Hai ricevuto un avviso di accertamento fiscale come trader e ti stai chiedendo cosa ti sta contestando l’Agenzia delle Entrate, se i tuoi guadagni sono tassabili e come puoi difenderti da imposte, sanzioni e interessi retroattivi?
Negli ultimi anni l’attività di trading – su azioni, criptovalute, opzioni, CFD o forex – è finita sotto la lente del Fisco. L’Agenzia delle Entrate incrocia i dati bancari, i movimenti dei conti e le piattaforme online per individuare chi non ha dichiarato correttamente i propri redditi da attività finanziarie.
Perché il Fisco controlla i trader?
– Perché considera il trading un’attività reddituale, anche se svolta da casa e senza partita IVA
– Perché piattaforme italiane ed estere trasmettono i dati tramite l’anagrafe tributaria
– Perché molti trader operano in autonomia, convinti che non serva dichiarare nulla
– Perché il Fisco presume un’attività professionale se c’è continuità, frequenza e volume rilevante di operazioni
Cosa può contestarti un avviso di accertamento se fai trading?
– Omessa dichiarazione dei redditi da capital gain o da attività speculativa
– Infedele dichiarazione se hai indicato solo una parte dei guadagni
– Mancato monitoraggio fiscale dei conti esteri (quadro RW)
– Applicazione di sanzioni fino al 240% dell’imposta dovuta
– In casi gravi, segnalazione penale per evasione fiscale
Come puoi difenderti se sei un trader oggetto di accertamento?
– Richiedi subito l’accesso agli atti per capire su quali dati si basa l’accertamento
– Verifica se il reddito contestato riguarda capital gain tassabili o minusvalenze compensabili
– Se operavi su piattaforme estere, controlla se era dovuta la compilazione del quadro RW e se hai commesso solo un errore formale
– Dimostra che si trattava di attività occasionale, non professionale, se non avevi partita IVA
– Valuta un ravvedimento operoso se non c’è stato dolo e vuoi regolarizzarti spontaneamente
– Se le somme sono state già tassate all’estero, verifica l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni
Cosa puoi ottenere con la giusta strategia difensiva?
– L’annullamento dell’accertamento se basato su presunzioni infondate
– La riduzione delle sanzioni se dimostri buona fede e collaborazione
– La possibilità di sanare la posizione con strumenti agevolati
– La protezione del tuo conto corrente e dei tuoi investimenti
– L’uscita definitiva dal contenzioso senza rischiare azioni penali
Il trading non è un gioco agli occhi del Fisco. Ma anche se hai commesso errori, hai pieno diritto di difenderti e correggere la tua posizione.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e fiscalità degli investimenti ti spiega cosa fare se ricevi un avviso di accertamento da trader, quali sono i rischi e quali strumenti puoi usare per proteggerti.
Hai ricevuto una contestazione per guadagni da trading? Vuoi capire se e quanto dovevi dichiarare? Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Valuteremo insieme se puoi annullare l’accertamento, regolarizzarti o difendere il tuo capitale.
Introduzione
Cosa puoi ottenere contestando un accertamento fiscale come trader?
– L’annullamento totale o parziale dell’avviso di accertamento o delle sanzioni, se risultano illegittimi o infondati.
– Il riconoscimento della non imponibilità di determinate operazioni (es. se rientrano in soglie di esenzione o non sono qualificabili come redditi tassabili).
– La possibilità di regolarizzare spontaneamente alcune posizioni (quando consentito) tramite ravvedimento operoso, riducendo le sanzioni.
– La definizione della controversia mediante adesione o conciliazione con l’Agenzia delle Entrate, ottenendo sanzioni ridotte, o l’adesione a eventuali sanatorie/definizioni agevolate.
Cosa NON fare mai se ricevi un avviso di accertamento:
– Ignorare la notifica: gli avvisi di accertamento diventano esecutivi trascorsi 60 giorni, permettendo al Fisco di avviare la riscossione coattiva. Agisci entro le scadenze (pagamento o impugnazione).
– Nascondere o distruggere documenti: in fase di contraddittorio o ricorso dovrai presentare prove (estratti conto, report di trading, contratti) per smentire le contestazioni. Ometterle peggiora la difesa e può configurare ulteriori violazioni.
– Sottovalutare l’origine dei dati fiscali: grazie allo scambio automatico di informazioni (CRS, FATCA) e alle banche dati finanziarie, l’Agenzia delle Entrate spesso conosce già movimenti su conti trading esteri. Non confidare sul segreto bancario estero: ad esempio, i broker esteri (es. eToro) trasmettono i dati ai Paesi UE, e il fisco li incrocia con la tua dichiarazione. Pensare che “i soldi restati sul conto estero non vadano dichiarati” è un errore comune e pericoloso.
– Addurre giustificazioni infondate: sostenere che i redditi di trading non sarebbero tassabili perché “non rimpatriati” o perché “è solo un hobby” non ti protegge. Il fisco considera imponibili i redditi ovunque prodotti dal residente, anche se non trasferiti in Italia, e può qualificare l’attività come impresa se svolta con modalità abituali e organizzate, a prescindere dall’intento personale.
– Agire senza una strategia tecnico-giuridica: le contestazioni fiscali su trading e investimenti richiedono conoscenza specifica di norme tributarie, prassi e giurisprudenza. Evita approcci improvvisati; valuta di farti assistere da un esperto (avvocato tributarista o commercialista) per costruire una difesa efficace e, se possibile, negoziare una soluzione.
Introduzione
Negli ultimi anni il trading online – compravendita abituale di strumenti finanziari (azioni, valute Forex, derivati, criptovalute, etc.) – è finito nel mirino del Fisco italiano. L’Agenzia delle Entrate, spesso in collaborazione con la Guardia di Finanza, ha intensificato i controlli sui profitti derivanti da queste attività, specie quando non dichiarati o trasferiti su conti esteri. Molti investitori privati (i cosiddetti trader retail) si sono visti recapitare un avviso di accertamento fiscale, ovvero un atto formale con cui il Fisco rettifica la dichiarazione dei redditi (o ne contesta l’omissione) richiedendo imposte, interessi e sanzioni aggiuntive. Ricevere un simile atto può generare allarme: l’avviso spesso addebita importi rilevanti, prospettando anche conseguenze contributive o perfino penali in caso di evasione significativa.
Questa guida, aggiornata a luglio 2025, offre un’analisi approfondita – con taglio tecnico ma dal punto di vista del contribuente “debitore” – su come difendersi da un avviso di accertamento rivolto a un trader. Illustreremo il quadro normativo italiano in materia, le tipologie di trader e la relativa tassazione, le circostanze che più frequentemente fanno scattare i controlli fiscali e le contestazioni tipiche (mancata dichiarazione di plusvalenze, omesso monitoraggio RW di conti esteri, riqualificazione dell’attività come reddito d’impresa, presunta esterovestizione della residenza fiscale, ecc.). Si forniranno esempi pratici, tabelle riepilogative, riferimenti a norme e alle più recenti sentenze di legittimità, e una sezione di Domande & Risposte per chiarire i dubbi più comuni. L’obiettivo è fornire a professionisti, imprenditori e privati investitori una guida completa – con linguaggio giuridico ma accessibile – per comprendere i propri diritti e preparare una strategia difensiva efficace.
Quadro normativo: trading e fiscalità in Italia
Prima di affrontare le strategie difensive, è fondamentale inquadrare come vengono tassati i redditi da trading in Italia e quali obblighi dichiarativi gravano sul contribuente. La normativa tributaria italiana distingue infatti diverse categorie di reddito in base alla natura dell’attività svolta e alla qualifica soggettiva del contribuente (persona fisica privata, imprenditore individuale, società, etc.). Nel contesto del trading, possiamo identificare principalmente tre figure:
- Trader persona fisica “privato” (investitore per conto proprio) – Chi investe o specula sui mercati finanziari utilizzando esclusivamente capitali propri, al di fuori di un’attività d’impresa o professionale, non è considerato esercente attività commerciale o di lavoro autonomo. I guadagni derivanti da tali attività non rientrano tra i redditi d’impresa né tra quelli di lavoro autonomo. Essi sono inquadrati, a seconda dei casi, come redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria (ai sensi del TUIR, D.P.R. 917/1986). In pratica, le plusvalenze realizzate tramite trading di strumenti finanziari (es. azioni, ETF, derivati, valute estere, criptovalute, etc.) da un soggetto privato sono tassate con imposta sostitutiva (flat tax) – attualmente 26% – senza concorrere al reddito complessivo IRPEF. Tale aliquota unificata si applica dal 2019 indistintamente sia alle partecipazioni qualificate che non qualificate, e in generale a tutti i redditi finanziari di natura speculativa realizzati da persone fisiche al di fuori dell’attività d’impresa. Le eventuali minusvalenze (perdite) possono essere compensate con future plusvalenze della stessa natura entro i 4 anni successivi, secondo le regole del TUIR (art. 68). Importante: questi redditi finanziari non sono rilevanti a fini previdenziali, quindi il trader privato non deve versare contributi INPS su di essi. Non è nemmeno richiesta l’apertura di partita IVA per il solo fatto di fare trading con il proprio denaro, anche se in modo frequente, purché non si configuri un’attività d’impresa come vedremo oltre.
- Trader “professionista” in proprietary trading – Differente è il caso di chi svolge attività di trading per conto di terzi o comunque utilizzando capitali di soggetti terzi, in virtù di un rapporto contrattuale (tipicamente con una società finanziaria proprietary trading firm). In tale situazione il trader non percepisce un reddito da investimento del proprio capitale, bensì un compenso (spesso sotto forma di percentuale dei profitti generati) in cambio della sua prestazione d’opera. Dal punto di vista giuridico-fiscale, manca una previsione normativa specifica, ma la dottrina e la prassi concordano nel ritenere che i redditi percepiti in questo modo dal “prop trader” abbiano natura di reddito di lavoro autonomo (o di collaborazione) e non reddito finanziario. In altri termini, il trader che opera professionalmente su capitali altrui va inquadrato come lavoratore autonomo: se l’attività è occasionale potrà dichiarare il compenso come reddito autonomo occasionale (art. 67 TUIR), mentre se è svolta abitualmente dovrà aprire partita IVA e assoggettare il reddito a tassazione IRPEF ordinaria, oltre ad adempiere agli obblighi contributivi (es. gestione separata INPS). In pratica, il passaggio da trader “retail” a prop trader comporta un cambiamento radicale di regime fiscale e status giuridico, pur se l’attività materiale (trading sui mercati) può sembrare la stessa. N.B.: L’esercizio professionale del trading per conto terzi potrebbe richiedere autorizzazioni in base alle norme finanziarie (TUF), ma qui ci limitiamo al profilo tributario.
- Trading svolto tramite società – Molti investitori scelgono di costituire una società (tipicamente una SRL) che svolga attività di investimento finanziario, sia per beneficiare di un’aliquota fiscale fissa più bassa (l’IRES al 24%) sia per limitare la responsabilità personale. In questi casi la società è a tutti gli effetti un soggetto passivo d’imposta autonomo: i redditi derivanti dal trading rientrano nel suo reddito d’impresa (artt. 55 e 81 TUIR) e sono tassati con IRES (24%) e – se applicabile – IRAP (3.9% circa, salvo esenzioni). La società, essendo ente commerciale, non compila il quadro RW per il monitoraggio (l’obbligo RW riguarda solo persone fisiche ed enti non commerciali), ma deve comunque dichiarare ogni reddito prodotto ovunque nel mondo. Eventuali utili distribuiti ai soci persone fisiche scontano poi la tassazione da capitale (dividendi tassati al 26% flat, dal 2018). Creare una società di trading in Italia dunque trasforma il trader in un imprenditore societario: i profitti seguono la fiscalità ordinaria delle società, e il socio paga imposte solo sugli utili distribuiti (oltre alla tassazione in capo alla società). Attenzione: qualora la società venga utilizzata artificiosamente per ridurre il carico fiscale personale (ad esempio funge da schermo per far tassare al 24% redditi che altrimenti sarebbero al 43% IRPEF), l’Agenzia potrebbe contestare un abuso del diritto o qualificare comunque in capo al socio utilità extra bilancio; tuttavia, l’uso legittimo di una società per gestire investimenti propri è consentito, fermo restando il rispetto delle normative (es. la SRL deve avere un oggetto sociale coerente, come “attività di compravendita di beni mobili registrati e strumenti finanziari propri”).
Tassazione delle plusvalenze finanziarie dei privati: in base all’attuale normativa, i guadagni derivanti da investimenti finanziari di un individuo residente fiscale in Italia sono tassati per cassa al momento della realizzazione (es. vendita di titoli, chiusura posizione su derivati, conversione di criptovalute in valuta fiat, ecc.). L’aliquota standard è il 26% a titolo di imposta sostitutiva, applicata sul risultato netto di periodo (plusvalenze al netto delle minusvalenze dello stesso periodo, con possibilità di riporto perdite). Fanno eccezione alcuni casi particolari (es. interessi su titoli di Stato e redditi assimilati al 12.5%, plusvalenze immobiliari al 26% ma separate, ecc., che esulano dal trading finanziario puro). Dal 1° gennaio 2023 anche i redditi da cripto-attività sono stati espressamente inquadrati come redditi diversi di natura finanziaria (art. 67 comma 1 lettera c-sexies TUIR, introdotta dalla L. 197/2022) e assoggettati ad imposta sostitutiva 26%. Fino al 2024 per le sole cripto vigeva una soglia di esenzione (franchigia) di €2.000 annui di plusvalenze complessive, abolita dal 2025 in poi. Per le valute estere tradizionali, la prassi equipara il trattamento fiscale a quello delle cripto per certi versi: le plusvalenze sulle valute sono tassabili come redditi diversi (26%) solo se, nel periodo d’imposta, la giacenza media dei conti in valuta o il controvalore delle valute detenute eccede €51.645,69 per almeno 7 giorni consecutivi (art. 67 comma 1-ter TUIR e circolari AdE 165/E/1998 e 48/E/2022). Sotto tale soglia, eventuali guadagni da cambi valutari non sono imponibili. (Questa regola, nata per le valute estere, è stata analogicamente applicata in passato alle criptovalute; oggi, con la nuova normativa crypto, la soglia per valute virtuali è stata invece fissata a 2.000 € fino al 2024 e poi eliminata).
Obblighi dichiarativi e regime del risparmio amministrato: se il trading è effettuato tramite un intermediario finanziario italiano (ad es. banca o SIM italiana), il contribuente può optare per il regime del risparmio amministrato: in tal caso sarà la banca stessa a calcolare e prelevare automaticamente le imposte sulle plusvalenze (26%) e a versarle al Fisco, agendo come sostituto d’imposta. Il contribuente in regime amministrato non deve inserire tali redditi nella propria dichiarazione dei redditi, né compilare il quadro RW per gli assets detenuti presso l’intermediario italiano, in quanto l’intermediario assolve già agli obblighi fiscali. Differente è la situazione di chi utilizza broker esteri o conti di trading fuori Italia: in tal caso vige il regime dichiarativo, per cui è onere del contribuente calcolare i propri redditi di trading e dichiararli nel quadro RT (sezione relativa ai redditi diversi di natura finanziaria) della dichiarazione dei redditi (Modello Redditi PF). Inoltre, gli investimenti finanziari detenuti all’estero (conti trading presso broker esteri, wallet di criptovalute su exchange esteri, conti correnti in valuta, deposito titoli fuori Italia, ecc.) vanno indicati nel quadro RW a fini di monitoraggio fiscale, salvo alcune esenzioni di soglia che vedremo. La compilazione del quadro RW assolve anche al calcolo dell’IVAFE (imposta sul valore delle attività finanziarie estere, pari allo 0,2% annuo sul valore di prodotti finanziari e depositi, assimilabile all’imposta di bollo italiana; per conti correnti esteri c’è una IVAFE fissa di €34,20 annui oltre una giacenza media di €5.000).
In sintesi, un trader privato residente in Italia che operi su piattaforme estere deve: (a) dichiarare annualmente le plusvalenze nette da trading pagando il 26% (quadro RT); (b) indicare i conti o wallet esteri in RW e pagare IVAFE se dovuta; (c) conservare documentazione (rendiconti, transaction history) a supporto di quanto dichiarato. L’omissione di questi adempimenti espone a sanzioni sia sul fronte impositivo (evasione d’imposta) sia sul fronte del monitoraggio (violazione quadro RW). Le sanzioni sono cumulative: ad esempio, non dichiarare un conto trading estero e allo stesso tempo omettere i redditi generati comporterà sia la sanzione RW (dal 3% al 15% del valore non dichiarato per anno) sia la sanzione per dichiarazione infedele sui redditi evasi (vedi oltre).
È opportuno chiarire anche la linea di confine tra un semplice investitore e un’attività considerata “d’impresa” dal Fisco. Come anticipato, di norma il trading personale non è attività d’impresa; tuttavia, l’Agenzia delle Entrate può tentare di qualificare come reddito d’impresa i proventi di un soggetto persona fisica se emerge che egli svolge un’attività commerciale ai sensi dell’art. 55 TUIR (che rinvia all’art. 2195 c.c.) in modo professionale e abituale. In ambito tributario, a differenza del diritto civile, non è necessario un apparato organizzativo complesso perché si configuri un’impresa: basta che l’attività sia condotta con professionalità abituale, anche se non esclusiva e anche senza un’organizzazione in forma d’impresa formale. La Cassazione ha più volte ribadito che ciò che rileva è la stabilità e ripetitività delle operazioni nel periodo d’imposta considerato, escludendo dalla nozione di impresa gli atti isolati od occasionali. Ad esempio, la vendita sporadica di un bene o di pochi titoli non costituisce impresa, mentre centinaia di transazioni di acquisto/vendita condotte regolarmente possono far presumere un’attività economica professionale. Tuttavia, occorre che l’attività rientri tra quelle commerciali elencate dal codice civile (es: produzione di beni, intermediazione, servizi, commercio). Vendere beni su eBay in modo continuativo è stato riconosciuto come attività commerciale tassabile come reddito d’impresa. Ma il trading sul proprio patrimonio, pur se assiduo, non è facilmente inquadrabile in un’attività commerciale classica: non si tratta di intermediazione per conto terzi né di produzione di beni o servizi destinati al mercato. Si è quindi consolidata, in dottrina e in prassi, l’idea che il trading con capitali propri sia estraneo al reddito d’impresa del contribuente persona fisica. In altre parole: anche 1.000 operazioni di compravendita di azioni in un anno, se effettuate da Tizio con i propri risparmi, generano redditi diversi da dichiarare nel quadro RT, ma non trasformano Tizio in un imprenditore ai fini fiscali. Su questo punto specifico (trading di strumenti finanziari) non risultano ad oggi prese di posizione ufficiali difformi da parte dell’Agenzia delle Entrate; le pronunce giurisprudenziali sul criterio di abitualità riguardano tipicamente vendite di beni materiali (es. immobili, e-commerce) o fornitura di servizi. Attenzione però: qualora il Fisco ravvisi elementi che suggeriscono la presenza di un’attività organizzata (ad es. un ufficio con dipendenti dedicato al trading, utilizzo di ingenti capitali di terzi non familiari, oppure se il trading è ancillare ad altra attività d’impresa), potrebbe comunque qualificare il reddito come d’impresa con relativi recuperi di imposta (IRPEF progressiva invece del 26%, addizionali, IRAP, ecc.). La distinzione va quindi valutata caso per caso. Più avanti esamineremo come difendersi da un’eventuale riqualificazione in reddito d’impresa da parte dell’Ufficio.
Tabella 1: Sintesi della qualificazione fiscale del reddito da trading (persona fisica residente)
Profilo | Qualificazione reddito | Aliquota fiscale | Obbligo Partita IVA | Contributi INPS |
---|---|---|---|---|
Trader privato (capitali propri, no servizi a terzi) | Redditi di capitale/diversi (non impresa, non lavoro autonomo) | 26% imposta sostitutiva su plusvalenze nette | No (niente P. IVA per il solo trading personale) | No (nessun obbligo contributivo su redditi finanziari) |
Prop trader (opera su capitali altrui in base a contratto) | Reddito di lavoro autonomo (occasionale o abituale) | IRPEF progressiva (fino a 43% oltre soglie) + addizionali. Se occasionale, ritenuta d’acconto 20% | Sì se abituale (professionista con P. IVA) | Sì (Gestione Separata INPS se autonomo abituale) |
Società di trading (es. SRL) | Reddito d’impresa (IRES) | 24% IRES sugli utili societari (+ eventuale 3.9% IRAP) | Sì (la società è sempre soggetto IVA, ma operazioni di trading esenti IVA ex art. 10 DPR 633/72) | Sì (contributi eventuali solo per soci lavoratori se dovuti, non sui redditi finanziari in sé) |
Trading considerato abusivamente come impresa dal Fisco | Contenzioso: contribuente dovrà difendere la natura di reddito diverso. Se riqualificato come impresa: IRPEF + IRAP dovute su profitti al netto di costi deducibili | In caso di riqualificazione: aliquote IRPEF progressive (23%-43%) + IRAP 3.9% + eventuali sanzioni per dichiarazione infedele | Potenzialmente richiesto ex post (apertura retroattiva non prevista, ma implicazioni in caso di accertamento) | Possibile richiesta contributi (es. gestione commercianti) se attività qualificata come impresa commerciale |
Nota: Le società di capitali non compilano il quadro RW (monitoraggio), mentre le persone fisiche sì (salvo esoneri per conti < €15.000). Le criptovalute dal 2023 sono assimilate a valute estere: plusvalenze tassate 26% sopra soglia (2.000 € fino al 2024); se detenute su exchange esteri vanno in RW come altre attività finanziarie estere.
Quando scatta un accertamento fiscale per un trader
L’Agenzia delle Entrate dispone di ampi poteri di controllo sui contribuenti, inclusi i privati investitori, e può attivare un accertamento fiscale in diverse circostanze. Comprendere cosa fa scattare il controllo è utile sia per prevenire problemi, sia per preparare le opportune contromisure. Ecco le principali situazioni che possono portare l’Amministrazione finanziaria a inviare un avviso di accertamento a un trader:
- Omissione o incongruenze nella dichiarazione dei redditi: la causa più frequente. Se un contribuente non dichiara affatto i redditi di trading (es. omette il quadro RT nonostante operazioni in utile) oppure li dichiara in misura inferiore al reale, l’Agenzia se ne può accorgere attraverso i dati a sua disposizione. Anche errori formali (dichiarazione presentata ma non barrata casella RW quando dovuta, o indicazione errata delle minusvalenze) possono innescare controlli successivi.
- Segnalazioni dai sistemi di scambio informazioni internazionali: dal 2017 è in vigore il sistema CRS (Common Reporting Standard OCSE) per lo scambio automatico di informazioni finanziarie tra paesi. Ciò significa che banche e broker esteri comunicano periodicamente alle autorità fiscali dei Paesi di residenza dei clienti saldi di conto, interessi, dividendi, valori di portafoglio e talora operazioni effettuate. Ad esempio, se un residente italiano ha un conto trading in Svizzera o a San Marino, tali Paesi – oggi collaborativi – trasmettono i dati all’Italia. Lo stesso avviene per quasi tutti i Paesi UE (Malta, Cipro, Lussemburgo, ecc.) e molte giurisdizioni extra-UE un tempo opache (Emirati, Singapore, ecc., ormai aderenti al CRS). L’Agenzia delle Entrate dunque riceve direttamente informazioni su conti e investimenti esteri dei residenti italiani e può confrontarle con quanto dichiarato dal contribuente. Un classico esempio: il CRS segnala che Tizio ha su un broker estero un portafoglio titoli da 100.000 € e ha percepito 10.000 € di redditi; se Tizio non li ha indicati nel Modello Redditi, scatta un accertamento per omessa dichiarazione di redditi esteri. Anche gli exchange di criptovalute con sede in Paesi aderenti inviano dati analoghi sulle cripto-attività dei clienti (saldo wallet, controvalori) che l’Italia considera equiparati a conti finanziari esteri.
- Controlli dell’Anagrafe dei Conti e indagini finanziarie: a livello nazionale, l’Agenzia dispone della cosiddetta “anagrafe dei rapporti finanziari”, un enorme database che raccoglie informazioni su tutti i conti correnti, depositi, carte e dossier titoli detenuti presso intermediari italiani. Sebbene per il risparmio amministrato non siano trasmessi i dettagli delle singole operazioni, l’anagrafe registra ad esempio l’esistenza di un conto trading amministrato e i flussi annuali complessivi. Se un contribuente dichiara zero redditi finanziari ma risulta aver movimentato milioni di euro su conti italiani, l’Ufficio può approfondire. Inoltre, in caso di verifica mirata, l’Agenzia o la Guardia di Finanza possono effettuare vere e proprie indagini finanziarie: mediante provvedimento possono ottenere dagli intermediari (italiani) gli estratti conto e i dettagli delle transazioni, per poi ricostruire i redditi. Questo strumento è usato soprattutto nelle verifiche di tipo redditometrico o nei confronti di soggetti sospettati di evasione significativa. Ad esempio, se un trader acquistasse beni di lusso dichiarando redditi bassissimi, potrebbe scattare un controllo economico-patrimoniale e, di riflesso, l’analisi dei suoi conti bancari.
- Disallineamenti segnalati da controlli automatizzati: l’Agenzia effettua controlli incrociati (matching) tra diverse comunicazioni fiscali. Per esempio, i broker italiani comunicano annualmente all’Amministrazione i dati aggregati delle minusvalenze compensate o riportabili dei clienti in regime amministrato. Se Tizio chiude il rapporto con Banca X portando a nuovo minusvalenze, e poi non le dichiara o non le utilizza, potrebbe emergere un’anomalia. Ancora: se un contribuente ha percepito dividendi esteri su cui ha diritto a un credito d’imposta estero (comunicazione ex art. 165 TUIR), e non lo indica, l’Agenzia potrebbe chiedere chiarimenti. Anche i dati sui trasferimenti da/per l’estero (RW o monitoraggio di flussi attraverso sistemi come money transfer) possono essere incrociati. In sostanza, molte omissioni emergono da incroci informatici, spesso segnalati al contribuente con una comunicazione di “compliance” (lettera bonaria) prima ancora dell’avviso formale.
- Volumi elevati e indicatori di attività abituale: benché, come detto, il trading personale non imponga di per sé l’apertura di P. IVA, volumi molto elevati di transazioni e guadagni potrebbero insospettire il Fisco circa la vera natura dell’attività. Non sono rari i casi di soggetti che, pur operando a titolo personale, hanno generato in un anno centinaia di migliaia di euro di plusvalenze. L’Ufficio potrebbe in tali casi approfondire per verificare se dietro vi sia in realtà un’attività professionale organizzata (ad esempio consulenza occulta a terzi, gestione di patrimoni altrui senza autorizzazione, oppure semplicemente contestare l’omessa dichiarazione se i redditi non risultano). In un’ordinanza del 2025, la Cassazione ha confermato un accertamento che attribuiva reddito d’impresa a un privato che effettuava vendite on-line continuative (caso eBay) proprio basandosi sul “significativo numero di transazioni” ripetute negli anni. Per analogia, un numero estremamente significativo di operazioni di trading potrebbe essere visto come elemento indiziario di attività professionale. Sarà comunque onere del Fisco provare l’abitualità e la professionalità dell’attività se intende riqualificarla.
- Trasferimenti di residenza all’estero (esterovestizione): molti trader itineranti si spostano in Paesi a fiscalità più vantaggiosa (UK, Emirati Arabi, Svizzera, Malta, Portogallo, ecc.) per godere di esenzioni o aliquote ridotte sui capital gains. Finché il trasferimento è genuino (residenza effettiva spostata, iscrizione AIRE, ecc.), nulla quaestio. Ma se il contribuente mantiene il centro dei propri interessi in Italia, limitandosi magari a una residenza fittizia all’estero, l’Agenzia può contestare l’esterovestizione della persona fisica, considerandolo ancora residente in Italia ai fini fiscali (art. 2 TUIR). Ciò comporta la tassazione in Italia di tutti i redditi mondiali e l’obbligo dichiarativo anche per l’attività di trading svolta “all’estero”. I controlli in questo campo si sono intensificati: le autorità incrociano dati di voli, transazioni con carte, utenze, social network e quant’altro per verificare dove la persona viva effettivamente. Dal 2024 sono stati introdotti criteri più stringenti e oggettivi di definizione della residenza fiscale: ad esempio la permanenza fisica in Italia per più di 183 giorni in un anno diventa di per sé criterio sufficiente a qualificare la residenza, anche se formalmente l’anagrafe dice il contrario. Inoltre l’iscrizione all’AIRE, prima condizione quasi assoluta, è divenuta una presunzione relativa (si può contestare con prova contraria); viceversa la mancata iscrizione all’AIRE genera presunzione (relativa) di residenza in Italia e persino specifiche sanzioni amministrative (introdotte dalla L. 197/2022, fino a €1.000 per ogni anno di omessa iscrizione). Insomma, se un trader dichiara di essersi trasferito a Dubai ma trascorre la maggior parte del tempo in Italia e qui mantiene famiglia e interessi, è assai probabile che l’Agenzia lo consideri residente italiano e faccia scattare accertamenti per omessa dichiarazione dei redditi di trading esteri (oltre a eventuali contestazioni sul transfer pricing se si tratta di società estere riconducibili al soggetto). La “prova contraria” in caso di contestazione di residenza fiscale spetta al contribuente, che dovrà dimostrare di aver realmente stabilito altrove il proprio domicilio e la propria dimora (esibendo contratto di locazione estero, bollette, iscrizione club/gym, evidenze di vita quotidiana fuori dall’Italia, etc.). Sul punto si tornerà nelle sezioni dedicate alla difesa.
- Altre cause: oltre alle situazioni sopra elencate, possiamo citare anche segnalazioni anonime o da terzi (ad es. una ex moglie in causa che segnala conti trading occultati dal marito), controlli a tappeto su determinate categorie (magari in seguito a un cambio normativo, come l’introduzione della tassazione crypto: nel 2023-24 l’Agenzia ha inviato questionari mirati ai possessori di criptovalute), oppure il semplice sorteggio di posizioni a rischio in base ad analisi di rischio. Inoltre, se il contribuente ha aderito a regimi agevolati (es. il neo-residente con flat tax 100k, o il regime impatriati 70%/90%), un uso anomalo di conti esteri potrebbe far scattare verifiche per verificare il rispetto delle condizioni.
In generale, il denominatore comune è la discrepanza tra quanto risulta al Fisco (da fonti esterne o da analisi) e quanto dichiarato dal contribuente. Quando l’Ufficio rileva tale discrepanza e la ritiene significativa, avvia il procedimento di accertamento: spesso prima con una richiesta di informazioni o un questionario inviato al contribuente (a cui è importante rispondere con attenzione), poi – se le spiegazioni non sono fornite o non sono convincenti – con l’emissione del vero e proprio avviso di accertamento. Nei casi più gravi può esserci un PVC (processo verbale di constatazione) della Guardia di Finanza a seguito di ispezione, che precede l’avviso.
Esempio pratico 1 – Omissione di redditi esteri: Mario, residente a Roma, fa trading sul mercato Forex tramite un broker inglese. Nel 2023 realizza un utile netto di €20.000, che lascia sul conto estero continuando a usarlo per tradare. Mario pensa che finché non riporta i soldi in Italia non debba nulla, così non indica nulla in dichiarazione per il 2023. Nel 2025 riceve però un avviso di accertamento dall’Agenzia: grazie ai dati CRS, il Fisco ha saputo del suo conto e dei guadagni. L’avviso recupera l’imposta sostitutiva del 26% sui €20.000 (= €5.200), più interessi e una sanzione per dichiarazione infedele al 90% dell’imposta evasa (circa €4.680) – importo calcolato secondo la normativa vigente per l’anno d’imposta 2023. Mario si trova quindi richiesti circa €5.200 + €4.680 = €9.880 più interessi. Nella sezione seguente vedremo come Mario potrà difendersi, ma questa vicenda evidenzia che non dichiarare i profitti esteri è estremamente rischioso, a prescindere dal rimpatrio dei fondi.
Contestazioni tipiche e strategie di difesa
Analizziamo ora nel dettaglio le contestazioni più comuni che un avviso di accertamento può contenere nei confronti di un trader, con riferimento alle norme violate, alle sanzioni applicate e – soprattutto – alle possibili linee difensive da adottare. Ogni caso ha le sue peculiarità, ma ricorrono alcuni schemi standard di accertamento a cui è bene prepararsi:
1. Omessa o infedele dichiarazione di plusvalenze da trading
La contestazione: il Fisco contesta che il contribuente ha omesso di dichiarare redditi di trading, oppure li ha dichiarati in misura inferiore al dovuto (dichiarazione infedele). Tipicamente ciò riguarda plusvalenze su strumenti finanziari non dichiarate nel quadro RT. Può riguardare persone fisiche (quadro RT del modello Redditi PF) ma anche società o ditte individuali che avessero plusvalenze tassabili e non le hanno indicate (in questo caso sarebbe infedele dichiarazione dei redditi societari).
Norme violate: articolo 4 del D.Lgs. 74/2000 (reato di dichiarazione infedele, se superate soglie penali – vedi dopo), articolo 5 del D.Lgs. 471/1997 (sanzione amministrativa per infedele dichiarazione), oppure art. 1 D.Lgs. 471/1997 (omessa dichiarazione) se addirittura non è stata presentata affatto la dichiarazione dei redditi. Nel caso di redditi esteri non dichiarati, si combina anche la violazione dell’art. 4 D.L. 167/90 (monitoraggio) per la mancata compilazione RW, che però tratteremo a parte.
Imposte dovute: l’avviso liquida l’imposta sostitutiva del 26% sulle plusvalenze non dichiarate (per gli anni recenti; era 20% prima del 2014 su molti strumenti, 12.5% su titoli di stato, ecc., dunque l’aliquota dipende dall’anno e dal tipo di asset). Se il contribuente non aveva alcun intermediario che ha funguto da sostituto d’imposta, l’intera tassazione è a carico suo in sede dichiarativa, quindi l’omessa dichiarazione significa imposta evasa. L’Agenzia ricalcola il dovuto spesso basandosi sulle informazioni in suo possesso: ad esempio, se dal CRS risulta che nel 2022 il contribuente ha prelevato da un broker estero €50.000 su un conto inizialmente vuoto, può ipotizzare che siano tutti guadagni e tassarli; oppure se vede movimenti di accredito su un conto italiano non giustificati da redditi noti, li considera ricavi di operazioni non dichiarate (presunzione ex art. 32 DPR 600/73: accrediti su conti non giustificati = redditi). Importante: se il contribuente ha avuto anche perdite nello stesso periodo o aveva perdite pregresse riportabili, in sede di accertamento è possibile far valere tali elementi per ridurre l’imponibile. Ad esempio, se l’Ufficio considera 100k di incassi come plusvalenze, ma in realtà erano 200k di guadagni e 150k di perdite con netto 50k, si deve insistere affinché il calcolo sia sul netto 50k. Sarà onere del contribuente fornire documentazione delle operazioni in perdita (estratti conto, report broker). La Cassazione ha affermato che l’accertamento deve basarsi sul reddito effettivo e non può ignorare elementi a favore emersi anche in sede contenziosa, in un’ottica di capacità contributiva reale.
Sanzioni applicate: la sanzione amministrativa per dichiarazione infedele (art. 1 comma 2 D.Lgs. 471/1997) – quando il contribuente ha presentato la dichiarazione ma con dati incompleti – era, fino al 2024, pari al 90% della maggior imposta dovuta (con un minimo di €250). Se la violazione superava determinate soglie (imposta evasa > €3.000 e >10% del reddito dichiarato) la sanzione saliva dal 135% al 270% nel massimo. Novità 2024: per le violazioni commesse dal 1/9/2024, la sanzione base per infedele dichiarazione è stata ridotta al 70% (range dal 70% al 140% in caso di maggiori imposte oltre soglie), sempre con minimo €250. In pratica più favorevole al contribuente. Se invece il contribuente non ha proprio presentato la dichiarazione, si applica la sanzione per omessa dichiarazione (art. 1 comma 1 D.Lgs. 471/97) che va dal 120% al 240% dell’imposta evasa (minimo €250), ridotta a metà se la dichiarazione viene presentata con ritardo entro i termini di accertamento. Queste sanzioni si sommano all’imposta evasa e agli interessi (calcolati al tasso legale annuo, attualmente 5% dal 2023, crescente rispetto a anni precedenti in cui era meno dell’1%).
Oltre alle sanzioni tributarie, se l’imposta evasa supera certe soglie, scattano i profili penali: il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) si configura se l’imposta evasa supera €100.000 e gli elementi attivi sottratti a tassazione superano il 10% di quanto dichiarato (o comunque €2 milioni); il reato di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) se l’imposta evasa supera €50.000. Nel contesto del trading, casi di rilevanza penale non sono infrequenti se i guadagni erano molto alti. Ad es., omissione di €300k di imposte configurerebbe reato. Tuttavia, l’accertamento fiscale segue il suo corso amministrativo indipendentemente dal penale (che richiede dolo specifico e valutazioni proprie).
Strategie di difesa: di fronte a una contestazione di omessa/infedele dichiarazione, le possibili difese si articolano su piani procedurali e di merito:
- Verificare la correttezza formale dell’atto: appena ricevuto l’avviso, controllare intestazione, firma digitale del direttore, motivazioni esplicitate e riferimenti normativi. Vizi formali come la mancanza di motivazione sufficiente o notifiche oltre i termini decadenziali possono portare all’annullamento. Ad esempio, se l’accertamento riguarda l’anno d’imposta 2017, doveva essere notificato entro il 31/12/2023 (6 anni, essendo intervenuto il DL 34/2019 che ha esteso di un anno); per il 2018, entro 31/12/2024, ecc. Se i termini sono stati superati, il provvedimento è decaduto. Altro aspetto: la motivazione per relationem ai dati CRS o alle risultanze di indagini deve essere specifica; se l’atto si limita ad affermare che “ci sono redditi non dichiarati” senza dettagliare quali e su che base, può essere contestato per difetto di motivazione (art. 7 L. 212/2000). Tuttavia, spesso gli avvisi allegano prospetti con la ricostruzione; occorre esaminarli attentamente.
- Richiedere l’accesso ai documenti e instaurare il contraddittorio: se l’accertamento scaturisce da dati finanziari, il contribuente ha diritto di vedere tali documenti. Si può fare istanza di accesso agli atti per ottenere il file CRS, il rapporto della GdF o altri elementi su cui si basa l’accusa. Inoltre, prima di emettere l’avviso, in alcuni casi l’Ufficio invia un invito al contraddittorio (soprattutto se vuole spingere a definire per adesione): partecipare a questa fase è cruciale. È l’occasione per fornire spiegazioni, documenti mancanti, evidenziare eventuali errori di calcolo. Talvolta è possibile convincere l’ufficio a rivedere (in diminuzione) la pretesa prima che l’atto diventi definitivo. Ad esempio, se il fisco ha conteggiato come guadagno un importo che invece era il reintegro del capitale, va mostrata la prova (es. bonifico iniziale verso il broker) e chiederne lo scomputo. Il contribuente può anche far valere l’errore scusabile se c’era incertezza normativa: nel caso delle criptovalute prima del 2023, ad esempio, molti non avevano dichiarato le plusvalenze ritenendo fossero esenti sotto soglia. L’Agenzia in alcuni casi su contestazioni relative a cripto ante 2022 ha mostrato flessibilità, riconoscendo che la disciplina non era chiara e applicando solo sanzioni minime o invitando al ravvedimento.
- Dimostrare la reale entità del reddito imponibile: la difesa di merito principale consiste nel dimostrare che il reddito effettivo è inferiore a quello accertato. Questo implica presentare tutti i dati delle operazioni. Caso tipico: l’Ufficio vede accrediti per €100.000 dal broker estero e presume siano profitto netto; il contribuente deve allora produrre l’estratto conto del broker evidenziando i versamenti iniziali e le perdite subite, per mostrare che magari dei €100k incassati, €80k erano il capitale investito che rientra (non tassabile) e solo €20k il profitto reale. Oppure che a fronte di certi realizzi positivi c’erano minusvalenze nello stesso anno ignorate dal Fisco. Tecnicamente, si può redigere un prospetto di ricalcolo delle plusvalenze anno per anno, allegando la documentazione a supporto, e chiedere in sede di adesione o di contenzioso che la base imponibile sia corretta. La giurisprudenza sostiene che nell’accertamento per sommatoria di movimenti il contribuente può dare prova contraria analitica. In Commissione tributaria, se si fornisce una ricostruzione puntuale e credibile dei flussi finanziari, spesso i giudici riconoscono la rideterminazione del reddito imponibile.
- Contestare la natura dei movimenti accertati: non tutto ciò che transita su un conto è reddito imponibile. Ad esempio, i prelievi dal conto trading verso il conto bancario non sempre sono profitti: potrebbero includere capitale originario. Se l’Agenzia li ha conteggiati erroneamente, va chiarito. Viceversa, attenzione: i depositi di fondi sul conto trading non generano di per sé reddito (infatti il fisco tassa i prelievi, non i depositi), ma potrebbero indurre l’ufficio a chiedere la provenienza di quei fondi (profilo antiriciclaggio o redditometro). In tal caso, bisogna essere pronti a giustificarli (es. “sono i miei risparmi già tassati, come da stipendio degli anni precedenti”, oppure “erano soldi ricevuti come donazione familiare” con relative prove). Se non si giustifica, l’Agenzia potrebbe trasformare l’accertamento in sintetico ai sensi dell’art. 38 DPR 600/73 (redditometro) presumendo che quel denaro arrivi da redditi occultati.
- Verifica delle soglie di punibilità e tenuità: se l’imposta evasa è modesta e al di sotto delle soglie penali, si può mettere in risalto che il fatto non ha rilevanza penale (ciò non elimina l’atto tributario, ma almeno esclude un profilo di gravità). Se invece la soglia è superata di poco, in sede penale (se si arriva a ciò) si potrà invocare eventualmente la particolare tenuità del fatto. Ma questo esula dalla difesa innanzi al fisco strettamente detto; tuttavia, far emergere collaborazione e buona fede può convincere l’Ufficio a irrogare le sanzioni nel minimo e a non spingere per denunce penali.
- Ravvedimento operoso o definizione agevolata: se l’accertamento non è ancora stato notificato ma il contribuente ha il sentore (es. perché ha ricevuto una lettera di compliance o un questionario) di essere nel mirino, fare ravvedimento operoso prima dell’avviso è la mossa migliore. Pagare spontaneamente l’imposta dovuta con sanzioni ridotte (persino 1/6 o 1/5 del minimo, a seconda dei casi di ravvedimento “lungo”) può evitare l’emissione dell’atto o portare comunque ad annullarlo. Una volta notificato l’avviso, il ravvedimento non è più ammesso; tuttavia entro i 60 giorni si può optare per l’acquiescenza: pagando interamente le somme richieste con la riduzione delle sanzioni ad 1/3. Ad esempio, se Mario del caso prima ha €4.680 di sanzioni infedele al 90%, pagando entro 60 giorni pagherà solo €1.560 di sanzione (1/3) oltre imposte e interessi. L’acquiescenza conviene se l’atto è fondato e difficilmente contestabile – si risparmia il 66% delle sanzioni. Se invece ci sono margini di difesa, è preferibile presentare istanza di accertamento con adesione: ciò sospende i termini per ricorrere e apre un confronto con l’ufficio. Nell’adesione, oltre a poter trovare un accordo sull’imponibile (ad esempio riconoscendo alcune perdite o riducendo parzialmente la pretesa), c’è il vantaggio che le sanzioni vengono comunque ridotte a 1/3 per definizione agevolata (come da D.Lgs. 218/1997). In alternativa, se si ritiene l’atto totalmente infondato, si può presentare ricorso in Commissione tributaria entro 60 giorni e successivamente valutare una conciliazione giudiziale (anche questa comporta sanzioni ridotte al 1/3 o 1/2 a seconda del momento).
- Casi particolari – tassazione crypto prima del 2023: merita un cenno la difesa nel caso di plusvalenze da criptovalute realizzate in anni precedenti alla nuova disciplina (ante 2023). In passato l’Agenzia assimilava le cripto a valute estere applicando la soglia di giacenza >51.645€ per 7 gg come requisito di imponibilità. Molti contribuenti non dichiararono nulla ritenendo di essere sotto soglia o interpretando diversamente la norma. In un eventuale accertamento su quegli anni, si può sostenere che mancava una base normativa chiara e che l’incertezza esentava da sanzioni. Dal 2023 la legge ha chiarito imponibilità e soglia di €2.000 (poi eliminata): per il passato si potrebbe invocare l’art. 10 Statuto del Contribuente (obiettiva incertezza) per ottenere quantomeno l’annullamento delle sanzioni. Inoltre, se l’Agenzia tenta di tassare in anni ante 2023 plusvalenze crypto senza soglia, si può fare leva sulle sue stesse circolari precedenti (es. Risoluzione 72/E/2016, Interpello 956-39/2018) che applicavano la regola del conto valutario.
Ricapitolando, la difesa contro un’accusa di mancata dichiarazione di redditi da trading consisterà nel: a) verificare vizi e termini; b) interloquire con documenti per abbattere l’imponibile presunto; c) utilizzare tutti gli strumenti deflativi per ridurre le sanzioni (ravvedimento se in tempo, adesione, acquiescenza se conviene); d) se si va in giudizio, produrre memorie chiare e documentate, magari supportate da consulenza tecnica se i calcoli sono complessi, in modo da convincere la Corte della propria ricostruzione.
2. Omessa compilazione del quadro RW (monitoraggio di conti e attività estere)
La contestazione: frequentemente un avviso a carico di un trader con attività transnazionali includerà la sanzione per omessa (o inesatta) dichiarazione degli investimenti esteri ex art. 4 D.L. 167/1990 (conv. L. 227/1990) come modificato. In pratica, se hai un conto trading estero non dichiarato in RW, oppure criptovalute su exchange estero non indicate, l’Ufficio contesterà questa violazione. È una contestazione aggiuntiva, che prescinde dalla tassazione dei redditi: anche se il conto fosse in pareggio o in perdita, il solo fatto di non averlo monitorato è sanzionabile.
Norme e sanzioni: la sanzione standard per omessa dichiarazione di attività finanziarie estere va dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato per ogni anno (riferimento: art. 5 DL 167/90, ora confluito nel D.Lgs. 472/97). L’importo su cui calcolare il 3-15% è il valore più alto dell’attività in ciascun anno (ad es. saldo massimo del conto estero). Se il Paese in cui erano detenute le attività era considerato “Paradiso Fiscale” (non cooperativo) per l’anno in questione, le misure raddoppiano: 6% al 30% per anno. Tuttavia, oggi molte giurisdizioni un tempo black list sono divenute white list (es. la Svizzera post-2017, San Marino post-2014, Montecarlo post-2009, ecc.), quindi la sanzione aggravata si applica solo se all’epoca il Paese era nella lista nera. Ad esempio, un conto in Svizzera non dichiarato nel 2015 comporta 6-30%, nel 2021 comporta 3-15% perché la Svizzera è passata collaborativa. Inoltre, giurisprudenza di Cassazione ha chiarito che per omissioni RW pluriennali si applica il cumulo giuridico: un’unica sanzione base aumentata fino al triplo, e non la somma aritmetica di tutti gli anni. Ciò può ridurre molto l’esborso: ad es., su 5 anni non dichiarati, invece di 5 volte il 3%, si può fare 3% + metà, ecc. (In sede di adesione, spesso l’ufficio propone direttamente un’unica sanzione cumulativa ridotta).
Esempio sulle sanzioni RW: Tizio aveva su un exchange estero criptovalute per un controvalore medio di €50.000 nel 2020, 2021, 2022 mai dichiarati. L’Agenzia può contestare 3 periodi. Se applichiamo il 15% per ciascuno sarebbero €7.500 ×3 = €22.500. Col cumulo giuridico, potrebbe invece essere (ad esempio) €7.500 aumentato al doppio = €15.000 totali, su cui poi in caso di adesione si fa 1/3.
Obblighi di monitoraggio – soglie: come visto nella sezione precedente, non tutti i casi richiedono RW. In particolare, per conti correnti e depositi esteri esiste una soglia di esenzione: se il valore massimo complessivo dei conti non supera €15.000 nell’anno, vi è esonero RW. Ma attenzione: tale soglia si applica solo ai conti bancari e analoghi (liquidità). Per investimenti in strumenti finanziari (azioni, bond, fondi, cripto, metalli preziosi, etc.) non c’è soglia di esenzione: vanno dichiarati a prescindere dall’importo. Quindi un conto trading estero con titoli deve essere dichiarato anche se valore 1.000 €. L’unica soglia generale è quella citata: depositi <15k. Inoltre conti con giacenza media sotto €5.000 possono non pagare IVAFE ma se superano 15k di picco vanno comunque indicati (per monitoraggio). Molti ignorano queste sottigliezze e incorrono in sanzioni.
Difendersi sulla violazione RW: la violazione RW è oggettiva, di tipo formale, quindi è difficile negare di aver omesso se effettivamente c’era il conto. La difesa in genere punta a ridurre la sanzione o a farla annullare per cause di non punibilità:
- Caso ravvedimento: se il contribuente, prima di qualsiasi contestazione, si accorge di non aver compilato RW, può fare un ravvedimento operoso “speciale” con riduzione fissa a 1/6 del minimo (per RW internazionale la legge prevede riduzioni più favorevoli, art. 13 co.5-bis D.Lgs. 472/97). Se però l’avviso è già arrivato, il ravvedimento non è più possibile.
- Cause di esonero soggettivo o oggettivo: controllare se per caso il contribuente rientrava in qualche esonero. Ad esempio, i contribuenti che si avvalgono del regime forfetario non sono esonerati dal quadro RW (deve compilarlo comunque). Le società di capitali non compilano RW (ma nel nostro caso trattiamo persone fisiche in genere). Se l’errore riguarda non il mancato monitoraggio ma l’IVAFE, si può sostenere che la giacenza media fosse sotto 5k e quindi l’omessa IVAFE non ha arrecato danno erariale (ma ciò non elimina l’obbligo RW se superava 15k max).
- Cumulo giuridico e continuazione: qualora l’Ufficio erroneamente cumuli materialmente le sanzioni (sommando 3% per ogni anno), occorre eccepire l’applicazione dell’art. 12 D.Lgs. 472/97 (continuazione): la Cassazione ha confermato che l’omessa dichiarazione RW pluriennale è una violazione continuativa, sanzionabile in unica soluzione. Questa eccezione può ridurre la pretesa sanzionatoria.
- Richiesta di esonero per obiettiva incertezza: un argomento usato in particolare per criptovalute prima del 2018: molti non le dichiararono in RW perché prive di intermediario estero “identificabile”, oppure le ritenevano assimilabili a valuta su un wallet personale (non soggetto formalmente a obbligo). L’Agenzia col tempo ha chiarito che anche wallet privati dovrebbero essere dichiarati se la chiave è detenuta all’estero, ma è un tema fumoso. Si può invocare l’incertezza della norma per far annullare la sanzione (art. 6 comma 2 D.Lgs. 472/97: non sanzionabilità se violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza). Analogamente per chi non sapeva del superamento soglia conti.
- Moderazione in sede di adesione o giudizio: spesso le Entrate, riconoscendo che la violazione RW è formale e che magari il contribuente ha già subito la tassazione dei redditi, sono disponibili in sede di adesione a ridurre la sanzione al minimo. In giudizio, si può chiedere al giudice di applicare il minimo edittale (3%) e magari le circostanze attenuanti per ulteriori riduzioni (ad esempio se c’è cooperazione durante il controllo).
- Prescrizione: attenzione ai termini: la sanzione RW può essere irrogata entro il 31/12 del quinto anno successivo a quello in cui la violazione è commessa (termine raddoppiato a 10 se la violazione integra reato). Normalmente coincide coi termini dell’accertamento reddituale. Se l’ultimo anno accertabile era il 2017 e l’avviso arriva nel 2024, la parte RW per 2017 sarebbe decaduta.
In conclusione, per la violazione RW l’obiettivo è spesso transare: pagando il dovuto con sanzione ridotta. Esempio: Caio ha un conto a San Marino non dichiarato 2018-2020. L’accertamento richiede 3% annuo su €100k = €9k per 3 anni = €27k. Caio chiede adesione e ottiene sanzione unica 3% con aumento 1/2 = €4.5k, ridotta 1/3 = €3k. Paga €3k invece di 27k. Questo è un esito realistico di trattativa.
3. Riqualificazione dell’attività di trading in attività d’impresa
La contestazione: l’Agenzia, oltre a chiedere le imposte sul singolo reddito non dichiarato, può talvolta sostenere che il contribuente in realtà svolgeva una vera e propria attività imprenditoriale di trading, non dichiarata come tale. Ciò avviene in particolare se il soggetto ha realizzato volumi molto alti e ripetuti nel tempo, magari organizzandosi con più conti, software sofisticati, ecc. La contestazione consiste nel recuperare le imposte come reddito d’impresa anziché come redditi diversi.
Profilo fiscale in caso di riqualificazione: se il trading viene qualificato come impresa di fatto, le conseguenze sono: si richiede l’IRPEF sulle plusvalenze al netto dei costi deducibili come reddito d’impresa (aliquote progressive fino a 43%), l’IVA potrebbe non essere applicabile perché le operazioni su strumenti finanziari sono esenti art. 10 DPR 633/72 (quindi niente IVA, ma l’Ufficio può contestare la mancata apertura della partita IVA), e soprattutto si richiede l’IRAP sul presunto valore della produzione netta (che però, se è solo attività finanziaria senza organizzazione di beni strumentali o personale, è discutibile se vi sia base imponibile IRAP; ma l’Agenzia a volte la calcola sulla differenza tra ricavi e costi). Inoltre, scattano sanzioni per infedele dichiarazione non solo per l’omesso quadro RT ma anche per aver dichiarato un reddito diverso da quello reale. Ad esempio, in un caso ipotetico: Tizio negli anni 2019-2021 ha guadagnato 300k trading ma non li dichiara; l’Agenzia potrebbe dire: era impresa, dovevi presentare dichiarazione P.IVA, pagare IRPEF e IRAP. Recupera IRPEF su 300k (magari ~43% = 129k), IRAP su 300k (3.9% = 11.7k), sanzioni al 90% su IRPEF evasa e 30% su IRAP evasa, ecc. Il colpo per il contribuente è molto più pesante rispetto al semplice 26%.
Fondamento giuridico: l’argomentazione dell’Ufficio si baserà sull’art. 55 TUIR (“esercizio di imprese commerciali”) e sull’art. 5 DPR 600/73 (accertamento d’ufficio di redditi d’impresa non dichiarati). Indicherà come indizi la professionalità e abitualità delle operazioni. Potrebbe citare giurisprudenza su casi analoghi (il già citato caso vendite eBay, Cass. 7552/2025; Cass. 20065/2022 su vendite immobiliari, ecc.) per affermare che se un’attività è sistematica e non occasionale, costituisce impresa anche se non formalizzata.
Possibili difese: questa è forse la contestazione più controversa, perché tocca la qualificazione giuridica dell’attività. Le difese principali:
- Negare il presupposto dell’abitualità professionale: il contribuente deve evidenziare che, per quanto numerose fossero le operazioni, egli agiva come investitore privato, senza assumere verso terzi obblighi di servizio né porsi sul mercato come operatore professionale. Può sottolineare l’assenza di segni tipici dell’impresa: nessuna struttura organizzativa (uffici, dipendenti, pubblicità), nessuna offerta di servizi a clienti, nessuna intermediazione di beni di terzi. In pratica, far emergere che l’attività era limitata alla gestione del proprio patrimonio (ciò rientra nel diritto di ciascuno di amministrare i propri soldi). Si possono citare pareri e prassi: ad esempio la stessa dottrina fiscale (come riportato da Fisco&Tasse) afferma chiaramente che il trading in conto proprio non è di per sé impresa. L’Agenzia delle Entrate nelle sue risoluzioni (102/E/2011, 71/E/2016) ha sempre inquadrato i redditi da trading online di privati tra i redditi diversi art. 67, mai ha preteso l’apertura IVA. Se l’Ufficio locale tenta la riqualificazione, si potrebbe eccepire che contraddice la prassi consolidata dell’Amministrazione.
- Contestare il metodo accertativo: spesso per riqualificare a impresa, l’Agenzia procede con accertamento induttivo ex art. 39 DPR 600/73, soprattutto se non c’erano dichiarazioni. Il contribuente può contestare la ricostruzione induttiva se basata su presupposti errati (ad esempio, l’Ufficio potrebbe aver considerato “ricavi” lordi tutte le vendite di titoli, ignorando gli acquisti: questo va fatto notare, altrimenti pare che il contribuente abbia guadagnato milioni quando erano solo movimenti). In Cassazione esistono precedenti dove si annulla l’accertamento perché il giudice di merito non ha effettivamente verificato l’esistenza di un’attività stabile nel tempo. Se la contestazione riguarda solo un anno isolato in cui c’è stato molto trading, far notare che limitato a un singolo periodo d’imposta non può parlarsi di stabilità pluriennale. Ad esempio, un picco di operazioni nel 2021 magari fu episodico.
- Focus sulla natura delle operazioni: si può argomentare che il trading finanziario non rientra tra le attività commerciali tipiche ex art. 2195 c.c. L’elenco del codice civile parla di produzione di beni, scambio di beni, servizi, intermediazioni. Il trading per conto proprio non è nulla di ciò: non c’è scambio “con terzi” (quando compro e vendo titoli, la controparte di mercato è anonima, non ho una relazione commerciale continuativa). In dottrina alcuni assimilano il trading a un’operazione speculativa isolata, priva di organizzazione d’impresa. Questa è una linea più tecnica, ma può convincere i giudici: diversamente qualsiasi investitore di Borsa di successo sarebbe un imprenditore, il che contrasta con la normativa speciale sui capital gain (che prevede chiaramente l’imposta sostitutiva per le persone fisiche). Si può sostenere che riqualificare il trading privato in impresa significherebbe rendere inapplicabile l’intera normativa sui redditi diversi finanziari per chiunque abbia un’attività intensa, cosa mai indicata dal legislatore.
- Prescrizione e anni accertati: spesso la riqualificazione arriva contestualmente a più annualità (per dimostrare l’abitualità). Verificare se tutte le annualità sono accertabili. Se alcuni anni sono decaduti, chiederne lo stralcio.
- Costi deducibili e regimi forfettari: in subordine, se proprio passasse la tesi dell’impresa, assicurarsi che almeno vengano dedotti tutti i costi inerenti: collegamenti internet, hardware, formazione, interessi su eventuali margin loans, ecc. Inoltre verificare se per caso il contribuente avrebbe potuto optare per regime forfettario (se i ricavi impresa <65k): magari nel periodo accertato c’era la possibilità di tassazione 5% o 15%. Farlo presente per ragionare su un eventuale accordo (anche se l’adesione a posteriori al forfettario non è prevista, può essere spunto di trattativa per ridurre il carico sanzionatorio).
- Contributi previdenziali: l’INPS spesso viene attivato dall’Agenzia in caso di riqualificazione in impresa commerciale, pretendendo l’iscrizione alla Gestione Commercianti e i contributi arretrati (24% circa del reddito annuo, minimo sui 15k). Anche questo va considerato: in sede di adesione col Fisco si può mettere sul tavolo un verbale congiunto che regoli anche il versante contributivo (lo consente l’art. 1 co. 2 D.Lgs. 218/97). Argomentare eventualmente che se non c’è vera attività verso il pubblico, l’iscrizione commercianti è discutibile (c’è giurisprudenza che esclude l’obbligo contributivo per chi gestisce proventi finanziari propri, in quanto non vendendo beni a terzi non è “commerciante” in senso INPS).
In definitiva, la difesa mira a demolire l’assunto che il contribuente fosse un imprenditore occulto. Se si riesce a far accettare che era un privato, allora l’accertamento dovrebbe limitarsi al recupero del 26% (come visto al punto 1, con sanzioni ridotte). Spesso questa contestazione è usata dall’Ufficio come leva per spaventare e indurre a una definizione: si prospetta un carico elevatissimo (IRPEF+IRAP+IVA) per poi transare su imposta sostitutiva e chiudere. È una sorta di “accusa alta” da cui scendere a compromesso.
Esempio pratico 2 – Contestata impresa individuale: Luca, disoccupato, nel 2020-2021 effettua trading intraday su azioni USA da casa, con risultati eccezionali: guadagna €150.000 nel 2020 e €200.000 nel 2021, non dichiara nulla pensando che tanto il broker è estero e non ha comunicato (sbagliando). L’Agenzia nel 2024 gli notifica un accertamento per entrambi gli anni, qualificando l’attività come impresa: recupera IRPEF ~43% su €350k = ~€150k, IRAP 3.9% su €350k = €13.6k, più €50k di sanzioni. Totale oltre €210k! Luca è sconvolto. Nel ricorso evidenzia che non aveva nessuna organizzazione, era un semplice risparmiatore, e richiama Cassazione e dottrina a suo favore. La Commissione tributaria gli dà ragione sulla qualificazione, riconducendo il tutto a redditi diversi: il debito tributario viene ridotto a €91k (26% di 350k) e siccome Luca nel frattempo aveva perdite nel 2022 per €50k, riesce a farle considerare in diminuzione (dimostrando che erano operazioni collegate). Quindi imposta dovuta ~€78k, sanzioni infedele (ridotte per adesione magari) €18k. Morale: Luca paga circa €96k invece di 210k, ed evita di essere considerato imprenditore. Resta comunque un conto salato per non aver dichiarato spontaneamente (se avesse pagato il 26% in origine, avrebbe pagato €91k e basta, senza sanzioni).
4. Trasferimento all’estero ed esterovestizione della residenza (persone fisiche e società)
La contestazione: se il trader ha trasferito la residenza fiscale all’estero, l’Agenzia può contestare che si tratti di un trasferimento fittizio volto a evadere le tasse italiane. Analogo concetto per le società: una società estera utilizzata per fare trading potrebbe essere considerata esterovestita, cioè di fatto residente in Italia (art. 73 TUIR prevede che una società estera con sede di direzione effettiva in Italia è tassata come residente).
Persone fisiche: l’accertamento di esterovestizione implica che per gli anni in cui l’interessato si dichiarava non residente (iscritto AIRE o comunque all’estero), venga considerato invece residente e tassato su base mondiale. Ciò comporta recupero di imposte su tutti i redditi esteri non dichiarati (inclusi quelli di trading), sanzioni per omessa dichiarazione e interessi, come visto nei punti precedenti. Ad esempio, se un trader si trasferisce a Montecarlo nel 2022 ma il fisco prova che era ancora di fatto in Italia, quest’ultimo può chiedere IRPEF su eventuali plusvalenze crypto realizzate a Montecarlo (che lì sarebbero esenti, ma in Italia no).
La prova della residenza fiscale è spesso basata su vari indizi: permanenza sul territorio >183 giorni (ora criterio oggettivo dal 2024), domicilio in Italia (centro interessi familiari, es. famiglia rimasta in Italia), iscrizione AIRE mancante o tardiva, evidenze di vita quotidiana (carte di credito usate in Italia, celle telefoniche, utenze attive, ecc.). Dal 2024 come detto la normativa si è irrigidita in alcuni aspetti e ammorbidita in altri (presunzioni relative vs assolute), ma il principio resta: bisogna provare dove si vive stabilmente.
Difese per persone fisiche: se si riceve un accertamento per residenza fittizia, occorre raccogliere tutte le prove di radicamento all’estero: contratti di casa, bollette pagate, certificati di iscrizione a club/palestre, conti correnti utilizzati all’estero, testimonianze, etc. Inoltre, se esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni col Paese estero, si può invocare il tie-breaker rule (criteri per stabilire la residenza prevalente: abitazione permanente, interessi vitali, nazionalità). Ad esempio, con Malta c’è convenzione: uno potrebbe essere formalmente residente in entrambi, la convenzione decide in base a dove ha il centre of vital interests. Nel contenzioso si può far valere la prevalenza del Paese estero se realmente fondata.
Un altro fronte difensivo è procedurale: la Cassazione ha affermato che l’Amministrazione non può semplicemente presumere la residenza solo perché la persona era iscritta all’anagrafe italiana (ora è presunzione relativa). Devono motivare bene l’atto. Se l’accertamento è generico (es. “poiché risultava proprietario di immobile in Italia si presume residente”), si può far leva sul difetto di motivazione. Da non trascurare poi l’aspetto sanzionatorio: il trasferimento in Paesi black list fino al 2019 comportava raddoppio termini accertamento e presunzione quasi assoluta di residenza. Dal 2020 questa presunzione è relativa, quindi un contribuente trasferito in UAE ad esempio dal 2021 può vincere la presunzione mostrando di avere effettivamente vissuto lì (pur essendo Paese a fiscalità privilegiata).
Società esterovestite: se il trader opera tramite una società estera (es. una LTD inglese o una LLC offshore) ma di fatto la gestisce dall’Italia (decisioni operative prese in Italia, luogo di amministrazione in Italia), l’Agenzia può dichiarare la società fiscalmente residente in Italia. In tal caso, la società verrebbe tassata in Italia su tutti i suoi redditi (IRES 24%, IRAP se dovuta) e se non ha presentato dichiarazioni in Italia commette violazioni analoghe all’omessa dichiarazione. Inoltre, i dividendi o utili che la società ha trasferito al socio potrebbero essere considerati distribuiti e tassati come tali (per evitare doppia imposizione, i redditi societari tassati in capo alla società poi saranno neutri se già tassati; ma spesso l’Agenzia in questi casi colpisce o la società o il socio, per evitare duplicazioni).
Difesa società esterovestita: serve provare che la sede direzionale effettiva era all’estero: verbali di assemblee e CdA tenuti fuori Italia, sede amministrativa con ufficio estero, decisioni prese da amministratori localizzati all’estero, ecc. Non è facile se la realtà è che era una buca lettere. In mancanza di forti evidenze contrarie, spesso conviene negoziare: magari chiudendo la posizione societaria con la tassazione come se fosse italiana (utilizzando eventualmente la branch exemption se ne aveva diritto, o liquidando la società e tassando una tantum).
Conseguenze penali: l’esterovestizione può integrare il reato di omessa dichiarazione (art.5 D.Lgs.74/2000) se imposte evase > €50k per periodo. Spesso in casi clamorosi (es. personaggi che si fingevano residenti a Montecarlo ma stavano sempre in Italia) si procede anche penalmente. Per le società esterovestite può configurarsi anche la frode fiscale se si sono usati documenti per simulare estero (art. 3 D.Lgs.74/2000).
Esempio pratico 3 – Trasferimento contestato: Stefania, trader di criptovalute, si trasferisce in Portogallo nel 2022 per sfruttare l’esenzione locale su crypto. Non si iscrive all’AIRE però (un po’ per negligenza) e mantiene la casa di proprietà a Milano dove risiede il compagno. Nel 2025 l’Agenzia le notifica accertamenti per 2022 e 2023, considerandola residente in Italia (in mancanza di AIRE, presunzione di residenza) e chiedendo il 26% su tutte le plusvalenze crypto che lei aveva realizzato nel frattempo. Stefania fa ricorso mostrando che in Portogallo aveva affittato casa dal 2022, vi trascorreva almeno 8 mesi l’anno (allega ricevute pedaggi autostradali, spese mediche portoghesi, ecc.), e che il compagno spesso la raggiungeva. La CT di primo grado, applicando anche la nuova norma 2024 sulla prevalenza della permanenza fisica, verifica che Stefania in realtà in ciascun anno non superò i 183 giorni in Italia (grazie a timbri passaporto e dati di roaming). Dunque propende per considerarla residente estera. L’accertamento viene annullato. (Se invece i giorni fossero incerti, magari la decisione sarebbe andata diversamente: in materia di residenza, ogni prova conta).
5. Altre contestazioni possibili (illeciti finanziari, abuso del diritto)
Oltre ai grandi temi già trattati, menzioniamo brevemente altre contestazioni meno frequenti ma possibili:
- Abusivismo finanziario: se un soggetto raccoglie denaro da terzi per investirlo senza autorizzazioni (violando l’art. 166 TUF), rischia sanzioni penali. Fiscalmente, i proventi di tale attività restano imponibili e l’Agenzia li tasserebbe comunque (magari come redditi diversi o d’impresa illecita). La difesa qui è complessa perché c’è un reato a monte. Non rientra nel trading proprio, ma se un “finto trader” gestiva soldi altrui illegalmente, oltre al penale dovrà pagare le tasse sui compensi percepiti (non può neanche dedurre eventuali restituzioni ai truffati perché sarebbero proventi illeciti non deducibili).
- Violazione della Tobin Tax: l’Italia ha una imposta sulle transazioni finanziarie (0,2% sulle compravendite di azioni italiane, 0,02% su alcuni derivati, legge 228/2012). Se un trader doveva pagarla e non l’ha fatto (di solito i broker la applicano automaticamente, ma se uno opera con strumenti non soggetti a sostituto potrebbe omettere), l’Agenzia può recuperarla con sanzione 30%. È rara come contestazione autonoma.
- Società di comodo: se il trader ha una sua società in Italia che però non raggiunge mai il minimo di ricavi richiesti dalla normativa sulle società non operative, il Fisco può disconoscere le perdite e pretendere l’aliquota IRES maggiorata. Esempio: una SRL di trading con patrimonio alto ma pochi redditi rischia di essere considerata non operativa. Occorre in tal caso presentare istanza di disapplicazione o dimostrare che non era possibile ottenere ricavi maggiori (la legge prevede esimenti).
- Abuso del diritto: potrebbe essere contestato in casi in cui, ad esempio, un contribuente ha frazionato artificiosamente le attività tra più soggetti per restare sotto soglie o ha usato strumenti particolari solo per vantaggi fiscali. Nel trading puro è difficile configurare abuso, ma un esempio potrebbe essere: un soggetto che trasferisce le crypto a un parente residente all’estero per farle vendere a tassazione zero e poi se le fa donare indietro. L’Agenzia potrebbe qualificarlo come abuso e tassarlo come vendita propria. La difesa sarebbe dimostrare la sostanza economica genuina dell’operazione (es. era una donazione vera e non uno schema elusivo).
In ogni caso, l’abuso viene contestato con atto ad hoc citando l’art. 10-bis L. 212/2000, e prevede contraddittorio obbligatorio preventivo. Il contribuente deve giustificare le ragioni extra-fiscali reali delle operazioni.
Procedura di accertamento e strumenti di tutela del contribuente
Dopo aver esaminato il merito delle contestazioni, è utile riepilogare brevemente come funziona il procedimento di accertamento e quali sono gli strumenti difensivi procedurali a disposizione del contribuente-trader.
Iter dell’accertamento: generalmente, prima di emettere un avviso di accertamento, l’Agenzia delle Entrate invia al contribuente una comunicazione preliminare (lettera di compliance) se trattasi di incongruenze riscontrate automaticamente, oppure un questionario (ai sensi dell’art. 32 DPR 600/73) per richiedere informazioni/documenti. In certi casi, specie se sono coinvolte verifiche sul campo o indagini finanziarie, c’è la redazione di un Processo Verbale di Constatazione (PVC) da parte della Guardia di Finanza. Il contribuente ha facoltà di presentare osservazioni entro 60 giorni dal PVC (art. 12 c.7 L. 212/2000) prima che l’Agenzia emetta un accertamento. Terminata l’istruttoria, l’Ufficio emette l’avviso di accertamento motivato, indicando le maggiori imposte, sanzioni e interessi dovuti, nonché le modalità e i termini per pagare o impugnare.
Dal 1° luglio 2011 gli avvisi di accertamento sono “esecutivi”: ciò significa che decorsi 60 giorni dalla notifica, se non è stato interamente pagato o impugnato con richiesta di sospensione, l’importo può essere affidato all’Agente della Riscossione (oggi Agenzia Entrate Riscossione) per l’esecuzione forzata. In realtà, la norma prevede che, in caso di ricorso, sia comunque possibile la riscossione di un importo pari a 1/3 delle imposte accertate dopo 30 giorni dalla notifica del ricorso (il cosiddetto “importo provvisoriamente esigibile”), a meno che il contribuente non ottenga una sospensiva dal giudice tributario. Quindi, se si fa ricorso senza chiedere (o senza ottenere) la sospensione, bisogna essere pronti a pagare un terzo del dovuto durante la pendenza del giudizio di primo grado. Se poi il contribuente perde in primo grado, l’Agenzia può riscuotere altri 2/3; se perde in secondo grado, anche il residuo, ecc.
Diritti del contribuente: lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) garantisce alcuni diritti, ad esempio: diritto al contraddittorio anticipato (non generalizzato per tutte le materie tributarie interne, ma previsto in alcune fattispecie, e in via generale auspicabile), diritto alla motivazione dell’atto, diritto all’accesso agli atti, diritto di essere assistito da un professionista di fiducia, etc. Inoltre, per le materie complesse come l’esterovestizione, è previsto che l’ufficio centrale (Direzione Regionale) dia il via libera: questo per evitare contestazioni azzardate. Il contribuente può sempre chiedere autotutela all’ufficio (riesame volontario dell’atto) se ravvisa errori palesi.
Strumenti deflativi e risolutivi:
- Ravvedimento operoso: come già accennato, prima che arrivi l’avviso, consente di sanare pagando spontaneamente con sanzioni ridotte (art. 13 D.Lgs. 472/97). Nel contesto di trading, il ravvedimento può essere fatto sia per l’imposta sostitutiva dovuta (26%) sia per quadro RW (versando sanzione ridotta del 0,1% o simile per ogni mese di ritardo in caso di ravvedimento entro 2 anni, etc.). Dopo la notifica dell’accertamento, il ravvedimento non è più consentito per l’anno coinvolto.
- Accertamento con adesione: disciplinato dal D.Lgs. 218/1997, offre la possibilità di “trattare” con l’ufficio. Si può presentare istanza di adesione entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso; ciò sospende automaticamente per 90 giorni i termini per ricorrere. Segue un invito in ufficio per discutere. Se si raggiunge un accordo, viene redatto un atto di adesione con le nuove somme dovute. Vantaggi: sanzioni ridotte a 1/3 del minimo previsto (se l’atto era infedele 90-180%, il minimo 90 ridotto a 30%), nessun obbligo di pagare 1/3 subito (perché si chiude prima), rateizzabile in 8 rate trimestrali (o 16 se importi >50k). In caso di adesione su quadro RW, spesso l’ufficio può applicare direttamente il cumulo giuridico e ridurre al minino 3%. Lo svantaggio è che l’adesione una volta perfezionata preclude il ricorso (diventa definitiva).
- Reclamo-mediazione: se l’importo contestato (sommatoria di imposte e sanzioni) è fino a €50.000, il contribuente deve presentare prima del ricorso un’istanza di reclamo-mediazione (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). È un procedimento amministrativo in cui si può proporre un accordo con l’ufficio (di solito sanzioni ridotte a 1/3). Per un trader che riceve, ad esempio, un avviso da €30k, si seguirà questa via. Se l’ufficio accoglie parzialmente o totalmente, si chiude; sennò dopo 90 giorni l’istanza si converte in ricorso pendente.
- Ricorso tributario: se non si aderisce o media, l’unica è fare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di I grado (nuova denominazione delle Commissioni Tributarie Provinciali) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (o 150 giorni se si è presentata istanza di adesione nel frattempo). Nel ricorso si devono indicare i motivi di fatto e diritto contestando l’atto. Importante chiedere eventualmente la sospensione dell’esecuzione (art. 47 D.Lgs. 546/92) se le somme sono elevate e si rischia la riscossione prima della sentenza. Il giudice concede la sospensione se ricorrono fumus boni iuris (motivi fondati) e periculum in mora (danno grave e irreparabile nel pagare). Nel caso di cifre ingenti o situazione patrimoniale precaria del ricorrente, conviene richiederla.
- Gradi successivi: dopo la sentenza di primo grado, se sfavorevole, si può appellare alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado (ex Commissione Regionale) entro 60 giorni. E poi eventualmente ricorrere in Cassazione. Questi passi sono onerosi e lunghi (anche se la riforma del 2022 ha potenziato i giudici togati e introdotto filtri). Spesso conviene cercare una chiusura anticipata: ad esempio, in appello è possibile fare una conciliazione giudiziale con l’ufficio (con sanzioni ridotte al 40% del minimo se si chiude prima dell’udienza, o 50% se in udienza).
- Definizioni agevolate: il legislatore talvolta offre sanatorie per le liti pendenti o per gli accertamenti non ancora definitivi (ad esempio la definizione agevolata 1/18 della L. 197/2022 sulle cause pendenti). Un contribuente in contenzioso deve tenersi informato se arrivano opportunità simili, che consentono di chiudere pagando magari solo l’imposta senza sanzioni. Nel 2023 ad esempio c’è stata la possibilità di definire gli avvisi 2019-2021 con sanzione 1/18 se non impugnati e impugnabili. Queste norme variano, vanno colte al volo se favorevoli.
Costi della difesa: il trader deve anche considerare i costi di una difesa tecnica. Per contenziosi fino a €3.000 non è necessaria assistenza tecnica (ci si può difendere da soli), oltre è richiesto un difensore abilitato (commercialista, avvocato tributarista, ecc.). Le spese legali e di consulenza possono essere recuperate se si vince totalmente (il giudice di regola condanna l’Agenzia alle spese). Se si vince parzialmente, spesso le spese si compensano.
Attenzione alle scadenze: rispettare i 60 giorni per agire è cruciale. Non ignorare l’atto sperando che decada: dopo 60 giorni diventa definitivo e dopo altri 30-60 inizieranno le cartelle esattoriali, fermo restando che l’avviso stesso è titolo esecutivo. Come detto prima, non fare nulla è l’errore peggiore: ci si troverà poi con pignoramenti o fermi amministrativi.
Esempio pratico 4 – Uso dell’adesione: Fabio riceve un avviso per €40.000 (26k imposta + sanzioni 14k). Potrebbe ricorrere, ma la sua posizione non è fortissima (ha effettivamente dimenticato di dichiarare dei redditi). Decide di presentare istanza di adesione. Durante il colloquio, l’Ufficio riconosce che Fabio aveva una minusvalenza pregressa di €5k che non era stata considerata. Quindi riduce l’imponibile: imposta dovuta su €21k (invece di 26k) = €5.460. Sanzione infedele ridotta a 1/3 del minimo (minimo era 90% di 5.460 = 4.914, 1/3 = €1.638). Totale con interessi €7.200 circa. Fabio sottoscrive l’adesione e chiede di pagare in 8 rate trimestrali ~€900 ciascuna. Evita così il contenzioso e risolve con un esborso sostenibile. Se non avesse aderito, forse avrebbe pagato di più (magari un 1/3 con acquiescenza ma su base più alta, o rischiato sconfitta in giudizio con sanzioni intere).
Domande frequenti (FAQ)
D1: Ho fatto migliaia di operazioni di trading quest’anno come privato: devo aprire partita IVA?
R: In generale, no. Se operi esclusivamente con capitali tuoi, per fini di investimento personale, anche un volume elevatissimo di operazioni non ti obbliga ad aprire partita IVA. I tuoi guadagni rimangono redditi diversi soggetti a imposta sostitutiva 26%. L’apertura di una posizione IVA serve se fornisci un servizio a terzi o se l’attività configura un’impresa. Il mero trading per conto proprio non è qualificato come attività commerciale abituale ai fini IVA. Dovrai invece aprire IVA se inizi ad operare come prop trader (su capitali altrui con contratto) o se vuoi strutturarti in forma di impresa (es. costituisci una ditta o società di trading).
D2: Ho avuto solo perdite dal trading, rischio comunque un accertamento?
R: Se complessivamente non hai realizzato plusvalenze tassabili (ad esempio hai chiuso l’anno in perdita netta) e hai comunque compilato correttamente il quadro RT indicando le minusvalenze da riportare, non hai evaso imposte – dunque è improbabile un accertamento per imposta evasa. Tuttavia, fai attenzione: devi comunque presentare la dichiarazione se hai effettuato operazioni che generano redditi diversi, anche se a saldo negativo, per segnalare le minusvalenze riportabili. Inoltre, se le attività erano su conti esteri, l’obbligo RW sussiste a prescindere dall’esito (anche con perdite dovevi indicare il conto). L’Agenzia potrebbe contestare l’omesso monitoraggio anche in assenza di redditi tassabili. In pratica, perdite non generano imposta ma non ti esonerano dagli obblighi dichiarativi formali. Se hai perso soldi ma l’Agenzia vede movimenti esteri non dichiarati, potrebbe comunque farti domande (per verificare che davvero non vi fossero utili nascosti). Tieni pronti i prospetti di perdita da esibire nel caso.
D3: Se lascio i profitti sul conto estero e non li riporto in Italia, devo pagare le tasse ugualmente?
R: Sì. La tassazione avviene per il solo fatto che realizzi la plusvalenza (vendi un asset a un prezzo maggiore di acquisto) o maturi un reddito finanziario, indipendentemente dal rimpatrio. È un luogo comune errato pensare che finché i soldi “restano fuori” non si paghi nulla. Per un residente fiscale italiano, i redditi ovunque prodotti sono imponibili. Se ad esempio vendi azioni con profitto di €5.000, devi dichiarare e versare €1.300 di imposta (26%), anche se i soldi restano sul conto estero. Ovviamente, se lasci i fondi all’estero devi anche indicarli in RW finché vi rimangono. Solo in caso di trasferimento di residenza all’estero (effettivo) i guadagni successivi potrebbero non essere più imponibili in Italia, ma in Italia finché sei residente conta il realizzo, non il rimpatrio.
D4: L’Agenzia Entrate mi ha chiesto informazioni via lettera sulle cripto: devo rispondere?
R: Sì, conviene assolutamente rispondere in modo veritiero e completo nei termini indicati. Un questionario dell’Agenzia (o una “lettera di compliance”) è un segnale che hanno dati su di te. Ignorarlo o fornire risposte false aggrava la situazione: si passa quasi certamente all’accertamento e potresti incorrere in sanzioni ulteriori (anche penali se si mente in atti). Rispondendo, invece, puoi spiegare la tua posizione, magari ravvederti nel frattempo se sei ancora in tempo, o evidenziare che potresti aver diritto a esenzioni. La collaborazione spesso porta a un esito più favorevole (l’Ufficio talora archivia se capisce che non c’è evasione significativa, o invita a ravvederti). Se non sei sicuro di come rispondere (sono temi tecnici), fatti assistere da un professionista per compilare la risposta.
D5: Posso compensare le plusvalenze da trading con altre perdite (es. perdita d’impresa o oneri deducibili)?
R: No, le plusvalenze finanziarie dei privati (redditi diversi) non confluiscono nel reddito complessivo IRPEF e quindi non possono essere compensate con altri redditi negativi di categoria diversa. Fanno partita a sé. Puoi compensarle solo con minusvalenze della stessa categoria (per esempio perdita su azioni con guadagno su azioni) riportate nei 4 anni. Se invece svolgi attività d’impresa e il trading fosse parte dell’impresa, allora rientrerebbe nel bilancio e sarebbe compensato con gli altri componenti (ma sarebbe scenario diverso: reddito d’impresa, non reddito diverso). In sintesi, il 26% su un capital gain finanziario è “secco”; non puoi abbatterlo dichiarando spese personali o perdite di altro tipo. Quello che puoi/dovresti fare è dichiarare anche le minusvalenze per poterle usare negli anni successivi.
D6: Cosa succede se porto le mie attività crypto su un wallet privato non custodial? Devo dichiararlo in RW?
R: Il monitoraggio fiscale (quadro RW) riguarda le attività estere custodite presso intermediari esteri. Se sposti le cripto su un tuo wallet hardware o software dove detieni personalmente le chiavi private, non c’è un “intermediario estero” coinvolto – tecnicamente l’asset è detenuto direttamente da te. C’è un dibattito in merito: la norma letterale sembra non richiedere RW per disponibilità estere non affidate a terzi. Tuttavia, l’Agenzia potrebbe sostenere che il wallet “nel cloud” o la blockchain abbiano comunque natura estera. La circolare 38/E/2013 estende il monitoraggio a tutte le attività finanziarie estere anche detenute senza intermediario. Dunque, per prudenza, molti consigliano di dichiarare in RW anche le cripto su wallet privato indicando come Stato ad es. lo Stato dove risiede il contribuente o “wallet decentralizzato”. Con la nuova legge 197/2022, dal 2023 le cripto sono normate e l’obbligo RW c’è (salvo forse interpretare che un cold wallet non è giuridicamente “estero”). Finché non c’è chiarimento definitivo, è prudente dichiarare tutte le consistenze di rilievo, custodian o non-custodian, per evitare discussioni.
D7: L’Agenzia mi contesta un piccolo conto estero (saldo €10.000) che non sapevo di dover dichiarare: posso evitare la multa?
R: Dipende. Se il conto estero era un semplice conto corrente e rispettavi le condizioni di esonero (saldo massimo ≤ €15.000 e giacenza media ≤ €5.000), allora effettivamente eri esonerato dal quadro RW e non dovrebbero multarti – potrai far presente questa norma all’ufficio mostrando gli estratti conto (magari l’Agenzia aveva dati parziali). Se però le soglie erano superate o si trattava di un conto trading con titoli (che non gode di soglia), allora la violazione formale c’è. In tal caso, puoi chiedere la clemenza invocando l’assenza di imposte evase e l’errore dovuto a ignoranza non dolosa. La legge non esonera dalla sanzione in tal caso, ma l’ufficio in sede di adesione potrebbe ridurla al minimo. Se l’importo della sanzione è modesto, talvolta l’Agenzia rinuncia a contestarla per spese amministrative; ma non farci affidamento. Puoi inoltre valutare il ravvedimento operoso: se sei ancora entro i termini (entro l’anno successivo con riduzione a 0,5% anziché 5%, o entro 2 anni con 0,75% per anno), pagare spontaneamente una piccola somma può chiudere la questione. Fai i calcoli o chiedi al tuo consulente.
D8: Ho ricevuto un accertamento, posso ancora fare qualcosa per ridurre le sanzioni?
R: Sì. Entro 60 giorni dalla notifica hai alcune opzioni: l’acquiescenza (pagare tutto con sanzioni ridotte di 1/3) o chiedere l’adesione (negoziare con sanzioni ridotte 1/3 e magari limare l’imponibile). Se fai ricorso, perdi la chance di queste riduzioni automatiche, però potresti ottenere ragione totale o parziale in giudizio (annullamento sanzioni se avevi valide motivazioni). Inoltre, se il legislatore apre finestre di definizione agevolata (come accaduto di recente), potrai aderirvi. Quindi, se ritieni l’atto fondato e non vuoi contenzioso, pagare con acquiescenza entro 60 giorni ti fa risparmiare 2/3 delle sanzioni. Se invece hai motivi solidi per contestare, prepara il ricorso ma potresti comunque, durante la causa, tentare una conciliazione con sanzioni dimezzate. L’importante è non far scadere i termini e scegliere consapevolmente la via migliore.
D9: Dopo aver pagato l’accertamento, la mia posizione è pulita? Possono farmi altri controlli?
R: Se hai definito integralmente l’accertamento (per adesione, acquiescenza o sentenza passata in giudicato) per quelle annualità non potranno più chiederti nulla sugli stessi presupposti. Tuttavia, resta possibile che vengano controllate annualità diverse. Ad esempio, se hai chiuso con adesione il 2019 e 2020, l’Agenzia potrebbe (se non l’ha già fatto) controllare anche 2021 e 2022 successivamente, specie se è un filone (dati CRS successivi ecc.). In genere quando c’è un accertamento su trading, l’ufficio controlla in serie più anni. Quindi per essere davvero “pulita” la posizione, valuta se convenga presentare una dichiarazione integrativa per gli anni successivi non ancora contestati (se sai di avere lo stesso problema). Così anticipi eventuali mosse e ti ravvedi con sanzioni ridotte evitando un altro accertamento. Inoltre, dopo aver sistemato tutto, per il futuro cerca di monitorare la compliance: dichiara regolarmente i redditi di trading e i conti esteri, così da non ridare appigli al fisco.
D10: Quanto tempo ha il Fisco per controllare e notificare un accertamento?
R: I termini di accertamento ordinari (dopo la riforma DL 34/2019) sono: entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui hai presentato la dichiarazione (per infedele dichiarazione) ed entro il 31 dicembre del settimo anno se non l’hai presentata affatto. Ad esempio, per il 2019 (dichiarazione presentata a 2020) hanno tempo fino al 31/12/2025; se non presentata, fino al 31/12/2027. Questi termini possono essere raddoppiati in caso di violazioni rilevanti costituenti reato (ma la legge ora specifica che il raddoppio opera solo per gli elementi collegati al reato e se la denuncia penale è inviata entro i termini ordinari). Nel caso di estero (quadro RW), un tempo c’era raddoppio automatico per attività in paradisi fiscali, ora non più dal 2015, salvo reati. Quindi realisticamente l’Agenzia può notificare un avviso fino a 5 anni dopo (o 7 se omessa). Le annualità anteriori diventano decadute e non più accertabili (salvo tu abbia commesso reati gravi scoperti tardi). Tieni però conto che se aderisci a una definizione agevolata o presenti una dichiarazione integrativa, quei termini cambiano (l’integrativa riapre i termini per l’anno integrato). Per sicurezza, conserva la documentazione del trading per almeno 7-8 anni.
Esempi pratici e simulazioni
Di seguito presentiamo alcune simulazioni concrete per visualizzare gli effetti di un avviso di accertamento e delle possibili difese, in contesti tipici per i trader.
Esempio 1: Plusvalenze non dichiarate su broker estero
Giulia, investitore privato, nel 2021 ha ottenuto €10.000 di plusvalenze dal trading di azioni USA tramite un broker in Olanda. Non avendo ben chiaro l’obbligo, non dichiara nulla nel 2022 (dichiarazione redditi 2021 omette il quadro RT) e non compila il quadro RW per il conto. Nel 2024 l’Agenzia delle Entrate le notifica un accertamento basato sui dati CRS ricevuti dall’Olanda: risulta che Giulia aveva quel conto con saldo finale €60.000 e movimenti di profitto. L’Agenzia contesta: €10.000 di redditi diversi non dichiarati, imposta evasa €2.600. Applica sanzione infedele al 90% = €2.340. In più, sanzione quadro RW 3% sul saldo €60.000 = €1.800 (unica per il 2021). Totale richiesto: imposta €2.600 + sanzioni €4.140 + interessi €150 ≈ €6.890. Giulia, scossa, corre dal commercialista.
Ipotesi A – difesa minima: Giulia riconosce l’errore. Decide di fare acquiescenza per chiudere in fretta: pagando entro 60 giorni con sanzioni ridotte a 1/3. La sanzione infedele scende a ~€780, la RW scende (1/3 del minimo 3%) a 1% = €600 (in realtà sulle RW la riduzione 1/3 è applicabile solo in adesione forse, ma supponiamo di sì). Paga quindi imposta €2.600 + sanzioni ridotte €1.380 + interessi €150 = €4.130. Si regolarizza e per gli anni successivi starà attenta.
Ipotesi B – difesa tecnica: Giulia ritiene eccessiva la sanzione RW perché il conto era stato aperto solo a ottobre 2021 e il saldo medio era inferiore a €15k. Nel presentare istanza di adesione, porta documenti che mostrano che il picco di €60k c’è stato solo a fine anno per un bonifico in arrivo, ma la giacenza media era €10k. L’ufficio, tenendo conto di ciò, accetta di applicare la sanzione minima 3% solo sull’importo medio rilevante e, considerata la continuazione, propone un’unica sanzione RW di €1.200. Inoltre, riconosce a Giulia la possibilità di compensare €2.000 di minusvalenze pregresse del 2018 che lei non aveva indicato (presenta documentazione tardiva ma l’ufficio, per chiudere, la accoglie parzialmente). Dunque ricalcola l’imposta su €8.000 di plusvalenze nette = €2.080. Sanzione infedele ridotta 1/3 = circa €623. Nuovo totale: €2.080 + €623 + €1.200 + interessi €120 = €4.023. Giulia firma l’adesione e rateizza in 8 rate trimestrali da ~€503.
Ipotesi C – ricorso: Giulia, consigliata male, fa ricorso sostenendo che “non sapeva di dover dichiarare perché il broker estero non le ha detto nulla”. In giudizio questa non è una scusa valida: la Commissione conferma l’accertamento. Giulia paga allora l’intero, ma siccome il giudizio è durato 2 anni, ha maturato ulteriori interessi e spese legali. Finisce per pagare circa €7.500 totali, più il suo avvocato. Questo scenario mostra che contestare senza solide basi porta a esborsi maggiori.
Esempio 2: Riqualificazione in attività d’impresa
Marco è un trader “seriale”: dal 2018 al 2021 ha realizzato ingenti profitti operando su futures e CFD, senza mai dichiarare nulla. Ha movimentato milioni sul suo conto estero, con profitti netti stimati sui €500k totali. L’Agenzia (dati CRS + indagine GdF) emette nel 2024 un maxi-accertamento per gli anni 2018-2021, qualificando l’attività come impresa individuale occultata. Calcola reddito d’impresa €500k, IRPEF dovuta ~€210k, IRAP ~€19.5k, sanzioni per omessa dichiarazione al 150% medio = ~€345k, oltre interessi. Importo complessivo oltre €575.000. Include anche ordine di iscrizione d’ufficio a gestione commercianti INPS. Marco rischia pure denuncia penale (imposte evase > €50k annui).
Sconvolto, Marco ingaggia un tributarista esperto. In fase di ricorso/adesione, si imposta la difesa così: si contesta che nessuna operazione era verso terzi (era tutto conto proprio), quindi niente impresa; si deposita perizia che analizza le operazioni anno per anno mostrando che in due anni su quattro Marco era addirittura in perdita netta (ha guadagnato moltissimo nel 2020 ma perso nel 2018 e 2019). Si eccepisce la decadenza per il 2018 (dichiarazione omessa, termine 2025, ma l’atto notificato a fine 2024 è ok, quindi nulla). Tuttavia, la prospettazione convincente induce l’ufficio a rivedere l’impostazione: in sede di adesione rinuncia alla riqualificazione in impresa. Ricalcola quindi semplicemente le imposte sostitutive 26% sui soli anni in utile (2020 e 2021), tenendo conto delle perdite riportabili dai precedenti (compensa in parte 2020 con perdite 2018-19). Risultato: imponibile netto ai fini 26% = €300k, imposta €78k. Sanzioni infedele 30% (ridotte da minimo 90% a 30% per adesione): €23.4k. Niente IRAP, niente INPS (decadono). Marco paga circa €101.400 più interessi ~€5k = €106.4k, evitando il penale (perché l’evaso per singolo anno scende sotto soglia) e mettendo fine alla vicenda.
Se l’ufficio fosse stato inflessibile e la causa fosse andata in Commissione, data la materia opinabile, avremmo potuto vedere pronunce altalenanti: forse un primo grado a favore di Marco (niente impresa), appello pro-Fisco, ecc., con costi legali elevati e incertezza. La soluzione negoziata gli ha fatto comunque pagare molto, ma decisamente meno del scenario iniziale e con minori rischi penali.
Esempio 3: Esterovestizione persona fisica
Chiara, day-trader, si trasferisce in pianta stabile a Dubai nel 2021 per non pagare tasse. Non si iscrive all’AIRE (Emirati non consentono facilmente visti a lungo termine, lei resta formalmente residente in Italia). Continua però a passare in Italia 4-5 mesi l’anno per trovare la famiglia. Non presenta dichiarazioni in Italia per 2021-2022, avendo spostato conti e tutto a Dubai. L’Agenzia però tramite l’analisi dei dati della carta di credito, voli e social network ricostruisce che Chiara ha trascorso 210 giorni in Italia nel 2022 (spesso tornava). Inoltre, la sua anagrafica risulta ancora italiana. Nel 2024 notifica quindi un accertamento dichiarandola residente in Italia per il 2022 e recuperando imposte su €100k di redditi da trading (crypto e forex) che sanno aver transitato su conti esteri. Le imposte richieste: €26k, sanzione omessa dichiarazione 150% = €39k, sanzione RW 15% su conti per €1M = €150k (! Emirati considerati black list di fatto, applicano il massimo), totale oltre €215k.
Chiara fa ricorso invocando di essere residente a Dubai. Ma non ha molte prove (contratto affitto c’è, ma era spesso via; non aveva famiglia lì, solo conti). La CTR considera rilevante la sua presenza fisica in Italia >183g e la mancanza di iscrizione AIRE, oltre al centro interessi (tutti i legami sociali e familiari di Chiara sono in Italia). Dunque conferma la residenza italiana. Le imposte restano dovute. Il giudice però riduce la sanzione RW applicando il cumulo giuridico: un’unica sanzione del 15% sul valore massimo 2022 (lo stesso €150k comunque, forse eccessivo, ma il giudice la riduce equamente a 5%). Inoltre, attutisce la sanzione omessa dichiarazione a 120% (il minimo edittale) per via di alcune attenuanti (Chiara poteva credere in buona fede di essere estera). Alla fine Chiara si ritrova a pagare: imposta €26k + sanzione redditi €31.2k + sanzione RW €50k + interessi. Totale circa €110k. In aggiunta, avvierà l’iscrizione tardiva AIRE per il futuro e cercherà di passare meno tempo in Italia onde evitare recidive.
Esempio 4: Società estera di trading (esterovestizione società)
Un imprenditore italiano, Luigi, costituisce nel 2020 una Ltd a Londra e vi conferisce €500k da investire in borsa. Lui opera dalla sua abitazione in Italia come director della Ltd, senza recarsi mai a Londra. La Ltd guadagna €200k in due anni, che restano su conti esteri intestati alla società. Luigi non dichiara nulla in Italia (la società dichiara in UK, ma essendo trading non commerciale e owner-managed, paga pochissime tasse lì). Nel 2023 l’Agenzia scopre la situazione tramite scambio informazioni e contesta che la sede di direzione effettiva della Ltd è in Italia (Luigi agiva da qui). Quindi notifica un accertamento dichiarando la società residente fiscale in Italia dal 2020. Recupera IRES 24% sui €200k = €48k, IRAP 3.9% (ipotizzando attività commerciale, ~€7.8k), sanzioni 180% = €86k, e per Luigi contestualmente una sanzione per omessa RW sul valore delle partecipazioni estere e conto estero 2020-21. Totale pretese intorno a €160k tra imposte e sanzioni.
Luigi, tramite avvocati, transa con l’Agenzia prima del ricorso: accetta la residenza della società in Italia e paga IRES su utili, ma evidenzia che non c’era obbligo IRAP (holding che non esercita attività commerciale attiva, dunque niente IRAP). L’Ufficio conviene su IRAP non dovuta. Riduce sanzioni a 1/3 in adesione (da €86k a ~€28k). Luigi paga IRES €48k + sanzioni €28k + interessi €5k = €81k. Per il quadro RW Luigi si era già ravveduto pagando 0,5% del valore, quindi la questione monitoraggio è chiusa con pochi euro di sanzione. La Ltd viene poi liquidata o regolarizzata come branch italiana per il futuro.
Questi esempi dimostrano la varietà di situazioni e l’importanza di una strategia caso-specifica: a volte conviene pagare con sconto, altre combattere, altre trovare un accordo in corso di causa. Prevenire comunque è meglio che curare: mantenere la propria fiscalità in regola (dichiarazioni accurate, documentazione completa) è la migliore difesa per un trader, per evitare di trovarsi a negoziare con il Fisco da una posizione di debolezza.
Conclusioni
Difendersi da un avviso di accertamento in materia di trading online richiede un approccio sia tecnico-giuridico che pratico. Occorre conoscere a fondo la normativa tributaria (nazionale e internazionale) applicabile ai redditi finanziari, e al contempo essere pronti a fornire prove concrete della propria versione (storici di trading, documenti di residenza, ecc.). Come abbiamo visto, le contestazioni più comuni riguardano omissioni dichiarative e relative sanzioni, nonché eventuali tentativi del Fisco di riclassificare l’attività del contribuente su binari meno favorevoli (impresa, residenza in Italia anziché estero).
Dal punto di vista del debitore-contribuente, il primo passo è non farsi prendere dal panico: analizzare lucidamente l’atto ricevuto, preferibilmente con l’ausilio di un esperto, per individuare eventuali errori del Fisco e nel contempo riconoscere le proprie aree di vulnerabilità (se effettivamente c’è stata evasione). In questa guida abbiamo sottolineato l’importanza di agire tempestivamente (entro i 60 giorni) scegliendo lo strumento più adeguato: che sia l’adesione per ridurre sanzioni, il ricorso per contestare nel merito, o l’acquiescenza se la battaglia sarebbe persa.
Abbiamo anche evidenziato come il contesto normativo sia in evoluzione (riforma delle sanzioni nel 2024, nuova disciplina cripto, modifica criteri residenza, etc.), quindi è fondamentale basarsi su fonti aggiornate e su quanto affermato dalle ultime sentenze. Ad esempio, la Cassazione più recente in tema di attività abituale (2025) e le ordinanze del 2022 ribadiscono il criterio dell’abitualità, ma nel campo specifico del trading privato si tende a escludere la qualifica d’impresa. Conoscere questi precedenti permette di sostenere con più forza le proprie ragioni.
Un trader, per vocazione, sa che ogni operazione comporta un rischio: analogamente, ogni scelta nel contenzioso fiscale (pagare subito, transare, resistere in giudizio) comporta rischi e opportunità. Questa guida mira a fornire gli elementi per valutare consapevolmente tali scelte. In definitiva, il miglior “escudo” è la compliance fiscale preventiva: dichiarare correttamente i redditi e i conti, eventualmente con l’aiuto di professionisti, per non offrire al Fisco il fianco scoperto. Se però l’accertamento arriva, grazie a queste informazioni il contribuente potrà muoversi con maggior sicurezza nel complesso campo da gioco del diritto tributario, facendo valere i propri diritti e riducendo al minimo l’impatto finanziario e personale dell’azione fiscale.
Fonti e riferimenti
- D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), artt. 2 (residenza fiscale), 55 (reddito d’impresa), 67 (redditi diversi, plusvalenze finanziarie), 68 (determinazione plus/minusvalenze).
- D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 4 e 5 (reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1 (sanzioni per omessa/infedele dichiarazione); D.Lgs. n. 472/1997 (disciplina generale sanzioni, continuazione); D.Lgs. n. 473/1997.
- D.L. 28 giugno 1990, n. 167 (conv. L. 227/1990) e succ. modif. – Monitoraggio attività estere (quadro RW) e relative sanzioni (3%-15%, raddoppio paradisi fisc.).
- Legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Legge di Bilancio 2023), commi 126-147 (disciplina fiscale delle cripto-attività dal 2023). Circolare AdE 23/2023 e 30/E del 27.10.2023 (chiarimenti cripto).
- D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 – Riforma del sistema sanzionatorio tributario (riduzione sanzioni dichiarative dal 1/9/2024).
- Agenzia Entrate – Principali documenti di prassi: Risoluzione 102/E/2011 (forex trading redditi diversi); Risoluzione 71/E/2016 (opzioni binarie redditi diversi); Interpello AdE Risposta n. 490/2021 (trading forex tramite società estera, tassazione per il privato); Circolare 38/E/2013 (monitoraggio fiscale attività finanziarie estere, include criptovalute).
- Giurisprudenza di legittimità:
– Cass., Sez. V, ord. 21 giugno 2022, n. 20065: requisiti di abitualità per attività d’impresa (compravendita immobiliare), ruolo stabilità nel tempo.
– Cass., Sez. V, sent. 21 marzo 2025, n. 7552: vendite online continue (es. eBay) configurano reddito d’impresa, legittimo accertamento.
– Cass., Sez. V, sent. 9 giugno 2021, n. 16139; Cass. Sez. VI, ord. 6 aprile 2017, n. 8982; Cass. Sez. V, sent. 7 novembre 2012, n. 19237 – (Citate in dottrina) sul principio che l’attività d’impresa ai fini fiscali richiede professionalità abituale anche senza organizzazione.
– Cass., Sez. Un. Civili, sent. 25954 del 03/10/2024: qualifica di consumatore per cliente che opera in trading online (ambito civilistico – tutela contrattuale; rileva marginalmente per distinguere utente retail da professionista).
– Cass., Sez. V, sent. 32954 del 12/12/2019: no impresa senza abitualità nel periodo d’imposta (conferma orientamento).
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Conclusione
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