Avviso Di Accertamento Per Stabile Organizzazione Occulta: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento con la contestazione di una stabile organizzazione occulta in Italia? Ti stai chiedendo cosa significa, quali sono le conseguenze fiscali e soprattutto come puoi difenderti da una simile accusa dell’Agenzia delle Entrate?

La stabile organizzazione occulta è uno degli strumenti con cui il Fisco colpisce attività economiche estere che, pur non avendo una sede dichiarata in Italia, operano di fatto sul territorio nazionale. L’effetto è devastante: l’intero reddito prodotto può essere tassato in Italia, con pesanti sanzioni e rischio di doppia imposizione.

Cos’è una stabile organizzazione occulta?
– È una presenza economica stabile e continuativa in Italia, anche senza una sede legale o ufficio ufficiale
– Può derivare da una società estera che opera in Italia tramite un soggetto collegato, agenti dipendenti, strutture operative non dichiarate
– Il Fisco presume che esista una stabile organizzazione quando un soggetto italiano gestisce, conclude contratti o produce ricavi per conto di una società estera
– L’accusa è che si eluda la tassazione italiana fingendo che l’attività sia svolta interamente all’estero

Quali sono le conseguenze dell’accertamento?
– Il reddito prodotto in Italia viene sottoposto a tassazione integrale
– Vengono recuperate imposte, interessi e sanzioni fino al 240%
– Rischio di accertamenti retroattivi per più anni d’imposta
– Possibile apertura di procedimenti penali per dichiarazione infedele o omessa
– Attivazione della cooperazione internazionale con altri Stati per il recupero fiscale

Quando il Fisco contesta una stabile organizzazione occulta?
– Se una società estera vende in Italia ma tramite una rete italiana di agenti o collaboratori
– Se c’è magazzino, logistica, personale, contratti o marketing gestiti dall’Italia
– Se il soggetto italiano agisce in nome e per conto della società estera
– Se i ricavi sono generati nel territorio nazionale ma non dichiarati in Italia

Come puoi difenderti da un avviso di accertamento per stabile organizzazione occulta?
– Analizza la motivazione dell’accertamento: deve essere fondata su elementi concreti, non solo presunzioni
– Controlla se è stato rispettato il contraddittorio preventivo
– Dimostra che l’attività svolta in Italia è meramente accessoria, ausiliaria o di supporto
– Fornisci prove documentali che mostrino l’autonomia della sede estera
– Verifica se esistono convenzioni contro le doppie imposizioni che escludono la tassazione in Italia
– Se necessario, valuta il ricorso o la definizione agevolata per ridurre il danno fiscale

Cosa puoi ottenere con una strategia difensiva solida?
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La disapplicazione di sanzioni sproporzionate
– La dimostrazione dell’assenza di una presenza stabile o economicamente rilevante in Italia
– La tutela da doppia imposizione se il reddito è già tassato nello Stato estero
– La salvaguardia del tuo patrimonio e della continuità dell’attività

Il concetto di stabile organizzazione occulta è complesso e spesso usato in modo aggressivo dal Fisco. Ma la prova spetta all’Agenzia, e tu hai il diritto di contestare ogni presunzione non fondata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso internazionale e fiscalità estera ti spiega cosa significa ricevere un avviso di accertamento per stabile organizzazione occulta, quali sono i rischi e come difenderti nel modo più efficace.

Hai una società estera operativa in Italia o hai ricevuto un accertamento per stabile organizzazione? Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Ti diremo se l’accusa del Fisco è fondata, come dimostrare la tua posizione e quali strumenti legali usare per proteggerti.

Introduzione

Un avviso di accertamento per stabile organizzazione occulta è un atto con cui l’Agenzia delle Entrate contesta a un contribuente (tipicamente un’impresa non residente) di aver operato in Italia attraverso una “permanent establishment” non dichiarata. Questo scenario è densa di implicazioni fiscali e giuridiche, specialmente nell’era della globalizzazione e del digitale, dove le attività imprenditoriali trascendono facilmente i confini nazionali. Ricevere un tale avviso significa affrontare potenzialmente imposte non versate (IRES, IRAP, IVA) su redditi “nascosti” al Fisco italiano, sanzioni amministrative molto elevate e persino conseguenze penali in caso di omessa dichiarazione.

Questa guida, aggiornata a luglio 2025, fornisce un quadro avanzato – ma con un taglio divulgativo – di come difendersi da un accertamento del genere. È pensata per avvocati, professionisti e imprenditori che si trovano (o potrebbero trovarsi) dall’altra parte del tavolo, ovvero nel ruolo del contribuente/debitore che deve rispondere alle pretese fiscali.

Cosa troverete in questa guida: le definizioni chiave (cos’è una stabile organizzazione e quando è occulta), il funzionamento dell’accertamento induttivo in questi casi, le fasi del procedimento (dalla verifica iniziale all’emissione dell’avviso), le conseguenze fiscali, le strategie difensive in sede sia amministrativa che contenziosa (e anche in fase di riscossione), un excursus sulle sentenze più recenti e la prassi rilevante, oltre a domande frequenti con risposte pratiche. Il tutto corredato di riferimenti normativi aggiornati e di tabelle riepilogative che schematizzano i punti chiave, nonché esempi concreti riferiti al contesto italiano. L’obiettivo è fornire gli strumenti per comprendere e affrontare al meglio un’accusa di stabile organizzazione occulta dal punto di vista del contribuente.

(Nota: utilizzeremo il termine “S.O. occulta” per indicare la stabile organizzazione occulta. Dove opportuno verranno richiamate norme (es. art. 162 TUIR) e acronimi: TUIR = Testo Unico Imposte sui Redditi, DPR 917/1986; CTR/CTP = Commissione Tributaria Regionale/Provinciale, ora rinominate “Corti di Giustizia Tributaria” di secondo e primo grado; OCSE = Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; etc.)

Cos’è una stabile organizzazione occulta

Per poter impostare una difesa efficace, occorre innanzitutto chiarire cosa si intende per stabile organizzazione, e in particolare quando questa è detta “occulta”. La nozione di stabile organizzazione (in inglese permanent establishment) nasce dal diritto internazionale tributario: le Convenzioni contro le doppie imposizioni (trattati bilaterali) prevedono che un paese possa tassare gli utili di un’impresa estera solo se questa ha in tale paese una “stabile organizzazione” (concetto definito generalmente all’art. 5 del Modello OCSE di convenzione). L’Italia ha recepito questa nozione nell’ordinamento interno: l’art. 162 del TUIR definisce la stabile organizzazione come “una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività” sul territorio dello Stato. Esempi tipici di stabile organizzazione materiale sono una sede di direzione, una succursale, un ufficio, un’officina, un laboratorio o un cantiere (quest’ultimo se supera una certa durata). Accanto alle forme materiali, vi sono le stabili organizzazioni “personali”, che si concretizzano quando un soggetto in Italia conclude o negozia contratti in nome di un’impresa estera: è il caso del “dependent agent” (agente dipendente) previsto sia dal diritto interno (art. 162 c.6 TUIR) che dai trattati. In altre parole, se un agente opera abitualmente per la casa madre estera e non è indipendente, l’attività di questo agente può configurare una stabile organizzazione personale dell’impresa estera in Italia. Di contro, l’attività svolta da un intermediario indipendente (come un mediatore o commissionario che opera nel corso della propria attività ordinaria) non costituisce di per sé una stabile organizzazione dell’estero. La distinzione tra agente dipendente e indipendente è cruciale: la Cassazione ha più volte ribadito che non sussiste stabile organizzazione se l’impresa non residente opera in Italia solo tramite un agente o intermediario indipendente, che agisce nell’ambito della sua attività propria. Ad esempio, la recente Cass. n. 992/2024 ha confermato che la presenza di un commissionario italiano con autonomia (seppur controllato al 100% da una holding estera) non crea una stabile organizzazione della holding, perché tale commissionario operava come soggetto giuridicamente ed economicamente indipendente, limitandosi a vendere in nome proprio i prodotti dell’estero e trattenendo una provvigione.

Definizione di “occulta”

Si parla di stabile organizzazione occulta quando la presenza economica dell’impresa straniera in Italia di fatto equivale a una stabile organizzazione, ma non è dichiarata formalmente al Fisco. In altre parole, l’impresa estera nasconde l’esistenza di una propria base fissa in Italia, evitando di registrarsi come soggetto fiscale italiano e di presentare le relative dichiarazioni dei redditi/IVA. Questa possibilità è ammessa implicitamente dall’ordinamento: la normativa interna e la giurisprudenza consentono di individuare ex post una stabile organizzazione occulta in territorio italiano, qualora ne ricorrano i presupposti sostanziali.

Le situazioni tipiche riconducibili a fenomeni di stabile organizzazione occulta sono essenzialmente due:

  • Caso 1: Impresa estera con base occulta in Italia (inbound) – Un soggetto non residente (società estera) opera stabilmente in Italia tramite una sede d’affari non dichiarata. In sostanza svolge qui attività d’impresa ma senza alcuna posizione fiscale aperta in Italia (né partita IVA né codice fiscale per attività d’impresa), evadendo così le imposte dovute nel nostro Paese. Un esempio classico: una società straniera che di fatto gestisce in Italia uffici, personale e affari come se avesse una filiale, ma non ha mai aperto una sede secondaria ufficiale né presentato dichiarazioni dei redditi in Italia, realizzando quindi profitti non tassati dal Fisco italiano.
  • Caso 2: Impresa italiana con base occulta all’estero (outbound) – Qui è una società residente in Italia a occultare l’esistenza di una propria stabile organizzazione all’estero, per evitare di tassare in Italia i redditi prodotti oltreconfine. Ricordiamo che l’Italia tassa le società residenti sul worldwide income, ossia sui redditi ovunque prodotti, salvo credito per le imposte estere. Se una società italiana nasconde di avere un’attività stabile in un altro Stato (non dichiarando nulla al Fisco italiano riguardo a quella presenza), i relativi utili esteri sfuggono all’imposizione in Italia. Ad esempio, una società italiana potrebbe operare in un paese a fiscalità privilegiata tramite una sede non dichiarata, per tenere i profitti all’estero senza pagarci le imposte italiane.

In entrambi i casi, l’elemento comune è la “invisibilità” fiscale della stabile organizzazione: questa non risulta da alcun registro ufficiale (nessuna iscrizione al registro imprese come filiale, nessuna partita IVA attiva per quell’attività, nessuna dichiarazione presentata), e dunque il Fisco ne è all’oscuro fino a quando eventualmente la scopre tramite attività di controllo. Per questo motivo la stabile organizzazione occulta viene spesso associata alla figura dell’evasore totale internazionale: un’entità economica opera in Italia ma è fiscalmente fantasma, ignorata dal Fisco finché un’indagine mirata non la fa emergere.

Nota bene: prima di circa il 2011 vi era incertezza su chi fosse il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria in caso di stabile organizzazione occulta. Nella celebre vicenda Philip Morris (Cass. n. 7682/2002) la Cassazione inizialmente aveva ritenuto che il soggetto obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi fosse comunque la società estera (casa madre) e non la società italiana utilizzata come base. Questo orientamento è stato poi superato: con la sentenza Cass. n. 16106/2011 la Suprema Corte ha chiarito che la stabile organizzazione occulta costituisce un autonomo centro d’imputazione fiscale interno, sicché l’avviso di accertamento può essere intestato direttamente al soggetto italiano che funge da stabile organizzazione occulta. In pratica, se una società estera opera in Italia tramite un’entità italiana formalmente distinta ma che in realtà funge da base occulta, l’accertamento può essere emesso nei confronti di quest’ultima, riqualificandola come stabile organizzazione dell’estera. Ciò semplifica l’azione del Fisco, che non deve necessariamente notificare atti oltreconfine ma può colpire il soggetto localizzato in Italia (ad es. una S.r.l. italiana controllata dall’estero, un ufficio locale, o un rappresentante fiscale nominato).

Evoluzione normativa: la “significativa presenza economica” digitale

L’ordinamento italiano ha ampliato la definizione domestica di stabile organizzazione per tenere conto delle nuove forme di business digitali, spesso prive di una presenza fisica tradizionale. In particolare, con la Legge n. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018) è stata introdotta in art. 162 TUIR la lettera f-bis, che include tra le ipotesi di S.O. “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato, costruita in modo tale da non far risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso”. Questa norma mira chiaramente ai colossi dell’economia digitale (si pensi alle grandi multinazionali del web) che realizzano fatturati rilevanti in Italia senza una presenza tangibile di uffici o personale. In tali casi, se la presenza economica in Italia è stabile e significativa, l’Amministrazione finanziaria può comunque contestare l’esistenza di una stabile organizzazione, pur in assenza di locali o strutture fisiche.

Tuttavia, è importante sottolineare che le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni prevalgono sulle norme interne difformi (anche in virtù dell’art. 75 del DPR 600/1973). Ciò significa che, se l’applicazione della lettera f-bis portasse a qualificare come S.O. una situazione che il trattato con il Paese dell’impresa estera non considererebbe tale, prevale la definizione del trattato. Ad esempio, molti trattati (ispirati all’art. 5 del Modello OCSE) non contemplano esplicitamente la stabile organizzazione digitale; pertanto, finché il trattato in questione non viene aggiornato secondo le linee BEPS, la contestazione basata solo sulla norma interna potrebbe non reggere in giudizio. In pratica, la “presenza economica digitale” è un concetto innovativo introdotto dal legislatore italiano, ma la sua efficacia dipende dall’evoluzione dei trattati o dalla rinuncia al trattato da parte dello Stato estero interessato. Resta comunque un segnale preciso: l’intento di contrastare le forme di attività economica in Italia che sfuggono all’imposizione perché prive di forma giuridica visibile, tipicamente modelli di business online.

Rilevanza ai fini IVA e delle imposte sui redditi

La configurazione di una stabile organizzazione in Italia ha implicazioni sia per le imposte dirette che per l’IVA.

  • Imposte sui redditi: Ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. e) del TUIR, i redditi d’impresa di soggetti non residenti sono imponibili in Italia se derivano da attività esercitate nel territorio mediante stabile organizzazione. In pratica, se un’impresa estera ha una S.O. (anche occulta) in Italia, gli utili ad essa attribuibili diventano imponibili qui. Questo comporta anche obblighi contabili: ad esempio l’art. 14, co.5, DPR 600/1973 prevede che le stabili organizzazioni di non residenti tengano le scritture contabili in Italia. Inoltre dal 2017 esiste una “branch tax” del 26% sugli utili della branch non rimessi alla casa madre, ma ciò si applica solo alle branch dichiarate e potrebbe non riguardare le S.O. occulte (questo tema è in evoluzione).
  • IVA: La presenza di una stabile organizzazione in Italia significa che il soggetto estero diviene un soggetto passivo stabilito nel territorio ai fini IVA, tenuto quindi ad aprire una partita IVA italiana e ad adempiere a tutti gli obblighi (fatturazione con IVA, liquidazioni periodiche, dichiarazioni annuali, ecc.). Ad esempio, se una società UE vende beni in Italia e formalmente non ha una sede qui, effettua cessioni intracomunitarie (non imponibili IVA in Italia, con applicazione del reverse charge da parte dell’acquirente italiano). Ma se si scopre che quella società aveva in realtà una stabile organizzazione occulta in Italia che interveniva nelle vendite, allora quelle cessioni vanno riqualificate come vendite interne effettuate dalla S.O. italiana: l’IVA doveva essere applicata e versata in Italia dal fornitore. Analogamente per i servizi: avere una struttura stabile in Italia può incidere sul luogo di tassazione ai fini IVA secondo le regole UE (si vedano le definizioni di S.O. ai fini IVA nel Reg. UE 282/2011).

Riassumendo, individuare una stabile organizzazione occulta implica che quella porzione di attività economica “emersa” venga trattata come un’entità fiscale italiana a tutti gli effetti, con obbligo di tassazione in Italia dei relativi redditi e di adempimenti IVA come se fosse un soggetto locale.

Di seguito una tabella riepilogativa delle caratteristiche principali della S.O. occulta:

Tabella 1: Stabile Organizzazione Occulta – Caratteristiche Principali

AspettoDescrizione
Definizione (art. 162 TUIR)Una sede fissa d’affari tramite cui un’impresa non residente svolge attività in Italia. Include anche forme “personali” (agenti dipendenti che concludono contratti in nome dell’impresa estera).
OccultaNon dichiarata al Fisco: operatività di fatto in Italia senza posizione fiscale aperta. L’impresa estera evita di palesare la presenza per sottrarsi all’imposizione (evasione).
TipologieMateriale (es. ufficio o stabilimento non dichiarato); Personale (agente o società locale che opera per l’estero oltre attività ausiliarie); Digitale (presenza economica significativa online senza base fisica).
Norme rilevantiArt. 162 TUIR (definizione di S.O. + lett. f-bis per presenza digitale); Convenzioni internazionali (art. 5 Modello OCSE); Art. 23 TUIR (tassazione redditi non residenti tramite S.O.); Art. 14 DPR 600/1973 (obblighi contabili S.O.); Norme IVA (art. 17 e 35-ter DPR 633/72 su identificazione dei non residenti).
Implicazioni fiscaliIRES/IRAP dovute in Italia sugli utili attribuibili alla S.O.; IVA dovuta sulle operazioni locali (cessioni di beni e servizi considerate interne, non più transfrontaliere). Obbligo di presentare dichiarazioni fiscali in Italia e tenere contabilità come un soggetto italiano.
Profilo evasioneTrattasi in sostanza di evasione totale (nessuna dichiarazione dei redditi né IVA presentata). Sanzioni per omessa dichiarazione dal 120% al 240% dell’imposta evasa (art. 5 D.Lgs. 471/97) e possibili profili penali (art. 5 D.Lgs. 74/2000) se superate le soglie di punibilità.

L’Accertamento induttivo: presupposti e caratteristiche

L’accertamento induttivo è lo strumento attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria determina il reddito imponibile (o il volume d’affari) in base a criteri indiretti, ossia mediante presunzioni e indizi, quando non può fare affidamento sui dati forniti dal contribuente (dichiarazioni, contabilità ufficiale). È un mezzo particolarmente invasivo, perché il Fisco ricostruisce artificialmente i ricavi e i redditi presumendo importi spesso in base a medie o parametri settoriali. Proprio per questo, la legge riserva l’accertamento induttivo a situazioni tassative: non può essere utilizzato liberamente, ma solo quando sussistono determinati presupposti (dichiarazioni mancanti o contabilità inattendibile).

Nell’ambito delle imposte sui redditi, la disciplina cardine è contenuta nell’art. 39, comma 2 del DPR 600/1973 (accertamento induttivo “puro”). Per l’IVA, l’analoga disposizione è l’art. 55 del DPR 633/1972. Inoltre, l’art. 41 DPR 600/1973 regola l’accertamento d’ufficio in caso di omessa dichiarazione, che è una forma estrema di accertamento induttivo in cui il Fisco gode di poteri ampliati di presunzione.

Quando scatta l’accertamento induttivo?

Le condizioni tipiche che legittimano l’Ufficio a ignorare i dati dichiarati/contabili e procedere con accertamento induttivo (totale o parziale) includono principalmente:

  • Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi e/o IVA per l’anno d’imposta (assenza totale di dichiarazione).
  • Contabilità inattendibile o gravemente irregolare: ad es. contabilità inesistente, libri e registri mancanti, oppure scritture talmente irregolari e incomplete da non consentire un controllo affidabile. Anche irregolarità diffuse e ripetute possono giustificare l’induttivo puro.
  • Omissioni sistematiche di documenti fiscali: ad es. mancata emissione di fatture/scontrini, doppie contabilità, sotto-fatturazioni ecc., tali da far ritenere che parte dei ricavi sia stata occultata.
  • Incongruenze o scostamenti gravi tra i dati dichiarati e quelli risultanti da controlli esterni: ad es. movimenti bancari non giustificati rispetto ai ricavi dichiarati, magazzino incoerente con le vendite, indici di bilancio o ISA fortemente anomali, ecc.
  • Presenza di indizi di ricavi non dichiarati: qualsiasi elemento esterno (es. verbali della Guardia di Finanza, liste clienti/fornitori, segnalazioni) che suggerisca l’esistenza di maggiori ricavi. Per usare tali indizi come prova, occorre in genere che siano gravi, precisi e concordanti (presunzioni qualificate, ex art. 2729 c.c.). Se però siamo nel caso di omessa dichiarazione, la giurisprudenza ammette che il Fisco possa basarsi anche su presunzioni semplici (cosiddette “supersemplici”) prive dei requisiti suddetti, dato che la mancanza di dichiarazione giustifica una maggiore libertà nel ricostruire il reddito pur di non lasciare impunita l’evasione.

In presenza di queste situazioni, l’Amministrazione finanziaria può disattendere in tutto o in parte le risultanze contabili del contribuente e stimare il reddito basandosi su elementi indiretti. In pratica, il Fisco “deduce” il reddito servendosi di tutti gli elementi a disposizione: potrebbe utilizzare parametri settoriali, indici e medie di settore (ISA o, in passato, studi di settore), movimenti bancari non giustificati, percentuali di ricarico medio sul costo del venduto, consumi di materie prime e energia, tenore di vita dei soci (redditometro) e così via.

È utile distinguere tra le varie tipologie di accertamento:

  • Accertamento analitico (art. 39 c.1 DPR 600/73): l’Ufficio rettifica singole poste della dichiarazione basandosi su dati certi o presunzioni semplici circoscritte. Esempio: riprendere a tassazione un costo ritenuto indeducibile, lasciando per il resto invariata la contabilità regolare del contribuente.
  • Accertamento analitico-induttivo (art. 39 c.1 lett. d) DPR 600/73): la contabilità è formalmente regolare ma presenta indizi di inattendibilità parziale. L’Ufficio allora usa i dati contabili attendibili e li integra con stime induttive per le parti poco attendibili, potendo usare anche presunzioni semplici. Esempio: se si trovano registri extracontabili di ricavi non dichiarati, si ricostruisce il reddito aggiuntivo sommando tali ricavi nascosti, assumendo comunque veritieri gli altri dati contabili.
  • Accertamento induttivo “puro” (art. 39 c.2 DPR 600/73): la contabilità è gravemente inattendibile o manca del tutto. Il reddito viene ricostruito ex novo, ignorando i libri e basandosi interamente su presunzioni qualificate (gravi, precise, concordanti). Esempio: libri e registri spariti – il Fisco ricostruisce il fatturato annuo partendo dai consumi di materie prime o dai versamenti bancari, applicando margini standard del settore.
  • Accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione (art. 41 DPR 600/73): caso particolare di induttivo puro. Se il contribuente non ha presentato affatto la dichiarazione, l’Ufficio può utilizzare qualsiasi indizio, anche isolato e privo di gravità/precisione, per determinare il reddito. L’onere della prova viene fortemente rovesciato a carico del contribuente, che dovrà dimostrare l’erroneità delle presunzioni dell’Ufficio. Questo potere straordinario è bilanciato solo dal limite generale del principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost., come vedremo.

Si propone una tabella riassuntiva:

Tabella 2: Tipologie di Accertamento e Presupposti

Tipo di accertamentoPresupposti del casoModalità di calcolo del redditoRiferimento normativo
Analitico (art. 39 c.1 DPR 600)Dichiarazione presentata; contabilità regolare (salvo alcune poste rettificabili).Si basa sui dati dichiarati, rettificando singole voci con prove certe o presunzioni semplici mirate.Art. 39 co.1 DPR 600/73
Analitico-induttivo (art. 39 c.1 lett. d)Contabilità formalmente regolare ma con indizi di inattendibilità parziale (poche incongruenze, es. documenti extra-contabili).Usa la contabilità attendibile per la maggior parte, stima induttivamente solo le componenti dubbie. Ammesse presunzioni semplici.Art. 39 co.1 lett. d) DPR 600/73
Induttivo puro (art. 39 c.2)Contabilità gravemente inattendibile o inesistente. Gravi omissioni (libri mancanti, irregolarità estese).Ignora del tutto (o in gran parte) i libri. Reddito ricostruito da zero con presunzioni qualificate (gravi, precise, concordanti).Art. 39 co.2 DPR 600/73 (redditi); Art. 55 DPR 633/72 (IVA)
D’ufficio – Omessa dichiarazioneNessuna dichiarazione presentata per l’anno. (Valido per redditi e per IVA).Ricostruzione integrale con presunzioni anche “supersemplici” (bassa soglia probatoria). L’Ufficio può usare qualsiasi indizio anche isolato, invertendo l’onere della prova.Art. 41 DPR 600/73 (redditi); Art. 55 DPR 633/72 (IVA, mancata dichiarazione annuale)

Nota: in ogni tipo di accertamento induttivo, il Fisco **deve comunque rispettare il principio che il reddito da tassare è quello netto, non potendo ignorare del tutto l’esistenza di costi deducibili correlati ai ricavi accertati. Questo principio, stabilito dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione, impone che anche negli accertamenti d’ufficio più “spinti” si tenga conto (anche solo forfetariamente) delle spese inerenti, come spiegato più oltre.

Accertamento induttivo d’ufficio e principio di capacità contributiva

Come accennato, l’accertamento d’ufficio in caso di omessa dichiarazione consente al Fisco l’uso di presunzioni anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. La logica è che la mancata dichiarazione (violazione gravissima) autorizza l’Ufficio a ricostruire il reddito con ogni mezzo ragionevole pur di accertare materia imponibile. Resta però un confine invalicabile: il principio costituzionale di capacità contributiva (art. 53 Cost.). La giurisprudenza – a partire da Corte Cost. n. 225/2005 – ha affermato che anche negli accertamenti interamente presuntivi non può essere tassato un reddito fittizio lordo che eccede quello effettivo. In termini concreti: se il Fisco accerta maggiori ricavi, deve ragionevolmente stimare anche i costi relativi, altrimenti tasserebbe un profitto inesistente. La Cassazione ha recepito questo principio in numerose sentenze, tra cui la fondamentale Cass. n. 1506/2017 e la successiva Cass. n. 2581/2021 (ordinanza) riguardante proprio una S.O. occulta: in tale vicenda, un’impresa estera aveva omesso la dichiarazione e l’Ufficio aveva equiparato l’intero fatturato al reddito imponibile senza dedurre alcuna spesa. La Suprema Corte ha cassato l’accertamento, ribadendo che anche in caso di omessa dichiarazione l’Amministrazione finanziaria “deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva”. Non valgono, infatti, le limitazioni dell’art. 109 TUIR (già art. 75), che riguarda il caso diverso in cui una dichiarazione – ancorché infedele – esista comunque. Questo orientamento è costante: in altre pronunce la Cassazione ha imposto al Fisco di ricostruire il reddito al netto delle spese, anche se ciò significa stimarle in via forfettaria o percentuale (es. margine medio di profitto). Anche la prassi dell’Agenzia delle Entrate è allineata: la Circolare 32/E/2006 raccomanda di riconoscere sempre “un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei ricavi accertati” negli accertamenti di evasori totali. In sintesi, l’ufficio non può pretendere imposte sul 100% dei ricavi scoperti, ma deve concedere una quota di costi deducibili, altrimenti l’accertamento è viziato.

Accertamento induttivo e stabile organizzazione occulta

Definiti i due concetti chiave (S.O. occulta e accertamento induttivo), vediamo come si combinano nella prassi. Cosa succede quando la Guardia di Finanza o l’Agenzia scoprono un’impresa estera operante in Italia senza dichiararlo? Come si sviluppa l’attività istruttoria e l’avviso di accertamento? Quali sono le criticità e le possibili difese fin da questa fase?

Scoperta della S.O. occulta e attività preparatoria

La contestazione di una stabile organizzazione occulta nasce di solito da un’attività di verifica fiscale sul territorio. Spesso è la Guardia di Finanza (Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria) che, attraverso controlli mirati – ispezioni presso sedi sospette, pedinamenti, accertamenti bancari, incrocio di dati – individua indizi di una presenza economica stabile non dichiarata. Già una Circolare del Comando GdF del 2008 segnalava che le forme di evasione più insidiose relative alle stabili organizzazioni sono quelle in cui un’impresa estera opera in Italia tramite una S.O. non formalmente costituita (occulta), oppure in cui un’impresa italiana ha branch estere occulte. I verificatori sono dunque addestrati a raccogliere tutti gli elementi probatori che dimostrino l’esistenza di un “centro di imputazione fiscale” dell’attività in Italia, in base ai criteri sostanziali dell’art. 162 TUIR e dell’art. 5 del Modello OCSE (durata, localizzazione, autonomia funzionale, ecc.).

Tra gli indizi tipici che possono far ipotizzare l’esistenza di una S.O. occulta, ricordiamo:

  • Presenza di personale o strutture in Italia riconducibili all’impresa estera: per esempio uffici operativi, showroom, magazzini, oppure personale (assunto localmente o distaccato dall’estero) che svolge funzioni chiave. Se tali elementi esistono, ma l’azienda non li ha dichiarati come proprie sedi secondarie, sono segnali forti di base occulta.
  • Contratti conclusi o negoziati in Italia: se risulta che la società estera stipula contratti con clienti italiani tramite rappresentanti o agenti sul suolo italiano – specialmente se questi agenti operano esclusivamente per la società estera o seguono sue istruzioni – ciò suggerisce che l’attività contrattuale avviene de facto in Italia.
  • Società italiane correlate utilizzate come “base”: spesso la S.O. occulta si annida in una società italiana formalmente distinta ma sostanzialmente controllata dall’estero. Ad esempio, la società italiana svolge servizi o funzioni solo per la casa madre estera, a un corrispettivo non di mercato (sottostimato). Se l’attività reale va oltre il mero supporto e la società italiana dipende economicamente dall’estera, si potrebbe sostenere che la società italiana è in realtà la stabile organizzazione occulta (come emerso in alcuni casi giurisprudenziali, es. Cass. 2581/2021 riguardo una società locale che vendeva immobili per conto di un’estera).
  • Volumi d’affari significativi in Italia: l’analisi dei flussi commerciali – dati doganali, flussi finanziari transfrontalieri, fatture – può far emergere che un soggetto estero realizza un giro d’affari importante con controparti italiane. Se ciò avviene senza alcuna stabile organizzazione dichiarata, il Fisco approfondirà: cercherà di capire come avvengono queste vendite. Se emergono figure di riferimento stabili sul territorio (promotori, commerciali, assistenza), il sospetto di S.O. occulta aumenta.
  • Natura ausiliaria vs attività principale: è cruciale stabilire se la presenza in Italia svolge mere attività preparatorie o ausiliarie – che non configurano una S.O. ai sensi di legge – oppure se partecipa al core business. Ad esempio, un ufficio italiano che si limita a pubblicità e ricerche di mercato per la casa madre può rientrare nelle esenzioni convenzionali (attività ausiliarie/preparatorie, spesso elencate nelle Convenzioni e nel comma 4 art. 162 TUIR). Viceversa, se quell’ufficio prende decisioni commerciali sostanziali (negozia prezzi, conclude ordini, coordina vendite), sta svolgendo attività essenziale e non più ausiliaria. I verificatori dunque indagano la natura effettiva delle attività svolte in Italia: se appare “di supporto” (e opportunamente contrattualizzata come tale) o se di fatto genera e gestisce affari.

Quando la GdF o l’Agenzia ritengono di aver raccolto sufficienti indizi e prove (documentazione, email aziendali, testimonianze, ecc.), redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC) in cui contestano formalmente la presenza della stabile organizzazione occulta, descrivendo i fatti accertati e il ragionamento giuridico. Ad esempio, nel caso (ipotetico) di una multinazionale USA con una branch in Italia formalmente dedicata solo al marketing: la verifica potrebbe aver rilevato che la sede italiana, pur dichiarando funzioni ausiliarie, di fatto negoziava elementi essenziali dei contratti con i clienti (es. sconti, volumi di vendita) e supportava direttamente le vendite, indicando un ruolo ben oltre la semplice pubblicità. Tali elementi porterebbero i verificatori a concludere che la branch non era un mero ufficio di supporto, bensì operava come stabile organizzazione in Italia della casa madre, richiedendo quindi la tassazione in Italia dei ricavi realizzati sul nostro territorio.

(Esempio pratico): Una società statunitense, “XYZ Corp”, vende software online a clienti italiani senza avere sedi in Italia. Ufficialmente, tutte le vendite avvengono via sito web dalla casa madre USA. Tuttavia, l’Agenzia scopre l’esistenza di XYZ Srl, società italiana controllata al 100% da XYZ Corp, con personale tecnico-commerciale che fornisce assistenza clienti locale e promuove le vendite. Le licenze software vengono formalmente sottoscritte online con XYZ Corp, ma dalle email aziendali emerge che i dipendenti di XYZ Srl negoziavano prezzi e condizioni personalizzate con i clienti italiani più importanti. Inoltre, XYZ Corp fatturava direttamente ai clienti italiani senza applicare IVA, trattando le cessioni come fuori campo (servizi resi da USA). L’Agenzia delle Entrate contesta che XYZ Srl costituisce una stabile organizzazione occulta di XYZ Corp in Italia: la struttura locale non svolgeva mera pubblicità, ma funzioni essenziali di vendita con poteri decisionali (es. accordi sui prezzi). Conseguentemente, l’Ufficio riattribuisce a XYZ Srl una parte significativa dei ricavi globali realizzati da XYZ Corp sul mercato italiano (es. il 30% del fatturato UE), e su tali ricavi stima un margine di utile da attribuire alla S.O. (es. 20%, tenendo conto che lo sviluppo software avveniva negli USA, mentre la struttura italiana curava vendita e assistenza). In base a questo calcolo, l’accertamento contesterà, poniamo, 5 milioni di euro di utili non dichiarati in Italia su più anni, con relative imposte IRES evase e sanzioni. Inoltre verrà contestata l’IVA non versata sulle vendite di licenze ai clienti italiani (che finora avevano autoliquidato l’IVA con reverse charge, dato che formalmente compravano da un soggetto USA). XYZ Srl – in solido con la casa madre estera – riceve avvisi di accertamento per recupero di IRES, IRAP e IVA. Questo esempio rispecchia dinamiche reali (soprattutto nel settore digitale) e mostra come l’accertamento induttivo venga impiegato per quantificare la materia imponibile in mancanza di contabilità separate per la S.O. (qui la S.O. occulta “eredita” una quota di ricavi prima non tassati in Italia).

Emissione dell’Avviso di Accertamento

Terminata la fase istruttoria (controlli e PVC), l’Agenzia delle Entrate – spesso tramite strutture specializzate come il Centro Operativo per i controlli sui non residenti – provvede a emettere l’Avviso di Accertamento vero e proprio. L’atto è in genere indirizzato al soggetto ritenuto responsabile fiscale in Italia: può essere direttamente la società estera, se identificabile (ad es. se le è stato attribuito d’ufficio un codice fiscale italiano), oppure più comunemente una società/persona italiana ritenuta la base occulta (come visto, la Cassazione consente di colpire la entità locale riqualificandola come S.O. dell’estera).

L’avviso di accertamento conterrà tipicamente due profili di motivazione:

  1. Contestazione dell’esistenza della stabile organizzazione occulta – ossia la parte in diritto in cui si spiega perché l’attività svolta in Italia integra gli estremi di una S.O. ai sensi delle norme applicabili (art. 162 TUIR, art. 5 Convenzione col paese estero). L’Ufficio elenca gli elementi di fatto emersi (es. contratti conclusi da agenti locali, disponibilità di uffici o personale in Italia, mancanza di autonomia giuridica dell’entità locale, ecc.) e richiama i principi giuridici rilevanti. Spesso vengono citati precedenti giurisprudenziali a supporto. Ad esempio, se c’è un agente italiano che operava solo per la casa madre estera, l’Ufficio citerà la regola che un agente indipendente non genera S.O., ma un agente dipendente sì. Oppure, in caso di branch con funzioni ausiliarie superate, potrà citare sentenze come Cass. 7202/2024 che sottolineano l’analisi sostanziale della presenza. Importante: l’onere iniziale della prova spetta al Fisco – l’avviso deve contenere elementi concreti. Nel caso 7202/2024 (branch italiana di multinazionale USA), ad esempio, la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia proprio perché nei gradi di merito non era stata provata una sede fissa d’affari né che l’attività locale avesse superato il ruolo ausiliario. Ciò evidenzia che senza prove solide di stabilità e autonomia della presenza in Italia, la contestazione può cadere.
  2. Determinazione induttiva del reddito imputabile alla S.O. occulta – una volta affermato che la stabile organizzazione esisteva, l’atto quantifica i redditi sottratti a tassazione in Italia e le relative imposte evase (oltre all’IVA, se del caso). Qui entra in gioco l’accertamento induttivo vero e proprio: poiché la S.O. occulta non ha presentato dichiarazioni né tenuto una contabilità separata, il Fisco deve ricostruire il giro d’affari e l’utile attribuibile con metodi indiretti. Tipicamente l’Ufficio partirà dai ricavi realizzati in Italia dalla casa madre estera: ad esempio, vendite a clienti italiani che erano fatturate dall’estero. Quei ricavi, alla luce della riqualificazione, vengono attribuiti alla stabile organizzazione in Italia e quindi considerati imponibili qui. Spesso tali dati sui ricavi sono reperiti tramite controlli incrociati (elenchi clienti forniti dalla GdF, fatture estere indirizzate a clienti italiani, segnalazioni IVA relative a identificazioni dirette o rappresentanti fiscali, ecc.). Una volta determinato l’ammontare di affari riferibile alla S.O., l’ufficio applicherà un certo utile netto di riferimento per calcolare l’IRES (e l’IRAP) evase. Nei casi peggiori, l’Ufficio considera l’intero importo ricavi come reddito (ipotesi estrema, ma come detto illegittima se non si deducono costi). In altri casi, può stimare i costi e quindi applicare un margine standard. Ad esempio, può individuare alcune spese sostenute in Italia dall’entità locale (es. costi per il personale, per uffici, per logistica) e da lì stimare i ricavi con un mark-up. Oppure può partire dai bilanci consolidati dell’impresa e allocare una quota di utili all’Italia proporzionalmente al fatturato locale.

È fondamentale che, anche in questa fase, l’ufficio rispetti i principi di corretta determinazione del reddito. Un errore comune – spesso censurato dai giudici – è quando il Fisco presume che tutto il fatturato realizzato in Italia corrisponda a reddito imponibile, senza considerare alcun costo. Un tale approccio “ricavi = utile” è stato dichiarato illegittimo, come spiegato sopra. La Corte Costituzionale (sent. n. 225/2005) e la Cassazione (es. Cass. 2581/2021) hanno chiarito che anche in caso di accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione, l’Amministrazione deve imputare anche i costi correlati ai ricavi, seppure in via presuntiva. Ad esempio, nella citata Cass. 2581/2021, riguardante una società egiziana con S.O. occulta in Italia, la Corte ha annullato l’accertamento perché i giudici di merito avevano avallato la tassazione dell’intero ammontare delle vendite di immobili senza dedurre alcuna spesa: ciò violava il principio di tassare il profitto netto e non il lordo. La Cassazione ha quindi stabilito il principio che anche in sede di stabile organizzazione occulta, l’Ufficio deve riconoscere (o quantomeno stimare) i costi inerenti ai ricavi accertati, pena la nullità parziale dell’accertamento. Nella stessa ordinanza, la Corte ha richiamato espressamente l’art. 7 §3 del Modello OCSE e la corrispondente clausola dei trattati (nel caso, Convenzione Italia-Egitto) che prevede la deducibilità delle spese nello stabilire l’utile di una stabile organizzazione.

Pertanto, un avviso di accertamento per S.O. occulta ben fatto dovrebbe:

  • Attribuire alla stabile organizzazione i ricavi realizzati in/per l’Italia (o la quota parte di essi imputabile all’attività locale).
  • Dedurre (o stimare) i costi relativi a tali ricavi, determinando così un utile netto imponibile. Se non vi sono evidenze precise di costi, l’Ufficio dovrebbe comunque calcolarli in via presuntiva, ad esempio applicando un margine di profitto medio del settore. (Es: presume che su 100 di ricavi, la S.O. avesse 90 di costi e 10 di utile; dunque tassazione su 10).
  • Calcolare le imposte dovute su tale base netta: IRES (attualmente 24%) e IRAP se applicabile (3.9% su valore della produzione netta locale). Inoltre determinare l’IVA evasa (per le operazioni vendite/servizi che da non imponibili diventano imponibili in Italia).
  • Irrogare le sanzioni amministrative tributarie per le violazioni riscontrate: tipicamente, omessa dichiarazione dei redditi (sanzione dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, minimo 250€) e omessa dichiarazione IVA (stessa forbice); se invece qualche dichiarazione era presentata ma incompleta (caso di dichiarazione infedele), la sanzione è dal 90% al 180% dell’imposta non dichiarata. Il tutto con eventuale cumulo (es. due sanzioni se omessa sia IVA che redditi).
  • Segnalare la violazione per i profili penali, ove superate le soglie: in caso di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000), scatta il reato se l’imposta evasa > 50.000 € per singola imposta. La pena prevista è la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 4 anni. Nel contesto di S.O. occulta inbound, questo reato è configurabile perché il soggetto tenuto a dichiarare (la S.O. stessa, o il rappresentante in Italia) non lo ha fatto. Analogamente, se parliamo di S.O. occulta outbound (società italiana con utili esteri non dichiarati), potrebbe configurarsi reato di dichiarazione infedele od omessa a seconda delle circostanze (soglie: >100k imposta evasa per infedele, >50k per omessa, con altre condizioni). L’avviso di accertamento generalmente non contiene esso stesso l’addebito penale, ma l’Ufficio, contestualmente o successivamente, inoltra una notizia di reato alla Procura della Repubblica.

Profili IVA e altri tributi

Un capitolo a parte merita l’IVA. Come visto, l’accertamento per S.O. occulta riguarderà anche l’IVA sulle operazioni effettuate in Italia. Riprendendo l’esempio sopra: se beni o servizi erano forniti da un’impresa estera a clienti italiani dichiarandoli come operazioni estere (cessioni intra-UE o servizi fuori campo IVA), la scoperta della stabile organizzazione occulta trasforma quelle operazioni in vendite interne, soggette a IVA italiana. L’accertamento quindi richiede l’IVA non versata, con sanzione generalmente del 90% dell’imposta (violazione di omesso versamento/dichiarazione IVA). Un possibile punto di discussione: se l’acquirente italiano aveva comunque autoliquidato l’IVA (ad esempio via reverse charge per acquisto intra-UE), c’è chi sostiene che non vi sia un danno erariale (l’IVA è stata assolta, seppur dal lato sbagliato). In assenza di frode, parte della giurisprudenza ritiene che non debba esserci doppia imposizione: l’IVA già assolta dall’acquirente potrebbe essere portata in detrazione o comunque evitata nella ripresa (principio di neutralità IVA). Tuttavia, l’Agenzia spesso contesta comunque formalmente l’IVA a carico del fornitore estero non identificato, lasciando al contribuente l’onere di far valere la neutralità. In ogni caso, anche qualora non vi sia IVA da versare (perché già assolta in reverse charge), la violazione di mancata identificazione IVA rimane e può comportare sanzioni amministrative.

Altri tributi: se l’attività occulta rileva per altre imposte, l’accertamento può estendersi. Ad esempio, se i redditi non dichiarati erano canoni o interessi soggetti a ritenuta alla fonte in Italia, il Fisco potrebbe chiedere le ritenute non operate. Oppure, se l’attività occulta riguarda merci soggette ad accisa o dazio (poco comune), potrebbero scattare accertamenti anche in quelle materie. Ma il fulcro, di solito, è su imposte sui redditi e IVA.

Conseguenze per il contribuente (debitore)

Dal punto di vista del debitore d’imposta – cioè del contribuente a cui viene contestata la stabile organizzazione occulta – le conseguenze dell’avviso di accertamento possono essere molto gravose. Conoscere in anticipo ciò a cui si va incontro aiuta a pianificare la strategia di reazione. Ecco le principali voci:

Imposte dovute e base imponibile

Come visto, l’accertamento richiederà il pagamento di:

  • Imposte sui redditi evase: tipicamente IRES (24% aliquota) se il soggetto estero era una società, oppure IRPEF se parliamo di persona fisica (meno frequente). Se la S.O. occulta svolgeva attività d’impresa, c’è anche l’IRAP (aliquota base 3,9%) dovuta sul valore aggiunto prodotto in Italia. L’avviso dettaglierà, per ciascun anno accertato, la nuova base imponibile calcolata per la S.O. e l’imposta corrispondente. Il contribuente, se contesta i calcoli, dovrà poi far valere le sue ragioni sul quantum (ad esempio, sostenendo che l’ufficio ha esagerato i ricavi o non ha dedotto abbastanza costi). Ma intanto, nell’immediato, l’accertamento esigerà quelle somme.
  • IVA non versata: sulle operazioni riqualificate come interne. L’importo può essere cospicuo se si tratta di vendite di beni con aliquota 22% o servizi. Da notare: se i clienti italiani hanno comunque versato l’IVA con reverse charge, non c’è un’imposta effettivamente sottratta; tuttavia l’Agenzia spesso la contesta ugualmente per formalizzare la violazione. Sarà poi eventualmente in sede contenziosa che si chiarirà la questione (spesso i giudici possono ridurre la pretesa IVA per evitare doppia imposizione). Inizialmente però l’avviso somma tutta l’IVA “teoricamente” evasa.
  • Altre imposte indirette (eventuali): come detto, potrebbero esserci richieste relative a ritenute non operate (se la S.O. occulta percepiva redditi soggetti a ritenuta, come interessi attivi su conti italiani, o se la casa madre avrebbe dovuto operare ritenute su pagamenti verso l’estero). Un caso particolare: la “branch tax” italiana introdotta nel 2017 prevede un 26% sugli utili di branch di società estere non distribuiti alla casa madre, per allineare la tassazione a quella dei dividendi. Tuttavia, se la branch è occulta e non dichiarata, l’applicazione della branch tax è dubbia (perché quella norma presuppone dichiarazione della branch). Difficilmente in un avviso verrà applicata al volo, più probabile che rimanga solo l’IRES ordinaria.
  • Sanzioni amministrative tributarie: qui si tocca un tasto dolente. Le sanzioni per omessa dichiarazione sono altissime: dal 120% al 240% dell’imposta evasa. Se, ad esempio, una S.O. occulta non ha dichiarato €100.000 di IRES, la sanzione minima è €120.000 e la massima €240.000, in aggiunta all’imposta e agli interessi! E questo per ciascun anno. Se la violazione è configurata come dichiarazione infedele (in caso di branch occulta outbound dove comunque la società italiana presentava la propria dichiarazione ma incompleta), la sanzione va dal 90% al 180% dell’imposta non dichiarata. Se nel caso concreto sono coinvolte più imposte (es. redditi e IVA), le sanzioni si cumulano per ciascuna. Esistono però possibili cause di esonero o attenuanti: ad esempio, l’obiettiva incertezza normativa (art. 6 co.2 D.Lgs. 472/97) può essere invocata se la materia era realmente incerta e l’errore del contribuente scusabile. Non è facile in questo campo, ma non impossibile (in passato, la novità del concetto digitale o di certe strutture borderline ha dato adito a discussioni). In sede di ricorso, si potrà chiedere al giudice tributario di annullare o ridurre le sanzioni, soprattutto se si dimostra la buona fede o l’assenza di volontà evasiva chiara.
  • Interessi di mora: sulle imposte non versate, calcolati dal momento in cui sarebbero state dovute (di solito la data del saldo per l’anno fiscale in questione) fino alla data di pagamento effettivo. Gli interessi legali/moratori, pur non essendo punitivi come le sanzioni, aggiungono un carico ulteriore, specie se passano molti anni.

Sanzioni penali

Se l’ammontare delle imposte evase supera le soglie di rilevanza penale previste dal D.Lgs. 74/2000, il caso esce dall’ambito puramente amministrativo e diventa anche un problema penale per i responsabili. I possibili reati tributari configurabili sono:

  • Omessa dichiarazione dei redditi o IVA (art. 5 D.Lgs. 74/2000) – Scatta se per ciascun tributo l’imposta evasa supera €50.000. Nel contesto di S.O. occulta inbound, la situazione tipica è che la casa madre estera, tenuta a presentare dichiarazione in Italia per la S.O., non l’ha fatto: dunque reato di omessa dichiarazione (posto che la soglia sia superata, cosa probabile se parliamo di business continuativo). La pena è la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 4 anni. Per ogni anno omesso c’è un reato distinto (ma spesso poi unificati come continuazione).
  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) – Riguarda il caso in cui un soggetto presenta una dichiarazione dei redditi infedele, superando determinate soglie: imposta evasa > €100.000 e omesso >10% del reddito dichiarato o comunque > €2 milioni di imponibile. Questo potrebbe aversi nel caso di S.O. occulta outbound: la società italiana presentava la dichiarazione ma non vi includeva i redditi della branch estera. Se il tax gap supera quelle soglie, è reato di dichiarazione infedele. Pena da 2 anni a 4 anni e 6 mesi.
  • Altri reati fiscali eventuali: ad esempio, dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) se la struttura era accompagnata da false fatture o altri mezzi fraudolenti; oppure reati di emissione di fatture false, ecc., qualora per mascherare la S.O. occulta siano state attuate operazioni simulate. Nella maggioranza dei casi di S.O. occulta, comunque, il reato pertinente è l’omessa dichiarazione, essendo una evasione “silenziosa” senza dichiarazioni presentate.

È importante chiarire che l’avviso di accertamento in sé non è un atto penale. Tuttavia, esso costituisce la base fattuale per la denuncia: l’Agenzia delle Entrate, una volta emesso l’avviso e rilevato il superamento delle soglie, trasmette una notizia di reato alla Procura competente. Sarà poi la Guardia di Finanza su delega del PM a svolgere indagini penali. Dunque il contribuente, dopo l’avviso, potrebbe vedersi recapitare inviti a comparire o addirittura una perquisizione/sequestro in sede penale se il caso è grave. È essenziale quindi coordinare la difesa tributaria con quella penale. Ad esempio, se si pensa di definire in via amministrativa la questione pagando il dovuto (magari tramite accertamento con adesione o conciliazione), ciò potrebbe mitigare l’atteggiamento del PM ma non estingue il reato di omessa dichiarazione (che non prevede cause estintive per pagamento). Diverso sarebbe se il reato fosse dichiarazione infedele: in quel caso il ravvedimento operoso integrale prima dell’apertura delle indagini può estinguere il reato, ma dopo è tardi. In sintesi, la difesa penale andrà valutata caso per caso con avvocati penalisti tributari, parallelamente al contenzioso tributario.

Effetti civilistici e patrimoniali

Dal punto di vista patrimoniale, l’accertamento comporta che le somme accertate (imposte, sanzioni, interessi) vengano iscritte a ruolo o rese comunque esecutive per la riscossione. Le attuali norme prevedono l’accertamento immediatamente esecutivo trascorsi 60 giorni dalla notifica (se non è stato impugnato o se non è stata ottenuta una sospensiva): ciò significa che l’avviso stesso vale come titolo esecutivo per il concessionario della riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia). Dunque, se il contribuente non paga entro i termini, si passa alla riscossione coattiva: cartella (se prevista), oppure direttamente misure cautelari e atti esecutivi come fermi amministrativi su auto, ipoteche su immobili, pignoramenti di conti correnti o altri beni.

Nel caso di una S.O. occulta, queste misure possono colpire sia la società estera sia la sua base in Italia (se identificata). In pratica, se l’avviso è intestato alla società estera, ma questa non ha beni in Italia, il recupero può essere problematico (servirebbero procedure di cooperazione internazionale, accordi di mutua assistenza nel recupero crediti fiscali – esistono in ambito UE, ad esempio, ma non sempre efficaci fuori UE). Non a caso, spesso il Fisco preferisce indirizzare l’atto a un soggetto italiano (più aggredibile). Se l’avviso è intestato a una società italiana considerata S.O., allora quel soggetto risponde in solido del debito e i suoi beni possono essere aggrediti. Anche eventuali responsabili d’imposta in Italia (es. un rappresentante fiscale nominato per l’IVA) potrebbero trovarsi coinvolti. In caso di società di persone o ditte individuali, i soci o il titolare rispondono con il proprio patrimonio personale.

Il contribuente ha comunque strumenti per arginare la riscossione in pendenza di giudizio. In particolare, può presentare istanza di sospensione all’Autorità giudiziaria tributaria (Corte di Giustizia Tributaria di primo/secondo grado) per ottenere la sospensione dell’esecutività dell’atto fino alla decisione di merito. Per ottenere la sospensione bisogna dimostrare fumus boni iuris (cioè che il ricorso ha fondamento, non è pretestuoso) e periculum in mora (che l’esecuzione immediata dell’atto creerebbe un danno grave difficilmente riparabile, ad esempio mettere in crisi l’azienda). Se concessa, la sospensiva blocca l’attività di riscossione fino alla sentenza di primo grado.

Inoltre, esistono strumenti deflativi che il contribuente può valutare prima di arrivare alla coercizione: l’accertamento con adesione, ad esempio, sospende i termini e apre una negoziazione con l’Ufficio, che se va a buon fine evita il contenzioso (si paga il concordato con sanzioni ridotte a 1/3). Oppure, se vi sono in corso definizioni agevolate (come le “rottamazioni” delle cartelle o le definizioni liti pendenti previste in alcune leggi di bilancio, come avvenuto nel 2023), potrebbe essere possibile rientrare in qualche sanatoria per il contenzioso o la riscossione. E infine la rateizzazione: per importi elevati, una volta che il debito diventa definitivo (o anche prima, su somme non sospese), il contribuente può chiedere di dilazionare il pagamento in più rate (fino a 72 rate mensili, o 120 in casi di grave difficoltà). Attenzione però: se si vuole contestare nel merito, spesso conviene chiedere prima la sospensione giudiziale e non pagare, perché pagare (seppur a rate) potrebbe essere interpretato come acquiescenza.

Riassumendo, dal punto di vista del contribuente che riceve un accertamento S.O. occulta, i rischi immediati sono: un potenziale esborso molto consistente (imposte + sanzioni + interessi su più anni), azioni sul patrimonio (congelamento beni, conti) se non paga, e a tendere un procedimento penale. Non c’è da stupirsi quindi che la difesa debba essere particolarmente accorta e aggressiva nel far valere le proprie ragioni.

Strategie difensive e come contestare l’accertamento

Veniamo ora al cuore dal punto di vista del contribuente: come difendersi da un avviso di accertamento per stabile organizzazione occulta? La difesa si sviluppa su due fronti principali (spesso portati avanti in parallelo):

  • Profilo “qualitativo”: contestare la qualificazione di stabile organizzazione – in altre parole, negare che i presupposti per definire la presenza in Italia come S.O. fossero soddisfatti. Se questa linea di difesa riesce, l’intero castello cade (niente S.O., niente imponibile in Italia).
  • Profilo “quantitativo”: in subordine o in parallelo, contestare la quantificazione induttiva del reddito e dell’IVA – anche ammettendo (solo ipoteticamente) che una S.O. ci fosse, l’Ufficio ha sovrastimato il reddito, non ha riconosciuto costi, ha incluso operazioni non dovute, ecc. Questa difesa mira almeno a ridurre sensibilmente l’importo da pagare.

Vediamo separatamente i due profili, tenendo conto che nella pratica legale entrambi vanno quasi sempre articolati (il ricorso conterrà motivi sul merito giuridico e motivi sul merito quantitativo).

Contestare l’esistenza della stabile organizzazione (profilo qualitativo)

Questo è il primo e più importante fronte difensivo. Se il contribuente riesce a dimostrare che non c’era in Italia una stabile organizzazione, l’accertamento non ha base giuridica: l’impresa estera non aveva obblighi fiscali in Italia, quindi tutto cade (salvo, eventualmente, riformulare qualche violazione minore, ma il grosso verrebbe annullato). Gli argomenti tipici per negare la S.O. occulta sono:

  • Mancanza di una “sede fissa di affari”: si può sostenere che l’impresa estera non disponeva in Italia di alcun luogo di business in senso proprio. Ad esempio, se gli agenti operavano da un ufficio proprio (non messo a disposizione dall’impresa estera) o magari da casa, senza una sede definita, manca il requisito essenziale di localizzazione stabile. La giurisprudenza richiede un certo grado di stabilità e disponibilità non occasionale di locali. Nel caso Cass. 7202/2024, ad esempio, la difesa ha evidenziato con successo che la presenza in Italia era incardinata in una branch ufficiale ma questa non disponeva di autonomia operativa né di strutture proprie oltre quanto dichiarato come ausiliario. Se l’Ufficio non può dimostrare l’esistenza di un luogo d’affari fisico riconducibile all’estero (uffici, magazzini, ecc.), la S.O. materiale viene meno.
  • Natura preparatoria o ausiliaria delle attività svolte: le norme convenzionali e, prima del 2018, anche l’art. 162 comma 5 TUIR (ora abrogato ma concetto rimasto) prevedono che certe attività di supporto non configurano stabile organizzazione. Se il contribuente riesce a inquadrare tutto ciò che faceva in Italia come attività ausiliarie (pubblicità, raccolta informazioni, ricerca di mercato, assistenza preliminare), allora anche l’eventuale sede fissa non dà luogo a S.O. In concreto, occorre enfatizzare elementi quali: mancanza di potere decisionale locale, tutte le decisioni importanti prese dalla sede centrale, attività locali limitate a funzioni di supporto. Possono essere utili organigrammi, job description del personale locale, contratti che limitano le mansioni. Anche pronunce della Corte di Giustizia UE aiutano: ad esempio, il caso Berlin Chemie (CGUE C-333/20 del 2022, in ambito IVA) ha affermato che una consociata che fornisce servizi esclusivi di marketing e pubblicità per la casa madre estera non crea automaticamente una S.O. se manca una struttura propria dell’estera. Ciò rafforza il concetto che attività ausiliarie delegate a terzi non bastano.
  • Agente indipendente vs dipendente: se la contestazione di S.O. si basa su un agente (persona fisica o società) in Italia, la chiave è dimostrare che tale agente era indipendente. Cioè che operava nell’ambito della sua attività ordinaria per più preponenti e con propri rischi. Ad esempio, se l’agente italiano vendeva anche prodotti di altre società oltre a quelli della casa madre, se non aveva poteri di firmare contratti a nome della casa madre, se fatturava provvigioni a condizioni di mercato – tutti elementi che indicano indipendenza. La Cass. 992/2024 ha ribadito esattamente questo principio: il solo fatto di avere un intermediario in Italia non implica una S.O. se l’intermediario è indipendente. Pertanto, andranno prodotti i contratti di agenzia/commissione, eventuali comunicazioni che mostrano autonomia decisionale dell’agente, ecc. Se convinceremo la Corte che l’agente era un operatore autonomo (un Commissionario nel nostro ordinamento, che agisce in nome proprio e per conto altrui, è considerato indipendente per definizione se ha un margine normale), la S.O. decade.
  • Assenza di continuità temporale: un altro punto è la durata. Le convenzioni spesso prevedono che un cantiere o progetto breve (meno di 12 mesi) non costituisce S.O. (clausola dei cantieri). Anche se non cantieri, la prassi considera che una presenza proprio episodica non configuri “stabile” organizzazione. Quindi, se possibile, si può sostenere che l’attività in Italia è stata saltuaria o di breve durata: ad esempio un progetto pilota di pochi mesi, una fiera di qualche settimana, etc. Se la presenza non è stata fissa e continua, manca il requisito di stabilità. Questo è un argomento forte se i fatti lo consentono (spesso però le contestazioni riguardano attività protratte su più anni).
  • La società italiana operava per conto proprio: quando la S.O. occulta è individuata in una società italiana controllata dall’estero, una linea difensiva è rivendicare la soggettività autonoma di quella società. In pratica dire: “La Srl italiana non era una stabile organizzazione della spa estera, ma un soggetto indipendente che faceva affari in proprio”. Si può sottolineare, ad esempio, che la società italiana aveva anche clienti/fornitori terzi non legati all’estero, oppure che la remunerazione dei suoi servizi infragruppo era a valore di mercato (transfer pricing corretto) e quindi i suoi utili erano già dichiarati qui e non c’era profitto “occulto”. Più la società italiana appare come un normale subfornitore o distributore indipendente, meno regge la tesi che fosse un mero braccio operativo della casa madre. Naturalmente, se in realtà la società italiana era in perdita sistemica perché retrocedeva tutti i profitti all’estero con fatture sottoprezzo, la difesa è meno credibile.
  • Applicazione della Convenzione contro le doppie imposizioni: mai dimenticare di verificare il trattato fiscale bilaterale tra Italia e Paese della società estera. Quasi tutti i trattati riprendono la definizione OCSE di stabile organizzazione e contengono clausole di esclusione per attività ausiliarie e agenti indipendenti. Tali disposizioni prevalgono sul TUIR. Dunque, ad esempio, se la Convenzione Italia-USA dice che non c’è S.O. per attività preparatorie o per agente indipendente, e il caso ricade in quelle categorie, è un argomento principe. Nel caso Cass. 7202/2024 infatti la CTR (poi confermata dalla Cassazione) aveva escluso la S.O. proprio interpretando i fatti alla luce della Convenzione Italia-USA, rilevando che l’attività locale rientrava nelle eccezioni convenzionali (ausiliarie). Anche l’uso del Commentario OCSE (pur non vincolante, ma spesso richiamato dai giudici) può aiutare ad orientare l’interpretazione. Insomma, il difensore deve padroneggiare sia la normativa interna che quella convenzionale e internazionale.

In sintesi, la difesa qualitativa punta a negare uno o più elementi costitutivi della stabile organizzazione: l’esistenza di una sede fissa, la durata sufficiente, l’autonomia operativa, la non ausiliarità dell’attività, la dipendenza dell’agente, il potere di concludere contratti, ecc. Basta che uno di questi elementi fondamentali manchi, e la definizione di S.O. non è integrata. Formalmente l’onere della prova è dell’Amministrazione (deve provare che la S.O. c’era), ma il contribuente deve fornire controprove convincenti per vincere. In tribunale tributario vale un principio di “libero convincimento”: il giudice valuterà se le prove indiziarie del Fisco sono state confutate da quelle del contribuente. In caso di dubbio serio, dovrebbe prevalere il contribuente (in dubio pro contribuente è principio riconosciuto, specie su elementi che fondano l’obbligo tributario). Però è rischioso puntare solo a “smontare” le prove altrui; meglio produrre attivamente prove a discarico: contratti, documenti societari, perizie, testimonianze (in forma di dichiarazioni sostitutive, visto che la testimonianza orale è vietata nel processo tributario, ma documentale sì), diagrammi di flusso delle decisioni, etc., tutto ciò che dipinge la realtà come non configurante una S.O. occulta.

Contestare la quantificazione induttiva (profilo quantitativo)

Se – malgrado gli sforzi – risulta difficile smontare totalmente la tesi della S.O. (oppure per prudenza si vuole avere un “piano B” in giudizio), allora bisogna concentrarsi sul quantum dell’accertamento. Spesso anche quando i giudici riconoscono la presenza di una S.O., finiscono per ridurre sensibilmente l’importo accertato se vedono che il Fisco ha esagerato con le presunzioni. Ecco gli argomenti difensivi principali sul piano quantitativo:

  • Mancato riconoscimento dei costi deducibili: questo è il punto più importante e frequente. Se l’accertamento ha ignorato in tutto o in parte i costi relativi ai ricavi attribuiti alla S.O., va eccepita la violazione dell’art. 53 Cost. e dei principi sanciti da Cassazione e Corte Cost. (come visto sopra). In ricorso si citeranno sentenze come Cass. 2581/2021, Cass. 1506/2017 e Corte Cost. 225/2005, sottolineando che tassare i ricavi lordi è illegittimo. Dal punto di vista probatorio, il contribuente dovrebbe quantificare i costi che secondo lui l’Ufficio avrebbe dovuto detrarre. Se dispone di documentazione, ad esempio spese effettivamente sostenute in Italia (magari risultanti dalle scritture della società locale, o da fatture di fornitori italiani per conto dell’estera), le deve produrre. Se non ha documenti (spesso la S.O. occulta non tiene conti separati), può ricorrere a una perizia giurata di un esperto contabile che stimi un ragionevole conto economico della S.O.: ad esempio, sulla base dei margini di profitto usuali nel settore, si calcola quale utile netto sarebbe coerente con i ricavi accertati. Questo può convincere il giudice a ridurre l’imponibile. Per esempio, se il Fisco ha tassato €1.000.000 di ricavi come fosse tutto utile, una perizia potrebbe evidenziare che nel settore l’utile netto è, poniamo, il 10% dei ricavi, quindi €100.000. La differenza è enorme e spesso i giudici, davanti a dati tecnici, ridimensionano l’accertamento.
  • Errori nella stima dei ricavi: il contribuente dovrebbe anche scrutinare come l’Ufficio ha calcolato i ricavi attribuiti all’Italia. Potrebbero esserci errori fattuali, come includere vendite che non erano legate all’Italia. Ad esempio, l’Ufficio potrebbe aver preso tutte le fatture della casa madre verso clienti con indirizzo italiano – ma magari alcune consegne erano effettivamente fatte all’estero o a società collegate fuori Italia. Oppure potrebbe aver duplicato dati. Se si trovano incongruenze nei numeri, vanno evidenziate per abbattere la base.
  • Anni accertati e termini decadenziali: importantissimo verificare se per tutti gli anni contestati l’accertamento è stato notificato entro i termini di legge. In caso di omessa dichiarazione, il Fisco ha tempo fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui la dichiarazione sarebbe dovuta (per i periodi d’imposta fino al 2015 era il 31/12 del quinto anno successivo, ora ottavo a seguito delle modifiche normative). Se qualche anno è oltre tale termine, va eccepita la decadenza. Ad esempio, se nel 2025 viene notificato un avviso per l’anno d’imposta 2016 (dichiarazione 2017), quello è tardivo, perché per il 2016 il termine scadeva al 31/12/2024 (ottavo anno dal 2017). Queste eccezioni procedurali sono spesso vincenti automatiche per quell’anno. Inoltre, se c’è stato un PVC della GdF, va controllato se l’avviso è stato emesso rispettando i 60 giorni dallo stesso (Statuto del contribuente, art. 12 c.7 L. 212/2000), pena nullità relativa (non sempre i giudici annullano per questo, ma è un argomento).
  • Aliquote o norme applicate erroneamente: a volte l’Ufficio potrebbe aver sbagliato aliquota (es. applicato l’aliquota IRES a un soggetto che doveva essere tassato IRPEF, o viceversa), oppure richiesto IRAP quando magari l’attività della S.O. poteva non configurare autonoma organizzazione (caso limite, ma se la S.O. è solo un agente senza struttura, si può discutere che IRAP non sia dovuta). O ancora, aver calcolato male gli interessi. Tutti questi dettagli vanno passati al setaccio.
  • Sproporzione delle sanzioni: nel ricorso tributario, il giudice ha la facoltà (ex D.Lgs. 546/92) di ridurre le sanzioni se le ritiene inique o sproporzionate. Il contribuente può invocare circostanze attenuanti: ad esempio, che la normativa era incerta (soprattutto se si discute di presenza digitale pre-2018, dove la legge non c’era), che c’è stata cooperazione durante la verifica, che non c’è stata frode ma solo un errore interpretativo. Spesso i giudici, anche confermando la pretesa fiscale, riducono un po’ le sanzioni, specie se l’evaso è recuperato (possono motivare col fatto che la sanzione al 240% è eccessiva e la riducono a qualcosa tipo 150%). Non è garantito, ma tentare non nuoce.
  • IVA assolta con reverse charge dai clienti (doppia imposizione): come accennato, se si tratta di operazioni intra-UE, l’acquirente italiano molto probabilmente ha già versato l’IVA tramite inversione contabile. Il contribuente può chiedere che non venga pretesa di nuovo la stessa IVA: in sostanza, l’IVA è già nel sistema, cambierebbe solo il soggetto che l’ha versata. Alcune Commissioni accolgono questo ragionamento e annullano la pretesa IVA (o la riducono agli interessi e alle sanzioni formali). È un argomento tecnico, ma da proporre, magari citando giurisprudenza UE sul principio di neutralità.
  • Tentare una via transattiva (accertamento con adesione): se il rapporto con l’Ufficio lo consente, il contribuente può, entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, presentare un’istanza di accertamento con adesione. Questo sospende per 90 giorni i termini per fare ricorso e apre un confronto con l’Ufficio. In tale sede, si può cercare un compromesso: ad esempio, il contribuente potrebbe riconoscere la presenza di una S.O. ma su un imponibile inferiore. L’Agenzia potrebbe essere disponibile a ridurre un po’ la pretesa pur di chiudere la partita (soprattutto se il caso è complesso e rischioso in giudizio). Attenzione però: nell’adesione il contribuente rinuncia a eccepire vizi formali/procedurali e in genere deve mostrarsi collaborativo. È un’arma a doppio taglio e va valutata con consulenti esperti, ma è un’opportunità da considerare prima di partire in guerra totale.
  • Sospensione della riscossione: come già detto, se gli importi sono altissimi conviene, contestualmente al ricorso, depositare un’istanza di sospensione. Qui occorre evidenziare tanto il danno grave (es. l’azienda fallirebbe se costretta a pagare ora) quanto il fumus (cioè che il ricorso ha probabilità di successo). Per il fumus, è efficace puntare su uno o due argomenti chiave: p.es., “l’Ufficio non ha dedotto costi – giurisprudenza costante contraria, quindi ho buone possibilità” oppure “c’è una sentenza recente analoga che ha dato ragione al contribuente”. In genere, i giudici sospendono se vedono almeno un motivo di ricorso fondato e un pregiudizio serio dalla riscossione immediata.
  • Vizi procedurali e formali: non dimentichiamo di esaminare se l’atto presenta vizi di forma (notifica errata, motivazione carente, firma non valida, ecc.) o violazioni dello Statuto del Contribuente. Ad esempio, come accennato, se c’è stato PVC, la regola è attendere 60 giorni prima di emettere l’avviso, salvo urgenza: se l’Agenzia ha notificato l’accertamento troppo presto senza urgenza, alcune Commissioni dichiarano l’atto nullo (altre solo annullabile, quindi serve sollevare la questione prontamente). Anche la notifica all’estero deve rispettare convenzioni internazionali (se la società estera risiede in un paese convenzionato, c’è un protocollo per le notifiche via autorità estere, etc., la cui mancata osservanza può inficiare la notifica). Questi vizi non sempre portano ad annullamento definitivo (spesso il Fisco può reiterare l’atto sanando il vizio), ma possono dare tempo o complicare la vita all’Erario.

In definitiva, la miglior difesa consiste nel farsi assistere da professionisti esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario, per costruire una strategia a 360 gradi: contestazioni giuridiche, supporto documentale, analisi contabile alternativa, eccezioni procedurali. Nulla va trascurato. Spesso, i ricorsi in queste materie sono complessi e voluminosi, ma necessari per coprire ogni aspetto. Il contribuente, specie se l’importo è elevato, dovrà anche considerare l’eventualità di una soluzione transattiva in corso di causa (la cosiddetta conciliazione giudiziale), magari ottenendo un abbattimento delle sanzioni in cambio del pagamento del dovuto, se vede che il terreno è sfavorevole. Ogni caso è un unicum, per cui bisogna essere flessibili: a volte conviene combattere fino in Cassazione, altre volte chiudere prima per limitare i danni e le incertezze.

Giurisprudenza e prassi rilevanti (aggiornate al 2025)

A sostegno delle strategie difensive sopra esposte, esiste ormai una corposa giurisprudenza e alcuni documenti di prassi che conviene conoscere. Di seguito elenchiamo alcune sentenze chiave (soprattutto di Cassazione) e circolari pertinenti, con il loro principale contributo:

  • Cass. Civ. Sez. V, n. 7202/2024 (depositata il 16 marzo 2024) – Caso di una branch italiana di multinazionale USA accusata di essere S.O. occulta. Principio: ribadisce che la verifica va fatta sul piano sostanziale, richiedendo una presenza stabile e autonoma in Italia; conferma che attività preparatorie o ausiliarie (come marketing puro, assistenza preliminare) non configurano S.O. se rimangono tali. In concreto, la Cassazione ha confermato la decisione di merito che escludeva la S.O., perché l’Agenzia non aveva provato né una sede fissa d’affari né il superamento del ruolo ausiliario (prezzi e decisioni rimanevano centralizzati all’estero). Importante anche il riferimento alle pronunce UE (caso Berlin Chemie) che rafforzavano la non configurabilità della S.O. in quel contesto.
  • Cass. Civ. Sez. V, n. 992/2024 (depositata il 10 gennaio 2024) – Caso di agente italiano di società estera (schema commissionario). Principio:Non costituisce stabile organizzazione il solo fatto che l’impresa non residente eserciti la propria attività per mezzo di un mediatore, commissionario generale o altro intermediario indipendente”. La sentenza sottolinea la distinzione agente dipendente vs indipendente: nel secondo caso, niente S.O. Ha rigettato il ricorso dell’Agenzia che pretendeva una S.O. solo per la presenza di un agente, evidenziando che quest’ultimo godeva di reale autonomia operativa.
  • Cass. Civ. Sez. V, nn. 1709/2023 e 2597/2023 – Due pronunce di inizio 2023, entrambe in tema di stabili organizzazioni occulte. Confermano la linea per cui serve una organizzazione stabile e dotata di capacità produttiva autonoma in Italia per configurare la S.O. Ribadiscono che l’onere di provare i presupposti (luogo fisso, durata, attività non ausiliaria) spetta al Fisco, e che relazioni d’affari occasionali o la mera presenza di un intermediario non bastano. In altre parole, la Cassazione continua a seguire un approccio ** sostanzialistico** e poco formalistico: guarda alla realtà effettiva più che alle apparenze formali.
  • Cass. Civ. Sez. V, n. 21693/2020 – Sentenza di fine 2020 che fa il punto sui requisiti della stabile organizzazione: presenza radicata sul territorio, stabilità, sede d’affari idonea a produrre reddito, attività autonoma rispetto alla casa madre. Viene spesso citata come riferimento generale, perché elenca in maniera organica tutti gli elementi caratterizzanti la S.O. (richiamando anche Cass. 30033/2018). Utile per avere un quadro di cosa deve esserci perché si configuri la S.O. (e, implicitamente, cosa si può negare se manca).
  • Cass. Civ. Sez. V, n. 2581/2021 (ordinanza del 04/02/2021) – Riguarda una società egiziana che vendeva multiproprietà in Italia tramite società locale: S.O. occulta contestata. Principio: in accertamento d’ufficio per omessa dichiarazione, l’Amministrazione può usare presunzioni semplici (supersemplici), però deve determinare induttivamente anche i costi relativi ai ricavi accertati, tassando solo il reddito netto. La Corte ha cassato la sentenza di merito perché i giudici non avevano considerato i costi, accettando l’accertamento che assimilava fatturato a reddito. Inoltre la Corte richiama espressamente l’art. 7(3) del Modello OCSE e l’analoga clausola della Convenzione Italia-Egitto, che prevedono la deducibilità delle spese nel determinare l’utile della stabile organizzazione. Questa sentenza è un pilastro sul diritto del contribuente ad avere riconosciuti i costi; è stata seguita da altre consimili (v. Cass. 1506/2017 citata nella motivazione).
  • Cass. nn. 36679/2022, 30140/2019, 23984/2016 – Un filone di sentenze che hanno rafforzato il principio di prevalenza delle Convenzioni internazionali sulle norme interne in materia di stabile organizzazione. In particolare, chiariscono che se c’è difformità tra definizione interna e definizione convenzionale di S.O., prevale quella convenzionale (anche in virtù dell’art. 10, c.2, TUIR e dell’art. 117 Cost.). Questo è cruciale alla luce della lettera f-bis introdotta nel 2018: se il trattato col paese X non contempla la “presenza economica digitale” come S.O., l’Italia non può applicare unilateralmente quella norma a un residente di X. Occorre attendere che i trattati vengano eventualmente aggiornati (o usare clausole antiabuso generali se proprio).
  • Corte Costituzionale n. 225/2005 – Sentenza storica sul principio di capacità contributiva negli accertamenti presuntivi. Dichiarò incostituzionale una norma che permetteva di presumere al 100% certi ricavi (nel caso, prelevamenti bancari considerati ricavi) senza ammettere deduzione di costi, stabilendo che ciò viola l’art. 53 Cost. I principi di questa decisione sono stati poi recepiti in ambito di S.O. occulte dalla Cassazione come visto. È un faro che il contribuente cita per sostenere la necessità di dedurre i costi impliciti.
  • Circolare Guardia di Finanza n. 1/2008 (Vol. III, Parte VI, Cap.7) – Documento di prassi investigativa (non pubblicissimo, ma noto) in cui la GdF fornisce linee guida per le verifiche sulle stabili organizzazioni occulte. Identifica le situazioni più a rischio: imprese estere operanti in Italia senza stabile dichiarata; imprese italiane con branch estere occulte. Conferma l’approccio metodico della GdF: ricerca di elementi sul territorio che rivelino la S.O. È utile citarla per mostrare come l’azione del Fisco in questo campo sia organizzata, e che certi parametri (es. controllo estero su società italiana, mancanza di autonomia di quest’ultima) vengono usati come indizi standard.
  • Circolare Agenzia Entrate n. 32/E/2006 – Circolare in tema di indagini finanziarie; qui rileva il paragrafo in cui l’Agenzia raccomanda, negli accertamenti da movimenti bancari non giustificati, di stimare sempre una percentuale di costi in rapporto ai ricavi accertati, per evitare di tassare il solo volume d’affari. Questa circolare è stata citata anche in Cass. 2581/2021, a riprova che la stessa prassi dell’Ade impone di non trascurare i costi. Menzionarla nel ricorso dà forza all’argomentazione sui costi impliciti.
  • Circolare Agenzia Entrate n. 9/E/2015 – Linee guida sui controlli fiscali. Il §2 in particolare ribadisce concetti simili: negli accertamenti globali sugli “evasori totali” si deve procedere comunque a ricostruire il reddito netto, tenendo conto delle spese emergenti o presunte, anche applicando percentuali di ricarico medie. Insomma, l’Agenzia stessa – almeno a livello centrale – riconosce il dovere di non tassare ricavi lordi. Anche questa è utile da citare per sostenere che l’ufficio locale magari ha agito in modo difforme dalle istruzioni centrali.

Questa rassegna dimostra che, ad oggi (2025), il quadro normativo e giurisprudenziale offre diversi punti di appoggio per la difesa del contribuente. La linea di confine tra ciò che costituisce stabile organizzazione e ciò che non lo è è tracciata da criteri sostanziali (stabilità, presenza fisica, autonomia funzionale, non ausiliarità), e i giudici sono spesso inclini a richiedere prove solide al Fisco, non accontentandosi di mere supposizioni. Allo stesso tempo, sul fronte dell’accertamento induttivo, c’è un’attenzione consolidata a garantire che venga tassato solo il reddito effettivo e non un importo arbitrariamente gonfiato: da qui l’obbligo di considerare i costi. Il contribuente può e deve sfruttare questi orientamenti per impostare difese efficaci.

Domande frequenti (FAQ)

D: Che cos’è, in parole semplici, una “stabile organizzazione occulta”?
R: È una presenza economica stabile ma nascosta di un’azienda estera in Italia. In pratica, l’azienda straniera opera in Italia come se avesse una filiale (uffici, personale, affari continuativi), però non ha aperto alcuna partita IVA né risulta ufficialmente come soggetto fiscale italiano. È “occulta” perché il Fisco italiano non la vede, finché magari un controllo la porta alla luce. Un esempio classico: una società estera vende prodotti in Italia tramite un ufficio e staff localizzati qui, ma formalmente dichiara di non avere nulla in Italia e fattura tutto dall’estero.

D: Qual è la differenza tra stabile organizzazione occulta ed esterovestizione?
R: Sono due concetti diversi, accomunati dal fatto che c’è un’evasione internazionale di mezzo. La stabile organizzazione occulta riguarda un’impresa estera che in realtà nasconde una base in Italia (evasione inbound: l’Italia viene defraudata di imponibile prodotto sul suo territorio). L’esterovestizione, invece, è il caso inverso: un’impresa che finge di essere estera ma in realtà è gestita dall’Italia, quindi dovrebbe essere considerata residente in Italia. In altre parole, nell’esterovestizione si scopre che un’azienda registrata all’estero ha amministrazione e direzione effettiva in Italia (quindi andrebbe tassata in Italia su tutti i redditi mondiali); nella S.O. occulta l’azienda rimane formalmente estera, ma le si attribuisce un “pezzo” di attività tassabile in Italia (solo i redditi prodotti qui tramite la base occulta). Le conseguenze fiscali differiscono: con l’esterovestizione l’intera società è tassata come italiana (potenzialmente su tutti i suoi utili globali, salvo crediti per imposte estere), con la S.O. occulta si tassano solo i redditi attribuibili alla stabile organizzazione in Italia.

D: L’Agenzia delle Entrate quando può utilizzare l’accertamento induttivo?
R: Può farlo solo in situazioni previste dalla legge, generalmente eccezionali. I casi tipici sono: il contribuente non ha presentato la dichiarazione dei redditi (omissione totale), oppure l’ha presentata ma la sua contabilità è inaffidabile o gravemente incompleta (tanto da vanificare un controllo normale). Altre ipotesi: se si scopre che l’azienda ha tenuto doppia contabilità o nascosto sistematicamente ricavi (es. incassi in nero), l’Ufficio può abbandonare il metodo analitico e passare all’induttivo. In sintesi, l’induttivo si usa quando i dati forniti dal contribuente mancano o non sono attendibili. Nel caso della stabile organizzazione occulta, spesso il motivo è l’omessa dichiarazione: la base non era dichiarata, quindi non ci sono dati ufficiali, e il Fisco va per presunzioni (di solito accertamento d’ufficio, ex art. 41 DPR 600).

D: Cosa significa che l’accertamento è “induttivo” o “d’ufficio”?
R: Significa che il Fisco stima il reddito anziché basarsi su una dichiarazione esistente (che manca, o se c’è è inaffidabile). L’accertamento d’ufficio è una particolare forma di accertamento induttivo che scatta quando non c’è proprio la dichiarazione: in tal caso l’Ufficio può usare presunzioni anche minime (basta un elemento indiziario per avviare la ricostruzione), e poi sta a te, contribuente, provare che ha torto. In pratica, induttivo vuol dire che il Fisco guarda a ciò che emer­ge (entrate su conti, fatture trovate, beni posseduti, ecc.) e da lì deduce quanto potresti aver guadagnato. Ad esempio, se scopre che hai venduto merce per 1 milione € mai dichiarato, può presumere un certo utile su quel milione e tassarlo. Non può però – per legge e Costituzione – tassarti come utile l’intero milione: deve considerare che per realizzare quelle vendite hai avuto dei costi, quindi in mancanza di dati specifici dovrà togliere almeno in maniera forfettaria una parte di costi. (Se non lo fa, il suo accertamento è contestabile e annullabile in parte.)

D: Se mi contestano una stabile organizzazione occulta, cosa rischio in concreto?
R: Rischi un bel po’ di cose:

  1. Di dover pagare tutte le imposte arretrate (IRES/IRAP, IVA, ecc.) sui redditi che – secondo il Fisco – hai prodotto in Italia senza dichiararli, potenzialmente per vari anni.
  2. Il pagamento di sanzioni tributarie pesantissime: per omessa dichiarazione la sanzione va dal 120% al 240% dell’imposta evasa. Quindi se ti contestano, ad esempio, 100.000 € di IRES evasa, la sanzione può essere tra 120.000 € e 240.000 € solo di multa, oltre ai 100.000 € di imposta e gli interessi! E se c’è anche IVA evasa, altra sanzione su quella. Capisci che possono diventare importi astronomici.
  3. Interessi sulle imposte non pagate, che si accumulano.
  4. Possibile processo penale per omessa dichiarazione (se l’imposta evasa per ciascun anno supera 50k €). Questo comporta il rischio di qualche anno di carcere per gli amministratori coinvolti, se riconosciuti colpevoli (da 18 mesi a 4 anni).
  5. Azioni di riscossione forzata sul tuo patrimonio in Italia: l’Agente della riscossione potrebbe congelare conti correnti, pignorare crediti, mettere ipoteche su immobili o bloccare auto (fermo amministrativo), se non paghi volontariamente.

Insomma, un salasso economico accompagnato dalla spada di Damocle penale. E ovviamente dovrai poi metterti in regola per il futuro (aprire partita IVA in Italia, ecc., se vuoi continuare a operare qui). È una situazione seria che richiede un intervento difensivo immediato.

D: Come posso difendermi se non sono d’accordo con l’accertamento?
R: Innanzitutto, hai 60 giorni dalla notifica per presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria Provinciale). Nel ricorso indicherai tutti i motivi per cui ritieni l’accertamento sbagliato. Puoi contemporaneamente depositare una richiesta di sospensione per congelare la riscossione in attesa della sentenza. In parallelo – o anche prima di ricorrere – puoi attivare la procedura di accertamento con adesione, che sospende i termini e ti permette di discutere con l’Ufficio un eventuale accordo (se trovi un punto d’incontro, paghi il dovuto con sanzioni ridotte). Entrando nel merito delle difese: le principali le abbiamo viste, ovvero negare l’esistenza della stabile organizzazione (dimostrando che in Italia facevi solo attività ausiliarie, o che i tuoi agenti erano indipendenti, o che mancava una sede fissa, ecc.), oppure contestare i calcoli dell’Ufficio (mostrando che il reddito presunto è esagerato perché non hanno considerato costi, o che alcune vendite non andavano tassate qui, ecc.). In sede di ricorso puoi allegare documenti, perizie, contratti, corrispondenza a tuo favore. Puoi anche sollevare vizi procedurali (per esempio, che l’atto è stato notificato fuori termine, o che manca la firma del capo ufficio, o che non ti hanno fatto presentare osservazioni al PVC, ecc.). Date la complessità, è altamente consigliato farti assistere da un professionista esperto di diritto tributario internazionale. La materia è tecnica e in continua evoluzione, per cui serve conoscere bene sia le norme che i precedenti per costruire una difesa efficace.

D: L’onere della prova di una stabile organizzazione occulta su chi ricade?
R: In linea generale, sull’Amministrazione finanziaria: è il Fisco che afferma l’esistenza di una S.O., dunque deve fornire elementi concreti a supporto. Non può limitarsi a un sospetto generico. Tuttavia, in pratica, una volta che l’Agenzia porta degli indizi seri (es. contratti firmati in Italia, personale locale stipendiato dall’estero, magazzino in Italia con beni dell’impresa estera, ecc.), questi costituiscono presunzioni e il contribuente deve controbatterli con proprie prove contrarie. Se siamo nel caso di accertamento d’ufficio da omessa dichiarazione, l’onere del Fisco è ancora più leggero: bastano anche indizi frammentari, e sta al contribuente ricostruire diversamente i fatti. In giudizio, funziona così: il Fisco produce il suo dossier (documenti, verbali GdF, analisi, ecc.), tu produci il tuo (es. contratti che smentiscono la dipendenza dell’agente, perizie che mostrano utile basso, ecc.). Il giudice valuta il tutto. In caso di dubbio, su elementi fondamentali, vale il favor verso il contribuente (non si può far pagare una tassa non provata chiaramente). Ma non conviene far affidamento sul dubbio: meglio presentare un quadro chiaro e convincente della propria posizione. Quindi, anche se formalmente l’onere è del Fisco, in pratica preparati a fornire tu quante più prove possibili a tuo favore.

D: Se in Italia facevo solo attività di marketing e raccolta ordini, possono comunque dirmi che avevo una S.O.?
R: Se davvero le tue attività in Italia erano limitate a marketing, pubblicità, assistenza pre-vendita, raccolta ordini che poi venivano formalmente conclusi all’estero, allora secondo le regole convenzionali non dovrebbe configurarsi una stabile organizzazione. Queste infatti sono tipicamente considerate attività ausiliarie. Quindi, in teoria, no – il Fisco non dovrebbe pretendere di tassarti i ricavi se riuscirai a provare che facevi solo quello. Il problema nasce se l’Agenzia ritiene (e riesce a dimostrare) che in realtà facevi di più del semplice marketing: ad esempio, se il personale in Italia negoziava effettivamente contratti o aveva potere di concludere vendite senza passare per la casa madre. Spesso la differenza tra “supporto marketing” e “attività commerciale” è sottile. In Cassazione ci sono molti casi su questo confine: un ufficio locale che in teoria era di rappresentanza, ma di fatto prendeva ordini e decideva sconti, viene considerato S.O. Occorre quindi guardare ai fatti concreti: se tutti i contratti venivano effettivamente finalizzati e firmati all’estero, e l’ufficio italiano non poteva impegnare contrattualmente la società, hai buoni argomenti per dire che era solo marketing. Se invece l’ufficio locale aveva budget di vendita, trattativa diretta coi clienti e concludeva affari, allora l’Agenzia potrà sostenere che quello non era “solo marketing” ma vendita vera e propria, quindi stabile organizzazione. In sede difensiva dovrai enfatizzare che tutte le decisioni importanti venivano prese dalla sede estera, e l’ufficio italiano eseguiva solo istruzioni e preparava il terreno.

D: Come incide la nuova definizione di “presenza economica digitale” introdotta in Italia?
R: L’Italia, come detto, dal 2018 ha inserito la possibilità di considerare stabile organizzazione anche una presenza economica digitale significativa e continuativa senza base fisica (art. 162 c.2 lett. f-bis TUIR). In teoria, questo significa che anche se operi solo online – ad esempio un sito web estero che vende moltissimo in Italia, pur non avendo né uffici né personale qui – il Fisco italiano potrebbe provare a contestarti l’esistenza di una S.O. occulta in base al volume d’affari e ad altri indici (traffico web da IP italiani, numero di clienti italiani, magari utilizzo di infrastrutture digitali locali, ecc.). Tuttavia, bisogna fare i conti con le Convenzioni internazionali: attualmente, pochissimi trattati contengono già una clausola simile (solo accordi recenti post-BEPS). Quindi se c’è un trattato in mezzo, la strada dell’Agenzia non è spianata. Detto ciò, in pratica l’Agenzia può usarla come leva: infatti diversi big del digitale (Google, Facebook, Amazon…) hanno preferito negli ultimi anni accordarsi col fisco italiano e iniziare a dichiarare di più in Italia, proprio per evitare cause sul concetto di “presenza digitale” dove non c’è giurisprudenza solida. Per aziende più piccole, se non c’è convenzione (es. paese black-list) l’Agenzia potrebbe applicare la norma interna e basta. Insomma, è un terreno nuovo e insidioso. La presenza digitale significativa è un concetto reale, ma la sua applicazione concreta dipende dal caso e soprattutto dai rapporti internazionali (trattati, cooperazione).

D: Quali errori devo evitare per non incorrere in queste contestazioni in futuro?
R: Parlando in generale per un’azienda estera che opera (o vuole operare) in Italia evitando brutte sorprese:

  • Non sottovalutare la tua presenza in Italia: se cominci ad avere personale o uffici stabili qui, prendi seriamente in considerazione di aprire una filiale ufficiale (stabile organizzazione dichiarata) o una società controllata che fatturi regolarmente. Pagherai un po’ di tasse in più, ma eviterai rischi di doverne pagare molte di più tutte insieme con sanzioni.
  • Attenzione agli “agenti monomandatari”: se hai un agente o distributore italiano che lavora solo per te e di fatto rappresenta la tua azienda in tutto (fa marketing, vende, assiste clienti), valuta di formalizzare una branch o fargli un contratto che ne limiti il ruolo. Se vuoi mantenere un agente indipendente, assicurati che lo sia davvero: che abbia altri mandati, che sopporti un rischio d’impresa suo, che non sia controllato di fatto da te.
  • Documentazione trasparente: redigi contratti chiari con i soggetti in Italia, dove delimiti bene cosa fanno. Se devono fare solo marketing, scrivi esplicitamente che non possono concludere contratti né assumere impegni per te. Evita accordi verbali o side letter contraddittorie. Pensa che se qualcosa può apparire come decisione presa in Italia, il Fisco lo userà contro di te. Quindi lascia traccia scritta che le decisioni finali sono prese all’estero.
  • Non ignorare le richieste del Fisco: se ricevi questionari o comunicazioni dall’Agenzia, non fare orecchie da mercante. Rispondi (ovviamente consultandoti con un fiscalista). Opporre un “muro di gomma” o spostare tutta la documentazione all’estero per non darla non serve: anzi, peggiora la tua posizione, perché il Fisco può fare accertamento d’ufficio presuntivo e poi starà a te dimostrare il contrario. Meglio collaborare e, se del caso, ottenere un ruling internazionale prima, per stare tranquilli.
  • Considera i trattati: se operi dall’estero, studia la convenzione tra il tuo Paese e l’Italia. Capisci bene cosa fa scattare una S.O. e cosa no. E poi organizzati di conseguenza: ad esempio, se il trattato dice che non c’è S.O. se non concludi contratti in Italia, allora assicurati di non concluderli davvero qui – neanche via email. Fai in modo che l’ultima accettazione sia sempre all’estero, che formalmente la sede centrale abbia l’ultima parola. Questi formalismi possono aiutare a dimostrare che hai rispettato le regole convenzionali.

D: Ci sono esempi di contribuenti che hanno vinto contro il Fisco in casi simili?
R: Sì, ce ne sono diversi. A parte il caso citato di Cass. 7202/2024 dove l’azienda americana ha vinto (nessuna S.O. riconosciuta), possiamo ricordare anche casi non arrivati in Cassazione perché risolti prima: ad esempio, grandi multinazionali come Google, Amazon, Facebook negli ultimi anni hanno preferito trovare accordi col Fisco italiano e regolarizzare in parte il passato (versando certe somme) senza arrivare al giudizio finale, proprio perché la materia è complicata e rischiosa per entrambi. Inoltre varie Commissioni Tributarie (ora Corti di Giustizia Tributarie) hanno dato ragione ai contribuenti in casi analoghi: se l’Agenzia non portava prove sufficienti di una struttura stabile, i giudici hanno annullato gli avvisi. Ad esempio, in Lombardia c’è stata una sentenza a favore di una società estera dove si diceva che l’agente italiano, pur esclusivo, era giuridicamente indipendente e quindi niente S.O. Occorre dire che non è affatto scontato che il Fisco vinca sempre: dipende molto dalle prove. Spesso, anche quando il contribuente non riesce a far annullare tutto, ottiene almeno una forte riduzione del carico (per i motivi quantitativi: costi riconosciuti, eliminazione di anni prescritti, sanzioni ridotte, ecc.). L’importante è non arrendersi e strutturare bene la difesa. Con un buon team difensivo, le chance di successo totale o parziale sono concrete.

D: Dopo quanti anni si prescrive la possibilità di controllo su queste situazioni?
R: In linea di massima, l’Agenzia ha tempo fino all’ottavo anno successivo a quello in cui avresti dovuto dichiarare i redditi, se non hai presentato la dichiarazione (che è il caso tipico di S.O. occulta inbound). Ad esempio, per i redditi del 2018 (dichiarazione che avresti dovuto presentare nel 2019) il termine di decadenza è il 31/12/2027. Se invece una dichiarazione c’era (caso di dichiarazione infedele, come S.O. occulta outbound), il termine è il 5° anno successivo (esempio: redditi 2018 dichiarazione 2019, termine 31/12/2024). Tieni conto che un PVC della Guardia di Finanza proroga di 1 anno questi termini (quindi diventerebbe nono anno, o sesto anno). In pratica, la GdF spesso chiude le verifiche a ridosso della scadenza e grazie a questa proroga l’Agenzia ha un anno in più. Inoltre, periodicamente il legislatore può introdurre condoni o sanatorie che chiudono d’ufficio certe annualità se fai domanda/paghi un forfait (nel 2023, ad esempio, ci sono stati condoni per liti pendenti e per dichiarazioni omesse fino a un certo anno). Ma in assenza di sanatorie, passati gli 8 anni (omessa) o 5 anni (infedele), l’anno diventa “incontrollabile”. Ricorda però che se hai operato occultamente per 10 anni, l’Agenzia può contestarti tutti i 10 anni (nei limiti della decadenza). Quindi, potenzialmente, se scoprono oggi nel 2025 un’attività iniziata nel 2017 e mai dichiarata, potrebbero farti avvisi per 2017, 2018, 2019, 2020, 2021, 2022, 2023 (il 2017 andrebbe in decadenza a fine 2025 essendo omessa, quindi ce la fanno se l’atto esce entro l’anno).

Conclusione

Un accertamento induttivo per stabile organizzazione occulta rappresenta una materia di confine tra fiscalità domestica e internazionale, dove regole tecniche (articoli di legge, clausole dei trattati, prassi amministrative) si intrecciano con valutazioni di fatto molto concrete (cosa accadeva quotidianamente nell’attività del contribuente). In questa guida abbiamo esaminato i principali aspetti da conoscere, dal punto di vista del contribuente che deve difendersi. In particolare, abbiamo visto che:

  • La definizione di stabile organizzazione occulta è ampia e si adatta a vari schemi d’impresa, e il legislatore italiano l’ha ulteriormente estesa al digitale; tuttavia i trattati internazionali pongono dei paletti e prevalgono in caso di contrasto.
  • L’Amministrazione finanziaria dispone di strumenti potenti (ad es. l’accertamento induttivo d’ufficio) per colpire queste situazioni, ma deve comunque rispettare principi fondamentali (come la capacità contributiva e la coerenza con i trattati) e oneri probatori minimi.
  • Le conseguenze, in caso di soccombenza, sono molto severe in termini economici e legali. Ciò rende la difesa assolutamente necessaria e non procrastinabile.
  • Esistono solide basi normative e giurisprudenziali su cui impostare la contestazione: sia per negare la sussistenza della S.O. (se mancano requisiti), sia per ridurne la portata economica (riconoscimento costi, riduzione imponibile, ecc.).
  • Ogni caso ha le sue peculiarità: la tipologia di attività svolta, il Paese coinvolto (e il relativo trattato), la documentazione disponibile, eventuali precedenti (ruling, prassi, ecc.). Non esiste una formula magica universale; la difesa va personalizzata sul caso concreto, applicando i principi generali ma calibrandoli sui fatti specifici, idealmente con l’ausilio di esperti.
  • La strategia difensiva deve essere a tutto campo: fattuale (prove concrete a discarico), giuridica (invocare norme e sentenze a favore), procedurale (far valere vizi e garanzie procedurali violati), e persino di negoziazione (valutare accordi, adesioni, conciliazioni se opportuno per chiudere con esito accettabile).

In un’epoca di globalizzazione e digitalizzazione, il Fisco italiano è sempre più attento a stanare basi imponibili occulte sul territorio. I contribuenti che operano a cavallo di più Paesi devono quindi essere consapevoli dei rischi e agire con trasparenza e correttezza; oppure, se decidono di operare in zone grigie, devono almeno essere pronti a far valere con decisione le proprie ragioni qualora si vedano contestare un’attività economica “nascosta” in Italia. Conoscere quello di cui abbiamo parlato – normative, prassi e soprattutto le sentenze aggiornate – è il primo passo per affrontare con successo (o ancor meglio, prevenire) un accertamento di questo tipo.


Fonti e riferimenti normativi/giurisprudenziali

  1. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.), art. 162 – Definizione di stabile organizzazione. (Include la lettera f-bis introdotta da L. 205/2017 sulla presenza economica digitale).
  2. Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 5 – Definizione di stabile organizzazione; art. 7 – Attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione. (Commentario OCSE 2017 e seguenti rilevante per interpretazione)
  3. D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 – Accertamento induttivo (comma 2, presunzioni qualifiche); art. 41 – Accertamento d’ufficio in caso di omessa dichiarazione; art. 14, c.5 – Obblighi contabili delle stabili organizzazioni; art. 12 L. 212/2000 – Termine dilatorio 60 gg dopo PVC.
  4. D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 17 – Soggetti passivi IVA (identificazione di non residenti); art. 35-ter – Identificazione diretta ai fini IVA di soggetti non residenti; art. 55 – Accertamento induttivo IVA (omessa dichiarazione o contabilità inattendibile).
  5. D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 5 – Sanzione per omessa dichiarazione (dal 120% al 240% dell’imposta evasa, min €250); art. 1 – Sanzione per dichiarazione infedele (dal 90% al 180%).
  6. D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5 – Reato di omessa dichiarazione (soglia €50.000 imposta evasa, pena 1½–4 anni); art. 4 – Reato di dichiarazione infedele (soglia €100.000 imposta evasa e 10% dell’imponibile, pena 2–4½ anni).
  7. Cass. Civ. Sez. V, 25 maggio 2002, n. 7682 (“Philip Morris”) – Primo importante caso di S.O. occulta: inizialmente affermò che soggetto passivo era casa madre estera. (Orientamento poi superato nel 2011).
  8. Cass. Civ. Sez. V, 22 luglio 2011, n. 16106Stabile organizzazione occulta come soggetto fiscale autonomo: conferma che l’accertamento può essere emesso verso l’entità italiana “base” occulta della società estera.
  9. Cass. Civ. Sez. V, 20 novembre 2019, n. 30140Rapporto tra norma interna e trattato: le convenzioni contro doppie imposizioni sono fonti primarie e prevalgono sulle disposizioni interne difformi (art. 10 TUIR, art. 117 Cost.).
  10. Cass. Civ. Sez. V, 7 aprile 2022, n. 36679 – Ribadisce la prevalenza delle convenzioni internazionali in materia di imposte sui redditi, anche riguardo la definizione di S.O. (caso post-L.205/2017).
  11. Cass. Civ. Sez. V, 10 gennaio 2024, n. 992Agente indipendente: esclude la stabile organizzazione se l’intermediario in Italia è indipendente (principio conforme all’art. 5 §6 Mod. OCSE).
  12. Cass. Civ. Sez. V, 16 gennaio 2023, n. 1709 – Elenca requisiti di stabilità, autonomia, ecc. per configurare S.O.; enfatizza onere probatorio in capo al Fisco.
  13. Cass. Civ. Sez. V, 10 febbraio 2023, n. 2597 – Simile a n. 1709/2023; conferma approccio sostanzialistico: occorre presenza economica autonoma effettiva in Italia.
  14. Cass. Civ. Sez. V, 21 ottobre 2020, n. 21693 – Riassume condizioni (sede fissa, attività non ausiliaria, ecc.) per la S.O.; richiama Cass. 30033/2018.
  15. Cass. Civ. Sez. V, 4 febbraio 2021, n. 2581Fondamentale su accertamento induttivo in caso di S.O. occulta: obbligo di dedurre costi dai ricavi accertati (principio di capacità contributiva). Richiama Corte Cost. 225/2005 e precedenti Cass. (es. 1506/2017).
  16. Cass. Civ. Sez. V, 2 febbraio 2017, n. 1506 – Principio analogo a Cass. 2581/2021: in omessa dichiarazione, anche l’accertamento d’ufficio deve stimare i costi, altrimenti viola art. 53 Cost.
  17. Corte Costituzionale, 21 giugno 2005, n. 225 – Stabilisce l’illegittimità di accertamenti presuntivi che non considerino i costi deducibili (caso prelevamenti bancari = ricavi al 100%). Fissa un principio generale di capacità contributiva.
  18. Corte di Giustizia UE (CGUE), 7 aprile 2022, causa C-333/20 (Berlin Chemie) – In ambito IVA: la presenza di una consociata che fornisce in esclusiva servizi di marketing/rappresentanza non implica di per sé che la società estera abbia una stabile organizzazione IVA in quello Stato, se manca una propria struttura dell’estera. (Niente S.O. IVA solo perché c’è filiale di supporto).
  19. Corte di Giustizia UE, 29 giugno 2023, causa C-232/22 (Cabot Plastics) – Sempre su nozione di stabile organizzazione IVA: un soggetto extra-UE che riceve servizi in uno Stato membro non ha ivi una S.O. solo perché il fornitore (giuridicamente distinto) gli dedica risorse in esclusiva; serve comunque una struttura propria del destinatario. (Conferma Berlin Chemie).
  20. Circolare GdF n. 1/2008 – Istruzioni interne su verifiche fiscali: individua ipotesi tipiche di stabile organizzazione occulta inbound e outbound, invita a cercare elementi sul “centro di imputazione” in Italia (es. subordinazione società italiana, coincidenza organi decisionali, ecc.).
  21. Circolare Agenzia Entrate n. 32/E del 2006 – Par. sulle indagini finanziarie: raccomanda di riconoscere sempre una quota di costi presunti a fronte dei ricavi accertati per evasori totali, per evitare di tassare ricavi lordi.
  22. Circolare Agenzia Entrate n. 9/E del 2015 – §2: linee guida sui controlli; conferma che negli accertamenti induttivi globali va sempre ricostruito il reddito al netto delle spese emergenti o, se mancanti, con stima forfettaria, in ossequio al principio di capacità contributiva.

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Conclusione

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