Azienda In Crisi Economica E Finanziaria: Cosa Fare

Hai un’azienda in crisi economica e finanziaria? Le entrate calano, i debiti crescono, le banche non rinnovano i fidi e i fornitori iniziano a perdere fiducia? Ti stai chiedendo cosa puoi fare per evitare il fallimento, salvare l’impresa e proteggere il tuo patrimonio personale?

La crisi d’impresa può colpire in modo improvviso o progressivo, ma non va mai ignorata. La legge ti mette a disposizione strumenti concreti per affrontarla in modo guidato e, se possibile, superarla con un piano di risanamento.

Quando un’azienda si può considerare in crisi economica e finanziaria?
– Quando non riesce a pagare regolarmente i debiti a scadenza
– Quando il capitale circolante è insufficiente a sostenere l’operatività
– Quando subisce tensioni bancarie, revoche di fido o segnalazioni in Centrale Rischi
– Quando il fatturato non copre più i costi fissi e le passività
– Quando iniziano ad arrivare decreti ingiuntivi, cartelle esattoriali, atti di pignoramento

Cosa rischia l’imprenditore se non interviene in tempo?
– L’apertura di procedure esecutive o concorsuali
– Il blocco della produzione o dell’attività commerciale
– La perdita di fiducia da parte di clienti, dipendenti e fornitori
– Se ha una ditta individuale o ha prestato garanzie personali, può perdere i propri beni

Quali soluzioni esistono per affrontare la crisi?
Composizione negoziata della crisi, con l’assistenza di un esperto nominato dalla Camera di Commercio
Accordo di ristrutturazione dei debiti, se l’impresa ha prospettive concrete di continuità
Concordato preventivo semplificato, per gestire la crisi in forma protetta
Piano attestato di risanamento, se si vuole agire in autonomia ma con tutela legale
Procedura di sovraindebitamento, per le imprese individuali o società non fallibili
Transazioni fiscali e previdenziali, per alleggerire il carico verso lo Stato

Quali vantaggi offre la composizione negoziata della crisi?
– Non è una procedura fallimentare e non viene pubblicizzata
– L’imprenditore mantiene la gestione dell’impresa
– Si può ottenere la sospensione di azioni esecutive e pignoramenti
– Si tratta con i creditori in modo guidato e trasparente
– Se le trattative falliscono, si può accedere a soluzioni più protette con il supporto del Tribunale

Cosa puoi ottenere con una strategia giusta?
– Il blocco immediato dei creditori
– La riduzione dei debiti e la rateizzazione sostenibile
– Il salvataggio dell’azienda e dei posti di lavoro
– La protezione del tuo patrimonio personale
– Il recupero di fiducia nel mercato e nei rapporti bancari

Non aspettare che la crisi diventi irreversibile. Intervenire in tempo fa la differenza tra chiudere in perdita e rimettere in moto l’impresa con basi più solide.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa, risanamenti aziendali e tutela dell’imprenditore ti spiega cosa fare se la tua azienda è in crisi economica e finanziaria, quali strumenti hai a disposizione e come proteggerti legalmente.

Hai ricevuto atti esattoriali, decreti ingiuntivi o hai difficoltà con le banche? Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la tua situazione e ti diremo quali misure adottare per uscire dalla crisi e salvare la tua attività.

Introduzione

Le aziende possono attraversare fasi di crisi economica e finanziaria dovute a molteplici fattori (calo del mercato, difficoltà di accesso al credito, insoluti dei clienti, ecc.). In tali situazioni, l’imprenditore debitore deve attivarsi tempestivamente per gestire la crisi e prevenire l’insolvenza conclamata. La normativa italiana in materia di crisi d’impresa, profondamente riformata negli ultimi anni, offre una serie di strumenti giuridici – sia negoziali che concorsuali – per affrontare le difficoltà finanziarie e tentare il risanamento dell’azienda o, in extrema ratio, liquidarla in modo ordinato. Questa guida, aggiornata a luglio 2025, fornisce un quadro completo e avanzato di tali strumenti dal punto di vista del debitore, con un linguaggio tecnico-giuridico ma di taglio divulgativo adatto sia a professionisti (avvocati, commercialisti) che a imprenditori e privati interessati.

Obiettivo della guida: aiutare chi si trova alla guida di un’azienda in crisi a capire cosa fare, ossia quali obblighi impone la legge, quali opzioni esistono per ristrutturare i debiti o accedere a procedure concorsuali, quali sono i pro e i contro di ciascuna soluzione e come scegliere il percorso più adatto. Troverete:

  • Un inquadramento normativo aggiornato (incluso il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e le ultime modifiche introdotte fino al 2024).
  • Le definizioni chiave di “crisi” e “insolvenza” e la distinzione tra queste situazioni.
  • Gli obblighi e doveri degli amministratori e degli organi di controllo quando l’azienda entra in crisi (assetti adeguati, sistemi di allerta interna, segnalazioni).
  • La panoramica dei diversi strumenti di risanamento o regolazione della crisi, dai piani di risanamento privati agli accordi di ristrutturazione del debito, dalla composizione negoziata alle procedure concorsuali come il concordato preventivo e la liquidazione giudiziale (ex fallimento).
  • Approfondimenti sulle procedure per soggetti sovraindebitati (consumatori e piccoli imprenditori non fallibili), inclusi il concordato minore, i piani del consumatore, la liquidazione controllata e l’esdebitazione dell’incapiente.
  • Tabelle riepilogative che confrontano requisiti e caratteristiche delle varie soluzioni.
  • Una sezione di domande e risposte (FAQ) che affronta i dubbi pratici più comuni (ad es. “Quali debiti posso includere?”, “Cosa rischia l’amministratore se tarda a intervenire?”, “Meglio un accordo stragiudiziale o il concordato preventivo?”, ecc.).
  • Esempi pratici e simulazioni basati su casi tipici di aziende italiane in crisi, per illustrare come applicare nella realtà le opzioni previste dalla legge.

Nel corso della trattazione verranno citati riferimenti normativi (codice civile, Codice della crisi – D.Lgs. 14/2019 e successive modifiche) e giurisprudenziali (sentenze recenti di merito e della Corte di Cassazione) per offrire un fondamento autorevole alle affermazioni. Tutte le fonti utilizzate sono riportate in fondo alla guida nella sezione Fonti.

Avvertenza: ogni situazione di crisi aziendale ha le sue peculiarità. Questa guida fornisce un quadro generale avanzato, ma la scelta concreta degli strumenti e delle strategie richiede una valutazione caso per caso, meglio se con l’ausilio di professionisti esperti in ristrutturazioni d’impresa. L’obiettivo del legislatore, soprattutto con le riforme recenti, è quello di favorire l’emersione tempestiva della crisi e il risanamento quando possibile, preservando la continuità aziendale, oppure di consentire una liquidazione ordinata con liberazione dai debiti residui per dare al debitore onesto una seconda chance. In quest’ottica, vediamo ora in dettaglio cosa prevede l’ordinamento italiano per un’azienda in difficoltà finanziaria.

Definizioni di “crisi” e di “insolvenza”

Per prima cosa è fondamentale capire la differenza tra stato di crisi e stato di insolvenza, concetti giuridici distinti introdotti o precisati dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII). Il Codice (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022) ha infatti fornito per la prima volta una definizione normativa espressa di “crisi”, distinta dall’insolvenza.

  • Crisi: l’art. 2 CCII la definisce come “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi”. In altre parole, la crisi è una situazione di difficoltà economico-finanziaria in cui l’azienda, pur essendo ancora in grado di pagare i propri debiti oggi, mostra segnali che fanno presumere il rischio di futura insolvenza se non si interviene. Tipicamente questi segnali sono squilibri nei conti (perdite rilevanti, carenza di liquidità), flussi di cassa prospettici negativi che indicano l’incapacità di sostenere le obbligazioni in arrivo nei prossimi 12 mesi. La crisi è dunque una situazione prognostica: un campanello d’allarme che precede l’insolvenza vera e propria. Nel definire la crisi il legislatore ha esteso l’orizzonte temporale di valutazione a 12 mesi (rispetto ai 6 mesi considerati in passato), per incentivare l’emersione ancora più tempestiva delle difficoltà.
  • Insolvenza: è invece lo stato più grave in cui il debitore non è più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, a causa di una definitiva incapacità di generare flussi finanziari sufficienti o di reperire altri mezzi per pagare i debiti in scadenza. L’insolvenza è definita dalla legge fallimentare (art. 5 del R.D. 267/1942, ancora applicabile come principio generale) come l’“incapacità dei debitori di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni”. Si manifesta con inadempimenti e altri fattori esteriori (es. protesti, pignoramenti) che indicano il venir meno in modo non transitorio della liquidità necessaria a pagare i creditori. In sostanza, mentre la crisi è una difficoltà potenziale e reversibile, l’insolvenza è una difficoltà attuale e conclamata: l’impresa insolvente non paga più i debiti mano a mano che scadono, accumulando arretrati insostenibili.

Dal punto di vista giuridico, la distinzione è cruciale: lo stato di crisi consente all’imprenditore di attivare strumenti di allerta e di composizione negoziale per evitare di precipitare nell’insolvenza; lo stato di insolvenza, invece, fa scattare l’esigenza di procedure concorsuali più profonde (come il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale, ex fallimento) che coinvolgono tutti i creditori. Il Codice della crisi, in linea con le direttive europee, mira a intervenire già nella fase di crisi incipiente, prima che si arrivi all’insolvenza irreversibile, favorendo ristrutturazioni precoci. Emblematico è il concetto di “insolvenza reversibile” introdotto dalla riforma: situazioni di insolvenza non ancora irreparabile, per le quali è ancora possibile una ragionevole prospettiva di risanamento. In presenza di insolvenza reversibile (ad esempio, tensioni di liquidità momentanee), l’accesso agli strumenti di composizione della crisi non è precluso – anzi è incoraggiato – purché vi siano concrete possibilità di recupero.

Attenzione: rilevare correttamente se un’azienda è “in crisi” (ma non ancora insolvente) oppure già “insolvente” può richiedere un’analisi tecnica dello stato finanziario. Indici come il DSCR (Debt Service Coverage Ratio) sono utilizzati per misurare la sostenibilità del debito prospettica: un DSCR significativamente sotto 1 (cioè flussi di cassa previsti insufficienti a pagare il servizio del debito nell’anno successivo) indica situazione di crisi. Quando invece l’azienda ha già rate scadute impagate, decreti ingiuntivi non saldati, esposizioni bancarie sconfinanti e croniche, si delinea l’insolvenza. In pratica, la linea di confine non è sempre netta e molto dipende dalla tempestività con cui l’imprenditore reagisce: aspettare troppo a lungo senza intervenire fa sì che una crisi inizialmente risolvibile degeneri in vera insolvenza.

In sintesi, crisi = difficoltà probabile e futura (a meno di interventi correttivi), insolvenza = incapacità attuale di pagare. La legge distingue le due situazioni per modulare la risposta: obblighi di prevenzione e gestione stragiudiziale nel caso di crisi; procedure concorsuali e liquidatorie se l’insolvenza è conclamata. Nel prossimo paragrafo vedremo proprio gli obblighi che gravano sugli amministratori quando la crisi si manifesta, e come la normativa recente impone di muoversi per tempo.

Obblighi dell’imprenditore e degli organi societari in presenza di crisi

Uno dei cardini della riforma introdotta con il Codice della crisi d’impresa (CCII) è il principio di emersione tempestiva delle difficoltà aziendali. L’idea è semplice: prima si interviene, maggiori sono le chance di salvataggio dell’impresa. Per questo la legge impone specifici obblighi agli imprenditori e agli organi di controllo finalizzati a individuare e affrontare subito la crisi. In particolare:

1. Assetto organizzativo adeguato e dovere di gestire prudentemente in crisi. L’art. 2086 c.c., come modificato dal D.Lgs. 14/2019, stabilisce che l’imprenditore societario o collettivo deve istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva dello stato di crisi e della continuità aziendale. Ciò significa che gli amministratori hanno il dovere legale di dotare l’azienda di strumenti di controllo di gestione, monitoraggio finanziario e programmazione che permettano di cogliere i segnali di difficoltà prima che sia troppo tardi. Ad esempio, devono attivare sistemi per monitorare gli indici finanziari, verificare regolarmente il DSCR e predisporre piani d’impresa forward-looking. Questo obbligo è in vigore dal 2019 e il D.Lgs. 83/2022 ha ulteriormente dettagliato le linee guida per individuare cosa si intende per “adeguato assetto”.

Correlativamente, in caso di crisi, incombe sugli amministratori il dovere di attivarsi senza indugio per adottare le misure idonee a farvi fronte. La prosecuzione dell’attività in una situazione di pesante squilibrio senza adottare contromisure può costituire mala gestio. La legge (art. 3 CCII) enuncia il principio della “gestione conservativa” dell’impresa in crisi: gli amministratori devono condurre l’azienda evitando operazioni che aggravino il dissesto e, se la situazione peggiora verso l’insolvenza, hanno l’obbligo di preservare il patrimonio sociale a tutela dei creditori (ad esempio astenendosi dal contrarre nuovi debiti se non funzionali a tentativi di risanamento). Importante: una volta che si verifica una causa di scioglimento della società (tipicamente la perdita totale del capitale ex art. 2484 c.c. n.4), gli amministratori non possono compiere nuove operazioni se non finalizzate alla conservazione del patrimonio in vista della liquidazione. In caso contrario, rispondono dei danni verso i creditori. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6893/2023, ha ribadito che quando il capitale è azzerato, gli atti di gestione non conservativi posti in essere successivamente dall’amministratore espongono quest’ultimo a responsabilità oggettiva verso i nuovi creditori: il creditore non deve nemmeno provare la colpa o il dolo dell’amministratore, essendo sufficiente dimostrare che questi era consapevole della causa di scioglimento e ha compiuto atti non liquidatori; sarà semmai l’amministratore a dover provare che le operazioni poste in essere dopo l’emersione della causa di scioglimento erano necessarie a fini liquidatori. In altri termini, se un amministratore tira avanti l’attività “come nulla fosse” nonostante il patrimonio sia compromesso, ogni nuovo credito che la società contrae in quella fase può generare una responsabilità personale dell’amministratore verso quei creditori, a meno che egli dimostri che stava agendo per liquidare ordinatamente (ad esempio vendendo beni per pagare debiti). Questo rigoroso orientamento giurisprudenziale (Cass. 6893/2023) è volto a impedire che la crisi si trasformi in insolvenza aggravata a danno dei creditori per inerzia o azzardo gestionale dei responsabili.

Da quanto sopra discende una regola pratica fondamentale: non ignorare mai i segnali di crisi. Appena l’imprenditore (o gli amministratori) si rendono conto che l’azienda sta entrando in una zona di rischio (perdite significative, flussi di cassa che non coprono le prossime uscite, ritardi nei pagamenti di imposte o fornitori, ecc.), devono attivarsi. L’inerzia non è solo imprudente, ma può integrare violazione dei doveri e generare responsabilità civile e talvolta penale. Ad esempio, continuare ad accumulare debiti tributari o verso fornitori quando si sa di non poterli onorare può aggravare le conseguenze di un eventuale fallimento (bancarotta semplice o aggravata). Dunque, cosa fare? La legge prevede espressamente che l’organo amministrativo adotti senza indugio uno degli strumenti di regolazione della crisi (accordi, piani, concordato) appena la continuità aziendale è a rischio. Se l’imprenditore non lo fa, gli organi di controllo interni (collegio sindacale, revisori) hanno l’obbligo di segnalare per iscritto la situazione agli amministratori, stimolandoli a intervenire (c.d. allerta interna).

2. Segnalazioni di allerta e obblighi degli organi di controllo e creditori pubblici. La riforma originaria del Codice della crisi prevedeva un articolato sistema di “allerta” anche esterna (organismi di composizione presso le Camere di commercio, segnalazioni obbligatorie da parte di creditori pubblici qualificati come Agenzia Entrate, INPS, agente della riscossione). Questo sistema però è stato in parte ripensato e semplificato. In particolare, le “procedure di allerta” formali (con segnalazione all’OCRI) non sono mai entrate in vigore e sono state di fatto sostituite da strumenti volontari come la composizione negoziata. Ciò non toglie che alcuni obblighi di segnalazione dei creditori pubblici esistano: ad esempio, l’Agenzia delle Entrate, in caso di gravi debiti IVA scaduti, deve inviare una comunicazione al debitore informandolo del superamento di determinate soglie (costituendo di fatto un “alert” sullo stato di crisi). Analogamente l’INPS e l’Agente della Riscossione monitorano i ritardi nei versamenti contributivi o nei carichi affidati e, se superano determinate soglie (fissate dalla legge), segnalano il fatto all’impresa. Tuttavia, l’effetto di queste segnalazioni oggi non è l’attivazione automatica di una procedura davanti a un organismo pubblico, bensì quello di spronare l’imprenditore a intraprendere uno strumento di composizione della crisi (in primis la composizione negoziata).

Le soglie di allerta previste (introdotte dal D.Lgs. 14/2019 e modulate poi dal D.L. 118/2021 e D.Lgs. 83/2022) indicano quando un ritardo nei pagamenti diventa sintomatico di crisi. Eccone alcune principali (valori attualmente vigenti):

  • Debiti previdenziali (INPS) oltre 90 giorni: importo superiore al 30% dei contributi dovuti l’anno precedente e almeno €15.000 (aziende con dipendenti) o €5.000 (senza dipendenti).
  • Debiti assicurativi (INAIL) oltre 90 giorni: importo > €5.000.
  • Debiti verso l’erario affidati all’Agente della Riscossione scaduti > 90 giorni: oltre €100.000 per ditte individuali, €200.000 per società di persone, €500.000 per altre società.
  • IVA non versata: se l’IVA periodica non pagata supera €5.000 e il 10% del volume d’affari annuale (comunque allarme se > €20.000).
  • Debiti verso fornitori scaduti da >90 giorni superiori ai debiti non scaduti (cioè più della metà del totale debiti v/fornitori).
  • Retribuzioni scadute da >30 giorni per un importo >50% del monte salari mensile.
  • Esposizioni bancarie scadute/sconfinanti da >60 giorni rappresentanti >5% del totale esposizioni verso banche.

Il superamento di questi indicatori costituisce un forte campanello d’allarme. La normativa prevede che, ad esempio, l’Agenzia Entrate invii un sollecito (la cosiddetta comunicazione di irregolarità) se rileva un debito IVA oltre soglia. Tali comunicazioni invitano l’impresa a reagire attivando i percorsi di composizione. Va sottolineato che il Decreto Correttivo ter del 2024 ha ulteriormente rafforzato l’enfasi sulla prevenzione: ha esteso espressamente il potere-dovere di segnalazione anche ai revisori contabili dell’azienda. Se l’impresa è priva di collegio sindacale (non obbligatorio per le piccole), ma ha un revisore unico, anche costui ora deve avvisare gli amministratori di porre rimedio alla crisi. L’intento è colmare le lacune per cui in realtà medio-piccole, prive di organi di controllo pluripersonali, nessuno segnalava formalmente le criticità ai sensi di legge.

3. Dovere di leale collaborazione e buona fede nelle trattative. Un principio generale ribadito dalla riforma è che quando si avvia una procedura di ristrutturazione (sia essa negoziale o concorsuale), tutte le parti coinvolte – a partire dal debitore e dai creditori – devono comportarsi secondo buona fede e leale cooperazione. Ciò significa, per il debitore, trasparenza sulle proprie reali condizioni (niente bilanci falsati o occultamento di atti pregiudizievoli) e impegno serio nel perseguire la soluzione concordata; per i creditori, significa disponibilità a negoziare in modo costruttivo invece di agire in modo opportunistico (ad es. evitando di avviare esecuzioni individuali quando è in corso una trattativa seria per il risanamento). La buona fede è diventata un dovere esplicito e la violazione può portare a sanzioni in sede procedurale (ad esempio la revoca di misure protettive se il debitore agisce in frode, o la possibilità di non considerare opponibili certi atti dei creditori contrari alla moratoria).

Riassumendo gli obblighi principali in capo all’imprenditore in crisi:

  • Implementare adeguati sistemi di allerta interni per intercettare squilibri finanziari.
  • Non aggravare il dissesto: evitare nuove operazioni rischiose o distrazione di risorse; agire con diligenza e prudenza.
  • Attivarsi tempestivamente scegliendo uno strumento di regolazione della crisi (vedi sezioni successive) invece di attendere il fallimento.
  • Consultare gli esperti: spesso la nomina di un advisor finanziario o legale esperto in crisi è parte dell’assetto adeguato.
  • Collaborare con eventuali organi di controllo (sindaci, revisori) recependo le segnalazioni che questi dovessero fare.
  • Informare correttamente i creditori delle iniziative intraprese, per creare fiducia nelle trattative.

Nel prossimo capitolo passeremo in rassegna i diversi strumenti che l’ordinamento mette a disposizione di un’azienda in crisi per gestire la situazione. Prima di entrare nel dettaglio, è utile avere una mappa generale: vi sono soluzioni stragiudiziali privatistiche (accordi volontari e piani di risanamento che non coinvolgono direttamente il tribunale), soluzioni para-giudiziali/negoziate (come la composizione negoziata, in cui interviene un esperto terzo pur restando una procedura volontaria) e soluzioni concorsuali giudiziarie vere e proprie (concordato preventivo, liquidazione giudiziale), attivate sotto il controllo del tribunale. Nella scelta, il debitore deve considerare il grado di gravità della crisi, la disponibilità di maggioranze di creditori consenzienti, la necessità di protezione dai singoli creditori, i costi e i tempi. Di seguito illustreremo ciascuna opzione, ma anticipiamo qui una tabella riepilogativa per orientarsi:

Tabella 1 – Confronto sintetico dei principali strumenti di risanamento/regolazione della crisi d’impresa

StrumentoNaturaAmbito di applicazioneCoinvolgimento del tribunalePercentuale di creditori richiestaEffetti sui creditori dissenzienti
Piano attestato di risanamentoStragiudiziale privatoImprese in crisi reversibileNessuna omologazione (solo deposito)Nessuna maggioranza legale; accordi individuali coi creditori coinvoltiNon vincola i creditori che non aderiscono (restano liberi di agire). Evita azioni revocatorie su atti eseguiti in piano (safe harbor).
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ordinario)Stragiudiziale assistito (omologato)Imprese in crisi o insolvenza reversibileOmologazione del tribunale necessaria60% dei crediti totali devono aderireVincola solo i creditori aderenti, non obbliga i dissenzienti (salvo eccezioni di legge). Tuttavia, con omologa i creditori ottengono pagamento secondo i nuovi termini concordati.
Accordi di ristrutturazione “agevolati”Stragiudiziale assistito (omologato)Imprese in crisi; permette soglia ridottaOmologazione tribunale30% dei crediti totali (minimo) purché per il resto sia prevista soddisfazione integrale o strumenti alternativi (classi)Possibile suddividere creditori in classi; i non aderenti possono essere soddisfatti integralmente oppure essere coinvolti solo se offerto loro quanto spetterebbe in liquidazione. Non è previsto un cram-down pieno sui dissenzienti generici.
Accordi ad efficacia estesaStragiudiziale assistito (omologato)Imprese in crisi con creditori finanziariOmologazione tribunale75% dei crediti di una certa categoria (es. banche) aderenti per estendere accordo all’intera categoriaVincola anche i non aderenti appartenenti alla categoria omogenea oggetto di accordo (es. tutte le banche) se si raggiunge la maggioranza qualificata prevista dalla legge. Introduzione recente per superare il problema degli holdout.
Concordato preventivo (in continuità o liquidatorio)Procedura concorsuale giudizialeImprese in insolvenza o crisi irreversibile, o anche crisi gestibile ma con troppi creditori per accordarsi privatamenteSì, procedura dinanzi al tribunale con nomina del commissario e omologazione finaleMaggioranza di crediti per classi: >50% dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe (se un’unica classe, 50%+1 del totale). È possibile omologa anche senza consenso di tutte le classi se certe condizioni sono soddisfatte (cram-down interclassi introdotto dal 2022).Vincola tutti i creditori chirografari e privilegiati degradati al chirografo, anche dissenzienti, una volta approvato dalle maggioranze e omologato dal giudice. I creditori prelatizi soddisfatti integralmente o secondo quanto stabilito per legge. Possibile cram-down fiscale: il tribunale può omologare anche se Fisco o enti previdenziali votano no, purché la proposta non sia inferiore a quanto otterrebbero in liquidazione.
Concordato semplificato (liquidatorio)Procedura concorsuale giudiziale “speciale”Imprese insolventi che hanno tentato senza esito la composizione negoziataSì, ma senza voto dei creditori (solo valutazione del tribunale)Nessuna votazione: non è richiesto consenso dei creditori, decide il tribunale se la proposta è conveniente rispetto alla liquidazioneVincola tutti i creditori come un concordato ordinario omologato, pur se non c’è stato voto. Misura di extrema ratio per evitare il fallimento puro, utilizzabile solo a valle di composizione negoziata non riuscita.
Liquidazione giudiziale (ex fallimento)Procedura concorsuale liquidatoriaImprese in insolvenza irreversibile (o insolvenza anche minore su ricorso di creditori)Sì, tribunale dichiara l’apertura, nomina curatore; è una procedura pubblicaNessun consenso richiesto (procedura involontaria o su istanza anche del debitore)Spoglia il debitore della gestione. I creditori vengono soddisfatti dal ricavato della liquidazione in base alla prelazione. I debiti residui non pagati restano in capo al debitore, salvo ottenere l’esdebitazione a fine procedura (discharge del debitore persona fisica).
Strumenti per sovraindebitati (piano del consumatore, concordato minore, liquidazione controllata)Procedure concorsuali semplificate (OCC)Debitori non fallibili (piccole imprese sotto soglie, consumatori, professionisti) in stato di crisi o insolvenzaSì, coinvolgono il tribunale ma tramite un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) che assisteVariano: piano del consumatore senza voto creditori (decide il giudice), concordato minore richiede 60% dei crediti aderenti, liquidazione controllata nessun consenso (è liquidazione)Piano del consumatore omologato vincola tutti i creditori chirografari senza necessità di consenso. Concordato minore vincola i creditori aderenti e, se approvato a maggioranza e omologato, anche i dissenzienti (simile a un piccolo concordato preventivo). Liquidazione controllata: i creditori partecipano alla liquidazione dei beni; possibile esdebitazione finale del debitore.

(Legenda: CCII = Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza; OCC = Organismo di Composizione della Crisi da sovraindebitamento.)

La tabella sopra schematizza le caratteristiche salienti. Nelle sezioni seguenti ciascuno di questi strumenti verrà analizzato in dettaglio, evidenziando quando conviene utilizzarlo, qual è la procedura da seguire e quali sono i benefici e rischi dal punto di vista del debitore.

La composizione negoziata della crisi

Una delle novità più rilevanti introdotte negli ultimi anni (prima con il D.L. 118/2021 conv. in L. 147/2021 e poi confluita nel Codice della crisi) è la composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa. Si tratta di uno strumento volontario e riservato, di natura non giudiziale ma con alcuni agganci all’autorità giudiziaria, che consente all’imprenditore in difficoltà di tentare una trattativa strutturata con i propri creditori sotto la guida di un esperto indipendente. Lo scopo è di raggiungere un accordo che eviti l’insolvenza, fuori dalle tradizionali procedure concorsuali.

Caratteristiche generali della composizione negoziata

  • Chi può accedervi: qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo (anche di piccole dimensioni) che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, ma per cui appare ragionevolmente perseguibile il risanamento. In pratica possono accedere imprenditori in crisi o anche già insolventi purché l’insolvenza non sia irreversibile (la norma parla di insolvenza che consente una “ragionevole evoluzione positiva”). Non vi sono soglie dimensionali minime: anche le microimprese possono richiederla. È ammessa inoltre durante una procedura di concordato già pendente (ad es. se il concordato appare destinato a fallire, si può richiedere la composizione per trovare soluzioni alternative). Il Correttivo 2024 ha esplicitamente ampliato i casi di accesso: si può attivare la composizione negoziata anche se l’impresa non ha ancora bilanci approvati (ciò prima era dubbio) o anche se pende già un’istanza di liquidazione giudiziale (ex istanza di fallimento) da parte di un creditore. Questa flessibilità è pensata per offrire un’ultima chance di trattativa anche “in extremis”, se c’è spazio per un accordo.
  • Come si attiva: l’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica dedicata (gestita dalle Camere di Commercio) in cui fornisce informazioni sulla situazione aziendale e allega documenti (ultimo bilancio, situazione finanziaria aggiornata, ecc.). È previsto anche che l’imprenditore effettui un test pratico preliminare tramite un questionario/checklist sul portale, per valutare la perseguibilità del risanamento. Sulla base della richiesta, una commissione nomina un Esperto indipendente scelto da un apposito elenco nazionale di professionisti qualificati (in genere commercialisti, avvocati o consulenti con esperienza in ristrutturazioni). L’esperto ha il compito di facilitare le trattative tra debitore e creditori, assistendo le parti nel trovare una soluzione.
  • Ruolo dell’Esperto: è una figura terza, imparziale, che non ha poteri decisori ma aiuta a individuare le cause della crisi, a elaborare un piano di risanamento e a condurre le negoziazioni con i creditori chiave. L’esperto redige inizialmente una relazione sulla situazione dell’impresa e le prospettive di recupero. Poi convoca l’imprenditore e i creditori a riunioni per discutere possibili intese. Ha anche la possibilità di proporre misure che ritiene utili (ad es. consigliare di cedere un ramo d’azienda non strategico, o di ricapitalizzare, ecc.). L’esperto deve operare secondo doveri di riservatezza (la procedura di composizione è confidenziale, volta a non diffondere all’esterno la notizia della crisi) e buona fede. Se percepisce che non ci sono margini di risanamento (es. l’imprenditore non collabora o la situazione è troppo compromessa), può porre fine anticipatamente alla composizione negoziata, relazionando il fallimento delle trattative.
  • Durata: la composizione negoziata ha una durata massima di 180 giorni, prorogabile eventualmente di ulteriori 180 giorni su accordo delle parti (in totale al massimo circa 1 anno). L’idea è di svolgere le trattative in tempi contenuti, per evitare lunghe agonie. Durante questo periodo, l’impresa continua ad operare sotto la gestione dell’imprenditore (non c’è spossessamento né nomina di commissari), ma con l’affiancamento dell’esperto.
  • Misure protettive: uno dei vantaggi chiave per l’imprenditore è la possibilità di richiedere al tribunale delle misure protettive temporanee, ossia uno stay delle azioni esecutive e cautelari dei creditori. In pratica, si può ottenere che, durante le trattative, i creditori non possano iniziare o proseguire pignoramenti, né acquisire prelazioni se non concordate. Questo scudo serve a congelare la situazione e dare respiro all’azienda mentre cerca un accordo. Le misure protettive non sono automatiche: l’imprenditore le può chiedere depositando un’istanza al tribunale competente, il quale verifica che la richiesta di composizione sia stata pubblicata al Registro Imprese e che non vi siano elementi di abuso (ad esempio, non deve essere un tentativo dilatorio). Se accordate, le misure protettive durano inizialmente fino a 4 mesi, estensibili. Il tribunale mantiene un ruolo vigilante: può revocare le protezioni se emerge che il debitore agisce in mala fede o non c’è progressi nelle trattative. Ad esempio, un caso di abuso potrebbe essere usare la composizione solo per prendere tempo e vendere beni separatamente (liquidazione atomistica): il Tribunale di Bologna ha negato la conferma delle misure protettive in un caso in cui l’imprenditore in composizione negoziata perseguiva un mero smembramento liquidatorio del patrimonio senza prospettive di risanamento.
  • Effetti sui contratti e sui creditori: a differenza del concordato, la composizione negoziata non crea una procedura concorsuale: quindi i contratti in essere non vengono automaticamente sospesi né si forma un patrimonio separato. Tuttavia, sono previste norme per aiutare l’impresa in questa fase: ad esempio, i crediti dei nuovi finanziatori (o dei fornitori che continuano a lavorare durante la composizione) possono ottenere uno status di prededucibilità (priorità di pagamento) se poi si passa ad altra procedura, incentivando così il supporto alla continuità. Inoltre, durante la composizione negoziata l’imprenditore può chiedere al giudice autorizzazioni per porre in essere atti di straordinaria amministrazione necessari al piano, nonché può ottenere la sospensione o rinegoziazione di alcuni contratti con l’assistenza dell’esperto (si pensi ad un contratto di leasing troppo oneroso: la legge consente di trattarne la revisione con l’ausilio dell’esperto e di sospendere i pagamenti fino a 90 giorni con ok del giudice).

Esiti possibili della composizione negoziata

La composizione negoziata non è un fine in sé, ma un percorso per arrivare a una soluzione concreta. Entro la fine del periodo di negoziazione, possono verificarsi diversi esiti:

  • Accordo stragiudiziale privato con i creditori: Il debitore e tutti o alcuni creditori trovano un’intesa volontaria (ad esempio, dilazioni di pagamento, riduzione parziale dei crediti, nuova finanza da soci o banche, ecc.) formalizzata in uno o più contratti. Può trattarsi di un unico accordo globale con tutti i principali creditori oppure di accordi bilaterali separati. L’esperto certifica che l’accordo raggiunto è idoneo a garantire la sostenibilità dell’impresa. Questo tipo di accordo non richiede omologazione giudiziaria ed è fuori dalle procedure concorsuali – sostanzialmente è un accordo stragiudiziale volontario. I creditori che l’hanno sottoscritto ne sono vincolati come da qualunque contratto, mentre gli altri (eventuali creditori estranei) restano liberi. L’impresa però trae beneficio dal fatto di aver ristrutturato gran parte del debito su base consensuale. Spesso, se l’accordo coinvolge banche, può configurarsi come piano attestato di risanamento (vedi sezione successiva) se corredato dalla relazione di un attestatore che assevera la veridicità dei dati e la fattibilità del piano. Un piano attestato stipulato all’esito della composizione negoziata godrà della protezione dalle revocatorie fallimentari se eseguito regolarmente.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 57 CCII) omologato: Se si raggiunge l’adesione di una percentuale qualificata di creditori (almeno 60% dei crediti, oppure 30% nel caso di accordo agevolato) e si vuole estendere certe protezioni, il debitore può decidere di chiedere l’omologazione di tale accordo al tribunale, utilizzando la cornice normativa degli “accordi di ristrutturazione dei debiti”. In pratica, l’esito della negoziazione viene “portato in tribunale” per renderlo più solido. Il vantaggio è che con l’omologa scattano effetti legali: ad esempio, sui creditori non aderenti non potranno proseguire azioni esecutive individuali fino a scadenze previste, e gli atti attuativi dell’accordo hanno esenzione da revocatoria. Inoltre, è possibile inserire nell’accordo una transazione fiscale sui debiti tributari e contributivi, che il giudice omologa (anche qui, se l’Erario non aderisce ma la proposta è conveniente, si può ottenere ugualmente l’omologa in cram-down fiscale, come confermato pure da Cassazione). Dunque, uno sbocco naturale di molte composizioni negoziate è formalizzare un accordo ex art.182-bis L.F. (oggi art. 57 CCII) e chiedere al giudice di omologarlo. Questa via sarà approfondita più avanti.
  • Proposta di concordato preventivo: Se durante le trattative appare chiaro che non tutti i creditori necessari aderiranno volontariamente, il debitore – magari con l’appoggio di alcuni creditori – può optare per presentare un ricorso di concordato preventivo. La composizione negoziata prevede espressamente questa possibilità: l’esperto, se ritiene che un concordato sia la soluzione praticabile (ad esempio un concordato in continuità con ristrutturazione dell’azienda, o un concordato liquidatorio se non c’è modo di proseguire l’attività), lo segnala. L’imprenditore a quel punto deposita in tribunale la domanda di concordato. Spesso ciò avviene in forma di “concordato con riserva” (detto anche prenotativo o “in bianco”) per cristallizzare subito la situazione e beneficiare di protezioni, riservandosi di depositare il piano dettagliato entro i termini di legge. In pratica, la composizione negoziata può fungere da pre-concordato: durante i colloqui l’imprenditore raccoglie informazioni, valuta il piano e, se capisce che serve una procedura concorsuale, la avvia. Una volta presentata domanda di concordato, la composizione negoziata cessa (non ha senso proseguire due percorsi paralleli). Da notare: il D.Lgs. 136/2024 ha chiarito che l’accesso alla composizione negoziata non preclude l’accesso successivo al concordato, anzi può agevolarlo; ha inoltre collegato le due fasi prevedendo che dalla data di presentazione della domanda di concordato con riserva restano sospese le cause di scioglimento per perdite e non si applica l’obbligo di ricapitalizzazione (art. 44 CCII modificato), e che gli effetti protettivi decorrono dalla pubblicazione della domanda di concordato (in modo da evitare scoperi di tutela). Quindi c’è continuità tra composizione e concordato.
  • Accesso ad altre procedure minori: per le imprese sotto soglia o i privati, dalla composizione negoziata si può anche virare verso le procedure di sovraindebitamento (piano del consumatore, concordato minore) a seconda dei requisiti. L’esperto potrebbe consigliare ad esempio a un piccolo imprenditore di rivolgersi all’OCC per un concordato minore se non si trova un accordo stragiudiziale.
  • Esito negativo e necessità di liquidazione: Purtroppo non tutte le composizioni negoziate vanno a buon fine. Se trascorsi i mesi di trattativa non si riesce a trovare nessuna soluzione di risanamento (né accordo, né piano né concordato), l’esperto chiude la procedura con esito negativo. A quel punto l’imprenditore insolvente dovrà presumibilmente avviarsi verso la liquidazione giudiziale (fallimento). Tuttavia, c’è un’ultima opzione prevista dalla legge per evitare il fallimento immediato: il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio.

Il concordato “semplificato” post-composizione negoziata

Introdotto in via transitoria dal D.L. 118/2021 e ora stabilizzato nel Codice (artt. 25-sexies e 25-septies CCII), il concordato semplificato è un istituto speciale attivabile solo dall’imprenditore che ha svolto una composizione negoziata senza raggiungere un accordo. Si configura come una procedura concorsuale di liquidazione senza voto dei creditori: il debitore propone al tribunale un piano di liquidazione dei propri beni, con distribuzione del ricavato ai creditori secondo le priorità di legge (o secondo percentuali se ci sono risorse aggiuntive), e il tribunale può omologarlo direttamente – dopo aver verificato che ai creditori viene assicurato almeno ciò che otterrebbero in caso di fallimento. I creditori quindi non votano, ma possono eventualmente fare opposizione; il giudice decide sull’omologa valutando la convenienza della proposta rispetto alla liquidazione giudiziale ordinaria. Questo strumento è “semplificato” perché non prevede la fase di voto, riducendo tempi e costi, ed è pensato come extrema ratio per chi, pur avendo tentato tutto, non è riuscito a risanare l’azienda ma vuole comunque evitare la dichiarazione di fallimento optando per una liquidazione concordata. Nella prassi, il concordato semplificato è stato usato raramente finora e solo in situazioni dove c’era un margine per offrire qualcosa in più ai creditori (ad es. l’apporto di un terzo che compra l’azienda). Il legislatore lo ha concepito come incentivo ad utilizzare la composizione negoziata: “provaci, male che vada se non ti accordi potrai comunque chiudere in concordato senza fallire”. Va detto però che sono state sollevate alcune criticità (specie sul trattamento dei crediti fiscali in questo concordato speciale) e non è una panacea: se non si può offrire niente ai creditori, neanche il concordato semplificato verrà omologato. Resta comunque una opzione da valutare con i propri consulenti all’esito negativo della composizione.

Vantaggi e limiti della composizione negoziata (punto di vista del debitore)

Vantaggi principali:

  • Riservatezza: a differenza delle procedure concorsuali, la composizione negoziata non comporta pubblicità sui bollettini fallimentari o simili (viene annotata solo al Registro Imprese l’istanza iniziale, ma l’opinione pubblica non ne è informata dettagliatamente). Ciò aiuta a non alimentare panico tra clienti e fornitori, mantenendo la reputazione mentre si cerca il risanamento. Le sedute sono riservate e vincolate alla confidenzialità.
  • Continuità gestionale: l’imprenditore resta al timone dell’azienda; non vi è nomina di curatore o commissario (salvo il ruolo dell’esperto che però non gestisce, solo osserva e consiglia). Questo consente di portare avanti l’attività senza lo stigma del fallimento e senza la rigidità di un concordato (dove il commissario vigila strettamente).
  • Flessibilità: non c’è uno schema fisso di soluzione imposto dalla legge. Ogni accordo è tagliato su misura: si può combinare qualsiasi misura (dilazioni, stralci, aumento di capitale, conversione di crediti in quote, cessione di asset, ecc.) purché i creditori chiave siano d’accordo. Anche i tempi sono modulabili (entro il limite dei 6 mesi prorogabili). Si può anche decidere di uscire dalla composizione in qualsiasi momento se si ritiene di aver risolto (ad es. perché la banca ha rinegoziato il debito a condizioni sostenibili).
  • Misure protettive e standstill: ottenere il blocco delle azioni esecutive dà ossigeno all’impresa. È un vantaggio rispetto a tentare accordi in modo informale senza protezione: in quel caso un creditore impaziente potrebbe portare l’azienda in tribunale prima che l’accordo maturi. Con la composizione negoziata, il debitore può congelare il contenzioso per concentrarsi sul risanamento.
  • *Nessuna aprertura di procedura concorsuale: questo ha riflessi positivi, ad esempio non scatta la revoca di fidi bancari automatica (che di solito avviene col concordato), i contratti pubblici in essere non decadono, e non viene meno la possibilità per l’azienda di partecipare a gare o ottenere finanziamenti (anche se in pratica le banche saranno caute, il quadro normativo non impone decadenze come avviene col fallimento). In più, non c’è quella “stigmatizzazione” di essere un’impresa in concordato/fallimento: ufficialmente si è semplicemente in una fase negoziale.
  • Costi relativamente contenuti: la composizione negoziata ha costi procedurali limitati (non c’è un tribunale costantemente coinvolto, né un commissario da remunerare). L’esperto ha diritto a un compenso, ma in parte è a carico delle Camere di Commercio e comunque calmierato. Molti costi (legali, finanziari, attestatore) eventualmente ci saranno se si formalizza un accordo o un piano, ma sarebbero analoghi a quelli di un concordato, spesso anzi inferiori (non c’è ad esempio il contributo del 4% al passivo per spese di procedura come in concordato).

Limiti e rischi:

  • Nessuna imposizione ai dissenzienti: a differenza del concordato, qui vige la volontarietà. Se un creditore importante non vuole saperne di accordi, la composizione di per sé non può imporgli un sacrificio. Questo limite può essere superato solo convertendo l’esito in un accordo di ristrutturazione omologato o in un concordato. Quindi, se il numero di creditori è elevato e c’è conflittualità, la composizione negoziata pura potrebbe non bastare.
  • Successo non garantito: è un percorso, non una soluzione di per sé. Richiede collaborazione: se l’imprenditore non è trasparente o se alcuni creditori adottano un atteggiamento ostruzionistico (sperando magari nel fallimento per far valere garanzie personali o altre ragioni), l’esperto potrà fare poco. Ci vuole buona fede reciproca.
  • Possibile perdita di tempo se non gestita bene: se l’azienda è già in condizione grave, sei mesi di trattative finite in nulla peggiorano soltanto la situazione (patrimonio eroso, creditori ancora più insoddisfatti). Quindi occorre un approccio realistico: valutare all’inizio, magari proprio col test sul portale, se esistono le basi per un risanamento. L’esperto in teoria dovrebbe dichiarare subito se non c’è spazio, ma parte della responsabilità è anche del debitore nel capire quando interrompere e passare ad altro (concordato o liquidazione). Un errore comune potrebbe essere usare la composizione solo per procrastinare l’inevitabile.
  • Impatto limitato sui contratti onerosi: diversamente dal concordato o fallimento, qui non c’è la possibilità di sciogliersi unilateralmente da contratti in corso troppo gravosi (salvo accordo con la controparte). Si può chiedere solo una sospensione breve (max 90 giorni) di alcuni contratti previa autorizzazione giudiziale. Quindi, se il risanamento richiederebbe liberarsi di contratti, la composizione negoziata non consente di farlo d’imperio – mentre un concordato sì (previa autorizzazione può sciogliere contratti ex art. 95 CCII, ad es.).

In conclusione, la composizione negoziata è uno strumento prezioso per affrontare la crisi prima che degeneri, puntando sul dialogo e su soluzioni concordate. Va utilizzata quando c’è ragionevole fiducia che i creditori principali siano aperti al negoziato e che l’impresa abbia ancora prospettive di sopravvivenza (magari con qualche sacrificio o ristrutturazione interna). Se i presupposti ci sono, è un percorso più leggero e malleabile rispetto alle procedure concorsuali classiche, e oggi ulteriormente incentivato dal legislatore. Qualora però le trattative falliscano, il debitore non resta privo di tutele: come visto può ripiegare su concordato semplificato o preventivo.

Nei prossimi paragrafi esamineremo più da vicino gli strumenti stragiudiziali (piani attestati e accordi di ristrutturazione) che spesso si intrecciano con la composizione negoziata, e poi quelli concorsuali giudiziali (concordato preventivo, liquidazione giudiziale) per il caso in cui la negoziazione privata non sia sufficiente.

I piani attestati di risanamento (accordi stragiudiziali protetti)

Tra gli strumenti di gestione extra-giudiziale della crisi d’impresa, i piani attestati di risanamento occupano un posto importante. Introdotti già dalla Legge Fallimentare (art. 67, co. 3, lett. d, L.F.) e confermati nel Codice della crisi (art. 56 CCII), i piani attestati sono essenzialmente dei piani di risanamento aziendale concordati in via privata con i creditori, caratterizzati dalla presenza di un’attestazione di un professionista indipendente sulla fattibilità.

In pratica, un piano attestato è un accordo stragiudiziale – quindi fuori da qualsiasi procedura concorsuale – in cui:

  • L’imprenditore elabora un piano industriale e finanziario di risanamento, prevedendo le operazioni necessarie (ristrutturazione del debito, rifinanziamento, dismissioni di asset, rilancio commerciale, ecc.) e la tempistica.
  • Viene nominato un professionista indipendente (iscritto a un albo specifico per attestatori) che analizza il piano e redige una relazione di attestazione, dichiarando che i dati di partenza sono veritieri e il piano è fattibile e idoneo a riportare l’azienda in equilibrio.
  • Su questa base, l’imprenditore negozia con uno o più creditori la ristrutturazione dei rispettivi crediti secondo quanto previsto dal piano (ad esempio, le banche concedono un allungamento dei mutui, i fornitori principali accettano un pagamento dilazionato, i soci apportano nuovi fondi, ecc.). I creditori che accettano, formalizzano con il debitore degli accordi contrattuali bilaterali (o un accordo plurilaterale) attuativi del piano di risanamento.

Il risultato è quindi un insieme di convenzioni private sostenute da un piano credibile. Non è richiesta alcuna approvazione del tribunale né il coinvolgimento di creditori dissenzienti. Non c’è una soglia minima di adesioni: il piano può coinvolgere anche un solo grande creditore (es. la banca principale) se ciò basta a riequilibrare la situazione.

Qual è allora la peculiarità rispetto a un normalissimo accordo privato? La peculiarità sta nell’attestazione e nei suoi effetti legali: un piano attestato di risanamento, se effettivamente idoneo a risanare l’impresa, gode della protezione dall’azione revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento (art. 67 L.F. e ora art. 166 CCII). Significa che gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione di un piano attestato non potranno essere dichiarati inefficaci dal curatore qualora l’impresa dovesse comunque fallire successivamente. È un “safe harbor” per incentivare i creditori a partecipare al risanamento senza il timore che, se poi le cose vanno male, i vantaggi ottenuti vengano revocati. Ad esempio, se la banca rinegozia un debito e ottiene in cambio una nuova garanzia ipotecaria come da piano attestato, quella garanzia non sarà revocabile anche se entro 2 anni la società fallisce (mentre normalmente una garanzia concessa in fase di crisi potrebbe essere revocata). Questa è la protezione chiave offerta dal legislatore per i piani attestati.

Quando utilizzare un piano attestato? Di solito quando la crisi è relativamente circoscritta e c’è un numero limitato di creditori strategici con cui trattare. È tipico il caso delle imprese che hanno principalmente banche come creditori finanziari: se 2-3 banche (che detengono l’80% del debito) concordano la ristrutturazione, il piano può funzionare anche se altri piccoli creditori restano fuori (che comunque verranno pagati regolarmente secondo scadenze, magari grazie al respiro ottenuto dalle banche). Oppure il caso di un’impresa che ha una temporanea crisi di liquidità: i fornitori principali accettano di allungare i pagamenti sul prossimo anno, i soci immettono capitali freschi, e il piano attestato certifica che in questo modo l’impresa recupererà l’equilibrio. In simili situazioni non serve attivare il tribunale, basta l’accordo tra le parti, e il piano attestato offre il giusto mix di flessibilità e sicurezza (sicurezza grazie alla perizia dell’attestatore e al scudo anti-revocatoria).

Dal punto di vista pratico, i passi per un piano attestato sono:

  1. Due Diligence e stesura del piano: l’azienda (spesso aiutata da advisor finanziari) predispone un piano dettagliato con analisi delle cause della crisi, misure correttive e proiezioni economico-finanziarie a medio termine che dimostrino il ritorno alla solvibilità.
  2. Individuazione dell’attestatore: si sceglie un professionista qualificato e indipendente (non legato all’azienda né ai creditori) che esaminerà il piano e i dati aziendali. L’attestatore deve essere iscritto all’albo dei gestori della crisi o avere requisiti ex art. 2 lett. o) CCII (es.: commercialista con esperienza).
  3. Relazione di attestazione: l’attestatore verifica i bilanci, la situazione debitoria, la veridicità delle informazioni fornite e la plausibilità delle assunzioni del piano (es. previsioni di ricavi, taglio costi, realizzo di cespiti). Quindi emette una relazione in cui assevera che il piano è idoneo a risanare l’impresa e assicurare il regolare pagamento dei creditori nei tempi previsti. Questa relazione viene fondamentale per dare credibilità al piano verso i creditori.
  4. Negoziazione con i creditori e formalizzazione: munito del piano e della relazione, l’imprenditore negozia con i creditori interessati. Il vantaggio è che può mostrare loro: “un esperto indipendente ha confermato che questo piano funziona e vi farà recuperare il vostro credito secondo queste modalità”. I creditori saranno più propensi ad aderire se c’è un’attestazione seria. Raggiunto l’accordo, lo si formalizza in un contratto o in scambi di lettere d’impegno che recepiscono la nuova scadenza/importo/modalità di pagamento del debito secondo il piano.
  5. Pubblicazione (facoltativa) nel Registro delle Imprese: per ottenere la protezione massima, spesso l’imprenditore deposita il piano attestato e la relazione presso il Registro delle Imprese. Non è un obbligo, ma farlo dà data certa al piano e rende opponibile ai terzi la sua esistenza, rafforzando la posizione in caso di successivo fallimento. La pubblicità tuttavia rivela a tutti che la società è in crisi, quindi in alcuni casi si preferisce non depositare subito ma solo in caso di eventuale successivo fallimento dimostrare che il piano c’era (per opporre l’esenzione da revocatoria).

Effetti e limiti: come detto, il piano attestato non vincola i creditori estranei. Significa che se ho 10 fornitori e solo 6 aderiscono, gli altri 4 possono continuare a pretendere i pagamenti alle scadenze originarie e, se non pagati, agire giudizialmente. Ecco perché il piano attestato si adatta a crisi dove il numero di creditori critici è ridotto. Inoltre, diversamente da un concordato, non c’è moratoria legale per i creditori: se serve proteggersi da aggressioni di qualcuno non aderente, l’impresa potrebbe dover parallelamente ricorrere (prima o poi) a misure protettive via composizione negoziata o concordato.

Tuttavia, un piano attestato ben riuscito solitamente fa sì che tutti i creditori rilevanti siano a bordo. I piccoli creditori spesso vengono pagati regolarmente o con minimi ritardi, così da non creare problemi. In questo senso, il piano attestato può risolvere la crisi in modo discreto e rapido.

Dal lato dell’imprenditore, i pro del piano attestato sono: rapidità e semplicità (nessuna procedura formale lunga; tempi dettati solo dalla negoziazione privata), riservatezza (si evita il “marchio” del concordato), flessibilità contrattuale (si può modulare trattamento diverso per ciascun creditore se serve, cosa che in procedure concorsuali è limitata da regole di par condicio a parità di grado). Inoltre, come già evidenziato, non c’è l’obbligo di pagare poi tutti i creditori ugualmente: quelli che non partecipano devono comunque essere soddisfatti integralmente alle scadenze originarie per evitare guai, ma se sono marginali ciò è fattibile grazie all’accordo ottenuto con i principali.

I contro e rischi: il piano attestato non offre la certezza assoluta di tenuta se la situazione peggiora molto. Ad esempio, i creditori non aderenti potrebbero comunque presentare istanza di fallimento se vedono l’azienda ancora in difficoltà (anche se, in pratica, se la maggioranza dei crediti è ristrutturata e il piano migliora la sostenibilità, questo rischio diminuisce). E soprattutto, se l’impresa poi fallisce, il piano attestato di per sé non evita il fallimento né dà diritto all’esdebitazione automatica: i debiti residui rimasti verso gli estranei restano dovuti e confluiranno nel fallimento. Insomma, è una soluzione “privatistica” fragile: funziona se il piano è realistico e la ripresa effettivamente avviene; altrimenti è solo un palliativo temporaneo.

Un altro punto: il costo dell’attestazione. Bisogna pagare un professionista qualificato per asseverare il piano, e le sue responsabilità sono notevoli (in caso di attestazione false o gravemente errate l’attestatore risponde anche penalmente). Quindi l’onorario non è banale, specie per aziende piccole (può variare da qualche migliaio di euro fino a decine di migliaia per casi complessi). Questo costo però è quasi un “bollino di garanzia” verso i creditori, spesso inevitabile per convincerli.

Esempio pratico: Alfa Srl ha accumulato €2 milioni di debiti con le banche e €500k con fornitori, a fronte di un calo di fatturato. Le banche minacciano di revocare gli affidamenti. Alfa elabora un piano: i soci apportano €200k freschi, si vende un immobile non strumentale per €300k, e con questi fondi si paga parte dei fornitori e si riduce l’esposizione bancaria. Per il residuo debito bancario (€1,5M) il piano prevede un allungamento da 3 a 7 anni delle scadenze. Un attestatore conferma che con queste misure il cash flow di Alfa potrà coprire le nuove rate e normalizzare i pagamenti fornitori. Le banche (che detengono il 80% del debito totale) accettano l’accordo di ristrutturazione del loro credito secondo il piano. I fornitori, vedendo rientrare una parte e garanzia di pagamento puntuale per il futuro, non avviano azioni. Alfa deposita il piano e l’attestazione al registro imprese. In questo modo, Alfa Srl esce dalla crisi senza passare dal tribunale. Tre anni dopo, l’azienda si è ripresa e onora il piano regolarmente: il piano attestato ha avuto successo e i creditori hanno evitato perdite ben maggiori che sarebbero derivate dal fallimento.

Nel caso in cui invece Alfa, malgrado il piano, non ce la facesse e fallisse, i pagamenti fatti e le garanzie date in esecuzione del piano (es. l’ipoteca concessa alle banche per il nuovo finanziamento) non sarebbero revocati dal curatore grazie alla scudo previsto. I creditori però tornerebbero ad essere concorrenti nel fallimento per gli importi rimasti insoddisfatti.

In definitiva, il piano attestato di risanamento è consigliabile quando si ha un numero ristretto di creditori decisivi e ragionevolmente collaborativi e un piano credibile di rilancio. Se invece i creditori sono molti e eterogenei, o vi è bisogno di imporre stralci a forza a qualcuno, questo strumento non basta – occorre passare a soluzioni come gli accordi omologati o il concordato, di cui trattiamo subito.

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ex art. 57 CCII)

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) rappresentano una soluzione intermedia tra il piano puramente privato e il concordato preventivo. Introdotti originariamente nel 2005 (art. 182-bis L.F.) e oggi disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, gli accordi di ristrutturazione consistono in accordi negoziati con i creditori ma che acquistano efficacia generale grazie all’omologazione da parte del tribunale. In sintesi, il debitore raggiunge un’intesa con una massa critica di creditori (una maggioranza qualificata stabilita per legge) su un piano di ristrutturazione dei debiti, e poi chiede al tribunale di omologare tale accordo, rendendolo vincolante secondo i termini pattuiti.

Caratteristiche chiave degli ARD:

  • Soglia di adesione: tradizionalmente è richiesto che il debitore ottenga l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali. Ciò significa che se si mettono insieme i crediti dei firmatari dell’accordo, questi rappresentino almeno il 60% dell’importo complessivo dei debiti dell’impresa. Questa maggioranza è calcolata sul valore e non sul numero di creditori. I creditori “esterni” (cioè non aderenti) rimangono estranei e dovranno essere pagati per intero alle scadenze originarie (salvo che non si decida di coinvolgerli con altre procedure). Questa è la forma classica, detta accordo ordinario.
  • Tipologie speciali introdotte di recente: la riforma 2020-2022 e l’attuazione della Direttiva UE 2019/1023 hanno portato innovazioni:
    • Accordo di ristrutturazione “agevolato”: è ammessa la possibilità di omologare un accordo anche con una percentuale di adesioni inferiore al 60%, purché almeno 30% dei crediti totali aderiscano e per i restanti creditori il piano preveda il pagamento integrale (o comunque l’integrale soddisfazione, ad esempio tramite continuità aziendale) dei loro crediti entro 120 giorni dall’omologazione o dalle scadenze originarie. In pratica, l’accordo agevolato permette di ottenere omologa con solo il 30% se ai dissenzienti non viene imposto alcun sacrificio (devono essere pagati completamente). Il senso di questa figura è velocizzare la procedura quando magari pochi creditori subiscono modifiche e gli altri vengono soddisfatti normalmente.
    • Accordi ad efficacia estesa: novità ancora più significativa, permette di estendere coattivamente gli effetti di un accordo anche a creditori non aderenti di una certa categoria. In particolare, se l’accordo riguarda solo creditori finanziari (banche, obbligazionisti, intermediari) ed aderiscono almeno il 75% di tali crediti, il debitore può chiedere che l’omologazione renda vincolante l’accordo anche nei confronti dei creditori finanziari dissenzienti della stessa categoria. Ad esempio, se 8 banche su 10 (che rappresentano il 80% del credito bancario) aderiscono, l’accordo può essere esteso alle 2 banche dissenzienti, imponendo loro le stesse condizioni accettate dalle altre. Questo meccanismo è pensato per risolvere il problema dell’holdout (creditore che non aderisce sperando di ottenere tutto), almeno all’interno di categorie omogenee. È una forma di cram-down settoriale: limitata ai creditori finanziari o comunque a categorie di crediti specifiche individuate dalla legge.
    • Altri accordi particolari: esiste la convenzione di moratoria (art. 61 CCII) dove una maggioranza di creditori finanziari può accordarsi per congelare le azioni esecutive per un certo tempo e tale moratoria, se omologata, vincola anche i dissenzienti finanziari (sempre con soglie >75%). Inoltre, c’è l’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e fornitori strategici introdotto per certe imprese (non entriamo nel dettaglio ultra-tecnico, ma il succo è che la legge offre vari strumenti flessibili per includere le categorie più rilevanti).
  • Procedimento di omologazione: il debitore, dopo aver raccolto le firme necessarie, deposita in tribunale la domanda di omologazione, allegando il testo dell’accordo e una relazione di un professionista attestatore (anche qui serve un’attestazione) che dichiari che l’accordo assicura l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge e che l’accordo è fattibile. Il tribunale, verificate le condizioni, omologa l’accordo con decreto. Se ci sono opposizioni da parte di creditori estranei che temono pregiudizio, il tribunale le valuta. L’omologazione rende l’accordo efficace erga omnes limitatamente ai creditori aderenti (tranne i casi di efficacia estesa come detto). I creditori estranei restano fuori dall’accordo, ma l’azienda di solito li paga normalmente a scadenza per non farli poi agire.
  • Transazione fiscale integrata: un punto delicato era come includere i debiti fiscali e previdenziali. Prima, la regola era che per tagliare o diluire quei debiti occorreva la transazione fiscale e serviva il voto favorevole dell’Erario all’accordo. Ora, con il CCII e i correttivi, è stato introdotto il cram-down fiscale anche per gli accordi: se il Fisco rifiuta di aderire ma l’accordo offre al Fisco almeno quanto otterrebbe in un fallimento, il tribunale può omologare ugualmente l’accordo nonostante il dissenso dell’Erario (questo era stato anticipato col DL 125/2020, come confermato da Cassazione e poi recepito nel Codice). Quindi, oggi il debitore può ristrutturare i debiti tributari anche senza l’ok del fisco, a patto che un giudice verifichi che il trattamento proposto è equo (non inferiore al valore di realizzo in caso di liquidazione forzata). È un cambiamento epocale che prima non c’era: prima bastava il diniego Agenzia Entrate a far saltare tutto, ora non più.

Vantaggi per il debitore negli ARD:

  • Rispetto al concordato, l’accordo di ristrutturazione è più snello: coinvolge il tribunale solo in fase finale (omologa) e in modo meno invasivo. Non c’è una procedura concorsuale aperta, il debitore non è sottoposto a commissario (a meno che non chieda misure protettive nel frattempo, caso in cui il tribunale può nominare un ausiliario). L’impresa evita molti formalismi ed ha maggiore riservatezza (benché l’omologa sia pubblica).
  • È veloce: una volta raggiunto l’accordo, l’omologa può arrivare in pochi mesi. Non c’è il lungo iter del concordato con ammissione, voto, ecc. I creditori chiave hanno già espresso il loro consenso firmando.
  • Selettivo: consente di includere solo i creditori con cui si raggiunge intesa e lasciare fuori gli altri, purché questi possano essere pagati a parte. Ciò è utile se, ad esempio, l’impresa ha 100 creditori ma i problemi stanno tutti con 5 banche. Gli altri 95 (fornitori, dipendenti) continuano a essere pagati regolarmente – li lasci fuori dall’accordo così non si allarmano nemmeno troppo – e sistemi solo l’esposizione bancaria con un ARD.
  • Elasticità nel contenuto: come in un piano attestato, anche qui c’è libertà contrattuale su come ristrutturare (dilazioni, stralci parziali, conversione debiti in capitale, ecc.), limitata solo dal rispetto dei “paletti” di legge per tutelare i creditori estranei (che vanno pagati integralmente nei termini previsti per legge, tipicamente 120 giorni da scadenza o omologa).
  • Misure protettive disponibili: se necessario, il debitore può richiedere al tribunale misure cautelari già durante la trattativa per l’accordo (analoghe a quelle del concordato preventivo, come il divieto di azioni esecutive). Questo strumento è utile se serve fermare un creditore isolato mentre si raccolgono le firme degli altri. La legge consente di depositare una domanda “in bianco” di omologa di accordo con riserva di presentare poi l’accordo (simile al concordato in bianco), ottenendo nel frattempo lo stay delle azioni (art. 44 CCII richiama anche la domanda di accordo di ristrutturazione con riserva).

Svantaggi e limiti:

  • Necessaria una maggioranza qualificata: se il debitore non riesce a convincere abbastanza creditori fino a raggiungere il 60% (o 30% con pagamento integrale dei restanti), l’accordo non è omologabile. Quindi se c’è molta dispersione di crediti o forte dissenso diffuso, l’ARD non parte neanche.
  • Creditori estranei non toccati: i non aderenti non subiscono legami dall’accordo, se non in quelle categorie in cui la legge consente efficacia estesa. Quindi ad esempio i fornitori piccoli, se non aderiscono formalmente, devono essere comunque pagati regolarmente o potranno agire. Ci vuole dunque liquidità per soddisfare i fuori accordo nei termini previsti (a meno che l’impresa usi l’accordo per reperire liquidità e pagarli).
  • Procedura concorsuale seppur minore: benché più leggera del concordato, comunque l’accordo di ristrutturazione è pubblicato nel registro delle imprese, l’omologa è pubblica, e l’impresa per qualche tempo può avere un’etichetta di “in ristrutturazione ex art…”. Non tanto come uno stato di insolvenza, ma i partner commerciali potrebbero venirne a conoscenza. In ogni caso, è percepito meglio di un concordato (dove spesso fornitori e clienti scappano appena sanno del deposito).
  • Attestazione e documentazione simile al concordato: serve comunque preparare un piano, i documenti contabili, nominare un attestatore. Quindi l’impegno in termini di preparazione è comparabile a un concordato, solo senza la gestione giudiziale successiva.

Spesso, la scelta tra accordo di ristrutturazione e concordato preventivo dipende da: (a) quanti creditori cooperativi si hanno; (b) se si vogliono tenere alcuni creditori fuori; (c) se si vuole evitare il voto dei creditori (che nel concordato può essere incerto). Se si hanno già dalla propria parte le banche e i principali attori, l’accordo è preferibile perché si va sul sicuro senza passare per la forca caudina del voto di tutti.

Dal punto di vista del debitore: un accordo di ristrutturazione può essere consigliabile quando l’impresa è in crisi ma ha prospettive di continuare l’attività, e riesce a coinvolgere attivamente la maggior parte dei creditori chiave. Ad esempio, PMI con poche banche esposte e pochi fornitori rilevanti, oppure società più grandi che riescono a costruire un pool di creditori consenzienti (magari grazie all’intervento di un investitore). Finché si resta sopra il 60% di adesioni e i rimanenti possono essere tutelati (pagati), questa strada evita la complessità del concordato e offre ancora negoziabilità contrattuale elevata.

Esempio pratico semplificato: Beta S.p.A. ha debiti bancari per 10 mln e obbligazionisti per 5 mln, più debiti vari per altri 5 mln. Totale 20 mln. Beta elabora un piano dove i crediti finanziari (banche+bond) vengono ristrutturati con un taglio del 20% e pagamento del resto in 5 anni; i creditori chirografari commerciali (fornitori) invece sarebbero pagati integralmente ma in 12 mesi. Beta ottiene l’adesione di banche e obbligazionisti che detengono il 80% del totale crediti (16 mln su 20). Solo due banche minori dissentono (per 1 mln) e qualche fornitore non firmerebbe ma verrà pagato integralmente comunque. Beta presenta l’accordo in tribunale con l’attestazione che i fornitori estranei saranno pagati per intero entro 120 giorni dall’omologa. Il tribunale omologa l’accordo: tutti i creditori aderenti (compreso quell’80% di banche/obbligazionisti) sono vincolati alla riduzione del 20% e alle nuove scadenze. Le banche dissenzienti, se erano finanziarie e rientrano nel 20% di non aderenti, potrebbero essere anch’esse vincolate per efficacia estesa (se rientra nei casi, e presumibilmente sì: oltre 75% delle finanziarie ha aderito, quindi anche i pochi non aderenti vengono trascinati dentro). I fornitori, non avendo subito alcuno stralcio nel piano (li pagano al 100%), non avevano ragione di opporsi; Beta li paga puntualmente. L’operazione riesce e Beta prosegue la sua attività con un debito finanziario alleggerito e diluito.

In caso di esito nefasto e fallimento successivo, i creditori aderenti all’accordo godrebbero di vari benefici: i nuovi finanziamenti concessi in esecuzione dell’accordo sarebbero prededucibili, i pagamenti ricevuti non revocabili (se fatti regolarmente come da accordo), etc.

Giurisprudenza rilevante sugli accordi: la Cassazione ha in più occasioni rafforzato l’idea di flessibilità di questi strumenti. Ad esempio, con riguardo al cram-down fiscale, la Suprema Corte a Sezioni Unite nel 2021 (sent. 8504/2021) ha sottolineato la prevalenza dell’interesse concorsuale alla continuazione dell’azienda rispetto al mero interesse erariale alla riscossione integrale. Ciò ha spianato la strada all’ammissione di accordi e concordati anche senza il sì del Fisco purché l’impresa sia salvabile e l’Erario non sia pregiudicato rispetto all’alternativa liquidatoria. Inoltre, la Cassazione ha chiarito che la valutazione di convenienza spetta comunque ai creditori e non al giudice: infatti in un arresto del 2023 (Cass. 17103/2023) si è affermato che i creditori possono scegliere di approvare o meno la proposta, anche se il giudice la ritiene più conveniente del fallimento – segno che la volontarietà (nel concordato, ma analogamente negli accordi) è sovrana, salvo eccezioni di legge.

In sintesi, gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono il “salvagente” legislativo per il debitore che vuole evitare procedure concorsuali lunghe, a patto di avere il supporto di una maggioranza di creditori. Si collocano come strumento privilegiato di composizione della crisi “assistita” dall’Autorità giudiziaria quel tanto che basta (solo l’omologa). Specialmente dopo le riforme recenti, risultano potenziati e più flessibili, grazie alle varianti a soglia ridotta e ad efficacia estesa, nonché alla possibilità di includere la transazione fiscale in modo efficace.

Nel prossimo capitolo passeremo alla procedura concorsuale regina, il concordato preventivo, che invece entra in gioco quando non si riesce (o non si vuole) ottenere accordo volontario sufficiente e si deve coinvolgere tutti i creditori in un quadro giudiziale, oppure quando l’insolvenza è conclamata e serve un intervento più autoritativo.

Il concordato preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale giudiziale che consente al debitore di proporre ai propri creditori un piano di regolazione della crisi o dell’insolvenza, alternativo alla liquidazione fallimentare, ottenendo – se approvato dalle maggioranze richieste e omologato dal tribunale – la possibilità di evitare la liquidazione giudiziale e di adempiere ai debiti secondo modalità e tempi concordati. È uno strumento di soluzione collettiva della crisi, previsto sia per perseguire la continuità aziendale (concordato “in continuità”) sia per liquidare il patrimonio in modo più vantaggioso rispetto al fallimento (concordato “liquidatorio”).

Caratteristiche in sintesi:

  • Soggetti ammessi: tutti gli imprenditori commerciali assoggettabili a fallimento (ora liquidazione giudiziale) possono chiedere il concordato preventivo in caso di crisi o insolvenza. Col nuovo Codice, anche l’imprenditore agricolo può accedere al concordato (prima ne era escluso in L.F.), e in generale è ammessa anche l’insolvenza prospettica (crisi) non ancora conclamata. Restano esclusi i soli imprenditori molto piccoli sotto le soglie di fallibilità (che dovranno semmai ricorrere al concordato minore).
  • Natura volontaria ma con intervento giudiziale: è il debitore che propone il concordato depositando ricorso al tribunale con la proposta, il piano e la documentazione contabile. Da quel momento si apre una procedura concorsuale sotto il controllo del tribunale. Viene nominato un Commissario Giudiziale, che vigila sull’impresa durante la procedura e riferisce ai creditori e al giudice. Gli amministratori restano in carica (non c’è spossessamento integrale come nel fallimento), ma ogni atto di straordinaria amministrazione richiede autorizzazione e vi è il controllo degli organi della procedura.
  • Effetti immediati (“automatic stay”): dalla pubblicazione del ricorso in concordato nel Registro Imprese scattano le misure protettive in automatico (art. 54 CCII): sospensione delle azioni esecutive e cautelari dei creditori per tutta la durata della procedura, divieto di iniziare o proseguire pignoramenti, ecc. Inoltre, sempre dal deposito, non operano le cause di scioglimento societarie per perdite di capitale (l’azienda non va sciolta per capitale azzerato) e non c’è obbligo di ripianare le perdite immediatamente. Questo “blocco” dà respiro e stabilità all’impresa mentre elabora e discute il piano con i creditori.
  • Formazione delle classi di creditori: il debitore nel piano suddivide i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei (es. una classe chirografari fornitori, una classe banche chirografarie, una classe creditori privilegiati degradati, ecc.). La formazione delle classi è obbligatoria quando vi sono creditori con cause o interessi differenziati, ed è funzionale alla votazione. I creditori privilegiati che vengono soddisfatti integralmente di regola non votano (perché non subiscono alterazioni dei loro diritti); quelli privilegiati parzialmente invece votano per la parte in cui il loro credito è trattato come chirografario.
  • Approvazione dei creditori: i creditori aventi diritto di voto (principalmente i chirografari e i privilegiati per la parte non coperta da garanzia) votano sulla proposta di concordato. La regola generale (art. 109 CCII) è che in ogni classe la proposta si intende approvata se ha ottenuto il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto in quella classe. Se non si fanno classi (perché i creditori sono tutti di fatto chirografari omogenei), serve la maggioranza del 50%+1 del totale crediti chirografari. Dunque, il concordato richiede in principio un consenso multiclasse: ogni classe deve approvare. Tuttavia, la riforma ha introdotto l’omologazione anche in mancanza di voto unanime delle classi in certe condizioni (cram-down interclassi): se c’è almeno una classe dissenziente, il tribunale può comunque omologare il concordato a determinate condizioni (ad esempio che la classe dissenziente sia trattata non peggio di altre pari grado e non prenderebbe più in liquidazione). Questo recepisce la Direttiva UE sulla ristrutturazione preventiva che richiede strumenti di cram-down tra classi. In pratica, oggi è possibile far passare un concordato anche se una classe vota no, purché il piano sia equo e conveniente globalmente. Ad esempio, se tutte le classi tranne una approvano, e quella dissenziente comunque riceve in concordato almeno quanto avrebbe dal fallimento, il giudice può disregarded il suo no e approvare lo stesso. Questo è stato un upgrade importante rispetto al passato.
  • Omologazione del tribunale: dopo il voto, il tribunale tiene un’udienza per l’omologa. Se le maggioranze ci sono (o anche se non ci sono tutte ma si ricorre al cram-down come detto), e se non ci sono opposizioni fondate di creditori (ad esempio per mancato rispetto della par condicio o fattibilità del piano), il tribunale emette il decreto di omologazione. Da quel momento il concordato diventa efficace e vincolante.
  • Esecuzione del piano: segue poi la fase di attuazione. Se è un concordato in continuità, l’azienda prosegue la sua attività sotto la supervisione del Commissario (che spesso resta nominato come commissario/attuatore) e dovrà eseguire i pagamenti come da piano nei tempi concordati (es. pagare ai creditori il 60% in 4 rate semestrali, o simili). Se è un concordato liquidatorio, un Liquidatore Giudiziale nominato venderà i beni secondo il piano e distribuirà i proventi ai creditori concordatari.

Ci sono due tipologie principali di concordato:

  • Concordato in continuità aziendale: il piano prevede che l’impresa (o una parte di essa) continui la sua attività, sia durante la procedura che dopo l’omologa, utilizzando i ricavi futuri per pagare i creditori. Può essere diretta (la stessa impresa prosegue) o indiretta (si affitta o vende l’azienda a un terzo che la gestirà, e col ricavato o i canoni si pagano i creditori). Il legislatore favorisce la continuità perché preserva valore (posti di lavoro, know-how, ecc.). Nel concordato in continuità non è richiesto un pagamento minimo ai chirografari fisso per legge, ma bisogna dimostrare che la continuità offre ai creditori una soddisfazione più conveniente che non la liquidazione immediata (principio della convenienza comparativa).
  • Concordato liquidatorio: il piano prevede solo la liquidazione di tutto o parte del patrimonio dell’impresa e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza prosecuzione dell’attività (se non quella strettamente funzionale alla vendita). In questo caso la legge richiede che i creditori chirografari ricevano almeno il 20% dei loro crediti (soglia minima di soddisfacimento) salvo che venga apportata “finanza esterna” che incrementi il soddisfacimento. Questa soglia è per evitare concordati liquidatori che diano briciole: se il piano offrisse meno del 20%, in teoria non sarebbe ammissibile (salvo autorizzazione straordinaria o casi particolari come il concordato semplificato dove non c’è voto).

(NB: il CCII su queste percentuali ha fatto qualche modifica, potrebbe prevedere eccezioni, ma il principio rimane quello di tutelare i creditori chirografari in caso di mera liquidazione.)

Perché un debitore dovrebbe scegliere il concordato preventivo? In genere ci si arriva quando:

  • La massa dei creditori è troppo ampia per trovare accordo extragiudiziale con tutti o per ottenere il 60% di adesioni. Nel concordato, grazie al meccanismo di voto e omologa, il debitore può imporre il piano anche ai dissenzienti (purché abbia il consenso di una maggioranza).
  • Si ha bisogno di trattare anche i creditori estranei e di regolare tutti i debiti in un colpo solo (cosa che un ARD non fa per i non aderenti).
  • Si necessita di strumenti che solo la procedura concorsuale dà: ad esempio, sciogliersi da contratti onerosi, licenziare personale eccedente con procedure agevolate, oppure ottenere finanziamenti in prededuzione con autorizzazione giudice, o ancora evitare revocatorie su pagamenti autorizzati dal giudice. Il concordato fornisce un ombrello di “protezione integrale” dalla pretesa dei creditori durante il piano (nessuno potrà aggredire l’azienda se rispetta il piano).
  • L’impresa è in insolvenza conclamata e un accordo stragiudiziale è irrealistico perché i creditori già spingono per azioni esecutive: il concordato li blocca subito per legge.
  • Serve un “fresh start” garantito: a fine concordato, l’impresa esce libera dai debiti pregressi residui come da piano omologato (quelli chirografari vengono falcidiati e non possono più pretendere nulla oltre a quanto ricevuto in concordato).

Dal lato emotivo, a volte l’imprenditore preferisce il concordato perché è trasparente e ordinale: tutti i creditori sono coinvolti ufficialmente, c’è un giudice, c’è parità di trattamento per categorie. Ciò può essere importante se il debitore vuole evitare di essere accusato di favorire qualcuno extra-giudizialmente.

Costo e complessità però sono alti: la procedura di concordato è onerosa: bisogna pagare il commissario, il liquidatore (se nominato), le spese di giustizia (di regola, il 4% dell’attivo liquidato va allo Stato per spese, questo nel fallimento e in parte anche nel concordato liquidatorio), oltre ai propri professionisti. Può quindi succedere che in concordato se ne vadano un bel po’ di soldi solo per la procedura. Ad esempio, come riportato da esperti, il costo procedurale di un concordato può arrivare a incidere nell’ordine del 4% del patrimonio, mentre un accordo stragiudiziale non ha questo onere (ha altri costi professionali ma minori). Il concordato va quindi riservato a quando è davvero necessario.

Concordato preventivo e transazione fiscale: come per gli accordi, anche nel concordato vige ora il cram-down fiscale: l’art. 88 CCII e prima ancora l’art. 180 L.F. (modificato) permettono al tribunale di omologare il concordato anche se l’Erario o enti previdenziali votano no, se l’offerta che ricevono è almeno pari al valore di liquidazione. La Cassazione ha confermato nel 2024 (sent. 27782/2024) che tale facoltà si applica sia se il Fisco è rimasto silente sia se ha espresso voto contrario. Questo elimina il “potere di veto” che il Fisco aveva in passato sui concordati dove si chiedevano stralci di tributi.

Competing plans: Il CCII prevede, in certe circostanze, la possibilità di proposte concorrenti da parte dei creditori o di terzi. Ad esempio, se il debitore propone un concordato liquidatorio con soddisfacimento basso dei creditori chirografari, altri soggetti (come creditori rappresentanti almeno il 10% dei crediti o un assuntore) possono presentare un piano alternativo migliorativo. Questo meccanismo mira a creare “concorrenza” a beneficio dei creditori, ma è circoscritto a ipotesi particolari (nel vecchio regime fu introdotto nel 2015). Nel CCII le proposte concorrenti sono ammesse, ad esempio, se la proposta del debitore prevede il pagamento di meno del 30% ai chirografari in liquidatorio oppure se mira a esdebitazione dell’imprenditore individuale senza soddisfare almeno il 20%. In tali casi i creditori possono presentare entro certi termini proprie proposte. Il tribunale mette al voto sia quella del debitore sia le concorrenti, e i creditori scelgono la più vantaggiosa. Ciò ovviamente dal punto di vista del debitore non è ideale, perché gli toglie il controllo dell’iniziativa. Ma è uno stimolo a proporre piani non troppo penalizzanti e a comportarsi correttamente. Se l’imprenditore teme proposte concorrenti, cercherà di offrire fin da subito un piano convincente.

Esito del concordato: se l’impresa adempie il piano omologato, esce dalla procedura e riprende la normale attività, alleggerita dei debiti secondo quanto stabilito. Se invece non rispetta gli obblighi (ad esempio non paga una rata concordataria), il concordato può essere risolto dal tribunale su istanza dei creditori e si aprirà quasi inevitabilmente una liquidazione giudiziale (fallimento). Dunque, la credibilità e fattibilità del piano sono cruciali; il giudice le valuta già prima di ammettere il concordato e in sede di omologa (può negare omologa se il piano appare inattuabile).

Esempio breve: Gamma Srl è insolvente con 100 creditori. Propone un concordato: l’azienda, che vale sul mercato 5 milioni, verrà venduta a un investitore che offre 5 milioni; con tali soldi pagherà ai creditori privilegiati il 100% (mettiamo sono 3 milioni) e ai chirografari il 50% (il residuo 2 milioni su 4 di crediti chirografari). I creditori votano per classi: privilegiati non votano (sono soddisfatti integralmente), chirografari votano e oltre il 50% di loro in valore approva. Il tribunale omologa. Gamma Srl trasferisce l’azienda all’investitore per 5 milioni, versa 3 milioni ai creditori privilegiati, 2 milioni ai chirografari (che quindi subiscono uno stralcio del 50%). Fine: Gamma è liberata dal restante 50% di debiti chirografari non pagati, i creditori hanno ottenuto forse più di quanto avrebbero visto in un fallimento (dove magari dalla liquidazione avrebbero recuperato solo 30%). Gamma può proseguire (se aveva deciso di continuare con altra attività residuale) o comunque i soci/il debitore persona fisica non sono falliti. Se Gamma fosse persona fisica, inoltre, una volta eseguiti i pagamenti concordatari potrebbe chiedere l’esdebitazione per far cancellare anche eventuali debiti residui esclusi (nel concordato di solito tutti i debiti sono inclusi, quindi non serve esdebitazione ulteriore a meno che alcuni crediti non fossero toccati).

Concordato in continuità esempio: Delta Spa, fabbrica manifatturiera con 200 dipendenti, è in crisi ma ha ancora commesse. Presenta un concordato in continuità: prevede di ottenere nuova finanza dai soci e da una banca per 2 milioni, ridurre il personale di 50 unità (costo tagliato grazie a accordo sindacale e intervento CIGS), e pagare i creditori in 5 anni utilizzando gli utili previsti del periodo. Promette il 40% ai chirografari in 5 anni. I creditori valutano che la società in continuità potrà generare quel valore (anche l’attestatore lo dice); in caso di fallimento invece otterrebbero forse il 20%. Votano a favore in larga maggioranza perché preferiscono far vivere l’azienda cliente che fallirla. Il tribunale omologa. Delta Spa continua a produrre, sotto monitoraggio del commissario, e nei 5 anni paga progressivamente il 40% dovuto ai creditori. Alla fine, l’azienda è salva, i debiti residui sono stralciati, e i lavoratori (in parte) hanno mantenuto il posto. Questo è l’esito auspicato quando la continuità è possibile. Per incentivare ciò, la legge consente ad esempio che in un concordato in continuità, eventuali creditori strategici che continuano il rapporto possano essere pagati in prededuzione, o che i nuovi finanziamenti post omologa siano privilegiati, etc., tutte misure per favorire la riuscita.

Punto di vista del debitore – pro e contro del concordato:

Pro:

  • È spesso l’unica via se non si riesce ad ottenere consensi extragiudiziali sufficienti.
  • Permette di gestire la crisi coinvolgendo tutti i creditori in modo ordinato e bloccando le azioni individuali (ti mette al riparo dall’aggressione dei singoli).
  • Può salvare l’impresa (se in continuità) o massimizzare il valore in caso di liquidazione (se viene qualcuno ad acquistare assets sapendo di evitare l’asta fallimentare).
  • Permette di imporre sacrifici anche ai creditori dissenzienti (nessun creditore ha potere di veto, nemmeno il Fisco come visto).
  • Ha un quadro normativo chiaro e consolidato: la presenza del giudice e del commissario dà una garanzia di legalità a tutto il processo (utile anche per evitare future contestazioni, es: se i soci vedono stralciate le posizioni, i creditori non potranno più rincorrerli se il concordato è andato a buon fine).
  • Se l’imprenditore è persona fisica, l’adempimento del concordato comporta l’esdebitazione automatica per i debiti concorsuali insoddisfatti (il CCII la prevede anche nel concordato, analogamente al fallimento, salvo eccezioni per debiti esattoriali se non trattati etc.).

Contro:

  • Costoso e complesso: richiede un impianto di consulenti (avvocati, financial advisor, attestatore) e si deve pagare il Commissario, più lungaggini burocratiche. Non è adatto a situazioni di piccole dimensioni (difatti le micro imprese hanno il concordato minore, più semplificato).
  • Lento: benché il CCII abbia snellito alcune fasi, tra deposito, eventuale riserva, presentazione piano, adunanza, voti, omologa, possono passare molti mesi se non un anno o più. Questo tempo l’azienda è in una sorta di limbo sotto controllo. Mentre un accordo extragiudiziale si conclude quando le parti firmano, punto.
  • Pubblicità negativa: il concordato è noto pubblicamente, gli stakeholder lo vedono come un default conclamato. Ciò può danneggiare i rapporti commerciali (clienti che scappano, fornitori che pretendono pagamento anticipato, etc.). Gestire la comunicazione e la fiducia durante un concordato è delicato.
  • Perdita (parziale) di gestione: l’imprenditore perde autonomia su molte decisioni (ogni spesa straordinaria, anche vendere un macchinario usato, vuole permesso). Inoltre, spesso il management originario viene affiancato da nuovi consulenti o con maggiore sorveglianza.
  • Se il concordato fallisce (manca l’omologa, o viene dichiarato inammissibile, o viene risolto dopo omologa per inadempimento) la fine quasi certa è la liquidazione giudiziale. Quindi è un percorso con un biglietto di sola andata: non si può più tornare a una gestione “privata” della crisi. Questo per dire che bisogna intraprenderlo con convinzione e preparazione, perché il rischio è di finire peggio (nel fallimento) se non lo si porta a termine.

In conclusione, il concordato preventivo rimane uno strumento centrale per affrontare situazioni di crisi grave o molto complessa. La riforma l’ha reso più flessibile (introducendo ad esempio la possibilità di depositare “domanda prenotativa” con maggior facilità e prevedendo la sospensione delle cause di scioglimento societario durante la pendenza, oppure come detto i meccanismi di cram-down su classi dissenzienti e Fisco). L’obiettivo è renderlo un veicolo efficace di ristrutturazione e non solo di liquidazione, in linea con la filosofia europea del “rescue”. Sta poi all’imprenditore valutare, con l’aiuto dei legali, quando è il momento di abbandonare i tentativi negoziali e passare a un concordato: spesso la composizione negoziata funge da anticamera per il concordato (come già discusso), segnalando se ci sono spiragli di accordo (bene, allora magari ARD) o se serve un concordato.

La liquidazione giudiziale (ex fallimento) e l’esdebitazione del debitore

Quando nessun progetto di risanamento o accordo è praticabile, oppure quando la situazione di insolvenza è così compromessa che l’azienda non è più recuperabile come attività economica, l’epilogo è la liquidazione giudiziale, cioè la procedura concorsuale che sostituisce il vecchio “fallimento” terminologicamente ma ne ricalca la sostanza. La liquidazione giudiziale viene aperta dal tribunale su ricorso (di uno o più creditori, o del debitore stesso, o del PM) e comporta la spossessione dell’imprenditore, la nomina di un curatore e la vendita di tutto il patrimonio per distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole della prelazione.

Dal punto di vista dell’imprenditore (debitore), la liquidazione giudiziale è chiaramente l’esito meno desiderabile perché segna il fallimento del tentativo di salvare l’impresa. Tuttavia, a volte può diventare l’unica via necessaria, e va affrontata cercando di minimizzare i danni futuri (ad esempio, collaborando col curatore per chiudere la procedura il prima possibile e accedere ai benefici post-fallimentari come l’esdebitazione).

Punti principali:

  • Effetti immediati sul debitore: con la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale, l’imprenditore perde la gestione e la disponibilità dei suoi beni. Se è una società, gli amministratori decadono e il curatore prende in carico l’azienda (che solitamente cessa l’attività salvo esercizio provvisorio autorizzato dal tribunale per vendere l’azienda in blocco o completare lavori in corso). Se è un imprenditore individuale, tutto il suo patrimonio personale (tranne i beni impignorabili per legge) entra nella procedura. Il debitore non può più disporre dei suoi beni né pagare i debiti da solo. Le eventuali azioni esecutive pendenti decadono, i creditori devono portare i loro crediti nello stato passivo del fallimento. Insomma, la situazione è presa in mano dagli organi concorsuali (giudice delegato e curatore).
  • Liquidazione dei beni: il curatore redige l’inventario e l’elenco creditori, poi vende i beni (o l’azienda intera se possibile) tramite procedure competitive. Il ricavato va in un fondo che poi sarà ripartito.
  • Soddisfacimento creditori: si segue l’ordine delle cause legittime di prelazione: prima i creditori con garanzie reali sul singolo bene (ipoteche, pegni, privilegi speciali) pagati col ricavato di quel bene; poi i creditori privilegiati generali (stipendi, fisco per privilegio generale, ecc.), infine i chirografari con l’eventuale residuo (di solito poco o nulla). I creditori chirografari in un fallimento prendono spesso percentuali molto basse (dipende dal tipo di attività: per aziende asset-light potrebbe essere zero; per aziende con immobili o crediti recuperabili qualcosa in più).
  • Durata e chiusura: storicamente i fallimenti duravano anni. Il CCII cerca di accelerare, e la digitalizzazione aiuta un po’. Ma realisticamente una liquidazione può richiedere 2-5 anni in media, a seconda della complessità (giudizi pendenti, recupero crediti, vendite immobili). Alla fine il tribunale dichiara chiuso il procedimento con decreto di chiusura (per riparto finale o anche per mancanza di attivo sufficiente).

Esdebitazione del fallito (ora debitore liquidato): la grande innovazione degli ultimi decenni è la possibilità per il debitore persona fisica (imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile) di ottenere la liberazione dai debiti residui al termine della procedura. Già la legge fallimentare (art. 142 L.F.) prevedeva l’esdebitazione su richiesta, se il fallito aveva collaborato e soddisfaceva alcune condizioni di meritevolezza. Il CCII ha confermato l’esdebitazione di diritto: oggi, chi è stato soggetto a liquidazione giudiziale ha diritto ad ottenere la cancellazione dei debiti non pagati nella procedura, automaticamente decorsi 3 anni dalla chiusura della procedura, salvo che il tribunale non gliela neghi per gravi motivi. In più, se il debitore è stato diligente, potrebbe ottenerla anche subito alla chiusura. L’esdebitazione non copre comunque certi debiti particolari (obblighi di mantenimento, risarcimenti per danni da illecito, multe penali, e – da confermare – parti di debiti fiscali in caso di frodi). Ma in generale, per l’imprenditore fallito onesto, c’è una “fresh start” possibile: passati quegli anni, i creditori non soddisfatti non potranno più pretendere nulla e la persona può ricominciare senza quel peso (la società invece se fallisce si estingue, quindi lì il tema esdebitazione non si pone perché la società cessa di esistere).

Nel Codice della crisi c’è anche un istituto particolare per le persone fisiche meritevoli senza beni, chiamato esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII), già trattato in altra sezione, che permette addirittura di cancellare tutti i debiti senza pagare nulla se uno è completamente privo di risorse. Questo però è al di fuori della liquidazione giudiziale classica e rientra nelle procedure di sovraindebitamento (vedi paragrafo seguente).

Quando “scegliere” la liquidazione giudiziale? Dal punto di vista del debitore, chiedere egli stesso il proprio fallimento può sembrare controintuitivo. Ma ci sono situazioni in cui è la mossa più corretta: ad esempio, quando ogni tentativo di accordo è fallito, l’azienda è ferma, i debiti aumentano e non c’è via d’uscita. In tali casi, la legge anzi pretende (ancora oggi, come dovere di gestione conservativa) che l’imprenditore non ritardi l’inevitabile e presenti istanza di liquidazione per evitare di aggravare il buco. Ciò può evitare ulteriori responsabilità. Inoltre, presentarsi “spontaneamente” al tribunale con i libri può essere considerato positivamente (collaborazione) e facilitare poi l’accesso all’esdebitazione.

In certi scenari, un concordato preventivo liquidatorio e un fallimento portano quasi allo stesso esito pratico; se il debitore non ha proposte migliorative da fare e non c’è un compratore per l’azienda, forzare un concordato solo per liquidare rischia di essere un’inutile complicazione (nessuno vota a favore se tanto non c’è valore da distribuire oltre al fallimento). Meglio allora accettare la liquidazione giudiziale e puntare a chiuderla velocemente.

Effetti sui garanti e soci: il fallimento della società non libera i soci garanti: ad esempio, se un socio ha firmato fideiussioni verso le banche, la banca può escutere il socio per la parte di credito non pagata in fallimento (ecco perché un accordo di ristrutturazione spesso cerca di includere anche la posizione dei garanti contrattualmente). Il concordato parimenti non libera i fideiussori a meno che non sia previsto e anch’essi aderiscano all’accordo. Quindi, dal punto di vista del debitore persona fisica, attenzione: se la tua società va in fallimento e tu avevi garantito personalmente, il fallimento non ti protegge (anzi ti tocca come privato). Solo l’esdebitazione finale potrà, in certe circostanze, liberare anche i coobbligati se previsto (il CCII ha norme al riguardo: l’esdebitazione può estendersi ai coobbligati come i soci illimitatamente responsabili e ai fideiussori, ma a certe condizioni). Nel piano attestato citato, infatti, suggerivano di fare attenzione perché il creditore può rifarsi sul fideiussore per la parte tagliata al debitore se non diversamente concordato.

Conclusione sulla liquidazione giudiziale: è il rimedio finale per chiudere un’impresa decotta e insieme offrire al debitore onesto la prospettiva di ripulirsi dai debiti e ripartire eventualmente con nuove iniziative in futuro. Dal punto di vista sociale, è inevitabile che alcune imprese escano dal mercato e i creditori subiscano perdite: la procedura concorsuale serve a distribuire equitativamente queste perdite tra tutti i creditori, secondo priorità di legge, invece che lasciare che i più veloci o aggressivi prendano tutto a scapito di altri. Per l’imprenditore, subire una liquidazione è doloroso (anche a livello di reputazione e di fiducia futura del sistema creditizio), ma grazie agli istituti di esdebitazione introdotti negli ultimi anni non è più una “morte civile” a vita come un tempo. Dopo qualche anno e una condotta corretta, ci si può liberare e tornare economicamente attivi.

Le procedure di sovraindebitamento per privati e piccoli imprenditori

Finora abbiamo parlato di strumenti principalmente rivolti a imprese soggette al fallimento (liquidazione giudiziale). Ma esiste un intero corpus di procedure dedicato ai soggetti sovraindebitati che non possono accedere al fallimento né al concordato preventivo. Si tratta di:

  • Consumatori (persone fisiche che hanno debiti personali, non derivanti da attività d’impresa commerciale).
  • Piccoli imprenditori sotto le soglie di fallibilità (art. 1 L.F. definiva non fallibili gli imprenditori con meno di €300k di attivo, €200k ricavi, €500k debiti; il CCII ha mantenuto criteri simili).
  • Imprenditori agricoli (tradizionalmente non fallibili).
  • Start-up innovative (temporaneamente non fallibili per legge speciale).
  • Professionisti, artisti, enti non commerciali indebitati, etc.

Per questi soggetti esisteva la Legge 3/2012 (cosiddetta “legge sul sovraindebitamento” o “salva suicidi”), ora inglobata nel Codice della crisi (artt. 65-91 CCII). Le procedure, gestite con l’ausilio degli Organismi di Composizione della Crisi (OCC), sono simili nei principi al concordato preventivo ma semplificate e calibrate sul debitore civile.

Le tre procedure principali di sovraindebitamento oggi si chiamano:

  1. Piano di ristrutturazione per il consumatore (prima noto come piano del consumatore).
  2. Concordato minore (prima noto come accordo di composizione dei debiti per imprese sotto soglia o soggetti non consumatori).
  3. Liquidazione controllata del sovraindebitato (prima liquidazione del patrimonio).

E in aggiunta la già menzionata Esdebitazione del debitore incapiente (che è un caso particolare per chi non ha nulla da liquidare).

Piano di ristrutturazione del consumatore: è uno strumento riservato alle persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività di impresa (es. famiglia sovraindebitata per mutuo, carte di credito, spese mediche, ecc.). Il consumatore può proporre un piano in cui, con l’ausilio dell’OCC e sotto controllo del giudice, offre ai creditori il pagamento parziale dei debiti in base alle proprie capacità di reddito e patrimonio, eventualmente con l’aiuto di terzi che apportano risorse. Non è richiesta l’approvazione dei creditori (!) – caratteristica peculiare – purché il giudice ritenga il piano meritevole (il consumatore deve aver assunto debiti senza colpa grave o frode) e congruamente fattibile. Quindi il consumatore sovraindebitato può ottenere la ristrutturazione dei suoi debiti e la liberazione da quelli eccedenti la sua capacità di pagamento anche senza consenso di banche/finanziarie. È un enorme beneficio per chi è oppresso da debiti personali: il tribunale omologa il piano se vede che il debitore offre tutto il ragionevolmente offribile, anche se magari i creditori finanziari non sono d’accordo (tanto l’alternativa spesso sarebbe nulla, perché un consumatore nullatenente non è aggredibile efficacemente). Una volta eseguiti i pagamenti previsti dal piano del consumatore omologato, il debitore ottiene l’esdebitazione integrale residua.

Concordato minore: è l’analogo del concordato preventivo ma per soggetti non fallibili o piccoli imprenditori. A differenza del piano del consumatore, qui i creditori devono approvare la proposta (serve la maggioranza del 60% dei crediti chirografari, simile a un accordo di ristrutturazione) e il tribunale omologa dopo il voto. È molto simile al vecchio “accordo di composizione” della L.3/2012. In pratica, un piccolo imprenditore artigiano sovraindebitato può proporre di pagare il 30% ai suoi creditori in 4 anni, se ottiene il sì di almeno il 60% di essi in valore. Se riesce e il giudice omologa, l’accordo (chiamato concordato minore) vincola anche i dissenzienti e, una volta eseguito, libera il debitore dai debiti residui. Se c’è qualche creditore “furbo” tipo banca che non aderisce ma tanto viene pagato ugualmente al 100%, il tribunale può omologare anche senza il suo assenso, analogamente a come avviene per i creditori estranei in un accordo di ristrutturazione (c’è un meccanismo di cram-down per categorie similare anche qui, in pratica).

Liquidazione controllata: se il debitore sovraindebitato non ha prospettive di risanamento o accordo, può (o i creditori possono) attivare la liquidazione controllata. Funziona come un mini-fallimento: viene nominato un liquidatore (spesso un Gestore dell’OCC), si liquidano tutti i beni (anche lo stipendio in parte per qualche anno, come pignoramento) e si distribuisce ai creditori. Però, diversamente dal fallimento, qui non ci sono conseguenze “penali” tipo bancarotta (a meno che non ci siano reati specifici), e l’approccio è più bonario. Importante: dopo la chiusura della liquidazione controllata, il debitore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione dei debiti non pagati (salvo rari casi di indegnità). Quindi anche chi non può offrire un piano ai creditori può comunque liberarsi dei debiti facendo liquidare tutto ciò che ha, incassando il “fresh start”.

Esdebitazione del debitore incapiente: ultimo ma non ultimo, come anticipato, l’art. 283 CCII prevede che una persona fisica totalmente priva di beni e redditi e sovraindebitata possa chiedere direttamente al tribunale la cancellazione di tutti i suoi debiti senza pagare nulla. Condizioni: deve essere meritevole (non aver fatto debiti con colpa grave, non aver frodato creditori, ecc.), non deve mai aver ottenuto altra esdebitazione in passato, e offrire almeno la cessione ai creditori di tutte le somme eventualmente sopravvenienti nei 4 anni successivi se dovesse “miracolosamente” migliorare la sua condizione (una sorta di impegno morale: se vinco la lotteria o trovo un super lavoro entro 4 anni, i creditori avranno diritto). Se tutto ok, il giudice cancella i debiti. Questa è una norma di forte umanità, introdotta nel 2020 proprio per i casi disperati (il legislatore si è reso conto che tenere persone sul lastrico vincolate vita natural durante da debiti irrecuperabili è socialmente controproducente: meglio dare un reset). La procedura per ottenerla comunque passa dall’OCC e dal tribunale, e non è semplicissima, ma è fattibile. Nel 2024 addirittura la Legge di Bilancio ha previsto un fondo statale per contribuire a pagare un minimo (una sorta di obolo ai creditori) nelle esdebitazioni di incapienti, a testimonianza dell’attenzione a questo istituto.

Ricapitolando per il debitore sovraindebitato:

Se sei un privato sommerso dai debiti: punta al piano del consumatore (ora piano di ristrutturazione) perché non devi convincere ogni finanziaria, decide il giudice in base alla tua buona fede e sforzo.

Se sei un piccolo imprenditore/artigiano: puoi tentare il concordato minore trovando un accordo con la maggioranza dei tuoi creditori. Se l’attività non è più sostenibile, opta per la liquidazione controllata (ti toglie tutto ma in cambio in pochi anni sei libero dai debiti).

Se non hai proprio nulla da dare: valuta con l’avvocato l’esdebitazione incapiente, la soluzione di ultima istanza per farti tornare a zero.

Le procedure da sovraindebitamento sono meno formali, spesso extragiudiziali in parte, e coinvolgono i cosiddetti OCC (che sono organismi istituiti presso gli ordini professionali o enti locali per aiutare i debitori). Sono di grande utilità sociale. Va notato che per queste procedure non si applicano termini di incapacità personali che esistevano per i falliti (ad es. l’interdizione dai pubblici uffici per i falliti ora non c’è più nemmeno nel fallimento figurarsi qui). L’idea moderna è di togliere lo stigma e favorire il rientro nel circuito economico.

Un esempio: Mario, piccolo commerciante (ditta individuale), chiude l’attività con 100k debiti (fornitori, banche) e nessun bene se non la casa di famiglia (gravata da mutuo). Non può fallire (sotto soglie). Tramite OCC propone ai creditori un concordato minore offrendo: la casa verrà venduta (ricavato stimato 50k una volta estinta l’ipoteca residua), e con quei 50k pagherà circa il 50% dei crediti chirografari; inoltre offre ai creditori altri 10k dilazionati in 4 anni (frutto di futuro stipendio in altro lavoro). Totale soddisfacimento previsto ~60%. I creditori per fortuna (essendo pochi) accettano al 70% dei crediti. Il tribunale omologa. Mario vende la casa, paga il dovuto, e in tre anni paga le rate. Ottenuto ciò, Mario viene esdebitato del restante 40k non pagato. Ha perso la casa, ma non ha più debiti e può rifarsi una vita.

Se i creditori avessero detto di no, Mario avrebbe optato per la liquidazione controllata: avrebbe consegnato tutto al liquidatore, perso la casa comunque, i creditori avrebbero preso forse 50% lo stesso, e Mario dopo la chiusura avrebbe richiesto l’esdebitazione per il resto. Non molto diverso se non per il fatto che col concordato minore ha avuto un ruolo attivo e ha definito lui le regole.

Importante: nelle procedure di sovraindebitamento c’è la possibilità di trattare anche debiti erariali con stralci e dilazioni, cosa prima vietata (potevi solo dilazionare ma non tagliare capitale/IVA). Il CCII ha rimosso diversi divieti: ora anche l’IVA può essere falcidiata nei piani, previo rispetto di certe condizioni e comunque con valutazione del giudice. Ciò è coerente con la filosofia del cram-down fiscale di cui si è detto.

Con questo panorama, concludiamo la disamina degli strumenti disponibili, dall’azienda grande alla persona sovraindebitata.

Nella sezione seguente affronteremo alcune Domande Ricorrenti per fissare i concetti e sciogliere dubbi pratici, e forniremo infine un elenco delle fonti normative e giurisprudenziali citate per approfondimento.

Domande frequenti (FAQ) sulla gestione della crisi d’impresa

D: Ho un’azienda piccola in difficoltà, devo per forza rivolgermi al tribunale?
R: Non necessariamente. Il nostro ordinamento privilegia le soluzioni negoziali extragiudiziali quando possibili. Se la crisi è gestibile parlando con banche e fornitori, puoi tentare un piano di risanamento attestato o un accordo di ristrutturazione con le sole parti disponibili, evitando il tribunale. Puoi anche avviare una composizione negoziata: è volontaria e confidenziale, non sei “in tribunale” anche se puoi chiedere al giudice qualche protezione. Il ricorso al tribunale diventa obbligato se sei già insolvente conclamato e/o se i creditori sono troppi e non cooperano. In tal caso, meglio un concordato preventivo richiesto da te piuttosto che aspettare il fallimento su istanza altrui.

D: La composizione negoziata conviene sempre provarla prima del concordato?
R: In molti casi sì, soprattutto se l’insolvenza non è ancora irreversibile. La composizione negoziata è pensata proprio come passo preliminare: è relativamente rapida (max 6+6 mesi), poco stigmatizzante e ti consente di sondare le possibilità di accordo con l’aiuto di un esperto. Se va bene, risparmi l’azienda senza passare dal tribunale; se va male, hai comunque la via del concordato semplificato o ordinario subito aperta. Tieni però a mente i limiti: se già sai che la tua situazione richiede l’imposizione di sacrifici ai creditori (tagli del debito) e prevedi poca collaborazione, potrebbe essere inutile perdere tempo nella composizione. In generale, però, tentar non nuoce: intanto ottieni un congelamento temporaneo delle azioni esecutive e mostri al tribunale (in caso di passo successivo) di aver agito tempestivamente. Anche in ottica di evitare future responsabilità personali, aver provato la composizione negoziata dimostra buona fede.

D: Qual è la differenza tra un piano attestato e un accordo di ristrutturazione? Sembrano simili.
R: La differenza sta nel coinvolgimento del tribunale e nell’efficacia verso i non aderenti. Un piano attestato è un accordo puramente privato (nessun omologa), che vincola solo i creditori che lo sottoscrivono. È supportato da un’attestazione professionale e registrato per evitare revocatorie, ma se un creditore rilevante non firma, resta fuori e può agire per conto suo. L’accordo di ristrutturazione invece richiede di ottenere il consenso di una maggioranza di creditori (di solito 60%) e poi viene omologato dal tribunale: così facendo, pur non vincolando formalmente i dissenzienti (salvo efficacia estesa in certe classi), ottieni comunque una protezione generale (nessuno può iniziare esecuzioni individuali fino alle scadenze del piano omologato). Inoltre l’accordo omologato consente di includere anche il Fisco con transazioni e persino contro il suo parere (cram-down fiscale). In pratica, se hai pochi creditori critici e vuoi massima flessibilità, meglio il piano attestato; se hai bisogno di uno strumento più robusto legalmente e devi “blindare” il risultato, vai con l’accordo di ristrutturazione (accettando la procedura di omologa). Nota: spesso la linea è sottile, perché un piano attestato riuscito può evolvere in un accordo omologato se decidi di portarlo in tribunale.

D: I debiti fiscali e contributivi posso trattarli in un concordato o accordo? Ho sentito che IVA e ritenute non si potevano tagliare…
R: In passato c’erano pesanti limitazioni: l’IVA non era falcidiabile in concordato, ad esempio, e la transazione fiscale era spesso un ostacolo (se l’Erario diceva no, saltava tutto). Ora non più. La riforma ha chiarito che tutti i tipi di debiti possono essere inclusi in un piano di concordato o accordo, anche l’IVA e i contributi, con possibilità di falcidia (riduzione) o dilazione, purché il trattamento proposto non sia peggiore di quel che l’Erario otterrebbe dalla liquidazione fallimentare. Se l’Erario non aderisce, il tribunale può comunque omologare la proposta (sia in concordato che in accordo di ristrutturazione) usando il criterio del “miglior interesse dei creditori” pubblici. Quindi oggi puoi proporre di pagare ad esempio l’IVA al 30% se in fallimento l’Erario prenderebbe 0; se l’AE rifiuta per politica interna, il giudice può fregarsene e approvare lo stesso perché oggettivamente è conveniente. Ovviamente devi dimostrare con perizia che stai offrendo il massimo possibile. Quindi non avere timore di includere i debiti fiscali nei piani – anzi è doveroso affrontarli, perché lasciarli fuori significherebbe per forza doverli pagare integralmente fuori dalla procedura.

D: Ho continuato l’attività troppo a lungo e ora i debiti sono aumentati. Posso ancora chiedere un concordato o rischio guai (bancarotta, ecc.)?
R: Finché non c’è un fallimento dichiarato, non c’è “bancarotta”. La bancarotta è reato fallimentare, quindi se tu eviti il fallimento con un concordato, in linea di massima eviti anche quelle imputazioni. Certo, se hai dissipato il patrimonio o frodato i creditori in quel periodo di prolungamento dell’agonia, questo comportamento può emergere anche in concordato (es. i creditori potrebbero opporsi per frode). Ma se semplicemente hai tardato per eccesso di ottimismo ma ora in buona fede cerchi il concordato, il sistema concorsuale ti incoraggia a farlo. Non c’è una sanzione penale per aver depositato tardi il concordato (mentre nel fallimento c’è bancarotta semplice per tardiva richiesta). Semmai, presentare un concordato ferma la maturazione di alcune responsabilità: ad esempio, blocca gli interessi sui debiti chirografari, impedisce ai creditori di insinuare danni da ritardata soluzione. Quindi, sebbene tu abbia continuato troppo a lungo, la scelta di attivare ora una procedura è comunque positiva. Potresti avere qualche azione di responsabilità civile dai soci o dai creditori se la tua inerzia ha peggiorato il dissesto (vedi Cass. 6893/2023 sul compimento di nuove operazioni dopo causa scioglimento). Ma paradossalmente, proprio avviare un concordato ora e condurlo con successo potrebbe mitigare quei profili, perché hai preso in mano la situazione anziché arrivare al fallimento. In ogni caso, è fondamentale rivolgersi subito a consulenti legali: potrebbero consigliarti, ad esempio, di accompagnare la domanda di concordato con la rinuncia dei tuoi amministratori (se sei in una società) a eventuali crediti o compensi, per dare il buon esempio, oppure strategie per massimizzare la soddisfazione dei creditori come prova di buona fede.

D: Che differenza c’è tra concordato preventivo e fallimento per il debitore, alla fine?
R: La differenza sta nel controllo e nell’esito. Nel concordato preventivo tu (debitore) mantieni l’iniziativa: proponi come sistemare i debiti, spesso rimani alla guida seppur vigilato, e se completi la procedura esci con l’azienda salva (nel caso di continuità) o comunque con la posizione debitoria definita (nel caso liquidatorio, hai liquidato i beni ma magari eviti istanze di fallimento e ne esci più rapidamente). Nel fallimento (liquidazione giudiziale) invece perdi completamente il controllo: un curatore liquidatore fa tutto, tu subisci la vendita dei tuoi beni senza poter scegliere modalità o acquirenti, i creditori prendono quel che prendono secondo legge e tu resti passivo. Inoltre il concordato ti consente di stralciare i debiti senza doverli pagare integralmente se approvato (esdebitazione in procedura), mentre il fallimento ti dà l’esdebitazione solo dopo aver subito la procedura e se il giudice te la concede (ora è più facile ottenerla comunque). Per la reputazione: concordato è pur sempre un’insolvenza, ma storicamente era visto un po’ meglio del fallimento, perché implica uno sforzo di pagamento concordato (non per nulla si chiama preventivo, perché previene il fallimento). Ad esempio, per partecipare a gare pubbliche o mantenere certe licenze, spesso il fallimento è causa di esclusione, il concordato (specie in continuità) no o è derogato. Ultimo: in concordato non c’è l’onta della dichiarazione di fallimento (che coinvolge magari anche soci illimitatamente responsabili, con tutti i riflessi), e le eventuali indagini su condotte illecite pregresse vengono comunque fatte ma in un contesto meno afflittivo (non c’è il reato di bancarotta semplice se non sei mai fallito – eventuali reati patrimoniali potrebbero emergere lo stesso, ma insomma…). D’altro canto, se la tua azienda è decotta e non c’è piano che tenga, il concordato rischia di essere solo una perdita di tempo/costi, in tal caso meglio subire la liquidazione e fine.

D: Come faccio a scegliere tra tutte queste procedure?
R: La scelta dipende da: 1) Gravità della crisi (reversibile vs irreversibile); 2) Struttura del debito (pochi grandi creditori vs tanti piccoli); 3) Prospettive dell’azienda (ha ancora un core business valido?); 4) Tempo a disposizione (sei già con decreti ingiuntivi e pignoramenti? allora serve qualcosa di immediato). In generale:

  • Se l’azienda ha prospettive e i creditori principali collaborano → tenta accordi stragiudiziali (piano attestato o accordo 182-bis).
  • Se l’azienda è viabile ma i creditori sono disorganizzati o eterogenei → concordato in continuità per imporre un piano e rilanciare.
  • Se l’azienda non è più viabile come attività ma puoi evitare il fallimento vendendo il tutto meglio → concordato liquidatorio (magari con un assuntore che offre qualcosa in più).
  • Se sei semplicemente insolvente senza soluzioni → purtroppo la liquidazione giudiziale è l’esito naturale, a cui potresti arrivare spontaneamente o su spinta dei creditori.
  • Non dimenticare le procedure negoziate: la composizione negoziata è quasi sempre un tentativo opportuno prima di entrare in concorso, a meno che la situazione non sia già conflittuale (es. un creditore ha depositato istanza di fallimento – anche in quel caso, volendo, puoi chiedere una composizione negoziata e il nuovo correttivo permette di farlo anche se c’è istanza pendente, chiedendo al giudice un po’ di tempo).
  • Se sei un privato o piccolo imprenditore: valuta le soluzioni di sovraindebitamento presso OCC: sono meno onerose, più cucite addosso alle tue dimensioni. Un concordato preventivo classico potrebbe essere sproporzionato per un debito di €200k con 10 creditori; un concordato minore o piano del consumatore è più leggero e ti dà analoghi risultati.

D: E se poi dopo la procedura voglio continuare a fare l’imprenditore?
R: La legge non lo vieta. Dopo un concordato preventivo adempito, sei completamente libero di proseguire o di avviare nuove attività; anzi lo scopo era salvarti. Dopo un fallimento (liquidazione giudiziale), per 5 anni non potresti gestire altra impresa senza informare il nuovo socio o contraente del fatto che eri fallito (obbligo di informativa, art. 345 CCII), ma non c’è un divieto in assoluto di iniziare nuove attività. Una volta ottenuta l’esdebitazione, la tua affidabilità creditizia potrebbe perfino migliorare (perché non hai più debiti pendenti). Certo, nella realtà le banche guardano la storia: un’azienda passata in concordato o un imprenditore ex fallito avranno qualche difficoltà a ottenere fiducia subito. Ma molti tornano in pista con successo (specie chi è incappato in crisi per sfortuna e non per incapacità). Tra l’altro, le informazioni sui fallimenti storici poi vengono in parte oscurate (passati tot anni, i registri pubblici non mostrano più i vecchi fallimenti per favorire il reinserimento). Dunque, uno dei fini del sistema concorsuale aggiornato è proprio il fresh start: dare all’imprenditore onesto una seconda opportunità ripulita.

D: I soci di una società fallita restano con debiti?
R: Dipende. Se la società è di capitali, i soci non rispondono personalmente dei debiti sociali (salvo abbiano garanzie personali). Quindi il fallimento della società non coinvolge i soci (a parte eventuali azioni di responsabilità se erano amministratori). I debiti societari insoddisfatti muoiono con la società estinta. Se però i soci avevano fatto da fideiussori sui mutui, o hanno debiti personali legati alla società (es. conto scoperto cointestato), allora per quelle obbligazioni continueranno a rispondere. In tal caso i soci fideiussori potrebbero a loro volta attivare procedure di sovraindebitamento personali o trovare accordi con le banche. Se la società era di persone (snc, sas), il fallimento colpisce pure i soci illimitatamente responsabili, falliscono anch’essi e il loro patrimonio personale va ai creditori (ma poi anche loro possono essere esdebitati).
Riassumendo: società di capitali = scudo del capitale (i soci perdono il capitale investito ma i loro beni privati sono salvi, a meno di garanzie); società di persone = confusione patrimoniale (soci ne rispondono e quindi devono poi cercare esdebitazione per sé).

D: Quali sono i tempi di queste procedure?
R: Molto variabili. Indicativamente:

  • Composizione negoziata: 2-6 mesi rinnovabili fino a 12 max.
  • Piano attestato: dipende dalla negoziazione, potrebbe chiudersi in 1-3 mesi per casi semplici o 6 mesi per casi articolati (non c’è step giudiziario obbligato, quindi dipende solo dalle trattative).
  • Accordo di ristrutturazione: negoziazione magari 3-6 mesi, poi iter di omologa altri 2-3 mesi (l’accordo può essere omologato in tempi brevi se non ci sono opposizioni). Quindi diciamo in media entro 6-8 mesi potresti avere l’omologa dall’inizio delle trattative.
  • Concordato preventivo: se in bianco, depositi ricorso e hai 60-120 giorni per presentare il piano (proroghe incluse); poi l’ammissione, poi 30-90 giorni per votare, poi omologa. Realisticamente non meno di 6-9 mesi il percorso completo, spesso supera 12 mesi per concordati complessi (soprattutto in continuità dove c’è più monitoraggio). Il CCII vuole che la fase di omologa sia veloce (il tribunale deve decidere entro 4 mesi dal deposito della domanda di omologa), quindi ad esempio dall’inizio alla fine un concordato può stare intorno ad 1 anno. Se invece consideri anche l’esecuzione, quello è il post-omologa: un piano può durare anni nell’adempimento.
  • Liquidazione giudiziale (fallimento): apertura immediata (pochi giorni per la sentenza se hai un creditore istante impaziente), chiusura – come detto – 2-5 anni in media (dipende da quanti beni e cause ci sono). Alcuni fallimenti vengono chiusi in 1 anno (se non ci sono beni o c’è un solo immobile venduto subito), altri durano 10 anni (se ci sono contenziosi importanti).
  • Procedura sovraindebitamento: un piano del consumatore tipicamente 4-6 mesi (lentezze degli OCC permettendo, ma di solito sono abbastanza rapidi essendo procedure minori). Concordato minore simile, più il pagamento (che può essere dilazionato negli anni se previsto). Liquidazione controllata, se il debitore non ha beni, può chiudersi in tempi brevi (anche 1 anno) giusto per fare formalità; se ci sono beni, dipende dalla liquidazione di quelli (pignoramenti, ecc.).

In generale, c’è un impegno della riforma a velocizzare tutto, anche tramite strumenti digitali (depositi telematici) e maggiore specializzazione delle sezioni d’impresa dei tribunali.

D: Quali sono le conseguenze per l’imprenditore sul piano legale di un fallimento o concordato?
R: Per il fallimento (liquidazione giudiziale): alcuni effetti sul piano legale e personale sono:

  • Incapacità personale: finché dura la procedura sei interdetto dall’esercizio di imprese commerciali, non puoi essere amministratore di società, perdi il diritto di voto se persona fisica (ma questo è temporaneo e comunque col CCII mi pare ridotto). Dopo la chiusura, queste incapacità cessano, quindi puoi tornare a fare impresa (in passato c’era il divieto 5 anni di ripresa senza autorizzazione del tribunale, oggi abolito).
  • Eventuali procedimenti penali: se hai commesso reati (tipo distrazione di beni, irregolarità contabili gravi), il fallimento li fa emergere e potresti avere guai penali (bancarotta fraudolenta, ecc.). In concordato invece, se riesci a evitare il fallimento, i reati di bancarotta non si configurano; restano comunque punibili frodi commesse durante la procedura di concordato (ad es. aver occultato beni nel piano può portare a reati minori).
  • Sul piano patrimoniale: nel fallimento perdi beni e crediti (salvo quelli impignorabili: il CCII tutela i bisogni vitali, ad es. non ti portano via indumenti, cose personali di poco valore, strumenti di lavoro indispensabili, ecc.). In concordato invece spesso riesci a conservare alcuni asset (soprattutto se in continuità tieni l’azienda).
  • Stigma di insolvenza: un concordato portato a termine con successo può persino farti riguadagnare credibilità presso partner (hai gestito la crisi in modo ordinato). Un fallimento lasciato lì invece è visto più negativamente. C’è da dire però che la percezione culturale sta cambiando: un fallito onesto oggi non viene più additato come una volta, anche grazie al concetto di fresh start promosso dall’UE. Per esempio, ci sono norme che vietano discriminazioni verso chi ha subito un fallimento in passato in termini di accesso a servizi, etc.

D: Durante la procedura concordataria, come vive l’azienda? Posso continuare a emettere fatture, pagare dipendenti, ecc.?
R: Sì, l’azienda in concordato continua ad operare (specie se è un concordato in continuità). Pagherai regolarmente le spese correnti (sono debiti prededucibili, ovvero avrai il dovere di pagarli e se non lo fai questi fornitori post-concordato verranno comunque soddisfatti prima degli altri). Puoi fatturare, incassare crediti, svolgere l’attività, ma dovrai rispettare i vincoli: ad esempio non puoi pagare debiti anteriori se non previsti dal piano (par condicio), non puoi aggravare la posizione dei creditori. I dipendenti li paghi come spese correnti (anzi, di solito i stipendi maturati prima del concordato li includi nel piano e a quelli successivi devi far fronte normalmente). Se hai bisogno di comprare materia prima a credito durante il concordato, i fornitori sapranno della procedura: starà a te convincerli che li pagherai cash o a breve, sennò forse chiederanno pagamento anticipato. Il commissario di norma controlla che la gestione corrente rimanga nei binari del piano e che non scialacqui. Puoi anche chiedere al giudice di sospendere temporaneamente alcuni contratti onerosi (come affitti troppo cari) se stai decidendo che farne, e poi di scioglierli definitivamente se previsti dal piano (il CCII lo consente con equo indennizzo al contraente sciolto). Quindi c’è la possibilità di aggiustare la struttura aziendale durante il concordato (tagliare rami d’azienda, risolvere contratti, ecc.) con l’ombrello del tribunale che ti protegge da cause risarcitorie (il contraente viene soddisfatto in prededuzione per l’indennizzo).

D: Che succede se ho crediti verso la PA o cause attive mentre sono in crisi?
R: I crediti verso terzi (compresa PA) sono risorse dell’impresa. Durante una trattativa stragiudiziale restano nella tua disponibilità: potresti cederli per fare cassa, scontarli in banca se possibile. In un concordato o fallimento, quei crediti diventano parte dell’attivo: il curatore o tu sotto vigilanza li riscuoterai e finiranno ai creditori secondo piano. Se c’è una causa pendente dove l’azienda spera di incassare soldi (es. un risarcimento), nel concordato puoi scegliere se tenerla fuori e dire “eventuale incasso andrà ai creditori oltre a quanto previsto” o includerla come condizione sospensiva. Nel fallimento, il curatore prosegue la causa e se vince incamera lui. È possibile anche vendere il credito litigioso. Nel concordato direi: se hai crediti verso la PA, menzionali nel piano, magari aiutano a convincere i creditori che ci saranno risorse (anche se lente). Attenzione però: la PA a volte in caso di concordato può essere restìa a pagare o chiede documenti (sapendo che l’azienda è in procedura). Ma legalmente non può rifiutarsi oltre i termini, ovviamente.


Queste sono solo alcune delle domande più comuni. Ogni crisi aziendale ha le sue sfaccettature, quindi ulteriori dubbi specifici andrebbero affrontati con consulenti specializzati. L’importante messaggio da portare a casa è: non isolarsi nella crisi, ma attivarsi e sfruttare gli strumenti legali disponibili. Oggi la legge fornisce un arsenale di soluzioni per dare un futuro sia all’impresa (se recuperabile) sia all’imprenditore (anche se l’impresa deve cessare). Il tutto bilanciando i diritti dei creditori secondo principi di correttezza e trasparenza.

Conclusioni

Un’azienda in crisi economico-finanziaria vive un momento critico ma non necessariamente fatale. Il diritto italiano, aggiornato al 2025, offre un sistema articolato – dal “prevenire” al “curare” e infine al “liquidare con ripartenza” – che mira a gestire in modo ordinato queste situazioni. Abbiamo visto il percorso ideale: predisporre assetti adeguati che rilevino presto i segnali di crisi; attivare allerta interna e consulenze; provare vie negoziali come la composizione assistita; se serve, ricorrere a strumenti concorsuali (concordato preventivo soprattutto) per risanare o liquidare nel miglior modo; e infine, se nulla salva l’impresa, utilizzare la liquidazione giudiziale come strumento di chiusura ma non fine definitiva, grazie all’esdebitazione.

Dal punto di vista del debitore (sia esso imprenditore individuale, società o privato sovraindebitato) la parola chiave è tempestività: prima si affronta la crisi, maggiori soluzioni rimangono sul tavolo. La riforma del Codice della crisi insiste molto su questo, tanto da introdurre obblighi e anche “rimproveri” giuridici a chi ritarda colposamente. Allo stesso tempo, il legislatore ha messo a disposizione strumenti molto flessibili e potenti per chi agisce tempestivamente e con correttezza: basti pensare al cram-down fiscale (superamento del veto del Fisco), ai nuovi accordi con soglia 30%, alla composizione negoziata, all’esdebitazione facile per i meritevoli. Tutto disegna un impianto bilanciato, dove l’imprenditore non è più visto solo come un “colpevole” da punire quando fallisce, ma come un attore economico che può fallire onestamente e merita un aiuto per risollevarsi o almeno per non essere sepolto dai debiti a vita.

Per i professionisti (avvocati, commercialisti) che assistono aziende in crisi, la sfida è padroneggiare tutte queste opzioni e saper costruire di volta in volta la strategia migliore. Spesso la soluzione sta in un mix: ad esempio, iniziare con composizione negoziata, concluderla con un accordo 182-bis per banche e un concordato minore per il residuo. Oppure proporre un concordato preventivo in continuità con classi ben congegnate (sapendo di poter chiedere l’omologa anche se qualche classe dice no, se il piano è valido). La creatività giuridica ora è benvenuta, entro la cornice della legge, per salvare valore e posti di lavoro il più possibile.

Dal punto di vista dei creditori, pur non oggetto diretto di questa guida, vale notare che il sistema cerca di tutelare anche loro: impone trasparenza al debitore, prevede che non possano ricevere meno di quanto avrebbero dal fallimento (principio del “best interest of creditors”) e introduce professionalità nuove (attestatori, esperti, commissari selezionati con albi e requisiti più stringenti) per garantire che i piani di risanamento non siano fumo negli occhi. Le “misure anti-abuso” citate nel Correttivo 2024 vanno esattamente in questo senso.

In conclusione, “cosa fare” di fronte a una crisi d’impresa si riassume così:

  • Analizzare lucidamente lo stato dell’azienda con strumenti adeguati (reporting, indici, consulenze).
  • Agire presto, coinvolgendo organi interni e consulenti esterni per scegliere la via (negoziale o concorsuale) più adatta.
  • Comunicare con i creditori chiave in modo franco, eventualmente attraverso procedure guidate come la composizione negoziata, mostrando un piano credibile (attestato).
  • Proteggere l’impresa nel frattempo attivando le misure protettive disponibili (stay delle azioni, accordi di moratoria).
  • Formalizzare una soluzione: se privata (piano/accordo) o pubblica (concordato) a seconda di quanto consenso si riesce a raccogliere.
  • Eseguire fedelmente gli impegni presi nel piano, sotto monitoraggio se previsto.
  • Ripartire, a procedura conclusa, con un business ristrutturato oppure, se purtroppo l’impresa si è dovuta liquidare, ripartire come persona libera dai debiti residui, facendo tesoro dell’esperienza.

Questa guida ha cercato di fornire una panoramica approfondita e aggiornata a luglio 2025 del quadro normativo italiano, con riferimenti a leggi e sentenze recenti per un livello di approfondimento avanzato. Per ulteriori approfondimenti specifici, si rimanda alle fonti seguenti e alla consulenza di professionisti specializzati in crisis & turnaround management.

Fonti

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n.14, come modificato dai correttivi: D.Lgs. 26 ottobre 2020, n.147; D.Lgs. 17 giugno 2022, n.83; D.Lgs. 13 settembre 2024, n.136. (Normativa di base aggiornata)
  • Art. 2, co.1, lett. a) CCII – Definizione di “crisi” (stato che rende probabile l’insolvenza, manifestandosi con flussi di cassa prospetticamente inadeguati a 12 mesi).
  • Progesa Spa – Aggiornamenti al Codice della Crisi (12/10/2022) – Sintesi delle novità all’entrata in vigore del CCII: nuova definizione di crisi, eliminazione indici di allerta, obbligo assetti adeguati e indici CNDCEC.
  • Diritto.it – Il Correttivo Codice Crisi (D.Lgs. 136/2024) – Articolo riassuntivo delle modifiche “Correttivo-ter” 2024: enfasi su allerta precoce (segnalazioni revisori), ampliamento accesso a composizione negoziata (possibile anche con bilanci non approvati o pendenza istanza fallimento), rafforzamento ruolo esperto, transazione fiscale e introduzione cram-down fiscale, estensione liquidazione controllata post-cessazione per favorire esdebitazione, misure anti-abuso sulle protettive.
  • Cass., Sez. I civ., 28 ottobre 2024 n. 27782 – Principio di diritto sul cram-down fiscale: il tribunale può omologare il concordato ex art.180 L.F. (ora art. 112 CCII) anche se il Fisco ha espresso voto contrario, purché siano rispettati gli altri presupposti.
  • Cass., SS.UU. civ., 25 marzo 2021 n. 8504 – Massimata su Unijuris: l’interesse concorsuale alla conservazione dell’impresa prevale su quello fiscale alla riscossione integrale. Orientamento che ha aperto alla falcidiabilità dell’IVA e al superamento del veto erariale nei concordati/accordi.
  • Cass., Sez. I, 15 giugno 2023 n. 17103 – Rilevata su Unijuris: in tema di concordato, spetta comunque ai creditori approvare la proposta anche se il giudice la ritiene più conveniente dell’alternativa liquidatoria (no omologazione d’ufficio per convenienza, salvo eccezioni di legge cram-down).
  • Cass., Sez. I civ., 24 gennaio 2023 n. 2172 – Sulla responsabilità degli amministratori per mala gestio: scelte gestionali gravemente imprudenti oltre i limiti di ragionevolezza sono sindacabili; nel caso, acquisto di ramo d’azienda dissestato senza adeguate misure è atto di mala gestio. (Massima ufficiale riportata in DirittoDellaCrisi.it).
  • Cass., Sez. I civ., 14 marzo 2023 n. 6893 – Sentenza sul “divieto di nuove operazioni” dopo causa di scioglimento (perdita capitale): responsabilità diretta ex art.2486 c.c. degli amministratori verso i creditori per atti di gestione non conservativi posti in essere dopo il verificarsi della causa di scioglimento. I creditori non devono provare il dolo/colpa, basta consapevolezza dell’amministratore; spetta all’amministratore provare che le operazioni postume erano a fini liquidatori. (Principio ricavato da Eutekne – Redazione, 14 apr 2023).
  • Normativa emergenziale COVID e PNRR: da segnalare anche il DL 118/2021 conv. L.147/2021 (che ha introdotto composizione negoziata e concordato semplificato) e il fatto che molte riforme attuate rispondono a impegni PNRR (es. entrata in vigore CCII 2022 e correttivo 2024).

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Conclusione

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