Hai una società inattiva da anni e ti stanno arrivando cartelle esattoriali, solleciti di pagamento o accertamenti? Ti stai chiedendo se i debiti fiscali e contributivi possono ancora essere richiesti e se tu, come ex socio o amministratore, puoi esserne ritenuto responsabile?
Anche se la società è ferma da tempo, l’Agenzia delle Entrate può comunque avviare azioni di recupero se la società non è stata formalmente chiusa o se ci sono irregolarità pregresse. E in certi casi, i debiti possono ricadere su chi ha gestito o rappresentato la società, anche dopo la cessazione dell’attività.
Cosa si intende per società inattiva?
È una società che non esercita attività economica, non emette fatture, non ha dipendenti né produce reddito. Tuttavia, se non è stata formalmente sciolta e cancellata dal Registro Imprese, continua a esistere giuridicamente… e a produrre obblighi.
Quali debiti può generare una società inattiva?
– Sanzioni per omessa dichiarazione dei redditi
– Mancati versamenti IVA o contributivi pregressi
– Costi fissi come imposta di bollo, diritto camerale, tassa sui libri sociali
– Cartelle esattoriali per vecchie pendenze mai chiuse
– Sanzioni per mancato deposito del bilancio o per inattività non comunicata
Chi risponde dei debiti?
– Se la società esiste ancora, risponde con il proprio patrimonio
– Se il patrimonio è insufficiente o nullo, il Fisco può agire contro l’amministratore per mala gestione o violazione di obblighi fiscali
– In caso di società di persone, i soci rispondono con il proprio patrimonio personale
– In caso di scioglimento senza liquidazione, può esserci responsabilità personale di chi ha beneficiato di beni o somme
Cosa puoi fare per difenderti?
– Verificare se la società è ancora iscritta al Registro delle Imprese
– Controllare la regolarità delle notifiche e degli atti ricevuti
– Dimostrare che non hai più ruoli gestionali o disponibilità di beni
– Attivare una procedura di estinzione regolare, con comunicazione e cancellazione ufficiale
– In certi casi puoi valutare una composizione della crisi o un piano di rientro agevolato
Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare le cartelle pensando che la società sia “morta”: giuridicamente potrebbe non esserlo
– Firmare atti o documenti a nome della società se non è più operativa
– Pensare che essere solo “socio” ti protegga sempre: dipende dal tipo di società
– Rimandare la chiusura formale: ogni anno può generare nuovi costi e sanzioni
Le società inattive possono diventare una trappola fiscale se non vengono gestite correttamente: anche senza attività, possono produrre debiti e responsabilità personali per chi ne è coinvolto.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto societario e difesa tributaria – ti spiega cosa comporta avere una società inattiva con debiti, quando puoi essere chiamato a rispondere e come uscire legalmente da questa situazione.
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Introduzione
Quando una società diviene inattiva o viene cancellata dal Registro delle Imprese, i debiti contratti durante la sua attività non scompaiono magicamente. Comprendere il destino di questi debiti è fondamentale per chiunque si trovi dal lato del debitore, siano essi ex soci, amministratori o liquidatori. Questa guida esamina in dettaglio cosa accade ai debiti di una società inattiva o estinta, quali responsabilità patrimoniali gravano su soci e amministratori, e come la normativa e la giurisprudenza italiane (aggiornate al 2025) regolano tali situazioni.
Affronteremo dapprima il significato di “società inattiva” e i relativi obblighi fiscali e burocratici. Vedremo poi il processo di scioglimento, liquidazione e cancellazione di una società e gli effetti giuridici dell’estinzione sull’esistenza dei debiti. Analizzeremo la responsabilità patrimoniale dei soci (distinguendo tra vari tipi di società) e la responsabilità di amministratori e liquidatori in caso di debiti insoddisfatti. Un focus specifico sarà dedicato al profilo fiscale dei debiti di società inattive, con le norme tributarie speciali (art. 36 D.P.R. 602/1973) e le più recenti sentenze della Corte di Cassazione su responsabilità verso il Fisco. Troverete inoltre esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione Domande frequenti (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni, il tutto espresso con linguaggio tecnico-giuridico ma con intento divulgativo.
Nota: Questa guida considera esclusivamente l’ordinamento italiano e si focalizza sulla prospettiva del debitore (socio, amministratore o comunque soggetto potenzialmente obbligato) che fronteggia debiti legati a una società inattiva o estinta. Tutte le fonti normative e giurisprudenziali utilizzate sono riportate in una sezione finale dedicata.
1. Cos’è una società inattiva?
Nel diritto commerciale italiano, non esiste una definizione formale di “società inattiva”, ma in pratica il termine indica una società che non sta esercitando alcuna attività economica pur essendo ancora iscritta al Registro delle Imprese. In altre parole, la società esiste giuridicamente ma non svolge operazioni commerciali, non emette fatture e spesso non ha dipendenti né produzione di beni o servizi. Questa condizione può essere temporanea (in attesa di riprendere l’attività) oppure preludere allo scioglimento definitivo della società.
Obblighi fiscali e amministrativi di una società inattiva: Anche se la società non opera, permangono diversi obblighi di legge che devono essere rispettati per evitare sanzioni:
- Dichiarazioni fiscali annuali: la società inattiva è tenuta comunque a presentare la dichiarazione dei redditi ogni anno (Modello Unico), anche a zero operazioni. La scadenza tipica è il 30 settembre dell’anno successivo a quello di riferimento.
- Versamento di imposte patrimoniali: se la società possiede beni (ad es. immobili, partecipazioni finanziarie), deve continuare a pagare le relative imposte patrimoniali (come l’IMU per gli immobili, o l’IVIE per attività finanziarie estere).
- Tenuta di un conto bancario: mantenere un conto corrente attivo comporta l’obbligo di dichiarare eventuali interessi attivi e giacenze, nonché il pagamento di spese bancarie, anche se il conto è poco movimentato.
- Iscrizione camerale e oneri amministrativi: la società deve conservare l’iscrizione al Registro delle Imprese, pagando il diritto camerale annuale anche in assenza di fatturato. Inoltre, va inviata una comunicazione formale alla Camera di Commercio per dichiarare lo stato di inattività.
- Obblighi previdenziali: se la società aveva dipendenti (o soci lavoratori), può dover mantenere l’iscrizione all’INPS e all’INAIL; qualora non vi siano più lavoratori, alcuni obblighi decadono, ma restano quelli pregressi eventualmente non assolti.
- Conservazione delle scritture contabili: anche senza attività, l’azienda deve conservare i libri contabili e sociali obbligatori (libro giornale, libro inventari, verbali assemblee, ecc.), secondo i termini di legge, e mantenerli disponibili in caso di controlli.
L’inattività quindi non equivale a “chiudere” la società: l’ente rimane in vita con tutti gli obblighi connessi. Questa situazione può protrarsi per un certo periodo, ma mantenere una società inattiva ha un costo e richiede adempimenti che spesso non giustificano la permanenza in vita di un ente senza operatività. Pertanto, gli amministratori devono decidere se mantenere la società in stand-by (nell’auspicio di una futura ripresa) oppure avviarne la chiusura definitiva.
Opzioni per una società ferma:
- Sospensione temporanea dell’attività: la società resta formalmente attiva ma dichiara lo stato di inattività. Come visto, alcuni obblighi continuano (dichiarazioni fiscali, iscrizioni varie), ma si evita la procedura di liquidazione immediata. È una soluzione ad interim, valida se si prevede di riprendere l’attività entro un tempo ragionevole.
- Liquidazione e cancellazione: se non si intravede una ripresa, la via più economica e definitiva è attivare la procedura di liquidazione, pagare i debiti residui e poi cancellare la società dal Registro delle Imprese. La cancellazione estingue la società, liberando gli amministratori dagli oneri di gestione futura. Tuttavia, chiudere una società con debiti in sospeso comporta importanti conseguenze per soci e amministratori, che vanno comprese a fondo (vedi §3 e §4).
In sintesi, per società inattiva si intende un ente non operativo ma giuridicamente esistente. Finché la società esiste, i debiti sociali restano a suo carico e i creditori possono agire contro la società stessa (pignorando eventuali beni rimasti o chiedendone il fallimento se ne ricorrono i presupposti). L’inattività di per sé non cancella i debiti. Solo con l’estinzione dell’ente (cancellazione) si pone il problema di chi risponderà di quelle obbligazioni insolute, come vedremo. Nel prossimo paragrafo descriveremo come si arriva all’estinzione attraverso scioglimento e liquidazione.
2. Scioglimento, liquidazione e cancellazione di una società
Per chiudere definitivamente una società inattiva occorre seguire la procedura legale di scioglimento, liquidazione e cancellazione, disciplinata dal Codice Civile. Ecco i principali passaggi:
- Cause di scioglimento: anzitutto dev’esserci una causa di scioglimento. Alcune cause sono volontarie (p.es. decisione dei soci di cessare l’attività), altre legali (p.es. mancanza di scopo sociale, perdita integrale del capitale in una società di capitali, numero di soci inferiore al minimo per le società di persone, ecc.). Nel nostro caso, la prolungata inattività spesso spinge i soci a deliberare volontariamente lo scioglimento.
- Delibera di scioglimento e nomina del liquidatore: l’assemblea dei soci (o l’organo amministrativo, nei casi previsti) formalizza lo scioglimento e nomina uno o più liquidatori incaricati di chiudere i conti societari. Dal momento dello scioglimento, la società aggiunge la dicitura “in liquidazione” alla propria ragione sociale, e gli amministratori decadono (subentrano i liquidatori nella gestione).
- Iscrizione dello scioglimento nel Registro: la delibera di scioglimento va iscritta presso il Registro delle Imprese. Ciò ha efficacia di pubblicità legale: terzi e creditori vengono resi edotti che la società è in fase di liquidazione. Comunicazioni vengono inviate anche all’Agenzia delle Entrate, INPS e altri enti interessati.
- Operazioni di liquidazione: il liquidatore ha il compito di trasformare in denaro i cespiti sociali e di pagare via via tutti i debiti. In pratica, il liquidatore vende i beni sociali, riscuote i crediti ancora dovuti alla società e utilizza le somme ricavate per soddisfare i creditori sociali (secondo l’ordine delle cause di prelazione: prima eventuali creditori privilegiati, poi chirografari, ecc.). Durante questa fase possono emergere situazioni di deficit patrimoniale: se le passività superano le attività, si parla di liquidazione con bilancio negativo. In tal caso alcuni creditori resteranno insoddisfatti, come vedremo tra poco.
- Bilancio finale di liquidazione: ultimate le vendite e pagati (per quanto possibile) i debiti, il liquidatore redige il bilancio finale di liquidazione, documento conclusivo che fotografa il risultato: se tutte le passività sono state pagate, l’eventuale attivo residuo viene ripartito tra i soci; se invece le attività non coprono tutte le passività, il bilancio finale evidenzierà un passivo non pagato. I soci approvano il bilancio finale (salvo procedura semplificata in caso di inattività totale).
- Cancellazione dal Registro delle Imprese: una volta approvato il bilancio finale, il liquidatore richiede la cancellazione della società dal Registro delle Imprese. La cancellazione ha efficacia costitutiva di estinzione: significa che in quel momento la società cessa ufficialmente di esistere come soggetto giuridico. L’ufficio del Registro compie un controllo formale (verifica che la procedura di liquidazione si sia svolta regolarmente), ma non entra nel merito dell’avvenuto pagamento dei debiti.
Conseguenze di un bilancio finale negativo: Non tutte le liquidazioni si concludono con un attivo da distribuire ai soci. Anzi, nelle società che cessano per difficoltà economiche è frequente che rimangano debiti insoddisfatti. Cosa accade in tal caso? Ecco le principali conseguenze:
- I creditori parzialmente pagati o non pagati rimangono tali: i loro crediti verso la società non scompaiono, ma diventano di fatto inesigibili verso la società, poiché l’ente non esiste più. Tecnicamente, i debiti sociali si considerano estinti in capo alla società estinta, tuttavia i creditori possono cercare tutela altrove (come vedremo, potranno agire contro soci o liquidatori in certi limiti).
- Se taluni creditori vantavano garanzie (ad esempio fideiussioni personali di soci, pegni, ipoteche su beni sociali), potranno attivarle: p.es. la banca potrà escutere la fideiussione dell’ex socio garante, un creditore ipotecario potrà aggredire il bene gravato (sebbene venduto in liquidazione, l’ipoteca segue il bene se il ricavato è insufficiente). I fornitori o finanziatori potrebbero anche valutare azioni risarcitorie verso amministratori o liquidatori, specialmente in caso di mala gestio.
- Responsabilità degli amministratori: un bilancio finale in passivo può innescare profili di responsabilità per chi ha gestito la società. Se emergono indizi di cattiva gestione o mala fede (ad esempio spese ingiustificate, distrazioni di denaro, omissione di atti dovuti), i creditori potrebbero chiamare in causa gli amministratori uscenti o il liquidatore per il risarcimento del danno. Si dovrà però provare che il mancato pagamento dei debiti è dipeso da loro colpa (si veda §4).
- Effetti sui soci: la sorte dei debiti residui dipende molto dalla forma giuridica della società. Nelle società di capitali (S.r.l., S.p.A.), vale il principio della responsabilità limitata: in generale i soci non rispondono con il loro patrimonio personale dei debiti sociali, salvo quanto previsto dall’art. 2495 c.c., cioè entro i limiti di ciò che hanno riscosso in liquidazione. Se però vi sono state operazioni pregiudizievoli (ad es. i soci hanno recuperato propri finanziamenti prima di pagare i creditori esterni), tali importi potrebbero essere contestati e richiesti indietro. Nelle società di persone (S.n.c., S.a.s.), i soci a responsabilità illimitata rimangono personalmente obbligati verso i creditori per l’intero, anche dopo la chiusura (approfondiremo nel §3).
- Controlli fiscali: un bilancio finale negativo può allertare l’Amministrazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate potrebbe avviare accertamenti per verificare se le perdite dichiarate siano reali o frutto di operazioni antieconomiche. Ad esempio, incongruenze tra i dati fiscali e i movimenti finanziari della società potrebbero far presumere occultamento di ricavi o distrazione di attività prima della chiusura.
Una volta ottenuta la cancellazione, la società è estinta e non figura più come soggetto giuridico nei rapporti di credito e debito. Questo però non significa che i debiti svaniscono nel nulla: semplicemente, non c’è più la società come controparte giuridica da perseguire. La legge predispone dei meccanismi affinché i creditori insoddisfatti possano rivalersi altrove (verso altri soggetti legati alla società). Nel prossimo paragrafo esamineremo proprio gli effetti dell’estinzione e a chi “passano” i debiti residui.
3. Effetti dell’estinzione: debiti e crediti dopo la cancellazione
L’art. 2495 del Codice Civile, come riformato nel 2003, regola espressamente cosa accade dopo la cancellazione di una società dal Registro delle Imprese. In sintesi: la società si estingue ed esce di scena, ma i rapporti giuridici non ancora definiti (debiti non pagati e crediti non riscossi) si trasferiscono in capo ad altri soggetti, secondo un meccanismo di tipo successorio. Vediamo i punti chiave:
- Estinzione della società: la cancellazione ha natura costitutiva, cioè determina l’estinzione definitiva dell’ente, anche se rimangono creditori da soddisfare. Dal momento in cui l’ufficio del Registro accoglie la domanda di cancellazione, la società non esiste più. Non è più possibile iniziare o proseguire cause legali contro di essa, né iscrivere ipoteche o pignoramenti a suo nome, perché manca il soggetto giuridico. La Cassazione a Sezioni Unite ha chiarito già nel 2010 che, per effetto della riforma, la società (di capitali o di persone) cessa di esistere al momento della cancellazione, senza eccezioni. Prima del 2004, la cancellazione era vista solo come dichiarativa e si riteneva che la società potesse essere “resuscitata” in certi casi per pagare debiti; tale interpretazione è superata. Oggi non si può far rivivere un ente estinto al fine di escutere i suoi debiti residui.
- Successione nei debiti e crediti non soddisfatti: ferma restando l’estinzione della società, i debiti sopravvissuti non sono cancellati ma “passano” ai soci. L’art. 2495 c.c. stabilisce infatti che “i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci” (entro certi limiti). Questo significa che la posizione debitoria della società defunta si trasferisce agli ex soci, in proporzione alle loro partecipazioni (successione pro quota). Analogamente, eventuali crediti attivi non incassati prima della chiusura si trasferiscono ai soci, che subentrano anche nel diritto di riscuoterli (tipicamente pro quota delle rispettive percentuali di capitale). In pratica, i soci assumono il ruolo che fu della società sia sul lato passivo (debiti) sia sul lato attivo (crediti), salvo le limitazioni di responsabilità che vedremo nel dettaglio nel §3.2. Questo fenomeno viene spesso descritto come una successione a titolo universale sui generis, paragonata all’eredità: la società estinta è come un defunto i cui rapporti patrimoniali fanno “capo” agli eredi-soci.
- Limite di responsabilità dei soci: la regola fondamentale è che i soci rispondono dei debiti sociali “fino alla concorrenza delle somme da essi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione” (art. 2495, comma 2, c.c.). Dunque la responsabilità patrimoniale degli ex soci è limitata a ciò che hanno eventualmente ottenuto dall’ultimo bilancio di liquidazione. Se un socio non ha ricevuto nulla perché non c’era attivo da distribuire, in linea generale non può essergli chiesto di pagare i debiti residui. Di contro, se un socio ha ricevuto, ad esempio, €10.000 di riparto finale, i creditori potranno rivalersi su di lui solo fino a €10.000. Questo principio tutela il socio non oltre il beneficio economico che ha tratto dalla liquidazione. Attenzione: come approfondiremo più avanti, la giurisprudenza più recente ha parzialmente rivisto l’operatività di tale limite, almeno in termini procedurali (onere della prova a carico di chi, ecc.), specialmente in ambito tributario (vedi §5). Resta però ferma la sostanza: un ex socio non può essere obbligato a versare ai creditori più di quanto abbia incassato dalla liquidazione.
- Responsabilità dei liquidatori: oltre ai soci, l’art. 2495 menziona esplicitamente anche i liquidatori come possibili destinatari delle pretese creditorie. In particolare, “qualora il mancato pagamento dei creditori sociali sia dipeso da colpa o dolo dei liquidatori”, questi ultimi possono essere chiamati a rispondere personalmente verso i creditori non soddisfatti. Si tratta di una responsabilità di natura risarcitoria (extracontrattuale) e suppone una condotta colpevole del liquidatore che abbia pregiudicato il pagamento dei debiti (ad esempio aver distribuito attivo ai soci senza prima pagare i creditori, o aver dilapidato beni sociali). Approfondiremo questa responsabilità nel §4. Per ora, è importante notare che la presenza di liquidatori in colpa non estende l’obbligo dei soci oltre il limite già detto: soci e liquidatori rispondono su piani diversi (i soci per obbligazione contrattuale ex legge, i liquidatori per fatto illecito).
- Notifiche e procedimenti pendenti: l’estinzione della società pone anche problemi pratici di notificazione e di continuità delle azioni legali. L’art. 2495, comma 3, c.c. prevede che eventuali atti giudiziari (es. citazioni, decreti ingiuntivi) indirizzati alla società estinta possano essere notificati presso l’ultima sede della società (sede risultante dal Registro). Ovviamente, a tale indirizzo non ci sarà più nessuno che rappresenti l’ente, quindi la notifica dovrà seguire le procedure per destinatario irreperibile (deposito in comune, ecc.). Inoltre, se era in corso un giudizio con parte la società, questo si interrompe per cessazione del soggetto; il processo potrà eventualmente proseguire con la riassunzione nei confronti dei soci, considerati successori a titolo universale. Ad esempio, se un creditore aveva fatto causa alla società e questa si estingue medio tempore, il creditore potrà riassumere la causa chiamando in giudizio gli ex soci quali successori nei rapporti debitori.
Riassumendo, dopo la cancellazione:
- La società non esiste più (estinta), quindi non può essere soggetto di diritti né obblighi.
- I debiti sociali insoddisfatti “sopravvivono” ma traslano sui soci, i quali diventano i nuovi debitori nei limiti di quanto eventualmente ricevuto in liquidazione.
- I creditori potranno agire solo contro questi nuovi soggetti (soci e/o liquidatori colpevoli), non più contro la società.
- La posizione dei soci è di debitori solidali tra loro verso i creditori: ciascun socio può essere chiamato a pagare l’intero debito sociale residuo (fino al suo limite di somma ricevuta), salvo poi rivalersi internamente sugli altri soci per la parte di competenza.
- La posizione dei liquidatori è di debitori verso i creditori sociali solo se c’è stata colpa nella gestione della liquidazione, con responsabilità di tipo aquiliano (per danno). Non c’è solidarietà giuridica tra soci e liquidatori, perché le fonti dell’obbligo sono diverse (contrattuale per i soci, da fatto illecito per i liquidatori). In ogni caso, il creditore non potrà ottenere doppio pagamento: se recupera dai soci, non potrà più agire sul liquidatore per la parte già ottenuta, e viceversa.
Nei paragrafi successivi esamineremo più analiticamente la responsabilità dei soci (distinguendo i casi di società di persone vs di capitali) e la responsabilità di liquidatori e amministratori. Prima però, è importante segnalare due speciali disposizioni di legge pensate per tutelare interessi generali in queste situazioni:
- Fallimento entro l’anno dalla cancellazione: se al momento della cancellazione la società era insolvente (ovvero incapace di pagare regolarmente i propri debiti), i creditori o il Pubblico Ministero possono chiedere comunque il fallimento (oggi liquidazione giudiziale ex D.lgs. 14/2019) della società entro 1 anno dalla cancellazione. Questa previsione (già art. 10 L.Fall., ora art. 33 Codice della Crisi) mira a impedire che imprenditori insolventi sfuggano alle procedure concorsuali eliminando l’ente. Se il fallimento viene aperto entro l’anno, la società è considerata esistente “in funzione del fallimento” e si riapre un capitolo: un curatore potrà eventualmente agire per recuperare attivo dai soci (se hanno percepito distribuzioni illegittime) o chiamare i responsabili in giudizio. Trascorso l’anno senza dichiarazione di fallimento, la società resta estinta definitivamente e non potrà più essere dichiarata fallita.
- Debiti tributari contestabili entro 5 anni: la legge fiscale (art. 28, comma 4, D.lgs. 175/2014) prevede che, ai soli fini tributari, la società estinta continui a essere considerata esistente per un periodo di 5 anni dopo la cancellazione, limitatamente all’attività di accertamento e riscossione dei tributi dovuti. In pratica l’Agenzia delle Entrate o l’Agente della Riscossione possono notificare avvisi di accertamento, cartelle o altri atti intestati alla società (presso la sede risultante) entro cinque anni dalla cancellazione, senza che ciò sia nullo per inesistenza del destinatario. È una fictio iuris per agevolare il Fisco: l’ente viene trattato come “fiscalmente vivo” in quel lasso di tempo, dopodiché anche a fini tributari esso è considerato inesistente. Ovviamente, una volta emesso l’atto nei confronti della società (entro il quinquennio), l’Amministrazione finanziaria dovrà poi rivolgersi agli eredi fiscali, cioè ai soci successori, per recuperare il dovuto (vedi §5). In sintesi, il Fisco ha tempo 5 anni per contestare imposte alla società defunta; passato questo periodo, non potrà più emanare nuovi atti impositivi a suo nome.
Fatte queste premesse generali sugli effetti dell’estinzione, passiamo ora ad approfondire chi risponde dei debiti e in quali limiti, distinguendo il caso dei soci (§3.1-3.3) e quello degli amministratori/liquidatori (§4).
3.1. Responsabilità patrimoniale dei soci
La responsabilità dei soci per i debiti di una società inattiva o estinta varia molto a seconda del tipo di società e del regime di responsabilità previsto in generale per quel tipo. Dobbiamo distinguere principalmente tra:
- Società di persone (ad esempio società in nome collettivo – S.n.c., e società in accomandita semplice – S.a.s.), prive di personalità giuridica, dove in genere i soci hanno responsabilità personale illimitata verso i debiti sociali.
- Società di capitali (S.r.l., S.p.A., società cooperative), dotate di personalità giuridica, nelle quali i soci godono di responsabilità limitata, rispondendo delle obbligazioni sociali nei limiti del capitale conferito.
Analizzeremo separatamente i due casi, per poi riassumere in una tabella comparativa.
Società di persone (S.n.c., S.a.s.)
Nelle società di persone vige il principio della responsabilità illimitata e solidale dei soci per le obbligazioni sociali, già durante la vita dell’ente. Ad esempio, nell’S.n.c. ogni socio risponde con tutto il suo patrimonio personale dei debiti della società, in solido con gli altri soci (art. 2291-2292 c.c.). Nella S.a.s., i soci accomandatari (quelli che amministrano) hanno parimenti responsabilità illimitata e solidale, mentre i soci accomandanti godono di responsabilità limitata alla quota conferita (salvo abbiano ingerito nella gestione, perdendo il beneficio).
Dopo l’estinzione di una società di persone, il regime di responsabilità non muta: i soci illimitatamente responsabili rimangono obbligati personalmente per i debiti sociali residui. In dottrina si ritiene che i debiti “sopravvissuti” si trasferiscano ai soci come obbligazioni civili proprie. In pratica:
- I creditori sociali non soddisfatti possono agire contro ciascun socio illimitatamente responsabile per l’intero importo del loro credito (trattandosi di obbligazione solidale). Ad esempio, se una S.n.c. estinta aveva €100.000 di debiti non pagati, un singolo creditore potrà chiedere l’intera somma a uno qualunque dei soci; quel socio dovrà pagare con il proprio patrimonio e solo successivamente potrà rivalersi sugli altri soci per le rispettive quote (diritto di regresso interno).
- Questa responsabilità post-estinzione è spesso definita sussidiaria: i creditori dovrebbero prima escutere l’attivo eventualmente rimasto alla società (anche se minima parte) e poi rivolgersi ai soci per la parte non soddisfatta. Tuttavia, dal momento che la società è estinta e non ha più un patrimonio separato, in pratica l’azione contro i soci diventa subito l’unica via reale per recuperare il credito.
- Un aspetto importante: anche se in teoria i soci di S.n.c. rispondono senza limiti, la giurisprudenza ha affermato che l’azione del creditore deve indicare l’importo effettivamente percepito da ciascun socio in liquidazione (nel caso vi sia stato riparto di attivo). Cioè, se il creditore sostiene che i soci hanno ricevuto somme, spetta a lui provare quanto e a chi è stato distribuito l’eventuale attivo. In assenza di attivo, comunque, nulla impedisce di chiedere al socio il pagamento integrale, visto che la sua responsabilità nella società di persone era originariamente illimitata.
- Soci accomandanti (S.a.s.): i soci accomandanti sono per legge responsabili limitatamente al capitale conferito (art. 2313 c.c.), e non partecipano alla gestione. Dopo la liquidazione, la loro responsabilità permane limitata, ma attenzione: se hanno ricevuto somme in sede di liquidazione, la loro responsabilità può estendersi fino a concorrenza di quanto percepito (lo prevede espressamente l’art. 2324 c.c.). In pratica, se un accomandante aveva conferito 5.000 € e in liquidazione riceve indietro 3.000 €, potrà rispondere verso i creditori fino a 3.000 € (anche oltre il “capitale versato”, in quanto gli è stato restituito in parte). Resta fermo che l’accomandante non risponde oltre le somme ricevute in liquidazione, né per debiti eccedenti l’attivo sociale (il cosiddetto “scudo” rimane per la parte eccedente).
- Prescrizione: l’azione dei creditori sociali verso i soci (illimitatamente responsabili) si prescrive in 10 anni, analogamente a qualsiasi diritto derivante da contratto sociale, decorrenti dalla data di estinzione o da quando il credito è divenuto esigibile. Per l’azione risarcitoria contro i liquidatori, invece, il termine è quinquennale (come vedremo al §4).
In conclusione, per le società di persone la cancellazione non offre un riparo ai soci dai debiti: chi era già personalmente responsabile prima, lo resta anche dopo, salvo che possa eccepire di non aver ricevuto beni dalla liquidazione (aspetto comunque irrilevante per un obbligato illimitato, se non per la ripartizione interna). La Cassazione ha definito “naturale” immaginare che i debiti insoddisfatti si trasferiscano ai successori (soci) come in una successione ereditaria. Addirittura, è stato osservato che, qualora un socio illimitato muoia a sua volta, i suoi eredi personali potrebbero essere chiamati a rispondere di quei debiti in via successoria (nei limiti dell’eventuale attivo ereditario).
Società di capitali (S.r.l., S.p.A., cooperative)
Nelle società di capitali vige il principio opposto: la separazione patrimoniale tra società e soci. I soci di una S.r.l. o S.p.A. non rispondono con il proprio patrimonio delle obbligazioni sociali, se non nei limiti dei conferimenti sottoscritti (art. 2462 c.c. per S.r.l., art. 2325 c.c. per S.p.A.). Questa è la responsabilità limitata che rende tali forme societarie attraenti per gli imprenditori: in caso di insolvenza, è il patrimonio sociale – non quello personale dei soci – a rispondere dei debiti.
Tuttavia, con l’estinzione della società, occorre contemperare questo principio con la tutela dei creditori residui. Perciò l’art. 2495 c.c. prevede la regola già citata: dopo la cancellazione, i creditori insoddisfatti possono agire contro i soci nei limiti delle somme da questi ricevute in liquidazione. Questo implica che i soci di S.r.l./S.p.A. subentrano nei debiti sociali solo intra vires, cioè limitatamente all’attivo di liquidazione eventualmente riscosso. Se durante la liquidazione non c’è stato alcun riparto a favore dei soci (perché tutto l’attivo è stato assorbito dai creditori o perché non vi era attivo), i soci – di regola – non possono essere obbligati a pagare di tasca propria i debiti rimasti. Invece, se hanno ricevuto un qualche importo, potranno doverlo restituire ai creditori fino a concorrenza di quell’importo.
Facciamo un esempio numerico per chiarezza: una S.r.l. in liquidazione vende i suoi beni, paga alcuni debiti e rimangono €50.000 che il liquidatore distribuisce tra i soci (poniamo €20.000 al socio A e €30.000 al socio B). Successivamente emergono o rimangono debiti non pagati per €80.000. In tal caso, i creditori potranno esigere fino a €50.000 complessivi dai soci: A potrà essere tenuto a pagare €20.000, B fino a €30.000, ossia ciascuno nei limiti di quanto ha incassato. I restanti €30.000 di debito non trovano più copertura (salvo eventuali responsabilità di altri soggetti, come il liquidatore se colpevole, o azioni revocatorie/fallimentari se attivate entro i termini). Se invece nessun socio ha ricevuto nulla (liquidazione chiusa a zero), nessun ex socio potrà essere perseguito per quei debiti. Il rischio dei creditori in una S.r.l. senza attivo finale è di non recuperare nulla, in virtù dello “scudo” della responsabilità limitata.
Occorre sottolineare che il creditore insoddisfatto che voglia agire contro i soci dovrà provare che i soci hanno effettivamente percepito delle somme in base al bilancio finale di liquidazione. L’onere probatorio, secondo l’orientamento tradizionale, grava sul creditore: spetterà a lui dimostrare l’esistenza e l’entità di un attivo distribuito ai soci, ad esempio producendo il bilancio finale o altri documenti. Se il creditore non fornisce tale prova, il socio convenuto potrà eccepire di non aver ricevuto nulla e quindi chiedere il rigetto della domanda. Questo aspetto è stato oggetto di dibattito giurisprudenziale, come vedremo nel §5 a proposito delle più recenti sentenze che hanno spostato in parte il baricentro dell’onere della prova.
E se il socio aveva versamenti ancora dovuti? Da notare che la limitazione di responsabilità è riferita ai conferimenti effettivamente eseguiti. Se al momento dello scioglimento vi erano parti di capitale non ancora versate dai soci (ad esempio versamenti per aumenti di capitale deliberati ma non eseguiti, o quote di S.r.l. non interamente liberate), i creditori sociali possono esigere dai soci tali importi non versati. L’art. 2462 c.c. infatti salvaguarda i creditori almeno fino a concorrenza del capitale sottoscritto. Dunque, un socio di S.r.l. che non aveva versato tutto il capitale potrebbe dover versare il residuo per coprire i debiti sociali, anche oltre il riparto finale. Generalmente però, prima di chiudere la liquidazione, il liquidatore richiede i versamenti ancora dovuti per destinare le somme ai creditori, quindi questa situazione si presenta di rado post-cancellazione.
Garanzie personali dei soci: va poi considerato che un socio di società di capitali potrebbe aver prestato garanzie personali per debiti della società (es. fideiussione bancaria, avallo su cambiali, ecc.). Tali garanzie restano valide ed escutibili indipendentemente dalla liquidazione. Quindi, se il socio era fideiussore verso un creditore, quest’ultimo potrà escutere la fideiussione e chiedergli il pagamento anche oltre le somme ricevute in liquidazione. In altre parole, l’accordo di garanzia è un vincolo distinto: il socio potrà essere obbligato in qualità di garante secondo i termini pattuiti, a nulla rilevando che come “socio ex art. 2495” non avrebbe dovuto pagare oltre. Il socio, dopo aver pagato in veste di garante, potrebbe semmai insinuarsi a sua volta tra i creditori sociali (ma se la società è estinta non c’è procedura; potrà tentare regresso verso altri coobbligati se presenti).
Tabella riepilogativa – Responsabilità dei soci dopo l’estinzione
Tipo di società | Responsabilità dei soci sui debiti residui |
---|---|
Società in nome collettivo (S.n.c.) | Soci illimitatamente e solidalmente responsabili di tutte le obbligazioni sociali. Dopo la cancellazione, i creditori possono escutere ciascun socio per l’intero debito; il socio che paga ha diritto di regresso sugli altri per la loro quota. |
Società in accomandita semplice (S.a.s.) – Accomandatari (soci gestori) | Come S.n.c.: soci accomandatari con responsabilità illimitata e solidale per i debiti sociali (anche post estinzione). Possono essere escussi per l’intero e poi rivalersi pro-quota sugli altri soci illimitati. |
Società in accomandita semplice (S.a.s.) – Accomandanti (soci capitalisti) | Responsabilità limitata alla quota conferita. Dopo l’estinzione, rispondono al massimo entro l’ammontare delle somme eventualmente ricevute in liquidazione (art. 2324 c.c.). Se non hanno ricevuto nulla, non sono tenuti a contribuire oltre il capitale già versato. Non rispondono per obbligazioni eccedenti l’attivo sociale. |
Società a responsabilità limitata (S.r.l.) | Soci limitamente responsabili: dopo la cancellazione rispondono solo entro il valore di quanto riscosso in sede di liquidazione (art. 2495 c.c.). Se il socio ha ricevuto ad es. €5.000, potrà dover restituire fino a €5.000 ai creditori insoddisfatti. Se non ha ricevuto nulla, di regola non risponde dei debiti residui (fatti salvi casi speciali, v. infra). |
Società per azioni (S.p.A.) | Come S.r.l.: azionisti responsabili nei limiti del patrimonio distribuito in liquidazione. In pratica, ogni azionista può essere chiamato a versare al creditore insoddisfatto fino all’importo liquidato per la sua azione. Nessuna responsabilità oltre quanto percepito (salvo garanzie personali o capitale non liberato). |
Società cooperative a capitale | Regime analogo alle S.p.A.: i soci cooperatori (generalmente limitatamente responsabili per legge speciale) rispondono fino alle quote sociali versate e ad eventuali rimborsi ricevuti in sede di liquidazione. Gli statuti non possono derogare in peius. In sostanza vale il principio di art. 2495 c.c. anche per le cooperative con patrimonio diviso in quote/azioni. |
Società in accomandita per azioni (S.a.p.a.) | I soci accomandatari sono illimitatamente responsabili (come in S.n.c.); i soci accomandanti rispondono limitatamente al capitale investito (come azionisti) e, post estinzione, solo fino alle somme eventualmente ricevute in liquidazione (come per accomandanti di S.a.s.). |
Caso particolare – S.r.l. a ristretta base sociale: la S.r.l. a base ristretta (pochissimi soci, spesso familiari) merita un cenno a parte. In tali società la giurisprudenza tributaria applica la “presunzione di distribuzione degli utili occulti”: se la società ha nascosto redditi, si presume che questi siano stati incamerati dai soci, data la compagine ristretta. La Corte di Cassazione ha esteso questo concetto anche alla responsabilità post estinzione: in caso di S.r.l. a base ristretta, i soci diventano responsabili dei debiti tributari non soddisfatti anche se non hanno ricevuto utili in sede di liquidazione, purché vi siano presunzioni gravi a loro carico. In altre parole, se il Fisco prova che la società aveva utili extracontabili (non dichiarati) e che questi con ogni probabilità sono stati goduti dai soci, allora potrà chiedere ai soci l’intero debito fiscale, indipendentemente dall’assenza di formali distribuzioni di utili. Si tratta di un orientamento sviluppato in ambito tributario (vedi §5), che di fatto tempera lo “scudo” della responsabilità limitata quando viene usato per evasione fiscale.
3.2. Riepilogo dal punto di vista del debitore (ex socio)
Dal punto di vista di un socio debitore che si trovi di fronte a richieste di pagamento dopo la chiusura della società, valgono questi principi generali:
- Se eri socio di una S.n.c. o accomandatario di S.a.s., eri già illimitatamente responsabile e continui ad esserlo: il creditore può legittimamente chiederti l’intero importo del debito residuo. Potrai poi cercare dagli altri soci il rimborso pro quota, ma intanto il tuo patrimonio personale è aggredibile. Non puoi opporre come difesa il fatto di non aver ricevuto nulla dalla liquidazione (quella è semmai una questione tra soci). L’unica parziale difesa è verificare che il creditore abbia effettivamente tentato di escutere eventuali cespiti sociali rimasti (se ce n’erano), ma data l’estinzione ciò è piuttosto teorico.
- Se eri socio accomandante di S.a.s. o socio di S.r.l./S.p.A., in linea di principio non dovresti pagare nulla di tasca tua oltre quanto hai ricevuto dallo scioglimento. Quindi, se non hai ritirato alcuna somma o bene, puoi opporre che la tua responsabilità è zero (salvo eccezioni come garanzie prestate). Se hai ritirato ad es. €10.000, quello è il massimo che potrai dover restituire.
- Il creditore insoddisfatto potrebbe farsi vivo con una richiesta di pagamento o un decreto ingiuntivo. È fondamentale esaminare le carte della liquidazione: se il creditore non indica alcuna distribuzione ai soci, potrai contestare la sua pretesa come infondata. Se invece cita un bilancio finale da cui risulta che hai incassato X euro, dovrai verificare se è corretto. In caso di contestazione giudiziale, prepara la documentazione: bilancio finale, piano di riparto, ecc. Sarà decisivo dimostrare l’entità (o l’assenza) del riparto a tuo favore.
- Attenzione ai casi in cui la giurisprudenza sposta l’onere probatorio: come vedremo nella parte tributaria (§5), la Cassazione ha affermato che la sola estinzione dell’ente basta per agire contro il socio, lasciando poi a quest’ultimo l’onere di provare di non aver ricevuto nulla. Quindi potresti ricevere richieste di pagamento anche senza che il creditore abbia provato il tuo arricchimento. In tali situazioni, sarà tuo compito attivo provare che non hai avuto distribuzioni (esibendo il bilancio finale a zero, o che la tua quota era interamente assorbita da perdite). Se non lo fai, rischi una condanna al pagamento. Dunque, è prudente conservare tutta la documentazione sociale anche dopo la chiusura, per poterla utilizzare in tua difesa.
- Se sei socio di una S.r.l. a base familiare o ristretta e la pretesa riguarda debiti fiscali, sappi che il Fisco potrebbe presumere che tu abbia beneficiato indirettamente di utili non dichiarati. In tal caso potresti essere chiamato a pagare anche se formalmente non hai ricevuto utili. In tuo favore potrai cercare di dimostrare che non vi sono stati arricchimenti occulti (operazione non semplice, spesso coinvolge presunzioni in mano all’Agenzia delle Entrate).
In ogni caso, il punto fermo rimane: un socio non può mai essere costretto a pagare più di quanto effettivamente percepito dalla liquidazione della società. Se una sentenza o un avviso ti chiedono più di tale importo, c’è spazio per una opposizione o impugnazione efficace. L’unica eccezione è data dalle garanzie personali: se hai firmato da garante, quell’impegno prescinde dal limite del riparto (pagherai quanto garantito, poi eventualmente subentrerai tu come creditore del residuo verso altri soci o verso la società – situazione ormai teorica).
Nel prossimo paragrafo esamineremo invece la posizione di amministratori e liquidatori, cioè coloro che hanno gestito la società inattiva o la sua chiusura, e che potrebbero essere chiamati in causa dai creditori.
4. Responsabilità di amministratori e liquidatori verso i creditori
Oltre ai soci, il diritto individua negli amministratori (prima dello scioglimento) e nei liquidatori (dopo lo scioglimento) altri possibili responsabili per i debiti non pagati di una società estinta. Si tratta però di una responsabilità di natura diversa rispetto a quella dei soci: non è fondata sul contratto sociale, bensì sul dovere di diligenza e correttezza che grava su amministratori/liquidatori nella gestione del patrimonio sociale. In pratica, se i debiti sono rimasti insoddisfatti a causa di condotte colpose o dolose di questi soggetti, essi ne rispondono a titolo di risarcimento del danno verso i creditori.
4.1. Doveri dei liquidatori nella liquidazione
Il liquidatore ha, per legge, il compito di liquidare il patrimonio sociale nell’interesse non dei soci (come in gestione ordinaria) ma principalmente dei creditori. Deve cioè convertire i beni in denaro e pagare i debiti rispettando la par condicio creditorum (uguaglianza dei creditori di pari grado) e le cause di prelazione. Solo dopo aver soddisfatto tutte le passività, può distribuire ai soci l’eventuale residuo. Questi obblighi derivano dagli artt. 2489 e 2491 c.c. e in generale dalle regole del mandato: il liquidatore deve agire con la diligenza professionale richiesta dalla natura dell’incarico (art. 1176 comma 2 c.c.).
Se il liquidatore non adempie correttamente ai suoi doveri e ciò causa un danno ai creditori (nella forma del mancato pagamento dei loro crediti), si configura la sua responsabilità personale ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c.. Questa responsabilità è di tipo extracontrattuale (o meglio “da contatto qualificato”), poiché si tratta della violazione di un dovere legale verso terzi e non di un’obbligazione assunta contrattualmente col creditore. In altre parole, il liquidatore risponde per fatto illecito (lesione del diritto di credito altrui).
Affinché un creditore possa ottenere un risarcimento dal liquidatore, deve provare una serie di elementi:
- Colpa (o dolo) del liquidatore: va dimostrato che il liquidatore ha tenuto un comportamento non diligente, violando i doveri del suo ufficio. La giurisprudenza ha individuato molteplici condotte colpose tipiche, tra cui: predisporre bilanci falsi; distribuire ai soci attivo che doveva andare ai creditori; omettere di attivarsi per realizzare beni o riscuotere crediti esigibili; svendere i beni sociali a prezzo vile; effettuare pagamenti preferenziali ad alcuni creditori trascurandone altri (violazione della par condicio); anticipare quote ai soci prima di estinguere le passività. Tutti questi comportamenti sono considerati inadempimenti colposi dei doveri del liquidatore. Ad esempio, se il liquidatore paga interamente un solo creditore chirografario usando tutto l’attivo e lascia altri creditori a zero, viola la par condicio e può essere ritenuto responsabile del danno verso i creditori pretermessi.
- Nesso causale con il mancato pagamento: il creditore deve poi provare che a causa di quella condotta del liquidatore il suo credito è rimasto insoddisfatto. Ad esempio, se c’era un bene sociale che poteva fruttare 50.000 € e il liquidatore l’ha venduto per 10.000 € a un terzo compiacente, il creditore deve dimostrare che per colpa di quella svendita egli non ha ricevuto (in tutto o in parte) quanto gli spettava. In pratica occorre far vedere che, senza l’errore del liquidatore, ci sarebbe stata una “massa attiva” sufficiente a pagare il credito (integralmente o parzialmente). Se invece la società era talmente insolvente che neppure una gestione perfetta avrebbe soddisfatto il creditore, non c’è danno imputabile al liquidatore.
- Conoscenza del credito: è necessario inoltre che il liquidatore fosse a conoscenza (o conoscibile con ordinaria diligenza) dell’esistenza di quel credito. Ad esempio, se il creditore non aveva mai insinuato il suo credito o era un debito latente non risultante dalle scritture, e il liquidatore in buona fede chiude senza saperlo, potrebbe non esserci colpa. Ma se il credito era noto (risultante da contabilità, o reclamato formalmente) il liquidatore non può ignorarlo lecitamente.
- Danno e quantificazione: infine, il creditore deve provare il danno sofferto, ossia l’importo del credito rimasto impagato che avrebbe potuto essere pagato senza la condotta negligente. Ad esempio, se la liquidazione ha fruttato 30.000 € usati male, e il creditore aveva un credito di 10.000 €, il danno sarà 10.000 € (se poteva essere pagato per intero). Se i crediti superavano comunque l’attivo, il danno potrà essere il mancato riparto pro quota. È una valutazione tecnico-contabile che spesso richiede perizie.
Questa azione contro il liquidatore non è semplice: l’onere probatorio a carico del creditore è piuttosto gravoso. Deve ricostruire l’ipotetico scenario “corretto” e dimostrare la differenza rispetto a quanto accaduto realmente. Di conseguenza, non tutte le negligenze daranno luogo a condanna: occorrono prove solide. Il creditore può comunque basarsi su presunzioni (ad es. un attivo distribuito ai soci anziché ai creditori crea una presunzione di danno per i creditori stessi).
Prescrizione dell’azione vs liquidatore: essendo un’azione di natura extracontrattuale (paragonabile a quella contro amministratori ex art. 2394 c.c.), essa si prescrive in 5 anni dal momento in cui la società è cancellata. La decorrenza di solito viene fatta coincidere con l’iscrizione della cancellazione nel Registro delle Imprese, perché è da quel momento che il creditore sa (o dovrebbe sapere) che non è stato pagato e può imputarlo al liquidatore. Dunque, un creditore insoddisfatto ha cinque anni di tempo per citare in giudizio il liquidatore chiedendone la responsabilità risarcitoria.
Importante: l’azione contro i liquidatori coesiste ed è cumulabile con quella contro i soci. Non c’è solidarietà tra soci e liquidatori (come detto), quindi il creditore può agire contro entrambi in parallelo. Tuttavia, egli non potrà in concreto incassare due volte per lo stesso credito: se ottiene soddisfazione dai soci (fino a concorrenza di quanto da essi dovuto), la sua pretesa risarcitoria verso il liquidatore si ridurrà o estinguerà di conseguenza, e viceversa. Ad esempio, se un creditore di €50.000 recupera €30.000 dai soci (limite del riparto), potrà chiedere al liquidatore solo i restanti €20.000 di danno (sempre che sussista colpa).
4.2. Responsabilità degli amministratori (fase precedente lo scioglimento)
Finora abbiamo parlato dei liquidatori in senso stretto (ovvero coloro che gestiscono la società dopo lo scioglimento fino alla cancellazione). Ma spesso le società inattive trascorrono un periodo più o meno lungo in cui non sono state messe in liquidazione pur essendo di fatto inerti. In tale fase, la gestione rimane affidata agli amministratori ordinari. Inoltre, prima dello scioglimento possono esservi state gestioni poco oculate che hanno condotto all’insolvenza. Occorre allora considerare anche la responsabilità degli amministratori per i debiti sociali in certe circostanze.
Gli amministratori in carica prima della liquidazione sono innanzitutto soggetti alle azioni di responsabilità tradizionali:
- l’azione sociale di responsabilità ex art. 2476 c.c. (per S.r.l.) o art. 2393 c.c. (per S.p.A.), esercitabile dalla società (o dal curatore fallimentare) per danni cagionati al patrimonio sociale;
- l’azione dei creditori sociali ex art. 2476 c.c. (S.r.l.) o art. 2394 c.c. (S.p.A.), qualora il patrimonio sociale risulti insufficiente a soddisfare i debiti per fatti imputabili a mala gestione degli amministratori. Questa seconda azione è concettualmente simile a quella contro i liquidatori: i creditori devono provare che la sottopatrimonializzazione dell’ente (cioè l’incapienza a pagare) è dovuta a violazioni dei doveri gestori da parte degli amministratori. Se riescono, gli amministratori rispondono verso i creditori per il danno (nei limiti del credito insoddisfatto). Spesso questa azione viene però esercitata dal curatore fallimentare in rappresentanza di tutti i creditori, in caso di fallimento. Fuori dal fallimento, i singoli creditori possono tentarla ma devono dimostrare la colpa grave degli amministratori nel dilapidare il patrimonio sociale.
Nel contesto di una società inattiva non ancora sciolta, può emergere un altro profilo: se gli amministratori omettono di attivarsi per la liquidazione quando vi sarebbero i presupposti (ad es. perdita del capitale nelle S.r.l./S.p.A., oppure inerzia totale), essi possono incorrere in responsabilità. In particolare:
- Nell’S.r.l./S.p.A., l’art. 2485 c.c. obbliga gli amministratori, al verificarsi di una causa di scioglimento (p.es. impossibilità di funzionamento, inattività protratta, perdite gravi, etc.), a convocare l’assemblea perché deliberi lo scioglimento e nomini i liquidatori. Se omettono di farlo, rispondono dei danni eventualmente derivati. Inoltre, dall’insorgere di una causa di scioglimento, gli amministratori devono astenersi da nuove operazioni (art. 2486 c.c.): se violano tale divieto, rispondono personalmente per gli atti compiuti. Ad esempio, se durante l’inattività hanno comunque assunto nuovi debiti sapendo che la società era destinata alla liquidazione, possono esserne ritenuti personalmente obbligati (la norma prevede una responsabilità illimitata per le operazioni compiute in violazione).
- Nell’S.n.c./S.a.s., analogamente, se l’attività è cessata di fatto, i soci amministratori dovrebbero attivare lo scioglimento. Se continuano ad operare, rischiano di obbligarsi personalmente per le operazioni fatte oltre lo scopo liquidatorio (molto dipende dall’assetto dei rapporti interni, ma il principio di buona fede impone di non aggravare la posizione dei creditori).
Amministratori durante la liquidazione: può accadere che gli amministratori originari rimangano in carica come liquidatori o che coadiuvino il liquidatore. L’art. 2489 c.c. richiama gli amministratori agli stessi doveri dei liquidatori nel passaggio di consegne. In qualunque caso, qualsiasi atto compiuto dagli amministratori dopo l’inizio della liquidazione deve rispettare i criteri di conservazione del patrimonio. Amministratori e liquidatori potrebbero dunque essere congiuntamente chiamati in giudizio da creditori se, ad esempio, hanno collaborato in operazioni distrattive durante la liquidazione.
Responsabilità tributarie specifiche degli amministratori: nel panorama fiscale, esiste una norma ad hoc, l’art. 36 D.P.R. 602/1973, che include anche gli amministratori tra i soggetti chiamati a rispondere di taluni debiti tributari in caso di liquidazione societaria. In particolare, gli amministratori che hanno assegnato beni ai soci nei due anni precedenti la liquidazione rispondono solidalmente con i soci stessi delle imposte dovute dalla società, nei limiti del valore di quei beni. Ciò mira a evitare che gli amministratori distribuiscano attivo ai soci senza pagare le tasse. Inoltre, se vi è stato un comportamento doloso per evadere imposte (ad es. occultamento di ricavi), l’amministratore potrebbe incorrere in sanzioni personali (anche penali, come reati tributari quali l’omesso versamento IVA, dichiarazione fraudolenta, ecc., se ne ricorrono gli estremi). Questi aspetti verranno meglio trattati nel §5 dedicato al profilo fiscale.
Sintesi per il debitore-amministratore: se sei un ex amministratore di una società inattiva/estinta e i creditori valutano di rivalersi su di te, i punti da considerare sono:
- Hai seguito correttamente le procedure di liquidazione? (Hai convocato tempestivamente la liquidazione? Hai evitato di fare nuove spese o preferenze tra creditori? Hai consegnato tutto al liquidatore?). Se sì, la tua posizione è più sicura. Se no, potresti essere accusato di mala gestio.
- Ci sono atti di gestione controversi nel periodo precedente la chiusura? (es. prelievi di cassa ingiustificati, vendite a prezzo irrisorio, pagamenti a te stesso o parti correlate poco prima di cessare l’attività). Tali atti possono essere contestati come indice di colpa grave o addirittura dolo, e portare a richieste di risarcimento o ad azioni revocatorie/fallimentari.
- Se la società è fallita entro l’anno dalla cancellazione (vedi sopra), come amministratore potresti essere chiamato in sede fallimentare per l’azione di responsabilità, o addirittura indagato per bancarotta (se emergono distrazioni di beni a danno dei creditori). La cancellazione volontaria di una società insolvente, con conseguente danno ai creditori, può configurare bancarotta fraudolenta pre-fallimentare, quindi è un terreno molto delicato.
- Tieni presente che, a differenza dei soci che hanno lo scudo del riparto limitato, tu come amministratore non hai un limite prefissato di importo: se un giudice accerta che per tua colpa nel gestire la liquidazione è venuto meno €100.000 che potevano pagare i creditori, potresti essere condannato a risarcire €100.000, col tuo patrimonio personale. La buona fede e la diligenza professionale sono la tua difesa principale. Documenta sempre le scelte compiute e le ragioni (es. se hai venduto un bene sotto costo, dimostra che hai fatto il possibile per ottenere offerte migliori e che quel prezzo era il massimo ottenibile in quelle condizioni).
- Sul fronte tributario, se l’Agenzia delle Entrate ti contesta responsabilità come amministratore (ex art. 36 DPR 602/73), verifica l’arco temporale: riguarda solo assegnazioni ai soci nei due anni pre-liquidazione. Se non hai fatto assegnazioni, puoi eccepire l’assenza del presupposto. Se le hai fatte ma le imposte non pagate eccedono il valore assegnato, la tua responsabilità è limitata a quel valore. In ogni caso, anche qui la condotta diligente (pagare prima le imposte dovute) ti avrebbe messo al riparo.
In conclusione, amministratori e liquidatori non rispondono di default di tutti i debiti come garanti universali, ma possono essere chiamati a rispondere quando c’è stata una gestione scorretta che ha leso le ragioni dei creditori. La legge, insomma, punisce chi chiude la società male (favorendo sé stesso o i soci a danno dei creditori). Viceversa, se la liquidazione è condotta correttamente e semplicemente l’attivo non basta per tutti, il liquidatore/amministratore diligente non è tenuto a rimetterci di tasca propria.
5. Il profilo fiscale dei debiti di società inattive/estinte
La chiusura di società con debiti fiscali (imposte non versate, accertamenti in corso, cartelle esattoriali) è un caso assai frequente. Il Fisco in Italia gode di alcune tutele particolari in queste circostanze, disciplinate sia da norme speciali sia da un orientamento giurisprudenziale consolidato. Esaminiamo quindi: (i) la responsabilità tributaria di soci, liquidatori e amministratori ex art. 36 D.P.R. 602/1973; (ii) la successione nei debiti tributari secondo l’art. 2495 c.c. e le relative evoluzioni giurisprudenziali; (iii) il regime delle sanzioni tributarie a carico dei soci; (iv) altre questioni fiscali come prescrizioni e accertamenti post chiusura.
5.1. Responsabilità ex art. 36 D.P.R. 602/1973 (assegnazioni ai soci negli ultimi due anni)
L’art. 36 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, intitolato “Responsabilità dei liquidatori, soci e amministratori per il pagamento delle imposte”, prevede una forma di responsabilità solidale e presuntiva finalizzata a tutelare l’Erario durante la fase di scioglimento di società. In particolare:
- Se negli ultimi due periodi d’imposta precedenti la messa in liquidazione i liquidatori (o gli amministratori) hanno assegnato o restituito denaro o beni ai soci, i soci beneficiari (nonché i liquidatori e amministratori stessi) diventano responsabili in solido del pagamento delle imposte dovute dalla società, nei limiti del valore di quanto ricevuto.
- Questa norma mira evidentemente a prevenire manovre elusive, ad es.: la società cessa l’attività, i gestori distribuiscono ai soci avanzo di cassa, e poi non pagano le ultime tasse dovute. L’art. 36 dispone che il Fisco può rifarsi su chi ha preso quei soldi/bene in prossimità della chiusura, considerandoli come una sorta di “garanti” fino a concorrenza del valore sottratto.
- La responsabilità ai sensi dell’art. 36 è solidale ma sussidiaria: significa che la società rimane debitrice principale dell’imposta; i soci/liquidatori costituiscono un secondo livello di obbligati. In genere, l’Agenzia delle Entrate o la Riscossione prima tenta sulla società (se ancora esistente o nei 5 anni di cui sopra) e, se non recupera, attiva la responsabilità solidale dei soci e organi.
- È importante notare che la responsabilità ex art. 36 non copre tutti i debiti fiscali indistintamente, ma solo quelli correlati alle operazioni di liquidazione. Più precisamente, riguarda imposte e sanzioni “dovute sulla base di atti emessi dall’amministrazione finanziaria in dipendenza delle operazioni di liquidazione” (così recita la norma). In pratica, tipicamente IVA, IRES, IRAP relative all’ultimo periodo di attività o alla liquidazione stessa. Ad esempio, se il liquidatore vende beni sociale generando una plusvalenza tassabile e poi distribuisce i proventi senza pagare l’imposta, l’art. 36 rende soci e liquidatore responsabili di quell’imposta.
- I limiti quantitativi sono chiari: ogni socio risponde fino al valore di denaro o beni ricevuti. Se il socio ha avuto €10.000 di restituzione capitale nel biennio pre-liquidazione, sarà tenuto al massimo a €10.000 di imposte (oltre eventualmente interessi e sanzioni commisurate a quell’importo). Il liquidatore e gli amministratori coinvolti potrebbero teoricamente rispondere per l’intero importo se i soci non sono escutibili (ma anche per loro vale il limite, riferito ai beni assegnati, che di solito finiscono ai soci; la loro colpa comunque li rende coobbligati).
- L’art. 36 configura una presunzione iuris et de iure di responsabilità quando ricorrono i presupposti: non è necessario per il Fisco provare l’intento fraudolento, basta l’assegnazione di beni ai soci nel periodo indicato perché scatti la responsabilità solidale. Il socio potrà eventualmente pagare e poi ricorrere in contenzioso sostenendo che quell’importo non era dovuto dall’ente, ma non può sottrarsi invocando ignoranza delle pendenze fiscali.
In sintesi, prima di distribuire qualunque attivo ai soci, il liquidatore dovrebbe sempre accantonare le somme per pagare le imposte dovute. Se non lo fa, sia lui che i soci beneficari ne risponderanno fino a concorrenza di quanto incassato. Dal punto di vista pratico: un socio che riceve fondi poco prima della chiusura dovrebbe tenere presente che su quelle somme può arrivare il Fisco a chiedere eventuali imposte arretrate. Conviene quindi verificare con i liquidatori la posizione fiscale finale della società (dichiarazioni presentate, eventuali accertamenti in corso) prima di “spendere” quel denaro.
5.2. Successione nei debiti tributari residuali (art. 2495 c.c.)
Al di fuori dell’art. 36 DPR 602/73 – che ha portata limitata – vi è poi la norma generale: anche i debiti tributari della società rientrano tra quelli che seguono il regime dell’art. 2495 c.c. In altre parole, dopo l’estinzione la stessa regola vista per i debiti verso fornitori o banche vale pure per i debiti verso l’Erario: i soci succedono nei debiti fiscali entro il limite di quanto hanno percepito in liquidazione. La Cassazione lo ha affermato chiaramente: l’obbligazione tributaria della società non si estingue con la cancellazione, ma “si trasferisce ai soci” limitatamente a quanto riscosso. Quindi, ad esempio, se dopo la chiusura emergono cartelle esattoriali per IVA non versata, i soci di S.r.l. ne rispondono pro quota come per qualunque altro credito sociale.
Fino a qualche anno fa, la giurisprudenza tributaria prevalente era rigorosa nell’applicare il limite: si riteneva che se i soci non avevano ricevuto nulla, essi non potessero essere obbligati per debiti fiscali della società estinta. Ad esempio, Cass. n. 31933/2019 e 28809/2019 confermavano che il Fisco può rivalersi sui soci solo se c’è stata distribuzione di attivo. In mancanza, i soci mantengono quello che si chiama “scudo societario”, cioè la protezione della responsabilità limitata. Anche alcune Commissioni Tributarie Regionali si erano espresse così: se il bilancio finale mostra zero attivo, i soci non sono tenuti a pagare i debiti tributari rimasti. Conseguentemente, si affermava che l’onere della prova incombeva sull’Amministrazione finanziaria: doveva essere l’Agenzia a provare la distribuzione di somme ai soci e la misura di tali somme.
Svolta giurisprudenziale (2022-2025): Tuttavia, di recente la Corte di Cassazione ha adottato un approccio più elastico e favorevole al Fisco, sviluppando alcuni importanti principi:
- Con ordinanza n. 20840 del 18/07/2023, la Cassazione (Sez. V tributaria) ha affrontato il caso di una S.r.l. a base ristretta cancellata nel 2011 con debiti tributari. Ha stabilito che i soci succedono nei debiti tributari verso l’Erario anche se in sede di liquidazione non hanno percepito utili, purché vi siano presunzioni gravi, precise e concordanti che quei soci abbiano beneficiato di utili extracontabili. In quel caso specifico (che riguardava vendite di immobili a prezzi antieconomici per evadere tasse), si è ritenuto corretto pretendere l’intero debito fiscale dai soci, indipendentemente da formali riparti. La CTR e la Cassazione hanno parlato di un “fenomeno successorio ex art. 2495 cc” per cui il socio resta responsabile del debito tributario per intero senza bisogno di prova di somme ricevute, almeno in presenza di elementi indiziari di distribuzione occulta di utili (il contesto era S.r.l. familiare, utili extrabilancio presunti distribuiti).
- Ancor più generale è il principio affermato dalla Cassazione con ordinanza n. 26184 del 7/10/2024: “la responsabilità dei soci della società di capitali per i debiti dell’ente estinto non può essere limitata al caso in cui essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione”. In altre parole, la Suprema Corte ha respinto la tesi che serva provare la quota attribuita al socio; basta l’avvenuta estinzione dell’ente per far proseguire l’azione nei confronti dei soci. I soci succedono nei rapporti debitori non definiti, salvo poi far valere il loro limite di responsabilità intra vires come eccezione difensiva. Questo è un punto cruciale: la circostanza che il socio abbia percepito somme non è una condizione per agire, ma semmai un limite all’obbligo di pagamento che il socio potrà opporre. La Cassazione richiama proprio una decisione delle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. n. 28709/2020) che aveva già consolidato questa impostazione. Dunque l’Agenzia delle Entrate può legittimamente notificare un avviso di accertamento a un ex socio per il totale del debito fiscale della società estinta, senza dover prima accertare l’entità dell’attivo liquidato. Sarà poi il socio, eventualmente, a dimostrare di non aver ricevuto nulla o di aver ricevuto meno, per limitare o azzerare la propria responsabilità. La Cassazione nel 2024 ha quindi cassato le decisioni dei giudici tributari che avevano annullato avvisi al socio per “difetto di motivazione” dovuto alla mancata indicazione della quota liquidata: non occorre indicarla in avviso, basta dire che la società è estinta e quantificare il debito, il resto attiene alla prova in giudizio.
- Le Sezioni Unite Civili sono intervenute di recente proprio sul tema tributario con la sentenza n. 3625/2025 (depositata presumibilmente a inizio 2025): hanno ribadito che l’interesse dell’Erario a recuperare i tributi dovuti “non è precluso” dalla mancanza di somme formalmente riscosse dai soci. In altre parole, anche in assenza di distribuzione documentata, se vi sono elementi concreti che i soci abbiano beneficiato di valori patrimoniali dell’ente (es. beni non contabilizzati poi transitati a loro, escussione di garanzie post liquidazione a loro vantaggio, utilità extracontabili), l’Amministrazione può agire comunque. Le Sezioni Unite affermano anche un altro principio procedurale importante: in caso di contenzioso, il presupposto dell’“avere riscosso somme” deve essere accertato specificamente per ciascun socio; un eventuale accertamento svolto in capo alla sola società non si trasferisce automaticamente sui soci. Ciò significa che se il Fisco fa un processo tributario contro la società e vince, poi nel processo contro i soci non può limitarsi a richiamare quella sentenza, ma deve comunque provare la posizione di ciascun socio (il debito e la misura del beneficio ricevuto o presunto). Questo tutela i soci da automatismi sanzionatori.
Responsabilità dei liquidatori per imposte non pagate: accanto ai soci, l’art. 36 DPR 602/73 contempla anche i liquidatori e amministratori come responsabili delle imposte dovute dalla società, entro il valore dei beni assegnati ai soci. Nella vicenda decisa con Cass. ord. 20840/2023, ad esempio, il liquidatore (che era anche socio di maggioranza indirettamente) è stato ritenuto responsabile perché consapevole di operazioni mirate a sottrarre materia imponibile. Ma attenzione: questa responsabilità ex art. 36 è autonoma e non discende dalla cancellazione. Infatti, come dichiarato in quella sede, non si tratta di successione o coobbligazione per effetto della cancellazione, bensì di una fattispecie distinta che richiede i suoi presupposti (assegnazioni nel biennio). In pratica, il Fisco ha due strade: l’azione ex art. 36 (per colpire liquidatore/soci su assegnazioni recenti) e l’azione ex art. 2495 c.c. (successione generale nei debiti tributari). Spesso le utilizza entrambe in via cumulativa nei confronti di soci e liquidatori.
5.3. Sanzioni tributarie e soci
Un aspetto peculiare riguarda le sanzioni amministrative tributarie (multe per violazioni fiscali, es. omessa fatturazione, infedele dichiarazione, ecc.). La regola generale (art. 7 D.L. 269/2003, convertito in L. 326/2003) stabilisce che le sanzioni fiscali colpiscono solo il trasgressore, e non possono essere trasferite ad altri che non abbiano tratto vantaggio dalla violazione. Ciò significa che, in linea di principio, le sanzioni irrogate alla società per violazioni commesse dalla società non dovrebbero ricadere sui soci, essendo soggetto diverso. Ad esempio, se la società è punita per omessa fatturazione con €10.000 di sanzione, una volta estinta quella sanzione non dovrebbe automaticamente trasferirsi ai soci. La Cassazione (sent. n. 13730/2015) ha confermato che le sanzioni tributarie riguardano solo la persona giuridica, a meno che una specifica norma non ne preveda l’estensione.
Tuttavia, proprio invocando l’art. 7 DL 269/2003 (che vieta di punire chi non ha vantaggio), la giurisprudenza ha elaborato una soluzione: se il socio succede nel debito d’imposta, succede anche nel debito per sanzione, ma sempre entro il limite di quanto ha percepito. In questo modo, si evita che il socio sia gravato da sanzioni eccedenti il beneficio ottenuto dalla violazione. Cass. n. 23341/2024 ha precisato che i soci di società estinte rispondono delle sanzioni tributarie collegate a quei debiti fiscali, ma solo entro il medesimo limite di responsabilità (somme percepite). Se si imponesse loro di pagare sanzioni più elevate delle somme ricevute, ciò contrasterebbe con il principio di non punibilità di soggetti “terzi” che non hanno tratto vantaggio. In pratica: se la società aveva evaso 100 di imposta e subìto 50 di sanzione, e un socio aveva ricevuto 30 in liquidazione, l’Agenzia Entrate può chiedere a quel socio al massimo 30 (anche se tra imposta e sanzione il debito sarebbe 150). In questo senso, la responsabilità per sanzioni ricalca quella per imposte, senza eccederla. È un bilanciamento equo: il socio non può usarlo come scudo totale (perché sanzioni e imposte spesso vanno insieme come atto unico), ma non può neppure essere punito oltre il vantaggio.
Va aggiunto che, se un socio non ha avuto alcun beneficio e non ha concorso nella violazione, c’è argomento per sostenere che nessuna sanzione gli sia dovuta applicare (anche come successore). Difatti, se la società è estinta e i soci non hanno percepito nulla, far pagare a loro una sanzione significherebbe punire persone che non hanno tratto vantaggio e magari nemmeno hanno commesso l’illecito (quest’ultimo, essendo una violazione amministrativa, resta a carico dell’ente ormai estinto). La prassi dell’Agenzia in genere comunque pretende la sanzione insieme all’imposta dai soci successori, e starà al giudice eventualmente disapplicare per la parte sanzionatoria se ritiene.
Riassumendo il profilo fiscale: per un debitore-socio di società estinta, le seguenti situazioni possono presentarsi:
- Imposte dovute su dichiarazioni o accertamenti definitivi prima della chiusura: l’Agenzia Riscossione può emettere cartelle intestate alla società entro 5 anni dalla cancellazione. Se la cartella non viene pagata (ovviamente, la società non paga perché non esiste o non ha beni), il Fisco potrà notificare ai soci una comunicazione di responsabilità o un avviso ad personam, chiedendo il pagamento pro quota. In difetto, potrà procedere con azioni esecutive sui beni personali dei soci fino al limite del riparto ottenuto (salvo prova contraria). I soci potranno opporsi ex art. 2495 c.c., sostenendo di non aver percepito nulla, se è il caso.
- Accertamenti d’imposta notificati dopo la cancellazione: l’Agenzia può notificarli alla società (presso la sede) entro 5 anni e spesso contesta contestualmente ai soci (inviando copia per conoscenza, oppure direttamente intesta ai soci citandoli come eredi fiscali). In giudizio, il socio può far valere l’inesistenza della notifica se non conforme (molto tecnico), oppure entrare nel merito ma sempre ricordando il limite della sua responsabilità. Secondo Cass. 2024, l’accertamento non deve dettagliare il riparto, ma in giudizio il socio potrà chiedere che sia accertato quell’aspetto.
- Cartelle per omessi versamenti contributivi (INPS) o IVA non versata: analoghe alle imposte, rientrano nei debiti sociali. Qui non c’è art. 36, ma comunque la regola ex art. 2495 c.c. si applica (il socio risponde intra vires). Da notare: per l’IVA non versata, se supera certe soglie e ricade in reato (omesso versamento IVA > soglia penalmente rilevante), la responsabilità penale è dell’amministratore legale rappresentante al tempo, non del socio (a meno che non coincida). Quindi, penalmente il socio non ha colpa di per sé, ma civilmente può subire la richiesta di pagamento come successore nei debiti IVA.
- Sanzioni da processi verbali o avvisi: come detto, in genere vengono richieste insieme alle imposte. Il socio può eccepire la non trasferibilità delle sanzioni al di fuori del limite dell’attivo percepito. Se non ha percepito nulla, può chiedere l’annullamento della parte sanzionatoria (magari non di quella impositiva se la legge gliela fa succedere).
- Contenzioso pendente: se la società aveva fatto ricorso contro un avviso e poi è estinta, quel processo può proseguire con i soci. Questi dovranno subentrare (se vogliono proseguire) o il ricorso rischia estinzione. Subentrando, ne assumono oneri e benefici. Se c’è già una sentenza contro la società, attenzione: se definitiva, il Fisco potrebbe passare alla riscossione contro i soci direttamente, ma i soci potranno sempre opporre il loro limite.
In conclusione, la posizione del socio debitore verso il Fisco è più insidiosa rispetto ai creditori privati, perché:
- Il Fisco ha strumenti specifici (art. 36) che gli consentono di colpire i soci anche senza dimostrare nulla, entro certi limiti.
- La giurisprudenza gli ha semplificato la strada, permettendogli di agire senza dover provare l’avvenuto riparto: è il socio che deve attivarsi per negarlo.
- Ci sono le sanzioni, che possono gonfiare l’importo richiesto, sebbene limitate come visto.
- Esiste inoltre una sorta di previsione anti furbetti: in alcune pronunce si è affermato che rinunciare volontariamente all’attivo di liquidazione non salva il socio dalle responsabilità – ad esempio, se un socio formalmente rinuncia alla quota finale e la lascia alla società (che però poi viene cancellata ugualmente con debiti), non può poi dire “non ho ricevuto nulla quindi non pago”: si potrebbe obiettare che la rinuncia era strumentale e comunque quell’attivo è andato disperso. Insomma, meglio non pensare di fare i furbi rinunciando all’ultimo per evitare l’Erario, potrebbe non funzionare.
Nota: tutto quanto sopra si inquadra nel punto di vista del debitore. Dal lato opposto, i creditori (incluso il Fisco) hanno comunque tempi e oneri da rispettare. Ad esempio, il creditore privato ha 10 anni per agire contro i soci; l’Agenzia ha 5 anni per notificare atti alla società e poi deve comunque coinvolgere i soci entro la prescrizione ordinaria del tributo. Inoltre, se un creditore era totalmente ignaro della chiusura e si attiva tardivamente, potrebbe avere difficoltà probatorie. Per il debitore ex socio è dunque essenziale: mantenere documentazione, conoscere i propri diritti (limiti importo, onere della prova invertito in giudizio), e se del caso farsi assistere per contestare pretese eccessive o infondate.
6. Casi pratici e simulazioni
In questa sezione presentiamo alcuni esempi pratici per illustrare l’applicazione concreta dei principi esposti, in diversi scenari tipici.
Esempio 1 – Società di persone estinta con debiti residui: Mario e Lucia erano soci di una S.n.c. che, dopo aver liquidato tutti i beni, ha chiuso con un debito residuo di €100.000 verso fornitori. Durante la liquidazione, Mario ha ricevuto €10.000 di attivo (restituzione di parte del capitale), Lucia €40.000. I fornitori creditori possono ora esigere l’intero €100.000 indifferentemente da Mario o Lucia, essendo entrambi obbligati solidalmente (responsabilità illimitata). Poniamo che un fornitore aggredisca Mario e riesca a fargli pagare €100.000 (magari perché Mario ha beni aggredibili mentre Lucia no). Mario, dopo aver pagato tutto, potrà esercitare il diritto di regresso contro Lucia: siccome inizialmente le loro percentuali di capitale erano 50%-50%, Mario potrà chiedere a Lucia €50.000 (la metà del totale) in modo che, alla fine, ognuno sopporti €50.000. Se però Lucia è insolvibile o irreperibile, Mario potrebbe rimanere caricato dell’intera perdita. Ciò evidenzia il rischio per un socio illimitato: risponde anche per la parte altrui se l’altro non paga. – Variante: se Mario e Lucia non avessero ricevuto nulla in liquidazione (perché la S.n.c. ha pagato parte dei debiti e si è estinta a zero attivo), i creditori comunque li possono escutere per €100.000; la differenza è che Mario e Lucia potranno poi suddividere l’esborso a metà tra loro. – Variante 2: se Mario fosse deceduto dopo la cancellazione, i creditori potrebbero rivolgersi agli eredi di Mario (nei limiti dell’eredità accettata) e ovviamente anche a Lucia per l’intero. Ciò perché la responsabilità illimitata segue la logica successoria (i debiti “seguono” il socio anche post mortem). – Variante 3: se i soci illimitati rinunciassero volontariamente alle somme di liquidazione per darli ai creditori, ovviamente ridurrebbero i debiti residui. Se rinunciano e i liquidatori comunque non pagano i creditori, la loro responsabilità resta (non basta rinunciare all’attivo per non pagare i debiti, bisogna assicurarsi che quell’attivo vada effettivamente ai creditori).
Esempio 2 – S.r.l. estinta: soci con attivo vs soci senza attivo: La società Beta S.r.l. si liquida e cancella. Dal bilancio finale risultano €50.000 di attivo distribuiti: €20.000 al socio Anna, €30.000 al socio Bruno (in proporzione alle quote). Dopo un anno, spunta un debito tributario non pagato di €80.000 (magari un accertamento per IRAP notificato entro i 5 anni). L’Agenzia Entrate può agire verso Anna e Bruno complessivamente fino a €50.000 (non oltre, perché quello era l’attivo effettivamente uscito). In particolare, Anna potrà essere chiamata a pagare al massimo €20.000, Bruno al massimo €30.000. L’Erario può chiedere a ciascuno il suo importo o anche a uno solo il totale di €50.000 (in tal caso quel socio avrebbe diritto di rivalsa sull’altro). Il residuo debito di €30.000 resterebbe in pratica insoddisfatto (a meno di responsabilità del liquidatore, se ad esempio ha colpevolmente taciuto quell’imposta: in tal caso, l’Agenzia potrebbe tentare di imputare a lui quel danno). – Variante: se né Anna né Bruno avessero ricevuto nulla (caso di liquidazione a saldo zero), la regola generale dice che nessuno dei due può essere obbligato a pagare i €80.000. Il Fisco rimarrebbe con un credito verso la società ormai inesigibile e non potrebbe, in teoria, chiedere nulla ai soci. Questo scenario però presuppone che non vi siano “elementi ulteriori”: se, ad esempio, l’Agenzia prova che Bruno in realtà si è fatto intestare un bene della società prima di chiudere (per valore €30.000), potrebbe sostenere che quell’immobile è un valore passato a Bruno e tentare di escuterlo come “trasferimento occulto” ai sensi dei nuovi orientamenti. Dunque l’assenza di prelievi formali non esclude possibili azioni se emergono benefici sostanziali per i soci (in linea con Cass. SS.UU. 2025). – Variante 2: se Beta S.r.l. invece di liquidarsi fosse stata fusa in Gamma S.p.A., i debiti tributari di Beta sarebbero passati per intero a Gamma (società incorporante), la quale li avrebbe dovuti pagare. Gamma a sua volta, dopo aver pagato, non potrebbe rivalersi sugli ex soci di Beta se non per eventuali garanzie da questi prestate o conferimenti non versati. Nel caso di fusione, infatti, l’incorporante succede in tutto: i soci di Beta escono dall’operazione di solito con azioni di Gamma, e Beta sparisce. Gamma assume i debiti illimitatamente (non c’è limite di attivo, perché in fusione non c’è liquidazione distributiva). L’unico scenario in cui potrebbe rifarsi è se, p.es., vi era un patto di manleva con gli ex soci di Beta o se questi non avevano liberato interamente il capitale e Gamma ha dovuto coprirlo.
Esempio 3 – Liquidatore in colpa: La Delta S.r.l. chiude con un attivo di €40.000. Il liquidatore, Carlo, distribuisce tutto ai soci invece di pagare un debito verso un fornitore di €30.000 di cui era a conoscenza. La società si cancella e il fornitore resta impagato. Ora, in base all’art. 2495 c.c., il fornitore può chiedere ai soci la restituzione dei €40.000 (complessivi) ricevuti in liquidazione: supponiamo che incassi dai soci €30.000 (il suo dovuto, i soci pagano proporzionalmente). A questo punto il suo credito è soddisfatto, quindi non potrà più chiedere danni al liquidatore. Ma immaginiamo che i soci fossero insolventi o che il fornitore riesca a recuperare solo €10.000 dai soci: gli restano €20.000 di perdita. Egli può allora agire in giudizio contro Carlo (liquidatore) per ottenere il risarcimento di quei €20.000, sostenendo che per colpa di Carlo non li ha avuti (se Carlo avesse pagato prima lui, non ci sarebbe stato danno). Dovrà provare che Carlo conosceva il debito ed aveva liquidità per soddisfarlo, ma ha preferito distribuire ai soci, violando il principio di parità tra creditori. Se riesce a dimostrarlo (il bilancio finale lo attesta: c’era attivo 40k, debito 30k, distribuito ai soci, ergo c’è violazione palese), Carlo verrà probabilmente condannato a risarcire i €20.000 mancanti più interessi. Questa condanna è personale su Carlo; i soci non c’entrano. – Variante: se Carlo avesse anche lui ricevuto una parte dell’attivo come socio, il creditore potrebbe agire contro Carlo in duplice veste: come ex socio (entro la sua parte ricevuta) e come liquidatore (per l’eventuale eccedenza dovuta a colpa). – Variante 2: se l’attivo distribuito era minore del debito (es. attivo 20k distribuito, debito 30k), i soci pagheranno 20k e Carlo potrà essere condannato per 10k di danno residuo se si prova che ha mal gestito (per es. venduto male i beni, riducendo l’attivo che poteva essere maggiore). Deve però emergere che, senza la sua colpa, l’attivo sarebbe stato almeno 30k sufficiente per intero. – Variante 3: se Carlo dimostra che anche pagando in modo corretto non avrebbe comunque soddisfatto il creditore (es. c’erano altri creditori di pari grado e tutti hanno avuto solo una percentuale, oppure l’attivo totale era comunque insufficiente), potrà evitare la condanna perché manca il nesso di causa.
Esempio 4 – Debiti tributari e soci di società estinta: La società Epsilon S.r.l. viene cancellata nel 2022. Nel 2023 viene notificato ai suoi due ex soci, Fabio e Giulia, un avviso di accertamento per IVA evasa anno 2021, intestato ancora alla società (che risulta estinta). Fabio e Giulia fanno ricorso in Commissione Tributaria. Nel frattempo però l’Agenzia iscrive a ruolo €50.000 (imposta+interessi) e €60.000 di sanzioni, e notifica ai soci due cartelle “pro quota” da €25.000 imposta + €30.000 sanzioni ciascuna. I soci, in giudizio, eccepiscono: (a) che la società è estinta e quindi essi non devono nulla perché non hanno ricevuto attivo; (b) che in ogni caso le sanzioni non possono eccedere quanto eventualmente ricevuto. Se risulta che Fabio e Giulia non hanno ricevuto alcuna distribuzione (mettiamo che la società chiuse a zero), secondo la giurisprudenza più recente l’Agenzia poteva comunque agire (estinzione di per sé legittima l’azione verso i soci), ma i soci in giudizio proveranno l’assenza di riparti. Se il giudice accoglie la loro tesi tradizionale, annullerà le cartelle perché i soci non avevano percepito utili. Se invece applica la nuova linea, potrebbe confermare l’imposta a carico dei soci, dichiarando però non dovute le sanzioni (perché i soci non hanno tratto vantaggio e comunque nulla hanno ricevuto). In pratica Fabio e Giulia potrebbero essere condannati a pagare €25.000 ciascuno di imposta (totale 50k, coincidente con l’attivo che il Fisco presume fosse occultato) ma non i €30.000 di sanzioni ciascuno. Di fatto, ciò equivarrebbe a far pagare loro l’imposta evasa pro quota, come se quell’evasione fosse un utilità di cui hanno beneficiato (presunzione di utili nascosti). – Variante: se Fabio e Giulia avessero invece ricevuto ad es. €10.000 ciascuno in liquidazione, la loro responsabilità massima è 10k a testa. Il Fisco però inizialmente può chiedere tutto (come ha fatto con 25k). In giudizio sicuramente i soci otterranno la riduzione delle cartelle ai rispettivi 10k. – Variante 2: se uno dei due soci aveva garantito un debito IVA della società con fideiussione, quel socio potrebbe dover pagare l’intero debito come garante, e poi rivalersi sull’altro socio per la sua parte. Ma questo esula dalla vicenda fiscale diretta e rientra nelle regole civilistiche delle garanzie.
Questi esempi evidenziano l’importanza, per chi chiude una società con debiti, di essere consapevole delle possibili conseguenze e di agire con prudenza e trasparenza. Nel dubbio, è sempre consigliabile coinvolgere i creditori noti nel processo di liquidazione (ad esempio comunicando loro l’intenzione di chiudere e magari concordando un saldo e stralcio), e di certo onorare i debiti fiscali o lasciare fondi a copertura, perché l’Erario ha lunga memoria e strumenti efficaci di recupero.
7. Domande frequenti (FAQ)
Di seguito una serie di domande e risposte sintetiche sui punti chiave trattati, utili per chiarire dubbi comuni:
- D: Dopo la cancellazione, il socio risponde automaticamente di tutti i debiti della società?
R: No, non automaticamente per tutti e non illimitatamente. Il socio di norma risponde solo dei debiti residui e solo entro il valore delle somme o beni ricevuti in liquidazione (art. 2495 c.c.). Se il socio non ha ricevuto nulla dall’attivo finale, in linea generale non può essere obbligato a pagare i creditori sociali, salvo situazioni particolari (es. garanzie personali prestate, o atti illeciti). Ogni debito sociale rimasto dopo la chiusura viene “trasferito” ai soci pro quota, ma con responsabilità solidale e limitata al riparto percepito. Ciò significa che il creditore può chiedere a un socio qualsiasi l’intero importo (fino al suo limite) e poi i soci si regoleranno fra loro per la divisione in base a quanto ciascuno ha preso. In sintesi: il socio risponde sì dei debiti residui, ma solo entro il valore di attivo liquidato che ha ottenuto. - D: Posso chiudere una società che ha ancora debiti?
R: Sì, la legge non impedisce di cancellare una società pur in presenza di debiti non pagati (succede spesso). La cancellazione estingue comunque l’ente. Tuttavia, devono essere rispettate le regole della liquidazione: il liquidatore deve aver fatto il possibile per pagare i creditori con le risorse disponibili. Se volontariamente non paga i debiti e distribuisce ai soci, commette un illecito e potrà esserne chiamato a rispondere. Se i debiti non sono stati pagati semplicemente perché non c’erano abbastanza fondi, la società può essere chiusa lo stesso, ma i creditori insoddisfatti avranno i rimedi contro soci e liquidatori descritti (ex art. 2495 c.c., fallimento entro un anno, ecc.). In pratica, chiudere con debiti è possibile ma non li elimina: li sposta soltanto su altre teste. Bisogna valutare caso per caso se sia opportuno chiudere comunque (ad es. per cessata attività e impossibilità di risanare) o avviare altre procedure (p.es. un accordo coi creditori o un fallimento volontario se l’insolvenza è grave). - D: In quali casi i soci rispondono di debiti verso il Fisco?
R: Principalmente in due ipotesi: (1) se hanno ricevuto utili o beni sociali nei due anni prima della liquidazione, rispondono solidalmente delle imposte e sanzioni relative a quei utili (art. 36 D.P.R. 602/73); (2) per i debiti tributari residui della società (imposte non pagate, accertamenti, ecc.), l’Amministrazione finanziaria può rivalersi sui soci nei limiti di quanto percepito in liquidazione, al pari di qualsiasi altro creditore (art. 2495 c.c.). Quindi la regola base resta: solo se il socio ha incassato una quota può essere chiamato a rispondere di quella quota verso il Fisco. Attenzione: come spiegato nel §5, sentenze recenti (Cass. 20840/2023, SS.UU. 3625/2025) hanno precisato che anche in assenza di distribuzione formale di attivo il Fisco può agire contro i soci se prova che ci sono stati altri vantaggi patrimoniali in capo ad essi (es. beni trasferiti, utili occulti). Però, senza prove di ciò e senza utili distribuiti, il socio non risponde delle imposte non pagate. Inoltre i soci non possono essere chiamati a pagare più imposte o sanzioni di quanto abbiano eventualmente ricevuto (principio di capacità contributiva e norma antielusiva). - D: Cosa succede se la società fallisce entro un anno dalla cancellazione?
R: In base all’art. 33 del Codice della Crisi (prima art. 10 L. Fall.), se la società era insolvente al momento della cancellazione, i creditori possono chiederne il fallimento (liquidazione giudiziale) entro un anno. In tal caso, la società “resuscita” ai soli fini del fallimento: il tribunale dichiara il fallimento della società come se fosse ancora esistente, nomina un curatore e si attiva la procedura concorsuale. Il fallimento assicura la par condicio tra creditori e consente eventualmente azioni di recupero straordinarie (revocatorie, ecc.). Per il socio debitore questo significa che le azioni individuali contro di lui (ex art. 2495) vengono sospese: i creditori devono partecipare al passivo del fallimento e non possono perseguitare direttamente i soci durante la procedura. Se dal fallimento i creditori ottengono soddisfazione parziale, dopo la chiusura potranno eventualmente agire sui soci per l’eventuale differenza, sempre nei limiti del riparto avuto dai soci. Va notato che il fallimento fa scattare anche possibili responsabilità penali (bancarotta) a carico di amministratori e talvolta soci di fatto: quindi se l’insolvenza è grave, spesso per gli ex gestori è preferibile affrontare un fallimento ordinato piuttosto che tentare una cancellazione “sbrigativa” con rischio di bancarotta. Trascorso l’anno senza fallimento, la società resta considerata estinta a tutti gli effetti e i creditori rimasti dovranno accontentarsi delle azioni contro soci e liquidatori. - D: Se la società è stata incorporata in un’altra, chi paga i debiti residui?
R: Nel caso di fusione per incorporazione, la società incorporata si estingue e tutti i suoi rapporti attivi e passivi vengono trasferiti in capo alla società incorporante (o a quella risultante dalla fusione, se entrambe si estinguono per formarne una nuova). La Cassazione ha confermato che la fusione non è un semplice cambio di nome, ma un vero evento estintivo-successorio: l’incorporante subentra in tutti i rapporti giuridici dell’incorporata. Ciò significa che i debiti della vecchia società dovrà pagarli la nuova società (incorporante). Dunque, sarà quest’ultima il bersaglio di eventuali azioni dei creditori o del Fisco. Gli ex soci della società incorporata, invece, in genere ricevono azioni o quote della incorporante come corrispettivo della fusione, ma non ricevono distribuzioni di attivo (non c’è liquidazione). Pertanto, di regola non potranno essere chiamati a rispondere dei debiti dell’incorporata, perché tali debiti ora gravano sull’incorporante (che ha anche ereditato tutto l’attivo dell’incorporata). L’unico limite applicabile è che, se nell’ambito della fusione vi fosse stato un conguaglio in denaro o una distribuzione atipica di attivo agli ex soci, quell’operazione potrebbe essere vista come equivalente a una liquidazione parziale e dunque, forse, i soci potrebbero rispondere entro quel conguaglio. Ma è un’ipotesi molto rara. In sintesi: dopo la fusione, paga i debiti la società risultante; i creditori non devono e non possono agire contro i vecchi soci (a meno che questi avessero garanzie personali prestate). - D: L’art. 2495 c.c. si applica anche alle società di persone estinte?
R: Formalmente l’art. 2495 c.c. è dettato per le società di capitali (capo di liquidazione delle S.p.A./S.r.l.). Tuttavia, la giurisprudenza – a partire da Cass. Sezioni Unite 4060/2010 – ha esteso in via analogica il medesimo principio anche alle società di persone iscritte (S.n.c., S.a.s.). Questo per colmare un vuoto normativo e uniformare effetti simili: anche per le società di persone si ritiene che la cancellazione dal Registro produca l’estinzione dell’ente e che i creditori possano agire direttamente contro i soci. In verità, per le società di persone l’art. 2312 c.c. già prevedeva che dopo cancellazione i beni residui andassero ai soci e i debiti insoddisfatti restassero a loro carico, quindi l’allineamento c’era. L’Agenzia delle Entrate nelle sue circolari ha confermato questo orientamento: ad esempio in una circolare del 2015 ha ribadito che i soci di società di persone cancellate rispondono illimitatamente dei debiti tributari rimasti, richiamando però il limite di art. 2495 per quelli accomandanti. Dunque sì, anche per le società di persone si segue la stessa logica: i creditori agiscono contro i soci (che già erano responsabili illimitati). In pratica cambia poco perché già prima i soci rispondevano con tutto il patrimonio, ma concettualmente ora lo fanno come successori della società estinta. Un dettaglio: per le società di persone, se c’è un socio illimitato deceduto, l’art. 2312 c.c. prevede che i creditori possono agire entro il limite dell’eredità, oltre che sui soci superstiti, come accennato. - D: I soci rispondono anche delle multe e sanzioni fiscali intestate alla società?
R: In linea di massima no, le sanzioni tributarie per violazioni fiscali della società dovrebbero gravare solo sulla società stessa, non sulla persona dei soci. Questo per il principio che ognuno risponde per le proprie infrazioni e non si trasferiscono le “pene” a soggetti diversi. Tuttavia, quando una società si estingue e i soci ne ereditano i debiti tributari (imposte non pagate), si pone il tema se ereditino anche le relative sanzioni. La Cassazione ha chiarito che i soci possono rispondere delle sanzioni insieme alle imposte, ma comunque sempre entro il limite di quanto hanno percepito. Quindi, se per esempio la società aveva €10.000 di IVA non versata e €3.000 di sanzione, e il socio ha avuto €5.000 in liquidazione, gli potranno richiedere al massimo €5.000 (dando priorità all’imposta e includendo eventualmente una parte di sanzione dentro quel tetto). Se pretendessero di più, violerebbero l’art. 7 DL 269/2003 che vieta di punire chi non ha tratto vantaggio. Inoltre, se un socio non ha ricevuto nulla, in teoria non dovrebbe pagare sanzioni affatto. Insomma, i soci non fanno da parafulmine illimitato per le multe fiscali della società. – Nota: resta ferma una regola: se un amministratore (non socio) personalmente ha commesso reati tributari o illeciti amministrativi (es. dichiarazione infedele), le relative sanzioni penali o interdittive colpiscono lui personalmente a prescindere dalla società. Ma parliamo di amministratore, non di socio in quanto tale. - D: Cosa succede ai crediti attivi non riscossi di una società cancellata?
R: Se dopo la cancellazione saltano fuori crediti che la società vantava (ad esempio un cliente che paga in ritardo, o un rimborso fiscale dovuto all’ex società), questi crediti spettano ai soci della ex società, in proporzione delle quote di partecipazione. I soci succedono infatti anche nei diritti attivi non soddisfatti. Quindi, un debitore che deve soldi alla società estinta potrà legittimamente pagarli ai soci (in mancanza di accordo, depositandoli in un conto comune o come indicato dal liquidatore in bilancio finale). Se i soci sono più e uno incassa tutto, dovrà girare pro quota la parte agli altri. – Dal lato opposto, un creditore della società non può però pretendere che quel credito attivo venga destinato a lui se i soci l’hanno già incassato: doveva attivarsi prima in sede di liquidazione (o eventualmente il curatore fallimentare se la società fosse fallita in extremis). Una volta che il credito attivo è passato ai soci, i creditori rimasti possono solo agire contro i soci (per farsi dare da loro ciò che hanno incassato, come visto). – In caso di crediti sopravvenuti (es. un risarcimento riconosciuto alla società dopo anni, o un brevetto della società che genera royalties postume), si applica lo stesso: appartengono ai soci come successori. In mancanza di accordo, ciascun socio potrebbe pretendere la propria quota di quel credito. - D: Se un socio ha ricevuto meno di altri, può essere costretto a pagare più della sua quota?
R: Sì, in virtù della responsabilità solidale tra soci per i debiti residui, un socio può temporaneamente pagare più della propria quota di debito, se il creditore agisce solo su di lui. Ad esempio, tre soci hanno ricevuto €10k, €5k, €0k rispettivamente. Debito residuo €10k. Il creditore potrebbe richiedere tutti i €10k al primo socio (che ne ha diritto fino al limite di 10k). Quel socio avrà poi diritto di regresso verso gli altri: il secondo socio dovrebbe rimborsargli fino a 5k, il terzo nulla (perché non ha avuto attivo). Però se il secondo socio è insolvibile, il primo rischia di rimanere con un’esposizione eccedente la sua quota originaria di attivo. Quindi la risposta è: tra soci vige la solidarietà verso il creditore esterno, ma nei rapporti interni ciascuno dovrebbe sopportare solo fino al beneficio avuto. Se qualcuno paga di più perché altri non possono, può rivalersi legalmente, ma la solvibilità altrui è un fattore pratico. – Questo meccanismo rende comunque opportuno, per un socio debitore, vigilare che anche gli altri soci adempiano alla loro parte verso i creditori comuni. - D: Una società inattiva ma non liquidata può essere dichiarata fallita?
R: Sì. Lo stato di inattività non esime dall’obbligo di onorare i debiti e, se la società commerciale è insolvente e supera le soglie di fallibilità, i creditori possono chiederne il fallimento. Una società in liquidazione non ancora cancellata è pienamente fallibile, come una società in attività. Anzi, il Codice della Crisi specifica che lo stato di liquidazione non impedisce affatto la dichiarazione di liquidazione giudiziale entro un anno dalla cessazione attività. Quindi se si hanno debiti rilevanti e non si pagano, anche se la società è ferma, si rischia il fallimento. Se poi la società viene cancellata e risultava insolvente, vale il discorso dell’anno di cui sopra. – Per il socio questo significa che tentare di far sparire la società per evitare il fallimento non funziona se i debiti sono consistenti: i creditori possono comunque ottenere il fallimento entro l’anno, con riapertura della procedura. - D: Cosa rischia un amministratore che chiude una società lasciando debiti?
R: Se l’amministratore (o il liquidatore) conduce regolarmente la liquidazione ma i debiti restano per carenza di attivo, non rischia nulla di particolare sul piano civile: i creditori useranno i rimedi verso soci e al più verificheranno eventuali sue colpe. Se però l’amministratore ha commesso irregolarità – es. ha pagato alcuni creditori ignorandone altri, ha restituito finanziamenti soci anticipando gli altri crediti, ha distribuito beni ai soci o a sé stesso, o ha occultato asset – allora rischia: (a) un’azione di responsabilità civile da parte dei creditori danneggiati, come visto; (b) se la società fallisce, rischia azioni del curatore per responsabilità e/o denunce per bancarotta (distrattiva se ha fatto sparire attivo, preferenziale se ha favorito taluni creditori volontariamente, semplice se per negligenza grave ha aggravato il dissesto, ecc.). Inoltre l’art. 2362 c.c. punisce l’omesso pagamento di debiti sociali nelle società unipersonali (ma riguarda assetti diversi, nelle S.p.A. unipersonali i soci illimitati). In genere, l’amministratore deve stare attento a non aggravare la posizione dei creditori con comportamenti sleali. Chiudere una società senza pagare i debiti di per sé non è illecito se l’insolvenza era reale, ma farlo dolosamente per frodare i creditori lo diventa (potenzialmente anche penalmente, se c’è fallimento). Dunque, il rischio maggiore per un amministratore disonesto è la bancarotta fraudolenta, se si materializza un fallimento; oppure la responsabilità risarcitoria se i creditori agiscono singolarmente. Un amministratore prudente, in caso di difficoltà finanziarie serie, dovrebbe valutare gli strumenti concorsuali (accordi, piani, ecc.) o in extremis il fallimento, piuttosto che una liquidazione sommaria che può essere contestata come irregolare.
Fonti e riferimenti normativi
- Codice Civile: artt. 2484-2496 c.c. (scioglimento, liquidazione e cancellazione delle società di capitali); art. 2495 c.c. in particolare disciplina la responsabilità post-estinzione verso soci e liquidatori. Artt. 2311-2312 c.c. (estinzione società di persone e riparto attivo/passivo); artt. 2292, 2298 c.c. (responsabilità illimitata soci S.n.c.); art. 2313 c.c. (responsabilità accomandanti); art. 2324 c.c. (limitazione accomandanti estesa alle somme liquidate). Art. 2489 c.c. (obblighi amministratori dopo scioglimento); art. 2486 c.c. (divieto nuove operazioni dopo scioglimento).
- Legge Fallimentare e Codice della Crisi: art. 10 R.D. 267/1942 (L.F.) e ora art. 33 D.lgs. 14/2019 (liquidazione giudiziale entro 1 anno dalla cessazione attività). Art. 2495 c.c. richiama indirettamente tale possibilità (“ferma restando l’estinzione”).
- Normativa tributaria: art. 36 D.P.R. 602/1973 (responsabilità solidale di soci, liquidatori e amministratori per imposte dovute in dipendenza della liquidazione); art. 28, c.4, D.lgs. 175/2014 (società estinta considerata esistente per 5 anni ai fini accertamento); art. 7 D.L. 269/2003 conv. L. 326/2003 (divieto di sanzioni a carico di soggetti diversi dal trasgressore, se senza vantaggio).
- Circolari e prassi: Circolare Ag. Entrate n. 6/E del 2015 (chiarimenti su effetti fiscali di estinzione società e responsabilità ex soci).
- Cassazione Civile – Sezioni Unite 22/02/2010 n. 4060 (efficacia costitutiva cancellazione e immediata estinzione società, anche persone). Cass. SS.UU. 12/11/2020 n. 28709 (successione dei soci nei debiti sociali, onere della prova e natura intra vires). Cass. SS.UU. 27/01/2025 n. 3625 (in ambito tributario: soci responsabili anche senza riparto formale, se vi sono elementi di attribuzione patrimoniale; onere probatorio su ciascun socio).
- Cassazione Civile sez. I, 05/12/2022 n. 35640 (responsabilità liquidatori ex art. 2495 c.c.; onere del creditore di provare colpa e nesso causale). Cass. sez. I, 21/02/2020 n. 4687 (simili principi su liquidatori).
- Cassazione Civile sez. V (tributaria), 18/07/2023 n. 20840 – Soci di S.r.l. a ristretta base responsabili per intero debito tributario dopo estinzione, indipendentemente da utili liquidati, se vi sono presunzioni di distribuzione occulta; conferma art. 36 DPR 602 per liquidatore.
- Cassazione Civ. sez. V, 07/10/2024 n. 26184 – Responsabilità soci ex art. 2495 c.c. non condizionata alla prova di somme ricevute; basta estinzione ente, limite intra vires come eccezione del socio.
- Cass. Civ. sez. V, 23/08/2023 n. 25108 (consolidamento principio successione ex art. 2495; citata in rassegna FiscoOggi). Cass. Civ. sez. V, 16/10/2024 n. 24413 (in rassegna, analoga a 26184/24).
- Cass. Civ. sez. V, 21/08/2019 n. 21971 (success. soci e onere Agenzia di provare attivo liquidato, orientamento ante 2020). Cass. Civ. sez. VI, 04/11/2019 n. 31933 e Cass. 11/11/2019 n. 28809 – soci non responsabili se non hanno ricevuto nulla (orientamento superato).
- Cass. Civ. sez. V, 18/08/2022 n. 24579 (in tema di fusione, conferma natura estintiva e subentro dell’incorporante nei debiti anche tributari).
- Cass. Civ. sez. V, 07/09/2021 n. 24491 (SS.UU. 21970/2021) – afferma estintività della fusione e successione universale incorporante.
- Cass. Civ. sez. V, 14/08/2024 n. 23341 – soci di società estinta e sanzioni tributarie: pagano entro limite percepito, altrimenti violazione art. 7 DL 269/03.
- Cass. Civ. sez. V, 10/06/2015 n. 12065 e Cass. 02/07/2015 n. 13730 – principi su sanzioni amministrative tributarie a carico solo dell’ente, non dei soci.
- Cass. Civ. sez. III, 22/12/2011 n. 28388 – prescrizione azione contro liquidatori (5 anni da cancellazione, assimilata a amministratori 2949 c.c.).
- CTR Piemonte sent. 30/09/2016 (soci non responsabili se bilancio finale senza attivo) – esempio prassi tributaria locale.
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Molti imprenditori pensano che una società inattiva sia automaticamente “inattaccabile”. In realtà, il rischio è alto, soprattutto se non si è gestita correttamente la fase di inattività.
Cosa si intende per società inattiva?
Una società è considerata “inattiva” quando:
- Non svolge più attività economica (assenza di ricavi/fatturazione)
- Non presenta le dichiarazioni fiscali obbligatorie
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Quali rischi si corrono con una società inattiva?
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In certi casi, la società inattiva viene considerata strumento di elusione o veicolo abbandonato ma ancora “pericoloso” dal punto di vista giuridico e fiscale.
E se la società ha debiti? Chi risponde?
Dipende dalla forma giuridica e dal comportamento tenuto:
- Le società di capitali (S.r.l., S.p.A.) rispondono con il proprio patrimonio, ma in caso di irregolarità può essere coinvolto l’amministratore
- Nelle società di persone (S.n.c., S.a.s.) i soci rispondono anche con il proprio patrimonio personale
- In caso di omessi versamenti fiscali, anche nelle S.r.l., il Fisco può avviare azioni personali verso chi ha gestito l’impresa
Come evitare conseguenze peggiori?
✅ Procedere con la messa in liquidazione se la società non ripartirà
✅ Chiudere formalmente la posizione fiscale e camerale
✅ Valutare la composizione negoziata della crisi, se i debiti sono rilevanti
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✔️ Avvocato esperto in crisi d’impresa e responsabilità degli amministratori
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✔️ Gestore della crisi iscritto al Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per imprenditori, ex soci, professionisti in difficoltà
Conclusione
Lasciare una società inattiva senza agire può trasformarsi in un grave problema personale e fiscale.
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