Cosa Fare In Caso Di Insolvenza Aziendale

Hai un’azienda in difficoltà e temi di non riuscire più a pagare fornitori, banche o tasse? I conti non tornano, le scadenze si accumulano e il flusso di cassa è insufficiente? Se ti stai chiedendo cosa fare in caso di insolvenza aziendale, sappi che esistono strumenti concreti per affrontare la crisi prima che diventi irreversibile.

Cosa si intende per insolvenza aziendale?
L’insolvenza si verifica quando l’impresa non è più in grado di onorare regolarmente i propri debiti, a causa di mancanza di liquidità, calo dei ricavi, aumento dei costi o altri squilibri economici e finanziari. È una situazione grave, ma non definitiva: può essere gestita, se affrontata subito.

Come capire se sei davvero in stato di insolvenza?
– Salti continui nei pagamenti a fornitori e dipendenti
– Rata dei mutui o dei finanziamenti non più sostenibile
– Scoperti bancari costanti o affidamenti ridotti
– Cartelle esattoriali non pagate o rateizzazioni saltate
– Avvisi bonari, solleciti, decreti ingiuntivi o pignoramenti in arrivo

Cosa rischia un’impresa insolvente che non interviene?
– Pignoramenti su conti, beni aziendali e immobili
– Revoca degli affidamenti e delle linee di credito
– Blocco operativo per mancato pagamento delle forniture
– Azioni legali da parte di dipendenti, banche e Agenzia Entrate
– Avvio di procedure fallimentari su richiesta dei creditori
– Responsabilità personale dell’amministratore, se non agisce tempestivamente

Quali soluzioni prevede la legge per uscire dall’insolvenza?
Con il Codice della Crisi d’Impresa, oggi puoi attivare strumenti negoziali e giudiziali per gestire l’indebitamento e salvare l’attività:
Composizione negoziata della crisi, per rinegoziare i debiti in modo riservato con l’assistenza di un esperto indipendente
Concordato preventivo semplificato, per vendere l’azienda o parte di essa e soddisfare i creditori
Concordato in continuità aziendale, per proseguire l’attività con un piano sostenibile
Accordi di ristrutturazione dei debiti, per definire intese dirette con i principali creditori
Liquidazione controllata, se la prosecuzione dell’attività non è più possibile
Autotutela fiscale e transazioni con Agenzia Entrate e INPS, in caso di forti esposizioni tributarie o previdenziali

Cosa NON devi fare mai?
– Aspettare che la banca chiuda i rubinetti
– Firmare cambiali o garanzie personali senza un piano
– Tentare di “salvare il salvabile” senza strumenti legali
– Omettere di avvisare l’organo di controllo o i soci (rischi sanzioni)
– Trascinare l’azienda fino al default totale

Anche se l’impresa è in crisi, puoi ancora gestire l’insolvenza con strumenti seri, trasparenti e legalmente riconosciuti.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi aziendali e ristrutturazioni – ti spiega cosa fare in caso di insolvenza, quali segnali cogliere subito e quali strumenti usare per salvare l’attività o uscirne senza danni maggiori.

Se temi che la tua azienda non riesca più a pagare, non aspettare oltre.

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Introduzione

Nel contesto economico post-pandemico, molte imprese italiane si trovano ad affrontare situazioni di difficoltà finanziaria. Solo nel primo trimestre 2025 ben 2.341 imprese hanno avviato procedure di liquidazione giudiziale, in aumento dell’11,3% rispetto all’anno precedente. Questo dato segnala un ritorno ai livelli storici di insolvenze dopo la pausa dovuta ai sostegni emergenziali del 2020-2022. Di fronte a questa realtà, diventa cruciale per imprenditori, manager e consulenti conoscere gli strumenti giuridici disponibili per prevenire e gestire l’insolvenza.

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal luglio 2022) ha ridisegnato la materia con un approccio moderno, enfatizzando la diagnosi precoce delle difficoltà aziendali e soluzioni tempestive per evitare il dissesto irreversibile. Aggiornato più volte (da ultimo col D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136), il Codice mette a disposizione una gamma completa di procedure – sia strumenti negoziali stragiudiziali che procedure concorsuali giudiziali – pensate per affrontare la crisi d’impresa dal punto di vista del debitore. In questa guida approfondiremo tutte le opzioni previste dall’ordinamento italiano al luglio 2025 (liquidazione giudiziale, composizione negoziata, concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, piani attestati di risanamento, ecc.), con un taglio avanzato ma divulgativo rivolto ad avvocati, imprenditori e privati interessati a capire come muoversi di fronte all’insolvenza aziendale.

Dopo aver chiarito le definizioni chiave di crisi e insolvenza, esamineremo ciascuna procedura nei suoi aspetti normativi essenziali, requisiti, effetti e ultimi aggiornamenti giurisprudenziali. Verranno presentate tabelle riepilogative per confrontare le diverse soluzioni, nonché sessioni di Domande e Risposte frequenti e simulazioni pratiche basate su casi reali italiani. Particolare attenzione sarà dedicata alle responsabilità degli amministratori in caso di insolvenza, tema cruciale sia per prevenire condotte scorrette sia per tutelare i creditori. Il linguaggio utilizzato sarà giuridicamente accurato ma accessibile, per consentire anche ai non addetti ai lavori di orientarsi in una materia complessa.

In sintesi: l’obiettivo è fornire una guida completa e aggiornata su cosa fare in caso di insolvenza aziendale, dal primo campanello d’allarme di crisi fino alle soluzioni possibili, aiutando il debitore (sia esso un’impresa o un individuo sovraindebitato) a scegliere lo strumento più adatto per tentare il risanamento o gestire al meglio la liquidazione, nel rispetto della normativa italiana vigente.

Crisi d’impresa vs insolvenza: definizioni e segnali d’allarme

Prima di esplorare le procedure, è fondamentale capire cosa si intende per stato di crisi e stato di insolvenza di un’impresa, secondo la normativa italiana. L’art. 2 del Codice della Crisi fornisce queste definizioni chiave:

  • Crisi: è lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore. Per le imprese, la crisi si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate nei successivi 12 mesi. In altre parole, l’impresa in crisi prevede di non riuscire a pagare puntualmente i debiti futuri se non interviene con correttivi. La crisi è una fase pre-insolvenza, in cui esistono ancora margini di recupero se si agisce tempestivamente.
  • Insolvenza: è lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori indicatori dell’incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. In pratica, un’impresa insolvente non paga debiti rilevanti alle scadenze o presenta segnali oggettivi di collasso finanziario (ad esempio pignoramenti subiti, scoperti bancari persistenti, blocco del credito da fornitori). L’insolvenza, in base alla legge, legittima l’apertura della liquidazione giudiziale (ex “fallimento”).

Accanto a queste nozioni, il Codice definisce anche il sovraindebitamento come lo stato di crisi o insolvenza riferito a debitori non fallibili – consumatori, professionisti, piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli, start-up innovative, etc.. In sostanza, il sovraindebitamento è l’insolvenza delle persone fisiche o delle imprese minori che non possono essere assoggettate al fallimento (liquidazione giudiziale). In tali casi si applicano procedure ad hoc, di cui diremo più avanti.

Segnali di allarme di una crisi incipiente

Riconoscere per tempo lo stato di crisi è essenziale per “giocare d’anticipo” ed evitare che l’azienda precipiti nell’insolvenza conclamata. Il Codice della Crisi incoraggia gli amministratori ad attrezzarsi con adeguati assetti organizzativi proprio per intercettare tempestivamente gli indizi di crisi. Alcuni segnali d’allarme tipici includono:

  • Tensioni di liquidità: cassa insufficiente rispetto ai debiti a breve termine, continuo ricorso all’esposizione bancaria oltre i fidi, indice di liquidità (attività brevi / passività brevi) persistentemente sotto 1.
  • Squilibri patrimoniali: erosione del patrimonio netto per perdite d’esercizio ripetute, capitale sociale ridotto sotto il minimo legale, indebitamento eccessivo rispetto ai mezzi propri.
  • Ritardi nei pagamenti: ritardo sistematico nel pagamento di fornitori, dipendenti, rate di mutuo o leasing; accumulo di debiti tributari e previdenziali non versati (es. IVA, contributi INPS) – questi sono spesso campanelli d’allarme significativi.
  • Indicatori di redditività negativi: margine operativo lordo (EBITDA) vicino o sotto zero, incapienza nel coprire gli oneri finanziari (Interest Coverage Ratio molto basso); Debt Service Coverage Ratio (DSCR) < 1, segnalando l’incapacità di onorare il servizio del debito con i flussi di cassa disponibili.
  • Segnalazioni esterne: protesti, decreti ingiuntivi, revoche di fido bancario, peggioramento del rating creditizio, tutti sintomi esteriori di creditori in allarme sulla solvibilità dell’azienda.

Tali indicatori, presi singolarmente, possono anche avere spiegazioni contingenti, ma se molteplici segnali di questo tipo emergono contestualmente, l’organo amministrativo ha il dovere di valutare lo stato di salute dell’impresa. Ricordiamo che dal 2019 il codice civile (art. 2086, comma 2) impone a tutte le società di dotarsi di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuazione dell’attività in presenza di sostenibilità dei debiti. Questo significa, ad esempio, implementare un sistema di controllo di gestione, budgeting e monitoraggio finanziario che permetta di generare segnali d’allerta in caso di squilibri.

Nota: Gli organi di controllo societari (collegio sindacale, revisore) hanno anch’essi obblighi di segnalazione di irregolarità ai sensi del Codice. Sebbene il sistema formale di “allerta esterna” attraverso appositi organismi (OCRI) sia stato depotenziato dalle riforme, permane l’attenzione del legislatore sulla prevenzione. Un efficace assetto di rilevazione interna della crisi può evitare interventi tardivi e drastici come il fallimento, consentendo di attivare in tempo strumenti di composizione della crisi.

In sintesi, la differenza tra crisi e insolvenza sta nella reversibilità: la crisi è uno stato potenzialmente reversibile col risanamento, l’insolvenza è uno stato conclamato che di regola conduce a procedure liquidatorie se non vi sono piani di ristrutturazione credibili. Nei paragrafi successivi vedremo come l’ordinamento consente all’imprenditore in crisi di intraprendere percorsi volontari per il risanamento (concordati, accordi, piani attestati, ecc.) e, se questi falliscono, quali procedure concorsuali regolano l’insolvenza in ottica liquidatoria. Tenere distinti i due concetti è importante: uno stato di crisi non gestito inevitabilmente sfocia nell’insolvenza, con la perdita di controllo dell’imprenditore sul destino dell’impresa. Agire nella fase di crisi, invece, apre la porta a soluzioni negoziali più flessibili e favorevoli al debitore.

Strumenti stragiudiziali e negoziali di gestione della crisi

Quando un imprenditore prende atto di trovarsi in difficoltà finanziaria, è opportuno valutare l’attivazione degli strumenti negoziali stragiudiziali offerti dalla legge per cercare di risanare l’impresa o ristrutturare il debito senza dover ricorrere subito a una procedura concorsuale. Tali strumenti permettono al debitore di mantenere maggiore controllo e riservatezza, coinvolgendo i creditori su base consensuale. Nel Codice della Crisi, i principali istituti di questo tipo sono:

  • Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) – accordi privati basati su un piano di risanamento asseverato da un esperto indipendente.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII) – accordo negoziato con una parte significativa dei creditori, con omologazione del tribunale (nei suoi vari modelli: ordinario, “agevolato” al 30%, o ad efficacia estesa).
  • Composizione negoziata per la soluzione della crisi (artt. 12-25 CCII) – procedura introdotta nel 2021, che affianca all’imprenditore un esperto indipendente per condurre trattative con i creditori in modo riservato, eventualmente traghettando verso uno degli accordi o concordati sopra menzionati.
  • Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) (art. 64-bis CCII) – novità introdotta nel 2022: si tratta di un piano proposto dal debitore e sottoposto direttamente all’omologazione del tribunale, che può essere approvato anche senza l’adesione formale di tutti i creditori, purché ne sia assicurata la soddisfazione minima secondo parametri di legge. È uno strumento ibrido, a cavallo tra accordo negoziale e concordato preventivo semplificato, pensato per attuare la Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva.

Vediamo ora in dettaglio ciascuno di questi strumenti, dal più semplice e unilaterale (il piano attestato) a quelli più complessi e formalizzati.

Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII)

Il piano attestato di risanamento (spesso abbreviato in PAR) è uno strumento di origine privatistica volto a risanare l’azienda al di fuori delle procedure concorsuali. Introdotto originariamente nel 2005 (come esenzione dalle revocatorie in caso di piano attestato ex art. 67 L.F.) e ora disciplinato in modo organico dall’art. 56 del Codice della Crisi, esso consiste in un piano di ristrutturazione aziendale predisposto dall’imprenditore in stato di crisi o insolvenza, corredato da una relazione di un professionista indipendente (“attestatore”) che ne attesta la veridicità dei dati e la fattibilità del piano.

Caratteristica fondamentale del piano attestato è la sua natura volontaria e stragiudiziale: la negoziazione avviene con i creditori al di fuori del tribunale, sulla base di un accordo privatistico. Non vi è apertura di una procedura concorsuale formale, né nomina di organi come commissari o giudici delegati, né un voto collettivo dei creditori. In altre parole, l’imprenditore rimane in sella alla gestione (no displacement) e non subisce pubblicità della crisi oltre alla eventuale (facoltativa) pubblicazione del piano nel Registro delle Imprese. Proprio questa informalità rende il piano attestato uno strumento molto flessibile e riservato, ma al contempo la sua efficacia dipende unicamente dal consenso dei creditori coinvolti e dal rispetto di specifici requisiti di legge.

Finalità e contenuto: Il piano attestato mira a ristrutturare l’indebitamento e riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa. Può prevedere ad esempio: rinegoziazione di debiti con banche e fornitori, dilazioni di pagamento, aumento di capitale o nuovi finanziamenti, cessioni di asset non strategici, conversione di crediti in capitale, ecc. È un piano “unilaterale” nel senso che è elaborato dal debitore, ma la sua attuazione pratica richiede la negoziazione di accordi individuali con ciascun creditore o gruppo di creditori interessati, in conformità alle previsioni del piano. L’elemento qualificante è l’attestazione professionale: un esperto terzo (dottore commercialista o professionista con requisiti di indipendenza) deve redigere una relazione di attestazione in cui certifica (i) la veridicità dei dati aziendali posti a base del piano e (ii) la fattibilità economica dello stesso, ossia il fondamento realistico delle sue prospettive di successo. Questa attestazione conferisce credibilità al piano e funge da garanzia per i creditori che decidono di aderire all’accordo.

Effetti legali: Pur mancando un’omologazione giudiziale, l’ordinamento riconosce alcuni benefici ai piani attestati regolarmente formati. In particolare, se il piano è idoneo al risanamento e l’attestazione è positiva, gli atti compiuti in esecuzione di tale piano sono esclusi dall’azione revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento (art. 56 co.3 CCII, che riprende l’ex art. 67 L.F.). Ciò significa che pagamenti e garanzie concessi ai creditori nel contesto del piano non potranno essere dichiarati inefficaci dal curatore se l’impresa dovesse comunque fallire in seguito – un forte incentivo per i creditori a collaborare. Inoltre, l’attuazione di un piano attestato può evitare a posteriori contestazioni penali di bancarotta preferenziale o semplice, in quanto il risanamento concordato funge da esimente per alcuni atti altrimenti anomali (es. pagamento di alcuni creditori a scapito di altri). Non a caso, il piano attestato era nato come strumento “protettivo” proprio in funzione deflattiva del contenzioso fallimentare.

Requisiti formali: L’art. 56 CCII elenca gli elementi essenziali: il piano deve avere data certa e un contenuto minimo obbligatorio, ossia la descrizione dettagliata della situazione aziendale, delle cause della crisi, delle strategie di intervento e tempi di attuazione, nonché l’indicazione delle risorse finanziarie previste e dell’impatto per i creditori. Deve inoltre contenere la dichiarazione di attestazione del professionista indipendente, che va allegata. È facoltà dell’imprenditore (non obbligo) richiedere al Registro delle Imprese la pubblicazione del piano e dell’attestazione: questa pubblicità, sebbene renda noto al mercato che l’impresa è in crisi, serve a cristallizzare la data di efficacia del piano e a dare evidenza ai terzi dell’intento di risanamento, potendo aumentare la fiducia nelle trattative. In ogni caso, la pubblicazione non fa scattare alcuna procedura giudiziaria: resta un accordo volontario.

Ambito soggettivo: Possono ricorrere al piano attestato tutti gli imprenditori, grandi o piccoli, purché in stato di crisi o di insolvenza (anche insolvenza già conclamata, se ancora non è intervenuto un fallimento). Sono compresi gli imprenditori assoggettabili a fallimento (società commerciali, ditte individuali sopra soglia). Tradizionalmente invece non era utilizzato dai soggetti non fallibili (imprenditori agricoli “puri”, consumatori), i quali avevano già la vecchia legge sul sovraindebitamento; il Codice oggi formalmente non esclude che un piccolo imprenditore o un agricolo predisponga un piano attestato, ma trattandosi di soggetti che possono accedere a strumenti ad hoc più semplificati (concordato minore, ecc.), il piano attestato rimane soprattutto una soluzione utilizzata da PMI commerciali e società di capitali.

Limiti: Il piano attestato, per sua natura contrattuale, richiede che tutti o quasi i creditori strategici aderiscano agli accordi di risanamento. Se anche un solo creditore importante si chiama fuori e pretende il pagamento integrale immediato, il piano rischia di fallire. Non potendo imporre moratorie o stralci ai dissentienti, il debitore deve assicurarsi consenso diffuso. In mancanza, occorre valutare soluzioni più incisive (come un concordato preventivo, che vincola anche i dissenzienti). In pratica il PAR è indicato quando l’indebitamento non è eccessivamente frammentato e l’imprenditore è in grado di trovare un’intesa con i principali creditori in tempi rapidi, beneficiando così della riservatezza e snellezza dello strumento. Viceversa, in situazioni di conflitto acceso o con molti piccoli creditori difficili da coordinare, un procedimento concorsuale potrebbe risultare più efficace.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII)

L’accordo di ristrutturazione dei debiti (ADR) è un istituto che si colloca a metà strada tra la negoziazione privata e la procedura concorsuale. Si tratta di un accordo giuridico vero e proprio, proposto dal debitore ai creditori, il cui elemento qualificante è che esso viene omologato dal tribunale e acquisisce quindi efficacia legale anche nei confronti di terzi (nei limiti fissati dalla legge). A differenza del piano attestato, qui abbiamo il coinvolgimento formale dell’autorità giudiziaria, sebbene l’intervento del giudice sia limitato essenzialmente a validare un accordo già raggiunto con una parte dei creditori. Non c’è una votazione in senso tecnico come nel concordato, ma l’accordo viene sottoscritto dai creditori aderenti e poi sottoposto all’omologazione.

Requisiti di adesione: Per chiedere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione “ordinario” è necessario che il debitore abbia ottenuto l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali (in valore). Si tratta di una soglia piuttosto elevata: occorre il consenso di creditori che rappresentino i 3/5 dell’esposizione debitoria. Tale percentuale scende però in alcuni casi particolari, introdotti dalla riforma:

  • Accordo di ristrutturazione “agevolato” (art. 60 CCII): se il debitore rinuncia ad alcune tutele e garantisce il pagamento integrale dei creditori non aderenti senza dilazioni (oltre 90 giorni dai termini contrattuali o legali), la soglia di adesione richiesta per l’omologa è ridotta dal 60% al 30% dei crediti. In pratica, con almeno il 30% del debito che accetta l’accordo, si può ottenere l’omologazione di un “accordo agevolato”. Questo è un grosso vantaggio in termini di minoranza di blocco, pensato per favorire la ristrutturazione anticipata quando l’imprenditore riesce a coinvolgere subito una parte significativa (ma non maggioritaria) di creditori chiave. Il rovescio della medaglia è che nell’accordo agevolato il debitore non può chiedere misure protettive dal tribunale (come il blocco delle azioni esecutive) e soprattutto deve pagare puntualmente tutti i creditori estranei all’accordo, senza imporre loro alcuna moratoria. In sintesi, l’accordo agevolato è utile se l’impresa ha liquidità sufficiente o risorse per garantire i non aderenti e vuole chiudere l’accordo rapidamente con un gruppo limitato di creditori strategici.
  • Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61 CCII): è un meccanismo che consente di estendere gli effetti di un accordo anche ad alcuni creditori non aderenti, purché questi appartengano a una categoria omogenea di crediti e nell’ambito di tale categoria l’accordo sia stato approvato da una maggioranza qualificata. È pensato soprattutto per categorie di creditori finanziari (banche, obbligazionisti) o fornitori di rilevanza comune. Ad esempio, se il debitore ottiene l’adesione di 75% dei crediti di una certa categoria (es. banche) rappresentanti almeno il 50% dell’intero indebitamento finanziario, può chiedere al tribunale di estendere l’accordo anche alle banche dissenzienti della stessa categoria. L’efficacia estesa non crea un “nuovo tipo” di accordo ma è una facoltà aggiuntiva: in pratica, l’accordo omologato vincolerà anche quei creditori minoritari che non hanno firmato, come se avessero aderito. Ciò colma uno dei limiti dell’ADR ordinario (dove i non aderenti restano estranei e vanno pagati integralmente). Da notare che l’efficacia estesa opera solo verso determinate categorie indicate dalla legge (principalmente banche e altri finanziatori); inoltre i creditori inclusi coattivamente mantengono i diritti verso eventuali coobbligati o fideiussori – ad es. una banca non aderente, costretta a una riduzione credito, può ancora escutere il fideiussore per la parte non pagata. L’estensione viene concessa dal tribunale verificando che i creditori “forzati” ricevano almeno quanto avrebbero ottenuto in una liquidazione e che l’accordo sia approvato dalla maggioranza della categoria di riferimento (tutelandosi quindi contro abusi ai danni delle minoranze).

Oltre a questi, il Codice prevede possibilità di accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e con fornitori di particolari beni/servizi essenziali (già esistenti nel vecchio art. 182-septies L.F.), ma possiamo ricondurli nell’alveo dell’efficacia estesa.

Procedura e ruolo del tribunale: La fase di negoziazione con i creditori è extragiudiziale: il debitore formula la proposta di accordo, tratta con ciascun creditore le condizioni (riduzioni, dilazioni, conversioni di credito ecc.) e formalizza le adesioni per iscritto. Raggiunte le soglie di legge (es. >=60%), il debitore deposita il ricorso per omologazione al tribunale competente, allegando l’accordo e una relazione di un attestatore indipendente sulla fattibilità del piano e sulla idoneità a soddisfare integralmente i creditori non aderenti nei termini di legge. Il tribunale, dopo aver verificato la regolarità della procedura, l’adeguatezza dell’informativa ai creditori e l’attestazione positiva, procede all’omologazione (eventualmente dopo aver superato le opposizioni dei creditori non aderenti, che possono eccepire la convenienza). Importante: il giudice non valuta nel merito la convenienza dell’accordo per i creditori aderenti (si presume che abbiano giudicato da sé conveniente aderire), ma si concentra su legalità, correttezza informativa e tutela dei non aderenti. Se tutto è in ordine, emette decreto di omologazione, che rende l’accordo efficace erga omnes (con i limiti visti per i non aderenti).

Durante le trattative, il debitore può chiedere misure protettive simili a quelle del concordato: sospensione di azioni esecutive e cautelari, divieto di acquisire prelazioni, ecc., fino a 4 mesi. Tuttavia, negli accordi agevolati l’imprenditore rinuncia espressamente a queste protezioni (poiché una delle condizioni dell’accordo agevolato è non concedere moratorie ai non aderenti, e quindi tipicamente non si attivano “ombrelli” protettivi in corso di negoziazione). Negli accordi ordinari, invece, può essere richiesto uno stay temporaneo e il tribunale decide in tempi rapidi (entro 30 giorni) sulla concessione e conferma delle misure, sentiti eventualmente i creditori principali. La pendenza della domanda di omologa di un accordo, se accompagnata da misure protettive, impedisce ai creditori di fare istanza di fallimento: infatti non può essere dichiarata liquidazione giudiziale finché è in corso utilmente un tentativo di accordo omologabile (salvo revoca se il debitore abusa della procedura).

Effetti dell’omologazione: Un accordo di ristrutturazione omologato produce diversi effetti benefici. Anzitutto, vincola il debitore e i creditori aderenti secondo i nuovi termini pattuiti (riduzione o dilazione del debito, ecc.). Inoltre, congela le posizioni dei creditori estranei fino a scadenza: durante l’esecuzione dell’accordo, i non aderenti non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, perché godono comunque della tutela di dover essere pagati integralmente a scadenze prefissate. L’omologazione comporta anche l’esenzione dalle revocatorie per gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo (art. 59 CCII), analogamente al piano attestato. Infine, per i creditori fiscali e previdenziali eventualmente inclusi, l’accordo omologato conferma la validità della cosiddetta transazione fiscale (art. 63 CCII) che permette di stralciare sanzioni e interessi e, dal 2024, si applica anche ai piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (PRO).

Da notare un importante aggiornamento normativo: con le riforme 2022-2023, il legislatore ha introdotto la possibilità di omologazione forzata (cram-down) dell’accordo e del concordato anche in caso di voto negativo dell’Erario e degli enti previdenziali, purché la proposta sia conveniente rispetto alla liquidazione. In passato occorreva che il Fisco non votasse (astenuto) per poter forzare l’omologa; oggi la Cassazione ha chiarito che il tribunale può omologare l’accordo o concordato anche se il creditore pubblico ha espresso voto contrario, se tutti gli altri presupposti di legge (migliore soddisfazione rispetto al fallimento, ecc.) sono rispettati. Ciò evita che il dissenso dell’Erario, magari motivato da rigidità burocratiche, faccia naufragare una ristrutturazione altrimenti valida.

Vantaggi e limiti: Rispetto al concordato preventivo, l’accordo di ristrutturazione è più snello e riservato, non coinvolge l’intera platea dei creditori in un voto collettivo e consente all’imprenditore di restare debtor in possession senza organi concorsuali intrusivi. Il debitore ha dunque maggiore controllo e spesso tempi più rapidi. Tuttavia, l’ADR richiede un ampio consenso: se il debitore non è in grado di ottenere l’accordo dai creditori principali, non raggiungerà le soglie di legge (60% o 30%) e non potrà sfruttare questo strumento. Inoltre, come sottolineato, i creditori non aderenti devono essere soddisfatti integralmente alle scadenze originarie (o lievemente prorogate ex lege), il che implica che l’azienda deve avere risorse per onorare quegli impegni (spesso si fa ricorso a nuova finanza o dismissioni per pagare gli estranei). In sostanza, l’ADR funziona bene in situazioni in cui c’è già un accordo di massima con i creditori più rilevanti e si vuole dare stabilità giuridica all’intesa. Se invece vi è conflittualità o bisogna imporre sacrifici a molti creditori piccoli, un concordato preventivo – che può cramdown i dissenzienti in base a maggioranza – potrebbe risultare più adeguato.

Composizione negoziata per la soluzione della crisi (artt. 12-25 CCII)

La Composizione negoziata della crisi d’impresa è uno strumento innovativo, introdotto nel 2021 con il D.L. 118/2021 (convertito in L. 147/2021) e poi confluito nel Codice della Crisi a partire dal 15 novembre 2021. Si tratta di un percorso volontario e assistito che l’imprenditore in condizioni di squilibrio economico-finanziario può attivare per tentare il risanamento della propria azienda mediante trattative con i creditori, sotto la guida di un esperto indipendente nominato da un’apposita commissione. La composizione negoziata si pone come strumento di allerta precoce, alternativo al vecchio impianto degli “organismi di composizione della crisi” (OCRI) poi abbandonato. Essa consente di affrontare situazioni che rendono probabile la crisi o l’insolvenza quando ancora non si è arrivati al punto di non ritorno.

Chi vi può accedere: qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo può presentare istanza di composizione negoziata, purché si trovi in una situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tale da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, oppure in stato di crisi o insolvenza reversibile. Importante, quindi: anche un imprenditore che non è ancora in crisi conclamata, ma solo in difficoltà prospettica, può attivare lo strumento (approccio preventivo). Non vi sono limiti dimensionali: possono aderire anche le PMI minori e le imprese sotto soglia, così come le grandi imprese. L’accesso è precluso solo se l’impresa si trova già in insolvenza irreversibile (in tal caso sarebbe inutile la negoziazione e bisognerebbe andare verso il concordato o la liquidazione) oppure se è già pendente una procedura concorsuale.

Come si attiva: La procedura è centralizzata su una Piattaforma telematica nazionale gestita da Unioncamere sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia (art. 13 CCII). L’imprenditore presenta sulla piattaforma una domanda riservata, allegando una serie di informazioni e documenti base. Non serve avere un piano di risanamento già definito all’atto della domanda – la composizione negoziata serve proprio a costruire, insieme all’esperto, un piano realistico. È sufficiente caricare: gli ultimi tre bilanci depositati (o le ultime dichiarazioni fiscali per chi non ha bilancio), una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata, l’elenco dei debiti e creditori principali, e una descrizione iniziale degli obiettivi di risanamento che si vorrebbero perseguire. Un algoritmo sulla piattaforma calcola se emergono “segnali di allerta” dagli indici finanziari inseriti e, in caso positivo, consente di confermare l’invio della richiesta. La domanda viene esaminata da una commissione istituita presso la Camera di Commercio competente, che entro 5 giorni designa un Esperto indipendente scelto da un apposito Albo (professionisti specializzati in ristrutturazioni aziendali).

Ruolo dell’Esperto e svolgimento: L’Esperto nominato è una figura centrale: ha il compito di facilitare le trattative tra l’imprenditore e i creditori. Egli convoca l’imprenditore per comprendere la situazione e predispone, d’intesa, un piano di incontri con i creditori. L’Esperto non ha poteri gestori, non può imporre accordi, ma svolge una funzione di mediatore qualificato, aiutando le parti a individuare soluzioni soddisfacenti. Redige inoltre relazioni periodiche sul progresso delle trattative, vigilando che l’imprenditore non compia atti pregiudizievoli (ha obbligo di segnalare eventuali abusi al tribunale). Durante la composizione negoziata, l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria dell’impresa; per gli atti di straordinaria amministrazione deve avere il benestare dell’Esperto, altrimenti potrebbero essere sanzionati con perdita di effetti in un successivo fallimento (art. 22 CCII).

Durata: La composizione negoziata ha una durata initiale di 180 giorni, prorogabili di 180 giorni su accordo delle parti (massimo un anno). In qualsiasi momento l’imprenditore può decidere di interrompere la procedura, così come se le trattative non danno esito l’Esperto può segnalarne il fallimento.

Misure protettive: Una volta avviata la procedura (la nomina dell’Esperto segna l’inizio ufficiale), l’imprenditore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive temporanee a tutela del patrimonio. Tipicamente può ottenere lo stop ai pignoramenti e alle azioni esecutive da parte dei creditori durante la negoziazione (di norma per un periodo iniziale fino a 4 mesi). Tali misure proteggono l’azienda da iniziative aggressive mentre si cerca l’accordo. Il tribunale concede le misure con decreto se ritiene che la situazione lo giustifichi (verificando che la trattativa non sia manifestamente inutile e che ci siano prospettive di risanamento). Durante le misure protettive, i creditori non possono neppure acquisire nuove garanzie su beni del debitore, né risolvere unilateralmente contratti essenziali (fornitura energia, telecomunicazioni, ecc.) per il solo fatto delle trattative. Questo ombrello protettivo favorisce un clima di standstill per negoziare con serenità.

Esiti possibili: La composizione negoziata è concepita come procedura “ombrello” che può condurre a vari esiti, a seconda di ciò che le parti riescono a concordare. In particolare, gli artt. 23-25 CCII prevedono che alla conclusione del percorso si possa giungere a:

  • Un contratto o accordo stragiudiziale con i creditori (es. un semplice accordo bilaterale di moratoria con le banche, o accordi plurimi individuali con fornitori) senza bisogno di omologazione. In tal caso l’esito è puramente privatistico: l’esperto prende atto dell’accordo raggiunto e la procedura si chiude.
  • Un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (ex art. 57 o 60 CCII) oppure un concordato preventivo (piano di concordato da sottoporre a voto ed omologa). In pratica, la negoziazione può servire a preparare il terreno per una successiva procedura concordataria o di accordo formale. Spesso l’imprenditore usa la composizione negoziata per redigere con i creditori un piano di concordato “pre-confezionato” da presentare in tribunale.
  • Concordato semplificato per la liquidazione (art. 25-sexies CCII): se le trattative falliscono ma permane la volontà di evitare la liquidazione giudiziale, il debitore può proporre un concordato semplificato, ossia un concordato liquidatorio senza votazione dei creditori, da sottoporre direttamente all’omologazione del tribunale. È una sorta di exit-strategy introdotta nel 2021: l’imprenditore offre di liquidare il patrimonio sotto controllo del tribunale, distribuendo il ricavato ai creditori secondo le priorità di legge, e chiede al giudice di omologare questa proposta anche senza l’approvazione dei creditori. Il tribunale, sentiti i creditori in camera di consiglio, omologa se ritiene che il piano liquidatorio offra ai creditori non inferiore soddisfazione di quella ricavabile da una liquidazione giudiziale (una sorta di best interest test). Il concordato semplificato è dunque un’extrema ratio per evitare il fallimento quando la composizione negoziata non ha prodotto accordi di ristrutturazione ma la liquidazione volontaria può comunque risultare più vantaggiosa per i creditori rispetto al fallimento tradizionale. Lo svantaggio è che l’imprenditore perde l’azienda (si liquida tutto) però potrebbe evitare alcune conseguenze peggiori del fallimento, e i creditori ricevono una distribuzione più rapida.
  • Archiviazione con esito negativo: se non si raggiunge alcun accordo né si vuole/potrà accedere a procedure concorsuali, la composizione negoziata si chiude semplicemente con un nulla di fatto. A quel punto, i creditori riacquistano piena libertà di azione (salvo eventuali accordi individuali) e se c’è insolvenza conclamata probabilmente qualcuno chiederà la liquidazione giudiziale.

Trend e risultati: All’inizio vi era scetticismo sull’efficacia di questo strumento, ma i dati più recenti mostrano un crescente utilizzo. Al maggio 2025 erano state presentate quasi 3.000 istanze di composizione negoziata dall’avvio (novembre 2021). Solo tra novembre 2024 e maggio 2025 si sono registrate 905 nuove istanze, più del doppio rispetto al semestre precedente (+120%), segno che lo strumento sta “prendendo piede” e diventando di uso comune. I casi di esito positivo (cioè imprese effettivamente risanate o che hanno trovato una soluzione concordata) hanno raggiunto quota 295 a maggio 2025, con un tasso di successo in progressivo miglioramento intorno al 22-23%. Ciò significa che circa 1 impresa su 5 tra quelle che avviano la procedura riesce a salvarsi tramite accordi o concordati. Non tutte, ovviamente, ma è un risultato significativo considerando che si tratta in molti casi di aziende che altrimenti sarebbero probabilmente fallite.

Gli studi Unioncamere evidenziano che la composizione negoziata funziona meglio per le imprese più strutturate: le aziende che ne escono con successo hanno in media 53 dipendenti e 33 milioni di attivo, contro 27 dipendenti e 9 milioni di attivo di quelle con esito negativo. Inoltre, il fattore tempo è decisivo: l’30,5% delle aziende che hanno attivato la procedura entro 1 mese dall’emergere della crisi hanno avuto esito positivo, contro appena l’11,5% di quelle che hanno tergiversato oltre 5 anni prima di muoversi. Questo conferma l’importanza di intervenire tempestivamente ai primi segnali di difficoltà. Permangono invece criticità per le micro e piccole imprese: spesso mancano di assetti organizzativi adeguati, di cultura finanziaria e di consulenti esperti, finendo per rivolgersi tardi o male alla composizione. Per queste realtà occorre investire in formazione e assistenza, affinché possano beneficiare dello strumento al pari delle aziende medio-grandi.

Conclusione su composizione negoziata: È uno strumento ormai centrale nel panorama italiano di gestione anticipata della crisi, totalmente volontario (l’imprenditore vi accede di propria iniziativa), riservato (la procedura non è pubblica, salvo le misure protettive che vengono iscritte al Registro delle Imprese) e potenzialmente win-win: se ha successo, salva l’azienda e soddisfa meglio i creditori; se fallisce, comunque fornisce un quadro chiaro della situazione in vista di un eventuale concordato o liquidazione. Dal punto di vista del debitore, offre l’opportunità di tentare il tutto per tutto per evitare il default, con il supporto di un esperto e con la protezione del tribunale durante la trattativa. Nessun’altra procedura consente tanta flessibilità prima del fallimento. Il debitore però deve essere trasparente e collaborativo: abusare della composizione (ad es. per prendere tempo senza reale volontà di risanare) può essere controproducente, perché l’Esperto ne darebbe atto e il tribunale potrebbe revocare le tutele, esponendo l’impresa immediatamente alle azioni dei creditori. Usato correttamente, invece, è un salvagente normativo di grande utilità.

Piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (PRO – art. 64-bis CCII)

Tra le novità introdotte per recepire la direttiva UE sui quadri di ristrutturazione preventiva, il Codice (come modificato dal D.Lgs. 83/2022) prevede i “piani di ristrutturazione soggetti a omologazione” (detti PRO). Questo istituto, disciplinato dal nuovo art. 64-bis CCII, rappresenta essenzialmente un percorso semplificato di ristrutturazione in cui il debitore propone un piano di risanamento al tribunale senza passare per il voto dei creditori, chiedendone l’omologazione forzata. In sostanza, è uno strumento disegnato per permettere una sorta di cram-down diretto su tutti i creditori, al di fuori del concordato preventivo.

Caratteristiche principali: Il PRO può prevedere il trattamento differenziato dei creditori (quindi classi o categorie economiche) analogamente a un concordato, ma non c’è una votazione: i creditori vengono sentiti in tribunale solo in sede di eventuali opposizioni all’omologa. Il tribunale può omologare il piano anche senza il consenso dei creditori purché verifichi che nessun creditore riceva meno di quanto otterrebbe in caso di liquidazione giudiziale (best interest test) e che il piano non discrimini ingiustamente tra le classi. Di fatto, il PRO consente di attuare ristrutturazioni profonde in tempi rapidi, quando c’è urgenza e magari non è praticabile organizzare una votazione formale. È richiesto comunque il requisito di maggioranza minima in almeno una classe di creditori coinvolti (ad esempio, potrebbe doversi dimostrare che una certa percentuale di creditori ha espresso supporto, sebbene non via voto formale).

Il PRO è un meccanismo avanzato e finora poco utilizzato (introdotto solo nel 2022): lo si può vedere come un concordato senza voto, dove tutto avviene nel contraddittorio davanti al giudice. Per questo, la legge ha previsto cautele, come la necessaria attestazione di un professionista che il piano è fattibile e soddisfa i creditori secondo legge. Inoltre, il PRO attiva anch’esso la transazione fiscale estesa (l’art. 63 CCII sulla falcidiabilità dei crediti tributari si applica anche qui).

In pratica, un imprenditore potrebbe optare per un PRO in situazioni in cui: i tempi sono strettissimi, alcuni creditori cruciali sono noti per essere non collaborativi (es. Erario, enti pubblici) e si preferisce andare direttamente in omologa chiedendo al giudice di superare il loro dissenso, magari avendo già il supporto informale dei creditori maggiori. È uno strumento da valutare caso per caso, che richiede un elevato grado di preparazione (il piano dev’essere estremamente solido e dettagliato, sapendo che non sarà “testato” dal voto ma dal giudice).

Differenze rispetto al concordato: Il PRO, pur potendo contenere misure analoghe (stralci, dilazioni, ristrutturazione aziendale, ecc.), non apre una procedura concorsuale piena: non c’è commissario, l’imprenditore rimane in carica, non si forma un passivo ufficiale in quella fase. Si potrebbe dire che è meno garantista verso i creditori rispetto al concordato, proprio perché manca il voto; per questo probabilmente la sua applicazione è limitata a circostanze in cui c’è una larga condivisione di massima (o indifferenza) dei creditori e serve solo lo “zampino” del giudice per risolvere qualche dissenso isolato.

Vale la pena menzionare che strumenti come i PRO e gli accordi ad efficacia estesa rispondono all’esigenza di ampliare la gamma di opzioni del debitore per gestire la crisi prima di arrivare al fallimento, offrendo strade più flessibili e rapide. Nel complesso, il messaggio del legislatore è chiaro: meglio cercare un accordo, anche semi-imposto, per salvare il salvabile, piuttosto che lasciare che l’impresa collassi e si perdano valore e posti di lavoro.

Procedure concorsuali giudiziali (concordato preventivo e liquidazione)

Se gli strumenti negoziali non vengono attivati o non hanno successo, e l’impresa scivola in uno stato di insolvenza conclamata, entrano in gioco le procedure concorsuali vere e proprie, caratterizzate dall’intervento dell’autorità giudiziaria e dal coinvolgimento di tutti i creditori secondo regole collettive. Dal punto di vista del debitore, queste procedure segnano in varia misura la perdita del controllo autonomo: le sorti dell’azienda sono affidate a organi terzi (commissari, curatori, giudici) con poteri decisionali. Tuttavia, non tutte le procedure concorsuali conducono necessariamente alla liquidazione dell’impresa – il concordato preventivo ad esempio è concepito per risanare o almeno regolare la crisi in forma concordata, potendo anche prevedere la continuazione dell’attività.

Esamineremo quindi i due principali istituti concorsuali previsti dal Codice della Crisi: il Concordato preventivo (nelle sue varianti, sia in continuità che liquidatorio, incluso il concordato “semplificato”) e la Liquidazione giudiziale (che ha preso il posto della vecchia dichiarazione di fallimento). Accenneremo inoltre alle procedure concorsuali minori come il concordato minore per i piccoli imprenditori e la liquidazione controllata per i sovraindebitati, così da offrire un quadro completo.

Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII)

Il concordato preventivo è una procedura concorsuale volta a evitare la liquidazione giudiziale attraverso un accordo tra il debitore e i suoi creditori, accordo che viene deliberato a maggioranza e omologato dal tribunale. Si chiama “preventivo” perché storicamente si propone prima del fallimento (o per prevenirlo appunto). Nel nuovo Codice, il concordato è molto flessibile e può assumere diverse forme:

  • Concordato “in continuità aziendale”: il piano concordatario prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa, sia in forma diretta (l’azienda resta al debitore) sia indiretta (tramite la cessione o conferimento dell’azienda a un soggetto terzo che la prosegue). Lo scopo è la ristrutturazione dell’impresa come going concern, salvaguardando possibilmente posti di lavoro e il valore dell’avviamento.
  • Concordato “liquidatorio”: il piano concordatario prevede la cessione o liquidazione di tutti i beni del debitore e la cessazione dell’attività, con distribuzione del ricavato ai creditori. È quindi finalizzato alla liquidazione dell’impresa, ma in forma concordata (potenzialmente più efficiente e vantaggiosa del fallimento).
  • Concordati misti o con diverse soluzioni per differenti rami d’azienda, ecc.: la legge consente combinazioni (ad es. continuità su parte dell’impresa e liquidazione di asset non core).

Chi può proporlo e quando: Possono accedere al concordato gli imprenditori commerciali assoggettabili a liquidazione giudiziale (escluse imprese minori e soggetti non fallibili) che si trovino in stato di crisi o insolvenza (questo requisito è stato esteso: non serve essere insolventi, basta anche lo stato di crisi conclamata per poter proporre un concordato). Si presenta domanda al tribunale allegando un piano dettagliato e una proposta ai creditori. È possibile anche presentare una domanda di concordato “con riserva” (art. 44 CCII, il vecchio “concordato in bianco”) depositando i documenti essenziali in un secondo momento, allo scopo di ottenere subito le protezioni (automatic stay) mentre si perfeziona il piano.

Contenuto del piano e classi: Il piano deve indicare l’analisi della situazione, le cause dell’insolvenza, e soprattutto illustrare modalità e tempistiche di soddisfazione dei creditori. Nel concordato in continuità, il piano tipicamente contiene un business plan pluriennale che mostra come, continuando l’attività (magari dopo una ristrutturazione aziendale), si genereranno flussi per pagare i creditori. Può includere l’apporto di finanza esterna, ristrutturazione del debito (es. stralcio percentuale dei crediti, moratoria sugli interessi, conversione di crediti in partecipazioni), eventuali offerte di acquisto dell’azienda o di rami, ecc. Nel concordato liquidatorio, invece, il piano consiste essenzialmente in un programma di liquidazione dei beni: ad esempio vendita in blocco dell’azienda a un terzo offerente (che pagherà un certo prezzo da distribuire ai creditori), oppure cessione asset per asset tramite un liquidatore concordatario.

In ogni caso, la legge richiede alcuni standard di trattamento: se il concordato è meramente liquidatorio, deve assicurare il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari (non garantiti), a meno che i creditori non approvino una percentuale inferiore. Questa soglia non si applica ai concordati in continuità, dove si presume che la continuità massimizzi il valore (ma il piano dev’essere comunque conveniente rispetto alla liquidazione). Inoltre, il Codice incoraggia l’imprenditore a suddividere i creditori in classi omogenee (obbligatorio se trattamenti differenziati), in modo da riflettere la natura giuridica o gli interessi economici dei crediti (es. classe banche, classe fornitori strategici, ecc.).

Apertura e organi: Una volta depositata la domanda completa, il tribunale verifica la documentazione e, se la proposta appare ammissibile, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo. Nomina un Commissario Giudiziale, figura di controllo che vigila sull’impresa durante la procedura, e fissa la data dell’adunanza dei creditori per il voto. Da quel momento, l’impresa è in concordato: mantiene l’amministrazione ordinaria (il debitore rimane in possesso) ma sotto la sorveglianza del Commissario e per gli atti straordinari occorre autorizzazione del tribunale. I creditori sono congelati (divieto di azioni esecutive individuali, stop interessi chirografari, ecc.), similmente al fallimento ma con il fine diverso.

Votazione dei creditori: I creditori aventi diritto di voto (tutti i chirografari e i privilegiati se non vengono pagati integralmente) sono chiamati ad esprimersi sulla proposta concordataria. Il voto avviene di solito in adunanza ma oggi frequentemente in forma elettronica o per espressione di consenso scritto. La maggioranza richiesta è la maggioranza dei crediti ammessi al voto (in valore) calcolata per classi se vi sono classi. Precisamente, serve il sì di più della metà del totale dei crediti chirografari e, se i creditori sono divisi in più classi, l’adesione di almeno la maggioranza delle classi votanti. Se queste maggioranze si raggiungono, il concordato si intende approvato. I creditori dissenzienti all’interno di classi approvate sono comunque legati dalla decisione della maggioranza (principio di maggioranza). Se invece la proposta non raggiunge le maggioranze, il concordato è respinto (salvo possibili proposte concorrenti di creditori, che però nel nuovo codice sono molto circoscritte).

Omologazione e cram-down: Dopo l’approvazione dei creditori, il tribunale passa alla fase di omologazione (art. 112 CCII). Qui vengono trattate eventuali opposizioni di creditori (tipicamente i dissenzienti possono opporsi lamentando, ad esempio, che il piano li tratta ingiustamente o che otterrebbero di più dal fallimento). Il giudice verifica alcuni punti cruciali: la fattibilità del piano (che non sia irrealistico), la convenienza comparativa per i creditori (nessuno deve risultare danneggiato rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale), il rispetto delle cause legittime di prelazione (le priorità di pagamento dei crediti privilegiati devono essere rispettate, salvo consenso specifico a subordinarle). Se tutto è a posto, il tribunale omologa con decreto, rendendo il concordato vincolante per tutti i creditori anteriori, anche quelli che hanno votato no o che non hanno partecipato al voto.

Il nuovo Codice introduce espressamente la possibilità per il tribunale di omologare il concordato anche in caso di mancato raggiungimento della maggioranza in una classe dissenziente (c.d. cram-down interclassi), a condizione che la proposta sia stata approvata da almeno un’altra classe rilevante e che i creditori dissenzienti non siano trattati meno favorevolmente di qualsiasi altra classe dello stesso grado e in ogni caso non ottengano meno che in liquidazione. Inoltre, come già accennato, per i crediti tributari e previdenziali la legge (art. 88 CCII) consente l’omologa forzata anche se l’Erario vota contro, purché la proposta preveda il pagamento di almeno il 20% di tali crediti e sia più conveniente del fallimento. La Cassazione 2024 n.27782 ha confermato che il tribunale può applicare questo cram-down fiscale anche se il Fisco ha espresso voto negativo, e non solo in caso di astensione. Ciò evita il potere di veto del fisco quando c’è un interesse concorsuale prevalente a salvare l’azienda.

Se il concordato viene omologato, il debitore deve eseguirne le obbligazioni sotto la vigilanza di un Liquidatore giudiziale (se nominato per i casi liquidatori) o del Commissario che di solito diventa “vigilante”. Se invece non viene omologato (perché bocciato dai creditori o negato dal giudice), il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale (salvo nei casi di concordato in bianco in cui semplicemente decade la protezione).

Differenza concordato in continuità vs liquidatorio: Oltre alla soglia del 20% minima nel liquidatorio (non richiesta nel continuità), c’è una differenza nelle tutele dei creditori privilegiati: nel concordato liquidatorio i crediti con prelazione devono essere soddisfatti almeno per il loro valore di realizzo sui beni su cui insistono, altrimenti occorre il voto favorevole di quella classe specifica. Nel concordato in continuità è ammesso anche pagare i privilegiati nel tempo con le risorse generande dall’azienda, purché il piano dimostri che saranno pagati integralmente entro un certo termine (massimo 2 anni per i privilegiati ex art. 86 CCII, salvo consenso a maggiore dilazione). Inoltre, nel concordato in continuità l’impresa può ottenere l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili per proseguire l’attività (finanziamenti interinali e in esecuzione del piano, artt. 100-102 CCII), per sostenersi durante la procedura, cosa che in un concordato liquidatorio puro è più difficile.

Concordato semplificato (post composizione negoziata): Merita un cenno la figura speciale del concordato semplificato per la liquidazione (art. 25-sexies CCII) introdotta nel 2021. Come già descritto, è riservato al caso in cui l’imprenditore abbia esperito una composizione negoziata senza trovare un accordo con i creditori, e sia comunque insolvente. In tale scenario, entro 60 giorni dalla chiusura infruttuosa delle trattative, l’imprenditore può depositare una proposta di concordato liquidatorio senza passare per il voto dei creditori. I creditori vengono solo informati e possono opporsi in sede di omologa, ma la decisione finale spetta al tribunale. In pratica il giudice omologa se ritiene che l’attivo liquidabile in concordato offra ai creditori una soddisfazione non inferiore a quella della liquidazione giudiziale. Questo strumento “semplificato” è nato per dare all’imprenditore una chance di gestire ordinatamente la propria liquidazione (ad esempio vendendo l’azienda in continuità per salvare valore, cosa che un fallimento potrebbe fare con più difficoltà) anche senza dover ottenere il voto. Tuttavia, va detto che la giurisprudenza in alcuni casi è molto rigorosa nell’ammettere concordati semplificati, proprio perché derogano al principio del voto dei creditori: ad esempio, Trib. Milano (ott. 2022) ha inizialmente applicato il semplificato solo se c’era un’offerta concreta da terzi da confrontare con la liquidazione fallimentare, altrimenti era riluttante. Ad ogni modo, dal punto di vista del debitore, il concordato semplificato rappresenta un ultimo rifugio per evitare il fallimento: non salva l’azienda (che viene liquidata), ma permette magari di scegliere il come liquidare (privatamente anziché tramite curatore) e spesso comporta una gestione più rapida e meno onerosa della crisi finale.

Effetti della chiusura del concordato: Se il concordato viene eseguito con successo, l’impresa esce dalla procedura ed evita il fallimento. I creditori vengono pagati secondo quanto stabilito (i crediti eventualmente falcidiati e non pagati residualmente sono cancellati: l’omologazione del concordato, una volta eseguito, produce effetti di esdebitazione per il debitore, similmente a un esdebitamento post-fallimentare). Se invece il debitore non adempie al concordato omologato, su istanza dei creditori il tribunale può dichiarare la risoluzione del concordato e contemporaneamente aprire la liquidazione giudiziale (fallimento). Dunque la spada di Damocle del fallimento resta sino a completa esecuzione: un concordato preventivo omologato non eseguito non protegge più il debitore dal fallimento.

In sintesi, il concordato preventivo è lo strumento principe per affrontare l’insolvenza in modo concordato: dal lato del debitore consente soluzioni creative (ristrutturazione, continuità, cessione di rami, ecc.) conservando l’impresa se possibile; dal lato dei creditori garantisce il controllo collettivo e il rispetto della par condicio con la possibilità di votare la proposta. Il debitore deve valutare con cura se scegliere il concordato: si tratta di una procedura complessa, di solito più lunga e costosa di un accordo stragiudiziale. Tuttavia, se il dissesto è grave e diffuso, il concordato offre poteri coercitivi che gli accordi privati non hanno (può imporre tagli anche a creditori dissenzienti, anche al Fisco con l’intervento del giudice). Per un imprenditore onesto ma sfortunato, può essere lo strumento per evitare il disastro totale del fallimento, restituendo qualcosa ai creditori e magari mantenendo in vita l’azienda, seppur ridimensionata.

Liquidazione giudiziale (il “fallimento”, artt. 121-270 CCII)

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale con cui si effettua la liquidazione integrale del patrimonio dell’imprenditore insolvente sotto il controllo dell’autorità giudiziaria. È l’erede diretto del “fallimento” della legge fallimentare del 1942, di cui ricalca in buona parte struttura e finalità, pur introducendo alcune novità terminologiche e di disciplina. La liquidazione giudiziale rappresenta la soluzione finale quando ogni tentativo di risanamento è fallito o non praticabile: l’impresa viene spossessata e le attività vengono vendute per soddisfare, per quanto possibile, i creditori secondo l’ordine delle prelazioni.

Presupposti e apertura: Si accede alla liquidazione giudiziale su iniziativa di un soggetto legittimato (lo stesso debitore con istanza di autofallimento, uno o più creditori, il Pubblico Ministero in casi previsti) quando ricorre lo stato d’insolvenza del debitore. L’insolvenza va accertata dal tribunale: tipicamente vengono riscontrati inadempimenti gravi, protesti, fuga o latitanza dell’imprenditore, chiusura dell’attività con debiti impagati, etc. Non tutti gli imprenditori possono però essere dichiarati in liquidazione giudiziale: restano esclusi gli imprenditori minori che non superano determinati limiti dimensionali (attivo annuo < €300.000, ricavi < €200.000, debiti < €500.000), nonché gli imprenditori agricoli e altri soggetti protetti. Per questi “non fallibili” operano le procedure di sovraindebitamento (trattate più avanti). Per le società commerciali e le ditte individuali sopra soglia, invece, l’insolvenza conduce al fallimento.

Il procedimento si avvia con un ricorso al tribunale competente. Viene convocato l’imprenditore per essere sentito. Se il tribunale accerta l’insolvenza, emette la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, che produce da subito importanti effetti: nomina un Curatore (figura professionale incaricata di gestire la procedura e liquidare i beni), nomina un Giudice Delegato alla procedura e un Comitato dei creditori (organo consultivo composto da 3 creditori maggiori), e dichiara il debitore spogliato dell’amministrazione dei suoi beni (lo spossessamento).

Effetti per il debitore: Dalla data della sentenza, l’imprenditore insolvente perde la gestione e la disponibilità del patrimonio: ogni suo atto relativo ai beni fallimentari è inefficace. I debiti pregressi divengono esigibili e le azioni individuali dei creditori sono bloccate (si cristallizza la situazione). Gli eventuali procedimenti esecutivi in corso vengono sospesi e poi cessano (i beni pignorati confluiscono nel fallimento). I contratti pendenti possono essere sciolti o proseguiti dal curatore a seconda di cosa conviene alla massa.

Gli amministratori della società (se fallisce una società) decadono dalle cariche e l’attività eventualmente prosegue solo sotto la gestione del curatore, se utile per la liquidazione (ad esempio l’azienda può essere temporaneamente esercita dal curatore per venderla meglio come azienda in funzionamento). Il fallito persona fisica inoltre subisce delle incapacità personali: ad esempio non può ricoprire cariche societarie durante la procedura, e se è un imprenditore individuale fallito viene privato dell’amministrazione dei propri beni futuri fino alla chiusura.

Ruolo del Curatore: Il curatore è il “deus ex machina” della procedura: redige l’inventario dei beni del debitore, gestisce l’azienda se opportuno, predispone il programma di liquidazione (piano di realizzo dei beni, soggetto ad approvazione del Giudice e Comitato). Egli provvede a vendere i beni mobili e immobili, oppure a cedere rami d’azienda, recuperare crediti, impugnare atti revocabili compiuti prima del fallimento (azione revocatoria fallimentare) e promuovere eventuali azioni di responsabilità verso gli amministratori se la fallita è una società. Il suo scopo è massimizzare l’attivo da distribuire. È anche compito del curatore esaminare le domande di insinuazione al passivo presentate dai creditori.

Accertamento del passivo: I creditori devono presentare entro un termine (30 giorni prima dell’udienza di verifica) domanda per essere ammessi al passivo fallimentare, indicando l’importo e la causa del credito, eventuali garanzie, ecc. Il curatore esamina le domande e predispone uno stato passivo, su cui il Giudice Delegato, in una udienza di verifica, ammette o esclude i crediti (si forma così lo stato passivo ufficiale). I creditori ammessi saranno quelli che parteciperanno alle ripartizioni dell’attivo. Se qualche creditore resta fuori o è escluso, può fare opposizione ma i tempi sono stretti.

Realizzazione dell’attivo e riparti: Il curatore quindi procede secondo il programma di liquidazione: ad esempio indice aste per gli immobili, vendite competitive per l’azienda, ecc. Il Codice della Crisi enfatizza la necessità di tempestività: la liquidazione va condotta possibilmente in pochi anni (è stato introdotto un riferimento a un termine massimo di 5 anni per completare la procedura, salvo proroghe in casi eccezionali). Man mano che vengono incassate somme, il curatore effettua riparti tra i creditori secondo l’ordine di prelazione (prima si pagano creditori con pegni/ipoteche sul ricavato di quei beni; poi i privilegiati generali sul residuo; infine i chirografari in proporzione). Alla fine, esaurito tutto, il curatore presenta il conto finale e un piano di riparto finale, distribuendo gli ultimi fondi. Il tribunale dichiara quindi chiusa la liquidazione.

Conseguenze per il fallito: Una volta chiuso il fallimento, il debitore persona fisica può aspirare all’esdebitazione: ossia ad essere liberato dai debiti residui non soddisfatti, ottenendo così un “fresh start”. Il Codice conferma l’istituto dell’esdebitazione (già introdotto nel 2006), anzi lo semplifica: oggi l’esdebitazione del debitore persona fisica è concessa dal tribunale su richiesta, purché il fallito abbia cooperato, non abbia commesso gravi irregolarità o reati fallimentari, e non sia stato già esdebitato in precedenza (è ammesso circa ogni 10 anni). Con l’esdebitazione, i debiti pregressi si estinguono e il soggetto torna “pulito” (tranne alcune eccezioni: debiti da obblighi di mantenimento, debiti da risarcimenti per illecito extracontrattuale e sanzioni penali/amministrative restano comunque dovuti). Per i debitori collettivi (es. società fallita), l’esdebitazione non si applica direttamente – la società si estingue e i debiti insoddisfatti restano inesigibili per mancanza del soggetto.

Dal punto di vista dell’imprenditore, la liquidazione giudiziale è senz’altro la prospettiva più penalizzante: si perde l’azienda, se ne perdono i frutti, spesso comporta indagini sulla passata gestione (il curatore e il P.M. esaminano se ci sono stati reati come bancarotta), e si subisce uno stigma reputazionale. Tuttavia, in un’ottica di “second chance” promossa anche dall’UE, l’ordinamento italiano consente al fallito meritevole di tornare in attività dopo la chiusura, appunto mediante esdebitazione. Inoltre, il Codice della Crisi cerca di rendere meno lunga e traumatica la procedura rispetto al passato, grazie a strumenti come: la liquidazione di gruppo (artt. 270 ss., possibilità di gestire congiuntamente i fallimenti di società dello stesso gruppo, con vantaggi di coordinamento), la chiusura semplificata dei fallimenti minori (se attivo insufficiente, può chiudersi subito), e l’informalità digitale (molte comunicazioni via PEC, aste telematiche, ecc.).

Fallimento vs concordato, dal lato del debitore: Mentre nel concordato preventivo l’imprenditore, pur monitorato, rimane in sella e può sperare di conservare l’azienda (soprattutto se in continuità) e tagliare i debiti, nella liquidazione giudiziale l’imprenditore è esautorato e l’azienda di regola viene spenta/venduta a terzi. Quindi ogni debitore insolvente preferirebbe evitare la liquidazione giudiziale se c’è una minima chance di soluzione alternativa. Tuttavia, c’è da dire che in taluni casi il concordato potrebbe risultare ingestibile (ad esempio se mancano del tutto le risorse per un piano o se i creditori sono troppo ostili). Allora il fallimento diventa inevitabile, e anzi può essere visto come un modo per cristallizzare la situazione e far ripartire altrove il debitore persona fisica dopo la liberazione dai debiti. Per le società, la liquidazione giudiziale porta alla fine dell’esistenza: dopo la chiusura la società è cancellata dal registro imprese.

Procedura coatta vs volontaria: Va ricordato che il fallimento (liquidazione giudiziale) può essere dichiarato anche d’ufficio su istanza dei creditori o del PM, indipendentemente dalla volontà del debitore, se sussistono insolvenza e presupposti soggettivi. Il concordato invece è volontario (lo chiede il debitore). Dunque il debitore deve avere ben presente che, se non prende egli stesso iniziative quando è in crisi, i creditori potranno portarlo in tribunale e farlo fallire. Anche per questo il Codice insiste sulla tempestività: un amministratore diligente non deve attendere passivamente le mosse dei creditori, ma se vede che non può più evitare l’insolvenza, dovrebbe lui stesso valutare l’opportunità di un concordato o – estrema ratio – chiedere l’autofallimento per evitare aggravamenti ulteriori.

Procedure minori per privati e piccole imprese (sovraindebitamento)

Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure di composizione della crisi per i soggetti non fallibili – ad esempio il consumatore sovraindebitato, il piccolo imprenditore sotto soglia, il professionista, la start-up innovativa, ecc. Il Codice della Crisi ha riunito queste procedure (già esistenti nella L.3/2012) nel Titolo IV “Sovraindebitamento”. Dal punto di vista del debitore, esse rappresentano l’equivalente “su misura” di concordati e fallimenti, ma adattati a chi non può essere dichiarato fallito.

Le principali sono:

  • Concordato minore (artt. 74-83 CCII): è sostanzialmente un concordato preventivo semplificato riservato ai debitori non fallibili (imprenditori minori, professionisti, imprenditori agricoli, enti non commerciali). Funziona in modo simile al concordato: il debitore propone un piano ai creditori, che viene votato e omologato dal tribunale. I quorum sono analoghi (maggioranza del 50% dei crediti). La peculiarità è che nel concordato minore non è richiesta la continuazione dell’attività imprenditoriale (può anche cessare) e la legge consente maggior flessibilità, ad esempio non c’è soglia minima del 20% di pagamento dei chirografari (essendo spesso situazioni disperate). È richiesto però che il piano offra ai creditori una soddisfazione migliore di quella ottenibile altrimenti (come sempre). Spesso i concordati minori hanno finalità liquidatorie o di ristrutturazione parziale del debito con apporto di risorse esterne (es. aiuto famigliare). Se omologato, vincola tutti i creditori anteriori, compresi eventuali creditori privilegiati per la parte falcidiata con il loro assenso. Importante: per poter accedere al concordato minore, il debitore non deve aver già utilizzato negli ultimi 5 anni un’altra procedura di sovraindebitamento, né aver subito atti in frode ai creditori.
  • Piano di ristrutturazione del consumatore (già “piano del consumatore”, artt. 67-73 CCII): riservato alle persone fisiche consumatrici (non per debiti professionali). Il consumatore può proporre un piano di rientro dai propri debiti, indicando quanto e come potrà pagare, tenendo conto del necessario sostentamento suo e della famiglia. La caratteristica qui è che non c’è voto dei creditori: decide il tribunale se omologare il piano, valutando la fattibilità e soprattutto la meritevolezza del consumatore (ossia che non abbia colposamente provocato il sovraindebitamento con comportamento imprudente o fraudolento). Se il giudice ritiene il piano equo e sostenibile, lo omologa e diventa vincolante per tutti i creditori, anche se qualcuno non è d’accordo. È una forma di composizione molto favorevole al debitore onesto ma sfortunato, perché impone un sacrificio ai creditori anche senza il loro consenso, in vista di dare al debitore la possibilità di ripartire.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII): è l’equivalente del fallimento per i soggetti minori. Se un piccolo imprenditore o un privato insolvente vuole liberarsi dei debiti ma non ha la possibilità di offrire un piano, può chiedere la liquidazione controllata. Un liquidatore nominato dal giudice liquidherà il patrimonio del debitore, distribuendo il ricavato ai creditori. Al termine, il debitore persona fisica può ottenere l’esdebitazione delle passività residue, anche se nella liquidazione non ha soddisfatto integralmente i creditori. Questo consente un vero fresh start. C’è anche la possibilità per il debitore incapiente (colui che non ha proprio nulla da liquidare) di ottenere l’esdebitazione immediata una volta nella vita, purché dimostri di non poter offrire niente ai creditori e di essere meritevole.

In tutti questi casi, essendo procedure perlopiù volontarie (eccetto la liquidazione controllata che può essere richiesta anche dai creditori, ma raramente viene fatto), è interesse del debitore sovraindebitato conoscerle e farne uso anziché restare per sempre schiacciato dai debiti. Ad esempio, un ex imprenditore individuale che non poteva fallire ma ha accumulato debiti fiscali enormi potrebbe, con un concordato minore, offrirne il pagamento parziale grazie a un aiuto terzi e liberarsi dal resto. Oppure un consumatore sommerso dai debiti delle carte di credito potrebbe fare un piano pluriennale di rimborso sostenibile e farsi omologare dal giudice la riduzione del debito.

Va detto che la meritevolezza e l’assenza di frode sono criteri centrali: il sistema del sovraindebitamento è pensato per dare sollievo a chi si è indebitato senza colpa grave o sfortuna. Chi invece ha dolosamente aggravato la propria posizione troverà poca simpatia in tribunale (ad esempio, piani del consumatore spesso rigettati per eccessiva leggerezza nel contrarre debiti).

Conclusione sezione sovraindebitamento: Dal punto di vista dell’ordinamento, oggi nessuno deve rimanere intrappolato a vita dai debiti: se sei un grosso imprenditore hai il fallimento con esdebitazione; se sei un piccolo hai la liquidazione controllata con esdebitazione e magari pure l’esdebitazione “senza attivo”; se sei consumatore hai il piano e le altre procedure. L’importante è attivarsi e non lasciare incancrenire la situazione.

Responsabilità degli amministratori in caso di insolvenza

Un aspetto cruciale, dal punto di vista del debitore societario (in particolare per gli amministratori di società), è la responsabilità in capo agli organi gestionali quando l’impresa si avvicina all’insolvenza o vi precipita. La legge impone agli amministratori di agire con diligenza non solo nell’interesse della società e dei soci, ma anche a tutela degli interessi dei creditori sociali quando la società si trova in difficoltà finanziaria. Vediamo i principali profili:

1. Dovere di adottare assetti adeguati e monitorare la crisi: Come già ricordato, l’art. 2086 c.c. obbliga gli amministratori a dotare la società di strumenti idonei a rilevare tempestivamente la crisi. La riforma del Codice della Crisi ha reso esplicito che la sana gestione include la predisposizione di sistemi di controllo interno dei conti e dei flussi finanziari. Un amministratore che ometta totalmente di monitorare gli indizi di crisi, mantenendo la società in gestione “al buio”, potrà essere chiamato a rispondere dei danni causati da un ritardo nell’emersione della crisi. Esempio: se il consiglio di amministrazione ignora segnali evidenti e prosegue attività in perdita per anni senza attivare procedure di risanamento, causa un aggravamento del dissesto che danneggia i creditori. Tale condotta può costituire inadempimento dei doveri gestori (violazione degli artt. 2392 c.c. per S.p.A. o 2476 c.c. per S.r.l.), con conseguente azione di responsabilità.

2. Dovere di preservare il patrimonio sociale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento: L’art. 2486 c.c. sancisce che, una volta che la società di capitali ha perso il capitale sociale (o comunque è intervenuta una causa di scioglimento, come l’insostenibilità economica), gli amministratori devono limitarsi a compiere atti di gestione ordinaria conservativa, finalizzati alla salvaguardia del patrimonio e alla sua liquidazione. Non possono più intraprendere nuove operazioni rischiose. Se violano questo dovere e compiono atti che aggravano il passivo, sono responsabili del danno arrecato. Il Codice della Crisi, all’art. 378, ha inserito in 2486 c.c. un importantissimo comma 3 che facilita la prova del danno: “Quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma di questo articolo … il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data di cessazione dell’amministratore (o alla data di apertura della liquidazione giudiziale) e il patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento … detratti i costi sostenuti secondo normalità nel periodo”. In altre parole, la legge presume che il danno derivante dalla mala gestio dopo la perdita del capitale sia uguale al deterioramento del patrimonio avvenuto in quel periodo (o, se le scritture non permettono calcoli, addirittura presume il danno pari all’intero deficit fallimentare: differenza tra attivo e passivo emersa nel fallimento). Questa è una presunzione notevole: sposta sugli amministratori l’onere di provare che un danno minore o nullo è in realtà imputabile a loro. Come evidenziato nei lavori preparatori, lo scopo era risolvere la difficoltà pratica di quantificare il danno da prosecuzione abusiva dell’attività, specialmente nei casi (frequenti) di contabilità mancante o irregolare.

Tale norma è già applicabile dal 2019 e in questi anni la giurisprudenza ha iniziato a utilizzarla. Ad esempio, i tribunali hanno cominciato a liquidare i danni nelle azioni dei curatori contro gli ex amministratori calcolando la differenza di patrimonio netto come perizia base, salvo che il convenuto dimostri che anche con condotta diligente il patrimonio si sarebbe comunque azzerato (onere a carico dell’amministratore). Si tratta di un potente deterrente: un amministratore che nel 2025 lasci fallire la società con 5 milioni di deficit e senza contabilità rischia che il tribunale gli addebiti l’intero deficit come danno, a meno che provi che parte di quel passivo non è colpa sua.

3. Azioni di responsabilità e legittimazione del curatore: Quando l’impresa va in liquidazione giudiziale, il curatore fallimentare è legittimato a esercitare sia l’azione sociale di responsabilità verso amministratori e organi di controllo (per danni alla società, ex art. 2393 c.c.) sia l’azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c., per danno da insufficienza patrimoniale). In pratica, tutte le possibili azioni risarcitorie in capo alla società e ai creditori confluiscono nelle mani del curatore (art. 146 L.F. e ora disposizioni analoghe nel CCII). Quindi il curatore può citare in giudizio gli ex amministratori chiedendo il risarcimento del danno complessivo sofferto da società e creditori. I creditori individualmente non possono farlo (salvo casi particolari di atti lesivi di diritti particolari, ex art. 2395 c.c. – ma raramente). Ne consegue che gli amministratori rispondono del loro operato essenzialmente nel fallimento, perché in bonis difficilmente i soci avrebbero agito se non dopo la perdita del capitale. Ad esempio, se un amministratore ha occultato perdite e continuato ad aggravare i debiti, il curatore agirà chiedendo la differenza di patrimonio netto pre e post (come sopra) quale risarcimento a favore della massa.

Occorre anche menzionare che i sindaci/revisori possono essere chiamati in causa congiuntamente, se hanno omesso di vigilare e segnalare per tempo la crisi o le irregolarità degli amministratori. La riforma ha rinforzato l’obbligo di segnalazione interna dei sindaci: se costoro non lo fanno e la società fallisce, rischiano anch’essi un’azione di responsabilità per omesso impedimento del danno.

4. Profili penali: In caso di insolvenza conclamata poi sfociata in fallimento, gli amministratori possono incorrere in responsabilità penale. I reati di bancarotta (fraudolenta o semplice) puniscono condotte come la distrazione di beni sociali, la falsificazione di scritture contabili, l’aggravamento doloso del dissesto, il pagamento preferenziale di taluni creditori a scapito di altri nei giorni antecedenti il fallimento, ecc. (artt. 322- folg. CCII riprendono e aggiornano le fattispecie penali). Per il debitore, la prospettiva di essere chiamato a rispondere penalmente è un fortissimo incentivo a gestire correttamente la crisi: attivare procedure ufficiali piuttosto che nascondere i problemi. Ad esempio, ritardare un fallimento svuotando le casse per pagare solo alcuni creditori (magari amici o parti correlate) configura bancarotta preferenziale. Emblematico è il caso di amministratori che, anziché ricorrere a un concordato quando l’azienda è in crisi, iniziano a vendere sottocosto beni a imprese compiacenti e a pagare fuori bilancio soci o garanti: all’eventuale fallimento, queste operazioni verranno perseguite come bancarotta fraudolenta patrimoniale. Dunque, la condotta consigliabile per l’organo gestorio di fronte all’insolvenza è di agire nella massima trasparenza e legalità, scegliendo gli strumenti di composizione formali e astenendosi da atti che possano ledere la par condicio creditorum.

5. Conseguenze patrimoniali e di carriera: Un amministratore riconosciuto responsabile potrebbe vedersi comminata l’interdizione temporanea dalle cariche societarie (misura civilistica o penale, a seconda se risulta colpevole di gravi irregolarità). Inoltre, un’azione di responsabilità vinta dal curatore può significare per l’amministratore dover risarcire cifre ingenti, aggredibili sul suo patrimonio personale. Oggi le assicurazioni D&O (Directors & Officers) coprono in parte questi rischi, ma di fronte a colpa grave o dolo spesso non pagano, e comunque hanno massimali. In casi estremi, si può arrivare a risarcimenti milionari che rovinano economicamente il manager tanto quanto la società fallita.

Riassumendo, dal punto di vista del debitore/amministratore, la legge sul fallimento (oggi Codice della Crisi) crea un forte sistema di incentivi a: intervenire presto (per evitare che col ritardo aumenti il danno di cui dover rispondere), utilizzare gli strumenti concorsuali (evitando le scorciatoie illegali che portano a bancarotta), preservare il patrimonio sociale (anche a costo di fermare l’attività se non ci sono prospettive). In una parola, comportarsi come un buon padre di famiglia anche verso i creditori. I più recenti sviluppi normativi – come la presunzione di danno di cui all’art. 2486 c.c. e le regole sugli adeguati assetti – mirano a contrastare il fenomeno deleterio delle imprese “zombie” tenute artificiosamente in vita dai loro amministratori a discapito dei creditori. Chi lo fa, rischia grosso in tribunale. Al contrario, un amministratore che prontamente convoca l’assemblea per liquidare la società ex art. 2484 c.c. quando perde il capitale, oppure che decide di accedere a una composizione negoziata o a un concordato prima di dissipare ogni risorsa, generalmente adempie ai suoi doveri e sarà difficilmente attaccabile su un piano civilistico (e penale, salvo frodi pregresse).

Un’ultima notazione: spesso in società di capitali insolventi si profila anche la responsabilità dei soci amministratori di fatto o dei direttori generali, qualora abbiano ingerito nella gestione. Quindi, ad esempio, il socio di controllo che impone scelte dannose agli amministratori può essere co-responsabile ai sensi dell’art. 2476 comma 7 c.c. (azioni dei creditori verso i soci responsabili di atti di mala gestio). Il Codice della Crisi non ha modificato direttamente queste regole, ma la giurisprudenza le sta applicando con maggior rigore anche grazie alle nuove presunzioni di danno.

In conclusione su responsabilità: L’insolvenza non è solo un fatto economico, ma diventa un banco di prova legale per la correttezza degli amministratori. Un buon amministratore in crisi:

  • Non occulta la situazione, ma la affronta apertamente con gli organi di controllo e i consulenti.
  • Non aggrava il buco con azioni azzardate nella speranza disperata di risolvere (“azzardo morale”), a meno che non ci sia una ragionevole prospettiva di recupero.
  • Tutela paritariamente i creditori: niente pagamenti preferenziali arbitrari, niente distrazioni di attivo.
  • Documenta ogni decisione e mantiene le scritture in ordine (per evitare di trovarsi senza pezze d’appoggio in tribunale).
  • Esplora le soluzioni offerte dalla legge: piani di risanamento, accordi, concordati – mostrando che ha fatto tutto il possibile per evitare il fallimento.

Un tale amministratore, pur se la sua impresa fallirà, potrà verosimilmente difendersi dimostrando di aver agito con la diligenza richiesta e magari evitare condanne. Viceversa, chi ha proseguito nell’omertà finanziaria e nel tirare a campare sulla pelle dei creditori, troverà nel curatore e nella Procura interlocutori molto severi.

Confronto sintetico delle principali procedure

Per ricapitolare le caratteristiche salienti degli strumenti di gestione della crisi/insolvenza esaminati, presentiamo di seguito alcune tabelle riepilogative che confrontano le procedure sotto diversi profili chiave dal punto di vista del debitore.

Tabella 1 – Confronto tra strumenti negoziali stragiudiziali e procedure concorsuali (focus su: iniziativa, coinvolgimento tribunale, maggioranze richieste, effetti per il debitore):

CaratteristicaPiano attestato (art. 56 CCII)Accordo ristrutturazione (ordinario – art. 57)Accordo “agevolato” (art. 60)Concordato preventivo (artt. 84+)Liquidazione giudiziale (fallimento)
Iniziativa e naturaVolontaria (debitore predispone piano). Stragiudiziale privata.Volontaria (debitore propone accordo). Giudiziale limitata (solo omologa).Volontaria (debitore), rinuncia ad alcune tutele. Giudiziale limitata.Volontaria (debitore chiede). Procedura concorsuale giudiziale completa (apertura formale).Di regola istanza creditori o debitore. Procedura concorsuale giudiziale.
Soglia di adesione creditoriConsenso individuale di tutti i creditori coinvolti (non vincola i dissenzienti).60% del totale crediti aderenti.30% crediti (condizione: pagamento integrale e puntuale estranei).Maggioranza voti: >50% crediti votanti; + maggioranza classi (se classi).Nessuna (procedura coatta: non richiede consenso creditori).
Ruolo del TribunaleNessuno (no omologazione; solo eventuale pubblicazione registro imprese).Omologa accordo (controllo legalità/fattibilità, tutele non aderenti). Può concedere misure protettive su richiesta.Omologa accordo (verifica condizioni legge). Niente misure protettive (debitore rinuncia).Forte: apre procedura; nomina commissario; omologa dopo voto (controllo merito e legittimità).Totale: dichiara fallimento; nomina curatore; sovrintende a tutta la liquidazione.
Gestione impresa durante la proceduraDebitore resta in pieno controllo. Nessun organo nominato.Debitore resta in controllo (no organi). Se chieste misure protettive, attività sotto supervisione tribunale per atti straordinari.Debitore in controllo. Niente misure protettive (continua attività normalmente, ma deve pagare estranei regolarmente).Debtor in possession limitato: debitore gestisce sotto osservazione Commissario (atti straordinari solo con autorizzazione). Possibile esercizio provvisorio se piano in continuità.Spossessamento: il debitore perde gestione e beni. Curatore gestisce e liquida l’impresa. (Eventuale esercizio provvisorio deciso dal tribunale).
Durata indicativaVariabile (nessun termine legale, dipende dalle trattative private).Relativamente breve: dalla domanda omologa ~4-6 mesi. Trattative pre-accordo variabili.Simile ad accordo ordinario o più rapido (rinuncia stay velocizza).Medio: procedura concorsuale può durare 1-2 anni sino a omologa, poi esecuzione piano su più anni.Lunga: 2-5 anni in media per chiudere (dipende complessità liquidazione).
Effetti per creditoriDissenzienti: non vincolati, devono essere pagati fuori piano. Aderenti: vincolati privatamente. Protezione: atti in esecuzione piano esenti da revocatoria.Non aderenti: devono essere pagati integrali a scadenze originarie (moratoria solo se concordata). Aderenti: vincolati da accordo omologato. Misure protettive possibili (blocco azioni es.). Revocatoria esclusa su atti esecuzione accordo.Non aderenti: idem accordo, ma debitore non chiede moratorie → estranei sempre soddisfatti regolarmente. Aderenti: vincolo accordo omologato. Niente azioni esecutive durante accordo (dopo omologa).Creditori anteriori vincolati erga omnes dall’omologazione: subiscono eventuali stralci/dilazioni decisi a maggioranza. Pagamenti secondo piano (es: % chirografari). Azioni individuali bloccate dall’apertura. Se concordato non adempie → possono chiedere risoluzione e fallimento.Creditori soddisfatti in moneta ricavata da liquidazione, secondo prelazioni (spesso parzialmente). Nessuna facoltà di scelta: subiscono la procedura. Alla chiusura per creditori chirografari insoddisfatti i crediti si estinguono solo se persona fisica esdebitata, altrimenti restano inesigibili per mancanza soggetto.
Vantaggi per il debitoreRiservatezza, flessibilità massima, niente stigma pubblico. Mantiene controllo impresa. Evita procedura concorsuale. – Se riesce, impresa risanata fuori dai tribunali.Niente votazione collettiva (più facile da gestire se pochi creditori chiave). Debitore resta in carica. Procedura più breve e meno costosa di concordato. Possibilità di accordi mirati con alcuni creditori. – Evita fallimento se omologato.Soglia bassa di adesione (30%): utile se pochi creditori disponibili. Meno costi (rinuncia a commissari). Tempi rapidi. – Evita fallimento.Può imporre crateri di debito anche a dissentienti (soluzione più incisiva). Possibilità di continuità azienda (salvezza impresa). Sospende azioni esecutive, dare ossigeno. Se omologato, libera il debitore dai debiti eccedenti una volta eseguito (esdebitazione implicita).Nessun vantaggio intrinseco se non la chiusura “pulita” della vicenda debitoria tramite esdebitazione (per persona fisica) a fine procedura. Durante, il debitore perde tutto. (A volte amministratori sollevati da peso gestionale, ma con rischio di azioni di responsabilità/penali).
Svantaggi per il debitoreNon vincola i non consenzienti → rischio fallimento se anche un creditore agisce giudizialmente. Nessuna protezione legale nel frattempo (creditori possono comunque agire salvo accordi standstill). Richiede forte consenso informale.Richiede 60% consensi → non fattibile se platea ampia conflittuale. Deve pagare per intero estranei → servono risorse immediate. Pubblicità su registro imprese all’omologa (anche se minore).Deve comunque pagare tutti i non aderenti senza dilazione → adatto solo se liquidità disponibile. Non ha “scudo” di protezione durante negoziazione.Procedura complessa, costosa (spese procedurali, compenso commissario). Richiede disclosure pubblica (stato crisi noto a mercato). Esito incerto (dipende da voto creditori). Tempi medio-lunghi. In continuità: controllo giudiziario sulle scelte aziendali. Se fallisce (non omologa), peggiora situazione (tempi persi, aggravio costi).Implica perdita totale controllo e spesso fine dell’azienda. Conseguenze personali negative (stigma, possibile inabilitazione professionale per qualche tempo, rischi di azioni legali). Tempi lunghi d’incertezza. Distribuzione ai creditori spesso esigua (asset value destruction).

Legenda: “ADR” = accordo di ristrutturazione dei debiti; misure protettive = provvedimenti del tribunale che sospendono temporaneamente azioni esecutive e altri atti dei creditori.

Tabella 2 – Procedure per debitori minori (sovraindebitamento):

ProceduraChi vi accedeDescrizioneConsenso creditoriEsdebitazione
Concordato minore (art. 74 CCII)Debitori non fallibili (impr. minori, enti non profit, start-up, ecc.).Simile al concordato preventivo ma semplificato. Piano proposto con possibile continuità o liquidazione. Approvazione e omologa tribunale.Voto richiesto >50% crediti (calcolo come concordato). Classi possibili. Omologa con cram-down se requisiti.Debitore liberato dai debiti residui all’esecuzione del piano (effetto esdebitatorio analogo al concordato preventivo).
Piano del consumatore (ristrutturazione del consumatore)Persona fisica consumatore (debiti personali non derivanti da attività di impresa).Piano di pagamento parziale dei debiti in base a reddito e patrimonio disponibile, salvaguardando il minimo vitale.Nessun voto creditori. Decide il giudice sull’omologa, valutando meritevolezza e convenienza rispetto all’alternativa.L’omologazione del piano libera il consumatore dai debiti eccedenti quanto previsto dal piano, una volta eseguito (fresh start).
Liquidazione controllata (del sovraindebitato)Qualunque debitore sovraindebitato insolvente (persona fisica o anche enti, esclusi fallibili).Procedura concorsuale liquidatoria: nominato liquidatore, beni venduti e proventi ripartiti tra creditori. Analoga al fallimento ma su scala minore e senza conseguenze penali (salvo reati specifici).Non è necessario consenso. Può essere chiesta dal debitore (spesso) o dai creditori. Tribunale apre procedura se requisiti. Creditori partecipano al passivo, no voto su apertura.Esdebitazione: Persona fisica ottiene esdebitazione di diritto entro 3 anni dalla chiusura (salvo comportamento malizioso). Prevista anche esdebitazione immediata del debitore incapiente (una sola volta), se privo di beni liquidabili e meritevole – cancella i debiti subito anche senza pagamento.

In sintesi, le procedure da sovraindebitamento sono pensate per offrire anche al piccolo debitore onesto una via d’uscita dai debiti insostenibili, sia tramite accordi (piani, concordati minori) sia, in mancanza di risorse, tramite la liquidazione del poco che ha e la liberazione dai debiti.

Domande frequenti (FAQ)

Q1: Quando un’azienda è considerata legalmente insolvente?
A: Si ha insolvenza in senso legale quando l’impresa si trova in uno stato d’impotenza finanziaria che si manifesta con inadempimenti gravi o altri fatti esteriori indicativi dell’incapacità di pagare regolarmente i debiti. Non basta una crisi temporanea di liquidità: l’insolvenza è uno stato più duraturo e strutturale di incapacità. Esempi: stipendi e fornitori non pagati da mesi, protesti cambiari, fallimento di trattative di ristrutturazione, banca che revoca i fidi e azienda senza altre fonti per far fronte ai debiti scaduti. Dal punto di vista giuridico, l’insolvenza è accertata dal tribunale in sede di apertura di liquidazione giudiziale (ex art. 121 CCII) e legittima l’avvio di procedure concorsuali liquidatorie. In pratica, se l’impresa non paga più debiti importanti ed è ragionevolmente incapace di farvi fronte nel breve, siamo in insolvenza. Se invece ha solo difficoltà future ma sta ancora pagando l’essenziale, si parla di “crisi” ma non ancora insolvenza.

Q2: Cosa deve fare un imprenditore appena si accorge che l’azienda è in crisi?
A: La cosa peggiore è ignorare il problema. Il Codice della Crisi impone di attivarsi tempestivamente. In particolare, l’amministratore dovrebbe: 1) analizzare la situazione con l’ausilio dei suoi consulenti (revisori, commercialisti) per capire la gravità della crisi; 2) predisporre un piano di risanamento interno o almeno misure correttive (taglio costi, ricerca di nuovi apporti finanziari, dismissioni); 3) se i rimedi interni non bastano, valutare l’accesso a uno degli strumenti formali: ad esempio attivare la composizione negoziata se c’è margine di negoziare con i creditori, oppure iniziare a preparare un piano per un accordo di ristrutturazione o un concordato preventivo; 4) comunicare con trasparenza agli organi di controllo (sindaci/revisori) la situazione e eventualmente anche ai soci, per evitare responsabilità di omissione; 5) preservare la cassa e il patrimonio sociale, evitando di fare pagamenti preferenziali o operazioni azzardate. In sintesi, deve “prendere il toro per le corna” cercando una soluzione prima che i creditori perdano fiducia e aggrediscano legalmente l’azienda. Ad esempio, un imprenditore può subito richiedere tramite la piattaforma telematica l’ausilio di un esperto nella composizione negoziata, ottenendo magari misure protettive che congelano le azioni esecutive mentre cerca un accordo. L’importante è non aspettare di essere a un passo dal fallimento: le probabilità di salvataggio diminuiscono drasticamente con il passare del tempo (come dimostrato dal maggior successo delle composizioni attivate entro pochi mesi dai primi segnali, rispetto a quelle tardive).

Q3: Quali sono le differenze principali tra un piano attestato di risanamento e un accordo di ristrutturazione dei debiti?
A: Entrambi sono strumenti negoziali utilizzati prima di arrivare al concordato o al fallimento, ma differiscono sotto vari aspetti:

  • Il piano attestato è un accordo privato al 100%: non richiede omologa né intervento del tribunale (a parte facoltativa pubblicazione). Il debitore negozia individualmente con i creditori e un professionista terzo attesta la fattibilità del piano. Serve il consenso di tutti i creditori che intende coinvolgere; i dissenzienti restano estranei e vanno comunque pagati fuori dal piano. È molto flessibile ma non può imporre tagli o dilazioni a chi non sia d’accordo.
  • L’accordo di ristrutturazione invece è un ibrido: nasce da accordi con i creditori (serve almeno il 60% delle adesioni, o 30% nell’agevolato) ma poi viene omologato dal tribunale, acquistando efficacia legale erga omnes. Non prevede una votazione collegiale, ma vincola tutti i creditori per gli effetti legali: ad esempio, congela le azioni esecutive e rende irrevocabili i pagamenti. I creditori estranei devono essere pagati integralmente e tempestivamente come condizione di omologa, quindi l’accordo ristrutturazione consente di ristrutturare i debiti solo con i creditori “d’accordo”, a differenza del concordato dove anche i contrari subiscono la falcidia. Tuttavia, con l’istituto dell’efficacia estesa si può forzare l’accordo su creditori finanziari minoritari dissenzienti, se la maggioranza qualificata di quella categoria ha aderito.
    In sintesi: il piano attestato è più riservato e snello (meno formalità, nessun intervento giudice) ma richiede unanimità sostanziale fra i principali creditori; l’accordo di ristrutturazione è più strutturato (omologa, possibili misure protettive) e richiede soglie di adesione ben precise, ma offre maggiore tutela al debitore (blocco delle azioni esecutive in corso di omologa) e può aggirare la mancanza di consenso di una parte minoritaria attraverso meccanismi come l’accordo agevolato (soglia ridotta) o l’accordo esteso (forzatura su categoria). Spesso la scelta dipende dal livello di consenso che il debitore riesce a costruire: se sa di poter convincere quasi tutti i creditori chiave, può bastare un piano attestato; se invece ha bisogno di uno strumento legale per tenere buoni i creditori non partecipanti, meglio un accordo omologato.

Q4: Un’impresa in crisi può continuare ad operare durante un concordato preventivo?
A: Sì, ed è anzi incoraggiato dalla legge nei concordati “in continuità”. Durante la procedura di concordato preventivo, l’azienda può proseguire l’attività sotto la gestione dell’imprenditore stesso (debtor in possession), sebbene affiancato da un Commissario che vigila. La continuazione è soggetta a restrizioni: atti di ordinaria amministrazione proseguono liberamente se funzionali all’esercizio corrente (comprare materie prime, vendere prodotti a prezzi di mercato, ecc.), mentre gli atti di straordinaria amministrazione (es. vendere un immobile, assumere mutui) richiedono autorizzazione del tribunale su parere del Commissario. L’idea è permettere all’impresa di preservare il valore e i posti di lavoro in vista della ristrutturazione. Se il piano di concordato prevede espressamente la continuazione (diretta o tramite un affittuario/acquirente dell’azienda), allora il tribunale di solito autorizza l’attività d’impresa durante la procedura, eventualmente con qualche misura di controllo (rendiconti periodici). I creditori ante-concordato non possono escutere durante questo periodo (c’è la protezione dello stay), e i nuovi debiti eventualmente assunti (finanza interinale) se autorizzati dal giudice sono prededucibili. Dunque, sì: l’impresa può operare e fatturare durante il concordato, e anzi un concordato in continuità aziendale è quello in cui l’azienda non si ferma mai e all’omologa esce “viva” (magari con nuovi soci o dopo taglio debiti). Diverso è il caso del concordato liquidatorio: lì normalmente l’attività ordinaria cessa o è limitata al fine della liquidazione, salvo esercizio provvisorio breve per vendere al meglio l’azienda come un blocco funzionante. In sintesi: il concordato non è morte immediata dell’impresa come il fallimento; è più simile a una “amministrazione controllata” temporanea con potenziale rilancio.

Q5: Quali sono i rischi per gli amministratori se continuano ad accumulare debiti invece di portare l’azienda in liquidazione o in concordato?
A: I rischi sono notevoli, sia sul piano civile che (in taluni casi) penale. Civilmente, gli amministratori potrebbero essere ritenuti responsabili verso la società e i creditori per mala gestio: continuare l’attività in perdita aggravando il dissesto configura violazione dei doveri (art. 2486 c.c.), e come visto la legge presuppone un danno pari all’aggravamento del passivo. Al fallimento, il curatore quasi certamente promuoverà un’azione di responsabilità chiedendo conto di perché non si sia staccata la spina prima. Gli amministratori potrebbero dover risarcire milioni di euro se il passivo è lievitato per la loro inerzia. Penalmene, accumulare debiti senza prospettive e poi fallire può integrare la bancarotta semplice (per aver aggravato il dissesto, art. 324 CCII) e, se accompagnato da atti dolosi (tipo nascondere beni, pagare preferenzialmente qualcuno, fare spese personali coi soldi dell’azienda in crisi), anche bancarotta fraudolenta. Ad esempio, usare le ultime disponibilità per pagare solo alcuni creditori “amici” poco prima del fallimento è reato. Inoltre, proseguire con contabilità irregolare o non tenere le scritture aggravando l’opacità è un altro elemento di responsabilità (bancarotta documentale se fallisce). In sostanza, l’amministratore che ostinatamente ritarda le soluzioni formali gioca d’azzardo: se per miracolo risana l’azienda, bene; ma se fallisce, avrà addosso azioni legali per anni. Oltre a ciò, rischia l’interdizione dalle professioni o dagli uffici direttivi di imprese, su decisione del tribunale fallimentare o penale. Il Codice esplicitamente prevede che la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale comporta per l’imprenditore persona fisica l’inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e la sospensione da cariche in società (fintanto che dura il fallimento). E in caso di condanna per bancarotta fraudolenta, le pene accessorie includono divieto di esercitare uffici direttivi per 10 anni. In sintesi: il rischio è di dover rispondere illimitatamente coi propri beni per i debiti accumulati e di vedere stroncata la propria carriera imprenditoriale e reputazione, oltre alla possibilità estrema del carcere per i casi fraudolenti. Meglio quindi non perseverare oltre il ragionevole e, se la situazione è compromessa, attivare gli strumenti concorsuali, che sono visti anche come esimenti di buona fede. Ad esempio, se un amministratore chiede un concordato appena capisce di non farcela più, sta agendo diligentemente e difficilmente sarà accusato di bancarotta preferenziale, perché non ha fatto favoritismi ma ha demandato al tribunale la gestione della crisi.

Q6: Dopo un fallimento, l’imprenditore (persona fisica) rimarrà per sempre pieno di debiti?
A: Non necessariamente: esiste l’istituto dell’esdebitazione del fallito. Se il soggetto è onesto e ha collaborato nella procedura, può chiedere al tribunale, una volta chiuso il fallimento, di essere liberato dai debiti residui non pagati. Il tribunale valuta la condotta del fallito: se non ha commesso reati di bancarotta, ha consegnato i beni, non si è sottratto ai doveri, tendenzialmente concede l’esdebitazione. Con l’esdebitazione (una sorta di riabilitazione civile), tutti i crediti anteriori al fallimento che non hanno trovato soddisfazione vengono cancellati e il debitore persona fisica torna “pulito”. Questo favorisce il fresh start, cioè la possibilità di ripartire con nuove iniziative senza la zavorra dei vecchi debiti. Il Codice ha ulteriormente ampliato questa possibilità: persino il debitore incapiente (che in fallimento non ha pagato nulla ai creditori) può ottenere una cancellazione dei debiti immediata al termine della procedura, purché la sua insolvenza non derivi da frode o colpa grave e non possa offrire nulla ai creditori (è una novità per i sovraindebitati introdotta nel 2020 e confermata dal Codice). Quindi, per un imprenditore individuale fallito c’è luce in fondo al tunnel: dopo la chiusura della procedura, può tornare economicamente libero, a patto di aver agito in buona fede. Attenzione: ciò vale per le persone fisiche. Se fallisce una società, i debiti sociali rimasti insoddisfatti si “estinguono” con la cancellazione della società, ma i soci che avessero responsabilità illimitata (SNC, SAS accomandatari) o che avessero garantito personalmente i debiti non sono protetti dall’esdebitazione della società – dovrebbero fallire anch’essi o attivare procedure personali per liberarsene.

Q7: Il debitore può scegliere liberamente quale procedura attivare per la sua crisi?
A: In linea di massima, sì entro certi limiti. Il debitore (imprenditore) ha la facoltà di decidere se presentare un piano attestato, un accordo di ristrutturazione o un concordato preventivo a seconda di cosa ritiene meglio e di ciò che effettivamente può ottenere in termini di consenso. Ad esempio, può iniziare con un approccio graduale: prima tentare la composizione negoziata, poi magari virare su un accordo o un concordato a seconda delle adesioni raccolte. Il tribunale di norma non interferisce con la scelta dello strumento se il debitore ne ha i requisiti. Ci sono però casi particolari: se l’insolvenza è irreversibile e manifesta, l’accesso a procedure diverse dalla liquidazione può venire negato. Ad esempio, se un’impresa chiede un concordato ma il tribunale vede chiaramente che non c’è alcuna prospettiva (piano inattuabile, attivo insufficiente anche per costi), può dichiarare inammissibile il concordato e aprire d’ufficio la liquidazione giudiziale (c.d. fallimento omisso medio). Oppure nel concordato minore/piano consumatore, se il giudice riscontra frodi o mancanza di meritevolezza, rigetta la proposta e il debitore a quel punto può solo liquidare. I creditori dal canto loro hanno poco potere di scelta: possono opporsi o votare contro le soluzioni che non gradiscono, e in taluni casi presentare una propria istanza di fallimento (ad esempio se ritengono che il concordato del debitore sia pregiudizievole). Ma in generale la legge dà priorità ai tentativi di risanamento proposti dal debitore. In conclusione, finché l’impresa è in piedi, il debitore può scegliere la strada (accordo, concordato, negoziazione…), però la sua scelta deve essere sensata: se presenta piani irrealistici, i creditori o il tribunale glieli bocciano e si finirà in liquidazione coatta. Dunque è una scelta guidata dalle circostanze: poche banche concordi? accordo 182-bis; troppi creditori piccoli? concordato; crisi non grave? composizione negoziata o piano attestato; sovraindebitamento del privato? piano del consumatore; ecc. In caso di dubbio, la composizione negoziata è un buon primo passo perché lascia aperte più uscite (accordo, concordato o anche chiusura senza accordo).

Q8: I debiti fiscali e contributivi possono essere inclusi nelle procedure di risanamento?
A: Sì, assolutamente, ma con qualche peculiarità. I debiti verso l’Erario (Agenzia Entrate, Agenzia Riscossione) e gli enti previdenziali possono essere trattati nei piani di accordo o concordato tramite la cosiddetta transazione fiscale. Significa che il debitore può proporre anche allo Stato un pagamento parziale (stralcio) o dilazionato dei tributi, comprese sanzioni e interessi. Ci sono alcune limitazioni: in passato non si poteva falcidiare l’IVA e le ritenute, ora invece la legge consente anche su quelle un trattamento nel concordato purché non inferiore al miglior realizzo in caso di fallimento. La Pubblica Amministrazione di solito partecipa come un creditore “qualificato”: ad esempio, nel concordato, se il Fisco rifiuta la proposta, il tribunale può comunque omologare forzosamente se giudica la proposta conveniente per l’Erario rispetto al fallimento (questo è il cosiddetto cram-down fiscale introdotto prima in L.F. art. 180(4) e confermato in CCII art. 48, 63, 88). Negli accordi di ristrutturazione, per omologare serve che il Fisco aderisca o che comunque riceva quanto otterrebbe in liquidazione (anche qui c’è la possibilità di omologa con trattamento non approvato formalmente da AE, se ricorrono certe condizioni di legge). In soldoni, sì, i debiti fiscali possono essere tagliati o diluiti nei piani di crisi, ma è necessario coinvolgere l’Agenzia delle Entrate presentando una specifica proposta di transazione fiscale (calcoli dettagliati su quanto si paga subito, in che anni, eventuali rinunce a interessi e sanzioni). L’Erario valuterà secondo le sue linee guida (spesso chiede minimo il pagamento integrale dell’IVA e almeno il 20% degli altri tributi se c’è capienza). Se rifiuta, come detto, non è più un veto assoluto: il giudice può imporre l’accordo se è dimostrato che lo Stato prende il meglio possibile. In procedura di fallimento invece non c’è scelta: lo Stato prende quel che c’è secondo il grado del suo privilegio (che è molto alto per IVA, ritenute, ecc.). Un vantaggio di concordati/accordi è che lo Stato può accettare anche un pagamento parziale su tanti anni mentre in fallimento prenderebbe subito ma forse meno. Dunque includere il Fisco è spesso decisivo per il successo di un piano, specie in Italia dove i debiti fiscali pesano. La normativa attuale incoraggia gli enti a stare all’accordo (anche perché se non lo fanno, rischiano che il giudice lo forzi comunque, come da Cass. 27782/2024).

Q9: Se la composizione negoziata non dà risultati, l’imprenditore è destinato al fallimento?
A: Non automaticamente. Se la composizione negoziata (cioè il tentativo assistito dall’esperto) fallisce perché non si raggiunge alcun accordo con i creditori, l’imprenditore ha ancora alcune opzioni prima del fallimento: la principale è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. Entro 60 giorni dalla conclusione infruttuosa della composizione negoziata, il debitore può presentare questa proposta di concordato “speciale” che, come spiegato, non prevede voto dei creditori. In pratica offre ai creditori di liquidare tutto il patrimonio sotto controllo del tribunale, distribuendo il ricavato. Il tribunale terrà conto se durante la composizione c’erano state manifestazioni di interesse o offerte di acquisto: spesso il concordato semplificato viene utilizzato per trasferire l’azienda a un terzo che aveva trattato durante la composizione (il quale paga un prezzo che va ai creditori). Il giudice omologa se ritiene la proposta vantaggiosa almeno quanto il fallimento. Se c’è omologa, si evita il fallimento (si effettua la liquidazione concordataria).
Oltre a ciò, l’imprenditore potrebbe comunque, anche dopo la composizione negoziata, provare un concordato preventivo classico (magari con continuità se nel frattempo ha trovato un investitore) oppure un accordo di ristrutturazione se riesce in extremis ad avere il 60% di consensi. La legge non vieta di fare un concordato preventivo standard dopo la composizione negoziata: anzi, spesso l’esperto aiuta proprio a preparare documentazione e piano utile per presentare un concordato formale.
Quindi, composizione negoziata fallita non equivale = fallimento inevitabile. Certo, se durante la negoziazione è emerso che non c’è proprio alcuna soluzione (azienda priva di valore e creditori totalmente ostili), può darsi che il fallimento sia l’unica strada. Ma almeno l’imprenditore, avendo tentato la composizione, avrà mostrato buona fede, e potrà magari negoziare col principale creditore di acconsentire a un concordato semplificato invece di fare istanza di liquidazione giudiziale subito. Ricordiamo che uno degli scopi della composizione negoziata è anche evitare le istanze di fallimento precipitose, dando un periodo di tregua. Una volta finita, i creditori possono sicuramente tornare alla carica. Però il debitore ha quell’ultimo jolly del concordato semplificato (o di altre procedure da sovraindebitamento se è una piccola impresa) per tentare di gestire la propria uscita di scena in modo controllato. In alcuni casi, poi, la composizione negoziata “fallisce” nel senso di non avere un accordo globale, ma porta magari a qualche accordo parziale (ad es. le banche accettano di riscadenzare il debito, alcuni fornitori stralciano) sufficiente a fare un nuovo piano di risanamento: non uno scenario frequentissimo, ma possibile. Quindi, l’imprenditore non deve disperare: dopo la negoziazione può ancora chiedere al giudice una soluzione concorsuale diversa dal fallimento.

Q10: Che differenza c’è tra liquidazione giudiziale e liquidazione coatta amministrativa?
A: La liquidazione giudiziale è quella ordinaria per le imprese private e commerciali, gestita dai tribunali fallimentari secondo le regole di cui abbiamo parlato. La liquidazione coatta amministrativa (LCA) è invece una procedura concorsuale speciale prevista per alcuni tipi di imprese o enti pubblicistici o di interesse pubblico (es: banche, assicurazioni, cooperative, imprese vigilate). Si chiama “coatta amministrativa” perché è disposta con provvedimento amministrativo (ad es. decreto ministeriale su proposta di Banca d’Italia per una banca in dissesto) e viene gestita da autorità amministrative (commissari liquidatori nominati dall’ente di vigilanza) anziché dal tribunale, sebbene sempre sotto la sorveglianza di un giudice delegato in modo marginale. In LCA, quindi, l’insolvenza non viene dichiarata dal tribunale ma dall’autorità competente e la liquidazione avviene secondo regole in parte proprie (le leggi di settore). Per l’imprenditore interessato, la differenza è che la sua impresa viene sottoposta a LCA anziché a fallimento in virtù della natura dell’attività (es: una banca non “fallisce” in tribunale, va in LCA sotto Bankitalia; una grande impresa pubblica può avere LCA sotto Ministero). Gli effetti per i creditori sono simili (spossessamento, sospensione azioni, accertamento passivo), ma le finalità possono includere obiettivi pubblici (es. tutela dei correntisti nel caso di banche, dove interviene il Fondo di Garanzia). Il Codice della Crisi si applica solo in parte alla LCA, rimandando per lo più alle leggi speciali. Dunque, in questa guida ci siamo concentrati sulla liquidazione giudiziale classica. Se il lettore è interessato alle LCA, deve guardare alle normative di settore (Testo Unico Bancario, Codice Assicurazioni, ecc.). Per completezza, esiste anche un’altra procedura speciale chiamata Amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi (Legge Marzano, D.Lgs. 270/1999) destinata a imprese sopra certa soglia occupazionale, volta a tentare la ristrutturazione o la cessione in blocco col supporto statale (casi come Alitalia, Ilva, Parmalat all’epoca). Anche quella è fuori dal perimetro del Codice ed è decisa con decreto ministeriale. Sono situazioni peculiari in cui l’insolvenza dell’impresa ha rilevanza nazionale (migliaia di lavoratori) e lo Stato preferisce una gestione ad hoc piuttosto che il fallimento ordinario.

Esempi pratici e simulazioni

Per comprendere meglio come le diverse procedure si applicano nella realtà, consideriamo qualche scenario pratico ipotetico, basato su situazioni tipiche riscontrabili nel contesto italiano.

Caso 1: Piccola S.r.l. manifatturiera in crisi di liquidità
La Alfa S.r.l., 25 dipendenti, produce componenti meccanici. A causa dell’aumento del costo delle materie prime e di un calo degli ordini, nel 2024 subisce perdite significative che erodono metà del capitale sociale. Ha debiti bancari per €500.000 e debiti verso fornitori per €300.000, oltre a alcuni arretrati IVA per €50.000. La direzione prevede che senza interventi l’azienda finirà la cassa in 6 mesi. Come agire?

  • Fase 1 – Allerta interna: Gli amministratori riconoscono lo squilibrio finanziario incipiente (non riescono a pagare puntualmente i fornitori, indice di liquidità sotto 0,8). In ottemperanza all’art. 2086 c.c., convocano subito un CdA straordinario e allertano il collegio sindacale. Decidono di attivare la Composizione negoziata.
  • Fase 2 – Accesso alla piattaforma: Alfa S.r.l. carica bilanci e dati su debiti/creditori nella piattaforma Unioncamere. L’algoritmo evidenzia “segnali di crisi” (ad es. Debt Service Coverage Ratio previsto 0.8 < 1). Viene nominato un esperto indipendente.
  • Fase 3 – Trattative assistite: L’esperto esamina i conti: valuta che l’azienda, ristrutturando il debito bancario e riducendo certi costi, potrebbe recuperare marginalità. Convoca le banche creditrici e i principali fornitori. Nel frattempo il tribunale, su istanza di Alfa, emette decreto di misure protettive: blocco temporaneo di azioni esecutive (una banca aveva minacciato di escutere un pegno).
  • Fase 4 – Proposta di soluzione: Dopo 2 mesi di incontri, l’esperto elabora con Alfa un piano: moratoria di 12 mesi sul rimborso dei mutui bancari (così si libera cash-flow), dilazione dei debiti fornitori su 24 mesi (in cambio di garanzia personale dei soci), nuovo fido di €100.000 da parte della banca principale garantito da un Confidi. I debiti fiscali (€50k IVA) saranno rateizzati in 5 anni tramite Agenzia Entrate.
  • Esito A (positivo): Banche e fornitori, grazie alla presenza rassicurante dell’esperto, accettano la proposta. Si formalizzano accordi bilaterali con ciascuno (contratti di ristrutturazione). Alfa esce dalla composizione negoziata senza dover ricorrere a procedure concorsuali, forte di accordi che le riducono la pressione finanziaria. L’esperto relaziona l’esito positivo (risanamento in corso di attuazione). L’attività prosegue e dopo un anno la liquidità torna sufficiente. – Procedura utilizzata: composizione negoziata conclusa con accordi stragiudiziali. – Risultato: crisi risolta, niente fallimento né intervento del tribunale se non per protezione iniziale.
  • Esito B (negativo): Se invece qualche banca si fosse opposta (es: un factor rifiuta moratoria e minaccia istanza di fallimento), la composizione negoziata avrebbe potuto concludersi senza accordo totale. A quel punto Alfa S.r.l., valutando di non poter soddisfare tutti i creditori normalmente, entro 60 giorni potrebbe depositare un concordato semplificato per liquidazione. Ad esempio, propone ai creditori: liquidiamo l’azienda (magari c’è un concorrente interessato a rilevare macchinari e marchio per €200.000) e vi pagheremo con quel ricavato una certa percentuale (diciamo 40%). Il tribunale valuta che in caso di fallimento forse i creditori prenderebbero ancora meno (per via dei costi e tempi maggiori), quindi omologa il concordato semplificato anche se le banche inizialmente erano contrarie. L’azienda cessa l’attività, i dipendenti prendono il TFR dal Fondo di garanzia, i creditori ottengono un 40% entro pochi mesi e la società si scioglie. – Risultato: impresa chiusa, ma in maniera ordinata extra-fallimentare, con soddisfazione parziale dei creditori migliore rispetto a scenari alternativi.

Caso 2: Media impresa commerciale fortemente indebitata, ma con prospettive di continuità
Beta S.p.A. gestisce 15 supermercati. Ha 200 dipendenti. È cresciuta troppo velocemente finanziandosi con debito e ora ha €10 milioni di debiti (banche €6M, fornitori €3M, fisco €1M). Il settore è competitivo e Beta ha margini ridotti; sta onorando faticosamente i debiti ma prevede di non reggere il piano di rientro con le banche a partire dal prossimo anno. Non è ancora insolvente (paga tutto anche se tirato), ma la crisi è probabile. Soluzione ipotizzata: Accordo di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa.

  • Beta incarica un advisor finanziario e un attestatore. Prepara un piano industriale: prevede di cedere 5 punti vendita meno profittevoli per incassare €2M, concentrare le risorse sugli altri 10, ottenere dalla banche la conversione di €2M di crediti in uno strumento partecipativo (quasi-equity) e dilazione dei restanti €4M su 7 anni; fornitori strategici: pagamento del 80% dei crediti in 24 mesi, rinuncia al 20%; debiti fiscali: chiede stralcio sanzioni e pagamento dell’IVA e imposte in 5 anni.
  • Beta avvia trattative riservate con il coordinamento dell’advisor: ottiene manifestazioni di supporto da 4 banche su 5 (rappresentano il 70% dell’esposizione bancaria) – una banca estera minoritaria (10% esposizione) non vuole aderire. Con i 20 fornitori principali (che hanno 70% dei crediti verso fornitori) trova un’intesa sulla riduzione 20%. L’AE accetta in linea di massima la transazione fiscale proposta (pagamento integrale IVA in 5 anni, stralcio interessi e sanzioni).
  • Si formalizza un accordo di ristrutturazione: aderiscono banche detentrici dell’85% dei crediti finanziari, fornitori con il 75% del credito commerciale. Si raggiunge quindi ben oltre il quorum 60%. C’è però da “sistemare” la banca estera e alcuni piccoli fornitori (che insieme sono minoranza ma non trascurabile). Beta richiede al tribunale di estendere gli effetti dell’accordo ai dissenzienti ex art. 61 CCII, limitatamente alla categoria banche e categoria fornitori chirografari. Poiché nelle rispettive classi ha aderito più del 75% del credito, il giudice omologa l’accordo con efficacia estesa: la banca estera è costretta ad accettare lo stesso trattamento delle altre (conversione parziale del credito e dilazione), i fornitori non aderenti sono costretti ad accettare l’80% a 24 mesi come i colleghi, senza poter agire immediatamente per il 100%.
  • Beta esegue l’accordo: vende i 5 negozi e incassa €2M, che usa per pagare le prime rate ai fornitori e abbattere parte dell’esposizione bancaria. Nel giro di 6 mesi dall’omologa riporta il rapporto Debito/Equity entro parametri sostenibili e con i nuovi termini di pagamento riesce a generare cassa. Nessun dipendente perde il lavoro (i 5 punti vendita ceduti passano a un altro operatore che riassorbe il personale).
  • Outcome: Beta S.p.A. evita il default, continua l’attività con 10 punti vendita. I creditori finanziari e commerciali recuperano più dell’alternativa fallimento e in tempi definiti. Il piano è vigilato informalmente dalle banche leader. – Strumento utilizzato: accordo di ristrutturazione omologato in tribunale, sfruttando meccanismi di cram-down parziale su categorie dissenzienti. – Senza questo, Beta avrebbe probabilmente dovuto tentare un concordato preventivo in continuità, più lungo e costoso, oppure sarebbe collassata nel tempo.

Caso 3: Impresa edile familiare insolvente e senza prospettive di continuità
La Gamma S.r.l., piccola impresa edile, fallisce nei fatti dopo la crisi Covid: i cantieri si bloccano, accumula debiti e un paio di decreti ingiuntivi non pagati. I soci (padre e figlio) non vogliono “far fallire” la società per orgoglio e la tengono ferma ma in vita, sperando in un lavoro risollevante che però non arriva. Dopo un anno di inerzia, i debiti superano €800.000 e un creditore esasperato presenta istanza di fallimento. Situazione: insolvenza irreversibile già manifestatasi (Gamma non ha attivi significativi né commesse future).

  • Opzione teorica: avrebbero potuto accedere al concordato minore (non essendo fallibile perché forse sotto soglia? In realtà con 800k debiti > 500k soglia, forse fallibile) oppure a una liquidazione controllata volontaria. Ma non l’hanno fatto.
  • Esito: Il tribunale accerta che Gamma è de facto cessata e insolvente. Dichiara la liquidazione giudiziale. Viene nominato un curatore. Questi scopre che gli amministratori hanno prelevato in conto utili negli ultimi mesi €50.000 lasciando altri creditori a bocca asciutta – configura bancarotta preferenziale verso sé stessi come soci. Avvia un’azione di responsabilità ex art. 2486 c.c. chiedendo €200.000 di danni (il patrimonio netto era -100k quando avrebbero dovuto liquidare, ora è -300k). Porta anche i libri in Procura per le valutazioni penali.
  • Il curatore liquida quel poco: attrezzature e mezzi venduti per €100k. Distribuisce ai creditori in chirografo un 10%. La procedura si chiude. I soci, travolti da azioni legali (e con possibile rinvio a giudizio penale), decidono di chiedere l’esdebitazione personale per ripartire come persone fisiche (avevano fideiussioni bancarie personali per alcuni debiti societari, essendo S.r.l. la società non li proteggeva da quelli). Ottenuta dopo un anno l’esdebitazione, il figlio emigrerà all’estero a fare un altro lavoro; il padre andrà in pensione. – Morale: qui gli strumenti di gestione crisi non sono stati attivati in tempo, per cui la storia si conclude con il fallimento, la dispersione del valore (la rete clienti e il know-how dell’impresa edile vanno persi) e responsabilità dirette per gli amministratori. Se avessero reagito prima, forse con un concordato minore liquidatorio avrebbero potuto vendere i beni a prezzo migliore e chiudere senza strascichi penali (e senza trovarsi accusati di aver tardato dolosamente). Questo esempio riflette purtroppo molte vicende di PMI italiane dove la riluttanza a dichiarare fallimento porta a conseguenze peggiori.

Caso 4: Persona fisica sovraindebitata (consumatore)
Marco, ex commerciante, ha chiuso l’attività e ha debiti personali: €50.000 con banca per prestito, €10.000 fornitori residui, €5.000 Agenzia Entrate. Ha 45 anni, ora lavora dipendente e guadagna €1.300 al mese, possiede solo un’utilitaria e abita in affitto. Non potrebbe accedere a fallimento perché non è imprenditore fallibile. Rimane però oppresso dai decreti ingiuntivi e dal pignoramento 1/5 stipendio in corso.

  • Soluzione: Marco ricorre ad un Organismo di Composizione della Crisi presso l’Ordine dei Commercialisti e presenta un Piano del consumatore (oggi piano di ristrutturazione del consumatore). Propone di pagare €300 al mese per 5 anni ai creditori, per un totale di €18.000, da ripartire proporzionalmente (circa il 25% dei debiti). Motiva che più di così, con quello stipendio e spese essenziali, non può. L’OCC attesta che il piano è fattibile e che Marco è meritevole (i debiti sono derivati da malattia in famiglia e chiusura attività per cause esterne, non per spese folli).
  • Il tribunale omologa il piano senza opposizione creditori (anche se la banca avrebbe diritto a di più, riconosce che da lui non riuscirebbe comunque a prendere più di 1/5 stipendio per tanti anni, e con il piano ottiene qualcosa in meno ma in maniera regolare). Stop a pignoramenti. Marco inizia i pagamenti mensili.
  • Dopo 5 anni di sforzi, completa il piano versando €18.000 totali. Il tribunale emette decreto che attesta l’avvenuto adempimento e la conseguente esdebitazione di Marco dai debiti residui. I creditori non possono più pretendere nulla oltre. Marco ha dunque pagato una quota e si è liberato, può ripartire finanziariamente da zero (forse non troverà facilmente credito bancario, ma legalmente è pulito). – Questo esempio mostra la funzione “sociale” delle procedure di sovraindebitamento.

Fonti e riferimenti normativa

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) – Testo normativo aggiornato: in particolare artt. 2 (definizioni di crisi/insolvenza), 12-25 (composizione negoziata), 44-48 e 63-64-bis (concordato preventivo e accordi di ristrutturazione, inclusa transazione fiscale), 56-64 (piani attestati e accordi), 84-120 (concordato preventivo), 121-270 (liquidazione giudiziale), 268-277 (liquidazione controllata sovraindebitati), 378 (modifica art. 2486 c.c. su danno presunto), 389 (entrata in vigore disposizioni). Pubblicato in G.U. n.38 del 14-02-2019 e successive modifiche (D.Lgs. 83/2022 di attuazione direttiva UE 2019/1023, D.Lgs. 169/2020 e D.Lgs. 136/2024 correttivi).
  • Codice Civile, artt. 2086 comma 2 (dovere di adeguati assetti organizzativi), 2392-2394 (responsabilità amministratori verso società e creditori), 2476 (responsabilità nelle s.r.l.), 2484-2487 (scioglimento e liquidazione società), 2486 (gestione dopo scioglimento e criteri liquidazione danno introdotti dal Cod. Crisi).
  • Decreto Legislativo 13 settembre 2024, n. 136 (Terzo correttivo Cod. Crisi) – ha introdotto modifiche su composizione negoziata, transazione fiscale nei piani di ristrutturazione soggetti a omologa, ecc. (G.U. n. 246 del 20-10-2024).
  • Relazione Illustrativa al D.Lgs. 14/2019 – documento ministeriale che spiega ratio di varie norme del Codice (es. art. 2486 c.c. su danno presunto).
  • D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021 – Normativa istitutiva della composizione negoziata (poi confluita nel Codice).
  • Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) – abrogata a regime dal 15 luglio 2022, ma citata in alcune decisioni e ancora rilevante per procedure aperte prima. In particolare art. 180 co.4 L.F. (cram-down fiscale).
  • Direttiva (UE) 2019/1023 sulla ristrutturazione e insolvenza – recepita in Italia con D.Lgs. 83/2022: ha introdotto istituti come i piani di ristrutturazione soggetti a omologazione, la possibilità di cram-down interclasse e sul fisco, la protezione degli accordi agevolati, ecc.
  • Statistiche Unioncamere sulla Composizione NegoziataOsservatorio Unioncamere (edizioni 2022-2025) con dati sulle istanze presentate e esiti. Vedi anche Comunicato stampa Unioncamere 16/11/2023.
  • Studio CNDCEC sugli indici di allerta – Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti, documento 20 ottobre 2019 “Crisi d’impresa – Indici di allerta” (definisce DSCR <1 come indice primario).
  • Cass. civ. Sez. Unite 8504/2021 – in tema di prevalenza dell’interesse concorsuale alla continuità aziendale vs interesse fiscale (cita nella FAQ sul cram-down).
  • Cass. civ. Sez. I 17103/2023 – competenza dei creditori ad approvare proposta concordataria più conveniente dell’alternativa liquidatoria.
  • Cass. civ. Sez. I 27782/2024 (ord. 28/10/2024) – conferma applicabilità cram-down fiscale anche se Fisco voto negativo (art. 180 L.F. e artt. 63, 88 CCII). Massimata su Unijuris e IlCaso.it.
  • Cass. civ. Sez. I 27345/2024 (22/10/2024) – sul computo dei creditori non votanti come dissenzienti nelle maggioranze (concordato preventivo), nota su DirittoDellaCrisi.it.
  • Cass. civ. Sez. I 15851/2024 – su fallimento omisso medio dopo concordato omologato non eseguito.
  • Cass. civ. Sez. I 23659/2023 – su prescrizione azione responsabilità ex art. 2394 c.c. promossa dal curatore (conferma decorrenza da percepibilità insufficienza patrimonio).
  • Cass. civ. Sez. I 14243/2024 – su cumulabilità azione 2393 e 2394 da parte curatore, conferma che esercita entrambe in interesse massa.
  • Tribunale di Milano, sez. fall., decreto 22 marzo 2023primo caso di liquidazione giudiziale di gruppo ex art. 287 CCII: ammessa per gruppo di imprese, con indicazione necessità beneficio gestione unitaria.
  • Tribunale di Benevento, 25 luglio 2024 – omologa accordo di ristrutturazione a efficacia estesa, ha ritenuto ammissibile classe unica per crediti erariali ai fini art.61 CCII.
  • Dati statistici: CRIBIS report Q1 2025 su procedure aperte; FederTerziario news 6/6/2025 (aumento liquidazioni 2025); FederTerziario news 14/7/2025 su composizione negoziata (905 istanze in semestre, 22.5% successi).

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