanti (la bancarotta fraudolenta è punita con reclusione fino a 6-10 anni).

D.8: Un imprenditore individuale o una piccola impresa non fallibile può accedere al concordato preventivo?
R: Non al concordato preventivo ordinario, perché quello è riservato ai soggetti assoggettabili a fallimento (liquidazione giudiziale). Tuttavia, la normativa sul sovraindebitamento offre procedure analoghe per questi soggetti. In particolare, l’imprenditore che rientra nei parametri di “impresa minore” (vedi art. 2 lett. d CCII: piccolissime dimensioni), oppure l’imprenditore agricolo (esente da fallimento) o ancora start-up innovative, possono proporre un concordato minore ex art. 74 CCII. Il concordato minore è molto simile al concordato preventivo: serve un piano, c’è un gestore nominato dall’OCC, i creditori votano (qui serve il 60% di sì in valore) e il tribunale omologa. Unica differenza: è pensato per debiti piccoli, quindi procedure più semplificate e costi ridotti. Se un imprenditore individuale ha debiti modesti con banche e fornitori e vuole evitare pignoramenti, può percorrere questa via. Oppure, se preferisce non coinvolgere i creditori nel voto (magari perché sono tanti consumatori o piccoli fornitori difficili da organizzare), se è una persona fisica può utilizzare la ristrutturazione dei debiti del consumatore (niente voto, omologa diretta se il piano è fattibile) oppure, se è un imprenditore minore persona fisica, l’accordo di ristrutturazione del debitore (60% di assensi e omologa). In tutti i casi si passa dall’OCC, l’Organismo di Composizione della Crisi, che offre assistenza e nomina un esperto. Perciò, pur non chiamandosi formalmente “concordato preventivo”, il piccolo imprenditore dispone di meccanismi analoghi per sistemare la sua posizione in tribunale. Da notare che c’è un limite: se l’imprenditore non è più in attività e i suoi creditori sono principalmente l’Erario e banche, la legge (art. 33 CCII) inibisce l’accesso a concordato minore e accordo, per evitare che ex-imprenditori fallibili sfuggano a regole più severe; in tal caso devono andare in liquidazione controllata. Ma al di là di queste finezze, la risposta è: , esistono procedure per i non fallibili equivalenti al concordato. Non si chiamano “preventivo” ma hanno lo stesso scopo di evitare la liquidazione giudiziale (che per i non fallibili assume la forma della liquidazione controllata). Un professionista sovraindebitato, ad esempio, farà un piano di ristrutturazione presso OCC e tribunale, simile a un piccolo concordato.

D.9: Durante una procedura di ristrutturazione (accordo o concordato) l’azienda può continuare ad operare normalmente?
R: In generale , l’azienda può (e spesso deve) continuare la propria attività, ma con alcuni vincoli. Nelle procedure stragiudiziali (piano attestato, accordo di ristrutturazione in negoziazione, composizione assistita) la gestione rimane totalmente in capo all’imprenditore senza formalità aggiuntive. Ad esempio, durante la composizione negoziata l’impresa prosegue l’esercizio normalmente; se ha bisogno di compiere atti straordinari (es. vendere un immobile) l’esperto può consigliare e il tribunale può autorizzare in deroga alle misure protettive vigenti, ma non c’è un divieto generale di operare. Anzi, l’esperto tenderà a agevolare quegli atti utili alla continuità (il correttivo 2024 ha aggiunto che vanno preservati i posti di lavoro ove possibile in caso di trasferimento d’azienda in composizione). – Nelle procedure concorsuali, come il concordato preventivo, vige il principio del debtor in possession: l’imprenditore rimane alla guida e può compiere gli atti di ordinaria amministrazione liberamente. Gli atti di straordinaria amministrazione (ad esempio accendere nuovi mutui, vendere beni non di stock, concedere ipoteche, ecc.) devono però essere autorizzati dal tribunale o dal giudice delegato. Questo per evitare che, durante la procedura, il debitore depauperi il patrimonio o alteri la situazione a scapito dei creditori. Se il debitore necessita di contrarre nuovi finanziamenti per continuare l’attività durante il concordato, può chiederne l’autorizzazione e questi finanziamenti saranno in prededuzione (prioritari). In un concordato in continuità aziendale, la legge anzi richiede di proseguire l’attività secondo il piano: il commissario e il giudice vigilano che non si compiano atti che compromettano la sostenibilità. In un concordato liquidatorio, si può consentire un esercizio provvisorio limitato se funzionale a vendere meglio (es: completare ordini in corso per vendere magazzino a valore più alto). – Quindi sì, l’azienda continua ad operare, ma sotto sorveglianza. Solo in rari casi il tribunale può togliere la gestione al debitore (nomina di un amministratore giudiziario): succede se durante il concordato emergono atti di frode o gravi irregolarità. Ad esempio, se il debitore sottrae beni ai creditori o non collabora col commissario, il tribunale può revocare la procedura e aprire il fallimento con un curatore al posto degli amministratori. Ma in situazioni normali, l’imprenditore conserva la direzione quotidiana dell’impresa. Questo è importante: gran parte dei concordati in continuità vanno avanti col business as usual (ovviamente con qualche difficoltà perché la notizia del concordato può creare incertezza tra clienti e fornitori, ma giuridicamente l’azienda può operare, fatturare, pagare forniture correnti, etc.). Anche i contratti in corso proseguono regolarmente: anzi i creditori contrattuali non possono risolvere i contratti in essere solo perché c’è stato il deposito di un concordato o di un accordo (clausole risolutive legate allo stato di crisi non operano e la legge vieta la cessazione unilaterale di forniture essenziali). Ad esempio, il fornitore di energia non può sospendere la fornitura solo perché l’azienda ha presentato domanda di concordato – deve continuare, salvo non essere pagato, ma in concordato i debiti di gestione corrente vanno pagati regolarmente (prededucibili). Insomma, l’obiettivo della normativa è permettere all’impresa di mantenere la continuità durante la ristrutturazione, proteggendola dalle azioni esecutive e stabilizzando i contratti pendenti. Ciò sia negli accordi (se richieste le misure protettive) sia nei concordati (automatic stay). – Quindi, l’azienda può operare ma con maggiore disciplina: per scelte straordinarie serve il nulla osta del tribunale/commissario, le spese correnti vanno monitorate perché non si aggravino i debiti prededucibili, e la strategia di gestione deve allinearsi al piano di risanamento presentato.

D.10: Quali debiti possono essere ridotti o cancellati in una procedura di ristrutturazione e quali invece devono essere pagati per intero?
R: Dipende dal tipo di credito e dallo strumento utilizzato. In generale, i debiti chirografari (senza garanzie reali né privilegio) possono essere falcidiati liberamente, spesso subendo le riduzioni più significative nel piano. I debiti privilegiati (come quelli garantiti da pegno, ipoteca, privilegio legale su beni) invece godono di una preferenza: in un concordato o accordo ordinario, il principio sarebbe che vanno pagati integralmente almeno fino a concorrenza del valore di realizzo del bene su cui insiste la garanzia (valore di liquidazione). Solo l’eventuale parte eccedente tale valore può essere trattata come chirografaria e quindi falcidiata. Ad esempio, se una banca ha ipoteca su un immobile che vale 100 a fronte di credito 150, in un piano di concordato il primo 100 (valore immobile) va destinato integralmente a quella banca, il restante 50 può essere pagato in percentuale come fosse chirografo. Ci sono però eccezioni: il creditore privilegiato può consentire volontariamente a una soddisfazione inferiore (e a volte conviene accetti un taglio per ottenere il concordato). Inoltre, nel concordato in continuità con RPR, si può dare al privilegiato anche meno del 100% del suo credito se comunque riceve più di ciò che prendono creditori di rango inferiore e almeno il valore di liquidazione. Debiti privilegiati particolari come il TFR dei lavoratori o stipendi degli ultimi mesi hanno protezione fortissima: in pratica vengono sempre pagati integralmente e spesso in prededuzione (nel concordato in continuità i debiti di lavoro ante procedura vanno pagati entro l’omologa se i dipendenti sono essenziali). I debiti di natura fiscale e contributiva privilegiati (IVA, ritenute) per legge non possono essere falcidiati nel capitale se il creditore pubblico si oppone – si possono solo dilazionare fino a 6 anni (salvo transazione fiscale con adesione dell’ente). – Nei piani attestati e accordi stragiudiziali, è questione contrattuale: potenzialmente si possono ridurre solo i debiti dei creditori che accettano. Quindi tipicamente si riducono i debiti bancari (che accettano una moratoria o un haircut), qualche fornitore strategico che collabora, mentre altri creditori vengono pagati regolarmente. Negli accordi di ristrutturazione omologati, i creditori estranei all’accordo (che non hanno firmato) devono per legge essere pagati per intero alle scadenze. Quindi in quell’ambito non si riducono affatto: la falcidia viene sopportata dai sottoscrittori (che magari accettano 80% di soddisfo) ma i non aderenti prendono 100%. – Nel concordato preventivo, invece, tutti i creditori anteriori, aderenti o meno, sono soggetti alle condizioni del piano omologato. Lì si possono falcidiare tutti i crediti chirografari, anche quelli di chi ha votato no (questo è il senso del concordato: vincola la minoranza dissenziente). Esistono però i limiti legali: come detto, crediti con prelazione sono intoccabili nella parte coperta da garanzia salvo consenso, crediti impignorabili (es. multe penali, alimenti dovuti per legge) non possono essere falcidiati, e i crediti di lavoro in concordato devono avere un trattamento specifico (tendenzialmente integrale salvo approvazione esplicita dei lavoratori se rinunciano a qualcosa). Il CCII all’art. 84 richiede anche che ad ogni creditore sia attribuita un’utilità specifica e non solo “niente”: ciò implica che non si può discriminare qualcuno pagando 0% mentre altri prendono qualcosa, se non giustificato da prelazioni o gradi (ovviamente può succedere che i chirografari prendano 5% e i privilegiati soddisfatti prima assorbano tutto, ma all’interno della stessa classe tutti devono avere pari trattamento). Ad esempio, Cass. 32996/2024 ha censurato l’idea che un accordo di ristrutturazione potesse risolversi e poi i creditori aderenti rimanessero con un pugno di mosche: in caso di fallimento seguente, l’accordo è risolto e i crediti originali “riemergono” per intero – ciò a dire che se una procedura non arriva a buon fine, i crediti risorgono nel loro valore iniziale. – In liquidazione giudiziale (fallimento), nessun creditore concorsuale viene pagato per intero a meno che il patrimonio lo consenta (scenario raro); di solito privilegiati prendono percentuali in base alle vendite, i chirografari a volte zero o pochi punti. Ma in liquidazione non c’è “piano” da negoziare, si applica la legge. – Quindi, ricapitolando: un piano di ristrutturazione può tagliare (stralciare) i debiti chirografari in maniera anche significativa, può ristrutturare (dilazionare o ridurre interessi) i debiti privilegiati in accordo col creditore o secondo norme (specie i privilegiati fiscali e contributivi), ma deve comunque garantire ad ogni creditore almeno il valore di realizzo del suo diritto in caso di fallimento, e non può unilateralmente privare un creditore di diritti di prelazione acquisiti (a meno di rispettare le regole di priorità relativa in concordato in continuità, che attenua quell’assolutezza). Un creditore garantito da fideiussione inoltre, se subisce un taglio nel concordato o accordo, perde la possibilità di rivalersi sul fideiussore (il garante è liberato), il che è un effetto indiretto vantaggioso per i coobbligati del debitore principale. Lo stesso per i soci garanti: omologato un accordo, le banche non possono pretendere dai soci più di quanto stabilito (lo ha affermato App. Brescia 2025). In conclusione: nel risanamento si cerca di distribuire i sacrifici in modo equilibrato – i creditori non garantiti spesso sopportano maggior perdite, i garantiti e privilegiati ne sopportano meno o nulla, salvo che volontariamente accettino per rendere possibile la prosecuzione dell’impresa.

D.11: Se un accordo di ristrutturazione omologato poi salta (debitore inadempiente), i creditori che avevano accettato lo stralcio possono recuperare le somme originarie?
R: In linea di massima, sì. La Cassazione ha chiarito che l’apertura di un fallimento (liquidazione giudiziale) dopo un accordo di ristrutturazione risolve automaticamente l’accordo e fa “espandere l’originaria obbligazione” dei creditori aderenti al suo importo iniziale. Cioè, se io creditore ho aderito a un accordo accettando il 70% del mio credito e il debitore non esegue l’accordo e fallisce, io posso insinuarmi nel fallimento per l’intero 100% (meno eventuali acconti ricevuti). Il ragionamento è: l’accordo era condizionato dalla sua funzione di risanamento; venuta meno (perché si è verificata l’insolvenza irreversibile), quell’accordo non può più reggere e le posizioni si retrodatano. Questa pronuncia (Cass. 32996/2024) risolve un dubbio: alcuni pensavano che servisse prima far dichiarare risolto l’accordo da un giudice entro certo termine, ma la Cassazione dice che la dichiarazione di fallimento subentra e fa decadere l’accordo ipso iure per impossibilità sopravvenuta. Quindi i creditori aderenti tornano ad avere il loro credito pieno nel concorso fallimentare. Naturalmente, quanto avevano eventualmente incassato in esecuzione dell’accordo non lo devono restituire (non è revocabile se l’accordo era omologato e pagato correttamente), ma semplicemente concorrono per la differenza. Attenzione: questo vale per l’accordo di ristrutturazione. Se invece era un concordato preventivo omologato e poi il debitore non adempie, tecnicamente finché il concordato non viene risolto con sentenza, i creditori non possono chiedere fallimento (devono prima chiederne la risoluzione entro 1 anno) e se l’anno passa, quei crediti vengono addirittura estinti (il debitore è esdebitato del residuo). Nel concordato preventivo c’è dunque un effetto più vincolante: il creditore non può “riavere il 100%” se lui stesso non ha agito per tempo. In un accordo omologato invece il creditore aderente, come visto, può anche lui chiedere il fallimento subito (SU 4696/2022 ha confermato che il creditore aderente ha legittimazione a istare il fallimento senza attendere risoluzione formale), e come detto se fallisce recupera il diritto pieno. – Quindi, chi aveva accettato uno stralcio non rimane vincolato a esso se il debitore finisce in insolvenza conclamata: quell’accordo condizionale viene travolto e può far valere il credito per intero (detraendo ciò che ha già incassato, ovviamente). Esempio: Tizio vanta 100, aderisce accordo per 70, incassa 20 e poi il debitore fallisce prima di pagare il resto. Nel fallimento Tizio insinua 80 (i 100 originali meno i 20 incassati, visto che l’accordo è risolto). – Nota: se invece l’accordo non viene omologato (perché magari il tribunale l’ha rigettato) o non è mai entrato in vigore, i creditori restano ovviamente con i loro 100%. La possibilità di riavere il credito pieno vale solo perché subentra il fallimento. Se non c’è fallimento ma solo inadempimento e i creditori non agiscono per risolvere l’accordo, resterebbero legati all’accordo. Ma nella prassi, all’inadempimento gli creditori o il debitore stesso di solito si attivano per portare il caso in tribunale (fallimento o concordato). – Insomma, l’ordinamento tutela i creditori che hanno fatto un sacrificio confidando nel risanamento: se il risanamento fallisce, quel sacrificio viene annullato (nessuno sconto definitivo per il debitore inadempiente, a differenza del concordato dove però c’è l’autorità del tribunale a definire la procedura).

Esempi pratici di ristrutturazione (casi simulati)

Per illustrare come questi strumenti si applicano nella realtà, esponiamo alcuni casi ipotetici ispirati a situazioni tipiche di imprese italiane in crisi, dal punto di vista del debitore.

Caso 1: Accordo di ristrutturazione con banche e continuità aziendale
Situazione: Gamma S.p.A. è un’azienda manifatturiera (300 dipendenti) che, a causa di investimenti errati e calo di ordini, accumula 20 milioni di debiti, di cui 12 verso banche (mutui e scoperti di conto), 5 verso fornitori e 3 verso Erario e INPS. Il patrimonio di Gamma consiste principalmente nello stabilimento ipotecato e in macchinari. La crisi di liquidità è seria ma l’azienda ha un portafoglio clienti solido e prospettive di mercato se riduce i costi. Gli amministratori, resisi conto che non potranno rimborsare le rate bancarie imminenti né pagare puntualmente alcuni fornitori, decidono di agire prima che partano decreti ingiuntivi. Scelta: Attivano la Composizione Negoziata nominando un esperto. Durante le trattative, emergono due opzioni: un fondo di private equity si dice disposto a investire 5 milioni in Gamma (in equity) se la posizione finanziaria viene sistemata, e le banche – a fronte di ciò – sono disponibili a ristrutturare il debito (allungare le scadenze e ridurre i tassi, forse stralciare una quota) purché la società non finisca in tribunale con un concordato che le vedrebbe subire tagli peggiori. Con l’aiuto dell’esperto, Gamma trova l’accordo: i 4 istituti bancari (che rappresentano il 100% del debito finanziario) sottoscrivono un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art.57 CCII. In parallelo, il fondo firma un contratto preliminare per sottoscrivere un aumento di capitale da 5 milioni post-omologa. Contenuto dell’accordo: Le banche concordano di: congelare i pagamenti per 6 mesi; convertire 2 milioni di crediti in strumenti partecipativi (o in quote di junior debt subordinato); prorogare di 5 anni le scadenze residui riducendo l’interesse al 1.5%. Gamma si impegna a pagare regolarmente i fornitori strategici (piano li considera estranei da soddisfare integralmente alle scadenze) e a dilazionare i debiti fiscali nei 5 anni come da transazione fiscale (nessun stralcio sul capitale IVA, solo sanzioni ridotte). L’attestatore indipendente conferma che il piano finanziario di Gamma – con l’apporto del fondo e la riduzione oneri finanziari – è sostenibile e che i creditori estranei (fornitori) saranno pagati nei termini legali. Procedura: Gamma deposita in tribunale l’accordo firmato dalle banche (che rappresentano il 60%+ dei crediti totali, soglia raggiunta) e la relativa documentazione. Chiede anche misure protettive verso eventuali fornitori che volessero agire nel frattempo. Il tribunale concede subito la sospensione generale delle azioni esecutive. Nessun fornitore in realtà si oppone perché vedono che continueranno ad essere pagati (non subiscono perdite). All’udienza, l’Agenzia delle Entrate si presenta: formalmente non ha aderito all’accordo perché la proposta prevede il pagamento integrale del suo credito in 5 anni (dilazione), cosa che potrebbe accettare anche fuori dall’accordo. L’Agenzia non si oppone, prende atto della dilazione come da normativa. Il tribunale, verificato che l’accordo ha il quorum e rispetta le condizioni (continuità dell’impresa assicurata, pagamento integrale di fornitori entro 120 giorni da omologa come da attestazione), omologa l’accordo. Esito: Le banche, con la forza di legge dell’omologa, non possono tirarsi indietro: devono rispettare il nuovo piano di rientro; i fornitori estranei vengono pagati man mano alle scadenze originarie (nessun credito vantato oltre i termini). Il fondo investe i 5 milioni, ottenendo il 30% delle azioni di Gamma. L’azienda, con nuova finanza e oneri ridotti, torna gradualmente liquida. Dopo 3 anni Gamma S.p.A. è risanata: i debiti verso banche scendono a livello fisiologico rispettando il piano, i fornitori sono regolari, i debiti fiscali dilazionati quasi esauriti. L’accordo di ristrutturazione si conclude con successo e Gamma evita il fallimento, salvaguardando i posti di lavoro e riprendendo competitività. (Nota: in questo caso, l’accordo ha beneficiato della composizione negoziata per creare fiducia tra le parti. Se una banca fosse stata dissenziente, Gamma avrebbe dovuto valutare un concordato. Fortunatamente tutte hanno aderito, quindi l’accordo è stato approvato con 100% di consensi di quella categoria, rendendo la procedura relativamente consensuale.)

Caso 2: Concordato preventivo in continuità con classi cram-down
Situazione: Delta S.r.l. opera una catena di negozi retail. Ha accumulato 8 milioni di debiti, di cui 3 garantiti (mutuo ipotecario con banca su immobili), 4 chirografari (fornitori, landlord, small loans) e 1 verso il Fisco. La crisi di Delta deriva dal calo delle vendite e da alcuni store non profittevoli. Delta è insolvente: ha saltato canoni di locazione e rate di mutuo, e diversi fornitori hanno ottenuto decreti ingiuntivi. La società però ha ancora un marchio di valore e alcuni negozi redditizi. Scelta: Non riuscendo a trovare accordo con tutti i creditori (alcuni proprietari di negozi pretendono il dovuto per intero, il Fisco non concede dilazioni sufficienti), Delta decide di presentare un concordato preventivo “in bianco” al tribunale. Ottiene così il blocco temporaneo delle azioni esecutive. Nei due mesi seguenti, con l’ausilio di consulenti, Delta predispone un piano di ristrutturazione in continuità: prevede di chiudere 5 punti vendita in perdita e proseguire l’attività con 10 negozi redditizi; metà dei dipendenti purtroppo verranno licenziati con TFR pagato dal piano (assistito da CIG per mitigare); un investitore del settore si impegna, se il concordato passa, a finanziare con 1 milione l’ammodernamento di 5 negozi. Proposta ai creditori: Creazione di due classi di chirografari: (A) proprietari immobiliari dei negozi chiusi, (B) fornitori e altri trade creditors. Classe A riceverà il 40% dei canoni residui a titolo transattivo (anziché fare cause per risarcimento); Classe B riceverà il 20% dei crediti chirografari, pagato in 2 rate entro 2 anni dall’omologa. La banca ipotecaria (creditore privilegiato) è fuori dalle classi: il piano prevede di liquidare due immobili non strategici e dare alla banca l’80% del suo credito – la banca risulta scoperta su circa 0.5 milioni, che degrada a chirografo ed entra in Classe B di fatto. Il Fisco ha parte privilegiata (IVA) e parte chirografa (sanzioni): il piano offre pagamento integrale dell’IVA (ma dilazionato 1 anno) e 15% delle sanzioni (classe B). Maggioranze e approvazione: Si svolge la votazione. – La Classe A (landlord), tot crediti €2M, vota NO: i membri sono infuriati per la chiusura anticipata dei contratti e la proposta 40% la ritengono bassa. (Poniamo abbiano votato tutti e 100% contrari). – La Classe B (fornitori & vari), tot crediti €3M, vota : il 70% in valore ha espresso voto favorevole, il 20% contrario e 10% astenuto. Quindi la classe B è approvata regolarmente (superata la maggioranza richiesta). – La banca privilegiata non vota (fuori classi, è soddisfatta al 80% ipoteca, non integralmente ma la legge consente cram-down del 20% scoperto perché essa ha comunque un trattamento migliore dei chirografari: prende 80 vs 20) e non si oppone formalmente; il Fisco (che avrebbe diritto di voto come chirografo per parte) ha votato contro in Classe B, ma è minoranza lì quindi irrilevante perché la classe B è comunque favorevole. Dunque, abbiamo una classe favorevole (B) e una contraria (A). Delta chiede al tribunale l’omologazione nonostante la classe A dissenziente, invocando il cram down interclassi. Criteri soddisfatti: Il perito attestatore e il commissario evidenziano: (1) Best interest test: i landlord di classe A nel fallimento di Delta avrebbero preso circa 20% (per via di crediti risarcitori poco probabili e concorso con altri), qui prendono 40% quindi sono meglio trattati del fallimentare. (2) Priority rule relativa: i landlord (chirografo “alto”) prendono 40%, la classe B (chirografo “inferiore”) prende 20% – quindi la classe A dissenziente riceve il doppio della classe B subordinata, rispettando la priorità relativa. (3) Una classe (B) ha approvato a larga maggioranza e rappresenta creditori che avrebbero poco in fallimento (fornitori avrebbero <5% stimato, qui 20% con prospettiva di continuare rapporti futuri). (4) Il piano è fattibile: il giudice valuta che con i negozi redditizi e il nuovo investitore, Delta genererà sufficiente cassa per pagare i 40% e 20% promessi alle due classi entro i tempi. Opposizioni: I membri dissenzienti della classe A ovviamente fanno opposizione, sostenendo che i loro contratti avevano clausole penali e il 40% è ingiusto. Il tribunale però rigetta le opposizioni, ritenendo equo il piano: fa notare che se Delta fosse fallita, i landlord avrebbero dovuto insinuarsi come creditori chirografari eventualmente per danni e la probabilità di incasso sarebbe stata bassa; qui ottengono 40% cash e subito (entro 1 anno dall’omologa), quindi il piano è più conveniente per loro rispetto alla liquidazione. Stabilisce inoltre che i creditore pubblici IVA devono essere pagati integralmente e nei termini (questo è nel piano) e l’Erario sul chirografo (sanzioni) con 15% rispetta la regola del non peggior trattamento rispetto ad altri chirografari inferiori (che prendono 20%, qui leggermente meno, ma il giudice tiene conto che i privilegiati fiscali prendono 100% sul capitale IVA). Potrebbe eventualmente imporre un lieve aumento alla sanzione fiscale per portarla almeno al 20% come gli altri, per sicurezza giuridica (lo può fare in sede di cram-down, modulare condizioni se serve rispettare priorità). – Esito: Il concordato è omologato. Delta prosegue con i 10 negozi redditizi, esce dalla procedura. Nei mesi seguenti paga puntualmente il 40% pattuito ai landlord ex-negozi (che dunque recuperano parte perdita) e il 20% ai fornitori. L’investitore immette 1 milione (finanza esterna in esecuzione del concordato destinata a rilancio, e in cambio ottiene quote societarie). A due anni dall’omologa, Delta S.r.l. ha eseguito tutto: i creditori sono stati soddisfatti secondo il piano (o liquidati i beni per farlo), l’azienda è ridimensionata ma stabile e continua la sua attività. I debiti pregressi residui sono cancellati. I landlord che hanno preso 40% non possono più pretendere il restante 60% (sono falcidiati definitivamente). La banca ha recuperato 80% dal realizzo immobili e il resto l’ha dedotto a perdita. I fornitori, benché non integralmente pagati, hanno preferito il 20% più la continuazione del rapporto con Delta come cliente piuttosto che vederla fallire (in quel caso avrebbero preso forse zero e perso un cliente). Questo caso mostra un concordato “vincente” dove il tribunale ha imposto la soluzione nonostante una classe rilevante fosse contraria: grazie alle nuove regole, si è potuto salvare l’impresa calibrando diversamente i recuperi dei creditori. Se l’ordinamento non permettesse il cram-down, la contrarietà dei landlord avrebbe causato il fallimento di Delta, con peggiori conseguenze per (quasi) tutti.

Caso 3: Concordato semplificato dopo composizione fallita
Situazione: Omega S.r.l. (imprenditore edile) è insolvente con 4 milioni di debiti, ma possiede alcuni terreni e cantieri incompiuti. Tenta la composizione negoziata: l’esperto però conclude che nessun accordo è raggiungibile, i creditori sono troppo litigiosi; l’unica strada è liquidare gli asset per pagarli almeno in parte. Azione: Entro 60 giorni dalla relazione finale negativa, Omega propone un concordato semplificato per la liquidazione. Il piano prevede: cessione immediata di 2 terreni a un acquirente per 1,5 milioni (valore di mercato ottenuto con asta organizzata durante la negoziazione), vendita all’asta di macchinari per stimati 0,3 milioni, incasso crediti residui per 0,2. Totale attivo 2,0 milioni. Le spese di procedura stimate 0,1. Resterebbero 1,9 milioni da distribuire ai creditori sui 4 di debito (circa 47%). Omega propone di distribuire in questo modo: ai creditori privilegiati ipotecari (banche su terreni) pagamento 100% fino a concorrenza del ricavato di quei beni (supponiamo i terreni valgano giusto l’importo del loro credito privilegiato, quindi banche prese interamente), ai chirografari (fornitori, artigiani, ecc.) un riparto pro-quota del residuo che dà circa 30% su quanto resta del loro credito; il Fisco, avendo solo crediti chirografari (sanzioni) parteciperà al 30% medesimo. Procedura: Non c’è voto. Il tribunale comunica il piano ai creditori. Vari fornitori piccoli contestano: dicono che preferirebbero il fallimento per vedere azioni di responsabilità contro i soci, ecc. Il tribunale però valuta: il piano dà 30% ai chirografari, in un fallimento probabilmente i tempi lunghi e spese porterebbero a 20-25%. Inoltre l’acquirente dei terreni è pronto ora, se fallisce magari l’offerta non si ripete. Non emergono frodi né malafede di Omega (ha cooperato con l’esperto in buona fede). Il best interest test risulta rispettato: ogni creditore prende almeno quanto in ipotesi liquidatoria standard (il perito nominato come ausiliario lo conferma, stima che in fallimento dopo anni i chirografi avrebbero preso 20%). Il tribunale quindi omologa il concordato semplificato. Nomina un liquidatore (lo stesso esperto, ad esempio) per completare vendite e distribuzioni. Esito: In pochi mesi, i terreni sono trasferiti all’acquirente, arrivano 1,5 milioni subito; i macchinari venduti; il liquidatore ripartisce alle banche ipotecarie il loro 100% (dovuto, essendo ricavato sui beni garanti) e ai chirografari il 30%. Omega S.r.l., esaurito il patrimonio, viene liquidata e cancellata. I creditori non soddisfatti per il 70% residuo devono rinunciare a quella parte (non esiste più l’obbligato, e comunque l’esdebitazione societaria implica che non possono chiedere ai soci se non responsabili di garanzie). Il vantaggio qui è stato di evitare un fallimento lungo: in circa 9 mesi dall’attivazione composizione, Omega ha risolto la crisi, i creditori hanno ottenuto qualcosa di più e prima di quanto avrebbero forse ottenuto dopo anni con un curatore. Certo, i creditori non hanno avuto voce in capitolo sulla percentuale, ma la legge ha bilanciato i loro interessi imponendo il controllo di convenienza. Nota: Se anche un creditore fosse stato fortemente contrario (es. un fornitore convinto che in fallimento avrebbe potuto fare causa agli amministratori per responsabilità), avrebbe potuto proporre opposizione. Il giudice delegato in casi simili può valutare se la condotta degli ex amministratori meriti segnalazione al PM per bancarotta: ma ciò non incide sull’omologa in sé del concordato semplificato (che riguarda la soluzione liquidatoria). Il credito di quel fornitore è stato comunque soddisfatto al 30%, quindi non c’è pregiudizio ingiusto. – Questo scenario evidenzia come il concordato semplificato consenta di chiudere in bonis situazioni altrimenti destinate al fallimento, in modo più rapido e sotto il controllo del debitore (che spesso, come Omega, preferisce vendere lui i beni con acquirenti conosciuti piuttosto che lasciare al curatore l’incombenza).


Questi esempi mostrano la varietà di possibili percorsi. Ogni crisi ha le sue peculiarità: l’arte del risanamento sta nel trovare lo strumento giusto al momento giusto, e nel saper negoziare con i creditori un compromesso che, pur sacrificando in parte i loro crediti, risulti per loro migliore delle alternative (fallimento) e permetta all’impresa di sopravvivere, se c’è valore da salvare. Il nuovo Codice della Crisi offre una cassetta degli attrezzi completa e moderna; spetta all’imprenditore (ben consigliato dai professionisti) utilizzarla per governare la crisi in modo consapevole, anziché subirla passivamente.

Fonti e Riferimenti

  • Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019 n.14, artt. 2, 17-25, 56-64, 84-90, 112, 119-120, 246 e ss. (aggiornato con D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024).
  • Relazione Illustrativa al D.Lgs. 136/2024 (terzo correttivo al CCII) – Principali novità su composizione negoziata, concordato semplificato, segnalazioni e transazione fiscale.
  • Cassazione Civile, Sez. Unite, 28/02/2022, n. 4696 – Legittimazione del creditore aderente ad accordo di ristrutturazione a chiedere il fallimento del debitore inadempiente senza previa risoluzione; distinta disciplina rispetto al concordato preventivo.
  • Cassazione Civile, Sez. I, 17/12/2024, n. 32996 – “Fallimento successivo all’omologazione di accordi di ristrutturazione”: l’accordo omologato si risolve ex art.1463 c.c. per impossibilità sopravvenuta, i crediti “risorgono” al valore originario (massima ufficiale).
  • Cassazione Civile, Sez. I, 28/12/2024, n. 34840 – In materia di omologazione accordi, ha stabilito che il creditore che non abbia proposto opposizione tempestiva non può impugnare tardivamente l’omologa (“reclamo tardivo” inammissibile).
  • Cassazione Civile, Sez. I, 28/12/2024, n. 34842 – Ha affermato che nel cram-down fiscale il tribunale deve assicurare il rispetto della Relative Priority Rule: il Fisco chirografario non può ricevere percentualmente meno dei chirografari di grado inferiore (confermando requisiti di soglie 30-40%).
  • Cassazione Civile, Sez. I, 21/02/2024, n. 4622 – (Procedura da sovraindebitamento) Ha ribadito che un creditore privilegiato non può subire, senza consenso, un pagamento dilazionato oltre i limiti di legge (principio estensibile agli accordi di ristrutturazione: no trattamento deteriore dei privilegiati dissenzienti).
  • Corte d’Appello di Brescia, 30/06/2025 – In tema di accordo ex art.57 CCII: omologato l’accordo nonostante mancata adesione del Fisco ex art.63 co.4 CCII, l’Agente Riscossione diviene creditore “assenziente di diritto” e non conserva azioni contro i coobbligati e fideiussori (liberati ai sensi art.59).
  • Tribunale di Milano, decreto 23/04/2024 – Concordato semplificato: il tribunale in sede di controllo iniziale non può sindacare nel merito le modalità delle trattative svolte in composizione negoziata, ma deve verificarne la coerenza formale. Confermata la fiducia nell’attestazione dell’esperto sulla buona fede salvo contraddizioni apparenti.
  • Tribunale di Roma, ord. 26/05/2025 – Composizione negoziata: ha ritenuto che le misure protettive concesse ex art.54 CCII non si trasformano automaticamente in misure cautelari; per ottenere provvedimenti specifici (oltre alla sospensione generica delle azioni) il debitore deve richiederli espressamente ex art.54 co.1 (ad es. sospendere un singolo contratto), con udienza ad hoc.
  • Tribunale di Brindisi, ord. 26/05/2025 – Ha esteso le misure protettive della composizione negoziata anche al fideiussore imprenditore di fatto: confermata la possibilità di proteggere il patrimonio di terzi garanti quando strettamente collegati all’impresa debitrice (interpretazione estensiva art.54).
  • Tribunale di Fermo, 05/05/2025 – Concordato semplificato: ha negato l’omologa rilevando carenza di fattibilità concreta (piano non raggiungeva obiettivi minimi, inaffidabilità delle stime). Ha sottolineato che l’assenza di voto dei creditori impone al giudice un controllo rigoroso sulla fattibilità e convenienza per evitare concordati semplificati abusivi.
  • Tribunale di Bergamo, 11/04/2023, n.65/2023 – Primo caso di cross-class cram down: omologato un concordato preventivo in continuità nonostante il voto contrario di talune classi, applicando art.112 CCII. Confermato che l’unanimità delle classi (art.109) è derogabile se condizioni cram-down soddisfatte.
  • Tribunale di Lecce, 04/05/2023 – Concordato semplificato: ha autorizzato per la prima volta le misure protettive generali in pendenza di concordato semplificato, ritenendo che nulla nel testo dell’art.54 CCII le vieta in tale procedura. Sospese azioni esecutive su istanza del debitore in semplificato. Seguito da Tribunale di Forlì, 28/03/2024, consolidando la prassi di concedere lo stay anche in concordati semplificati.
  • Linee Guida CNDCEC“Adeguati assetti organizzativi e indici di allerta” (2023): definiscono check-list per l’implementazione di sistemi di controllo interno. Evidenziano alcuni segnali di crisi codificati dall’art.3 CCII (esposizioni scadute su retribuzioni, fornitori, banche oltre soglie) che gli assetti devono rilevare tempestivamente.

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