Avviso Di Accertamento Per Dichiarazione Infedele: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento per dichiarazione infedele e non sai come reagire? Ti contestano errori, omissioni o incongruenze nei redditi, nelle spese o nei dati dichiarati? Ti chiedi se davvero hai sbagliato e, soprattutto, come puoi difenderti?

La dichiarazione infedele è una delle violazioni più contestate dal Fisco, ma anche una delle più tecnicamente delicate. Se l’accertamento si basa su presunzioni, calcoli errati o prove deboli, puoi contestarlo e tutelare i tuoi diritti.

Quando si parla di dichiarazione infedele?
Quando nella dichiarazione dei redditi vengono indicati:
– Redditi inferiori a quelli realmente percepiti
– Oneri dedotti o detrazioni non spettanti
– Spese o costi non documentati o non inerenti
– Errori o omissioni che comportano un’imposta inferiore al dovuto

Cosa comporta un avviso per dichiarazione infedele?
– La richiesta di pagamento delle maggiori imposte accertate (IRPEF, IRES, IVA, ecc.)
– L’applicazione di sanzioni dal 90% al 180% della maggiore imposta
– L’obbligo di versare interessi legali
– In certi casi, la segnalazione penale se l’imposta evasa supera le soglie di punibilità
– La possibilità di iscrizioni a ruolo, pignoramenti o ipoteche se non si paga in tempo

Quando l’accertamento può essere illegittimo o contestabile?
– Se si basa su semplici presunzioni, senza prove concrete
– Se non è stato rispettato il contraddittorio preventivo
– Se l’errore è formale e non ha inciso sul calcolo dell’imposta
– Se mancano gli atti presupposti o sono stati notificati fuori termine
– Se la dichiarazione era fondata su interpretazioni legittime della norma

Come puoi difenderti da un avviso per dichiarazione infedele?
Verifica nel dettaglio i rilievi dell’Agenzia delle Entrate. Ricostruisci i dati fiscali contestati, confrontali con la documentazione a tua disposizione (contratti, estratti conto, fatture, ricevute, scritture contabili). Giustifica ogni voce oggetto di contestazione. Se hai agito con buona fede o errore tecnico, documentalo. Partecipa al contraddittorio e presenta una memoria difensiva articolata. Se l’avviso è infondato o sproporzionato, puoi presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria.

Quali strumenti hai per risolvere la controversia?
Accertamento con adesione, con riduzione delle sanzioni a 1/3
Ravvedimento operoso, se possibile in fase iniziale
Autotutela, se l’avviso presenta errori evidenti
Ricorso tributario, se il provvedimento è viziato o eccessivo
Conciliazione giudiziale, se vuoi chiudere in sede di giudizio con sconti sulle sanzioni

Cosa puoi ottenere con una difesa tempestiva ed efficace?
– L’annullamento totale o parziale dell’avviso
– La riduzione delle imposte richieste e delle sanzioni
– L’eliminazione del rischio penale, se ricorrono i presupposti
– La tutela della tua situazione patrimoniale e finanziaria
– La possibilità di definire tutto in modo agevolato e rateizzabile

La dichiarazione infedele non sempre è frutto di dolo. Spesso si tratta di errori tecnici, interpretazioni fiscali incerte o contestazioni eccessive da parte dell’Agenzia. Difendersi è possibile, ma serve agire subito.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati tributaristi esperti in contenzioso per dichiarazioni infedeli e accertamenti fiscali ti spiega come contestare un avviso di accertamento, quando puoi annullarlo o ridurlo e come proteggere il tuo reddito e la tua serenità.

Hai ricevuto un avviso per dichiarazione infedele?
Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la dichiarazione, la documentazione e i rilievi ricevuti, e ti diremo se puoi annullare l’avviso, evitare sanzioni gravi e salvare la tua posizione fiscale.

Introduzione

Aggiornato a luglio 2025 – Un avviso di accertamento per dichiarazione infedele è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate contesta al contribuente (persona fisica o società) di aver presentato una dichiarazione dei redditi non veritiera, ossia con elementi reddituali inferiori al reale o con costi indebiti (inesistenti). Ricevere un simile avviso può avere conseguenze rilevanti sia sul piano tributario (imposte e sanzioni pecuniarie) sia, nei casi più gravi, sul piano penale (con l’eventuale reato di dichiarazione infedele ex art. 4 D.Lgs. 74/2000). Questa guida – rivolta ad avvocati, imprenditori e privati – offre un’analisi avanzata ma dal taglio pratico e divulgativo su come difendersi da un avviso di accertamento per dichiarazione infedele. Si esamineranno la normativa italiana aggiornata, le strategie difensive (in sede amministrativa e nel contenzioso tributario fino alla Cassazione), le sanzioni amministrative e penali previste, i recenti orientamenti giurisprudenziali, oltre a fornire tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione Domande e Risposte per chiarire i dubbi frequenti dal punto di vista del contribuente (debitore).

Cos’è la “dichiarazione infedele” e quando si configura

In ambito tributario, si parla di dichiarazione infedele quando il contribuente presenta una dichiarazione dei redditi (o IVA) contenente dati non veritieri, tali da ridurre l’imponibile o l’imposta dovuta rispetto al corretto. In altre parole, il reddito dichiarato risulta più basso di quello effettivo, oppure vengono indicati oneri e detrazioni non spettanti, con il risultato di pagare meno tasse del dovuto. Questa condotta può essere attuata dolosamente, cioè con piena volontà di evadere il Fisco, ad esempio omettendo volutamente alcuni ricavi o inserendo costi fittizi, ma può anche derivare da errore o negligenza (ad esempio una compilazione sbagliata senza intenzione fraudolenta).

Va evidenziato che la legge punisce la dichiarazione infedele su due livelli:

  • Violazione amministrativa tributaria: in ogni caso di infedeltà dichiarativa scatta una sanzione pecuniaria amministrativa (salvo che il contribuente non sani spontaneamente l’errore prima di un controllo). Questo livello opera indipendentemente dall’importo evaso o dall’elemento soggettivo (anche l’errore “in buona fede” è sanzionato, sebbene di norma al minimo edittale).
  • Reato penale tributario: solo se l’infedeltà supera determinate soglie di gravità, essa costituisce anche un reato ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 74/2000. In tal caso scattano indagini penali e possibili sanzioni detentive (reclusione). Il reato richiede il dolo specifico di evasione, cioè la volontà di evadere le imposte; pertanto, se l’errore in dichiarazione è del tutto involontario e non comporta un’evasione significativa, non vi sarà responsabilità penale (pur restando la sanzione amministrativa).

In sintesi, la mera infedeltà dichiarativa integra sempre un illecito amministrativo tributario, mentre diventa illecito penale solo oltre una certa soglia di evasione e in presenza di volontà evasiva. Approfondiamo ora i riferimenti normativi e le soglie rilevanti.

Riferimenti normativi: art. 4 D.Lgs. 74/2000 e sanzioni amministrative

Il principale riferimento normativo in materia è l’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che disciplina il reato di dichiarazione infedele. Dopo le modifiche introdotte dal 2019, la norma (tuttora vigente nel 2025) prevede che commette reato chiunque, al fine di evadere le imposte, indica nella dichiarazione annuale dei redditi o IVA elementi attivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi inesistenti, quando congiuntamente si verificano entrambe le seguenti condizioni:

  • a) l’imposta evasa (per ciascun tributo) supera 100.000 €;
  • b) gli elementi attivi sottratti a imposizione (anche tramite costi fittizi) superano il 10% degli elementi attivi dichiarati, oppure superano comunque 2 milioni di €.

Se tutti e due questi requisiti sono soddisfatti, la dichiarazione infedele costituisce reato. La pena prevista è la reclusione da 2 anni a 4 anni e 6 mesi. La cornice edittale è stata innalzata dalla riforma del 2019 (prima era 1–3 anni). Il reato si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione infedele (è un reato istantaneo commesso con il deposito della dichiarazione annuale falsa).

Clausole di esclusione e soglie: L’art. 4 contiene inoltre delle clausole a tutela di violazioni meno gravi o formali. In particolare non rilevano penalmente (pur potendo avere conseguenze fiscali) le seguenti ipotesi:

  • Valutazioni di bilancio divergenti inferiori al 10%: le differenze di valutazione di elementi attivi o passivi complessivamente inferiori al 10% rispetto al valore corretto non costituiscono reato. Tali differenze sotto il 10% non si conteggiano nemmeno nel calcolo delle soglie di punibilità sopra dette. Questa previsione, mantenuta dopo la riforma, evita sanzioni penali per piccoli scostamenti valutativi (ad es. errori di stima di inventari, crediti, ecc.).
  • Errori su elementi esistenti indicati in bilancio: non si considera fraudolenta (ai fini del comma 1) la errata classificazione o valutazione di elementi attivi/passivi realmente esistenti, se i criteri utilizzati sono indicati in bilancio o documenti fiscali, né le violazioni di competenza temporale o di inerenza o deducibilità di costi reali. In sostanza, disaccordi interpretativi o errori tecnici su componenti reddituali effettivamente esistenti non integrano il dolo penale. Ad esempio, se un costo esiste ma viene dedotto in modo non corretto (per criterio di competenza o inerenza), la violazione resta solo amministrativa.
  • Elementi coperti da ravvedimento operoso: se il contribuente corregge spontaneamente la dichiarazione infedele tramite dichiarazione integrativa e ravvedimento operoso pagando il dovuto prima di sapere di ispezioni o indagini, si attiva una causa di non punibilità penale (art. 13, D.Lgs. 74/2000). Su questo punto torneremo nella parte penale.

Dal lato amministrativo, la sanzione tributaria per dichiarazione infedele è prevista dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. 471/1997. Essa consiste in una multa dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o del minor credito spettante. In pratica, l’Agenzia delle Entrate, accertato un maggior reddito imponibile, applica la relativa imposta evasa e aggiunge una sanzione calcolata in percentuale su tale imposta. La percentuale varia tra un minimo del 90% ed un massimo del 180%, a seconda della gravità e di eventuali circostanze (ad esempio recidiva, ecc.). La legge fissa comunque una sanzione minima di € 250 (in precedenza € 258, ridotta a 250 dal 2015) e attualmente di € 200 dopo le ultime modifiche.

Circostanze aggravanti amministrative: La sanzione amministrativa aumenta della metà (quindi range 135% – 270%) se la violazione è compiuta mediante fatture false o altri artifici fraudolenti che non configurino reato più grave. Ad esempio, se nella dichiarazione sono stati inseriti costi inesistenti documentati con fatture false (ma senza superare le soglie penali per la frode), la sanzione fiscale sarà maggiorata del 50%. Inoltre, se l’infedeltà riguarda redditi esteri occultati, la legge prevede un aumento di 1/3 della sanzione minima. In ogni caso, anche in presenza di errore colposo (senza intento doloso), la sanzione amministrativa si applica: in tali ipotesi di buona fede, di solito l’ufficio applica il minimo edittale (90%), ma l’obbligo di pagare il maggior tributo rimane.

Riassumendo i criteri principali:

  • Sanzione amministrativa infedele “standard”: 90% – 180% della maggiore imposta dovuta.
  • Sanzione con documentazione fraudolenta: +50% (quindi fino a 270%).
  • Sanzione minima assoluta: € 200 (anche se il 90% dell’imposta evasa fosse importo minore).
  • Sanzione infedele “qualificata” (esterovestizione): +1/3 se attività estere non dichiarate.
  • Buona fede (errore senza dolo): sanzione tendenzialmente al minimo (90%).

Di seguito una tabella riepilogativa che confronta profilo amministrativo vs. penale per la dichiarazione infedele, evidenziando soglie e sanzioni:

AspettoViolazione amministrativa (Dich. infedele)Reato penale (Art. 4 D.Lgs. 74/2000)
Soglia di evasioneNessuna soglia minima: qualsiasi infedele comporta sanzione pecuniaria.Soglie di punibilità: imposta evasa > 100.000 € e elementi attivi sottratti > 10% di quelli dichiarati (o > 2 mln €).
Sanzione previstaMulta amministrativa dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta (minimo €200). Aumento di 1/2 con fatture false; +1/3 se redditi esteri occultati.Reclusione da 2 anni a 4 anni 6 mesi. (Pena aumentata dal 2019, era 1–3 anni). Nessuna pena se sotto soglie (reato non configurato).
Elemento soggettivoColpa sufficiente: anche errori non dolosi sono sanzionati (ma in misura ridotta).Dolo specifico: serve volontà di evadere. Errori colposi → niente reato (solo sanzione amministrativa).
Pagamento del dovutoPossibile ravvedimento operoso: pagando spontaneamente imposta + interessi + sanzione ridotta si evita l’accertamento e la sanzione intera.Ravvedimento operoso prima di controlli estingue il reato (non punibilità). Pagamento integrale del debito dopo avvio controlli → attenuante speciale (riduzione pena fino a 1/2).
Soggetti responsabiliObbligato al pagamento: il contribuente dichiarante (persona fisica o società per IVA/IRAP). Nelle società risponde la società per i tributi dovuti e sanzioni tributarie; gli amministratori possono essere solidalmente responsabili in alcuni casi.Imputato: la persona fisica che ha commesso il fatto (es. legale rappresentante che firma la dichiarazione infedele). Le società possono avere responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/2001 per questo reato (introdotta dal 2020) con sanzioni pecuniarie a loro carico.
Prescrizione/decadenzaL’accertamento fiscale va notificato entro 5 anni dall’anno di presentazione (dich. infedele) – termine elevato a 7 anni se dichiarazione omessa. (Raddoppio termini per reati: per violazioni fino al 2015, i termini raddoppiavano se vi era obbligo di denuncia penale; per periodi dal 2016 in poi il raddoppio è stato di fatto abrogato, mantenendo termini fissi 5/7 anni).Il reato di dichiarazione infedele si prescrive in 6 anni (termine base aumentato di eventuali cause di sospensione fino a 7 anni e mezzo circa). La prescrizione decorre dalla data di presentazione della dichiarazione. (N.B.: Molti processi per dichiarazioni infedeli datate si concludono con estinzione per prescrizione, come accaduto in recenti sentenze).

(Tabella 1 – Confronto tra illecito amministrativo e penale per dichiarazione infedele)

L’Avviso di accertamento esecutivo: caratteristiche e termini

L’avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’Agenzia delle Entrate contesta al contribuente un maggiore imponibile e una maggiore imposta dovuta, applicando le relative sanzioni. Nel caso di dichiarazione infedele, l’avviso di accertamento viene generalmente emesso a seguito di controlli automatici, controlli formali o verifiche fiscali che abbiano riscontrato discrepanze (es. ricavi non dichiarati, costi indebiti, discordanze con dati dell’Anagrafe Tributaria, etc.).

Avviso “esecutivo”: dal 2011, gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate per imposte sui redditi, IVA e IRAP hanno efficacia esecutiva trascorsi 60 giorni dalla notifica. Ciò significa che, decorso il termine per presentare ricorso, l’avviso vale anche come titolo per la riscossione coattiva, senza necessità di una successiva cartella di pagamento. L’atto deve infatti contenere l’“intimazione ad adempiere” entro il termine e l’indicazione che, scaduti 60 giorni, si procederà alla riscossione forzata. Questa innovazione, introdotta dal D.L. 78/2010, rende più rapido il passaggio all’esecuzione forzata in caso di mancato pagamento o impugnazione.

Notifica e termini: L’avviso viene notificato al contribuente (per raccomandata A/R, PEC per i soggetti obbligati, o messo notificatore) entro i termini di decadenza previsti per l’accertamento fiscale. Come visto, attualmente l’accertamento per infedele va notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (es: dichiarazione 2020 presentata nel 2021, accertabile fino al 31/12/2026). In caso di omessa dichiarazione il termine è il settimo anno. Fino ai periodi d’imposta 2015 vigeva il raddoppio dei termini in presenza di reati tributari; per le annualità dal 2016 in poi la legge (D.Lgs. 128/2015) ha abolito tale raddoppio automatico, mantenendo appunto termini fissi di 5 e 7 anni (salvo che la denuncia penale sia presentata entro i termini ordinari).

Contenuto dell’avviso: Nell’avviso di accertamento devono essere motivati i rilievi contestati (es. quantità di ricavi non dichiarati, metodologia di ricostruzione del reddito, basi normative) e quantificate le maggiori imposte dovute, le sanzioni applicate e gli interessi di mora calcolati. Tipicamente, per dichiarazione infedele l’ufficio ricostruisce il reddito corretto e determina la differenza d’imposta, applicando la sanzione del 90% (o più, se aggravanti) su tale differenza. L’avviso indica anche le eventuali soglie penal-tributarie superate, se è stato effettuato o sarà effettuato un invio alla Procura della Repubblica (se l’evasione supera 100.000 €).

Esempio pratico: un contribuente persona fisica aveva dichiarato redditi per 50.000 €, ma il Fisco accerta che i ricavi effettivi erano 80.000 € (dichiarazione infedele). Su 30.000 € di imponibile non dichiarato, l’IRPEF evasa (aliquota marginale, poniamo 38%) è circa 11.400 €. L’avviso conterrà: imposta evasa €11.400; sanzione base 90% = €10.260 (che può essere aumentata se recidiva o altri elementi); interessi legali calcolati su 11.400 € dal 2021 alla data di notifica; totale dovuto (imposta+sanzioni+interessi). In questo esempio l’imposta evasa (€11.400) non supera 100.000 €, quindi non è reato ma solo illecito amministrativo.

Va sottolineato che in sede di accertamento amministrativo l’Ufficio non ha bisogno di provare il dolo: può contestare la maggior imposta anche per errori o omissioni colpose. L’eventuale elemento soggettivo rileverà solo per l’applicazione di sanzioni ridotte (ad es. circostanza attenuante se l’errore è scusabile) e, ovviamente, per la segnalazione penale.

Cosa fare dopo la notifica: opzioni difensive entro 60 giorni

Dal giorno in cui l’avviso di accertamento viene notificato, decorre per il contribuente un termine cruciale di 60 giorni (calendario) entro cui reagire. In questo periodo, dal punto di vista “difensivo”, il contribuente ha diverse possibili strategie:

  1. Pagare quanto richiesto (acquiescenza): se il contribuente riconosce fondata (in tutto o in parte) la pretesa fiscale e decide di non impugnare l’avviso, può optare per il pagamento. L’ordinamento incentiva questa scelta prevedendo la riduzione delle sanzioni ad 1/3 di quelle irrogate. L’adesione all’atto impositivo viene detta acquiescenza e richiede di pagare entro 60 giorni l’importo dovuto (o la prima rata, in caso di rateazione). In tal modo si chiude la vertenza, rinunciando al ricorso, ma beneficiando dello sconto sulle sanzioni. Ad esempio, se l’avviso richiede €10.000 di maggior imposta + €9.000 di sanzioni, in caso di acquiescenza si pagheranno imposta + interessi per intero, mentre le sanzioni scenderanno a €3.000 (un terzo di 9.000). L’acquiescenza comporta la rinuncia a impugnare l’atto e a qualsiasi rimedio successivo.
  2. Presentare una richiesta di accertamento con adesione: l’accertamento con adesione è uno strumento deflattivo che consente al contribuente e all’Ufficio di “negoziare” una soluzione prima del processo. Il contribuente può presentare istanza di adesione (anche semplicemente in carta libera) prima del ricorso. Ciò sospende il termine per impugnare per 90 giorni. Si apre un contraddittorio amministrativo in cui si discutono i rilievi; se si raggiunge un accordo sul nuovo imponibile, viene redatto un atto di adesione. I vantaggi: l’Agenzia di solito riduce le sanzioni a 1/3 del minimo, e talvolta rivede parzialmente a favore del contribuente la pretesa (ad es. riconoscendo alcuni costi contestati). Per il contribuente significa pagare un importo più basso di quanto richiesto inizialmente, evitando il contenzioso. Il pagamento dell’accordo va fatto entro 20 giorni dalla firma (rateizzabile in max 8 rate trimestrali, 16 rate se importi > €50.000). Se l’accordo non si raggiunge, il contribuente ha 30 giorni dalla chiusura del procedimento per presentare ricorso (il termine dei 60 gg riprende a decorrere considerando la sospensione). L’adesione non è obbligatoria: è facoltativa, ma spesso consigliata se ci sono margini per ottenere uno sgravio o se si riconosce almeno in parte il debito.
  3. Chiedere l’annullamento in autotutela: se l’avviso presenta errori evidenti o illegittimità (ad esempio scambio di persona, calcoli palesemente errati, doppia imposizione, ecc.), il contribuente può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio che ha emesso l’atto, chiedendone l’annullamento totale o parziale. L’autotutela è discrezionale per l’amministrazione e non sospende i termini di ricorso. È utile invocarla solo in casi di palese errore, poiché l’ufficio raramente annulla propri atti se non in presenza di prove schiaccianti di errore. Se l’istanza di autotutela non viene accolta (o non viene risposto in tempo), resta la possibilità di agire con ricorso. Nota: la presentazione di autotutela non interrompe i 60 giorni per il ricorso, quindi va usata con cautela per non lasciar decorrere i termini.
  4. Non fare nulla (inerzia): se il contribuente ignora l’avviso e non compie alcuna delle azioni sopra, allo scadere dei 60 giorni l’accertamento diventa definitivo ed esecutivo. A quel punto l’Agenzia delle Entrate potrà avviare la riscossione coattiva dei tributi dovuti. In concreto, decorsi i 60 giorni senza ricorso né pagamento, l’ufficio trasmette il carico al concessionario della riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) trascorsi ulteriori 30 giorni, ma, salvo casi di urgenza, l’esecuzione è sospesa per legge per altri 180 giorni. Dopo tale periodo (60+30+180 giorni dalla notifica, circa 8 mesi) si può procedere ad esempio con iscrizione di fermo amministrativo, ipoteca su immobili, pignoramenti e altri mezzi per recuperare coattivamente le somme. L’inerzia è quasi sempre la strategia peggiore, a meno che il contribuente non sia intenzionato a pagare ma si sia semplicemente lasciato scadere il termine (in tal caso può ancora pagare, ma perderà gli sconti sulle sanzioni e potrebbe subire intanto misure cautelari). Importante: se non si presenta ricorso, l’accertamento diventa definitivo anche se infondato, precludendo ogni successiva difesa sul merito.
  5. Presentare ricorso al giudice tributario: questa è la via del contenzioso tributario, da intraprendere entro 60 giorni se si vuole contestare l’avviso davanti a un giudice terzo. Il ricorso può riguardare la legittimità formale dell’atto e/o il merito della pretesa fiscale. Approfondiamo questa opzione nella sezione successiva.

Oltre a queste opzioni principali, ricordiamo che è possibile cercare soluzioni transattive anche dopo l’avvio del contenzioso, ad esempio tramite la conciliazione giudiziale (in primo o secondo grado) che può ridurre le sanzioni al 40% o 50% a seconda della fase, o tramite definizioni agevolate previste da leggi speciali (come “pace fiscale”, condoni, se vigenti). Nel 2023-2024 ad esempio sono state introdotte definizioni agevolate di liti pendenti e di accertamenti con adesione con sanzioni ridotte; è bene verificare se l’anno in corso prevede misure straordinarie. In mancanza di queste, le strade ordinarie restano quelle sopra elencate.

Pagamento in pendenza di ricorso: se si propone ricorso, la legge comunque non sospende automaticamente la riscossione di tutto il dovuto. In base all’art. 15 del D.P.R. 602/73 e all’art. 68 D.Lgs. 546/92, il contribuente deve versare provvisoriamente 1/3 delle imposte accertate entro 60 giorni, anche se fa ricorso. Gli ulteriori 2/3 restano sospesi fino all’esito di primo grado. Se il contribuente vince in primo grado, gli importi pagati devono essere rimborsati con interessi. Se invece l’ufficio vince, dopo la sentenza di primo grado chiederà il versamento di un altro 1/3 (così da riscuotere 2/3 in totale). Dopo l’eventuale conferma in secondo grado, si può riscuotere anche il residuo. È possibile tuttavia chiedere al giudice tributario una sospensione cautelare della riscossione, qualora il pagamento del primo 1/3 arrechi grave danno e il ricorso appaia fondato (art. 47 D.Lgs. 546/92). In pratica, presentando istanza motivata (ad esempio dimostrando che pagare subito 1/3 creerebbe difficoltà economiche) il contribuente può ottenere un provvedimento che blocca la riscossione fino alla decisione di merito. È importante valutare questa possibilità per evitare esecuzioni forzate durante il processo.

Il contenzioso tributario: ricorso, appello e Cassazione

Se si decide di impugnare l’avviso di accertamento, occorre presentare un ricorso tributario entro 60 giorni dalla notifica, rivolgendosi alla Commissione Tributaria competente (dal 2023 ridenominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado). Di seguito i punti salienti del contenzioso:

  • Giurisdizione tributaria: le controversie su avvisi di accertamento rientrano nella giustizia tributaria. Il ricorso si propone presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio (di norma, quella della provincia in cui ha sede l’ufficio che ha emesso l’atto o la residenza del contribuente). Dal 2023, a seguito della riforma (L. 130/2022), le Commissioni Tributarie sono state riorganizzate e i giudici tributari sono ora magistrati professionali, con procedure telematiche potenziate. Tuttavia, per il contribuente le regole pratiche del ricorso restano simili.
  • Contenuto del ricorso: Il ricorso è un atto scritto che deve indicare: l’ente impositore (Agenzia delle Entrate, direzione locale), l’atto impugnato (estremi dell’avviso), i motivi di impugnazione in fatto e in diritto (es. erronea ricostruzione dei ricavi, vizio di motivazione dell’atto, violazione di legge, ecc.), l’eventuale istanza di sospensione, le conclusioni (richiesta di annullamento totale/parziale). Va poi notificato all’Agenzia delle Entrate (via PEC per i dotati di domicilio digitale, altrimenti via ufficiale giudiziario o raccomandata) entro 60 giorni. Entro i 30 giorni successivi alla notifica, il ricorrente deve costituirsi in giudizio depositando il ricorso presso la segreteria della Commissione (telematicamente tramite il Portale Giustizia Tributaria – SIGIT). È obbligatorio che il ricorso sia sottoscritto da un difensore abilitato (di regola avvocato, commercialista o consulente del lavoro iscritto all’albo) se il valore della causa supera €3.000 (per importi inferiori è ammesso il “pro se”). Nel nostro caso di dichiarazione infedele, gli importi in gioco sono quasi sempre tali da richiedere un difensore.
  • Mediazione tributaria: fino al 2023 era previsto un particolare rito di reclamo/mediazione per le liti di valore fino a €50.000, che imponeva di presentare prima un’istanza all’ufficio e, solo in caso di esito negativo, si perfezionava il ricorso. La riforma fiscale del 2023 ha eliminato l’obbligo di mediazione preventiva per gli atti notificati dal 1° gennaio 2024. Pertanto, attualmente, anche per importi sotto 50.000 € si può ricorrere direttamente senza la fase amministrativa preliminare. Resta comunque facoltà delle parti tentare una mediazione volontaria anche a processo iniziato. Nota: se l’avviso è stato notificato prima del 2024 e rientrava nella soglia, occorreva seguire la procedura previgente (reclamo entro 60 gg, attesa 90 gg, ecc.). In questa guida però ci focalizziamo sul regime attuale post-riforma, dove il ricorso può essere immediatamente proposto.
  • Svolgimento del processo: una volta costituito il ricorso, l’Agenzia delle Entrate si costituisce a sua volta depositando controdeduzioni (memoria difensiva) e documenti. Il processo tributario è in buona parte documentale. Possono esservi udienze pubbliche o da remoto per la discussione orale, ma spesso la decisione si basa su atti scritti. Il contribuente può depositare memorie illustrative aggiuntive fino a 5 giorni prima dell’udienza. Il giudice tributario emetterà quindi una sentenza di primo grado, accogliendo o respingendo (in tutto o in parte) il ricorso. Le sentenze possono annullare l’atto, confermarlo, oppure annullarlo parzialmente (ad es. riducendo il reddito accertato). È importante notare che, secondo il principio di soccombenza, la parte che perde può essere condannata alle spese di giudizio a favore dell’altra parte.
  • Appello (secondo grado): sia il contribuente che l’ente impositore, se parzialmente o totalmente soccombenti in primo grado, possono appellare la sentenza innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado (o entro 6 mesi dal deposito se non notificata) e sospende l’esecutività della sentenza solo per la parte eccedente i 2/3 (infatti dopo il primo grado, l’ufficio può riscuotere fino a 2/3 in caso di sua vittoria). La procedura in appello è analoga alla prima, con depositi telematici e eventuale discussione. La Corte di secondo grado deciderà con sentenza che può confermare, riformare o annullare la decisione impugnata.
  • Ricorso per Cassazione: contro la sentenza di secondo grado è ammesso, per motivi di diritto, il ricorso in Cassazione (Sezioni Civili – sezione tributaria). I motivi di ricorso sono limitati a vizi di violazione di legge o nullità della sentenza di appello; non è più riesaminabile il merito (salvo casi di motivazione inesistente o contraddittoria, vizi oggi molto circoscritti). Il ricorso per Cassazione deve essere proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello (o 6 mesi dal deposito, se non notificata), ed è necessario l’avvocato iscritto all’Albo Cassazionisti. La Cassazione, se riscontra errori in iure, può cassare la sentenza e decidere la causa nel merito oppure rinviare ad altro giudice di merito. In pendenza di Cassazione, l’esito di secondo grado è esecutivo (l’ufficio può riscuotere il residuo 1/3 se aveva vinto anche in secondo grado). Solo in casi eccezionali la Cassazione può sospendere l’esecutività.

È importante sottolineare che il processo tributario è indipendente dall’eventuale processo penale per reato di dichiarazione infedele. I due procedimenti seguono binari diversi (salvo alcuni punti di contatto sulla prova). Ad esempio, un contribuente potrebbe vincere il ricorso tributario (annullando l’accertamento) ma ciò non preclude necessariamente l’azione penale se c’è prova di evasione oltre soglia – anche se, in pratica, l’esito del giudizio tributario favorevole tende a influenzare positivamente la posizione penale. Viceversa, l’assoluzione in sede penale (perché il fatto non sussiste o non costituisce reato) non annulla automaticamente il debito tributario, che va contestato nel processo tributario. C’è comunque tendenza ad armonizzare i risultati: ad esempio la Cassazione ha affermato che il giudice penale deve tenere conto degli accertamenti definitivi del giudice tributario in merito all’effettivo imponibile evaso.

Spese e contributo unificato: per completezza, ricordiamo che introdurre un ricorso tributario comporta il pagamento di un contributo unificato proporzionato al valore della lite (ad esempio circa €30 per liti fino a €2.582, €120 fino a €5.000, €250 fino a €25.000, €500 oltre €25.000, e così via). Inoltre, se si perde, si può essere condannati a rifondere le spese di controparte (di norma, però, nelle liti fiscali ciascuno sopporta le proprie spese se non vi è soccombenza grave). Questi costi vanno ponderati nella strategia difensiva.

Novità 2023-2025 nella giustizia tributaria: la recente riforma ha introdotto anche la figura del giudice monocratico per le liti minori (fino a €3.000 al netto di sanzioni e interessi, il giudice decide da solo in primo grado). Inoltre è stata potenziata la digitalizzazione: atti solo telematici e udienze da remoto possibili. Il 2023 ha visto anche alcune definizioni agevolate come la “conciliativa” e la “rinuncia ai giudizi pendenti” per ridurre il contenzioso: ad esempio la possibilità di chiudere liti pendenti con lo Stato pagando una percentuale. Queste misure sono temporanee; per il futuro, è importante che il contribuente consulti un consulente aggiornato sulle eventuali sanatorie fiscali in vigore, che potrebbero consentire di chiudere il contenzioso con sconti su sanzioni e interessi.

Profili penali: il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000)

Come detto, una dichiarazione infedele diviene penalmente rilevante se supera le soglie indicate dall’art. 4 D.Lgs. 74/2000 (imposta evasa >100.000 € e attivo sottratto >10% del dichiarato o >2 milioni). Esaminiamo ora gli aspetti penali in dettaglio dal punto di vista di chi subisce un accertamento infedele:

1. Procedimento penale e rapporti con l’accertamento: Quando l’ufficio fiscale rileva, in corso di verifica, una probabile evasione oltre soglia penale, trasmette una notizia di reato alla Procura della Repubblica competente (obbligo di denuncia ex art. 331 c.p.p.). Ciò tipicamente avviene tramite la Guardia di Finanza, che redige un processo verbale di constatazione (PVC) indicando gli elementi dell’infedeltà. La Procura può aprire un fascicolo per il reato di dichiarazione infedele e svolgere indagini (tipicamente delegandole alla stessa G.d.F.). Le prove raccolte in sede tributaria (documenti, contabilità, dichiarazioni) possono essere utilizzate nel penale, ferma restando l’autonomia dei due giudizi. In parallelo, l’Agenzia delle Entrate emette comunque l’avviso di accertamento per recuperare il tributo: il contribuente dovrà difendersi su due fronti (tributario e penale), con logiche e tempi diversi.

2. Soggetti imputati e responsabilità: Il reato di dichiarazione infedele è a carico della persona fisica che ha sottoscritto o presentato la dichiarazione mendace (es. il contribuente persona fisica per la propria IRPEF, l’amministratore o rappresentante della società per la dichiarazione IRES/IVA). Nelle società, usualmente risponde l’amministratore legale rappresentante pro-tempore al momento della dichiarazione infedele. Altri eventuali soggetti (consulenti, commercialisti) potrebbero concorrere solo se partecipano con dolo alla condotta (es. il commercialista che materialmente predispone una dichiarazione infedele concordando l’evasione può rispondere in concorso). Va ricordato che dal 2020 il D.Lgs. 231/2001 include alcuni reati tributari tra quelli che fanno scattare la responsabilità amministrativa delle società: in particolare, il D.Lgs. 75/2020 ha inserito anche la dichiarazione infedele (art. 4) tra i reati presupposto. Ciò significa che, se il reato è commesso nell’interesse o vantaggio della società, quest’ultima può subire sanzioni pecuniarie (e interdittive) in sede di giudizio 231. Ad esempio, una società di capitali il cui amministratore viene condannato per art. 4 potrebbe vedersi irrogare una sanzione fino a 500 quote (il cui valore è stabilito dal giudice in base alle condizioni economiche dell’ente).

3. Elemento oggettivo e diabolico: Il reato richiede il superamento di due parametri quantitativi (imposta evasa e imponibile sottratto, v. sopra) e la presentazione di una dichiarazione annuale infedele. È configurato come reato a condotta vincolata: consiste nell’“indicare” elementi attivi inferiori o passivi fittizi. Importante: l’art. 4 specifica che esso opera “fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3”, cioè al di fuori delle fattispecie più gravi di dichiarazione fraudolenta con fatture false (art. 2) o con altri artifici (art. 3). In altre parole, la dichiarazione infedele è un reato residuale: se l’infedeltà è realizzata tramite falsi documenti o artifizi fraudolenti, si ricade nei reati di frode fiscale, più gravi, e l’art. 4 non si applica. Ad esempio, la Cassazione ha chiarito che l’utilizzo in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti configura sempre il delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 2, non una mera infedele. Dunque, il confine è netto: infedele è la semplice sotto-dichiarazione di ricavi o sovra-dichiarazione di costi realizzata senza meccanismi fraudolenti sofisticati. Se invece vi sono falsi documenti, doppie contabilità, ecc., si procede per frode. Questa distinzione può essere importante in fase di difesa penale: qualificare il fatto come infedele (punito meno severamente) invece che come fraudolento (più grave) può fare molta differenza.

4. Pena e circostanze del reato: La pena base, come detto, va da 2 anni a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Non sono previste pene pecuniarie (multa) per le persone fisiche, ma in caso di condanna vi sono delle pene accessorie (interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche, incapacità di contrattare con P.A., ecc. ex art. 12 D.Lgs. 74/2000) per un periodo pari alla pena principale eventualmente inflitta. Tali pene accessorie però non si applicano se l’imputato beneficia della causa di non punibilità di cui diremo o dell’attenuante speciale del pagamento (vedi oltre).

Circostanze attenuanti generiche e speciali: Oltre alle attenuanti comuni del codice penale (es. incensuratezza, ecc.), nel diritto penale tributario vi sono due importanti disposizioni “premiali”:

  • L’attenuante del pagamento del debito tributario (art. 13-bis D.Lgs. 74/2000): se l’imputato paga integralmente i debiti tributari (imposta, sanzioni e interessi) prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, ha diritto a una riduzione di pena fino alla metà. Questa attenuante speciale esclude anche le pene accessorie. In pratica, anche se non si è fatto in tempo a ravvedersi prima dell’accertamento, pagare tutto il dovuto in sede di adesione o conciliazione (o anche successivamente, purché prima del giudizio) consente una forte mitigazione della pena e la possibilità di patteggiare con notevoli sconti. Esempio: in un caso deciso con patteggiamento, l’imputato aveva versato il dovuto e ottenuto il patteggiamento senza pena accessoria; la Cassazione ha però annullato la pena perché era stato concesso il patteggiamento senza verificare l’integralità del pagamento (segno che il pagamento è condizione imprescindibile per accedere al patteggiamento stesso).
  • La causa di non punibilità per adempimento (art. 13 D.Lgs. 74/2000): come anticipato, se il contribuente si ravvede spontaneamente prima di essere scoperto, estinguendo il debito tributario, il fatto non è punibile. Nel dettaglio, per dichiarazione infedele l’art. 13 comma 1-bis prevede la non punibilità se il debito (imposta + interessi + sanzioni amministrative) è integralmente pagato mediante ravvedimento o presentando la dichiarazione omessa (nei casi di omessa dichiarazione) prima che l’autore abbia formale conoscenza di attività di accertamento o procedimenti penali a suo carico. Questa causa di non punibilità originariamente (dal 2015) valeva per infedele e omessa; dal 2019 è stata estesa anche alle dichiarazioni fraudolente (artt. 2 e 3), così da incentivare sempre il pagamento. Attenzione: il pagamento deve essere integrale e effettuato tempestivamente; un semplice accordo di rateazione senza pagamento integrale non basta a esimere dalla pena (la giurisprudenza ha chiarito che serve l’effettivo versamento di tutte le rate prima del dibattimento). In pratica, se si riceve un PVC o si fiuta un controllo imminente, presentare una dichiarazione integrativa e pagare subito imposta, interessi e sanzione ridotta può evitare il processo penale.

5. Calcolo dell’imposta evasa e accertamento del dolo: In sede di processo penale, uno snodo fondamentale è stabilire l’ammontare dell’imposta evasa e dell’attivo sottratto, per verificare le soglie. Su questo aspetto, i difensori possono talvolta far leva per ottenere proscioglimenti se il calcolo dell’evaso risulta inferiore a 100.000 € una volta considerate correttamente le deduzioni. Un recente orientamento favorevole ai contribuenti si è avuto con la Cassazione penale n. 2383/2025, la quale ha affermato che nel calcolo del reddito evaso vanno considerati anche i costi e oneri non contabilizzati relativi ai ricavi occulti. In altri termini, se il Fisco contesta ricavi “in nero” non dichiarati, l’imputato ha diritto a vedersi riconosciute in deduzione le spese sostenute per produrre quei ricavi, purché provate da elementi certi, anche se non erano registrate in contabilità. Questo principio evita che l’evasione venga quantificata in modo artificiosamente alto considerando ricavi lordi senza costi. Ad esempio, se un’impresa non ha dichiarato vendite per €1.000.000 ma ha sostenuto €600.000 di costi non registrati, l’utile evaso è €400.000 e su quello va calcolata l’imposta evasa. La Cassazione ha così annullato una sentenza che non aveva tenuto conto dei costi “in nero” emersi da appunti extracontabili, con rilievo sulle soglie di punibilità. Questo è un esempio di come, in sede penale, la quantificazione del debito possa essere oggetto di perizia e contestazione, con standard “oltre ogni ragionevole dubbio” a carico dell’accusa.

Sul fronte del dolo specifico, come accennato, vi è dibattito su come provarlo in relazione alle soglie. In teoria, l’evasore dovrebbe prefiggersi di superare le soglie, ma ciò è oggettivamente difficile da provare, perché quando compila la dichiarazione non sa esattamente quale sarà l’imposta evasa (che scaturisce dal confronto con quanto accertato dal Fisco). La giurisprudenza prevalente risolve ritenendo che non occorre la volontà specifica di superare le soglie, essendo sufficiente il dolo di evasione in sé (quindi la consapevolezza di dichiarare il falso per non pagare tasse), anche se l’agente non si rappresenta l’entità precisa dell’evasione. Questo abbassa la soglia probatoria per l’accusa: in pratica, provato che volontariamente Tizio ha nascosto dei redditi per evadere, poco importa se pensava di evadere 90.000 € e invece sono risultati 110.000 € – il reato c’è perché la soglia è oggettivamente superata.

6. Evoluzioni recenti: particolare tenuità, crisi d’impresa, pagamento rateale: Nel 2022, con la riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022), è stato introdotto nell’art. 13 D.Lgs. 74/2000 il comma 3-ter, che invita il giudice a valutare, ai fini dell’eventuale non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), criteri favorevoli come: l’avvenuto pagamento, anche rateale, del debito tributario; lo scostamento modesto rispetto alla soglia; lo stato di crisi di impresa. Ciò significa che, pur oltrepassando formalmente le soglie, se l’evasione è di poco superiore al limite e l’imputato ha pagato il dovuto, il fatto potrebbe essere ritenuto di particolare tenuità e non punibile (se ricorrono le condizioni di legge: soglia di pena entro 5 anni, assenza di comportamenti abituali). Ad esempio, un evasore di 105.000 € di imposta che ha già saldato tutto e magari versa in difficoltà finanziarie, potrebbe ottenere l’archiviazione/assoluzione per tenuità.

Proprio su questo punto è intervenuta di recente la Cassazione penale, Sez. III, sent. n. 4145/2025 (udienza dicembre 2024, deposito gennaio 2025). In tale pronuncia la Suprema Corte ha censurato la Corte d’Appello per non aver considerato il pagamento integrale del debito tributario da parte dell’imputato ai fini della tenuità. La Cassazione ha affermato che, a seguito della riforma 2022, il giudice deve valutare il comportamento post-fatto e che il pagamento (anche rateale) del debito è espressamente indicato ora come elemento favorevole. Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva negato la tenuità solo guardando all’entità dell’evaso, ma la Cassazione ha imposto di tenere conto anche del ravvedimento e delle circostanze attenuanti. Alla fine, peraltro, il reato è risultato prescritto (essendo relativo ad annate 2011-2013), ma la sentenza è rilevante per il principio espresso: anche nei reati tributari, il risarcimento del danno (cioè pagare le imposte evase) è decisivo per valutare la gravità e può orientare verso la non punibilità per particolare tenuità.

In sostanza, il panorama attuale vede un sistema punitivo più severo nelle soglie e pene (dopo il 2019), ma anche una forte valorizzazione delle condotte riparatorie: se il contribuente coopera e paga, può evitare la punibilità o dimezzare la pena. D’altro canto, i casi di evasione consistente e dolosa sono perseguiti anche con strumenti affini alla criminalità economica organizzata: ad esempio, è applicabile la confisca “allargata” dei beni sproporzionati al reddito per alcuni reati tributari gravi (ma è stata esclusa per la dichiarazione infedele semplice, limitandola ai reati fraudolenti).

Domande frequenti (FAQ) su avviso di accertamento e dichiarazione infedele

Di seguito una serie di domande comuni con relative risposte sintetiche, utili per chiarire gli ultimi dubbi.

D: Che differenza c’è tra dichiarazione infedele e omessa dichiarazione?

R: La dichiarazione infedele si ha quando il contribuente presenta la dichiarazione annuale ma i dati dichiarati non sono veritieri (redditi sotto-dichiarati o costi fittizi). L’omessa dichiarazione invece è la mancata presentazione della dichiarazione entro il termine prescritto. Dal punto di vista sanzionatorio, l’omissione è considerata più grave: amministrativamente è punita con sanzione dal 120% al 240% dell’imposta dovuta (minimo €250), mentre penalmente costituisce reato se l’imposta evasa supera €50.000. Il reato di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) è punito con reclusione 2–5 anni (soglia 50.000 €) per l’omessa dichiarazione annuale dei redditi o IVA. In pratica, chi non presenta affatto la dichiarazione rischia prima un accertamento d’ufficio con sanzioni più alte e, se le imposte evase superano la soglia, un procedimento penale distinto. Chi invece la presenta ma dichiara meno rischia il reato di dichiarazione infedele (soglia 100.000 €) con pena max 4 anni e 6 mesi. Da notare: se uno presenta la dichiarazione con importo zero pur dovendo dichiarare (dichiarazione “nulla”), viene assimilato all’omissione. Quindi è sempre preferibile presentare comunque la dichiarazione, anche incompleta, perché l’omissione è trattata più duramente in termini di sanzioni.

D: L’Agenzia delle Entrate può contestarmi una dichiarazione infedele di molti anni fa?

R: Ci sono termini precisi. In generale, il Fisco ha tempo fino al 31 dicembre del 5° anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione per notificare un avviso di accertamento (infedele). Ad esempio, per una dichiarazione presentata nel 2020 (redditi 2019) il termine è il 31/12/2025. Se invece la dichiarazione non fu presentata affatto, il termine sale a 7 anni. Questi termini attuali valgono per i periodi dal 2016 in poi. Per gli anni fino al 2015 esisteva il raddoppio dei termini in caso di reato tributario: se l’infedeltà costituiva reato, il termine diventava 8 anni (10 anni per omessa). Oggi il raddoppio non si applica più automaticamente: la legge lo ha abrogato prevedendo termini fissi (5 e 7). Però attenzione, il raddoppio opera ancora se la denuncia penale è stata presentata entro i termini ordinari: in tal caso l’ufficio può disporre di due anni aggiuntivi. In pratica, dopo la riforma, raramente si va oltre il 5°/7° anno. Quindi, se sono passati più di 5 anni dalla dichiarazione (o 7 in caso di omessa), il diritto di accertamento decade e l’Agenzia non può più emettere avvisi (salvo il caso di frodi con denuncia tempestiva, come detto). Nel dubbio, verificate sempre la data di notifica e l’anno d’imposta: eventuali avvisi tardivi sono nulli per decadenza dei termini.

D: Ho commesso un errore in buona fede nella dichiarazione, rischio comunque qualcosa?

R: Sì, anche gli errori non intenzionali comportano conseguenze, ma solo sul piano amministrativo, non penale (salvo il caso improbabile di errore clamoroso oltre soglia che l’accusa voglia qualificare come dolo eventuale, scenario remoto). Quindi se ad esempio avete sbagliato un calcolo o dimenticato di dichiarare un reddito per mera disattenzione, non sarete imputati per reato (manca il dolo di evasione). Però dovrete comunque pagare le imposte evase con relative sanzioni amministrative. In genere, se l’errore è scusabile e collaborate con il Fisco, l’ufficio applica la sanzione minima (90%). Inoltre potete usufruire del ravvedimento operoso: se vi accorgete dell’errore prima che partano controlli, presentate una dichiarazione integrativa e versate spontaneamente la differenza di imposta con sanzioni ridotte (dal 90% si riducono fino a 1/10, 1/8, ecc. a seconda di quanto tempestivo è il ravvedimento). Questo vi mette al riparo sia da sanzioni piene che da qualsiasi segnalazione penale. In conclusione, errore senza dolo -> niente penale, ma occorre comunque regolarizzare la posizione e pagare il dovuto con interessi e sanzioni (ridotte se vi ravvedete spontaneamente).

D: Cosa posso fare se ritengo l’accertamento sbagliato?

R: In tal caso la strada è impugnare l’avviso di accertamento davanti al giudice tributario, entro 60 giorni, come spiegato sopra. Nel ricorso dovrete evidenziare perché l’atto è sbagliato: errori di calcolo, valutazioni infondate, mancata considerazione di prove a discarico, vizi procedurali (es. mancato contraddittorio se dovuto), ecc. È utile allegare documenti e perizie a vostro favore. Ad esempio, se vi contestano ricavi non dichiarati per €100.000 ma avete prove che alcuni erano già tassati o erano rimborsi non imponibili, dovrete documentarlo nel ricorso. Se il contenzioso è complesso, conviene farsi assistere da un avvocato tributarista o commercialista esperto. Inoltre, potete chiedere sospensione dell’atto se il pagamento immediato vi danneggia (come detto, serve un’istanza motivata al Presidente della Commissione). Durante il processo, potete valutare soluzioni conciliative: spesso l’Agenzia, soprattutto in appello, può essere disponibile a transigere (con riduzione sanzioni al 40-50%). Se l’accertamento è proprio sbagliato in toto, puntate all’annullamento totale: in quel caso non dovrete nulla. Se invece l’errore è parziale, il giudice potrà rideterminare il dovuto. Nota: è fondamentale rispettare i termini e le forme (PEC, firma digitale, contributo unificato) altrimenti il ricorso è inammissibile. In sintesi, se lo ritenete infondato, non subite passivamente l’accertamento: usate gli strumenti di difesa (ricorso) e fate valere le vostre ragioni, eventualmente arrivando fino in Cassazione se necessario.

D: Posso andare in carcere per una dichiarazione infedele?

R: In teoria , ma solo nei casi più gravi e praticamente solo se non si rimedia in alcun modo. Il reato di dichiarazione infedele prevede pena detentiva (max 4 anni e 6 mesi). Tuttavia, va sottolineato che nel sistema italiano per i reati tributari senza frode è raro finire in carcere, specie se si è contribuenti incensurati. In caso di condanna, spesso il giudice concede la sospensione condizionale della pena (se la pena inflitta è <= 2 anni, ed è il primo reato). Inoltre, è possibile accedere a misure alternative. Soprattutto, come abbiamo spiegato, la legge incoraggia a pagare il dovuto: se lo fate prima del dibattimento, il reato non è punibile (ravvedimento) o comunque la pena è ridotta e potete patteggiare magari a 1 anno con sospensione. La cronaca giudiziaria degli ultimi anni mostra pochissimi casi di persone in carcere per dichiarazione infedele in assenza di altri reati: tipicamente succede solo a chi ha evaso somme ingenti e non ha poi pagato nulla né collaborato (magari rendendosi irreperibile). Anche in quei casi spesso scatta la prescrizione prima. Quindi, realisticamente, il rischio carcere è remoto per chi adotta una strategia difensiva attiva (pagamenti, patteggiamento, ecc.). Attenzione però: se alla dichiarazione infedele si accompagnano condotte fraudolente (falsi documenti) o altri reati (es. bancarotta, autoriciclaggio dei proventi), allora la situazione si aggrava e le pene possono cumularsi, aumentando il pericolo di detenzione effettiva. In conclusione: per la dichiarazione infedele pura il legislatore ha voluto sì punire penalmente i grandi evasori, ma con ampi spazi di ravvedimento e pene detentive moderate. Un contribuente onesto che ha fatto uno sbaglio e pone rimedio non finirà in galera; un evasore incallito che occulta milioni e non si cura di sanare nulla potrebbe teoricamente subirne le conseguenze, ma ancor prima verrebbe perseguito per reati più gravi (frode fiscale).

D: Se pago tutto il dovuto, il reato penale si estingue automaticamente?

R: Dipende quando e come pagate. Ci sono due finestre temporali:

  • Prima di aver notizia di verifiche o indagini: se pagate spontaneamente tutto tramite ravvedimento operoso (o presentate la dichiarazione integrativa omessa) prima che il Fisco vi contesti qualcosa ufficialmente, allora il reato è estinto e non verrete nemmeno imputati. Questo è lo scenario ideale (preventivo): ad esempio, vi accorgete nel 2024 di non aver dichiarato nel 2023 dei redditi significativi; fate integrativa e pagate tutto prima che parta qualsiasi controllo ⇒ non sarete punibili.
  • Dopo l’inizio dei controlli ma prima del dibattimento: se pagate una volta che già vi hanno scoperto (es. vi arriva un PVC o un avviso) ma prima che inizi il processo penale (ovvero prima dell’udienza dibattimentale), allora non si ha estinzione del reato, ma potete beneficiare di due cose: l’attenuante speciale con riduzione fino alla metà e la possibilità di accedere al patteggiamento (che è condizionato al pagamento). In pratica, pagando tardivamente evitate le pene accessorie e ottenete uno sconto notevole, ma il reato rimane (avrete comunque una sentenza di condanna, ancorché mite, magari concordata). Se invece il pagamento avviene dopo l’inizio del dibattimento, l’attenuante non è più applicabile ex lege, anche se la giurisprudenza può considerarlo ai fini del trattamento sanzionatorio generico. Dunque pagare prima possibile è sempre meglio.

Riassumendo: pagamento tempestivo (ravvedimento prima di controlli) = stop al penale; pagamento una volta attivati i controlli = reato confermato ma sanzione ridotta/patteggiabile; pagamento a processo avviato = troppo tardi per benefici speciali, ma utile comunque per mostrare pentimento (magari per la tenuità del fatto). È importante sottolineare che il pagamento deve essere integrale (comprensivo di interessi e sanzioni amministrative) e reale (non basta rateizzare, bisogna aver versato tutte le rate prima del dibattimento). Se si paga a metà, il reato non si estingue né si può patteggiare con l’attenuante speciale.

D: L’avviso di accertamento “infedele” contiene anche la denuncia penale?

R: No, sono due cose separate. L’avviso di accertamento è un atto amministrativo-fiscale, non ha efficacia penale. Tuttavia, se l’ufficio ravvisa il reato, di solito lo indica in calce all’avviso con formule tipo: “Si comunica che è stata presentata denuncia all’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per violazione dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000”. Questa è un’informazione per il contribuente, ma l’atto che avvia il penale è appunto la denuncia (che viene inviata separatamente alla Procura). La mancata indicazione nell’avviso non pregiudica la denuncia e viceversa. Quindi potreste ricevere un avviso senza menzione penale e comunque essere indagati (magari la denuncia viene fatta dalla Guardia di Finanza autonomamente). Oppure l’avviso può contenere l’avvertimento di denuncia. In ogni caso, l’accertamento fiscale e il procedimento penale viaggiano su binari propri. L’avviso non può comminare “sanzioni penali” né garantire che pagando lì per lì si chiuda il penale (per quello ci si deve muovere come detto sopra). Pertanto, se nell’avviso leggete del reato, contattate subito un legale per gestire anche la posizione penale; se non ne parla ma sapete di aver superato le soglie, non illudetevi: potrebbe arrivare separatamente un invito a comparire dalla Procura.

D: Una società può essere perseguita per dichiarazione infedele?

R: Sul piano strettamente fiscale , anzi è il soggetto direttamente obbligato: se una S.r.l. sotto-dichiara redditi, l’avviso di accertamento è intestato alla società, che deve pagare imposte e sanzioni amministrative. Sul piano penale, la società in quanto tale non era perseguibile fino al 2019, in quanto i reati tributari erano esclusi dal D.Lgs. 231/2001. Ma dal 2020 la situazione è cambiata: con D.Lgs. 75/2020 è stata introdotta la responsabilità “231” per alcuni reati fiscali, compresa la dichiarazione infedele (oltre a frode, omesso versamento IVA, ecc.). Dunque oggi una società il cui organo apicale commette il reato ex art.4 può vedersi contestare un illecito amministrativo dipendente da reato, con sanzione pecuniaria fino a 500 quote (il valore della quota va da €258 a €1.549) e possibili interdizioni se l’ente ha tratto vantaggio dal reato. In concreto, nella prassi è più frequente l’azione 231 per frodi fiscali, ma anche per infedele in casi rilevanti le Procure iniziano a contestarla. Ad esempio, nel 2021 la Procura Y ha contestato ad una società di consulenza la responsabilità 231 per dichiarazione infedele per aver beneficiato di un’evasione milionaria orchestrata dall’amministratore. La società rischiava una multa e il divieto di contrarre con P.A.; ha evitato guai adottando un modello organizzativo idoneo (esimente) e pagando il dovuto prima del dibattimento, ottenendo così l’archiviazione. Quindi sì, oggi anche la società (non solo l’amministratore persona fisica) può subire conseguenze penali-economiche: per difendersi, l’ente può attuare protocolli di controllo ex D.Lgs. 231 e dimostrare che l’illecito è avvenuto eludendo i modelli organizzativi. Si tratta di profili avanzati, che richiedono specialisti di diritto penale dell’economia.

D: Quali sono le sentenze più importanti e recenti in materia?

R: Ne citiamo alcune per completezza (alcune già menzionate nel testo):

  • Cass. Pen. Sez. III, 31 gennaio 2025 n. 4145: ha stabilito che nel valutare la particolare tenuità del reato di dichiarazione infedele il giudice deve considerare il pagamento integrale del debito come indice di minor offensività. Ha annullato la decisione di merito che ignorava il ravvedimento dell’imputato.
  • Cass. Pen. Sez. III, 21 gennaio 2025 n. 2383: ha sancito che ai fini del superamento delle soglie penali vanno dedotti i costi documentati anche se non contabilizzati, perché concorrono a formare il reddito. Ha così accolto il ricorso degli imputati cui non erano stati riconosciuti costi in nero a loro discarico.
  • Cass. Pen. Sez. Unite, 23 febbraio 2023 n. 8173: (caso non citato sopra) ha affrontato il tema della natura del reato di infedele come reato di pericolo presunto e ha chiarito che la soglia di €100.000 ha natura di elemento costitutivo del reato e non di mera condizione obiettiva: dunque il dolo riguarda l’evasione in generale, non il superamento soglia (confermando la tesi del dolo generico già citata). Sentenza importante per diritto penale tributario.
  • Cass. Pen. Sez. III, 13 dicembre 2024 n. 45801: ha ribadito il carattere residuale del reato di dichiarazione infedele, che trova applicazione solo “fuori dai casi di frode fiscale”. In particolare, ha distinto i casi in cui l’occultamento di imponibile avviene con uso di false fatture (frode) da quelli in cui avviene senza falsi documenti (infedele semplice).
  • Cass. Pen. Sez. III, 4 febbraio 2025 (dep. 8 febbraio 2025) n. 3188: (nota da studio legale Ramelli) ha annullato con rinvio una condanna per dichiarazione infedele perché il giudice d’appello non aveva tenuto conto, nel determinare la pena, dell’avvenuta restituzione all’Erario del profitto del reato da parte dell’imputato. Questo s’inserisce nella scia delle pronunce che valorizzano il risarcimento come indice di meritevolezza di trattamento benevolo.
  • Cass. Trib. (Sez. Civile), 12 giugno 2025 n. 22076: (profilo tributario) ha affermato che in caso di processo penale pendente il giudice tributario non è tenuto ad attendere l’esito penale, ma può decidere la causa fiscale sulla base delle prove disponibili, fermo restando che eventuali somme pagate in esito al penale vanno scomputate. Ha inoltre sottolineato che, una volta definito il processo tributario, gli esiti accertati (esistenza o meno dell’evasione) possono essere fatti valere nel penale come prova documentale.

(Le sentenze sopra sono state estratte da fonti ufficiali e riviste specializzate. Si noti che la giurisprudenza è in continua evoluzione: queste indicazioni sono aggiornate a luglio 2025.)

Conclusioni e consigli finali

Difendersi da un avviso di accertamento per dichiarazione infedele richiede un approccio attento e strategico, combinando valutazioni tecnico-giuridiche con considerazioni economiche. Dal punto di vista del contribuente (sia esso un privato, un professionista o un imprenditore), possiamo sintetizzare alcuni consigli finali:

  • Valutare subito la fondatezza dell’accusa: appena ricevuto l’avviso, analizzatelo dettagliatamente (magari con il vostro commercialista/avvocato) per capire se il Fisco ha ragione o se vi sono errori. Se l’infedeltà contestata è effettivamente dovuta a vostra dimenticanza e l’importo è corretto, considerate una soluzione deflattiva (adesione, pagamento con sconto). Se invece ritenete che l’ufficio abbia torto (es. ha ignorato costi deducibili, ha fatto presunzioni arbitrarie), preparatevi al ricorso.
  • Non aspettare l’ultimo giorno: i 60 giorni passano in fretta. Organizzatevi per decidere la linea di condotta con largo anticipo. Se optate per l’adesione, presentate l’istanza tempestivamente per avere tempo di negoziare. Se preparate ricorso, raccogliete le prove e individuate i motivi giuridici con calma, senza ridurvi agli ultimi giorni. Tempestività è cruciale anche per il ravvedimento operoso: appena vi accorgete di un errore prima che vi scoprano, agite e regolarizzate, non aspettate l’avviso!
  • Ravvedimento operoso come miglior prevenzione: ribadiamo che l’arma migliore è giocare d’anticipo. Il ravvedimento è conveniente economicamente (sanzioni ridotte) e soprattutto vi mette al riparo dal penale. Anche dopo l’avviso, potete ancora pagare con sanzioni ridotte 1/3 (acquiescenza) o 1/3 del minimo (adesione). In parallelo, sul penale, pagare riduce o annulla le conseguenze. Quindi, se avete la liquidità o potete reperirla, pagare il dovuto – tutto o la parte non controversa – è quasi sempre consigliabile. Potete eventualmente ricorrere solo sulla parte controversa (es. se non concordate su una quota di imponibile, versate intanto imposte e sanzioni sul resto in adesione). Questo riduce il contenzioso e vi pone in buona luce anche davanti al giudice (tributario e penale).
  • Documentare ogni cosa: nella difesa di un’accusa di infedele, la documentazione è la vostra alleata. Presentate in ricorso tutta la contabilità, le carte che provano costi, le perizie che giustificano eventuali valutazioni. Se c’è una differenza di vedute su valori (ad esempio valori di magazzino, valutazione di immobili, tassi di ricarico), considerate di allegare pareri tecnici o una perizia di parte. In sede penale, iniziate sin da subito a raccogliere elementi a vostro discarico: ad esempio, se contestano ricavi non contabilizzati, individuate testimoni o documenti che mostrano che quei movimenti non erano ricavi tassabili oppure che avevate costi correlati.
  • Attenzione alle soglie penali: se le somme contestate sono vicine alle soglie di 100.000 € e 2 milioni, anche una piccola differenza può farvi sforare o rientrare sotto. Verificate i calcoli dell’ufficio: magari hanno considerato come “imposta evasa” un importo lordo senza tener conto di detrazioni o deduzioni. Oppure hanno conteggiato tra gli attivi sottratti importi non imponibili. Far emergere che l’imposta evasa in realtà è €95.000 anziché €101.000 può evitarvi il reato. In caso di dubbio, chiedete una verifica fiscale propria (ad esempio facendo rideterminare il vostro reddito da un consulente terzo) per vedere se effettivamente si superano i limiti. Come visto, la Cassazione ammette di considerare costi non contabilizzati a vostro favore. Dunque non accettate passivamente i conteggi se siete oltre soglia di poco: c’è margine per contestare quella quantificazione.
  • Coordinare difesa tributaria e penale: se avete sia un ricorso tributario attivo sia un’indagine penale, assicuratevi che i vostri difensori (avvocato tributarista e avvocato penalista) comunichino tra loro e concordino la strategia. Ad esempio, nel processo tributario potrebbe emergere una perizia favorevole che è utile anche nel penale. Oppure potreste decidere di transigere in sede tributaria (pagando) per poi usare il pagamento come arma nel penale per patteggiare o chiedere archiviazione per tenuità. Occorre evitare contraddizioni: ad esempio, non sostenete nel ricorso “non ho evasoiniente” mentre nel penale ammettete l’evasione chiedendo il patteggiamento – questi approcci incoerenti possono ritorcersi contro. Meglio una linea unitaria: o la tesi dell’errore (e allora niente dolo, puntando a vincere nel trib. e proscioglimento nel penale), oppure la tesi del ravvedimento (ammetto la violazione ma ho riparato, quindi chiedo sconto). Un buon coordinamento legale integrato è fondamentale nei casi di doppio binario.
  • Valutare costi/benefici del contenzioso: fare causa all’Agenzia comporta tempi lunghi (anni fino alla Cassazione) e spese. Se le somme in ballo non sono elevate, talvolta conviene chiudere subito e dedicare energie altrove. Viceversa, se la pretesa è molto alta o palesemente ingiusta, vale la pena combattere. Ricordatevi che esistono strumenti come la conciliazione che possono concludere la lite con compromessi accettabili. Anche la Procura, se vedrà che avete pagato tutto e il fatto non è grave, può chiedere l’archiviazione o accettare un patteggiamento mite. Quindi la “difesa” non è solo litigare fino alla morte: è anche trovare accordi quando opportuno. L’importante è non subire passivamente senza valutare le opzioni.

In definitiva, il punto di vista del debitore (contribuente) deve essere pragmatico: conoscere i propri diritti (impugnare un atto viziato, far valere le prove a proprio favore) ma anche i propri doveri (sanare ciò che è dovuto, se effettivamente è dovuto). La normativa a luglio 2025 offre sì strumenti repressivi, ma anche tante possibilità di difesa e regolarizzazione. Una dichiarazione infedele non è la fine: con l’assistenza giusta, la maggior parte delle controversie può essere risolta senza conseguenze devastanti, specie se si adotta per tempo la migliore strategia (che a volte è il ricorso, altre volte è aderire e pagare). L’auspicio è che questa guida abbia fornito una visione completa – normativa, procedurale e pratica – per affrontare con consapevolezza un avviso di accertamento per dichiarazione infedele.

Fonti e riferimenti normativi (luglio 2025)

  • Codice Tributario e Normativa:
    – D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4 (Dichiarazione infedele) – Testo vigente con modifiche 2019.
    – D.Lgs. 74/2000, art. 13 e 13-bis (cause di non punibilità e attenuanti speciali) – modifiche da D.Lgs. 158/2015 e L. 157/2019.
    – D.Lgs. 74/2000, art. 5 (Omessa dichiarazione) – soglia €50.000 (L. 148/2011) e pena 2–5 anni.
    – D.Lgs. 471/1997, art. 1, co.2 (Sanzione amministrativa infedele) – 90–180% imposta evasa, min €250; +50% con atti falsi; +1/3 se attività estere.
    – D.P.R. 600/1973, art. 43 e D.P.R. 633/1972, art. 57 (termini accertamento) – 5 anni (infedele) e 7 anni (omessa) per periodi imposta dal 2016, eliminazione raddoppio ex D.Lgs. 128/2015.
    – D.Lgs. 128/2015 – limitazione raddoppio termini solo se denuncia penale entro termini ordinari.
    – D.L. 124/2019 conv. L. 157/2019 – Riforma reati tributari 2019, abbassamento soglie (150k→100k, 3M→2M) e aumento pene (infedele max da 3→4,5 anni), esclusa confisca allargata per infedele.
    – D.Lgs. 75/2020 – attuazione Dir. UE 2017/1371 (PIF), estensione responsabilità 231 a reati tributari tra cui art. 2, 3, 8, 10, e art. 4 D.Lgs. 74/2000.
    – D.Lgs. 150/2022 – riforma Cartabia, introduce art. 13 co.3-ter D.Lgs. 74/2000 (criteri tenuità: pagamento debito, scostamento soglia, crisi impresa); elimina filtro mediazione obbligatoria dal 2023.
    – L. 130/2022 – riforma giustizia tributaria (Giudici monocratici per liti <€3k; nuove Corti di Giustizia Tributarie).
  • Prassi e Circolari:
    – Agenzia Entrate, Circolare 5/2020 (20 marzo 2020) – Chiarimenti sul pagamento come causa non punibilità e patteggiamento: conferma che per art. 4 e 5 il ravvedimento prima di accertamento estingue reato; necessita integrale pagamento per patteggiamento.
    – Agenzia Entrate, Guida “Contenzioso e strumenti deflativi” (sito web, sez. schede contribuenti) – spiega acquiescenza (sanzioni 1/3), accertamento con adesione (sanzioni 1/3 del minimo), mediazione (50k) ecc.
    – Dipartimento Giustizia Tributaria MEF, Guida al processo tributario (2023) – conferma abolizione reclamo obbligatorio dal 2023; indica contributo unificato importi.
  • Giurisprudenza – Penale:
    Cass. pen. Sez. III, 31/05/2024 n. 24340 – (Proc. Gen. c. G.G.) Patteggiamento non ammesso senza pagamento debito; conferma che art. 13-bis impone integrale pagamento come condizione. Fa il punto su non punibilità: estesa a reati fraudolenti da L.157/2019.
    Cass. pen. Sez. III, 04/12/2024 (dep. 31/01/2025) n. 4145 – (Gu.Ma.) Particolare tenuità e pagamento debito: giudice deve valutare condotta susseguente (pagamento anche rateale) ai fini art. 131-bis c.p.. Richiama introduzione art.13 co.3-ter e valore pagamento/crisi impresa. Annulla decisione che ignorava pagamento.
    Cass. pen. Sez. III, 27/02/2025 n. 5131 – (Ord.) Raddoppio termini accertamento: applicabile solo se denuncia penale inviata entro termini ordinari, altrimenti no (conferma L. 128/2015).
    Cass. pen. Sez. Unite, 23/02/2023 n. 8173 – (non citata sopra, Troise) Ha risolto contrasti su soglia come elemento del dolo: conclude che soglie art.4 sono elementi costitutivi e il dolo specifico è l’evasione, non il superamento soglia per sé. Stabilisce anche che valutazioni <10% non punibili vanno riferite complessivamente.
    Cass. pen. Sez. III, 18/07/2024 n. 29086 – (massimata insieme a n.45801/2024) Ribadisce che l’art.4 è reato residuale rispetto ad art.2-3: se c’è uso di fatture false, è reato fraudolento non infedele. “Il carattere residuale del delitto di dichiarazione infedele ex art.4…”.
    Cass. pen. Sez. III, 22/11/2024 n. 42823 – (massimata con n.45801) Ulteriore su residuarietà e distinzione frode/infedele.
    Cass. pen. Sez. III, 13/12/2024 n. 45801 – (imput. Di.P.) Differenza frode fiscale vs infedele: conferma linea che utilizzo di false rappresentazioni contrattuali (es. simulare donazione per occultare plusvalenza) integra frode ex art.3 e non semplice infedele.
    Cass. pen. Sez. III, 21/01/2025 n. 2383 – (S.M.F. e F.V.) Deduzione costi non contabilizzati: massima “spese e oneri afferenti ricavi concorrono a formare reddito deducibili se risultano da elementi certi e precisi anche se non indicati in contabilità”. Cassa sentenza App. Roma per non aver dedotto costi “in nero” in soglie.
    Cass. pen. Sez. III, 08/02/2025 n. 3188 – (nota Ramelli 2025) Annulla condanna infedele poiché giudice appello non ha considerato pagamento integrale profitto reato ai fini pena (collegata a art.13-bis attenuante) – coerenza con necessità valutare condotta riparatoria anche post delictum.
    Cass. pen. Sez. III, 12/06/2025 n. 22076 – (in materia trib. ma riflessi su penale) Sottolinea indipendenza dei giudizi ma importanza di coordinamento: conferma che giudice trib. deve decidere senza attendere penale; in penale il pagamento e l’esito del trib. possono portare a tenuità o cause estintive.
  • Giurisprudenza – Tributario:
    Cass. trib. Sez. V, 28/02/2025 n. 8269 – su omessa indicazione criptovalute: ha ritenuto che la mancata compilazione quadro RW non integra di per sé dichiarazione infedele se non incide su imponibile (focus su sanzione amministrativa e su evoluzione normativa per cripto).
    Cass. trib. Sez. VI, 20/07/2023 n. 21965 – su illegittimità accertamento fondato solo su redditometro senza contraddittorio (rilievo procedurale).
    Comm. Trib. Reg. Lombardia, 2024 – sentenza innovativa (non definitiva) che ha disapplicato sanzione 180% ritenendola contraria ai principi UE di proporzionalità in caso di errore scusabile – isolata, ma segnalata in dottrina.

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