Cosa Fare Se L’Agenzia Delle Entrate Contesta Che La Residenza Estera È Solo Formale

Hai trasferito la tua residenza all’estero, ma l’Agenzia delle Entrate ti contesta che si tratta solo di una residenza formale e non effettiva? Hai ricevuto un avviso di accertamento per presunta esterovestizione o per omessa dichiarazione dei redditi in Italia? Ti stai chiedendo quali sono i criteri per essere considerato fiscalmente residente all’estero e come puoi difenderti da questa accusa?

Il trasferimento della residenza all’estero non è sufficiente da solo per evitare la tassazione in Italia. Se il Fisco ritiene che la tua presenza all’estero sia solo fittizia, può considerarti ancora residente in Italia e pretendere il pagamento delle imposte su tutti i tuoi redditi mondiali.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta una residenza estera solo formale?
– Se sei iscritto all’AIRE ma trascorri più di 183 giorni l’anno in Italia
– Se hai ancora in Italia la famiglia, la casa, il centro degli interessi vitali
– Se mantieni attività economiche, cariche sociali, immobili, conti correnti o relazioni stabili in Italia
– Se non riesci a dimostrare un trasferimento reale e stabile all’estero
– Se utilizzi strutture societarie estere ma gestisci l’attività dall’Italia

Cosa rischi se ti contestano una residenza solo fittizia?
– L’Agenzia ti considera fiscalmente residente in Italia, anche se iscritto all’AIRE
– Ti impone la tassazione in Italia di tutti i redditi esteri
– Recupera imposte, interessi e sanzioni fino al 240%
– In caso di condotta fraudolenta, può scattare anche la segnalazione penale per dichiarazione infedele o omessa
– Rischi il blocco dei conti, accertamenti patrimoniali, pignoramenti

Come puoi difenderti da questa contestazione?
– Dimostra la tua effettiva permanenza all’estero con biglietti, bollette, contratti di lavoro o affitto
– Prova che il tuo centro degli interessi vitali è all’estero: famiglia, scuola dei figli, sanità, residenza fiscale
– Documenta che in Italia hai solo presenze saltuarie o obblighi occasionali
– Contesta formalmente l’avviso, chiedendo accesso agli atti e contraddittorio
– Se necessario, valuta un ricorso tributario per far valere i tuoi diritti
– Verifica se puoi beneficiare delle convenzioni contro le doppie imposizioni per evitare tassazione duplicata

Cosa puoi ottenere con una difesa ben impostata?
– L’annullamento dell’accertamento se il Fisco non dimostra la residenza effettiva in Italia
– La conferma della tua residenza fiscale estera, se supportata da prove solide
– La tutela del tuo patrimonio estero
– L’evitamento del contenzioso penale e della doppia tassazione
– Il pieno riconoscimento della tua posizione fiscale internazionale

Trasferirsi all’estero non è reato, ma deve essere reale e documentabile. Se il Fisco presume che sia solo un espediente per non pagare le imposte, puoi e devi difenderti con strumenti legali.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario ti spiega cosa fare se l’Agenzia delle Entrate contesta che la tua residenza estera è solo formale, quali sono i criteri reali di residenza e come proteggerti da tassazioni ingiuste.

Hai ricevuto un accertamento per residenza fittizia? Vuoi sapere se la tua posizione è a rischio? Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Ti diremo se puoi difendere la tua residenza fiscale estera e come evitare una tassazione integrale in Italia.

Introduzione

Hai ricevuto una contestazione sulla tua residenza fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate e ti stai chiedendo cosa significa, cosa rischi e come puoi difenderti? Hai spostato la residenza all’estero (magari iscrivendoti all’AIRE), ma ora ti accusano di essere ancora fiscalmente residente in Italia? Di seguito presentiamo una guida completa – aggiornata a luglio 2025 – che spiega cosa fare se l’Agenzia delle Entrate contesta che la tua residenza estera è solo “formale”. Verranno illustrate le norme italiane rilevanti, incluse le novità normative dal 2024, e si forniranno strategie difensive (sia in fase di accertamento sia nel successivo contenzioso davanti alle Commissioni Tributarie e in Cassazione) con riferimento alle più recenti sentenze e chiarimenti ufficiali. Troverai anche tabelle riepilogative, domande frequenti (FAQ) e alcune simulazioni pratiche basate su casi reali, il tutto dal punto di vista del contribuente (debitore) e in un linguaggio giuridico ma comprensibile.

Prima di entrare nel merito tecnico, riassumiamo subito i punti essenziali in forma di domande e risposte per avere una panoramica immediata della questione:

  • Quando scatta la contestazione della residenza fiscale?
    – Quando, nonostante la residenza dichiarata all’estero, mantieni in Italia una casa, una famiglia o attività economiche rilevanti.
    – Se risulti presente in Italia più di 183 giorni l’anno (oltre metà anno).
    – Se percepisci redditi in Italia non dichiarati (come affitti, stipendi, ecc.) o l’Agenzia sospetta che il tuo espatrio sia solo fittizio.
    – Quando la tua iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) non è suffragata da prove di un trasferimento effettivo (es. vivi di fatto ancora in Italia).
  • Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate?
    – Che in realtà sei fiscalmente residente in Italia per legge, anche se anagraficamente risultavi all’estero.
    – Che hai omesso di dichiarare redditi (esteri o anche italiani) in Italia, evadendo le imposte dovute.
    – Che il tuo trasferimento all’estero è solo formale, mentre il tuo domicilio effettivo è rimasto in Italia.
    – In conseguenza di ciò, l’Agenzia può chiedere il recupero delle imposte evase con sanzioni molto elevate e persino ipotizzare un’evasione penalmente rilevante nei casi più gravi.
  • Come puoi difenderti da una contestazione sulla residenza fiscale?
    Dimostrando con fatti concreti che il centro dei tuoi interessi personali e patrimoniali è davvero all’estero (es. la tua famiglia, lavoro, proprietà principali sono all’estero).
    Esibendo documentazione chiara: contratto di affitto o acquisto di casa all’estero, utenze di luce/gas estere, tessera sanitaria straniera, conti bancari esteri, contratto di lavoro estero, abbonamenti e iscrizioni locali, scuola dei figli all’estero, ecc..
    Provando che in Italia hai solo legami marginali (es. una casa lasciata vuota o affittata, visite saltuarie) o comunque non il centro dei tuoi affari.
    Contestando eventuali errori o assunzioni arbitrarie dell’Agenzia (ad esempio, contestando il calcolo errato dei giorni di presenza in Italia) e fornendo spiegazioni convincenti.
    Agendo tempestivamente: presentando se possibile un’istanza di autotutela (richiesta di annullamento in via amministrativa) con le tue prove, e comunque un formale ricorso entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento.
  • Cosa puoi ottenere con una difesa ben costruita?
    Il riconoscimento della tua effettiva residenza fiscale estera, con conseguente caducazione della pretesa italiana.
    L’annullamento dell’accertamento impugnato e la salvaguardia della tua posizione fiscale, evitando doppi prelievi.
    L’evitare sanzioni e imposte indebite (pagheresti solo quanto dovuto correttamente altrove, evitando le pesanti sanzioni italiane).
    La tutela della tua libertà di movimento, potendo vivere dove vuoi senza presunzioni infondate di residenza italiana.
  • Cosa NON devi mai fare?
    Pensare che la sola iscrizione AIRE basti: è un adempimento formale importante, ma non decisivo da solo; conta la sostanza della tua vita.
    Ignorare l’avviso di accertamento: se non reagisci entro 60 giorni con un ricorso, l’atto diventa definitivo e incontestabile.
    Sottovalutare i legami con l’Italia: anche elementi in apparenza minori (una carta di credito utilizzata in Italia, bollette attive) possono costituire indizi di residenza per il Fisco.
    Improvvisare una difesa senza piano: la residenza fiscale è un tema complesso che richiede metodo e strategia; conviene farsi assistere da esperti per impostare la difesa.

Come si vede, la contestazione della residenza fiscale si può vincere, ma solo con una strategia documentale e giuridica solida e ben pianificata. Nella guida che segue, approfondiremo tutti gli aspetti rilevanti – normativi e pratici – per difendersi efficacemente da un’accusa di residenza estera fittizia. Affronteremo:

  • i criteri legali che definiscono la residenza fiscale secondo la normativa italiana (persone fisiche e società), con attenzione alle novità introdotte dal 2024;
  • le presunzioni di legge (es. mancata iscrizione AIRE, trasferimento in Stati “black list”) e il relativo onere della prova;
  • i poteri investigativi dell’Amministrazione finanziaria per scoprire i falsi non residenti (dai controlli incrociati ai questionari, fino all’accertamento);
  • i profili internazionali, cioè i casi di doppia residenza e l’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni (tie-breaker);
  • gli strumenti di tutela del contribuente (dall’autotutela in via amministrativa al ricorso in Commissione Tributaria e oltre), con le strategie difensive più efficaci da adottare e i suggerimenti della giurisprudenza più recente.

Il tutto sarà integrato da FAQ (domande frequenti) e casi pratici simulati, per aiutare sia professionisti sia privati a comprendere in concreto come prevenire e affrontare al meglio un’eventuale contestazione della residenza fiscale. Procediamo quindi con ordine.

Cosa si intende per residenza fiscale e perché è importante

In diritto tributario italiano, la residenza fiscale di una persona fisica identifica un legame sufficientemente forte con il territorio dello Stato tale da giustificare la tassazione in Italia di tutti i suoi redditi, ovunque prodotti. Al contrario, chi non è residente fiscale in Italia viene tassato dall’Italia solo sui redditi di fonte italiana. Determinare correttamente la residenza è quindi cruciale: un cambio di residenza fiscale da Italia a estero sposta la potestà impositiva da uno Stato all’altro e può comportare differenze enormi di tassazione.

L’art. 2 del D.P.R. 917/1986 (Testo Unico Imposte sui Redditi, TUIR) definisce i criteri secondo cui una persona fisica è considerata residente fiscale in Italia. In sintesi, è residente ai fini delle imposte sui redditi il soggetto che, per più di metà anno (almeno 183 giorni, o 184 se anno bisestile), soddisfa anche uno solo dei seguenti requisiti alternativi:

  • Iscrizione nelle anagrafi comunali della popolazione residente: criterio formale, basato sulla risultanza ufficiale di residenza anagrafica in un Comune italiano. In pratica significa essere registrati all’APR (Anagrafe della Popolazione Residente) di un Comune, avendo dichiarato lì il proprio domicilio abituale. Questo è l’aspetto “anagrafico” della residenza: se sei iscritto all’anagrafe in Italia, formalmente sei considerato residente (salvo prova contraria, come vedremo).
  • Residenza civile in Italia (art. 43, co. 2 c.c.): il concetto civilistico di residenza corrisponde al luogo della dimora abituale della persona. In altre parole, è il posto in cui vivi quotidianamente la tua vita personale. È un criterio sostanziale basato sui fatti: dove passi la maggior parte del tempo? Se di fatto vivi stabilmente in Italia, hai residenza civile in Italia, anche se magari l’anagrafe dice altro.
  • Domicilio in Italia (art. 43, co. 1 c.c.): il domicilio è definito come la sede principale degli affari e interessi della persona. Questo concetto include non solo gli interessi economico-patrimoniali, ma anche quelli personali, sociali e familiari, secondo l’interpretazione tradizionale. È un criterio sostanziale, potenzialmente diverso dalla residenza anagrafica: ad esempio, uno può risultare formalmente residente all’estero, ma se mantiene in Italia il centro effettivo dei propri affari e relazioni (lavoro, patrimonio, famiglia), ha il domicilio in Italia. In ambito fiscale, il domicilio spesso equivale al centro degli interessi vitali del contribuente.

Queste tre condizioni – iscrizione anagrafica, residenza civile e domicilio – operano in alternativa: basta che una sola di esse si verifichi per oltre metà anno perché la persona sia considerata residente fiscale in Italia. In concreto, ciò significa ad esempio che anche un soggetto formalmente iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) può essere ritenuto residente fiscale in Italia se, di fatto, mantiene in Italia la propria dimora abituale o il centro dei propri interessi per un periodo rilevante. Viceversa, chi è iscritto in anagrafe italiana ma passa la maggior parte del tempo e ha gli interessi all’estero potrebbe comunque essere tassato come residente (specie secondo la previgente interpretazione, come vedremo).

Perché è così importante la residenza fiscale? Perché un residente fiscale italiano è tassato in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti (principio del worldwide income), mentre un non residente paga imposte in Italia solo sui redditi di fonte italiana. Dunque stabilire dove una persona è fiscalmente residente determina quali redditi vanno dichiarati e tassati in Italia. Non sorprende che il Fisco vigili attentamente sui trasferimenti di residenza dichiarati all’estero, verificando se al trasferimento formale corrisponda un reale spostamento della vita personale ed economica fuori dall’Italia. In mancanza di un effettivo trasferimento, l’Amministrazione finanziaria può contestare la pretesa residenza estera e rivendicare le imposte sui redditi che considera sottratti a tassazione in Italia (oltre a sanzioni).

Criteri legali di residenza fiscale: normativa previgente e novità dal 2024

La disciplina italiana della residenza fiscale è stata oggetto di una riforma significativa dal 2024. Fino al 31 dicembre 2023 valevano i criteri già descritti, in vigore sin dal 1986, e sviluppati dalla giurisprudenza in senso spesso formalistico. Dal 1° gennaio 2024, con il Decreto Legislativo n. 209/2023 (attuativo della delega per la fiscalità internazionale), sono operative nuove regole sia per le persone fisiche sia per le società. L’obiettivo è modernizzare e rendere più chiari i criteri di collegamento rilevanti, allineandoli alle prassi internazionali. È fondamentale comprendere le differenze tra il vecchio regime e quello nuovo, anche perché la Corte di Cassazione ha chiarito che le novità non hanno portata retroattiva e valgono solo dal 2024 in avanti.

La residenza fiscale delle persone fisiche: ieri e oggi

Prima del 2024, la norma (art. 2 TUIR nella vecchia formulazione) prevedeva i tre criteri alternativi (anagrafe, domicilio, residenza) e si affidava all’interpretazione per definirne la portata. La giurisprudenza prevalente, in caso di dubbio, tendeva ad attribuire maggior peso al domicilio inteso come centro degli interessi economici del contribuente, rispetto ai legami affettivi. In altri termini, per individuare il centro degli interessi vitali, i giudici guardavano soprattutto a dove erano concentrati affari, patrimoni, incarichi lavorativi e disponibilità economiche del soggetto. I rapporti personali e familiari contavano meno, a meno che fossero supportati da altri elementi univoci. Ad esempio, la Cassazione privilegiava spesso – in presenza di legami affettivi divisi tra due Paesi – il luogo dove il contribuente gestiva imprese, deteneva beni o cariche sociali importanti. Ne risultava un approccio piuttosto formalista/materiale: l’iscrizione anagrafica in Italia veniva considerata di per sé sufficiente a radicare la residenza fiscale in Italia (come una presunzione assoluta), anche se il contribuente sosteneva di vivere altrove. La Cassazione ha ribadito in più occasioni questo principio (ad es. Cass. 16634/2018; Cass. 1355/2022) affermando che il dato anagrafico era di per sé decisivo. Ciò poteva portare a esiti severi persino in presenza di conflitti di residenza con altri Stati (in teoria risolvibili via convenzione, ma di fatto trascurati in questa visione).

Dal 2024, la riforma ha apportato cambiamenti sostanziali: il nuovo art. 2 TUIR (come modificato dall’art. 1 D.Lgs. 209/2023) elenca espressamente quattro elementi da considerare per la residenza delle persone fisiche. Tali elementi sono: (i) la residenza anagrafica; (ii) il domicilio; (iii) la residenza (dimora abituale); (iv) la presenza fisica in Italia. Inoltre, è chiarito che per domicilio si intende «il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona», non più solo la sede degli affari ed interessi economici. Questa è una svolta importante: il legislatore ha spostato il focus del domicilio fiscale verso la sfera personale (famiglia, affetti), allineandolo agli standard OCSE che privilegiano i legami familiari nel definire il center of vital interests.

Un’altra novità cruciale è l’introduzione esplicita del criterio della presenza fisica sul territorio: se un individuo soggiorna in Italia per più di 183 giorni nell’anno, ciò è di per sé sufficiente a qualificarlo come residente fiscale. In passato la presenza >183 giorni era solo la condizione temporale per far scattare uno degli altri criteri, ma non era menzionata come criterio a sé. Ora invece lo è, e si specifica che nel calcolo si considerano anche i giorni non continuativi e le frazioni di giorno. Resta fermo che non esiste il regime di “split-year”: se superi 183 giorni in Italia, sei considerato residente per tutto l’anno d’imposta (principio già affermato prima e ora confermato espressamente).

Riassumendo, dal 2024 i criteri per le persone fisiche diventano quattro (anagrafe, domicilio, residenza, presenza fisica) e viene chiarito che:

  • L’iscrizione anagrafica in Italia costituisce ora una presunzione solo relativa di residenza, superabile con prova contraria. Non è più un criterio assoluto: essere iscritti all’APR italiana fa presumere la residenza, ma il contribuente può provare di avere invece la vita all’estero.
  • Il domicilio rileva soprattutto come luogo delle principali relazioni personali e familiari, per legge, e non più e non solo come centro affari. Ciò non vuol dire che gli interessi economici non contino più nulla, ma ora il nucleo familiare e sociale ha un ruolo preminente nella nozione di domicilio fiscale.
  • La residenza (dimora abituale) mantiene lo stesso concetto civilistico, ed è sempre un criterio sostanziale da valutare in base ai fatti (dove la persona abita normalmente). Deve però sussistere per più di 183 giorni/anno per essere considerata soddisfatta.
  • La presenza fisica >183 giorni è un nuovo criterio autonomo: se una persona passa in Italia la maggior parte dell’anno, scatta comunque la residenza fiscale, a prescindere dalle risultanze anagrafiche o da altre considerazioni.

Nella tabella seguente sono riassunti i principali cambiamenti nel concetto di residenza fiscale per le persone fisiche prima e dopo la riforma:

CriterioFino al 2023 (vecchia normativa)Dal 2024 (D.Lgs. 209/2023)
Iscrizione anagrafica in ItaliaPresunzione assoluta di residenza fiscale in Italia (criterio formale). Bastava risultare iscritto all’APR di un Comune italiano per essere considerato residente, anche se di fatto vivevi altrove. Questo approccio formalistico era avallato dalla Cassazione fino al 2023.Presunzione relativa di residenza. L’iscrizione anagrafica conta ancora, ma può essere superata da prove oggettive di effettiva residenza estera. In altre parole, se risulti iscritto all’APR ma puoi dimostrare con documenti che in realtà vivevi stabilmente all’estero, la presunzione cade.
Residenza (dimora abituale)Definizione civilistica (art. 43 c.c.): luogo della dimora abituale. Era un criterio sostanziale alternativo, la cui applicazione dipendeva dalle prove sui fatti (es. frequenza di soggiorno in Italia, disponibilità di un’abitazione qui, ecc.). Spesso, però, veniva “oscurato” dal criterio anagrafico (che in pratica prevaleva).Concetto invariato nella sostanza, sempre criterio sostanziale. Tuttavia, va valutata congiuntamente agli altri criteri e deve sussistere per >183 giorni/anno per contare. In sostanza: se realmente la tua dimora abituale era all’estero per la maggior parte dell’anno, questo prevale sul dato formale anagrafico.
Domicilio (centro degli interessi)Definizione civilistica (art. 43 c.c.): sede principale degli affari e interessi. Interpretato soprattutto in senso economico (affari, lavoro, patrimonio); i legami affettivi erano considerati secondari. Era il criterio sostanziale chiave su cui si concentravano le verifiche fiscali (centro degli interessi patrimoniali).Ridefinito dal legislatore: è il luogo in cui si svolgono prevalentemente le relazioni personali e familiari. Si allinea agli standard internazionali enfatizzando il nucleo familiare/affettivo. Resta un criterio sostanziale alternativo, ma con focus spostato sui legami personali (pur senza ignorare del tutto quelli economici).
Presenza fisica in Italia (>183 giorni)Non menzionata espressamente come criterio autonomo. Si considerava comunque il requisito temporale della “maggior parte del periodo d’imposta” (183 giorni) come condizione per applicare gli altri criteri, ma non era un elemento a sé stante. Nessun regime di “split-year”: se eri residente per >183 gg, eri considerato residente per tutto l’anno.Inserita come criterio autonomo: la presenza fisica in Italia per più di metà anno di per sé fa scattare la residenza fiscale. Il calcolo considera anche i giorni non consecutivi e le frazioni di giorno. Confermato che non c’è split-year: superata la soglia di 183 giorni in Italia, sei residente per l’intero anno fiscale.

Altri aspetti degni di nota: fino al 2023 vigeva una speciale presunzione (relativa) solo per i trasferimenti in Paesi black-list (art. 2, comma 2-bis TUIR) – di cui parleremo tra poco – e l’iscrizione AIRE di per sé non esonerava dal considerare gli altri criteri (la giurisprudenza diceva chiaramente che l’iscrizione all’AIRE “non basta” se poi uno mantiene domicilio o residenza in Italia). Dal 2024, quella presunzione black-list resta in vigore (non è stata abrogata), mentre l’iscrizione anagrafica è diventata esplicitamente relativa. Inoltre, è stato confermato (anche dalla Cassazione) che i casi di doppia residenza vanno risolti applicando i criteri delle Convenzioni internazionali, che prevalgono sul diritto interno.

In sostanza, la riforma 2023/2024 enfatizza l’aspetto personale e fattuale della residenza, limitando approcci troppo formalistici. L’Amministrazione finanziaria stessa, nella Circolare 20/E del 4 novembre 2024, ha sottolineato che le modifiche mirano a garantire maggiore certezza e ad allinearsi alle migliori prassi internazionali. Va però precisato che per i periodi d’imposta fino al 2023 continuano ad applicarsi i criteri previgenti: le nuove regole non hanno effetto retroattivo. Infatti, la Cassazione – con sentenza n. 19843 del 18/07/2024 – ha chiarito che le nuove norme valgono solo dal 2024 in poi, applicando nei casi precedenti la vecchia impostazione. In quella pronuncia (riguardante un contribuente formalmente residente a Monaco dal 2006 al 2010) la Suprema Corte ha confermato la residenza italiana per quegli anni privilegiando, secondo i vecchi criteri, gli interessi economici in Italia rispetto ai legami affettivi transnazionali. D’ora in avanti, invece, in un caso analogo si dovrebbe dare maggior peso a dove si svolge la vita familiare e personale.

In sintesi, dal 2024 per una persona fisica si considera residente fiscale in Italia chi, per più di metà anno, presenta almeno uno di questi requisiti: (a) iscrizione anagrafica (presunzione superabile); (b) domicilio in Italia (ora inteso come centro delle relazioni personali/familiari); (c) residenza civile in Italia (dimora abituale); (d) presenza fisica in Italia >183 giorni. Rimane il fatto che basta integrarne uno per oltre metà anno per la residenza, ma ora il contribuente ha maggiori appigli formali per difendersi facendo emergere la realtà fattuale quando diversa dal dato formale. In altre parole, se prima un’iscrizione in anagrafe italiana “blindava” la residenza in Italia, adesso conta molto di più dove effettivamente la persona vive e ha i suoi legami.

La residenza fiscale delle società e l’esterovestizione

La riforma del 2024 ha toccato anche i criteri di residenza per le società ed enti. In base alla disciplina tradizionale (art. 73 TUIR ante 2024), una società era considerata residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta, aveva in Italia la sede legale o la sede dell’amministrazione (direzione effettiva) o l’oggetto principale dell’attività. Erano tre criteri alternativi: l’ultimo (“oggetto principale”) fungeva da clausola residuale, servendo a attribuire la residenza allo Stato in cui la società svolgeva in concreto la maggior parte della sua attività economica quando né la sede legale né quella amministrativa fornivano un esito certo.

Dal 1° gennaio 2024, l’art. 2 D.Lgs. 209/2023 ha modificato questi parametri: è stato eliminato il criterio dell’oggetto principale e si è precisato che contano i primi due elementi oppure la gestione operativa prevalente nel territorio italiano. In pratica, oggi per le società rileva se per la maggior parte dell’anno hanno in Italia (i) la sede legale, (ii) la sede di direzione effettiva, oppure (iii) il centro della gestione corrente (operativa) dell’impresa. Anche questi sono criteri alternativi e fattuali: basta che uno sussista in Italia per oltre metà anno perché la società sia considerata residente. Si è dunque abbandonato il riferimento all’“oggetto sociale” formale, per evitare che una società dichiari un oggetto di comodo in uno Stato estero mentre in realtà operazioni e decisioni sono prese in Italia.

Questo adeguamento normativo mira a contrastare meglio il fenomeno dell’esterovestizione societaria, cioè la fittizia localizzazione all’estero di società che di fatto sono gestite dall’Italia (di solito per ridurre le tasse). Prima, l’Agenzia delle Entrate doveva concentrare le prove sul fatto che la sede di direzione effettiva fosse in Italia, o che l’attività operativa principale si svolgesse qui, per “riqualificare” come italiana una società formalmente estera. Ora questi elementi sono stati codificati come criteri primari di collegamento. Resta in vigore, inoltre, la presunzione anti-elusiva dell’art. 73 comma 5-bis TUIR: sono considerate residenti in Italia, salvo prova contraria, le società formalmente estere ma controllate da soggetti residenti (persone fisiche italiane) e con asset prevalentemente in Italia. Questa presunzione – anch’essa relativa – consente al Fisco di presumere l’esterovestizione in certi casi di società estere controllate da italiani (tipicamente società aperte in paradisi fiscali ma gestite di fatto dall’Italia).

Una recente pronuncia della Cassazione conferma l’approccio sostanzialistico verso le società: l’Ordinanza Cass. n. 1075/2025. In quel caso, una S.r.l. aveva trasferito la sede legale in Brasile, ma i soci e la gestione restavano in Italia. Nacque una disputa sulla competenza territoriale dell’ufficio accertatore: le commissioni tributarie locali avevano dato ragione alla società, annullando l’accertamento per incompetenza territoriale dell’ufficio italiano (ritenendo che, essendosi trasferita la sede all’estero, avrebbe dovuto agire un ufficio “esteri”). La Cassazione ha ribaltato la decisione, affermando che in caso di trasferimento fittizio all’estero di una società, il domicilio fiscale resta nell’ultima sede legale in Italia; gli altri criteri (sede amministrativa, etc.) diventano residuali. In pratica: se la “fuga” all’estero è solo sulla carta, vale l’ultima sede nota in Italia sia ai fini della competenza che della residenza fiscale. Ciò evidenzia come la forma non possa prevalere sulla sostanza: per contestare un’esterovestizione, il Fisco utilizza ogni evidenza che la struttura estera è vuota o diretta dall’Italia (assenza di personale e uffici reali all’estero, soci e amministratori residenti in Italia, contabilità che mostra operazioni svolte in Italia, ecc.). Dal lato del contribuente, per difendersi occorre dimostrare esattamente il contrario, ossia dare sostanza economica reale alla localizzazione estera (management locale, attività svolta sul posto, autonomia della società estera). Approfondiremo oltre le strategie difensive per le società, ma è chiaro che la materia è molto tecnica e fact-intensive (basata sui fatti concreti di gestione).

Conclusione su questo punto: per le società, dal 2024 rileva se l’azienda è diretta e opera davvero fuori dall’Italia, altrimenti sarà considerata residente qui. La riforma normativa e l’indirizzo giurisprudenziale recentissimo in Cassazione (vedi Cass. 1075/2025) vanno entrambi verso il concetto che un trasferimento fittizio all’estero non inganna il Fisco, né sul piano delle imposte né su quello procedurale (competenza degli uffici). Chi vuole mantenere società all’estero deve poter dimostrare “substance over form”, cioè che la società vive di vita propria all’estero, altrimenti rischia di incorrere nella presunzione di esterovestizione con conseguenze fiscali e anche penali.

Presunzioni legali di residenza e onere della prova: iscrizione AIRE e trasferimenti in paradisi fiscali

Nel valutare le contestazioni sulla residenza fiscale, entrano in gioco alcune presunzioni legali previste dalla normativa, che incidono sull’onere della prova. In particolare, due situazioni meritano attenzione speciale: (1) il caso di chi non si è cancellato dall’anagrafe italiana (o non si è iscritto all’AIRE) pur sostenendo di risiedere all’estero; (2) il caso di chi si è trasferito in un Paese a fiscalità privilegiata (i cosiddetti paradisi fiscali, Paesi black-list). In questi casi, la legge italiana predispone delle presunzioni a favore dell’Amministrazione finanziaria, lasciando al contribuente l’onere di provare il contrario.

Iscrizione anagrafica e AIRE: Fino al 2023, come già accennato, la giurisprudenza considerava l’iscrizione nelle anagrafi dei residenti in Italia come una sorta di presunzione assoluta di residenza fiscale italiana. In pratica, se un cittadino italiano si trasferiva all’estero ma ometteva di iscriversi all’AIRE, continuando a risultare residente in un Comune italiano, veniva considerato comunque residente in Italia ai fini fiscali. Cassazione ha più volte affermato questo principio, ad esempio con Cass. 16634/2018 e Cass. 1355/2022. Era un’impostazione molto formalistica (criticata dalla dottrina e da alcune commissioni di merito), perché ignorava la realtà fattuale o persino le convenzioni internazionali in caso di doppia residenza.

Con la riforma dal 1/1/2024, come visto, l’iscrizione anagrafica è diventata presunzione relativa. Ciò significa che l’Agenzia delle Entrate può presumere residente chi risulta iscritto all’APR in Italia, ma se il contribuente fornisce prova documentale che la sua situazione di fatto era diversa (ad esempio che dimorava stabilmente all’estero), la presunzione può essere vinta. La Circolare 20/E/2024 ha specificato che le prove devono consistere in “elementi oggettivamente riscontrabili” della residenza estera. Insomma, ora essere rimasti iscritti in Italia crea ancora un problema, ma non è più la “condanna” automatica che era un tempo: puoi difenderti mostrando la realtà effettiva.

Va detto che già prima del 2024 c’erano casi in cui la mancata iscrizione AIRE non veniva considerata decisiva: se un contribuente, pur non cancellato dall’anagrafe italiana, risultava contemporaneamente residente secondo le leggi di un altro Stato (es. aveva domicilio, famiglia e magari iscrizione anagrafica locale all’estero), si configurava una doppia residenza. In tali frangenti, sia l’Agenzia delle Entrate (con varie risposte a interpello, ad es. n. 25/2018, n. 203/2019, n. 370/2023) sia la giurisprudenza di vertice hanno riconosciuto che bisogna applicare i criteri convenzionali per stabilire in quale Paese la persona è residente in via esclusiva. Questo perché le Convenzioni contro le doppie imposizioni, in virtù dell’art. 117 primo comma della Costituzione, hanno valore superiore alla legge interna (sono obblighi internazionali) e prevalgono su di essa. Dunque, un soggetto formalmente residente in Italia ma di fatto residente anche in un altro Stato convenzionato può invocare la Convenzione per far valere i tie-breaker a suo favore. E l’Italia dovrà adeguarsi al risultato convenzionale, limitandosi a tassare i redditi che le competono. Ad esempio, se Tizio non si è iscritto all’AIRE ma ha trasferito la famiglia e il lavoro stabilmente in Francia (Paese con convenzione), e applicando i criteri della Convenzione Italia-Francia risulta prevalente la residenza francese, l’Italia deve riconoscergli la residenza estera nonostante la formalità mancante. Naturalmente, non iscriversi all’AIRE rimane sconsigliabile perché espone a contestazioni e inverte l’onere della prova a tuo carico, ma non è sempre una condanna senza appello: c’è spazio (specie con una Convenzione) per dimostrare che la residenza effettiva era all’estero. Oggi, con la novella del 2024, questo spazio difensivo è ancor più riconosciuto dalla legge.

Trasferimenti in Stati a fiscalità privilegiata (Paesi black list): L’altra situazione delicata è quella disciplinata dall’art. 2, comma 2-bis TUIR (introdotto nel 1990 e modificato nel 2000 e 2008). Questa norma prevede che si considerano residenti in Italia, salvo prova contraria, i cittadini italiani che si cancellano dall’anagrafe e trasferiscono la residenza in Stati o territori a regime fiscale privilegiato. È quindi una presunzione legale relativa, concepita come misura anti-evasione verso le finte emigrazioni in paradisi fiscali. La logica è chiara: se ti sei trasferito in un paradiso fiscale, presumibilmente l’hai fatto per ragioni elusive, quindi l’onere di dimostrare che vivi davvero lì (e non in Italia) ricade interamente su di te. In tali casi, diversamente da quanto avviene coi Paesi “normali” (white list) dove è il Fisco che deve provare la residenza italiana, qui si inverte l’onere: sei tu contribuente che devi provare il tuo reale espatrio. Se non ci riesci, la legge permette di considerarti ancora residente in Italia e tassarti su tutto, come se non fossi mai “partito”.

Questa inversione dell’onere rende molto insidioso trasferirsi in Stati a tassazione nulla o bassa. L’Agenzia Entrate, in questi casi, può legittimamente pretendere dal contribuente una documentazione puntuale su ogni aspetto della sua vita all’estero: casa, lavoro, famiglia, conti bancari, attività sociali, ecc. Il contribuente emigrato in un paradiso fiscale è, agli occhi del Fisco, “colpevole fino a prova contraria”.

La lista dei Paesi considerati a fiscalità privilegiata viene fissata da decreti (originariamente DM 4 maggio 1999, aggiornato negli anni). Ad esempio, fino a poco tempo fa figurava anche la Svizzera; tuttavia col DM 20 luglio 2023 (attuativo della delega fiscale 2021) la Svizzera è stata rimossa dall’elenco black-list ai fini IRPEF (effetto dal periodo d’imposta 2024), poiché ormai ha siglato accordi di cooperazione fiscale con l’UE e l’Italia. Restano però in lista molti Paesi notoriamente a bassa tassazione: es. Principato di Monaco, Emirati Arabi Uniti (Dubai), alcune isole caraibiche, ecc.. È sempre opportuno verificare l’elenco vigente al momento del trasferimento, per sapere se la meta estera è considerata black-list e dunque soggetta a questa presunzione.

Come si supera la presunzione black-list? Non è semplice. Occorre convincere il Fisco italiano che c’è stato un reale trasferimento di vita all’estero, portando quante più prove concrete possibile. In pratica, significa dover fornire evidenze del fatto che il centro della propria esistenza è nel Paese estero e che in Italia non si sono più mantenuti legami significativi. La Cassazione ha specificato che servono “elementi gravi, precisi e concordanti” per contestare la residenza estera di qualcuno; allo stesso modo, ci vorranno elementi altrettanto solidi da parte del contribuente per ribaltare la presunzione nei Paesi black list. Ad esempio, tra le prove utili ci sono: contratti di acquisto o locazione di una casa all’estero, iscrizioni dei figli a scuole estere, utenze (bollette) che attestino la presenza sul posto, contratti di lavoro o d’impresa svolti stabilmente oltreconfine, iscrizione al sistema sanitario estero, ecc.. Se le prove prodotte dimostrano che la persona viveva stabilmente fuori d’Italia (abitazione principale, vita familiare e lavorativa all’estero), allora l’Ufficio dovrà riconoscere la residenza estera nonostante la presunzione iniziale.

Per completezza, ricordiamo che un’analoga presunzione esiste per le società: l’art. 73 comma 5-bis TUIR (già menzionato) prevede che società esterovestite controllate da italiani siano considerate residenti in Italia salvo prova contraria. Ma questo rientra più nel campo dell’esterovestizione societaria (di cui abbiamo detto sopra) che in quello delle persone fisiche.

In sintesi sulle presunzioni:

  • Se non ti iscrivi all’AIRE (pur vivendo all’estero), oggi c’è una presunzione relativa che tu sia ancora residente in Italia, ma puoi vincerla con prove che attestino la tua effettiva dimora e vita all’estero.
  • Se ti trasferisci in un paradiso fiscale, c’è una presunzione relativa inversa (art. 2 co.2-bis) che ti considera comunque residente in Italia finché non dimostri il contrario. L’onere della prova è a tuo carico e la difesa richiede molta documentazione solida.

Tenere a mente queste regole è fondamentale per modulare la strategia difensiva. In pratica: chi si trasferisce in un Paese a bassa tassazione deve prepararsi a raccogliere prove molto più robuste della genuinità del trasferimento, rispetto a chi si trasferisce in un Paese “normale” dove l’onere di prova iniziale grava sull’Amministrazione.

Come l’Agenzia delle Entrate individua i falsi non residenti: poteri di accesso, indagine e accertamento

L’Amministrazione finanziaria italiana dispone di ampi poteri di controllo per verificare se i trasferimenti di residenza all’estero dichiarati dai contribuenti siano effettivi o fittizi (esterovestizione). Negli ultimi anni, grazie all’evoluzione tecnologica e alla cooperazione internazionale, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno intensificato la vigilanza sui soggetti che tentano di sottrarsi al Fisco simulando un espatrio. Vediamo quali strumenti tipicamente utilizzano e come si svolge, in pratica, un accertamento sulla residenza fiscale.

Selezione dei contribuenti a rischio e primo contatto (questionari)

Ogni anno, l’Amministrazione effettua analisi incrociate di banche dati per individuare i nominativi di contribuenti a rischio “esterovestizione” da controllare. I profili che vengono segnalati come più a rischio sono in genere: cittadini italiani che hanno comunicato il trasferimento all’estero (cancellazione APR e iscrizione AIRE) ma continuano ad avere significativi interessi economici o familiari in Italia; oppure soggetti che, pur avendo trasferito formalmente la residenza fuori, mantengono proprietà o relazioni nel territorio italiano (case, imprese, ecc.); oppure ancora italiani che emigrano verso noti paradisi fiscali.

L’Agenzia può attingere a numerose fonti informative per compilare queste liste di controllo. Alcuni esempi di indicatori e dati utilizzati:

  • Anagrafe tributaria e registri pubblici: incrocio dei dati anagrafici (cancellazione dall’APR, iscrizione AIRE) con altre informazioni fiscali. Ad esempio, se un soggetto risulta AIRE ma continua a presentare dichiarazioni dei redditi in Italia (per qualche reddito) o possiede immobili in Italia, scatta un alert. Il semplice fatto di avere fatto l’AIRE ma poi avere ancora attività dichiarative o beni importanti in Italia segnala incoerenza.
  • Archivio dei rapporti finanziari: l’Agenzia ha accesso all’archivio dei conti correnti bancari, investimenti finanziari e movimenti. Se una persona che dichiara di essersi trasferita continua ad avere conti e movimenti rilevanti in banche italiane, è un forte indizio. Inoltre, tramite lo scambio internazionale automatico di informazioni (CRS – Common Reporting Standard), l’Italia riceve dati sui conti bancari che i residenti fiscali italiani detengono all’estero. Può emergere così, ad esempio, che il Paese estero comunica un conto a nome di Tizio come residente italiano – segno che per quell’altro Paese Tizio risultava residente locale (il che è incoerente con l’asserita residenza estera).
  • Utenze, consumi e acquisti in Italia: l’Agenzia può ottenere dati sulle utenze domestiche (bollette di luce, gas, telefono) e su abbonamenti e contratti intestati al contribuente in Italia. Ad esempio, se Caio risulta emigrato ma mantiene attive utenze elettriche con consumi elevati in un appartamento a lui intestato in Italia, è segno che quell’immobile è abitato (forse proprio da Caio). Similmente, spese con carte di credito italiane, transiti Telepass, acquisti in Italia, ecc., forniscono tracce di presenza.
  • Dati catastali e immobiliari: la proprietà o disponibilità di immobili in Italia è un fattore primario. Chi si dichiara trasferito ma mantiene una casa di proprietà in Italia (specie se libera a propria disposizione) viene monitorato. Soprattutto se risultano utilizzi di tale casa (utenze attive con consumi, ecc.), il Fisco sospetta che il soggetto la usi personalmente, quindi che in realtà dimori ancora in Italia.
  • Legami familiari e sociali: le banche dati fiscali non registrano direttamente i rapporti affettivi, ma si possono trovare segnali indiretti. Esempio: i registri scolastici. Se i figli del contribuente risultano iscritti a scuole in Italia, è un indicatore ovvio che la famiglia è rimasta qui. Oppure risultanze come cariche in associazioni, circoli, attività sportive in Italia che rivelano una presenza sociale sul territorio.
  • Cariche societarie e imprese in Italia: questo è un indicatore potentissimo. L’Agenzia verifica se il contribuente espatriato mantiene ruoli di amministratore, sindaco o socio di rilievo in società italiane. Avere ruoli direttivi in aziende italiane contrasta con l’idea di aver spostato il proprio centro vitale fuori: se Tizio continua ad essere amministratore unico di una SRL in Italia, presumibilmente rientra spesso o comunque gestisce affari italiani, quindi il suo domicilio fiscale potrebbe essere ritenuto ancora qui. Anche la titolarità di partita IVA italiana attiva, o di imprese individuali, è un segnale.
  • Redditi e flussi finanziari: se l’individuo continua a percepire redditi dall’Italia (stipendi, compensi da amministratore, redditi d’impresa, rendite finanziarie) nonostante ufficialmente risieda all’estero, l’Agenzia lo rileva. Anche i flussi di denaro da/per l’estero sono monitorati: trasferimenti ricorrenti di fondi dall’Italia al Paese estero di residenza (o viceversa) possono indicare che l’interessato ha ancora base economica in Italia o che porta soldi fuori per spenderli qui. La normativa antiriciclaggio e i report bancari aiutano in ciò.
  • Social media e presenza mediatica: può sembrare curioso, ma ormai rientra tra le fonti ausiliarie. L’Agenzia o la Guardia di Finanza possono consultare i profili social (Facebook, Instagram, LinkedIn) del contribuente, cercando indizi di presenza fisica in Italia. Esempio: foto o post geolocalizzati che mostrano la persona spesso in Italia, o articoli di stampa su eventi in cui compare sul territorio nazionale. Chiaramente non sono prove definitive, ma tasselli di un mosaico probatorio. (In indagini più approfondite, possono anche emergere dati dalle celle telefoniche agganciate dal cellulare, o transiti doganali, o uso di carte e bancomat, ecc.)

Tutti questi indizi vengono incrociati per selezionare i casi sospetti. Una volta individuato un contribuente come possibile “falso non residente”, il primo atto che l’Amministrazione tipicamente compie è l’invio di un questionario o invito a fornire informazioni. Si tratta di una lettera (ex art. 32 DPR 600/1973) con cui l’Ufficio chiede al contribuente di spiegare la propria situazione di espatriato e di fornire determinati documenti. Ad esempio, viene chiesto di indicare da quando e dove si risiede all’estero, in quale alloggio, con che attività lavorativa, se la famiglia si è trasferita, quali proprietà si hanno ancora in Italia, ecc., e di allegare copie di: contratto di casa all’estero, bollette estere, certificato di iscrizione AIRE, certificato di residenza estero, ecc..

Questo passaggio è cruciale: il contribuente ha l’opportunità di presentare la sua versione e magari convincere l’ufficio sin da subito. Spesso l’avviso di accertamento vero e proprio scatta solo se le risposte al questionario sono ritenute insufficienti o se, peggio, il contribuente non risponde affatto. Ignorare il questionario (o rispondere in modo evasivo) è altamente sconsigliabile: si perde un’occasione di difesa precoce, e l’Agenzia potrebbe procedere con l’accertamento basandosi solo sulle informazioni che ha (interpretandole nel modo peggiore). Inoltre, la mancata risposta può far scattare sanzioni per omissione di collaborazione e può consentire al Fisco di presumere veri certi fatti non smentiti (esempio: chiedono “confermi di aver abitato in Italia in tale periodo?” e uno tace, potrebbero presumere di sì).

Poteri di indagine e raccolta delle prove

Durante l’istruttoria sulla residenza, gli uffici delle Entrate e la Guardia di Finanza possono utilizzare una vasta gamma di poteri istruttori previsti dalla legge. Tra questi:

  • Accessi, ispezioni e perquisizioni: strumenti tipici per aziende, ma in casi particolari possono riguardare anche abitazioni private (con le dovute autorizzazioni) se vi è fondato sospetto che il contribuente, formalmente all’estero, dimori invece in Italia. Esempio: se emerge che Tizio è spesso presente in una certa casa in Italia, la GdF potrebbe fare un accesso domiciliare (con autorizzazione della Procura, trattandosi di domicilio privato) per verificare se vi trova effetti personali che indichino vita stabile lì. Queste azioni “sul campo” sono usate con cautela e più spesso nel penale che nell’amministrativo tributario, ma restano possibili in casi estremi.
  • Indagini finanziarie: l’art. 32 DPR 600/1973 consente all’Agenzia di ottenere dalle banche e intermediari finanziari l’elenco dei conti e movimenti del contribuente. È uno strumento potentissimo. Analizzando i conti si può vedere: dove il contribuente prelevava denaro con le carte (in Italia o all’estero), dove spendeva (pagamenti POS geolocalizzati), se pagava bollette di case italiane, se riceveva stipendi esteri su conti italiani, ecc.. Tutto ciò fornisce elementi temporali di presenza: ad esempio, l’utilizzo frequente di un bancomat in Italia durante l’anno X è un indice che la persona era fisicamente in Italia in quei giorni. Le indagini finanziarie, unite ai dati CRS sui conti esteri, fanno emergere anche conti all’estero non dichiarati (che se uno fosse non residente sarebbe lecito non dichiarare, ma se poi contestano la residenza diventano attività estere non monitorate e sanzionabili).
  • Cooperazione internazionale e scambio di informazioni: grazie alle convenzioni e accordi europei, l’Agenzia può richiedere informazioni al fisco di un altro Paese. Esempio: se Sempronio sostiene di vivere in Spagna, l’Italia può chiedere alla Spagna di fornire i dati di residenza, eventuali dichiarazioni dei redditi presentate lì, proprietà immobiliari, ecc.. Ormai con molti Paesi c’è uno scambio automatico di informazioni (soprattutto finanziarie) e, nell’UE, la cooperazione amministrativa consente audit congiunti o risposte rapide alle richieste mirate. Ci sono stati casi in cui l’Italia ha ottenuto dalle autorità estere copie di contratti d’affitto, attestati di iscrizione dei figli a scuola all’estero, etc., forniti dallo Stato estero su domanda. Questa cooperazione può smascherare le finte residenze: ad es., se il Paese estero certifica che il contribuente non risulta residente fiscale da loro, l’Italia ne prende nota.
  • Interazioni con enti italiani: per legge, i Comuni italiani devono verificare entro 6 mesi le domande di iscrizione AIRE dei cittadini. Ciò significa che, quando uno chiede l’AIRE, il Comune di ultima residenza italiana effettua controlli per accertare che abbia davvero lasciato l’abitazione in Italia. Spesso i vigili urbani fanno un sopralluogo per certificare che la casa è vuota o i vicini confermano che Tizio è espatriato. Questi riscontri possono essere trasmessi all’Agenzia Entrate. Analogamente, l’Agenzia può coordinarsi con altri enti come l’INPS: ad esempio, ha incrociato dati sui pensionati all’estero (controllando quanti percepiscono pensione dall’Italia e dove la riscuotono) o sui lavoratori “in distacco” all’estero (contributi sospesi ecc.).
  • Monitoraggio media e Internet: come già detto, le Fiamme Gialle possono analizzare social network e altre fonti aperte in rete per cercare tracce di permanenza in Italia. Ad esempio, vedere che il soggetto continua a essere socio di un golf club in Italia e partecipa ad eventi, o controllare registri pubblici (PRA per auto/barche) per vedere se compra veicoli in Italia, ecc.. Tutti questi elementi di collegamento con l’Italia vengono accumulati nel fascicolo.

Dall’indagine all’accertamento formale

Se dall’istruttoria emergono elementi sufficienti (in gergo “gravi, precisi e concordanti”) per ritenere che il contribuente fosse in realtà residente in Italia in un certo periodo, l’Agenzia procede a emettere un avviso di accertamento per quell’anno d’imposta. Nell’avviso contesta formalmente la residenza fiscale in Italia del contribuente per l’anno X e recupera le imposte dovute sui redditi esteri non dichiarati in Italia (o su tutti i redditi, se il soggetto non aveva proprio presentato dichiarazione credendosi non residente).

Nota: la formula “gravi, precisi e concordanti” è mutuata dal diritto (art. 2729 c.c.) e significa che il Fisco deve mettere insieme una serie di indizi seri e coerenti tra loro. Ad esempio, il fatto di avere casa + famiglia + conti in Italia e stare qui 200 giorni, concordemente indica residenza qui. Solo prove isolate o contraddittorie non bastano.

Spesso l’accertamento della residenza fiscale è accompagnato da un accertamento dei redditi con metodo induttivo: se il contribuente non ha presentato dichiarazioni in Italia per quegli anni (ritenendosi non residente), l’Ufficio cercherà di ricostruire i redditi imponibili usando i dati raccolti (movimenti bancari, investimenti, acquisti, tenore di vita). In alcuni casi viene notificato un accertamento sintetico ex art. 38 DPR 600/1973, basato sulle spese sostenute compatibili con un certo reddito occulto, insieme alla contestazione della residenza. Ad esempio: se risulti aver speso/importato tanti soldi, presumono che avevi un reddito non dichiarato di almeno quell’entità.

Un aspetto procedurale: la competenza territoriale ad emettere l’atto di accertamento normalmente è quella dell’ultimo domicilio fiscale noto in Italia del contribuente. Se uno si è cancellato per l’estero, in teoria sarebbe competente l’Ufficio centralizzato per gli ex-residenti esteri (esiste a Pescara un ufficio dedicato). Tuttavia, spesso la pratica viene seguita dall’ufficio locale dove la persona risiedeva prima, e non di rado sorgono contestazioni sulla competenza. Come visto nel caso Cass. 1075/2025, la Cassazione ha stabilito che in caso di trasferimento fittizio il domicilio fiscale rimane in Italia, e quindi l’ufficio italiano originario è competente. In generale, se l’Agenzia ti accerta attraverso l’ufficio del tuo ultimo Comune italiano, è difficile eccepire incompetenza se sostengono (anche provvisoriamente) che sei rimasto ivi residente di fatto.

La notifica dell’avviso di accertamento viene effettuata all’ultimo indirizzo italiano del contribuente (la residenza/domicilio che risulta prima della cancellazione) oppure ad un eventuale domiciliatario fiscale designato. Se sei iscritto AIRE, la notifica può essere fatta all’estero (tramite raccomandata internazionale o via consolato/diplomazia, procedimento che può essere lungo). Spesso, per praticità, l’Ufficio invita il contribuente a nominare un rappresentante fiscale in Italia per le notifiche, ma non sempre ciò avviene. In fase di difesa, è essenziale verificare la correttezza della notifica: da essa decorrono i 60 giorni per fare ricorso, quindi se fosse nulla o irregolare potrebbe riaprire i termini o invalidare l’atto.

In sintesi, il processo tipico è: individuazione di “red flags” (indizi) su un soggetto espatriato ⇒ invio di questionario ⇒ analisi delle risposte + raccolta di info aggiuntive ⇒ se il Fisco ritiene le spiegazioni non convincenti, emissione di avviso di accertamento (contestando la residenza italiana e chiedendo imposte e sanzioni). L’accertamento di residenza fiscale è impugnabile come qualsiasi altro atto impositivo: dunque una volta ricevuto, il contribuente può (e deve, se non condivide) presentare ricorso alla giustizia tributaria per far valere le proprie ragioni.

(Da notare: prima di emettere l’avviso, in alcuni casi l’Agenzia potrebbe invitare il contribuente a un contraddittorio anticipato, specialmente se la normativa lo prevede. Ad esempio, dal 2020 in poi è stato introdotto l’obbligo di contraddittorio preventivo per alcuni accertamenti fiscali. Nel caso di residenza fittizia, non c’è un obbligo fisso di invito, ma se viene fatto, è un’opportunità in più per difendersi prima dell’atto finale.)

Prima di passare a come difendersi legalmente, vale la pena riassumere gli indici di collegamento con l’Italia che tipicamente l’Agenzia utilizza in sede di accertamento, molti dei quali abbiamo già menzionato. La determinazione della residenza di fatto, infatti, si basa su una valutazione complessiva di una serie di indizi di collegamento con il territorio italiano. Questi provengono da vari ambiti: familiare, economico, patrimoniale, sociale. La prassi e la giurisprudenza li hanno in parte elencati (come abbiamo visto sopra con la Circolare 20/E 2024 e altre fonti). In generale, i principali indicatori di un radicamento in Italia considerati dal Fisco sono:

  • Famiglia stretta in Italia: coniuge e/o figli che rimangono a vivere stabilmente in Italia. Soprattutto figli a scuola in Italia indicano fortemente che il centro degli interessi familiari è qui.
  • Abitazione a disposizione in Italia: possedere (o avere a disposizione) una casa in Italia, non affittata a terzi, suggerisce che il contribuente ha un luogo dove abitare qui e probabilmente lo utilizza (specie se risulta arredata e con utenze attive).
  • Cariche sociali in entità italiane: ricoprire ruoli di amministratore o sindaco in società con sede in Italia è un chiaro indice di interessi economici stabili nello Stato.
  • Partecipazioni in società italiane: avere quote significative (partecipazioni qualificate) in società residenti indica legami patrimoniali con l’Italia, specialmente se da esse si traggono dividendi o compensi regolari.
  • Attività lavorativa o d’impresa in Italia: se il contribuente continua a lavorare in Italia, come dipendente, autonomo o imprenditore, è ovviamente incompatibile con un trasferimento reale all’estero (non si può pretendere di essere “espatriati” ma lavorare stabilmente in Italia). Anche lavorare “da remoto” per un’azienda estera ma stando in Italia può far scattare la residenza, se si passa la maggior parte del tempo sul suolo italiano.
  • Interessi economici in Italia: investimenti finanziari importanti in Italia, proprietà di beni mobili registrati in Italia (auto, barche immatricolate qui), polizze assicurative italiane, mutui con banche italiane, ecc., segnalano un centro di interessi economici nel Paese. Ad esempio, se un soggetto si trasferisce a Dubai ma lascia in Italia un vasto patrimonio immobiliare che gestisce personalmente, l’Agenzia lo considererà un forte indizio di interessi patrimoniali rimasti in Italia.
  • Legami personali, sociali, politici in Italia: iscrizione e partecipazione attiva a circoli, club, associazioni italiani; ruoli politici o cariche pubbliche locali; presenza frequente a eventi pubblici in Italia; mantenimento di cariche in ordini professionali italiani, ecc., tutto ciò contraddice l’idea di uno spostamento del centro di vita all’estero.
  • Movimenti e permanenza fisica in Italia: se si riescono a documentare le entrate e uscite dal Paese (timbri sul passaporto, biglietti, tracciamento del cellulare in sede penale, etc.) e risulta una permanenza in Italia prolungata o frequente, ciò è considerato alla stregua di una dimora abituale. Anche se uno dice “tornavo solo per vacanze”, se queste vacanze sommate fanno 5-6 mesi l’anno, è residenza di fatto.
  • Interposizione fittizia: il Fisco sta attento anche a eventuali stratagemmi per occultare legami. Se, ad esempio, la casa in Italia viene intestata a un parente prima del trasferimento, o le auto a una società di famiglia, l’Agenzia indaga se sono intestazioni fittizie. Se dimostra che quei beni restano nella disponibilità dell’expat (usati da lui, pagati con i suoi soldi), li considera comunque suoi collegamenti. Insomma, cercare di “schermare” i propri asset italiani intestandoli ad altri raramente inganna il Fisco, anzi può aggravare la posizione (comportamento doloso).

Ovviamente, non è necessario che siano presenti tutti questi elementi per far presumere la residenza in Italia; spesso ne bastano alcuni, purché significativi, valutati nel loro insieme. Come osserva la Cassazione, ci vogliono appunto elementi concordanti per trarre una conclusione. Ad esempio, se una persona ha la moglie e i figli in Italia, più una casa a disposizione e magari delle cariche societarie, già questi tre fattori congiunti probabilmente convinceranno il Fisco a procedere con l’accertamento, anche se il soggetto insiste che “vive a Londra”.

Dal lato del contribuente, la strategia difensiva sarà di dimostrare l’assenza (o l’irrilevanza) di tali legami con l’Italia, e parallelamente la presenza forte di legami con l’estero (così da spostare il baricentro fuori). Più avanti vedremo in dettaglio quali prove produrre a proprio favore (es. iscrizioni al sistema sanitario estero, contratto di lavoro straniero, ecc.), ma in generale occorre fornire indici di radicamento all’estero tali da controbilanciare o annullare quelli italiani.

(Il documento dal quale traiamo queste indicazioni – Circolare 20/E 2024 – riassumeva in uno schema proprio i due gruppi di indizi contrapposti: da un lato quelli che il Fisco vede come sintomi di residenza in Italia, dall’altro quelli che il contribuente dovrebbe raccogliere per dimostrare la residenza effettiva all’estero. Per brevità non riportiamo qui l’intero schema, ma ne abbiamo desunto i punti principali come sopra.)

Un caso particolare, molto comune, è quello del lavoratore espatriato con famiglia rimasta in Italia. L’Agenzia presta particolare attenzione a questa situazione: ha chiarito, ad esempio nella Risposta a interpello 25/E/2018 e nella Circolare 20/E/2024 già citata, che in tal caso il domicilio fiscale tende a rimanere in Italia perché gli interessi familiari prevalenti restano qui. In pratica, se un marito si trasferisce a lavorare a Londra ma moglie e figli restano nella casa di famiglia in Italia, per la legge interna italiana egli è ancora residente (domicilio in Italia) in quanto il fulcro affettivo è rimasto nello Stato d’origine.

Come può difendersi il contribuente in tale situazione? L’unica via è appellarsi alla Convenzione contro le doppie imposizioni invocando i tie-breaker dell’art. 4 del Modello OCSE (vedi sezione successiva). Dovrà cercare di dimostrare che, nonostante la famiglia in Italia, alcuni criteri convenzionali gli attribuiscono la residenza estera: ad esempio, che ha abitazione permanente solo all’estero, oppure che il soggiorno abituale è soprattutto all’estero (se passa tipo 10 mesi l’anno fuori e solo 2 in Italia con la famiglia). Ma è una difesa complessa, perché per l’Italia “famiglia in Italia = domicilio in Italia” di regola. Bisogna portare prove forti e sperare di convincere il giudice che quei tie-breaker spostano la residenza fuori malgrado la famiglia. Una soluzione pragmatica (non sempre attuabile) è far sì che almeno il coniuge segua il lavoratore all’estero, o comunque limitare moltissimo la permanenza della famiglia in Italia (es. organizzare che stiano con lui buona parte dell’anno, se possibile). Se proprio la famiglia deve restare, il contribuente deve essere pronto al contenzioso e consapevole di trovarsi in una zona grigia rischiosa.

Profili internazionali: la doppia residenza e le Convenzioni contro le doppie imposizioni

Come accennato, può succedere che due Stati considerino entrambi una persona come loro residente fiscale in base alle rispettive leggi interne (ad esempio l’Italia in base all’anagrafe, l’altro Stato in base al domicilio nel suo territorio). Questa doppia residenza potenziale è un problema che le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni risolvono mediante apposite clausole di raccordo. Lo scopo è evitare che una persona risulti fiscalmente residente in due Stati contemporaneamente (il che, pur non comportando automaticamente doppia tassazione integrale grazie ai crediti d’imposta, creerebbe comunque gravi complicazioni e incertezze).

La stragrande maggioranza delle convenzioni fiscali bilaterali stipulate dall’Italia segue l’art. 4 del Modello OCSE per definire la residenza delle persone fisiche. In particolare, l’art. 4(2) del Modello OCSE prevede una serie di tie-breaker rules (criteri di “spareggio”) da applicare in ordine gerarchico per stabilire a quale Stato attribuire in via esclusiva la residenza fiscale del soggetto. I criteri, nell’ordine, sono i seguenti (li elenchiamo per chiarezza):

  1. Abitazione permanente – In quale dei due Stati la persona dispone di un’abitazione permanente (cioè una casa in cui può stabilmente abitare). Se solo in uno dei due, è residente di quello Stato. Se ne ha una in entrambi (o nessuna), si passa al criterio successivo.
  2. Centro degli interessi vitali – Si valutano i legami personali ed economici complessivi per vedere a quale Stato il soggetto è più strettamente legato. Questo criterio è simile al concetto di domicilio: include famiglia, lavoro, proprietà, affari, relazioni sociali, etc. Se i legami pendono chiaramente da una parte, vince quello Stato. Se restano incerti o bilaterali, si passa al prossimo criterio.
  3. Soggiorno abituale – Si guarda dove la persona soggiorna abitualmente, ossia in quale dei due Paesi trascorre più tempo nell’anno. È un criterio quantitativo (giorni di presenza). Se uno dei due supera l’altro, vince quello Stato. Se anche qui c’è parità (cosa rara, bisognerebbe stesse esattamente metà e metà), si passa al successivo.
  4. Nazionalità – Se i primi tre non risolvono, la persona è considerata residente (ai fini convenzionali) dello Stato di cui ha la cittadinanza (se ha la cittadinanza di uno solo dei due). Se ha doppia cittadinanza (o nessuna dei due), si passa all’ultimo criterio.
  5. Accordo amichevole tra Stati – In mancanza di soluzione automatica, le autorità competenti dei due Paesi devono consultarsi e raggiungere un accordo su dove considerare residente la persona. Questo è un criterio residuale e raro, perché di solito uno dei primi quattro criteri risolve il conflitto.

Grazie a queste regole, nella maggior parte dei casi pratici la disputa si chiude al primo o secondo livello: o la persona ha un’abitazione fissa solo da una parte, oppure gli interessi vitali pendono chiaramente da un lato. Se proprio non bastano, si va al terzo (dove passa più tempo) che quasi sempre è dirimente. Il quarto (cittadinanza) interviene di rado. Il quinto (accordo tra Stati) quasi mai.

È importante sottolineare che la Convenzione prevale sul diritto interno: quindi, anche se la legge italiana direbbe che Tizio è residente (magari per iscrizione anagrafica), se la Convenzione stabilisce – applicando i tie-breaker – che Tizio è da considerare residente esclusivamente dell’altro Stato, l’Italia deve riconoscerlo come non residente e limitarsi a tassare i soli redditi italiani. Questo principio di prevalenza dei trattati internazionali è stato sancito anche dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 26965/2009) e ribadito in molte pronunce. Ad esempio, Cass. 24246/2015 ha riconosciuto la residenza estera convenzionale a un contribuente formalmente residente in Italia, facendone prevalere la Convenzione.

In pratica, ciò significa che se l’Agenzia delle Entrate ti contesta la residenza in Italia ma esiste una Convenzione applicabile con l’altro Paese, dovresti prontamente invocarla. Ad esempio, presentando all’ufficio un certificato di residenza fiscale rilasciato dall’estero e ragionando in base ai tie-breaker (abitazione, interessi vitali, ecc.). L’Agenzia stessa, in alcune sue risposte a interpello (ad es. n. 203/2019 e 370/2023), ha riconosciuto casi di prevalenza della residenza estera proprio grazie ai criteri convenzionali, pur in presenza di iscrizione anagrafica in Italia. Naturalmente spetta al contribuente l’onere di provare i fatti su cui applicare i tie-breaker (deve fornire lui le prove di dove aveva casa, famiglia, lavoro, etc.).

Esempio concreto semplificato: Caio si trasferisce in Canada (Paese con convenzione con l’Italia). Dimentica di iscriversi AIRE subito e rimane anagraficamente in Italia per parte del primo anno. L’Italia lo considera residente per quell’anno (iscrizione anagrafica e >183 gg in Italia), il Canada pure perché Caio ha ottenuto lo status di residente in Canada e ci trascorre 9 mesi su 12. C’è doppia residenza per quell’anno. Applicando la Convenzione Italia-Canada:

  • Abitazione permanente: Caio ha un appartamento in affitto in Canada tutto l’anno; in Italia viveva nella casa dei genitori (ancora disponibile). Quindi ha un’abitazione in entrambi.
  • Interessi vitali: la fidanzata è rimasta in Italia e Caio aveva un conticino bancario in Italia, però il lavoro e il grosso della vita erano in Canada. Un criterio un po’ incerto ma tendenzialmente propende per Canada.
  • Soggiorno abituale: 9 mesi in Canada vs 3 mesi in Italia – prevale nettamente il Canada.

In base a questo, la convenzione attribuisce la residenza al Canada (già al terzo criterio). L’Italia, una volta dimostrato ciò, dovrebbe trattarlo come non residente per quell’anno. Caio dovrà comunque presentare in Italia la dichiarazione come non residente per i suoi eventuali redditi italiani (affitti, ecc.), ma non sarà tassato sui redditi esteri.

Va notato che se il Paese estero NON ha una Convenzione con l’Italia, la situazione è più complicata. In tal caso non c’è un meccanismo pattizio vincolante e si può creare un conflitto senza soluzione prestabilita. Il contribuente potrebbe risultare formalmente residente per entrambe le legislazioni nazionali. In assenza di convenzione, davanti al giudice italiano non si possono invocare criteri convenzionali come diritti, ma solo come elementi di fatto a sostegno (al più, dire “guardate, secondo standard OCSE sarei estero”). Purtroppo, in tali casi, se l’Italia vuole insistere e le prove non bastano a escludere i criteri interni, il contribuente può trovarsi bloccato: ad esempio con alcuni paradisi fiscali senza trattato (Monaco, fino all’accordo del 2023 sui frontalieri, oppure vari Stati caraibici), l’unica via è dimostrare di non soddisfare i criteri di residenza interni italiani, perché non c’è una norma superiore da invocare. Ciò richiede ancor più prove e, spesso, combattere in causa con minori tutele.

Infine, le Convenzioni contengono anche clausole per evitare la doppia tassazione (credito d’imposta, esenzione di alcuni redditi, ecc.), ma questo attiene alla ripartizione delle basi imponibili una volta definita la residenza. Il nostro focus qui è sullo status di residenza, quindi non entriamo nei dettagli di quelle clausole (sebbene siano importanti per evitare di pagare due volte). In ogni caso, in presenza di convenzione, è essenziale far valere i propri diritti convenzionali: come ribadito anche dalla Cassazione, le convenzioni hanno efficacia di legge prevalente e l’Amministrazione non può ignorarle.

Un riflesso pratico importante: se l’Italia ti contesta la residenza e pretende tasse su redditi esteri già tassati all’estero, grazie alle convenzioni hai diritto al credito per le imposte pagate all’estero, anche se non avevi presentato dichiarazione in Italia. La Corte di Cassazione di recente ha inaugurato questo orientamento, affermando che in presenza di obblighi internazionali di evitare la doppia imposizione, l’omessa dichiarazione in Italia non fa perdere il diritto al credito d’imposta estero. In altre parole, non puoi essere costretto a doppia tassazione piena solo perché non avevi presentato la dichiarazione italiana: il Fisco deve comunque riconoscerti le imposte assolte all’estero. Cass. 24205/2024 e l’ordinanza 10642/2025 hanno censurato la norma interna (art. 165 co.8 TUIR) che negava il credito in caso di omessa dichiarazione, ritenendo che va disapplicata perché in contrasto con le convenzioni internazionali. Questo significa che, anche se perdi la contestazione di residenza e vieni considerato residente in Italia, se hai già pagato tasse all’estero su quei redditi, dovrai pagare la differenza ma non di nuovo l’intero (il credito d’imposta ti tutela).

Come difendersi da una contestazione di residenza fiscale: strategie e strumenti di tutela

Passiamo ora alla prospettiva del contribuente che riceve (o teme di ricevere) una contestazione di residenza fiscale. Difendersi bene – come suggerisce il titolo della guida – significa agire sia in via preventiva (quando possibile) sia in sede di accertamento e contenzioso, adottando tutte le misure utili per far valere la verità dei fatti e i propri diritti. In questa sezione esamineremo i rimedi a disposizione del contribuente: dalle azioni in sede amministrativa (prima e durante l’accertamento) fino al ricorso in giudizio, nonché le prove e argomentazioni da raccogliere per supportare la propria posizione.

Prepararsi al meglio prima e durante l’accertamento

L’ideale sarebbe muoversi proattivamente già prima di trasferirsi all’estero. Un contribuente ben consigliato, prima di lasciare l’Italia, dovrebbe seguire una sorta di checklist fiscale:

  • Regolarizzare gli aspetti formali: comunicare per tempo la cancellazione dall’anagrafe italiana e iscriversi all’AIRE entro 90 giorni dal trasferimento (obbligatorio per chi risiede fuori >12 mesi). Questo adempimento è necessario per legge e, dopo la riforma 2024, non è più “pericoloso” come un tempo (quando l’iscrizione APR in Italia era presunzione assoluta). Oggi resta comunque importante farlo: non trascuratelo, perché restare iscritti in Italia vi pone immediatamente in posizione difensiva peggiore.
  • “Tagliare i ponti” con l’Italia (per quanto possibile): in concreto, ridurre al minimo gli elementi di collegamento con il territorio italiano. Ad esempio: vendere o affittare a terzi la casa di proprietà in Italia (anziché lasciarla vuota a propria disposizione); chiudere conti bancari italiani non necessari; rinunciare a cariche societarie in aziende italiane non indispensabili (o delegare effettivamente la gestione ad altri); se hai un’attività d’impresa qui, trasferirla a management locale o cedere le quote, se possibile. Ogni legame che resta in Italia è un potenziale appiglio per il Fisco. È chiaro che non tutti potranno eliminare tutto (es. magari mantieni una piccola proprietà), ma l’idea è: meno legami attivi lasci, meglio è. Ad esempio, se tieni la casa in Italia, almeno affittala a lungo termine in modo da non usarla tu; se hai cariche in società, dimettiti o riducile al minimo; se hai conti correnti italiani che non servono, chiudili, e così via.
  • Raccogliere e conservare documentazione estera: sin dal primo giorno all’estero, accumula “prove di vita” nel nuovo Paese. Conserva contratti di locazione o acquisto casa all’estero, bollette di utenze estere, certificati di residenza rilasciati dal Comune estero, contratti di lavoro estero, iscrizioni a club o palestre locali, ricevute mediche nel nuovo Paese, ecc.. Tutto ciò diventerà prezioso se sorgerà una contestazione, perché mostra tangibilmente che hai stabilito altrove il tuo centro di vita. È buona norma tenere un archivio ordinato (anche digitale) di questi documenti, anno per anno. Un domani, magari 2-3 anni dopo, potresti ricevere un questionario: ringrazierai te stesso per aver conservato quel contratto d’affitto o quelle bollette del 2023!
  • Comunicare la residenza estera agli interlocutori: aggiorna il tuo indirizzo di residenza presso banche, assicurazioni, datori di lavoro, enti vari. In modo che, se arrivano controlli, queste entità possano attestare che ti consideravano residente all’estero. Ad esempio, se il tuo datore di lavoro italiano sa che ti sei trasferito e magari applica la detassazione per non residenti, è un elemento di supporto alla tua tesi.
  • Valutare un interpello internazionale (se applicabile): su questo punto le possibilità sono limitate. L’interpello ordinario non è ammesso per farsi dichiarare la propria residenza (perché è questione di fatto, non di interpretazione di norma). E la stessa Circolare 20/E/2024 ha ribadito che non si può chiedere interpello per far certificare in anticipo la residenza. Tuttavia, se ci sono dubbi su aspetti collegati (es. applicazione di una convenzione, status di lavoratore frontaliero, ecc.), si possono utilizzare gli interpelli dedicati (interpello sui nuovi residenti, ecc.). In generale, su “sono residente o no?” non puoi chiedere parere all’Agenzia, devi valutare tu con un professionista.
  • Ottenere un certificato di residenza fiscale nel nuovo Stato: dopo aver trascorso un po’ di tempo nel Paese estero, può essere utile farsi rilasciare dal fisco locale un attestato di residenza fiscale in quel Paese (spesso questi certificati si richiedono per applicare i benefici convenzionali sui redditi italiani, ma vanno bene anche come prova generale). Tale certificato, emesso dall’autorità fiscale estera, attesta che sei considerato ivi residente ai sensi della Convenzione per un certo anno. In caso di contenzioso, presentare un documento ufficiale del genere è molto efficace: è difficile per il Fisco italiano sostenere che “eri residente qui” se l’altro Stato attesta formalmente che eri residente lì (perlomeno per i periodi di vigenza convenzione).

Non sempre però il contribuente è così lungimirante. Spesso chi emigra trascura alcuni passaggi e si rende conto del problema solo quando riceve il famigerato questionario o, peggio, un avviso di accertamento già impostato. Vediamo quindi come muoversi in tali frangenti, a danno avvenuto:

  • Rispondere con cura al questionario: se arriva la richiesta di informazioni da parte dell’Agenzia, bisogna assolutamente rispondere nei termini indicati (di solito 30 giorni, prorogabili su richiesta). La risposta deve essere dettagliata, fornendo tutti i chiarimenti richiesti e allegando tutta la documentazione possibile a supporto. Conviene allegare copie di: contratto di lavoro estero, contratto di affitto o rogito dell’immobile estero, certificato di iscrizione AIRE, documentazione scolastica dei figli all’estero (se applicabile), iscrizione al servizio sanitario estero, bollette estere (che mostrino consumi in loco), estratti conto di banche estere, etc.. Più evidenze fornisci, meglio è. Nella risposta, è utile anche spiegare narrativamente la propria situazione: ad esempio, “Mi sono trasferito per lavorare presso la società XYZ a decorrere dal…, mia moglie è rimasta in Italia solo temporaneamente per assistere un genitore malato ma mi raggiungeva spesso, i miei figli sono rimasti per finire l’anno scolastico ma poi si sono trasferiti…”, e così via. L’ufficio leggerà questa relazione: se è convincente e ben documentata, potrebbe archiviare il caso o almeno attenuare la sua posizione aggressiva. È importante non omettere né contraddirsi: ad esempio, se hai ancora una casa in Italia inutilizzata, dichiara apertamente che esiste, spiega magari che era in vendita o in attesa di affittarla, ma sottolinea che non l’hai utilizzata tu. Una collaborazione trasparente a questo stadio può fare la differenza: mostrarsi disponibili e onesti spesso evita il peggio.
  • Valutare ravvedimento operoso o adesione: se dalle domande dell’ufficio intuisci che effettivamente potevi essere considerato residente (magari oggettivamente sei stato troppe giornate in Italia, o la famiglia è rimasta e hai poche difese), potrebbe essere opportuno considerare un approccio transattivo. Mi spiego: prima che esca l’avviso, il ravvedimento operoso in senso stretto ormai non è più possibile per quegli anni, perché se non hai presentato la dichiarazione sei in omessa dichiarazione e il ravvedimento è ammesso solo entro i termini ordinari (di solito entro l’anno successivo). Ma dopo la notifica dell’avviso, hai la possibilità di chiedere l’accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). Presentando istanza di adesione entro 60 giorni, i termini del ricorso si sospendono e puoi discutere con l’ufficio. L’ufficio potrebbe proporti un accordo: in caso di adesione, le sanzioni sono dimezzate e si può trovare un compromesso sull’importo dovuto. Nel caso di contestazione di residenza, aderire significherebbe ammettere la residenza italiana per quell’anno e pagare le imposte sui redditi esteri, ma magari puoi ottenere una riduzione sulle sanzioni (in adesione, le sanzioni amministrative vengono ridotte a 1/3 del minimo). È una scelta difficile e va fatta con il tuo consulente: se sei convinto di aver ragione e hai prove solide, meglio procedere col ricorso e difesa integrale; se invece le tue prove sono deboli e i rischi di una causa lunga (e di penale) sono alti, aderire può limitare i danni economici. In alcuni casi, pagare con sanzioni ridotte può essere preferibile rispetto a rischiare il massimo e magari finire con condanna anche penale. È un bilancio rischi/benefici personalizzato.
  • Raccolta delle prove difensive: parallelamente (se si prospetta la lite), occorre mettere insieme in modo organico tutto il fascicolo probatorio in tuo favore. Questo includerà molti documenti già citati (contratti, certificati, bollette, ecc.), possibilmente tradotti se scritti in lingua straniera, e magari corredati da dichiarazioni testimoniali. Nota: nel processo tributario italiano non è ammessa la testimonianza orale, ma nulla vieta di produrre dichiarazioni sostitutive di atto notorio sottoscritte da terzi. Ad esempio, il tuo datore di lavoro estero potrebbe firmare una dichiarazione asseverata in cui attesta che tu hai lavorato fisicamente presso di loro dal giorno X al giorno Y, con orari regolari e presenza continuativa; oppure i vicini di casa all’estero potrebbero dichiarare che ti vedevano abitare lì stabilmente. Queste dichiarazioni non hanno il peso di una testimonianza resa in udienza, ma costituiscono indizi di riscontro a sostegno della tua ricostruzione. Anche ottenere perizie o lettere da parte di fiscalisti locali può aiutare: ad esempio, un consulente fiscale del Paese estero potrebbe certificare il tuo status di residente locale e spiegare (in italiano, o traducendolo) come funziona la legge locale, per confermare che secondo la legge estera eri residente lì e hai pagato le tue imposte lì regolarmente. Allo stesso modo, le copie delle dichiarazioni dei redditi presentate all’estero, tradotte, dimostrano la tua buona fede e che non stavi evadendo in assoluto (pagavi le tasse altrove).
  • Attenzione alle comunicazioni con l’ufficio: dal momento in cui l’accertamento è avviato (questionario in poi), cerca di mantenere un dialogo con il funzionario incaricato, se possibile. Anche dopo un eventuale avviso, prima di fare ricorso c’è la possibilità di presentare istanza di adesione (come detto) che sospende i termini e consente un confronto. È importante mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo sulle proprie ragioni. A volte, se emergono elementi nuovi a tuo favore, gli uffici possono convincersi a rivedere l’atto in autotutela (annullandolo in tutto o in parte). Ad esempio, se dopo la notifica dell’accertamento presenti un certificato di residenza fiscale estero chiaro e l’ufficio si rende conto di averlo ignorato, potrebbe decidere di annullare in autotutela l’atto (non è garantito, ma succede in qualche caso). L’autotutela è il potere/dovere dell’amministrazione di correggere i propri atti senza bisogno del giudice quando riconosce un errore. Dal 2023, con D.Lgs. 218/2022, l’autotutela è stata persino rafforzata e resa obbligatoria in alcune ipotesi tassative (es. doppia imposizione sullo stesso presupposto, errore di persona, ecc.). Nelle contestazioni di residenza, non ci sono casi tipici di autotutela obbligatoria (a meno di situazioni di evidente scambio di persona, come l’esempio del caso 5 in cui hanno scambiato un’omonima, lì l’autotutela è doverosa). Comunque, tentare l’istanza di autotutela è sempre consigliabile se ritieni l’accertamento infondato: non costa nulla, la invii all’ufficio spiegando i motivi e allegando le prove. L’ufficio non è obbligato ad accogliere (salvo quei rari casi obbligatori), ma deve valutarla. Se la rigetta o ignora, pazienza: andrai avanti col ricorso. Ma se per caso la trova fondata, potresti risolvere in quella sede senza neanche arrivare in Commissione.

Riassumendo le strategie pre-contenzioso: cura gli aspetti formali e sostanziali sin dall’inizio dell’espatrio, rispondi sempre alle richieste del Fisco in modo completo, valuta soluzioni conciliative se sei in posizione debole, e prepara un dossier difensivo robusto in anticipo.

Il ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria)

Se l’accertamento non viene annullato in autotutela e non si trova un accordo mediante adesione, l’ultimo baluardo è la giustizia tributaria, ossia presentare ricorso in Commissione Tributaria. Hai 60 giorni dalla notifica dell’atto di accertamento per proporre ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale competente (da settembre 2023 le Commissioni sono state rinominate “Corti di Giustizia Tributaria di Primo Grado”, ma la sostanza non cambia).

Nel caso di contestazione di residenza, come detto, la competenza territoriale può essere dibattuta. In linea di massima, sarà competente la Corte del luogo del tuo ultimo domicilio fiscale noto in Italia (perché l’atto viene emesso da quell’ufficio). Se, ad esempio, l’accertamento è stato emesso dall’Ufficio di Milano perché risultavi residente a Milano prima di andare all’estero, la causa andrà alla Corte di Giustizia Tributaria di Milano (ex CTP Milano). Come visto nella vicenda della S.r.l. esterovestita (Cass. 1075/2025), a volte i contribuenti eccepiscono incompetenza sostenendo che l’ufficio estero sarebbe competente; ma se l’ufficio italiano ti considera fittiziamente residente, quasi certamente la Commissione riterrà competente quell’ufficio italiano. Comunque, una volta individuata la corte competente, va predisposto il ricorso scritto contenente i motivi di fatto e di diritto su cui ti basi.

Nel ricorso si contesterà l’accertamento di residenza con tutte le argomentazioni possibili: ad esempio, che non ricorrevano i criteri di legge (violazione dell’art. 2 TUIR perché il contribuente non soddisfaceva nessuno dei requisiti per oltre 183 giorni); oppure che l’Agenzia ha misapplicato la presunzione dell’art. 2 co.2-bis TUIR (black list) perché tu hai fornito prova contraria non adeguatamente considerata; o ancora violazione della Convenzione contro le doppie imposizioni, se applicabile (perché magari avevi doppia residenza e spettava all’estero); e così via. Si allegheranno tutti i documenti raccolti a supporto.

È molto utile richiamare eventuali precedenti giurisprudenziali favorevoli: ce ne sono diversi e citarli può orientare il giudice. Ad esempio, nel ricorso potresti citare Cass. n. 24246/2015 (che ha dato prevalenza alla Convenzione in un caso di doppia residenza, a favore del contribuente); oppure Cass. n. 21694/2020 (che ha ribadito che la cancellazione dall’anagrafe non basta da sola a escludere la residenza se permangono domicilio o residenza in Italia – questo in verità è un argomento pro-Fisco, ma lo puoi menzionare per dire che all’opposto l’iscrizione AIRE da sola non salva il contribuente, quindi conta la sostanza); Cass. n. 16634/2018 (che rappresenta il vecchio orientamento formalista, presunzione assoluta da iscrizione, ormai superato dalla norma 2024); Cass. n. 11253/2019 (sul valore non decisivo dell’AIRE, se ricordi bene); oppure pronunce di merito come CTR Lombardia 2017 (caso di calciatore espatriato a Monaco, vittoria contribuente perché aveva portato famiglia con sé). Insomma, citare sentenze aiuta a dare peso alla tua tesi, specie se di Cassazione (giurisprudenza di legittimità).

Durante il processo, puoi chiedere al giudice anche la sospensione dell’atto se l’esecuzione (la riscossione delle somme) ti può causare danni gravi. Infatti, in linea generale l’accertamento diventa esecutivo trascorsi i 60 giorni: l’Agenzia potrebbe iscrivere a ruolo un terzo delle imposte accertate anche se hai fatto ricorso (dopo 60 giorni, senza attendere la sentenza). Chiedendo la sospensione giudiziale, e dimostrando fumus boni iuris (che il ricorso ha fondamento) e periculum (grave danno patrimoniale dalla riscossione immediata), la Corte tributaria può sospendere la riscossione fino alla sentenza di primo grado. Nel contesto di residenza, spesso le somme contestate sono ingenti (tasse su redditi esteri di più anni sommati), quindi si chiede quasi sempre la sospensiva e spesso viene concessa, specialmente se offri qualche garanzia o almeno versi la parte non controversa (ad esempio, se una parte dei redditi era già stata tassata all’estero e rivendichi il credito, potresti intanto pagare la quota non coperta da credito).

Il giudizio tributario verte essenzialmente sulla valutazione delle prove: il giudice dovrà valutare se il Fisco ha ragione (cioè se c’erano indizi tali da provare la residenza in Italia) o se il contribuente ha dimostrato il contrario. Formalmente, l’onere della prova in questi casi segue la regola generale: se non sei in black list, spetta al Fisco provare che eri residente; se sei in black list, spettava a te provare che non lo eri, e il giudice vede se ci sei riuscito. Di fatto, in giudizio entrambe le parti portano elementi e il giudice li pondera. Va detto che dal 2024 la legge è più dalla parte del contribuente riguardo le iscrizioni anagrafiche, ma nei giudizi su anni passati può ancora emergere il contrasto tra giudici “formalisti” e giudici “sostanzialisti”. Molto dipenderà dalla bontà della documentazione prodotta e dalla capacità di convincere il giudice che la tua storia è coerente e supportata da prove. Se sei ben supportato da professionisti esperti di fiscalità internazionale e contenzioso tributario, le tue chance aumentano perché sapranno presentare il caso nel modo più favorevole (ad esempio enfatizzando aspetti convenzionali, eccependo eventuali vizi procedurali, ecc.).

La sentenza di primo grado può darti ragione in toto, torto in toto, oppure anche esiti intermedi (in teoria il giudice potrebbe dichiararti residente per alcuni anni e non per altri, se erano contestati più anni, oppure accogliere alcune eccezioni e non altre). Chi perde può appellare in secondo grado presso la Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Tributaria Regionale). Infine c’è il ricorso per Cassazione per motivi di diritto. È un percorso lungo: ad oggi un contenzioso tributario complesso può durare anche 2-3 anni in primo grado, 2 anni in secondo e altri 2-3 in Cassazione.

Nel frattempo, se non hai ottenuto sospensioni, Agenzia Entrate Riscossione potrebbe iniziare a esigere le somme dopo la sentenza di primo grado sfavorevole (o anche prima, come detto, un terzo dopo 60 giorni). La buona notizia è che dal 2023 la riforma del processo tributario ha introdotto la regola che se il contribuente vince in primo grado, le somme non sono dovute in pendenza di appello (sospensione automatica); e se vince anche in secondo grado, l’amministrazione deve rimborsare quanto eventualmente già pagato, anche se fa ricorso in Cassazione. Ciò tutela i contribuenti vittoriosi, evitando che debbano pagare importi poi magari annullati in via definitiva. Viceversa, se il contribuente perde in primo grado, deve versare una parte (in genere 1/3) subito dopo la sentenza sfavorevole, per poter proseguire, e il resto dopo la seconda sentenza se perde ancora (salvo ulteriori sospensive).

In termini di strategie processuali: bisogna impostare il ricorso in modo chiaro e completo, evidenziando gli errori dell’accertamento (ad es. “il contribuente era iscritto AIRE, quindi l’ufficio doveva provare domicilio o residenza in Italia ma non lo ha fatto adeguatamente” oppure “c’è violazione della Convenzione X”). Allegare quanta più prova possibile e, se opportuno, chiedere CTU (consulenza tecnica d’ufficio) su qualche aspetto – anche se raramente nei casi di residenza c’è una perizia tecnica da fare, è più che altro documentale.

Riassumendo: non abbiate timore del contenzioso tributario se siete convinti delle vostre ragioni. È meglio far valere i propri diritti in Commissione che pagare ingiustamente somme enormi. La giustizia tributaria italiana, pur con i suoi difetti, è migliorata con giudici professionali dal 2022 e ha introdotto regole che proteggono di più i contribuenti vittoriosi. Quindi, se avete un caso forte, portatelo fino in fondo.

Difendersi nel penale: cenni

Abbiamo accennato al rischio penale. Infatti, quando la contestazione di residenza fiscale implica molti redditi esteri non dichiarati, è facile superare le soglie di rilevanza penale per i reati tributari. I reati potenzialmente configurabili sono: omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) se l’imposta evasa supera €50.000, punito con reclusione 2–5 anni; oppure dichiarazione infedele (art. 4) se l’imposta evasa supera €100.000 e i redditi non dichiarati superano il 10% del totale, punito fino a 3 anni. Nel caso classico in cui uno non presenta affatto dichiarazioni credendosi estero, scatta l’omessa dichiarazione (soglia 50k). Esempio: un alto reddito trasferito a Dubai che non dichiara €500.000 di redditi esteri annui in Italia potrebbe evadere ~€200.000 di imposte l’anno, integrando abbondantemente il reato di omessa dichiarazione. Quindi attenzione: la contestazione tributaria può condurre la Guardia di Finanza a segnalare la notizia di reato in Procura se rileva quelle soglie.

Il procedimento penale è separato da quello tributario (c’è indipendenza dei giudizi). Ciò significa che, anche se vinci in Commissione, non è detto che automaticamente il penale cada, e viceversa. Tuttavia, spesso il procedimento penale nasce proprio come conseguenza dell’accertamento fiscale (la Finanza, durante l’indagine tributaria, se vede reato, informa la Procura).

Difendersi nel penale in casi di esterovestizione personale significa in genere puntare a dimostrare l’assenza di dolo di evasione. In pratica, sostenere che credevi in buona fede di non essere residente e quindi non avevi intenzione di evadere. La giurisprudenza penale ha affrontato pochi casi di residenza fittizia: talvolta c’è stata assoluzione penale perché “il fatto non costituisce reato” (mancava il dolo specifico di evasione), però attenzione: un’assoluzione penale non evita comunque la pretesa tributaria. I due giudizi sono indipendenti: potresti essere assolto in penale ma dover comunque pagare in tributario (magari con sanzioni amministrative). Viceversa, anche se definisci l’accertamento (pagando), il penale va avanti salvo casi di particolare tenuità o estinzione per condotte riparatorie. Non entriamo qui in dettagli penali, ma basti dire che chi si difende nel merito tributario userà gli stessi argomenti nel penale (ovvero: “la mia residenza era effettivamente estera, quindi non dovevo dichiarare nulla in Italia”). Un’eventuale assoluzione penale per mancanza di dolo potrebbe rafforzare poi la posizione nel contenzioso tributario, ma non è automatica la trasfusione.

Il consiglio, se si profilano importi evasi molto alti, è di prevenire il rischio penale: valutare, ad esempio, di presentare dichiarazioni integrative per ridurre l’evasione sotto soglia, oppure aderire all’accertamento come detto, in modo da sanare e pagare riducendo le sanzioni, così da mostrare ravvedimento operoso. In alcuni casi, “ravvedersi” tardivamente può non estinguere il reato, ma può influire sulla valutazione del dolo o portare a patteggiamenti più miti. Questo esula un po’ dalla guida, ma è importante considerare tutte le implicazioni: una difesa ben fatta tiene conto anche del penale e si muove per limitare i danni su quel fronte.

Autotutela e altre tutele amministrative

Abbiamo già parlato dell’autotutela come strumento per ottenere l’annullamento dell’atto in via amministrativa. Ribadiamo che la Circolare 21/E del 7/11/2024 ha incoraggiato gli uffici a farne uso quando c’è un evidente errore, per evitare contenziosi inutili. Nel contesto della residenza, l’autotutela potrebbe intervenire in casi come: se il contribuente vince in primo grado e l’ufficio decide di non appellare e annulla l’atto (raro ma possibile, anche perché ora i funzionari hanno responsabilità se persistono in cause perse); oppure se sopravvengono chiarimenti normativi o giurisprudenziali favorevoli al contribuente mentre la cosa è pendente (è successo, ad esempio, con i lavoratori frontalieri in smart working durante il Covid: inizialmente tartassati, poi intervennero accordi ad hoc e l’Agenzia fece marcia indietro in molti casi). Ricordiamo che l’autotutela facoltativa è sempre a discrezione dell’ente; quella obbligatoria si applica solo in ipotesi specifiche di legge (artt. 2-quater e 2-quinquies L. 212/2000) come l’errore di persona, la duplicazione d’imposta per lo stesso periodo, etc., che generalmente non riguardano la residenza. Nel nostro tema, salvo errori grossolani (tipo scambio di persona, come nell’esempio 5 di Roberta), non ci sono autotutele obbligatorie, ma c’è sempre spazio per chiedere all’ufficio di rivedere la propria posizione.

Un altro strumento da menzionare è la mediazione tributaria: è obbligatoria per le controversie di valore fino a 50.000 euro (imposta contestata al netto di sanzioni e interessi). Tuttavia, nei casi di residenza fittizia, le imposte contestate superano quasi sempre questa soglia, quindi raramente si passa dalla mediazione. Se però il valore in contestazione fosse entro 50k (caso di piccolo contribuente, magari solo un anno con poco reddito), allora prima di andare in giudizio bisogna presentare un’istanza di reclamo-mediazione: l’ufficio potrebbe proporre una definizione riducendo le sanzioni del 35% (come da normativa). Ad ogni modo, come detto, la mediazione è di rado applicabile qui, perché bastano pochi redditi esteri non dichiarati per superare i 50k di imposta evasa (basti pensare a un reddito estero di 40k euro l’anno per 2-3 anni, l’imposta sarebbe ~15k annui, per 3 anni fa 45k + sanzioni e interessi – forse ancora mediabile, ma se reddito era un po’ di più si sfora).

In sintesi: sfruttate tutti gli strumenti amministrativi che la legge offre. L’autotutela va chiesta se avete elementi nuovi o errori palesi da evidenziare (male che vada, la ignorano). La mediazione va fatta se richiesta dalla legge (cause piccole), anche se in questi casi forse converrà trovare un accordo per chiuderla lì.

In sintesi: consigli operativi per difendersi efficacemente

Alla luce di tutto quanto esposto, riportiamo un elenco di consigli pratici per prevenire e affrontare nel modo migliore una contestazione di residenza fiscale. Queste sono le best practices da seguire:

  • Non sottovalutare le apparenze formali: se hai intenzione di trasferirti, cura sia la sostanza che la forma. In altre parole, trasferisciti davvero all’estero, ma ricordati anche di completare tutti gli adempimenti burocratici (iscrizione AIRE, comunicazioni di espatrio, ecc.). Una trascuratezza burocratica può costare cara: ad esempio, se non ti iscrivi all’AIRE per tempo o dimentichi di comunicare qualcosa, potresti offrire al Fisco un facile appiglio.
  • Minimizza le connessioni con l’Italia: fai un esame onesto della tua situazione e chiediti: “Ho ancora interessi significativi in Italia? Se sì, come posso legittimamente reciderli o sospenderli mentre sono via?”. Ciò vale non solo per difendersi dal Fisco ma anche per semplificarti la vita (meno incombenze amministrative o legami gestionali in patria). Ad esempio: se puoi, vendi o affitta la casa in Italia, chiudi le utenze domestiche, chiudi conti italiani non indispensabili, lascia eventuali ruoli in società italiane che non puoi seguire oppure delega completamente. L’ideale sarebbe “tagliare i ponti” per quanto possibile, almeno finché non stabilisci una nuova base all’estero sicura.
  • Tieni traccia di tutto: come detto, mantieni un archivio ordinato di documenti che testimoniano la tua vita all’estero. Contratti di affitto, bollette, iscrizioni, ricevute, biglietti aerei, timbri su passaporti: raccogli e conserva. Quando magari anni dopo ti arriverà un questionario, sarai grato di avere a portata di mano le prove di dove stavi e cosa facevi nel periodo in questione. La memoria svanisce, i documenti no.
  • Rispondi e dialoga con il Fisco: non ignorare mai le comunicazioni dell’Agenzia. Se ricevi un questionario, rispondi nei termini e in modo esauriente. Se vieni convocato, partecipa (anche tramite professionista) e fai valere le tue ragioni. Ignorare le lettere ti mette subito in posizione perdente. Mostrati collaborativo (fornisci quello che ti chiedono) ma anche assertivo nel rivendicare le tue ragioni se sei nel giusto: spiega, documenta, non aspettare passivamente.
  • Prova contraria concreta: nelle difese non servono affermazioni vaghe tipo “eh ma io mi sentivo residente altrove” – servono evidenze solide. Porta elementi tangibili: se sostieni di non aver vissuto nella tua casa in Italia, magari trova un vicino che possa firmare una dichiarazione che quella casa era sempre chiusa, oppure dimostra che l’avevi data in affitto breve su Airbnb (così provi che non ci stavi tu). Se dici di aver passato 250 giorni all’estero, ricostruiscili: timbri sul passaporto, carte d’imbarco, registri di ingresso aziendali, transazioni con carta di credito all’estero, tutto ciò aiuta. In sintesi, alleghi fatti verificabili, non semplici dichiarazioni di intenzioni.
  • Conosci i tuoi diritti convenzionali: se nella tua situazione c’è di mezzo una Convenzione contro le doppie imposizioni, studiala bene! Presta attenzione all’art. 4 (residenza) e agli articoli che possono interessare il tuo caso (ad es. art. 15 per il lavoro dipendente, art. 18 pensioni, art. 23 crediti d’imposta, etc.). Fallo presente all’ufficio fin da subito se opportuno. Può capitare che non tutti i funzionari tengano a mente i dettagli delle convenzioni, quindi potresti essere tu a indirizzarli verso la soluzione corretta. Ad esempio: “Guardi che esiste la Convenzione Italia-Germania e secondo l’art. 4 io risulto residente in Germania per via del soggiorno abituale, ecco i documenti”. Questo almeno li mette sull’avviso che conosci i tuoi diritti.
  • Sfrutta le riduzioni di sanzioni se possibile: come visto, in caso di accertamento con adesione le sanzioni si riducono del 50%, in mediazione del 35%, e in caso di pagamento immediato (ravvedimento) possono ridursi anche di più. Se sai di essere in torto marcio sul merito e temi di perdere, almeno cerca di risparmiare sulle penalità utilizzando questi istituti deflattivi. Viceversa, se sei nel giusto e hai buone argomentazioni, punta all’annullamento completo e non accontentarti di uno sconto – ma valuta sempre realisticamente le prove.
  • Assistenza professionale: difendersi da soli in casi complessi di fiscalità internazionale è fortemente sconsigliato. Fatti assistere da un esperto di fiscalità internazionale e contenzioso tributario. Non lo diciamo per autopromozione di categoria, ma perché davvero le normative cambiano di continuo (lo abbiamo visto con le novità 2024) e c’è bisogno di qualcuno aggiornato che sappia usare le carte a tuo favore e evitare passi falsi procedurali. Un avvocato tributarista o un commercialista con esperienza specifica in espatriati conoscerà i trucchi del mestiere e aumenterà le tue probabilità di successo (oltre a sollevarti dall’ansia di gestire scadenze, ricorsi, notifiche, ecc.).

Domande frequenti (FAQ) sulla residenza fiscale e le contestazioni

Di seguito, raccogliamo alcune domande frequenti in materia di residenza fiscale internazionale e relative contestazioni, con risposte concise basate su quanto trattato sinora:

  • Domanda: Quali sono i criteri per essere considerato residente fiscale in Italia?
    Risposta: Ai fini delle imposte sui redditi, una persona fisica è residente fiscale in Italia se, per più di metà anno (183 giorni), alternativamente soddisfa uno dei seguenti criteri: è iscritta all’anagrafe dei residenti in Italia; oppure ha in Italia la residenza civile (dimora abituale); oppure ha in Italia il domicilio (cioè il centro principale dei propri interessi e affari). Dal 2024 si considera anche la presenza fisica: trascorrere >183 giorni sul suolo italiano in un anno fa scattare la residenza fiscale automaticamente. Per le società, contano se per la maggior parte dell’anno hanno in Italia la sede legale, la sede di direzione effettiva, o il centro della gestione amministrativa/operativa (criteri alternativi analoghi per le società).
  • Domanda: Se mi trasferisco all’estero, è sufficiente iscrivermi all’AIRE per non essere più tassato in Italia?
    Risposta: L’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) è un passaggio obbligatorio per legge se ti trasferisci per oltre 12 mesi, e certamente aiuta a dimostrare il cambio di residenza, ma da sola non basta. Fino al 2023, risultare ancora iscritti all’anagrafe italiana significava quasi automaticamente essere residenti in Italia (presunzione assoluta). Con l’iscrizione all’AIRE correggi questo aspetto formale, tuttavia l’Agenzia guarderà anche alla tua situazione di fatto: se, nonostante l’AIRE, continui a mantenere in Italia casa, famiglia o interessi economici predominanti, potresti essere considerato residente lo stesso. Dal 2024 l’iscrizione all’AIRE costituisce solo presunzione relativa di non residenza: il Fisco può contro-provarti che eri ancora qui. Dunque iscriviti all’AIRE, ma accompagnalo con un trasferimento effettivo di vita all’estero. In caso di contestazione, dovrai comunque dimostrare con fatti concreti di aver lasciato l’Italia (lavoro, abitazione, ecc.).
  • Domanda: Che cos’è la “presunzione per i trasferimenti in paradisi fiscali” di cui sento parlare?
    Risposta: È una regola anti-evasione prevista dall’art. 2 comma 2-bis del TUIR. Stabilisce che se un cittadino italiano si cancella dall’anagrafe e trasferisce la residenza in uno Stato a fiscalità privilegiata (cioè un paradiso fiscale incluso in apposita lista), allora lo Stato italiano lo presume ancora residente in Italia, salvo prova contraria da parte sua. In pratica, in questi casi si inverte l’onere della prova: dovrai tu dimostrare di vivere davvero in quel Paese estero e non in Italia. Questa presunzione è relativa (ammette prova contraria) ma è una posizione di partenza sfavorevole per il contribuente. Ad esempio, se ti trasferisci a Monaco o a Dubai, preparati a fornire molte evidenze del tuo effettivo radicamento lì. Nota: la lista dei Paesi privilegiati viene aggiornata periodicamente; ad esempio dal 2024 la Svizzera non è più considerata paradiso fiscale ai fini di questa norma (è stata tolta dalla black list IRPEF).
  • Domanda: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire che in realtà vivo ancora in Italia?
    Risposta: Utilizza molte fonti di informazione e incroci di dati. Alcuni esempi: verifica se hai proprietà immobiliari in Italia e se vengono usate (utenze attive con consumi); controlla se la tua famiglia (coniuge/figli) è rimasta qui (es. figli a scuola in Italia); controlla se percepisci redditi da fonti italiane (stipendi, compensi da aziende italiane, pensioni, ecc.); vede se hai cariche sociali o partecipazioni in imprese italiane; tramite l’Archivio dei rapporti finanziari vede i tuoi conti correnti in Italia e i movimenti (es. prelievi bancomat, bonifici); grazie al sistema CRS ottiene dati su conti esteri intestati a te (se risultavi fiscale italiano); può ottenere dati su targhe di auto a tuo nome in Italia o su tuoi eventuali transiti doganali; può persino esaminare il tuo profilo social per vedere se posti foto in Italia frequentemente. In genere, quando notano più indizi insieme (es. casa + famiglia + movimenti bancari in Italia), ti inviano un questionario chiedendo spiegazioni. Se non li convinci, passano all’accertamento.
  • Domanda: Cosa rischio se l’Agenzia delle Entrate mi contesta la residenza fiscale in Italia per un certo periodo?
    Risposta: In caso di esito sfavorevole (ossia se ti viene attribuita la residenza in Italia in quegli anni), rischi la tassazione integrale in Italia di tutti i redditi ovunque prodotti per gli anni contestati, più sanzioni e interessi. Significa che dovresti pagare le imposte italiane su tutti i redditi esteri che avevi (con eventualmente credito per le imposte pagate all’estero, se ne hai pagate). Le sanzioni amministrative per omessa dichiarazione di redditi esteri sono molto alte: tipicamente dal 120% al 240% dell’imposta evasa (oltre a sanzioni fisse se hai omesso il quadro RW di monitoraggio per attività estere). Se invece avevi presentato dichiarazione in Italia ma “dimenticato” quei redditi (dichiarazione infedele), la sanzione va dal 90% al 180% della maggior imposta dovuta. Inoltre, come detto, se le somme evase superano certe soglie penali, scattano reati tributari: omessa dichiarazione è reato oltre €50.000 di imposte evase (pena 2–5 anni); dichiarazione infedele è reato oltre €100.000 di imposta evasa (e >10% del reddito non dichiarato) con pena fino a 3 anni. In parole semplici, potresti ritrovarti non solo con un grosso debito fiscale, ma anche con un processo penale per evasione fiscale (esterovestizione). Senza contare che l’Agenzia Entrate Riscossione può attivare misure cautelari sui tuoi beni (fermo amministrativo dell’auto, ipoteca sulla casa) se le somme sono elevate e c’è pericolo di inadempimento. Insomma, il rischio finanziario e legale è molto serio.
  • Domanda: Mi sono trasferito all’estero ma ho lasciato la famiglia (moglie e figli) in Italia. Possono considerarmi residente comunque?
    Risposta: Sì, è possibile. Dal punto di vista italiano, la presenza della famiglia in Italia è un indicatore molto forte che il tuo domicilio (inteso come sede degli interessi familiari) sia rimasto qui. In molti casi l’Agenzia ha contestato la residenza proprio a lavoratori expat le cui famiglie non li avevano seguiti. Tuttavia, hai uno strumento di difesa: se esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e il Paese dove lavori, puoi invocarne i tie-breaker (criteri di spareggio). In particolare, potresti sostenere che il tuo centro degli interessi vitali è all’estero – ma se la famiglia è in Italia è dura da argomentare, sinceramente – oppure puntare sul soggiorno abituale: se trascorri ad esempio 10 mesi l’anno fuori e solo 2 in Italia con la famiglia, secondo i criteri convenzionali la residenza andrebbe attribuita all’estero. In pratica, applicando l’art. 4 del Modello OCSE, se dimostri di avere un’abitazione permanente all’estero e di viverci la maggior parte del tempo, e magari hai anche la cittadinanza o altri legami con l’altro Stato, potresti spostare la residenza fiscale lì nonostante la famiglia in Italia. È una difesa complessa che richiede molte prove, perché per l’Italia tendenzialmente “famiglia in Italia = domicilio in Italia” come detto. Una soluzione pragmatica, se possibile, è far sì che almeno il coniuge ti segua all’estero, oppure far venire la famiglia con te per buona parte dell’anno (es. utilizzare homeschooling o scuole internazionali per i figli). Se invece la famiglia deve necessariamente restare in Italia (es. per non sradicare i figli da scuola), sappi che sei in una zona grigia rischiosa e devi essere pronto eventualmente a un contenzioso per far valere i tuoi diritti (magari facendo leva sulla Convenzione).
  • Domanda: Ho una società aperta all’estero, ma vivo in Italia: l’Agenzia può considerare italiana anche la società (esterovestizione societaria)?
    Risposta: Sì, può farlo. L’esterovestizione societaria è quando una società formalmente estera viene ritenuta fiscalmente residente in Italia perché qui ha il luogo di direzione effettiva o svolge la sua attività principale. Se tu di fatto amministri da casa tua in Italia una società con sede in un paradiso fiscale (es. una Ltd in Belize), il Fisco potrà contestare la residenza di quella società in Italia. Ci sono norme specifiche antiabuso (es. art. 73 TUIR e il citato art. 73(5-bis) TUIR per le società controllate) che facilitano questa contestazione. In concreto, se sei socio/amministratore di una società estera ma risiedi in Italia e la società non ha struttura reale all’estero, l’Agenzia sosterrà che la sede di amministrazione è in Italia (dove tu prendi decisioni, magari via Zoom) e dunque la società è residente qui. Le conseguenze: la società dovrà pagare tasse in Italia su tutti i suoi redditi globali (con eventuali sanzioni), e tu potresti rispondere di omessa dichiarazione del quadro RW (non avendo dichiarato di controllare una società estera) e magari concorrere in dichiarazione fraudolenta se c’è stato occultamento. Come difesa, l’unica è dare sostanza estera alla società: cioè organizzare la società in modo che abbia sede effettiva all’estero, personale locale che prende decisioni, e tu ricoprire al massimo un ruolo marginale o con deleghe limitate, mostrando di non gestirla quotidianamente dall’Italia. In altre parole, devi poter dimostrare che la società vive di vita propria fuori dall’Italia. Se non ci riesci, è probabile che l’esterovestizione venga contestata e confermata. La Cassazione ha detto chiaramente che non basta spostare la sede legale su carta se poi tutto il resto resta in Italia.
  • Domanda: Ho dimenticato di fare la dichiarazione dei redditi in Italia credendo di essere non residente, ma ora mi contestano il contrario. Posso regolarizzare per evitare guai?
    Risposta: Dipende dai tempi. Se l’Agenzia ti ha già notificato un avviso di accertamento, non puoi più fare un ravvedimento operoso su quegli anni (il ravvedimento va fatto prima che l’Amministrazione contesti, diciamo spontaneamente). A quel punto puoi però valutare l’accertamento con adesione: presentando istanza entro 60 giorni dall’avviso, hai la chance di discutere con l’ufficio e trovare un accordo. In sede di adesione, le sanzioni vengono dimezzate e puoi concordare l’importo. Ad esempio, potresti riconoscere la residenza in Italia per quell’anno ma chiedere di dedurre alcune spese o almeno di applicare il credito d’imposta per le tasse pagate all’estero, se ne avevi (ricordiamoci che, in ogni caso, anche tardivamente, il credito per imposte estere pagate spetta, secondo Cassazione, poiché le convenzioni prevalgono sulla norma che lo negherebbe in caso di omessa dichiarazione). Se invece il controllo formale ancora non c’è, ma ti rendi conto di aver sbagliato (es. non hai dichiarato per anni e ora temi controlli), puoi tentare un ravvedimento operoso presentando dichiarazioni integrative per gli anni ancora emendabili (in genere entro il quinto anno successivo). Questo ridurrà di molto le sanzioni: pagheresti le imposte dovute, gli interessi e sanzioni molto ridotte. Chiaro che ravvedersi significa ammettere la residenza italiana per quei periodi (stai regolarizzando come se fossi residente): se invece sei convinto di aver ragione e vuoi difendere la residenza estera, allora non ha senso ravvedersi (sarebbe come arrendersi). Bisogna fare un bilancio rischi/benefici con l’aiuto di un esperto: se i rischi di cause lunghe e anche penali sono alti e hai poche prove a tuo favore, ravvedersi o aderire conviene (limiti i danni economici e potenzialmente anche penali). Se invece hai buone argomentazioni e prove, allora combatti il rilievo fino in fondo, come spiegato sopra.
  • Domanda: Quanto tempo ha l’Agenzia delle Entrate per contestarmi la residenza fiscale di anni passati?
    Risposta: I termini di accertamento, se non hai presentato dichiarazione in Italia (perché ti consideravi non residente), sono quelli dell’omessa dichiarazione: entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avresti dovuto presentare la dichiarazione. Ad esempio, per il periodo d’imposta 2019 (dichiarazione che avresti dovuto presentare nel 2020), possono accertarti fino al 31/12/2025. Se invece avevi presentato dichiarazione ma era infedele (mancavano redditi esteri), il termine è il 31 dicembre del quarto anno successivo. Attenzione però: se c’è un reato (omessa o infedele dichiarazione penalmente rilevante), i termini raddoppiano (diventano dieci anni per l’omessa), ma attualmente il raddoppio si applica solo se l’azione penale viene avviata entro i termini ordinari (cosa che di solito accade contestualmente all’accertamento). In pratica, in situazioni normali l’Agenzia può guardare agli ultimi 5-6 anni. Spesso per sicurezza fanno accertamenti su più anni insieme: ad es. nel 2022 potrebbero contestare 2016, 2017, 2018 tutti insieme prima che scadano (il 2016 scadrebbe a fine 2022). Oltre questi termini scatta la decadenza e non possono pretendere nulla per quegli anni (salvo casi di attività estere non dichiarate in RW, dove c’è un termine più lungo solo per le sanzioni di monitoraggio). Quindi, se ti sei trasferito molti anni fa e mai nulla è successo, probabilmente i primi anni ormai sono “prescritti” fiscalmente. Ma attenzione: se anche uno solo degli ultimi cinque anni è contestabile, possono aprire l’indagine e spesso estendere lo sguardo a ritroso, usando i dati di anni prescritti come indizio di continuità della residenza. Cioè, anche se formalmente non possono accertarti il 2015 perché prescritto, se ti contestano 2016-2020 potrebbero citare elementi del 2015 per rafforzare la tesi che già da prima eri qui.
  • Domanda: In caso di controversia, come decidono i giudici? Ci sono precedenti favorevoli ai contribuenti?
    Risposta: Ci sono stati esiti misti nelle aule di tribunale: alcune pronunce hanno dato ragione ai contribuenti, altre al Fisco. Dipende tutto dalle prove portate. Ad esempio: la Cassazione n. 14434/2010 (caso noto) stabilì che l’iscrizione all’AIRE non bastava da sola a escludere la residenza italiana: in quel caso, nonostante fosse AIRE, trovarono che il contribuente aveva mantenuto affari e famiglia in Italia, e quindi confermarono la residenza italiana (sfavorevole al contribuente). Viceversa, Cassazione n. 24246/2015 diede ragione a un contribuente applicando i criteri convenzionali: il soggetto, formalmente residente in Italia, fu considerato residente estero perché la Convenzione (tie-breaker) lo attribuiva all’estero; la Cassazione riconobbe la prevalenza del trattato. Un’altra pronuncia, Cass. 16634/2018, era rigida pro-Fisco sull’anagrafe (ancora pre-riforma). Recentemente, alcune Commissioni Tributarie Regionali hanno annullato accertamenti se il Fisco non portava prove abbastanza forti e c’erano invece riscontri della vita all’estero del contribuente. Ad esempio, la CTR Lombardia nel 2017 sul caso di un calciatore trasferito nel Principato di Monaco: annullò l’accertamento poiché risultava che il calciatore, pur essendo rimasto anagraficamente in Italia fino a un certo anno, aveva portato la famiglia con sé a Monaco e lì viveva stabilmente; il Fisco si era basato solo su presunzioni deboli tipo qualche sua visita in Italia, e i giudici l’hanno ritenuto insufficiente. In generale, i giudici chiedono al Fisco prove solide: la Cassazione ha detto che servono elementi “gravi, precisi e concordanti”. Se le prove del Fisco sono solo formali (es. “risultavi residente in Comune X, quindi sei residente”), oggi non regge più perché è una presunzione superabile. Se però il Fisco porta bollette, spese, testimonianze, e il contribuente non ha controprove, i giudici tendono a dare ragione al Fisco. Dunque, più che i precedenti (che comunque contano come orientamento), inciderà come presenti il tuo caso e che evidenze produci. C’è da aspettarsi che dal 2024 in poi le sentenze saranno un po’ più favorevoli ai contribuenti sui casi di residenza anagrafica (perché la legge ora dice di guardare la sostanza). Il nostro consiglio: se hai un caso forte (es. sei un medico emigrato in UK, hai portato la famiglia con te, venduto casa in Italia, ecc.), non temere di andare in causa, perché spesso i tribunali tributari riconoscono la realtà effettiva se ben documentata.

Esempi pratici di contestazione della residenza fiscale (casi simulati)

Per rendere più concreto tutto quanto esposto, analizziamo ora alcuni casi pratici simulati – basati su situazioni ricorrenti nella realtà italiana – illustrando come si presentano e come potrebbero essere risolti, considerando sia il punto di vista del contribuente (debitore) sia quello dell’Amministrazione finanziaria.

Esempio 1: “Lavoratore espatriato, famiglia in Italia”
Scenario: Mario, cittadino italiano, nel 2022 si trasferisce a lavorare in Germania presso una multinazionale, con regolare contratto. Mantiene però la sua casa di proprietà in Italia, dove restano la moglie e due figli (che continuano a scuola lì). Si iscrive all’AIRE a fine 2022. Negli anni 2023 e 2024 percepisce esclusivamente redditi da lavoro dipendente in Germania, che dichiara e tassa interamente al fisco tedesco. Non presenta dichiarazioni in Italia (ritenendo di essere non residente).

Contestazione: Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate avvia un controllo incrociato: nota che Mario risulta iscritto AIRE da fine 2022, ma che la moglie è rimasta residente in Italia con i figli, inoltre Mario possiede ancora l’immobile in Italia. Manda un questionario chiedendo dove viveva esattamente nel 2023 e perché la famiglia è rimasta in Italia. Mario risponde che lui vive stabilmente a Monaco di Baviera, tornando in Italia solo per qualche vacanza estiva e per le festività natalizie (in totale circa 40 giorni l’anno in Italia). Allega contratto di locazione di un appartamento in Germania e certificato di residenza rilasciato dal Comune tedesco. L’Agenzia però, vedendo che famiglia e casa sono in Italia, contesta comunque la residenza fiscale per il 2023, sostenendo che il domicilio di Mario (i suoi interessi familiari) è rimasto in Italia e che Mario non ha provato il contrario (in fondo la moglie e i figli erano qui). Di conseguenza notifica un avviso di accertamento chiedendo le imposte italiane sul reddito 2023 (che Mario aveva già tassato in Germania al 42%).

Difesa: Mario presenta ricorso, invocando la Convenzione Italia-Germania contro le doppie imposizioni. Sottolinea che va applicato l’art. 4 del trattato (criteri per risolvere la doppia residenza): Mario dispone di una abitazione permanente in Germania (contratto di affitto 4 anni per l’appartamento), mentre in Italia aveva solo la casa della famiglia (in cui però lui personalmente non dimorava abitualmente). Porta prove che nel 2023 ha passato circa 320 giorni in Germania (allega registro delle entrate in sede al lavoro, estratti conto e transazioni che mostrano acquisti in Germania, biglietti aerei evidenziando pochi rientri in Italia). Argomenta che il suo soggiorno abituale era chiaramente in Germania e anche il centro dei suoi interessi economici lo era (unico reddito e conto bancario in Germania). Riconosce apertamente che i legami familiari erano in Italia, ma sostiene che quelli economici e personali (nuova comunità di vita, colleghi, amici in Germania) prevalevano in Germania. Fornisce anche un certificato fiscale dell’autorità tedesca attestante che Mario era considerato residente in Germania nel 2023 e che vi ha pagato le relative tasse.

Esito possibile: In base ai tie-breaker convenzionali, la situazione di Mario si potrebbe così valutare:

  • Abitazione permanente: ne ha una in Germania (affitto pluriennale) e una in Italia (casa di proprietà, però occupata dalla famiglia). Avendo abitazione in entrambi i Paesi, questo criterio non risolve.
  • Centro degli interessi vitali: è dubbio e diviso – la famiglia è in Italia, ma il lavoro e la quotidianità personale di Mario sono in Germania. Non c’è un’evidente prevalenza (dipende come la si vede: per l’Italia famiglia vince, per Mario il lavoro vince).
  • Soggiorno abituale: Mario trascorre la stragrande maggioranza del tempo in Germania (circa 320 giorni l’anno lì vs ~40 in Italia). Questo criterio propende nettamente per la Germania.

Dunque, applicando la Convenzione, la residenza prevalente va attribuita alla Germania, essendo quello il Paese dove Mario soggiorna abitualmente e lavora. La Commissione Tributaria, constatato che Mario effettivamente permaneva in Germania per la maggior parte dell’anno e che aveva un’idonea casa lì, potrebbe accogliere il ricorso applicando la Convenzione, quindi dichiarando Mario non residente in Italia per il 2023 in virtù del trattato. A quel punto l’Agenzia deve rinunciare alla tassazione contestata (Mario rimane tassato in Germania e in Italia eventualmente pagherà solo su redditi di fonte italiana, che però nel 2023 non aveva).

Considerazioni: Questo caso è borderline perché la famiglia in Italia è un elemento fortemente a favore del Fisco italiano. Se Mario avesse passato meno tempo in Germania (es. solo 200 giorni), probabilmente avrebbe perso la causa. Ma avendo potuto dimostrare un soggiorno quasi totale all’estero, è riuscito a spuntarla grazie al tie-breaker del “soggiorno abituale”. Va sottolineato che se la Germania non avesse avuto una Convenzione con l’Italia, Mario avrebbe perso (perché la legge interna italiana, senza trattato, l’avrebbe considerato residente in base al domicilio familiare). Dunque, per chi non può trasferire la famiglia all’estero, è cruciale stare in Paesi che abbiano una Convenzione con l’Italia e tenere traccia scrupolosa dei giorni di permanenza. Mario ha vinto perché, su bilancia convenzionale, i giorni e la vita quotidiana pesavano più della famiglia rimasta. Non tutti i giudici potrebbero decidere uguale, ma i fatti erano ben documentati.

Esempio 2: “Trasferimento in Paese black list con interessi in Italia”
Scenario: Elisa, imprenditrice digitale, nel 2021 sposta la residenza a Dubai (Emirati Arabi Uniti, notoriamente a tassazione zero) per beneficiare della totale assenza di imposte locali. Si cancella dall’anagrafe italiana (iscrivendosi AIRE) ad ottobre 2021. Tuttavia, Elisa mantiene in Italia i seguenti legami: una villa in Sardegna (a Porto Cervo) che continua ad usare durante l’estate; la partecipazione al 100% in una start-up innovativa italiana di cui è stata amministratore fino al giorno prima di trasferirsi (poi formalmente si è dimessa nominando un prestanome come amministratore, ma di fatto continua a dare direttive via Zoom alla società); e un conto bancario italiano su cui continua a ricevere i dividendi dalla start-up e pagamenti da alcuni clienti esteri che acquistano i suoi servizi online. In sostanza, Elisa ha spostato fisicamente la base a Dubai, ma il suo business ha ancora radici importanti in Italia.

Contestazione: Caso da manuale di sospetta esterovestizione personale in Paese black list. L’Agenzia delle Entrate già nel 2022 inserisce Elisa nella lista dei controlli a rischio. Nel 2023 la Guardia di Finanza svolge accertamenti finanziari: vede che dal conto italiano di Elisa partono bonifici periodici per pagare spese in Italia (il mutuo sulla villa, bollette, spese condominiali); inoltre ottiene i dati dei movimenti di Elisa, scoprendo che Elisa è tornata in Italia 4 volte nel 2022 (2 mesi d’estate in Sardegna, 1 mese a Natale, altri 15 giorni per Pasqua e un evento di lavoro – in totale circa 4 mesi su 12 in Italia). Mandano questionario chiedendo chiarimenti. Elisa risponde in modo abbastanza generico che risiede a Dubai, allega il visto di residenza degli Emirati e un contratto di affitto di un appartamento lì. Non entra però nel merito delle sue permanenze in Italia né del ruolo nelle sue società. L’Ufficio, insoddisfatto di questa risposta, emette avviso di accertamento per l’anno 2022: considera Elisa residente in Italia in base alla presunzione dell’art. 2 co.2-bis TUIR (trasferimento in Paese black list) e ritiene che Elisa non abbia fornito prova contraria sufficiente. Le calcola dunque le imposte italiane su tutti i redditi 2022: includendo sia i guadagni della sua attività online percepiti a Dubai (che lì erano esentasse), sia i dividendi ricevuti dalla start-up italiana, ecc. Si tratta di importi elevati, con relative sanzioni per omessa dichiarazione.

Difesa: Elisa presenta ricorso, ma è consapevole di partire in posizione sfavorevole. Cerca di provare l’“effettività” del suo trasferimento a Dubai: produce attestazioni di aver trascorso almeno 8 mesi nel 2022 a Dubai (mostra timbri sul passaporto che indicano permanenza negli Emirati, contratti con clienti firmati a Dubai, foto geolocalizzate – persino screenshot del suo Instagram con geotag negli Emirati, per dimostrare la presenza). Porta testimonianze giurate di amici ed emiri che confermano la sua costante presenza lì. Sostiene che è tornata in Italia solo per vacanze e che comunque quando lavorava da remoto con la sua azienda italiana, lo faceva collegandosi da Dubai (anche se l’azienda era in Italia). Il Fisco, in controparte, evidenzia che: la villa in Sardegna è rimasta a disposizione di Elisa (ed è stata effettivamente usata da lei d’estate); la società italiana ha continuato a prosperare sotto la sua guida di fatto (presentano verbali societari che, incrociati con i suoi rientri, mostrano che decisioni importanti venivano prese quando lei era in Italia); i flussi finanziari indicano ancora una vita economica in Italia (prelievi Bancomat effettuati a Porto Cervo, pagamenti con carta sul territorio italiano, ecc.).

Esito possibile: Questo caso è decisamente difficile per il contribuente. La presunzione black list inchioda Elisa a dover provare moltissimo, e i collegamenti con l’Italia sono numerosi e sostanziali. Un giudice potrebbe ragionare così: Elisa ha certamente stabilito una base a Dubai (nessuno nega che stia lì la maggior parte del tempo), ma non ha reciso i legami economici con l’Italia. La start-up è italiana e lei la controlla e ne trae reddito; la villa di lusso in Italia è rimasta a sua disposizione e lei la utilizza; la presenza fisica in Italia per 4 mesi l’anno non è trascurabile. Inoltre, non c’è Convenzione con Dubai (gli Emirati non hanno un trattato fiscale generale con l’Italia), quindi il giudice applica la norma interna e dice: domicilio e interessi economici ancora in Italia = residenza fiscale in Italia confermata. In sostanza, il ricorso di Elisa verrebbe respinto. Lei si troverebbe a dover pagare le imposte italiane su tutto il 2022 (senza nemmeno poter vantare crediti d’imposta, visto che a Dubai non pagava nulla). Probabilmente a questo punto le converrebbe cercare una transazione con adesione per ridurre almeno le sanzioni.

Considerazioni: Questo è un esempio tipico di come spostare la residenza solo “sulla carta” verso paradisi fiscali non funziona, se non si sposta anche la sostanza di vita e di affari. Dal punto di vista difensivo, Elisa avrebbe dovuto almeno: vendere o affittare la villa (così da non usarla personalmente); magari costituire la nuova azienda a Dubai invece di mantenere quella italiana (o comunque non dirigerla più attivamente). Il consiglio generale è chiaro: non basta trasferirsi formalmente se mantieni asset e ruoli importanti in Italia. Se ti trasferisci in black list sei praticamente certo di perdere la disputa a meno di stravolgere davvero la tua vita e recidere ogni legame significativo.

Esempio 3: “Doppia residenza formale risolta con Convenzione”
Scenario: Luca vive a cavallo tra Italia e Regno Unito da anni. Fino al 2020 era residente in Italia, poi nel 2021 si trasferisce a Londra per lavoro presso una banca. Purtroppo non si è iscritto all’AIRE tempestivamente e risulta ancora residente anagraficamente a Milano per tutto il 2021. In quell’anno però Luca ha passato circa 200 giorni nel Regno Unito e viene considerato tax resident UK dal fisco britannico (ha il certificato HMRC), e ha pagato le tasse in UK sui suoi redditi. Non ha presentato dichiarazione in Italia per il 2021, ritenendo non servisse. Nel 2022 si mette in regola e si iscrive all’AIRE.

Contestazione: L’Agenzia italiana vede che Luca, pur iscritto AIRE dal 2022, per il 2021 risultava ancora ufficialmente residente in Italia (APR). Inoltre nota, tramite lo scambio di informazioni, che Luca nel 2021 ha percepito redditi esteri (il suo stipendio da Londra) e non li ha dichiarati in Italia. Manda quindi un accertamento per il 2021 considerando Luca residente fiscale italiano e recuperando le imposte su quello stipendio (~100k €) non tassato in Italia.

Difesa: Luca impugna l’accertamento invocando la Convenzione Italia–UK. Sostiene: è vero, ero formalmente residente in Italia nel 2021, ma avevo di fatto doppia residenza perché il Regno Unito mi considerava residente fiscale suo (ecco il certificato HMRC). Quindi applichiamo i tie-breaker della Convenzione:

  • Abitazione permanente: avevo un appartamento in affitto a Londra tutto l’anno; in Italia vivevo in una stanza a casa dei miei genitori (ancora a mia disposizione). Quindi avevo un’abitazione sia in UK che in Italia.
  • Centro interessi vitali: la fidanzata è rimasta in Italia e avevo un conticino bancario in Italia; però il lavoro e i guadagni erano in UK. Un criterio incerto, un po’ bilanciato.
  • Soggiorno abituale: ho passato circa 210 giorni in UK e 155 in Italia (facevo avanti e indietro per stare con la fidanzata). Quindi leggermente più giorni in UK.

Luca porta anche l’attestato di residenza fiscale UK rilasciato dal HMRC per il 2021.

Esito possibile: Dato che tra Italia e UK c’è convenzione, il giudice applicherebbe i criteri OCSE. Nel caso specifico i numeri non sono nettissimi (210 vs 155 giorni, non un abisso), ma se Luca dimostra di avere anche più interessi economici in UK (es. conti bancari solo lì, magari iniziato investimenti lì), potrebbe convincere il giudice. Probabilmente la Commissione tributaria annullerà l’accertamento riconoscendo la residenza UK di Luca per il 2021 grazie al criterio del soggiorno abituale (210 giorni vs 155). L’Agenzia si allineerà (anche perché tanto Luca dal 2022 è AIRE e formalmente fuori, quindi ormai sistemato).

Considerazioni: Questo scenario mostra un caso dove la mancata iscrizione AIRE ha fatto scattare l’accertamento, ma grazie alla Convenzione (e al fatto che Luca era effettivamente più di metà anno in UK) il contribuente riesce a spuntarla. Certamente, Luca avrebbe dovuto iscriversi all’AIRE subito e/o passare meno tempo in Italia per stare più tranquillo. Comunque, il trattato gli ha fornito la via d’uscita. Un’altra lezione: se sai di trasferirti in un Paese convenzionato e magari per motivi pratici resti un po’ in anagrafe italiana, almeno conserva tutte le prove per applicare i tie-breaker a tuo favore.

Esempio 4: “Società estera gestita dall’Italia (esterovestizione societaria)”
Scenario: ABC Ltd è una società con sede a Malta, amministrata formalmente da un fiduciario locale. Tuttavia, i soci della ABC sono due fratelli italiani residenti a Roma, i quali – tramite deleghe bancarie e procure – di fatto gestiscono tutte le operazioni: la ABC si occupa di commercio online e in realtà i server, i clienti e gran parte del personale sono in Italia; solo la sede legale e la contabilità sono a Malta (sfruttando la bassa aliquota IRES locale tramite un meccanismo di rimborsi). Nel 2020 e 2021 ABC Ltd non dichiara nulla in Italia, dichiarando tutto a Malta (dove paga poche imposte grazie al regime locale).

Contestazione: L’Agenzia delle Entrate, in collaborazione con la GdF, scopre che la ABC Ltd maltese ha depositi in banche italiane e che i due soci prelevano regolarmente denaro in Italia. Nel 2022 parte un accertamento: l’Agenzia contesta che ABC Ltd era di fatto residente in Italia, poiché la sede di direzione effettiva era a Roma, dove i fratelli prendevano le decisioni (riunioni, gestione dipendenti in Italia, ecc.). Vengono quindi emessi avvisi di accertamento IRES per 2020-2021 come se ABC fosse italiana, tassandone tutti i profitti globali (sottraendo quanto pagato a Malta come credito). Inoltre, contestano ai fratelli una sanzione per omessa dichiarazione del quadro RW (perché controllavano una società estera non dichiarata) e ipotizzano addirittura il reato di omessa dichiarazione per la società (ritenendo i due fratelli amministratori di fatto responsabili).

Difesa: La società ABC (tramite i soci) ricorre sostenendo che invece la direzione era effettivamente a Malta perché c’era il fiduciario maltese che firmava i contratti. Tentano di mostrare che i consigli di amministrazione (fittizi) si tenevano a Malta (esibiscono verbali di board in inglese tenuti via conference call). Tuttavia, l’Agenzia porta evidenze forti: email dove i fratelli danno istruzioni operative allo staff in Italia; testimonianze di dipendenti italiani che dichiarano di riferire sempre ai due fratelli; documenti che mostrano che la maggioranza delle spese e dei ricavi della società erano in Italia.

Esito possibile: Con ogni probabilità la Commissione confermerà l’esterovestizione: la ABC Ltd verrà considerata residente in Italia perché la sua attività era centrata qui e le decisioni prese dagli italiani. I fratelli si ritroveranno a dover pagare le imposte arretrate della società come condebitori (in quanto amministratori di fatto), con relative sanzioni. Inoltre, parallelamente, partirà con ogni probabilità un procedimento penale per dichiarazione fraudolenta od omessa (aver occultato l’azienda estera per evadere). A quel punto a loro converrà magari aderire per ridurre le sanzioni amministrative e cercare un patteggiamento nel penale.

Considerazioni: Questo esempio evidenzia che non serve aprire società estere se poi la si gestisce dall’Italia. La difesa in questi casi quasi mai vince, perché i fatti parlano da soli. Dal punto di vista del contribuente, se si vuole davvero un’azienda estera, bisogna mettere il management sul posto e l’operatività lì. Altrimenti, è meglio sfruttare strumenti leciti in Italia (regimi agevolati, tassazioni speciali) e non rischiare un accertamento che poi è difficilissimo da ribaltare. Insomma, substance over form: la forma societaria estera non regge se la sostanza è tutta in Italia.

Esempio 5: “Contestazione infondata per errore di target”
Scenario: Roberta si trasferisce in Spagna nel 2019, iscritta subito all’AIRE. Lavora e vive lì con la famiglia, e non ha beni in Italia salvo una piccola casa ereditata, tenuta chiusa e inutilizzata. L’Agenzia delle Entrate però, a seguito di un incrocio di banche dati, la scambia per un’omonima che invece risiedeva in Italia. Nel 2024 le notifica un avviso sostenendo che era residente in Italia nel 2020 perché risultava proprietaria di casa in Italia e con marito italiano. In realtà, quell’informazione era erronea: sì, Roberta possiede la casa, ma non la utilizza; il marito è italiano ma si è trasferito con lei in Spagna ed è anch’egli iscritto AIRE; i dati di presenza erano confusi probabilmente con l’altra persona.

Contestazione e difesa: Roberta presenta immediatamente un’istanza di autotutela, allegando: certificati di residenza spagnoli suoi e del marito; iscrizione dei figli a scuola a Madrid; bollette spagnole; biglietti aerei che mostrano che nel 2020 è tornata in Italia solo 10 giorni per ferie. Chiede all’ufficio di riesaminare il caso dato l’equivoco di persona. Fortunatamente, l’ufficio riconosce l’errore e annulla in autotutela l’accertamento prima ancora che Roberta debba ricorrere.

Considerazioni: Questo caso mostra che a volte succedono errori (scambi di persona, omonimie) e che l’autotutela può rimediare se la situazione è chiara ed evidente. Naturalmente casi così lampanti non sono frequentissimi, ma se capita, non esitare a presentare autotutela con dettagliate prove. In questi frangenti, la collaborazione e la comunicazione rapida con l’ufficio può risolvere in pochi mesi ciò che altrimenti sarebbe finito in Commissione inutilmente.

Conclusioni

La contestazione della residenza fiscale è uno degli ambiti più delicati e complessi nel rapporto tra contribuenti e Amministrazione finanziaria italiana. In questa guida abbiamo visto come la definizione di residenza si basi su un mix di criteri formali e sostanziali, e come la legge italiana – specie dopo la riforma del 2024 – richieda un’analisi approfondita delle circostanze di fatto per stabilire dove un individuo (o una società) abbia il proprio centro d’interessi. Dal punto di vista del contribuente (che potremmo definire il “debitore potenziale” in caso di accertamento), difendersi bene significa: conoscere le regole (nazionali e internazionali), prevenire le situazioni di rischio e, se la contestazione arriva, agire tempestivamente con tutti gli strumenti disponibili.

Riassumiamo i punti chiave emersi:

  • Verificare sempre i criteri legali applicabili: domicilio, residenza (dimora abituale), presenza fisica, iscrizione anagrafica – e dal 2024 ricordare che la residenza fiscale è più incentrata sul luogo delle relazioni personali/familiari e della permanenza fisica.
  • Non dare per scontato che un adempimento formale risolva tutto: ad esempio, iscriversi all’AIRE è necessario ma non vi mette automaticamente al sicuro – conta la sostanza dei vostri spostamenti. Allo stesso tempo, non ignorate gli aspetti formali: una dimenticanza burocratica può dare un assist al Fisco. Bisogna curare sia la forma che la sostanza.
  • Se pianificate un trasferimento all’estero, consultate esperti e preparatevi: magari valutando in anticipo se formalizzare la vostra posizione con un interpello internazionale (per quei casi in cui è ammesso, ad es. regime impatriati al rientro, ecc.), o comunque facendovi consigliare su come strutturare il trasferimento (ci sono differenze tra lavoratore dipendente, pensionato, imprenditore, ecc.). Ogni situazione ha accorgimenti diversi – ad esempio, un pensionato deve considerare se la convenzione attribuisce la tassazione della pensione solo al Paese di residenza, etc. Pianificate con attenzione prima di muovervi.
  • In caso di avvio di controllo (es. questionario), non fate gli struzzi: rispondete al questionario puntualmente, fornite spiegazioni e documenti. Spesso, chiarendo bene agli ispettori la vostra posizione con le prove (magari presentando quella ricevuta d’affitto o quel certificato estero che non avevano considerato), potete convincerli e fermare l’accertamento sul nascere. Non rispondere o rispondere superficialmente è quasi una garanzia di vedersi recapitare l’avviso.
  • Tenete un archivio ben ordinato di tutta la vostra vita fiscale internazionale: specialmente se fate avanti-indietro tra Paesi, conservate contratti, bollette, biglietti, tutto. Nella peggiore ipotesi, saranno le armi del vostro difensore in tribunale. È fastidioso archiviare ogni cosa, ma anni dopo farà la differenza ricordare i dettagli.
  • Conoscete i vostri diritti di contribuente: lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) vi garantisce, tra le altre cose, il diritto al contraddittorio (potete sempre esporre le vostre ragioni, almeno a un certo punto), il diritto di accesso agli atti (potete chiedere su quali basi l’accertamento è stato fatto), il diritto a non subire comportamenti vessatori. E, come detto, le Convenzioni internazionali vi danno tutele ulteriori: non dimenticate di farle valere. A volte anche solo menzionare all’ufficio che “esiste una Convenzione che prevale” può indirizzare diversamente il controllo.
  • Se ricevete un atto di accertamento, muovetevi subito con un professionista e valutate tutti i rimedi: presentate istanza di autotutela appena possibile se ci sono errori evidenti; valutate la definizione agevolata (adesione) se vi conviene; preparate il ricorso entro i termini. Non abbiate timore del contenzioso tributario: come detto, è meglio farsi valere in Commissione che subire passivamente un esborso ingiusto. Tra l’altro, la recente professionalizzazione dei giudici tributari e alcune riforme procedurali (es. la sospensione automatica della riscossione se vinci in primo grado) offrono più garanzie di terzietà e tempi più certi rispetto al passato.
  • Mantenete un approccio cooperativo ma fermo: “cooperativo” significa fornire dati e non nascondersi; “fermo” significa difendere i propri diritti e la propria posizione senza cedere a interpretazioni errate del Fisco. Ad esempio, se il funzionario locale sembra ignorare una Convenzione, insisti educatamente citando Cassazione e normative internazionali; se ti chiede documenti che hai già fornito, re-inviaglieli evidenziandoli; se ritieni l’atto illegittimo su un punto, spiega perché anche al suo superiore se necessario. In sostanza, fai valere le tue ragioni con determinazione ma con rispetto istituzionale.

In conclusione, “difendersi bene” da una contestazione di residenza fiscale richiede preparazione, organizzazione e talvolta una certa combattività. Il panorama normativo in evoluzione – tra riforme interne e accordi internazionali – tende a dare ragione a chi realmente si trasferisce all’estero in buona fede e a colpire invece chi cerca semplici escamotage. Mettetevi quindi nell’ottica che una difesa efficace coincide spesso con un comportamento fiscale coerente e trasparente: più sarete in grado di dimostrare la vostra coerenza (nei fatti e nelle intenzioni), più possibilità avrete di uscire vittoriosi da eventuali contenziosi. E se qualcosa dovesse andare storto, ricordate che esistono vari gradi di giudizio: non tutto è perduto alla ricezione dell’atto, si può e si deve reagire appropriatamente.

Il punto di vista del contribuente (debitore) deve essere sempre quello di far emergere la verità sostanziale – “io lì non c’ero davvero” oppure “la mia vita era altrove” – supportandola con evidenze documentali. Così facendo, e con l’aiuto di consulenti preparati, potrete far valere le vostre ragioni anche di fronte al Fisco più ostinato, forti della normativa e della giurisprudenza che abbiamo esaminato in questa guida.

Guida redatta: luglio 2025.

Fonti e riferimenti normativi (Italia, aggiornate a luglio 2025)

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) – Art. 2, commi 2 e 2-bis (definizione di residenza fiscale persone fisiche e presunzione per trasferimenti in Stati a fiscalità privilegiata); Art. 3 (principio della tassazione mondiale); Art. 73, commi 3 e 5-bis (criteri di residenza per società ed enti, ed esterovestizione).
  • D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 147, Art. 16 – Regime speciale per lavoratori impatriati (menzionato per tie-breaker in caso di mancata iscrizione AIRE nei due anni precedenti il rientro).
  • D.Lgs. 29 novembre 2018, n. 142, Art. 4 – Norme CFC (Controlled Foreign Companies) e collegamenti con l’esterovestizione (non trattato direttamente qui, ma parte del contesto anti-abuso sulle residenze fittizie).
  • Legge 23 luglio 2021, n. 106, Art. 5 – Delega fiscale 2021 (base del D.Lgs. 209/2023 per la riforma della residenza fiscale).
  • D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 192 – Riforma della giustizia tributaria (in vigore dal 2023) con giudici tributari professionali e nuove regole sulla sospensione della riscossione dopo sentenze favorevoli ai contribuenti.
  • D.Lgs. 29 dicembre 2022, n. 209 (“Decreto fiscalità internazionale”) – Art. 1 (riformulazione Art. 2 TUIR persone fisiche: nuova definizione di domicilio fiscale, introduzione criterio presenza fisica, presunzione anagrafica divenuta relativa); Art. 2 (modifiche criteri residenza società: eliminazione oggetto principale, focus su sede effettiva e centro di gestione operativa).
  • D.Lgs. 29 dicembre 2022, n. 218, Artt. 5 e 6 – Modifiche allo Statuto del Contribuente: introdotti art. 10-quater e 10-quinquies L. 212/2000 (autotutela tributaria obbligatoria e potenziata).
  • Codice Civile italiano, Art. 43 – Definizione di residenza e domicilio civile (la base concettuale richiamata per dimora abituale e sede degli affari/interessi).
  • Codice di Procedura Civile, Art. 360 – Ricorso per Cassazione (richiamato per questioni di legittimità negli esempi di contenzioso).
  • D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, Artt. 2, 4 e 5 – Reati tributari: Art. 4 (dichiarazione infedele, soglie >100k e >10%); Art. 5 (omessa dichiarazione, soglia >50k). (Rilevanti per le conseguenze penali menzionate in caso di evasione da residenza fittizia).

Documenti di prassi ufficiale:

  • Circolare Agenzia Entrate 25/E del 18 agosto 2023, paragrafo 1 – Chiarimenti su residenza fiscale e smart working (ribadiva che chi lavora da remoto all’estero non perde la residenza italiana se non soddisfa i criteri dell’art. 2 TUIR).
  • Circolare Agenzia Entrate 20/E del 4 novembre 2024 – “Nuova disciplina della residenza fiscale di persone fisiche, società ed enti”. Espone dettagliatamente le novità del D.Lgs. 209/2023 con esempi pratici. Chiarisce, tra l’altro: la nuova definizione di domicilio come relazioni personali/familiari, l’iscrizione anagrafica divenuta presunzione relativa, il calcolo dei 183 giorni includendo le frazioni di giorno, l’estensione dei criteri di presenza fisica anche a situazioni di lavoro da remoto. Conferma inoltre che non è ammesso interpello per chiedere parere sulla propria residenza fiscale.
  • Circolare Agenzia Entrate 21/E del 7 novembre 2024 – “Autotutela tributaria”. Fornisce linee guida sul potenziato esercizio dell’autotutela alla luce del D.Lgs. 218/2022. Incoraggia gli uffici a usare l’autotutela in caso di evidente errore per evitare contenziosi inutili (come nel caso esemplificativo di errore di persona in es. 5).
  • Risoluzione Agenzia Entrate n. 25/E del 2 marzo 2018 – Risposta a interpello su un lavoratore all’estero con famiglia in Italia. Afferma che il domicilio resta in Italia in tal caso e che per escludere la residenza italiana serve applicare il tie-breaker della Convenzione (se disponibile).
  • Risoluzioni AE n. 203/E/2019 e n. 370/E/2023 – Confermano l’uso delle Convenzioni per definire la residenza in caso di doppia residenza formale (es. soggetto ancora iscritto in Italia ma anche residente all’estero secondo l’altro Stato).
  • Circolare Ministeriale 140/E del 1999 – Istruzioni sul vecchio art. 2 co. 2-bis TUIR (presunzione per Paesi black list): chiariva l’onere della prova a carico del contribuente per dimostrare l’effettiva residenza all’estero quando ci si trasferisce in paradisi fiscali.
  • Circolare Agenzia Entrate 33/E del 28 dicembre 2020, paragrafo 4.2 – In tema di regime impatriati, chiarisce che anche chi non era iscritto AIRE può dimostrare di essere stato residente all’estero nei periodi precedenti tramite elementi sostanziali e convenzionali (superando la mancata iscrizione). Questo avallo conferma l’importanza dei criteri convenzionali anche per definire situazioni di residenza pregressa.

Giurisprudenza (sentenze, ordinanze):

  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 11620 del 4 maggio 2021 – Ribadisce che l’imposizione reddituale si collega a un “collegamento fisico” del contribuente col territorio, che non si esaurisce nella residenza anagrafica ma richiede la prova del domicilio inteso come sede principale di affari/interessi. Sottolinea che il domicilio fiscale rileva solo se riconoscibile a terzi nella gestione degli interessi (quindi, serve sostanza visibile). Utile come principio a favore del contribuente: l’Agenzia deve provare la presenza effettiva, non basta l’anagrafe.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 21694 dell’8 ottobre 2020 – Sancisce che la cancellazione dall’anagrafe italiana e l’iscrizione all’AIRE non sono sufficienti da sole a escludere la residenza fiscale italiana se persistono la residenza o il domicilio (ex art. 43 c.c.) in Italia. Usata spesso dal Fisco per dire: non basta esserti iscritto AIRE, se di fatto avevi ancora famiglia/casa qui resti residente. (Questa è la giurisprudenza “formalistica” previgente alla riforma 2024, ora in parte superata dalla legge ma rilevante per anni passati.)
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 1355 del 18 gennaio 2022 – Esempio di orientamento formalista previgente: considera l’iscrizione anagrafica in Italia come presunzione assoluta di residenza fiscale (cita Cass. 16634/2018). Questo orientamento è superato dalla norma dal 2024, ma è importante storicamente (e per contenziosi su anni pre-2024, se qualche giudice ancora vi aderisse).
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 19843 del 18 luglio 2024 – Causa riguardante un contribuente a Monte Carlo negli anni 2006-2010: la Corte chiarisce che le nuove norme sulla residenza (post 2024) non hanno effetto retroattivo; per gli anni pre-riforma privilegia il criterio del centro degli interessi economici (il contribuente aveva molte cariche sociali in Italia) rispetto ai legami affettivi internazionali. Definisce inoltre il domicilio civilistico come il luogo di preminenza dei legami economico-patrimoniali riconoscibili da terzi. Questa sentenza è utile per capire che per il passato la Cassazione applica i vecchi criteri e che la riforma 2024 si applica solo d’ora in avanti.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 1075 del 16 gennaio 2025 (ordinanza) – Caso di esterovestizione societaria: trasferimento fittizio di sede all’estero. La Corte stabilisce che, in caso di trasferimento fittizio all’estero di una società, il domicilio fiscale della società va individuato nell’ultima sede legale in Italia; gli altri criteri di collegamento (es. sede amministrativa altrove) sono residuali. Ha cassato la decisione della CTR Friuli che dichiarava incompetente l’ufficio italiano, affermando la competenza dell’ufficio italiano originario poiché la società era di fatto ancora domiciliata in Italia. Questa pronuncia conferma un approccio “substance over form” duro per le società: se lo spostamento è finto, per legge resti domiciliato in Italia, anche ai fini di competenza territoriale.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 6598 del 15 marzo 2013 – Pronuncia che afferma chiaramente: l’iscrizione all’AIRE non basta, occorre che il soggetto non abbia né residenza né domicilio in Italia per escludere la residenza fiscale italiana. Ribadisce quindi i tre criteri del TUIR come alternativi e l’onere di provare l’effettivo spostamento di vita fuori. (Allineata con l’orientamento pre-riforma; utile come riferimento storico.)
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 4303 del 26 febbraio 2007 – Simile alla precedente: enfatizza che la permanenza di legami in Italia (affari, famiglia) porta a ritenere residente il contribuente nonostante l’iscrizione AIRE. Vecchia giurisprudenza pro-Fisco, citata per completezza.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 14240 del 25 maggio 2021 – Conferma la prevalenza delle Convenzioni internazionali sulle norme interne in materia di conflitto di residenza. (Questa sentenza è citata in articoli come Blastonline come giurisprudenza “di vertice” a favore del criterio convenzionale.) Sostanzialmente, ribadisce il principio per cui se la Convenzione attribuisce la residenza all’estero, l’Italia deve adeguarsi.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 24246 del 30 novembre 2015 – Riconosce efficacia ai tie-breaker convenzionali: contribuente formalmente iscritto all’anagrafe in Italia ma residente anche in altro Stato viene considerato non residente in Italia applicando i criteri della Convenzione. Questa sentenza viene citata spesso dalla Cassazione stessa come leading case pro-contribuente in materia di convenzioni. È utile citarla in difesa quando si invoca il trattato.
  • Cassazione SS.UU. 26965/2009 – Sentenza a Sezioni Unite (dirimente) che stabilisce che le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in quanto norme pattizie internazionali recepite, hanno rango di legge superiore a quella interna ex art. 117 Cost.. Cioè, prevalgono sulle disposizioni interne confliggenti. Fondamentale per sostenere la prevalenza dei criteri convenzionali sul TUIR in caso di contrasto.
  • CTR Lombardia, sent. n. 3204/2017 – Esempio di pronuncia di merito favorevole: contribuente calciatore trasferito a Monaco (Principato). La CTR dà ragione al contribuente ritenendo provata la residenza estera effettiva nonostante tardiva iscrizione AIRE, valorizzando la convenzione tra Italia e Monaco sui redditi di lavoro (Monaco ha accordo limitato per i frontalieri). Utile come esempio pratico dove i giudici di merito hanno guardato alla sostanza (famiglia e vita all’estero) annullando l’atto.
  • Corte Costituzionale n. 242/2017 – (Indirettamente pertinente) Dichiara l’illegittimità di certe presunzioni tributarie assolute irragionevoli; supporta l’idea che una presunzione anagrafica assoluta sarebbe dubitabile costituzionalmente, spingendo verso la riforma poi avvenuta. In particolare, questa sentenza ha contribuito al dibattito che ha portato a rendere relativa la presunzione anagrafica. È un riferimento di principio: in materia tributaria le presunzioni assolute troppo rigide possono violare principi costituzionali..

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