Che Cos’è L’Interposizione Fittizia In Materia Tributaria?

Hai sentito parlare di interposizione fittizia e ti stai chiedendo cosa significa, quando si applica e quali rischi comporta a livello fiscale? Oppure ti è stato contestato un rapporto considerato “fittizio” dall’Agenzia delle Entrate e temi un accertamento per evasione?

Nel diritto tributario, l’interposizione fittizia è una tecnica usata per simulare un soggetto diverso da quello reale, allo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale. È una delle situazioni più attenzionate dall’amministrazione finanziaria, soprattutto in presenza di società di comodo, intestazioni di beni o redditi schermati da soggetti terzi.

Che cos’è l’interposizione fittizia in ambito fiscale?
– È un meccanismo con cui si inserisce un soggetto apparente tra il contribuente reale e l’Amministrazione, per celare la reale titolarità di redditi, beni o attività
– L’interposto è un soggetto formalmente intestatario (es. una società, un parente, un prestanome), ma non è il vero beneficiario economico
– L’interposizione è detta “fittizia” proprio perché non corrisponde alla realtà sostanziale, e serve solo ad aggirare le norme tributarie

In quali casi può verificarsi?
– Quando una società è usata solo come schermo per far risultare formalmente i redditi, ma in realtà i profitti finiscono ad altri
– Quando un bene (es. immobile o auto di lusso) è intestato a un soggetto privo di redditi, ma usato stabilmente da un altro
– Quando un lavoratore autonomo finge di operare tramite una società, ma svolge di fatto l’attività individualmente
– Quando si usano società estere solo sulla carta, ma la sede effettiva è in Italia (rischio di esterovestizione)

Cosa comporta l’interposizione fittizia se accertata?
– L’Agenzia delle Entrate può disconoscere il soggetto interposto e attribuire i redditi al reale beneficiario
– Viene effettuato un accertamento per simulazione o abuso del diritto
– Possono scattare recuperi di imposte, sanzioni molto elevate e interessi
– In casi gravi, può esserci anche un profilo penale per dichiarazione infedele o frode fiscale

Come puoi difenderti se ti contestano un’interposizione fittizia?
– Devi dimostrare la sostanza economica del rapporto: che il soggetto interposto ha davvero operato e assunto i rischi
– Puoi produrre documentazione bancaria, contabile e gestionale
– È fondamentale ricostruire i flussi economici reali e mostrare che non c’era simulazione
– Serve spesso una consulenza tecnica e una strategia legale ben articolata, anche in sede di contraddittorio preventivo

Cosa NON devi fare mai?
– Sottovalutare l’avviso: la presunzione è forte e serve una difesa immediata
– Rispondere all’Agenzia con frasi generiche o senza prova concreta
– Pensare che “intestare a un parente” sia sempre sufficiente per proteggersi: l’Agenzia guarda alla sostanza, non alla forma
– Attendere la cartella: devi agire già in sede di accertamento

L’interposizione fittizia è una contestazione complessa e delicata, che può avere gravi effetti economici e legali. Ma se affrontata con tempestività e competenza, può essere smontata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e accertamenti per simulazione – ti spiega cosa si intende per interposizione fittizia, quali sono gli indicatori tipici e come difenderti in modo efficace.

Hai ricevuto una contestazione e vuoi capire se c’è un rischio reale?

Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la tua situazione, verificheremo la struttura del rapporto e costruiremo una linea difensiva per evitare accertamenti illegittimi o tassazioni indebite.

Introduzione

Nell’ordinamento tributario italiano, l’interposizione fittizia indica una situazione in cui un soggetto (detto interponente) cela la propria posizione di contribuente dietro un altro soggetto (interposto o prestanome), al fine di sottrarsi al pagamento di imposte. In altre parole, i redditi o i patrimoni che in realtà appartengono all’interponente risultano formalmente intestati a terzi, creando un “schermo” artificioso tra il Fisco e il reale possessore delle ricchezze. L’obiettivo tipico di tali operazioni è evitare o ridurre il carico fiscale, sfruttando l’apparenza giuridica di una diversa titolarità. Dal punto di vista fiscale, tuttavia, ciò costituisce un fenomeno elusivo od evasivo, in quanto la sostanza economica prevale sulla forma giuridica: l’amministrazione finanziaria, quando accerta un’interposizione fittizia, tende a ignorare il soggetto interposto e ad attribuire redditi e obbligazioni tributarie direttamente al soggetto effettivamente beneficiario.

Le ipotesi di interposizione fittizia si possono riscontrare sia in ambito nazionale sia in scenari di pianificazione fiscale internazionale. Ad esempio, a livello interno è frequente il caso dell’imprenditore o professionista che utilizza una società di comodo o un familiare come intestatario di redditi per ridurre il proprio imponibile personale. In ambito internazionale, invece, si pensi alla costituzione di trust o società estere che formalmente risultano titolari di partecipazioni o capitali, ma che sono di fatto controllate da un residente italiano: spesso questi schemi rappresentano strategie di esterovestizione o di aggressive tax planning volte a spostare imponibili all’estero o a schermare patrimoni.

Il legislatore e la giurisprudenza hanno sviluppato, soprattutto negli ultimi anni, una serie di strumenti per contrastare efficacemente tali pratiche. In Italia esiste una specifica disposizione normativa – l’art. 37, comma 3, del D.P.R. 600/1973 – che consente all’Amministrazione finanziaria di imputare i redditi al contribuente che ne è il reale possessore per interposta persona. Inoltre, principi generali come quello della prevalenza della sostanza sulla forma e il concetto di titolare effettivo (ripreso anche dalla normativa antiriciclaggio) guidano sia i controlli fiscali sia le pronunce giurisprudenziali in materia.

Questa guida – aggiornata a luglio 2025 con i riferimenti normativi e giurisprudenziali più recenti – esaminerà in dettaglio cos’è l’interposizione fittizia in ambito tributario italiano. Verranno illustrati la normativa vigente, gli orientamenti della Corte di Cassazione (incluse le sentenze più rilevanti e aggiornate), gli eventuali profili penal-tributari, nonché esempi pratici riguardanti trust, società estere e altri casi tipici di pianificazione fiscale aggressiva. L’analisi avrà un taglio avanzato, adatto a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) ma sarà presentata con linguaggio chiaro e divulgativo, utile anche a imprenditori e privati cittadini interessati a comprendere il fenomeno. Particolare attenzione sarà dedicata al punto di vista del contribuente (debitore d’imposta): verranno infatti discusse le possibili difese, i rischi e le conseguenze cui va incontro chi ricorre a interposizioni fittizie, in modo da evidenziare sia i diritti del contribuente sia i poteri del Fisco in queste circostanze.

Definizione di interposizione fittizia e interposizione reale

In ambito tributario l’interposizione coinvolge tre elementi:

  1. L’interponente – il soggetto che è il vero proprietario del bene o percettore del reddito (beneficiario effettivo), colui che in sostanza possiede il reddito e dovrebbe pagarvi le imposte;
  2. L’interposto – il soggetto formalmente titolare del reddito o del patrimonio, che funge da “schermo” o prestanome;
  3. Il rapporto interposto – l’insieme di atti o comportamenti con cui si attribuisce fittiziamente all’interposto la titolarità di beni o redditi, nascondendo l’interponente.

Si parla di interposizione fittizia (o simulata) quando vi è un accordo collusivo tra interponente e interposto per simulare la titolarità in capo a quest’ultimo. In pratica, l’interposto accetta di figurare come intestatario di determinati redditi o beni, pur sapendo che essi appartengono all’interponente, spesso senza svolgere alcuna effettiva attività economica. È il classico caso del prestanome: ad esempio Tizio, volendo celare al Fisco i proventi della propria attività, li fa fatturare o depositare su conti intestati al suo collaboratore Caio, con l’intesa che quei proventi restano a disposizione di Tizio. Dal punto di vista civilistico, siamo di fronte a un’intestazione fiduciaria simulata, nella quale la realtà economica è difforme dalla forma giuridica apparente.

Si parla invece di interposizione reale quando l’interposto partecipa effettivamente all’operazione o percepisce inizialmente il reddito, senza che vi sia un accordo simulatorio esplicito, ma poi – in virtù di obblighi contrattuali o di altri accordi – trasferisce vantaggi o risorse all’interponente. In tal caso l’interposto non è un mero prestanome “passivo”, ma potrebbe essere un soggetto che opera realmente (ad esempio una società che svolge un’attività) e successivamente ritrasferisce i profitti all’interponente. Un esempio di interposizione reale può essere quello di una società formalmente indipendente che, però, di fatto gira sistematicamente i propri utili a una persona fisica, attraverso meccanismi come pagamenti extra-contabili, finanziamenti infruttiferi mai restituiti, compensi sproporzionati, ecc., tali da far confluire il valore aggiunto nelle mani dell’individuo che la controlla nell’ombra.

Differenza sostanziale: la linea di demarcazione tra interposizione fittizia e reale sta nella simulazione. Nell’interposizione fittizia c’è un accordo simulatorio – spesso occulto e provato per presunzioni – in cui l’interposto è consapevole di fungere da schermo e non ha reale autonomia. Nell’interposizione reale, invece, l’interposto potrebbe agire inizialmente in modo autonomo, ma poi di fatto i benefici vengono trasferiti all’interponente. Sotto il profilo fiscale, però, questa distinzione ha perso rilievo pratico: la Corte di Cassazione ha chiarito che la disciplina antielusiva si applica sia all’interposizione fittizia sia a quella reale, poiché in entrambi i casi ciò che conta è l’effettivo possesso del reddito da parte di un soggetto diverso dall’intestatario formale. L’art. 37, comma 3, del D.P.R. 600/1973 – vera pietra angolare in materia – infatti non opera distinzione tra interposizione “fittizia” e “reale”, riferendosi in generale all’ipotesi in cui un contribuente sia effettivo possessore di redditi intestati ad altri. Ciò significa che anche se formalmente l’interposto ha partecipato realmente all’attività, ai fini fiscali rileva la situazione di fatto, ossia chi dispone in ultima analisi di quei redditi.

In termini più diretti, il diritto tributario guarda alla sostanza economica e al controllo effettivo: se un soggetto uti dominus (cioè “come padrone”) dirige e beneficia di un reddito, poco importa che un altro soggetto ne sia titolare formale – siamo comunque di fronte a un’interposizione rilevante ai fini fiscali. La Cassazione ha affermato che la prevalenza della realtà sull’apparenza deve guidare l’interprete: bisogna individuare chi esercita effettivamente il possesso e il godimento del reddito, al di là di chi ne risulti intestatario nei documenti. Questo principio di sostanza > forma è talmente forte che viene applicato perfino se interponente e interposto coincidono nella stessa persona in ruoli giuridici diversi. Ad esempio, è ammesso nel diritto civile che una persona istituisca un trust in cui sia al contempo disponente e trustee; tuttavia, in un caso del genere il Fisco vedrà quasi sicuramente un’indebita sovrapposizione, interpretandola come segnale evidente di interposizione fittizia per mascherare la mancata “spoliazione” dei beni dal patrimonio del disponente.

Normativa di riferimento in Italia

La norma cardine in materia di interposizione fittizia fiscale è l’art. 37, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni sull’accertamento delle imposte sui redditi). Essa prevede testualmente: “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona. In parole semplici, questa disposizione consente all’Amministrazione finanziaria, durante un accertamento, di ignorare l’intestazione formale dei redditi e attribuirli al soggetto che ne ha realmente la disponibilità, qualora riesca a provarlo anche solo con presunzioni (purché dotate di gravità, precisione e concordanza, secondo i normali criteri probatori tributari).

La ratio legis – espressa anche dalla Cassazione – è quella di evitare che il reale percettore di un reddito sfugga al prelievo fiscale, occultando la propria identità di contribuente dietro interposti. L’art. 37, co. 3, rappresenta dunque una codificazione del principio di capacità contributiva sostanziale: impedisce che costruzioni negoziali o meri artifici formali possano frustrare il potere impositivo, quando dietro di essi si cela un soggetto che in concreto arricchisce il proprio patrimonio senza apparire. Va sottolineato che la prova richiesta all’Amministrazione può essere data anche per indizi e fatti secondari, senza bisogno di dimostrazioni “matematiche”: è sufficiente che, dai fatti noti, sia ragionevolmente desumibile l’esistenza del fatto ignoto (cioè del possesso effettivo dei redditi da parte dell’interponente) secondo criteri di normalità. Ad esempio, se risulta che Tizio controlla di fatto la società X e dispone a suo piacimento dei conti di X, è ragionevole presumere che i redditi di X siano posseduti da Tizio per interposta persona – anche se magari Tizio si è guardato bene dal farsi bonificare quegli importi sul proprio conto personale. Come ha osservato la Cassazione, non è necessario trovare il denaro transitato sui conti correnti dell’interponente per dimostrare l’interposizione, poiché è plausibile che “una ricchezza occulta, creata attraverso l’interposizione, non sia resa palese” nei conti ufficiali.

Oltre all’art. 37, comma 3, D.P.R. 600/1973 – che si applica principalmente in materia di imposte sui redditi (IRPEF, IRES) ma che la giurisprudenza ha esteso anche all’IVA e ad altre imposte connesse ai redditi d’impresa – l’ordinamento conosce altre norme e principi correlati:

  • Art. 37-bis D.P.R. 600/1973 (abrogato): introdotto negli anni ’90, prevedeva una procedura specifica per contestare operazioni elusive prive di valide ragioni economiche. Tale articolo, applicabile a fattispecie di elusione fiscale (ad esempio complesse costruzioni societarie volte solo a risparmio d’imposta, ma formalmente lecite), è stato abrogato nel 2015 e sostituito da una nuova disciplina generale dell’abuso del diritto. Pur non riferendosi direttamente all’interposizione fittizia (che è concetto più legato all’evasione tramite schermi), l’art. 37-bis condivideva con l’art. 37, co.3, l’obiettivo di contrastare l’utilizzo distorto di schemi giuridici per fini tributari.
  • Art. 10-bis dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000): è la norma che dal 2015 disciplina in modo organico il divieto di abuso del diritto ed elusione fiscale. Stabilisce che sono privi di effetti tributari gli atti, i fatti e i contratti, anche concatenati, privi di sostanza economica e utilizzati essenzialmente per ottenere indebiti vantaggi fiscali (salvo comunque il rispetto delle norme anti-elusive specifiche). L’abuso del diritto riguarda situazioni in cui il contribuente mette in atto operazioni formalmente legittime ma privo di sostanza economica, con il solo scopo di risparmiare imposte. La differenza con l’interposizione fittizia è sottile ma importante: nell’abuso del diritto non c’è un occultamento di identità, bensì un uso artificioso di norme; nell’interposizione fittizia c’è invece un “soggetto schermo” che cela il vero contribuente. Ad esempio, costituire due società estere per spostare fittiziamente utili e pagare meno tasse può configurare abuso del diritto se le società svolgono un ruolo solo cartolare; se però una di queste società estere è in realtà totalmente etero-diretta da un soggetto italiano che se ne serve come schermo, si può parlare anche di interposizione fittizia soggettiva. La disciplina dell’abuso del diritto (art. 10-bis) prevede garanzie procedimentali per il contribuente (notifica di avvio, contraddittorio, ecc.) e stabilisce che le violazioni abusive non comportano sanzioni penali né amministrative, limitandosi al recupero dell’imposta. Al contrario, l’interposizione fittizia, implicando normalmente un comportamento ingannevole od omissivo, sfocia in veri e propri illeciti tributari sanzionabili (vedremo infra le sanzioni e i possibili reati). In sintesi, abuso del diritto ed interposizione fittizia sono concetti affini – entrambi legati a operazioni senza sostanza economica reale – ma si distinguono per il profilo soggettivo: l’abuso riguarda operazioni, l’interposizione riguarda soggetti utilizzati come schermo. In molti casi pratici possono concorrere: ad esempio, l’uso di una società di comodo all’estero senza attività reale è sia un abuso (mancanza di sostanza economica e finalità fiscale) sia un’interposizione (società schermo che cela il reale operatore).
  • Art. 73 T.U.I.R. (D.P.R. 917/1986): definisce i criteri di residenza fiscale per le società e gli enti. In particolare, considera residenti in Italia le società che hanno la sede legale o amministrativa nel territorio dello Stato, o l’oggetto principale in Italia. Questo è rilevante perché molti casi di interposizione fittizia internazionale vengono contrastati qualificando le entità estere come fiscalmente residenti in Italia (se si prova che la gestione effettiva avveniva in Italia). Ad esempio, se un contribuente italiano apre una società in un paradiso fiscale ma la amministra interamente da Milano, l’Agenzia delle Entrate potrà contestare la “esterovestizione” della società, dichiarandola residente in Italia e tassandone gli utili in Italia (oltre a considerare il contribuente eventualmente come interponente). Inoltre, l’art. 73 include da alcuni anni i trust tra i soggetti passivi IRES: un trust formalmente non residente ma amministrato di fatto in Italia può anch’esso essere considerato ente residente e tassato come tale. Spesso però, come vedremo, nei casi di trust esterovestiti il Fisco preferisce invocare direttamente l’interposizione fittizia per attribuire i redditi al disponente.
  • Altre disposizioni anti-elusive specifiche: il legislatore ha introdotto nel tempo varie norme mirate per evitare che l’uso di terzi o interposti eluda il fisco. Ad esempio:
    • L’art. 2, co. 2-bis, T.U.I.R. prevede che, salvo prova contraria, un cittadino italiano trasferito in alcuni paradisi fiscali esteri si presume residente in Italia, proprio per contrastare trasferimenti fittizi di residenza (caso affine all’interposizione, perché spesso si tratta di soggetti che fingono di essere esteri tramite prestanome o iscrizioni fittizie).
    • La normativa sul monitoraggio fiscale (Quadro RW) obbliga i residenti a dichiarare le attività detenute all’estero, e considera come titolare dell’obbligo anche il titolare effettivo delle attività. Ad esempio, se un trust estero detiene conti o partecipazioni per conto di un residente, quest’ultimo – in quanto beneficiario effettivo – deve dichiararli nel proprio quadro RW. In una recente vicenda, un contribuente è stato sanzionato per quasi 6 milioni di euro per omessa dichiarazione di attività estere, avendo fatto confluire ingenti partecipazioni in un trust inglese che fungeva da schermo. La Cassazione, nel confermare l’impostazione del Fisco, ha ribadito che in casi del genere il soggetto obbligato al monitoraggio è il titolare effettivo italiano, non rilevando il paravento formale del trust.
    • Norme antielusive in materia di IVA e altre imposte indirette (ad esempio, per l’intestazione fittizia di beni registrati, l’abuso di regimi agevolativi intestando beni a terzi non aventi diritto, ecc.). Anche se l’interposizione fittizia è un concetto più sviluppato in ambito imposte dirette, anche in materia di IVA la giurisprudenza ha guardato alla sostanza: si pensi alle frodi “carosello”, dove società di comodo (cartiere) sono interposte nella filiera solo per generare crediti IVA fittizi; in tali casi, oltre alle sanzioni penali, l’amministrazione può ignorare la società fittizia e imputare obblighi e responsabilità all’organizzatore della frode come autore effettivo delle operazioni.

In sintesi, l’ordinamento italiano fornisce strumenti sia normativi che interpretativi per contrastare le interposizioni fittizie. La norma principale (art. 37, co.3 DPR 600/73) è assai ampia e flessibile, consentendo di colpire tutte le ipotesi di dissociazione tra titolarità formale e possesso effettivo di redditi. Attorno ad essa ruotano altre previsioni – dal principio generale antiabuso alle presunzioni di residenza – che completano il quadro di tutela dell’interesse erariale. È importante evidenziare che, a fronte di tale apparato normativo, il contribuente onesto e trasparente non ha nulla da temere: l’uso di strumenti giuridici leciti rimane possibile, ma richiede che vi sia coerenza tra forma e sostanza. Se invece si intraprendono strutture artificiose prive di sostanza economica e finalizzate solo a evadere o eludere il Fisco, si rischia fortemente che l’amministrazione finanziaria ne disconosca gli effetti facendo leva su queste norme e che applichi le relative sanzioni.

La prova dell’interposizione: onere probatorio e presunzioni

Un aspetto cruciale in materia di interposizione fittizia è capire come il Fisco può dimostrarla e quali margini di difesa abbia il contribuente coinvolto. Data la natura sovente occulta di tali operazioni, il legislatore ha agevolato l’Amministrazione finanziaria sotto il profilo probatorio, ammettendo l’uso esteso di presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti) per dimostrare il fenomeno.

Onere della prova – Secondo i principi generali, spetta in prima battuta all’Agenzia delle Entrate fornire elementi idonei a sostenere che la realtà effettiva differisce da quella apparente. In particolare, l’Ufficio deve provare che il contribuente accusato è il possessore effettivo di redditi formalmente altrui. Questa prova può essere data mediante: documenti, testimonianze, tracciamenti finanziari, ma anche tramite indizi e presunzioni. La Cassazione ha chiarito che non occorre un nesso di necessità assoluta tra fatto noto e fatto ignoto: è sufficiente che, dai fatti noti, il fatto da provare (possesso del reddito per interposta persona) sia ragionevolmente desumibile secondo regole di esperienza. Ad esempio, circostanze indiziarie tipiche possono essere:

  • la sproporzione tra reddito dichiarato e tenore di vita di un contribuente, unita al fatto che un soggetto a lui vicino fiscalmente dispone di risorse apparentemente senza giustificazione;
  • la presenza di fitti legami finanziari (es. continui trasferimenti di denaro) tra l’interponente sospetto e l’interposto;
  • l’assenza di autonomia decisionale dell’interposto (es. un trustee che segue pedissequamente le istruzioni del disponente, un amministratore formale che è di fatto un prestanome senza poteri reali);
  • l’eterodirezione dell’attività economica da parte dell’interponente (es. un’azienda formalmente di proprietà altrui ma in cui l’interponente cura gli affari, stipula contratti, dispone dei conti, ecc.);
  • eventuali dichiarazioni confessorie o documenti che attestino l’accordo fiduciario (p. es. scritture private, email in cui il prestanome ammette di agire per conto dell’altro).

Una volta che l’Amministrazione ha fornito una serie di indizi concordanti tali da delineare il quadro di un’interposizione, si verifica un’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente. In particolare, come affermato dalla Suprema Corte, spetta al contribuente interponente dimostrare l’assenza di interposizione o la mancata percezione dei redditi in questione. Questo significa che, se il Fisco prova (anche indiziariamente) che Tizio ha gestito uti dominus la società X traendone benefici, sarà poi Tizio a dover eventualmente provare che così non è (ad esempio provando di non aver mai percepito quei redditi, che sono rimasti effettivamente alla società, oppure che egli agiva solo come amministratore senza interesse personale). In mancanza di tale prova contraria, opera la presunzione legale per cui i redditi apparentemente di X sono imputati a Tizio. Questa impostazione è stata ribadita nel 2025 dalla Cassazione, che ha sottolineato come l’Ufficio debba provare il “totale asservimento” dell’interposto all’interponente, dopodiché è onere di quest’ultimo fornire elementi per contestare l’interposizione o dimostrare di non aver ottenuto quei redditi.

È importante notare che i giudici non richiedono all’Amministrazione di provare anche il reimpiego concreto dei redditi nelle mani dell’interponente. Questa precisazione viene spesso in rilievo nei contenziosi: difatti alcuni contribuenti si difendono sostenendo “non vi è prova che io abbia incassato quel denaro, quindi non potete tassarmelo”. La Cassazione ha più volte smentito questa linea: la prova richiesta all’erario è il possesso effettivo per interposta persona, non la tracciabilità bancaria dei flussi verso l’interponente. Se vi sono indizi solidi che l’interposto è un mero schermo e che l’interponente dispone del reddito come proprio, non occorre dimostrare dove sia finito esattamente il denaro. Come detto in una recente pronuncia, è del tutto plausibile che un reddito occultato tramite interposizione non transiti sui conti ufficiali del beneficiario, magari restando all’estero o impiegato in contanti, e ciò non può vanificare l’accertamento.

Esempio concreto (onere della prova): poniamo che la società Alfa s.r.l. sia sospettata di essere una società schermo di cui il sig. Rossi è l’effettivo dominus. L’Agenzia delle Entrate scopre che Rossi (pur non figurando come socio) ha firmato contratti per Alfa, ne gestisce i clienti e utilizza gli immobili sociali come fossero propri; inoltre rileva che Alfa è sottocapitalizzata e i suoi utili spariscono in spese non documentate. Questi fatti, opportunamente verbalizzati e corroborati da testimonianze, costituiscono presunzioni gravi, precise e concordanti che Rossi sia l’effettivo possessore dei redditi di Alfa. A quel punto spetterebbe a Rossi provare il contrario, ad esempio mostrando che gli utili di Alfa sono stati reinvestiti in azienda o distribuiti ad altri soci reali, oppure che esisteva una struttura di governance indipendente. Se Rossi non fornisce una prova convincente, il Fisco vincerà la causa: Alfa sarà considerata interposta e i redditi tassati direttamente in capo a Rossi. Contestualmente, Rossi sarà chiamato anche a rispondere delle eventuali sanzioni amministrative, perché – essendo considerato il vero contribuente – le violazioni fiscali commesse tramite Alfa ricadono su di lui. Alfa, in quanto ente interposto, potrà semmai chiedere il rimborso delle imposte che avesse versato (per evitare doppia imposizione), ma non potrà invocare di essere la sola destinataria delle sanzioni, essendo stata riconosciuta come pura fictio.

Riassumendo: il “gioco” probatorio nelle controversie da interposizione fittizia vede il Fisco impegnato inizialmente a costruire un quadro coerente di indizi che sveli la sovrapposizione tra contribuente occulto e soggetto formalmente imponibile. Una volta superata questa soglia (presunzioni gravi, precise e concordanti), il contribuente deve ribaltare tale quadro con prove contrarie sostanziali, spesso di difficile reperimento (dovrebbe provare un negativo, ossia che non ha beneficiato di quei redditi). Questa asimmetria riflette la scelta legislativa di tutela dell’Erario: consapevole che le interposizioni avvengono in segretezza, il legislatore (convalidato dalla giurisprudenza) ha optato per una disciplina probatoria incisiva, che riduce il rischio di comportamenti elusivi impuniti.

Casi tipici di interposizione fittizia: società schermo, trust e altri esempi pratici

Vediamo ora in dettaglio alcune delle fattispecie più ricorrenti di interposizione fittizia in campo tributario, alla luce della normativa e delle più recenti sentenze. Esamineremo: (A) l’utilizzo di società schermo o cartiere per celare redditi; (B) l’uso distorto di trust (specie quelli autodichiarati o familiari) per nascondere patrimoni; (C) la creazione di strutture estere (società offshore, residenze fittizie all’estero) finalizzate a evitare il fisco italiano; (D) altri scenari come l’intestazione di beni a prestanome e operazioni simulate.

A. Società di comodo e “amministratori di fatto”

La società schermo è probabilmente la modalità più comune di interposizione fittizia. Consiste nel far orbitare la propria attività o i propri beni all’interno di una società (di solito una società di capitali, data la personalità giuridica e l’autonomia patrimoniale), in modo che formalmente i redditi vengano attribuiti a tale entità, mentre la persona fisica che l’ha creata rimane nell’ombra. Le motivazioni possono essere: abbassare la tassazione (ad esempio, tassare gli utili al 24% IRES invece che al più alto scaglione IRPEF personale), oppure evitare il pignoramento dei beni da parte di creditori (presentando la società come proprietaria di immobili, auto, ecc.), oppure creare schermi per compiere frodi (si pensi alle società “cartiere” usate per emettere false fatture o per non versare IVA).

Tuttavia, se la società è fittizia e usata solo come strumento, il diritto tributario tende a “vedere attraverso” la veste societaria, imputando redditi e responsabilità direttamente alla persona fisica che la manovra. La Cassazione si è espressa in numerosi casi su tale scenario, affermando principi chiave: “se un soggetto gestisce uti dominus una società di capitali, si determina – ai sensi dell’art. 37, co.3, DPR 600/73 – la traslazione del reddito d’impresa (e delle relative imposte) in capo a detto soggetto, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta”. Affinché ciò avvenga, è necessario provare un totale asservimento della società all’interponente, ossia che l’ente non perseguiva un interesse proprio e autonomo, ma era meramente strumentale agli interessi personali dell’individuo.

Un caso esemplificativo è offerto dalla sentenza Cass. n. 1358/2023. In quella vicenda, un contribuente aveva creato una società di capitali che in realtà fungeva da cartiera per una frode IVA: comprava automobili in Germania, rivendendole in Italia senza versare l’IVA, e i proventi venivano direttamente incamerati dall’individuo. La società era irregolarmente costituita e serviva solo per interporre un soggetto giuridico nelle transazioni, evitando a lui personalmente di comparire come venditore. L’Agenzia delle Entrate notificò gli avvisi di accertamento sia alla società sia alla persona, quale amministratore di fatto e autore delle violazioni, imputandogli le relative imposte evase e sanzioni. L’interessato ricorse sostenendo di essere distinto dalla società (lamentando, tra l’altro, che l’art. 7 del DL 269/2003 esclude la responsabilità personale degli amministratori per le sanzioni societarie). Ma la Cassazione respinse il ricorso, sancendo che tale regola vale solo per società vere. Se invece la società è artificiosamente costituita a fini illeciti e usata nell’esclusivo interesse personale dell’individuo, allora quest’ultimo è sia trasgressore sia contribuente: di conseguenza, le violazioni fiscali “formalmente” commesse dall’ente sono riferite in realtà all’attività del soggetto fisico. In questi casi non opera l’art. 7 del 2003 sulle sanzioni societarie, perché quella norma presuppone un rapporto fiscale genuino riferibile all’ente, mentre qui la società è solo una fictio iuris. Pertanto, sia le imposte evase sia le sanzioni amministrative vengono addebitate direttamente alla persona fisica interponente. Dal lato reddituale, come già detto, siamo di fronte a un tipico caso di interposizione fittizia soggettiva: i redditi formalmente prodotti dalla società sono considerati redditi dell’amministratore occulto, in base all’art. 37, co.3.

Questo orientamento – che punta a disregard della personalità giuridica quando è usata per frode – convive però con la necessità di provare rigorosamente l’abuso della struttura societaria. Infatti, non tutte le situazioni di commistione tra socio/amministratore e società giustificano l’applicazione dell’art. 37, co.3. La Cassazione, nel definire i confini, ha osservato che l’interponente non deve essere un “mero gestore” (fosse anche di fatto) dell’ente, ma proprio un soggetto che ne dispone “uti dominus”. Ciò richiede, come visto, evidenze forti: ad esempio, che tutta l’attività sociale sia piegata agli interessi personali del soggetto. Un indizio tipico è la ristrettezza della base sociale (unico socio o soci tutti familiari) unita a una sottocapitalizzazione e un comportamento in cui l’interponente mescola continuamente il patrimonio della società col proprio. In presenza di soci terzi estranei o di un’attività economica reale svolta dall’ente, l’accertamento di interposizione diventa più complesso. Per questo, la giurisprudenza richiede che per spostare il reddito dalla società all’individuo si dimostri che quest’ultimo si è appropriato sistematicamente delle risorse dell’ente, beneficiando in modo esclusivo dei relativi proventi. Se, ad esempio, una società produce utili ma questi vengono reinvestiti nell’azienda o distribuiti ai soci in modo proporzionale, non c’è interposizione, anche se il socio di maggioranza esercita un forte controllo (in tal caso potrà casomai esserci una normale tassazione per trasparenza, se società di persone, o una tassazione per dividendi, ma non una traslazione integrale del reddito).

In pratica, dunque, l’abuso di società di capitali viene colpito in due modi:

  1. Sotto il profilo sostanziale, attribuendo i redditi e le imposte all’individuo – come se la società non esistesse – quando questa è solo uno schermo (principio di look through).
  2. Sotto il profilo sanzionatorio, ignorando la separazione tra ente e persona e irrogando le sanzioni al reale autore.

Un risvolto interessante è che, in tali casi, la società interposta ha poi diritto di chiedere il rimborso delle imposte eventualmente già pagate su quei redditi (art. 37, comma 5, DPR 600/73) e la corrispondente detrazione IVA se l’operazione è stata ritenuta fittizia. Questo evita duplicazioni d’imposta. Ad esempio, se l’ente aveva versato IVA o tasse su operazioni ritenute in realtà appartenenti all’interponente, potrà recuperarle, poiché il debito fiscale viene rideterminato unicamente in capo all’effettivo possessore.

Sintesi dei requisiti per configurare interposizione via società:

  • Società “di comodo”, priva di reale autonomia economica, costituita o utilizzata al solo scopo di schermare l’attività dell’individuo.
  • Interponente con ruolo di amministratore di fatto o comunque di dominus non dichiarato (specie in società con teste di legno come amministratori ufficiali).
  • Attività sociale completamente asservita all’interponente: decisioni, gestione finanziaria e benefici finali tutti riconducibili a lui.
  • Benefici economici che fluiscono all’interponente in varie forme (prelievi occulti, beni aziendali usati come propri, mancato versamento di imposte a vantaggio suo, ecc.).
  • Prova: indizi e presunzioni (documenti societari che riportano la sua firma, testimonianze di dipendenti o terzi sul fatto che “comandava lui”, incongruenze contabili).

Quando queste condizioni sono provate, la Cassazione consente l’applicazione piena dell’art. 37, comma 3: la società viene trattata alla stregua di un’interposizione fittizia e l’interponente risponde in prima persona delle imposte evase e delle sanzioni. Ciò è avvenuto non solo nel caso di frode IVA sopra menzionato, ma anche in altri: ad esempio Cass. 5276/2022 ha riguardato un soggetto che di fatto gestiva cooperative edilizie appropriandosi dei loro utili; Cass. 27625/2018 e Cass. 15830/2016 hanno parimenti affermato il principio di non distinzione tra interposizione fittizia e reale in contesti societari, evidenziando che la norma colpisce qualsiasi dissociazione tra possesso effettivo e titolarità apparente. Ne emerge un forte messaggio: creare società fasulle per farvi transitare redditi propri è una strategia destinata a fallire, poiché il Fisco (e i giudici) guarderanno al beneficiario effettivo, facendo cadere la facciata societaria.

B. Trust esteri e trust “familiari”: titolarità effettiva e interposizione

Negli ultimi anni, l’utilizzo dei trust è stato oggetto di particolare attenzione da parte del Fisco italiano, soprattutto quando tali strumenti sono adoperati in ambito familiare o patrimoniale con fini potenzialmente elusivi. Il trust è un istituto di origine anglosassone, recepito in Italia con la L. 364/1989 (Convenzione dell’Aja), che consente a un soggetto (disponente o settlor) di segregare dei beni in un fondo gestito da un trustee nell’interesse di beneficiari. Si tratta di un istituto lecito e riconosciuto, che può avere scopi validi (protezione patrimoniale, passaggio generazionale, beneficenza, ecc.). Tuttavia, proprio la separazione tra titolarità formale (in capo al trustee) e disponibilità di fatto dei beni rende il trust suscettibile di usi distorti: se il disponente non si “spoglia” davvero dei beni conferiti e continua a gestirli o beneficiarne come prima, il trust diventa un puro schermo fittizio.

La Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 61/E del 2010 ha delineato i criteri per distinguere i trust “veri” da quelli che, ai fini tributari, vanno considerati inesistenti (cosiddetti trust interposti). Secondo tale prassi, sono indicatori di interposizione del trust:

  • il disponente che si riserva poteri troppo ampi sul trust (es. potere di revoca del trustee, o poteri gestori diretti sui beni);
  • la coincidenza soggettiva tra disponente, trustee e beneficiario (ad esempio, il disponente che è anche trustee, o che si pone come beneficiario esclusivo dei redditi prodotti);
  • la presenza di meri trustee “fiduciari” senza reale autonomia (magari un prestanome o un parente alle dipendenze del disponente);
  • l’assenza di vere finalità liberali o di scopo: trust auto-dichiarati dove di fatto nessuno (se non il disponente stesso) trae beneficio;
  • clausole che permettono al disponente di riprendere il controllo o riottenere i beni a sua discrezione.

In tutti questi casi, l’Agenzia presume che il trust sia “interposto”, ossia che i redditi formalmente prodotti dal trust siano in realtà imputabili al disponente o, a seconda dei casi, direttamente ai beneficiari reali. Un trust interposto, in sostanza, non viene riconosciuto come soggetto fiscalmente autonomo: è come se non esistesse agli occhi del Fisco. Ad esempio, se un disponente conferisce titoli in un trust ma continua a gestirne gli investimenti e ad utilizzarne i frutti, l’Agenzia considererà quei redditi di capitale come redditi personali del disponente, ignorando il trust.

Un caso emblematico, recentissimo, è la sentenza della Cassazione n. 9445/2025. In quel giudizio, il contribuente aveva costituito un trust di diritto inglese in cui erano confluite, tramite complesse operazioni, delle partecipazioni societarie estere che in ultima analisi appartenevano a lui, residente in Italia. L’Agenzia delle Entrate (Direzione Napoli) contestò l’omessa dichiarazione di attività estere (le partecipazioni detenute tramite il trust) e applicò pesanti sanzioni (nell’ordine di milioni di euro), ritenendo che il trust fosse un “mero schermo fittizio” creato per celare l’effettiva titolarità italiana di quelle attività estere. Il contribuente ricorse fino in Cassazione, ma il suo ricorso fu dichiarato inammissibile – la Cassazione sottolineò tra l’altro che la valutazione di merito circa l’interposizione operata dal giudice d’appello non era sindacabile in sede di legittimità. Ciò nonostante, la Corte, nello svolgere la propria funzione nomofilattica, espresse chiaramente un principio: in ambito tributario, ai fini di individuare il titolare effettivo di un reddito o di un’attività, rileva la situazione di fatto del possesso, anche se questa è dimostrata solo a livello indiziario. La norma dell’art. 37, comma 3, infatti codifica un principio più ampio della dicotomia civilistica titolare apparente/reale – rileva chi è il “possessore effettivo per interposta persona” anche se il coinvolgimento di terzi è solo apparente, “sia in caso di coinvolgimento di soggetti diversi, sia in caso di coinvolgimento di un unico soggetto. Quest’ultima frase fa esplicito riferimento proprio al caso in cui, come spesso accade coi trust auto-dichiarati, formalmente c’è un unico attore (il disponente-trustee) che gioca ruoli distinti, ma in realtà tutto coincide con la stessa persona. La Cassazione ha quindi rimarcato che, se manca il reale spossessamento dei beni dal disponente al trustee, il trust è solo un simulacro e il disponente rimane il soggetto tenuto agli obblighi fiscali, come ad esempio la compilazione del Quadro RW (monitoraggio assets esteri). Nel caso di specie, la conseguenza fu che il contribuente, in quanto titolare effettivo, avrebbe dovuto dichiarare quelle partecipazioni estere come proprie, e la sanzione per omessa dichiarazione (3% annuo del valore non dichiarato, elevabile al 15% se paradisi fiscali) fu ritenuta legittima nella misura applicata.

Un altro caso significativo è la sentenza Cass. n. 9096/2025, sempre relativa a trust esteri. Qui il trust era stato costituito nel Regno Unito da un imprenditore italiano che vi aveva conferito le quote di una società italiana operativa, tramite una holding estera, nel tentativo di “far sparire” i dividendi dal radar fiscale. Formalmente il trust era irrevocabile e indipendente, ma in pratica l’imprenditore (disponente) continuava a impartire istruzioni al trustee in via riservata, mantenendo il controllo sostanziale delle decisioni. La Cassazione, confermando le decisioni di merito, ha qualificato la natura fittizia di tale trust, ritenendo provato che il disponente ne pilotava di fatto la gestione e ne era quindi il vero dominus. Il principio richiamato è in linea con la giurisprudenza consolidata: “la residenza fiscale e la titolarità effettiva dei redditi prevalgono su ogni costruzione artificiosa, anche se formalmente costituita all’estero”. In altri termini, se il controllo resta in Italia, il reddito resta in Italia. Questa frase sintetizza la sostanza della lotta all’esterovestizione via trust: non basta che il trust sia all’estero su carta, occorre che anche il controllo e la gestione effettiva siano realmente esterni alla sfera del disponente residente, altrimenti il Fisco considererà i redditi imponibili in capo a quest’ultimo.

Va notato che non sempre l’esito in tribunale è sfavorevole al contribuente: esistono pronunce (per lo più di merito) dove si è riconosciuta la genuinità di alcuni trust. Ad esempio, il Tribunale di Roma, Sez. IX, sent. 16 ottobre 2018 n. 10972 in sede penale (caso di cui diremo nella parte penal-tributaria) ha assolto gli eredi gestori di un trust ritenendo che non vi fosse intento fraudolento e che il trust avesse comunque una sua causa lecita. In sede fiscale, l’Agenzia delle Entrate stessa, con alcune risposte ad interpello recenti, ha riconosciuto trust come non interposti quando erano rispettate certe condizioni. Ad esempio, nella Risposta a interpello n. 145/2025 l’Agenzia ha valutato un trust estero con trustee professionale a Malta e guardiano indipendente, dove il disponente era escluso da beneficiari, concludendo che non si trattava di interposizione. Gli elementi chiave che hanno convinto l’Ufficio in quel caso sono stati: i ampi poteri di gestione conferiti al trustee, l’assenza di interferenze (eterodirezione) da parte del disponente, il fatto che solo un guardiano terzo potesse revocare il trustee, e la totale estraneità del disponente come excluded person. In presenza di tali caratteristiche, il trust è stato considerato un soggetto d’imposta autonomo ai fini italiani. Di conseguenza, ad esempio, il trust ha potuto beneficiare (in quanto residente maltese “white list”) dell’esenzione su plusvalenze da cessione partecipazioni, pur non potendo invece ottenere la ritenuta italiana ridotta sui dividendi perché la Direttiva “madre-figlia” UE non si applica ai trust. Questo interpello dimostra che non tutti i trust all’estero sono fittizi: se ben strutturati e davvero indipendenti dal disponente, possono essere riconosciuti. L’Agenzia però resta molto guardinga: nella stessa risposta ha lasciato intendere che se, ad esempio, il disponente si fosse riservato il potere di revocare il trustee, il giudizio poteva cambiare.

In sintesi, quando un trust viene considerato “interposto”?

  • Quando il disponente non si è realmente spogliato dei beni o dei poteri: rimane di fatto “padrone” del patrimonio conferito (tipicamente nei trust auto-dichiarati o con trustee compiacenti).
  • Quando il trustee è controllato o influenzato dal disponente: ad esempio, è una società fiduciaria che segue istruzioni extra-atto, o un parente/collega del disponente che agisce secondo la sua volontà.
  • Quando il disponente è anche beneficiario unico o di ritorno: se il trust prevede che al termine i beni tornino a lui, o se può ricevere in qualsiasi momento utilità, è forte l’argomento che abbia solo “fatto il giro” per evitare tasse intermedie.
  • Quando la struttura del trust è incoerente con un reale assetto segregativo: es. trust familiari in cui di fatto i beni restano a disposizione del capofamiglia come prima, venendo usati a suo piacere (c.d. sham trust).
  • Quando emergono indizi concreti (email, lettere, comportamenti) che il disponente amministra indirettamente il trust: come il caso dei fax ed email inviati dal sig. “Ferraris” al trustee in Cass. 9096/2025.

In questi casi, il Fisco ignorerà il trust: i redditi prodotti dai beni in trust saranno tassati direttamente in capo al disponente (se costui ha mantenuto il controllo) oppure eventualmente ai beneficiari effettivi se questi li hanno percepiti direttamente. Anche dal punto di vista delle imposte indirette (ad es. imposta di donazione), qualificare un trust come interposto può avere effetti: ad esempio, la Cassazione con sentenza n. 8719/2021 ha ritenuto fiscalmente neutra la retrocessione dei beni dal trustee al disponente quando il trust si è rivelato solo fittizio – in pratica non c’è un nuovo trasferimento tassabile, perché i beni si considerano sempre appartenuti al disponente. È come dire: se il trust era una finzione, la restituzione dei beni al “padrone originario” non paga imposta, essendo un mero ripristino di situazione preesistente.

Conclusione sul trust: il trust può essere un utile strumento di pianificazione, ma deve essere usato in modo genuino. Se l’intento è aggirare il Fisco mantenendo segretamente il controllo, lo scenario probabile è un accertamento per interposizione fittizia con recupero a tassazione di tutti i redditi come se il trust non ci fosse mai stato. La giurisprudenza consolidata lo conferma: “anche un trust validamente costituito può essere ricondotto fiscalmente al disponente residente se il controllo resta di fatto nelle sue mani”. Dall’altro lato, un trust ben congegnato (indipendente, con beneficiari reali diversi, con trustee professionale che agisce autonomamente) potrà espletare i suoi effetti senza essere considerato interposto. La linea di confine è sottile, ma può essere riassunta così: il disponente deve fare un passo indietro reale, altrimenti il trust è solo carta.

C. Esterovestizione e società estere “di comodo”

Un ulteriore ambito in cui l’interposizione fittizia si manifesta è quello delle società estere create da soggetti italiani allo scopo di beneficiare di fiscalità più vantaggiose o schermare attività. Parliamo di situazioni in cui un contribuente italiano costituisce (o utilizza) una società in un altro paese, ma senza che quest’ultima abbia un’effettiva autonomia: la società estera è amministrata e controllata dall’Italia e spesso serve solo a localizzare i redditi fuori confine sulla carta. Questo fenomeno viene comunemente definito esterovestizione (fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di società o persone).

La normativa interna offre almeno due strumenti per contrastare queste pratiche:

  1. La già citata presunzione di residenza (art. 73 TUIR e norme collegate): se la direzione effettiva di una società estera è in Italia, l’Agenzia può dichiararla fiscalmente residente in Italia, tassandola come una qualunque società italiana. Ciò, in verità, non riguarda l’interposizione fittizia in senso stretto (non c’è un soggetto interposto diverso, si tratta della stessa società considerata residente qui), ma ottiene il risultato di assoggettare a tassazione italiana utili che altrimenti sarebbero tassati all’estero o sottratti a imposizione.
  2. L’art. 37, comma 3, DPR 600/73 in combinato con i principi su interposizione, per imputare direttamente i redditi al soggetto italiano qualora la società estera sia solo uno schermo personale. Questo secondo approccio è più radicale e può sovrapporsi col primo: talvolta l’Agenzia usa entrambi in via subordinata (prima sostiene che la società è residente qui; in subordine, che comunque i redditi sono dell’individuo per interposizione).

Consideriamo un esempio concreto: un professionista italiano crea una società a Malta che fattura consulenze per i suoi clienti, incassa i pagamenti e paga a Malta imposte molto basse; poi quei fondi vengono fatti pervenire al professionista sotto forma di rimesse non tracciate o altri artifici. Qui l’Agenzia potrebbe: (a) dimostrare che la società maltese è amministrata dall’Italia (riunioni svolte in Italia, decisioni prese dal professionista, ecc.) e quindi dichiararla residente in Italia, recuperando la tassazione piena sugli utili; (b) oppure, qualora emerga che i guadagni societari sono stati goduti direttamente dal professionista, contestare l’interposizione fittizia soggettiva e imputargli direttamente quei redditi ai sensi dell’art. 37, co.3. Spesso entrambe le strade portano a un risultato simile (tasse dovute in Italia più sanzioni).

Un caso interessante relativo all’esterovestizione è quello trattato dalla Cassazione Penale n. 12084/2023 (ambito penale-tributario): un imprenditore aveva omesso di dichiarare redditi utilizzando società estere e la Cassazione ha confermato il sequestro preventivo per equivalente, sottolineando come configurasse il reato di omessa dichiarazione ex art. 5 D.Lgs. 74/2000 in uno schema di esterovestizione. Ciò dimostra che l’uso di società estere fittizie non comporta solo accertamenti tributari, ma può integrare reati (sul punto torneremo a proposito dei profili penali).

Dal punto di vista amministrativo, la giurisprudenza tributaria ha più volte affermato che l’interposizione soggettiva rileva anche in contesti transnazionali: ciò che conta è dove si esercita il controllo e chi è il beneficiario effettivo. Ad esempio, già Cass. 26414/2018 e Cass. 26057/2015 (richiamate nella sentenza 9445/2025) evidenziavano che il possesso del reddito in mano a un titolare effettivo “divergente” dal titolare formale è coerente con un impianto probatorio indiziario. Tradotto: se una società in Lussemburgo appare titolare di un reddito, ma gli indizi dicono che quel reddito è nella disponibilità di un soggetto in Italia, l’art. 37, co.3 può essere applicato a prescindere dalle costruzioni estere. Ci sono state pronunce riguardo a holding estere create da italiani dove, provato che la gestione era domestica, i dividendi e plusvalenze sono stati tassati come se percepiti direttamente dall’italiano (saltando la holding). Va menzionato che esistono anche le norme CFC (Controlled Foreign Companies) che tassano per trasparenza in capo al socio italiano gli utili di società estere “paradisiache”, ma l’interposizione fittizia è un concetto più ampio: può applicarsi anche se la giurisdizione estera non è nella blacklist, se comunque la società è un puro strumento.

Un esempio pratico di interposizione estera: il caso Ferraris (nome di fantasia ripreso dalla stampa specializzata) collegato alla sentenza 9096/2025 – di cui abbiamo parlato – è illuminante. Un imprenditore aveva acquistato una società italiana tramite una holding svizzera controllata da un trust inglese; i dividendi della società italiana dovevano finire alla holding estera e lì presumibilmente essere non tassati o tassati molto poco, essendo la catena partecipativa estera. In teoria lo schema era “legale”, ma la realtà era che l’imprenditore stesso controllava l’intero meccanismo. La Cassazione ha ribadito che “gli organi di controllo ricostruiscono la sostanza economica al di là della forma giuridica. Quando il controllo resta in Italia, anche il reddito resta in Italia e il Fisco è legittimato a recuperare quanto dovuto”. Dunque, il trust e la holding sono stati considerati irrilevanti: quell’imprenditore italiano è stato trattato come se avesse direttamente percepito i redditi. Questo riflette un approccio sempre più integrato anche con gli strumenti internazionali: grazie allo scambio automatico di informazioni finanziarie (Common Reporting Standard) e alla direttiva DAC6 sulle segnalazioni dei meccanismi transfrontalieri, oggi il Fisco ha accesso a molti dati che aiutano a smascherare strutture esterovestite e ad attribuire i beni ai reali proprietari. Inoltre, i registri dei titolari effettivi istituiti in ambito UE (anche se con vicende alterne di accessibilità) puntano proprio a rendere trasparenti le compagini societarie e fiduciarie, rendendo arduo nascondere l’identità di chi sta dietro una società estera.

In definitiva, creare società o entità all’estero può essere perfettamente lecito e talora opportuno (si pensi a investimenti internazionali, joint venture, ecc.), ma se tali entità non hanno sostanza economica e servono unicamente a dissimulare l’operatività di un residente italiano, la probabilità che vengano ignorate dal Fisco è elevata. Il contribuente italiano che controlla entità estere deve essere pronto a dimostrarne la reale autonomia (personale, finanziaria, decisionale) se non vuole incorrere in contestazioni di esterovestizione o interposizione. Altrimenti, si troverà probabilmente destinatario di avvisi di accertamento che ridisegnano l’operazione: con la società estera considerata o come soggetto residente (quindi tassato come italiano) o come soggetto interposto (quindi del tutto bypassato, con tassazione direttamente in capo alla persona fisica).

D. Altre ipotesi: intestazioni a familiari, immobili e fattispecie simulate

Oltre ai casi “classici” (società e trust), l’interposizione fittizia può presentarsi in una varietà di situazioni quotidiane, talvolta insospettabili, nelle quali un contribuente intesta beni o redditi a terzi per conseguire vantaggi fiscali. Eccone alcune:

  • Intestazione di immobili a prestanome: ad esempio, un soggetto acquista un immobile ma lo fa risultare intestato a un parente (figlio, coniuge, etc.) per beneficiare di agevolazioni prima casa, o per evitare pignoramenti da parte del fisco se ha debiti. Dal punto di vista delle imposte dirette, i redditi (es. canoni di locazione) in realtà incassati dall’interponente potrebbero essere imputati a lui se l’Agenzia dimostra la simulazione di intestazione. Anche imposte indirette come l’imposta di registro potrebbero essere ricalcolate se emerge che l’acquirente effettivo non aveva diritto alle agevolazioni godute dal prestanome. Vicende del genere afferiscono al campo della simulazione civilistica: per es., Cass. 20398/2005 in materia di compravendita immobiliare ha affermato che un acquisto con denaro di Tizio ma intestato a Caio può configurare interposizione fittizia, con rilevanza anche ai fini di alcune imposte.
  • Conti bancari e investimenti intestati a terzi: un caso frequente è quello di capitali (talora di provenienza sommersa) depositati su conti di fiducia intestati, ad esempio, alla moglie o a un amico, così da non apparire nel patrimonio del soggetto. In caso di accertamenti finanziari, l’Agenzia può risalire al dominus di quei fondi e contestare l’omessa dichiarazione di redditi. Le presunzioni del D.P.R. 600/73 sulle movimentazioni bancarie (art. 32) fanno sì che, se un soggetto non giustifica adeguatamente accrediti a sé riferibili anche se su conti altrui, tali somme possano essere trattate come suoi redditi non dichiarati. Esempio: Caio, nullatenente, ha un conto con saldi milionari movimentato da Tizio; se Tizio è un imprenditore in evasione, l’Ufficio potrà presumere che quei milioni sul conto di Caio siano ricavi di Tizio (interposizione di persona nel possesso di disponibilità finanziarie).
  • Lavoro dipendente mascherato da consulenza tramite terzi: qui l’interposizione tocca la linea tra rapporto di lavoro e abuso contrattuale. Ci sono stati casi di aziende che pagavano i compensi a un lavoratore fatturando a una società riconducibile al lavoratore stesso, per evitare oneri contributivi e fiscali da lavoro subordinato. In tali schemi, se quella società è fittizia e serve solo a incassare il compenso, il Fisco (e l’INPS) possono disconoscere la società e considerare il rapporto come dipendenza diretta. Diverso ma affine è l’interposizione illecita di manodopera (che è però fattispecie sanzionata più che altro a livello giuslavoristico).
  • False cessioni o operazioni inesistenti: ad esempio, una finta cessione d’azienda a un prestanome per far figurare che l’imprenditore non possiede più nulla (magari per sfuggire a cartelle esattoriali). Se l’azienda continua ad essere gestita dall’originario proprietario, quella cessione sarà considerata simulata. Sul piano fiscale, i redditi d’impresa saranno comunque attribuiti all’originario proprietario (ora interponente) e la cessione potrà essere ignorata. Sul piano penale, un atto del genere potrebbe configurare sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (ne parleremo nel prossimo capitolo).

In tutte queste situazioni, l’elemento comune è la dissimulazione del soggetto che realmente trae utilità dall’operazione. L’Amministrazione finanziaria, spesso in collaborazione con la Guardia di Finanza, pone attenzione a segnali come: incoerenze reddituali-patrimoniali, collegamenti personali e familiari tra soggetti, movimenti di denaro inspiegabili tra conti, ecc. L’uso delle banche dati incrociate (anagrafe tributaria, registri immobiliari, PRA per veicoli, ecc.) consente oggi di evidenziare se un contribuente conduce beni o affari che non risultano a lui intestati. In sede di verifica fiscale, se emergono elementi sufficienti, gli organi accertatori formuleranno rilievi riconducendo la titolarità al sospetto interponente. Ovviamente, il contribuente può contestare e fornire la propria versione (ad esempio, nel caso di un bene intestato a un familiare, potrebbe sostenere trattarsi di una donazione genuina e che lui davvero non ne dispone più – sta poi a lui provarlo con fatti, come l’uscita del bene dal suo patrimonio e l’utilizzo da parte dell’altro senza sua ingerenza). La casistica è vastissima, ma la regola aurea è sempre quella: ciò che conta è chi ha la disponibilità effettiva. Se un nipote figura proprietario di 10 immobili ma ha 20 anni e zero capacità finanziaria, e lo zio imprenditore li utilizza e riscuote gli affitti, appare evidente dove si andrà a parare.

In conclusione di questa carrellata, possiamo stilare un breve elenco di esempi pratici di interposizione fittizia (tutti riferiti all’Italia) e della loro qualificazione fiscale:

  • Esempio 1: Società cartiera per evasione IVA. Mario crea la Alfa Srl, la usa per importare beni esentasse e rivenderli in nero, tenendo per sé i profitti. Qualificazione: Alfa Srl è interposta fittiziamente; Mario è amministratore di fatto e dominus; i redditi non dichiarati vengono imputati a lui (IRPEF) e l’IVA evasa viene richiesta a lui; sanzioni amministrative a Mario; possibile reato di frode fiscale.
  • Esempio 2: Trust auto-dichiarato familiare. Luigi conferisce i suoi immobili in un trust in cui egli è sia disponente che trustee e i beneficiari sono i suoi figli, ma continua a riscuotere personalmente tutti gli affitti e a gestire gli immobili. Qualificazione: trust interposto; per il Fisco Luigi è ancora il possessore degli immobili e deve dichiarare lui i canoni (IRPEF); il trust non è soggetto autonomo. Se Luigi poi trasferisce gli immobili a sé o ai figli, sarà considerata mera devoluzione di ciò che era sempre suo (nessuna tassazione aggiuntiva).
  • Esempio 3: Società estera di comodo. Un avvocato italiano opera formalmente tramite una LTD inglese (di cui è unico azionista) che fattura ai clienti; poi l’avvocato usa i soldi della LTD per spese personali mediante carta estera. Qualificazione: l’Agenzia può provare che la LTD è amministrata dall’Italia (sede di direzione effettiva in Italia) => la considera residente qui (tassazione IRES come società italiana). Inoltre o in alternativa, può sostenere che la LTD è interposta e che i compensi professionali in realtà sono reddito di lavoro autonomo di quell’avvocato (tassati IRPEF); quest’ultimo avrà l’onere di provare che la LTD ha vera attività fuori e che non gli ha trasferito utili occultamente.
  • Esempio 4: Immobile intestato al figlio. Un contribuente con debiti tributari intesta la sua casa al figlio ventenne per evitare ipoteche. Continua però ad abitare l’immobile e a mantenerlo. Qualificazione: il Fisco (e Equitalia) potrebbe dimostrare la simulazione (interposizione fittizia): civilmente l’atto può essere dichiarato simulato o revocato; fiscalmente, eventuali redditi connessi (es. plusvalenze da rivendita, se la casa fosse rivenduta) sarebbero imputati al padre. Inoltre, in caso di vendita, l’eventuale acquirente rischierebbe sanzioni se complice nella simulazione.
  • Esempio 5: Prestanome nel business individuale. Un artigiano con tasse elevate convince un amico a costituire una ditta individuale al posto suo: l’amico (prestanome) figura titolare dell’attività e dichiara redditi modesti, mentre l’artigiano di fatto gestisce e incassa i proventi. Qualificazione: l’amico è interposto; l’artigiano è l’interponente; se scoperto (spesso avviene confrontando gli incassi con lo stile di vita dell’artigiano, o per contraddizioni nelle dichiarazioni), l’Agenzia ricalcola tutto il reddito d’impresa come prodotto dall’artigiano e lo tassa in capo a lui, più sanzioni per dichiarazione infedele/omessa. L’amico prestanome potrà essere perseguito per complicità e sanzionato in solido eventualmente.

Come si vede, la varietà è grande. Nel mirino ci sono spesso rapporti familiari o fiduciari (sfruttati perché c’è fiducia che il prestanome non tradirà) e scatole giuridiche create ad hoc. Il denominatore comune è l’intento di ottenere un indebito vantaggio fiscale, sia esso la riduzione dell’imponibile o l’insolvenza pilotata verso il Fisco.

Conseguenze per il contribuente: accertamenti, sanzioni e profili penal-tributari

Comprendere le conseguenze di una contestazione di interposizione fittizia è fondamentale, soprattutto dal punto di vista del “debitore”, cioè del contribuente che – dopo aver messo in atto lo schema – si ritrova oggetto dell’azione fiscale. Possiamo distinguere tre ambiti di ricadute: (1) recupero delle imposte e accertamento tributario, (2) sanzioni amministrative tributarie, (3) eventuali responsabilità penali tributarie.

1. Accertamento e recupero delle imposte evase

Quando l’Agenzia delle Entrate (o la Guardia di Finanza in fase di verifica) individua un caso di interposizione fittizia, il primo passo è procedere a un accertamento fiscale che ridetermini la situazione imponibile secondo la realtà dei fatti. In pratica, come abbiamo spiegato, l’Ente interposto viene “trasparentato” e i redditi vengono imputati all’interponente. Ciò può comportare:

  • Maggiori imposte sui redditi (IRPEF, IRES) dovute: ad esempio, nel caso di società schermo, gli utili che erano stati tassati (o magari occultati) a livello societario vengono tassati in capo alla persona fisica con le aliquote progressive IRPEF, spesso ben più alte. Oppure, nel caso di trust interposto, i redditi che il trust non aveva tassato (o tassato a regime agevolato) vengono portati a tassazione piena dal disponente.
  • IVA e altre imposte: se l’interposizione riguarda un’attività economica, può darsi che l’interposto abbia omesso versamenti IVA, imposta di registro, IRAP, ecc. L’accertamento in capo all’interponente può includere tali imposte. Ad esempio, tornando al caso Cass. 1358/2023, all’amministratore occulto furono richiesti sia IVA sia IRAP oltre che IRES, perché la società cartiera non li aveva versati. L’art. 37, co.3 è stato applicato dalla Cassazione anche per l’IVA, sul presupposto che se l’interponente è trattato come effettivo imprenditore, allora anche l’IVA dovuta sulle operazioni ricade su di lui.
  • Perdita di agevolazioni o regimi fiscali: spesso l’interposizione è usata per ottenere aliquote o regimi più favorevoli. Quando viene disconosciuta, il contribuente si vede revocare tali benefici. Esempio: se una società dichiara la residenza in un paese con convenzione favorevole e applica ritenute ridotte sui dividendi, ma poi risulta interposta, l’Italia può richiedere la differenza come se i dividendi fossero stati percepiti direttamente (quindi magari soggetti a più alta tassazione). Oppure, se un prestanome ha usato un regime forfettario o la no-tax area, questi vantaggi decadono perché il reddito viene ricalcolato in capo all’interponente con il suo regime.
  • Effetti a catena su altri periodi d’imposta: l’accertamento potrebbe riguardare più anni (tipicamente l’Agenzia ricostruisce la posizione per tutti i periodi non prescritti). Per esempio, individuata una società interposta dal 2019 al 2022, il Fisco emetterà avvisi per ciascun anno in cui ci sono redditi non dichiarati dall’interponente.

Dal lato procedurale, il contribuente accusato di interposizione ha i normali diritti di difesa: può presentare memorie, chiedere il contraddittorio (in certi casi obbligatorio, es. per abuso del diritto lo è, per interposizione fittizia si discute se applicare 10-bis Statuto ma in genere no perché è più evasione che elusione). Una volta ricevuto l’avviso di accertamento, potrà impugnarlo dinanzi alle Commissioni Tributarie (ora Corti di Giustizia Tributaria). Nei giudizi, come visto, la questione è probatoria: se l’Agenzia ha un buon dossier di indizi, la difesa dovrà fornire prove contrarie solide. Non di rado, di fronte a contestazioni ben fondate, il contribuente può preferire cercare un accordo: l’ordinamento prevede strumenti come l’accertamento con adesione, il concilio giudiziale o (in casi particolari) il ravvedimento operoso (se il contribuente spontaneamente regolarizza prima di certi atti). Nel caso di interposizioni già scoperte, l’adesione può essere una strada per ridurre le sanzioni (si ottiene una riduzione a 1/3 delle sanzioni se ci si accorda in adesione) e rateizzare il dovuto.

2. Sanzioni amministrative tributarie

Le sanzioni amministrative in materia tributaria conseguono, di regola, all’accertamento di maggiore imposta dovuta. Nel contesto di interposizione fittizia, le violazioni tipiche contestate sono: omessa o infedele dichiarazione dei redditi, omessa dichiarazione di attività estere (quadro RW), omessi versamenti d’imposta, emissione di fatture false, ecc., a seconda del caso. La particolarità, come già evidenziato, è che se le violazioni erano formalmente riferite al soggetto interposto, una volta svelata l’interposizione esse vanno riferite all’interponente. La Cassazione ha chiarito che non opera la regola della responsabilità solo in capo alla persona giuridica (ex art. 7 D.L. 269/2003) qualora la società sia un puro schermo: in tali circostanze “le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite all’attività dell’interponente”. Dunque le sanzioni pecuniarie saranno dovute dal soggetto interponente (persona fisica).

Quali sanzioni amministrative si rischiano? Eccone alcune di rilievo:

  • Dichiarazione infedele (art. 1 D.Lgs. 471/97): se a causa dell’interposizione l’interponente non ha dichiarato redditi (o li ha dichiarati in misura inferiore) spettanti a lui, si applica una sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Ad esempio, se Caio ha occultato 100 di reddito tramite interposizione, e l’imposta evasa è 40, la sanzione base sarà tra 36 e 72. Questa è la sanzione tipica per omessa indicazione di componenti positivi di reddito. Se la dichiarazione è stata omessa del tutto (art. 2 D.Lgs. 471/97), la sanzione sale dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con minimo 250€. Ad esempio, se un contribuente non ha proprio presentato dichiarazione perché faceva figurare che tutto il reddito era della società estera, si configurerà omessa dichiarazione IRPEF: imposta evasa e sanzione 1,2x–2,4x.
  • Violazioni IVA: se l’interposizione coinvolge IVA (ad esempio fatture emesse da società interposta per coprire vendite fatte dall’interponente, oppure mancata fatturazione), si avranno sanzioni dal 90% al 180% dell’IVA non dichiarata/versata (art. 5 D.Lgs. 471/97). Nel caso di frodi complesse (es. false fatture, carosello) possono sommarsi anche sanzioni per emissione di fatture false (dal 100% al 200% dell’IVA indicata in tali fatture, art. 6 D.Lgs. 471/97).
  • Sanzioni su attività estere non dichiarate: la mancata compilazione del quadro RW per asset detenuti all’estero tramite interposti comporta sanzioni dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato (per ogni anno), che salgono al 6% – 30% se gli asset sono in Stati non collaborativi (black list) (art. 5, DL 167/90). Nel caso citato del trust inglese, la sanzione comminata di circa 6 milioni di euro lascia intendere che il valore delle partecipazioni estere fosse nell’ordine di parecchie decine di milioni, su cui è stato applicato probabilmente il 15% (trattandosi di attività schermate in trust – presumibilmente considerato black list in quanto opaco).
  • Altre sanzioni: ce ne possono essere di ulteriori, a seconda delle condotte: ad esempio l’utilizzo in dichiarazione di crediti d’imposta fittizi creati da interposte (sanzione dal 100% al 200% del credito inesistente utilizzato); l’indebita compensazione di debiti con crediti inesistenti (stesse percentuali); la violazione di normative specifiche (es. in ambito registro o bollo, se l’interposizione ha comportato sotto-pagamento di tali imposte).

Bisogna segnalare che il cumulo di imposte e sanzioni può portare a cifre estremamente elevate – talvolta superiori alle stesse capacità patrimoniali dell’interponente. Nell’esempio sopra, a fronte di 100 di reddito evaso, uno potrebbe trovarsi a dover pagare 40 di imposta + almeno altrettanto di sanzione + interessi, quindi 80+ in totale. Nel trust con attività estere, i 6 milioni di sanzione erano su imposte (forse forfettarie) non pagate e su obblighi di monitoraggio violati. A ciò si aggiungono interessi moratori (calcolati dal giorno in cui il tributo doveva essere versato a quello di pagamento effettivo). Per debiti ingenti su più anni, gli interessi possono essere consistenti.

L’interponente accertato, diventando il debitore principale, sarà soggetto alle procedure di riscossione coattiva su tutti i suoi beni se non paga spontaneamente (es. iscrizione a ruolo e cartella, ipoteche, fermi amministrativi, pignoramenti). Ricordiamo che l’ente interposto – in certi casi – rimane co-obbligato in solido per il pagamento delle imposte, ma se è nullatenente o liquidato, ciò di fatto mette pressione sull’interponente. Ad esempio, se Caio prestanome ha fatto la dichiarazione (infedele) di quei redditi, può esser chiamato anche lui come coobbligato per la sanzione? La regola generale (art. 9 D.Lgs. 472/97) prevede responsabilità solidale di società ed autore della violazione in alcuni casi, ma l’art. 7 del 2003 esclude la responsabilità di amministratori per sanzioni societarie. Nel caso di prestanome persona fisica, probabilmente il Fisco punterà tutto sull’interponente come autore sostanziale. Potrebbe però, per sicurezza, iscrivere a ruolo anche l’interposto se aveva presentato dichiarazioni magari omissive (un prestanome consapevole partecipa comunque all’illecito, quindi qualche appiglio per sanzionarlo esiste).

Riduzione e definizione delle sanzioni: Il contribuente, dal canto suo, se decide di collaborare può usufruire di talune riduzioni: ad esempio, con l’istituto dell’accertamento con adesione, la sanzione viene ridotta a 1/3 del minimo (quindi 30% se la violazione era dichiarazione infedele); con l’acquiescenza (pagamento entro 60 giorni senza ricorso) si ha una riduzione a 1/3; con il ravvedimento operoso (se fatto prima di notifica accertamento) le riduzioni sono ancor più significative ma raramente chi ha una interposizione scoperta riesce a ravvedersi prima di rilievi formali, perché per definizione finché non è scoperto non si autodenuncia. Ci sono stati però programmi di voluntary disclosure per attività estere in passato, grazie ai quali molti hanno sanato situazioni di interposizione su conti esteri pagando sanzioni ridotte ed evitando il penale. Tali programmi straordinari non sono attualmente aperti (ce ne furono nel 2015-2017).

3. Profili penali tributari

L’interposizione fittizia, soprattutto quando finalizzata a evasione fiscale consistente, può integrare diverse fattispecie di reato previste dal D.Lgs. 74/2000 (la legge penale tributaria). È importante comprenderne i contorni, sia per valutare i rischi penali per l’interponente, sia per capire le possibili linee di difesa e le condizioni di non punibilità.

I reati potenzialmente configurabili in contesti di interposizione sono essenzialmente due categorie:

  • reati di dichiarazione fraudolenta o infedele, legati all’evasione in sé (utilizzo di artifici, documenti falsi, omessa dichiarazione);
  • reati di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, legati agli atti compiuti per rendere inefficace la riscossione (tipicamente, intestare beni a terzi per non farli pignorare dal Fisco).

Reati dichiarativi (artt. 2, 3, 4, 5 D.Lgs. 74/2000):

  • Se l’interposizione ha portato a occultare redditi superando le soglie di rilevanza penale, potrebbe configurarsi la dichiarazione infedele (art. 4) o, se i metodi sono particolarmente ingannevoli, la dichiarazione fraudolenta. Ad esempio, un imprenditore individuale che non dichiara 2 milioni di ricavi intestandoli alla società-schermo, supera la soglia di €100.000 di imposta evasa prevista dall’art. 4 e quindi commette reato di dichiarazione infedele (punibile con reclusione 2 anni in su). Se per realizzare ciò ha anche utilizzato fatture false (ad esempio, la società interposta emetteva fatture fittizie per crearsi costi finti o per dargli giustificazioni contabili), allora subentra l’art. 2 (dichiarazione fraudolenta con uso di fatture o altri documenti falsi), punito più gravemente (fino a 8 anni). Nel caso di interposizione, spesso non si usano fatture false perché il trucco sta nell’intestare l’attività a un altro soggetto; tuttavia a volte la società interposta produce documenti falsi per spostare costi o ricavi.
  • Anche senza documenti falsi, l’art. 3 D.Lgs. 74/2000 punisce la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: ossia qualsiasi messa in atto di artifici idonei a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore il Fisco, accompagnata dall’indicazione di elementi attivi/passivi falsi in dichiarazione e con soglia di evasione €30.000 imposta. Un tipico “artificio” è la creazione di una struttura societaria fittizia che renda difficoltosa la riconducibilità dei redditi al vero autore. La giurisprudenza considera che “qualsiasi comportamento che, ancorché formalmente lecito, sia connotato da inganno o artificio, volto a ostacolare l’accertamento, integra il reato di dichiarazione fraudolenta” ex art. 3. Quindi, : la costituzione e l’uso di un soggetto interposto per evadere può rientrare in questa fattispecie. Il Tribunale di Roma (caso 2018 sul trust) ha evidenziato che occorre però distinguere tra mero ostacolo e inganno/frode: non basta che un atto renda più difficile la riscossione, serve un quid pluris di artificiosità. Nel contesto dichiarativo, usare un prestanome è chiaramente un artificio ingannatorio. Pertanto, se grazie all’interposizione il contribuente ha presentato una dichiarazione infedele, nascondendo la sua posizione, e l’imposta evasa supera €30.000, è probabile contestino l’art. 3 (4-8 anni di reclusione).
  • Omessa dichiarazione (art. 5): se l’interponente non presenta proprio la dichiarazione dei redditi confidando che i redditi risultino dichiarati dal prestanome o non emergano, e l’imposta evasa supera €50.000, commette il reato di omessa dichiarazione (punito 2-5 anni). Ciò accade ad esempio quando l’interponente, formalmente, non avrebbe redditi (perché tutto risulta in capo ad altri). L’esempio classico: un soggetto fa figurare la ditta a nome della moglie; la moglie dichiara magari redditi minimi; lui non presenta dichiarazione perché risulta “nullatenente” – ma in realtà vive di quell’attività. Se su quella quota di reddito non dichiarata l’imposta superava 50k, l’omessa dichiarazione c’è.

In tutti questi casi, naturalmente, occorre il dolo (intenzione di evadere) che, in simili schemi, è generalmente evidente (non c’è interposizione “involontaria”). Le soglie di punibilità fanno sì che piccole evasioni non siano reato, ma la maggior parte delle interposizioni fittizie degne di nota comportano evasioni consistenti.

Reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000):
Questo reato scatta quando, al fine di evitare il pagamento di imposte già dovute o di sanzioni, un soggetto compie atti fraudolenti sui propri o altrui beni tali da pregiudicare l’azione di riscossione. È punito con reclusione da 6 mesi a 4 anni (e da 1 a 6 anni se l’importo del debito superava 100.000 €, secondo l’aggravante introdotta nel 2015). Esempio tipico: ho ricevuto una cartella esattoriale o prevedo una grossa verifica a breve, e trasferisco tutti i miei beni a un prestanome (faccio vendite simulate, creo trust ad hoc) per non farmeli pignorare. Ecco, questa è la tipica sottrazione fraudolenta. La giurisprudenza ha considerato integrato questo reato in vari casi di trust o fondi patrimoniali costituiti per schermare beni dai debiti fiscali.

Un elemento fondamentale del reato è la presenza di un “atto fraudolento”. La semplice alienazione di un bene a terzi, pur rendendo inefficace la riscossione, non basta: la norma richiede il connotato della fraudolenza, che implica un quid di inganno, simulazione o artifizio. Per intenderci, se uno ha un debito e vende davvero un immobile per far cassa, quell’atto in sé non è reato (potrebbe essere revocabile civilmente, ma non penale) a meno che dietro ci sia una simulazione (es. vendita fittizia a un amico compiacente per fargliela custodire). I trust rientrano in area sensibile: spesso vengono istituiti per proteggere beni dai creditori; se il fisco è tra questi creditori, il rischio art. 11 è concreto. Nel caso del Tribunale di Roma 2018, però, gli imputati furono assolti perché il trust era autodichiarato e prevedeva comunque il pagamento dei debiti fiscali, quindi il giudice non ravvisò la volontà di sottrarre fraudolentemente nulla. Inoltre, sottolineò che la mera idoneità a ostacolare il Fisco non è sufficiente: serve uno stratagemma ingannatorio. Ad esempio, costituire un trust segretamente e trasferirvi tutti i propri soldi poco prima di una verifica può considerarsi fraudolento (c’è un occultamento intenzionale); costituire un trust palese prima ancora di avere debiti, con scopi dichiarati, potrebbe non esserlo. In pratica, la differenza è sottile e soggettiva. Cass. Penale ha comunque spesso una visione severa: un atto simulato (come una vendita fittizia o un conferimento in trust solo apparente) è sicuramente fraudolento. Un atto realmente dispositivo ma fatto con finalità di sottrazione viene valutato caso per caso.

Quanto all’interposizione fittizia, essa è in sé un modus operandi che può costituire la fraudolenza richiesta dall’art. 11. Ad esempio, intestare i propri beni a un prestanome (interposizione reale o fittizia di persona) proprio per evitare aggressioni dell’Erario è textbook sottrazione fraudolenta. Cassazione Penale ha avuto modo di affermare, ad esempio, che far risultare un terzo come acquirente di un immobile all’asta al proprio posto per evitare che l’Equitalia te lo prenda configura art. 11. Quindi, chi attua un’interposizione nei beni quando ha cartelle esattoriali in arrivo, rischia seriamente la denuncia penale.

Sanzioni penali e cause di non punibilità: se condannato per uno di questi reati, l’interponente può subire pene detentive (nei limiti visti, spesso convertibili in misure alternative se minori di 3 anni, ma comunque casellario, interdizioni, ecc.). Va ricordato però che il D.Lgs. 74/2000 prevede alcune cause di non punibilità o attenuanti legate al pagamento del dovuto. In particolare, l’art. 13 prevede che per alcuni reati dichiarativi (art. 4 e 5, e ora a certe condizioni anche art. 2 e 3) il pagamento integrale di imposte, sanzioni e interessi prima dell’apertura del dibattimento di primo grado estingue il reato. Ad esempio, se Tizio viene indagato per dichiarazione infedele e, prima del processo, salda tutto il dovuto al Fisco, potrà ottenere la non punibilità. Questa norma è stata ampliata nel 2019, includendo appunto i reati di frode (2 e 3) oltre che infedele e omessa, ma con alcune condizioni stringenti. Ciò significa che un contribuente colto con interposizione fittizia può scegliere di correre ai ripari, pagare tutto (magari vendendo beni) e così evitare il penale. Non sempre è facile perché gli importi possono essere enormi, però esiste questa via. Per il reato di sottrazione fraudolenta (art. 11) la causa di non punibilità non opera, tuttavia il pagamento integrale del debito tributario prima del giudizio costituisce un’attenuante che il giudice può valutare (spesso portando a pene più miti o a concordati in dibattimento).

Esempio pratico: riprendiamo il caso del trust post mortem dell’artista con 25 milioni di debiti (Trib. Roma 2018). Lì, curiosamente, il trust imponeva di pagare i debiti e fu fatto prima dell’accertamento. Il Tribunale disse che non c’era inganno -> niente reato. Ma se fosse stato considerato reato e gli eredi avessero poi pagato il dovuto, difficilmente li avrebbero condannati duramente. Invece, chi trasferisce beni e non paga nulla poi, rischia la reclusione.

Responsabilità di eventuali prestanome o consulenti: il discorso penale tocca non solo l’interponente, ma anche eventuali complici. Ad esempio, il prestanome formale (amico, familiare) potrebbe rispondere come concorrente nel reato dichiarativo o di sottrazione, se emerge che era consapevole del disegno criminoso e ha dato un contributo causale (anche solo prestando il nome, ma sapendo perché). Spesso tuttavia il prestanome è nullatenente e di scarsa utilità punirlo; i PM tendono a colpire il beneficiario principale. Anche eventuali consulenti fiscali o legali che abbiano architettato il sistema potrebbero incorrere in responsabilità penale in concorso (ci sono casi di professionisti incriminati come istigatori di frodi fiscali). Chiaramente devono aver avuto un ruolo attivo e dolo specifico di evasione.

231/2001 (responsabilità amministrativa enti): una nota al margine: dal 2019 alcuni reati tributari (fra cui dichiarazione fraudolenta, emissione di false fatture) possono far sorgere responsabilità amministrativa da reato a carico delle società (D.Lgs. 231/2001, art. 25-quinquiesdecies). Quindi, se ad esempio una società reale commette frodi fiscali tramite interposizioni, anche la società (se ne trae vantaggio) può essere sanzionata con pene pecuniarie e interdittive. Nei casi di società schermo, questo tema è meno rilevante perché la società schermo di solito non ha modello 231 e non beneficia realmente (beneficia il singolo).

Riassumendo i rischi penali per l’interponente/debitore:

  • Rischio di incriminazione per reati di evasione (infedele, fraudolenta, omessa) se l’interposizione ha comportato evasione sopra soglie. Pene anche elevate (fino 8 anni nei casi peggiori di frode).
  • Rischio di incriminazione per reato di sottrazione se ha movimentato/alienato beni per non pagare (fino 6 anni).
  • Possibilità di evitare il carcere solo pagando integralmente i debiti tributari (il che comunque potrebbe essere un salasso, ma quantomeno salva la fedina penale). Norme premiali incoraggiano chi può a farlo.
  • Procedimenti penali lunghi e dispendiosi, con misure come sequestri preventivi sui beni equivalenti all’imposta evasa (per garantire la confisca). Infatti, in molte indagini, quando scoprono un’interposizione, la Procura fa sequestrare beni dell’interponente sino a concorrenza dell’evaso.
  • In caso di condanna, oltre alla pena detentiva possono esserci effetti collaterali: interdizione dai pubblici uffici, incapacità a contrattare con la PA, ecc., per i periodi previsti dal codice penale.

Dal punto di vista di chi subisce un’indagine penale da interposizione, la difesa spesso verte su due fronti: (a) dimostrare che l’imposta evasa è sotto soglia (così da far derubricare a illecito amministrativo); (b) contestare l’elemento fraudolento o l’imputabilità soggettiva (es. “non ero io il beneficiario”, cioè ribadire che l’interposto era autonomo – linea però rischiosa se le prove indicano diversamente). Nel penale vige il principio “oltre ogni ragionevole dubbio”, quindi se restano incertezze forti sulla ricostruzione, il giudice penale può anche assolvere, dove invece in sede tributaria bastava la probabilità prevalente. Questo spiega perché talvolta un trust può essere ignorato dal Fisco ma non considerato reato: in Tribunale possono dire “non c’è prova di artificio”, pur se fiscalmente è stato sanzionato.

Strategie difensive e prevenzione: il punto di vista del contribuente

Dal lato del contribuente (specie se imprenditore o professionista), qual è il takeaway? Il miglior consiglio è ovviamente evitare di ricorrere a interposizioni fittizie: nel medio-lungo termine i rischi (fiscali e penali) superano di gran lunga i benefici immediati. L’amministrazione finanziaria è sempre più attrezzata per scoprire tali schemi, e la collaborazione internazionale rende difficile nascondersi all’estero. Inoltre la giurisprudenza, come abbiamo visto, è decisamente pro-fisco su questi temi, privilegiando l’interpretazione economica e sostanziale.

Tuttavia, volendo assumere la prospettiva di chi si trova coinvolto (o sta valutando operazioni borderline), possiamo delineare alcune possibili linee d’azione:

  • Strutturare operazioni lecite con sostanza economica: se l’obiettivo è pianificazione fiscale (ridurre legalmente le imposte), occorre farlo con strumenti che abbiano una logica di business vera. Ad esempio, se si intende internazionalizzare un’attività, costituire una società estera può avere senso, ma bisogna dotarla di reale autonomia (ufficio locale, amministratori indipendenti, capitalizzazione adeguata, rischio d’impresa reale a suo carico). Così, in caso di verifica, si potrà difendere l’operazione come genuine business e non come schermo. Se invece si crea una “scatola vuota”, la difesa è indifendibile. In altre parole, sostanza, sostanza, sostanza – questa è la chiave per non incorrere in interposizione.
  • Trasparenza e documentazione: un contribuente che usa strumenti potenzialmente sospetti (trust, società estera, ecc.) ma per scopi legittimi, dovrebbe mantenere la massima trasparenza: tenere traccia di delibere, decisioni prese da organi esteri senza sue ingerenze, separare nettamente i conti e le spese, evitare mescolanze. Ciò serve a costruire un eventuale dossier difensivo per dimostrare: “vedete, io non disponevo di quei beni come fossi proprietario; ecco le prove”. Ad esempio, nel trust genuino, il disponente non deve ricevere pagamenti non previsti dall’atto, e se li riceve occorre giustificarli (diverse pronunce hanno considerato la percezione di somme dal trust come forte indice di interposizione).
  • Richiedere un parere o interpello all’Agenzia: l’ordinamento consente di presentare interpelli per avere certezza su specifiche situazioni. Ad esempio, se creo un trust e voglio essere sicuro che non venga considerato interposto, posso chiedere all’Agenzia un parere (come nel caso della Risposta 145/2025 citata) descrivendo l’operazione. L’Agenzia se ritiene, risponderà che in base agli elementi il trust è da considerarsi soggetto autonomo (oppure che è interposto). Questo ovviamente implica apertura e buona fede: se l’Agenzia fiuta un intento elusivo, potrei ricevere risposta negativa. Ma dall’altro lato, l’interpello offre protezione: se la risposta conferma la bontà dell’operazione e io mi attengo, non potrò essere sanzionato poi (salvo cambiamenti di legge). Certo, molti che intendono evadere non interpelleranno mai il Fisco… però per chi è incerto su un confine (magari un’operazione di pianificazione successoria con trust), è uno strumento saggio. Anche la disclosure volontaria in dichiarazione di operazioni potenzialmente elusive può evitare la sanzionabilità per abuso di diritto (art. 10-bis prevede niente sanzioni se si è esposto il vantaggio nella nota in dichiarazione). Quindi, agire in modo non occulto riduce rischi penali e di sanzioni.
  • Difendersi in giudizio: se l’accertamento arriva, la difesa deve puntare su fatti concreti che smentiscano gli elementi dell’ufficio. Esempi di argomenti difensivi: dimostrare che il soggetto interposto aveva una propria capacità contributiva (es. il prestanome aveva risorse sue, quindi non necessariamente i fondi provenivano dall’interponente); evidenziare eventuali errori procedurali del Fisco (anche aspetti formali possono portare ad annullamento, come vizi di motivazione degli avvisi di accertamento, mancato contraddittorio quando dovuto, ecc.); nel penale, sostenere l’assenza di dolo specifico (magari difficilmente credibile, ma se l’interposizione era opera di un consulente fraudolento all’insaputa, in teoria…). In sede tributaria, se proprio non si può negare l’interposizione, talvolta conviene contestare il quantum: trattare su una riduzione delle pretese (specie se l’ufficio ha ricostruito per presunzioni e magari eccedenti).
  • Pagare il dovuto per evitare guai peggiori: se un contribuente riconosce di essere in fallo e vuole chiudere la vicenda, può optare per sanare il debito il prima possibile, sfruttando magari il ravvedimento (con sanzioni ridotte) se ancora in tempo o aderendo all’accertamento. Pagare subito inoltre, come visto, aiuta enormemente sul versante penale (possibile non punibilità ex art. 13). Certo, ciò presuppone di averne la disponibilità finanziaria, cosa non scontata. Però il legislatore ha voluto incentivare il pentimento operoso: meglio tardi che mai. In ottica del debitore, estinguere il debito tributario toglie anche l’assillo di pignoramenti futuri e preserva reputazione.
  • Utilizzare strumenti alternativi leciti: esistono modi per perseguire certi obiettivi senza finire nell’interposizione illecita. Ad esempio, per proteggere beni da rischi imprenditoriali, si può costituire un fondo patrimoniale (per quanto opponibile in limiti ristretti al Fisco) o stipulare polizze assicurative; per ridurre il carico fiscale, ci sono i regimi agevolati o incentivi (vedi Patent Box, ACE, reimpostazione del business in forme societarie trasparenti ma lecite). In sostanza, rivolgersi a consulenti qualificati per pianificare senza infrangere la legge è l’approccio raccomandato. Spesso chi finisce nelle maglie dell’interposizione lo fa seguendo consigli sbagliati di pseudo-consulenti che vendono schemi facili (società in Delaware, trust alle Cook Islands…) ma ignorano volutamente il fatto che il Fisco ha strumenti per contrastarli. Oggi l’informazione è più diffusa: un imprenditore accorto dovrebbe diffidare di soluzioni miracolose che implicano “intestiamo tutto a un altro, così non paghi più tasse”.
  • Nel dubbio, bonificare la situazione: se qualcuno ha in essere strutture potenzialmente contestabili, prima che arrivi l’accertamento potrebbe valutare di “smontarle” spontaneamente, regolarizzando. Ad esempio, se c’è una società estera vuota, liquidarla e far rientrare i capitali dichiarandoli, eventualmente usando il ravvedimento per quadri RW non compilati, potrebbe evitare sanzioni future (pagando ora il dovuto con riduzioni). Oppure se si ha un trust fittizio, valutare di scioglierlo e dichiarare gli eventuali redditi in capo ai reali proprietari. È sempre preferibile una regolarizzazione volontaria che subire le contestazioni a sorpresa.

In chiusura, dal punto di vista del contribuente debitore d’imposta, il fenomeno dell’interposizione fittizia si può considerare un’arma a doppio taglio: nell’immediato può far risparmiare imposte o proteggere beni, ma sul lungo periodo espone a rischi di conseguenze amplificate (imposte recuperate con interessi, sanzioni enormi, addirittura procedimenti penali). Il consiglio pratico è di perseguire gli obiettivi fiscali con trasparenza e sfruttando le regole del gioco in modo lecito (ci sono modi per ottimizzare il carico fiscale senza uscire dalla legalità). Se invece si è già in situazione critica, il consiglio è di consultare un professionista per mettere in atto la migliore strategia difensiva o transattiva, minimizzando i danni e magari rientrando in bonis per il futuro. Spesso, mostrando collaborazione e buona fede tardiva (ad esempio pagando e non reiterando comportamenti illeciti), si può anche negoziare esiti più miti. Al contrario, perseverare nell’occultamento una volta scoperti peggiora solo la posizione.

Domande frequenti (FAQ) sull’interposizione fittizia

D: In termini semplici, che cos’è l’interposizione fittizia in ambito tributario?
R: È un meccanismo attraverso cui un soggetto nasconde i propri redditi o beni dietro un’altra persona (fisica o giuridica) che funge da prestanome. In pratica, il vero contribuente (interponente) non appare come tale di fronte al Fisco, perché i redditi risultano intestati a un interposto. È un artificio usato per evadere o eludere le tasse, ma la legge fiscale consente di scoprirlo e di tassare comunque il reale possessore dei redditi.

D: Quali sono gli esempi più comuni di interposizione fittizia?
R: Alcuni esempi tipici:

  • Un imprenditore che fa figurare i guadagni della sua attività su una società di comodo o sul conto di un familiare nullatenente (società schermo o prestanome persona fisica).
  • La creazione di un trust fasullo, dove il disponente in realtà continua a gestire e beneficiare dei beni come nulla fosse cambiato.
  • La costituzione di una società estera controllata da un residente (esterovestizione), usata per fatturare all’estero profitti generati in Italia e non dichiararli al fisco italiano.
  • L’intestazione finta di beni (case, auto, barche) a terzi per non pagarci le imposte o per sottrarli ai riscossori.
    In tutte queste situazioni, l’apparenza giuridica non corrisponde alla realtà economica: c’è un soggetto che di fatto possiede/guadagna, e un altro che di diritto appare come proprietario o percettore.

D: L’interposizione fittizia è diversa dall’elusione fiscale o abuso del diritto?
R: Sì, anche se sono concetti affini. Nell’elusione fiscale (abuso del diritto) il contribuente sfrutta strutture legali lecite ma artificiali per ottenere un risparmio d’imposta, senza violare apertamente la legge, e senza necessariamente nascondere la propria identità. Ad esempio, fusioni, trasferimenti o operazioni societarie fatte solo per motivi fiscali. L’interposizione fittizia, invece, implica proprio un soggetto schermo: c’è un inganno sulla titolarità, una sorta di “recita” in cui un altro soggetto finge di essere il contribuente. Si può dire che l’interposizione fittizia è più vicina all’evasione (occultamento) che all’elusione. Un’operazione può essere sia abusiva sia fittizia: es. creare una società estera priva di funzione economica reale (abuso) e farla figurare proprietaria al posto proprio (interposizione). La differenza pratica è che l’abuso del diritto, una volta contestato, comporta il solo recupero delle imposte (senza sanzioni se il contribuente ha agito in trasparenza), mentre l’interposizione fittizia comporta recupero e sanzioni, essendo considerata una forma di frode/occultamento.

D: La legge italiana come contrasta l’interposizione fittizia?
R: Principalmente con l’art. 37, comma 3, DPR 600/1973, che permette di imputare i redditi al loro effettivo possessore anche se formalmente risultano di altri. Inoltre ci sono:

  • Presunzioni di residenza per chi finge di risiedere all’estero;
  • Obblighi di dichiarazione del titolare effettivo degli investimenti esteri (Quadro RW);
  • La normativa generale anti-abuso (art. 10-bis L.212/2000) che smaschera le operazioni prive di sostanza;
  • Nel penale, vari reati (dichiarazione fraudolenta, sottrazione fraudolenta) puniscono chi utilizza artifici come prestanome, trust fasulli ecc. per evadere o non pagare il dovuto.
    In sostanza, c’è un arsenale normativo che copre sia il momento dell’accertamento (fase amministrativa) sia eventuali comportamenti dolosi (fase penale). L’Italia negli ultimi anni ha anche aderito a scambi di informazioni internazionali che rendono molto difficile celare redditi fuori confine dietro entità opache.

D: Che differenza c’è tra interposizione fittizia e interposizione reale?
R: Sono due varianti del fenomeno di interposizione di persona. La fittizia è una simulazione pura: l’interposto è d’accordo che farà solo da nome prestato, e tutte le operazioni reali le fa l’interponente (è una testa di legno). La reale invece vede l’interposto operare davvero, ma poi trasferire il risultato all’interponente (quindi c’è un accordo di ritrasferimento). Un esempio concreto: interposizione fittizia è intestare la propria società al prestanome che non partecipa per nulla all’attività; interposizione reale è far gestire un’attività a un fiduciario che però poi ti gira gli utili in nero. Ai fini fiscali, comunque, non c’è differenza: in entrambi i casi il Fisco punta a tassare chi di fatto ottiene il reddito. La Cassazione ha espressamente detto che l’art. 37, c.3 DPR 600/73 si applica a qualsiasi dissociazione tra titolare formale e possessore effettivo, sia con simulazione che senza.

D: Se costituisco un trust, rischio che il Fisco lo consideri interposizione fittizia?
R: Dipende da come è costituito e gestito il trust. Se il trust è genuino – ad esempio, affido i beni a un trustee indipendente, rinuncio a ogni controllo, non sono beneficiario – allora è più probabile che venga rispettato fiscalmente come entità autonoma (pagherà le imposte il trust stesso o i beneficiari, secondo le regole). Se invece il trust è “di facciata” – tipicamente i trust familiari dove disponente e trustee coincidono, o dove il disponente manovra tutto dietro le quinte – allora l’Agenzia delle Entrate lo ignorerà e farà finta che non esista, tassando i redditi come se fossero ancora del disponente. Indizi negativi: disponente = trustee; disponente che può revocare trustee o nominare sé stesso beneficiario; beni del trust usati ancora dal disponente; trust istituito all’estero ma con gestione di fatto in Italia. In questi casi, molto alta la probabilità di qualifica come trust interposto. In sintesi: trust ok se c’è reale spossessamento e gestione separata; trust non ok se è un guscio vuoto con dentro sempre la stessa persona che lo ha creato.

D: Quali conseguenze fiscali subisce chi viene scoperto ad utilizzare un’interposizione fittizia?
R: Le conseguenze sono pesanti:

  • Recupero delle imposte evase con relativi interessi: si pagherà tutto ciò che si era evitato di pagare, come se i redditi fossero stati dichiarati dal principio dall’interponente (più interessi legali maturati nel frattempo).
  • Sanzioni amministrative molto salate: per aver occultato redditi scattano sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta evasa, per omessa dichiarazione dal 120% al 240%, per omessa dichiarazione di investimenti esteri 3-15% del valore all’anno, e così via. Quindi le sanzioni spesso raddoppiano l’esborso totale.
  • Accertamenti retroattivi: il Fisco normalmente recupera fino agli ultimi 5 anni (fino a 7 se c’è omessa dichiarazione). Significa che se uno ha usato un prestanome dal 2018 al 2023, si vedrà rifatti i conti di 5-7 annualità, con cumulo di imposte e sanzioni per ciascuna.
  • Perdita di eventuali benefici fiscali: ogni agevolazione o aliquota ridotta ottenuta tramite l’interposto viene revocata. Ad esempio, se una società estera interposta aveva goduto di una ritenuta minore, verrà riaddebitata la differenza; se un prestanome ha usato regime forfettario, l’interponente non ne ha diritto se non ha requisiti, ecc.
    In poche parole, il conto finale economico può essere devastante per il contribuente. Non solo: egli diventa debitore diretto verso l’Erario, quindi soggetto a cartelle esattoriali, pignoramenti, ipoteche sui suoi beni qualora non paghi spontaneamente. Senza contare il possibile danno reputazionale (perdita di affidabilità verso banche, etc., se emergono frodi fiscali).

D: Ci sono anche implicazioni penali? L’uso di prestanome può portare in carcere?
R: Sì, l’utilizzo di interposizioni fittizie spesso integra reati tributari. I possibili reati sono:

  • Dichiarazione fraudolenta mediante artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000) se si supera €30k di imposta evasa e l’interposizione è considerata un artificio ingannatorio che ha ostacolato l’accertamento. Usare prestanome e società fantoccio è tipico esempio di artifizio fraudolento. Pena: reclusione 4-8 anni.
  • Dichiarazione infedele (art. 4) se l’imposta evasa > €100k (e l’artificio non è così grave da configurare frode): reclusione 2-4.5 anni.
  • Omessa dichiarazione (art. 5) se non si è proprio presentata dichiarazione (affidandosi magari al fatto che dichiarava l’interposto), con imposta evasa > €50k: reclusione 2-5 anni.
  • Emissione di fatture false (art. 8) se l’interposto ha emesso documenti fittizi per creare costi o crediti falsi per l’interponente: reclusione 4-8 anni (è un reato spesso connesso alle interposizioni societarie in frodi IVA).
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11) se l’interposizione è servita a sottrarre beni alle pretese di riscossione (tipico: intestare la casa altrui per non farla pignorare): reclusione 6 mesi-4 anni (fino a 6 anni se debito >100k). Questo reato prescinde dall’evasione in sé, punisce l’aver occultato il patrimonio con atti fraudolenti per non pagare. Una interposizione negoziale simulata è considerata atto fraudolento, quindi ad esempio vendere fittiziamente i beni al prestanome prima che Equitalia arrivi è punibile.
    In sintesi, sì, c’è il rischio penale e le pene non sono lievi. Molti casi di interposizione fittizia (soprattutto se somme grandi o schemi complessi) portano a procedimenti penali per frode fiscale. Basti pensare alle cronache: spesso leggiamo di soggetti arrestati per aver creato “società cartiere”, “fiduciarie di comodo”, “trust fittizi” – tutti casi di interposizione. Naturalmente, ogni caso ha le sue sfumature: se le somme evase non superano le soglie, rimane solo l’illecito amministrativo (niente penale). E va detto che la legge offre una via di uscita: se prima del giudizio il contribuente paga tutti i debiti tributari, per molti reati scatta la non punibilità (ad es. per dichiarazione infedele, fraudolenta, omessa – art. 13 D.Lgs. 74/2000). Questo incentiva a ravvedersi e risarcire l’Erario. Ma se uno non paga e viene condannato, la prospettiva del carcere (o di pene alternative restrittive) è concreta.

D: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire un’interposizione fittizia?
R: Attraverso vari mezzi investigativi e analitici:

  • Controlli incrociati delle dichiarazioni: se un soggetto dichiara poco o nulla ma un suo possibile prestanome dichiara redditi significativi, l’Ufficio può insospettirsi (soprattutto se c’è legame familiare o societario).
  • Spesometro e indici di spesa: il Fisco conosce le spese registrate (auto, ville, barche, carte di credito). Se Tizio appare nullatenente ma risulta che guida un’auto di lusso intestata a Caio, o vive in una villa intestata a una società, questi sono segnali.
  • Indagini finanziarie: l’AdE può ottenere i movimenti bancari. Spesso è risolutivo: se il conto del prestanome è movimentato dall’interponente (es. bonifici a suo favore, girate di assegni), c’è la pistola fumante. Nel caso di trust, se emergono bonifici dal trust al disponente non previsti dall’atto, è evidente.
  • Verifiche della Guardia di Finanza: la GdF quando fa un accesso presso un’azienda, ad esempio, può capire chi la gestisce davvero. Ci sono stati casi in cui i militari, esaminando email, telefonate, o parlando coi dipendenti, scoprivano che “il vero capo” era un altro rispetto all’intestatario formale. Quelle informazioni poi confluiscono nel PVC (processo verbale di constatazione) e fanno prova.
  • Banche dati e registri: oggi abbiamo il registro dei titolari effettivi (in via di implementazione), l’anagrafe conti, collegamenti tramite codici fiscali – strumenti che permettono di collegare persone e società. Anche le informazioni estere (scambio CRS) rivelano se un italiano controlla conti o entità fuori confine.
  • Presunzioni legali: come detto, certe situazioni sono iure et de iure sospette. Esempio: un trasferimento di residenza in un paradiso fiscale è presunto fittizio salvo prova contraria; oppure un trust in black-list con disponente italiano è oggetto di attenzione quasi automatica.
    In pratica, non esistono più i paradisi sicuri o l’anonimato totale. Certo, i controlli non sono onnipresenti: tipicamente scattano su indici di anomalia (es. grandi patrimoni a fronte di redditi dichiarati bassi, operazioni con l’estero inconsistenti, segnalazioni antiriciclaggio). Dunque può passare del tempo, ma se e quando si viene selezionati per verifica, l’interposizione fittizia lascia sempre qualche traccia seguendo i soldi o la gestione.

D: Come può difendersi un contribuente accusato di interposizione fittizia?
R: Le strategie difensive principali sono:

  • Dimostrare l’autonomia dell’interposto: cioè cercare di provare che il soggetto formalmente intestatario era in realtà indipendente e che i redditi davvero sono rimasti a lui/lei, non all’interponente. Ad esempio, portare evidenze che il prestanome aveva mezzi propri per generare quei redditi, o che li ha effettivamente spesi/investiti per conto suo e non dell’altro. Questa difesa è difficile se l’Agenzia ha raccolto indizi solidi contrari, ma è l’unica per contestare nel merito l’accertamento.
  • Contestare la validità degli indizi: evidenziare eventuali errori o forzature nella ricostruzione del Fisco. Per esempio, dimostrare che alcune presunzioni non sono poi così “gravi, precise e concordanti”; magari produrre documenti che offrano una spiegazione alternativa lecita a certi movimenti.
  • Vizi procedurali: verificare se l’accertamento è stato notificato correttamente, se è motivato in modo sufficiente (deve spiegare perché si ritiene l’interposizione), se l’ufficio ha rispettato il contraddittorio (specie in casi di abuso del diritto potrebbe essere richiesto). Un vizio può far annullare l’atto a prescindere dal merito, anche se poi spesso l’ufficio può riemetterlo correggendo il vizio (entro termini).
  • Accordi transattivi: come accennato, se la difesa nel merito è deboluccia, può essere conveniente tentare un accordo (accertamento con adesione) per chiudere la lite con uno sconto sulle sanzioni e, a volte, su alcuni imponibili dubbi. L’adesione permette anche di dilazionare il pagamento. Si rinuncia a far causa fino in fondo, ma si ottiene certezza e magari una riduzione.
  • In sede penale, puntare su: mancanza di dolo (es. “non mi rendevo conto, mi hanno consigliato male” – difficilmente convincente se parliamo di milioni evasi, però può mitigare); mancanza del carattere fraudolento (tentare di far passare l’operazione come formalmente legittima, non un inganno – ad esempio sostenere che il trust aveva una causa lecita e non era destinato a frodare, come hanno fatto nel caso di Roma 2018, con successo in quel caso); o ancora contestare la quantificazione dell’evaso sotto soglia (talvolta c’è margine tecnico, dipende). Anche qui, una via pragmatica è chiedere riti alternativi (patteggiamento) magari dopo aver pagato il dovuto: si ottiene una pena ridotta e sospesa, evitando il processo lungo.
    In sintesi, la difesa può essere tecnica e di merito (provare che l’interposizione non c’era o non era come la dipingono) oppure puntare a limitare i danni (transigere sul fisco, pagare e chiudere il penale). La scelta dipende dalla forza delle prove contro il contribuente e dalle sue possibilità finanziarie.

D: Pianificare fiscalmente con trust o società estere è sempre illecito?
R: Assolutamente no. Ci sono situazioni legittime in cui uno strumento estero o un trust sono usati correttamente. La chiave sta nel motivo economico sostanziale e nel rispetto delle normative. Un trust può essere usato, ad esempio, per tutelare dei disabili, per garantire una successione ordinata: in questi casi è normale che il disponente non abbia interesse a controllare i beni, li affida davvero a un trustee per una causa meritevole, e l’amministrazione finanziaria difficilmente avrà da ridire (pagherà eventualmente le imposte il trust come sostituto o i beneficiari all’atto di assegnazione dei beni secondo la legge). Una società estera può essere giustificata se si svolge attività in quel paese o si ha un mercato lì, o se si cerca un investitore internazionale: è importante però dichiarare correttamente i rapporti (transfer pricing in linea per le transazioni infragruppo, eventuali utili rimpatriati tassati, ecc.). In sostanza, non è lo strumento in sé ad essere illecito, ma l’uso che se ne fa. Se l’unico scopo evidente è risparmiare tasse senza sostanza (es: holding in Olanda senza ufficio né dipendenti, con unico scopo di incassare dividendi e girarli), allora quell’uso è a rischio abuso/interposizione. Ma se c’è sostanza (holding in Olanda che coordina realmente partecipate estere, con personale e funzioni economiche), è lecito. Certo, la linea non è sempre chiara e per questo esistono gli interpelli e i pareri professionali: per capire prima se un’operazione può reggersi. Quindi, pianificazione fiscale sì, ma aggressiva no. “Aggressiva” di solito significa spingersi in territori grigi o oscuri: conviene evitare quelle iper-strutture con mille scatole dove l’unica logica è sfuggire al Fisco, perché oggi vengono smontate con relativa facilità e fanno scattare sanzioni anche peggiori di quelle risparmiate.

D: Quali tutele ha il contribuente onesto perché non sia accusato ingiustamente di interposizione?
R: Il contribuente che ha operato in buona fede e con reali motivazioni economiche ha diversi mezzi per far valere le proprie ragioni. Anzitutto, come detto, può attivarsi ex ante chiedendo un interpello sui suoi schemi: se l’Agenzia dice “ok, non è elusione”, lui è al riparo. Se invece viene comunque accusato, potrà in sede contenziosa portare tutta la documentazione a supporto della genuinità delle operazioni. I giudici tributari valutano caso per caso; se vedono che l’Agenzia ha forzato le conclusioni senza prove sufficienti, danno ragione al contribuente (ci sono state pronunce a favore di trust o di strutture estere ritenute lecite perché l’Erario non aveva provato il contrario). Inoltre lo Statuto del Contribuente (L.212/2000) garantisce diritto al contraddittorio in alcuni casi: potrà quindi spiegare la sua posizione prima che l’accertamento sia emesso (almeno nelle contestazioni di abuso). Infine, c’è sempre la possibilità di ricorrere in Cassazione contro decisioni sfavorevoli, se si ritiene violato il diritto o mal valutate le prove. Insomma, un contribuente onesto ha strumenti di difesa; certo, deve dispiegare tempo e risorse per dimostrare la propria correttezza. Ma questo è un motivo in più per documentare sempre accuratamente ogni operazione: più trasparenza e logica economica c’è nei documenti, meno spazio per accuse di interposizione.

D: Come evitare di incorrere nell’interposizione fittizia?
R: La regola fondamentale: non prestarsi a intestazioni di comodo e non creare strutture senza reale sostanza. In pratica:

  • Se qualcuno vi propone di far risultare un’attività a nome di un altro per pagare meno tasse, sappiate che è illegale ed estremamente rischioso.
  • Se per ragioni legittime avete bisogno di delegare a terzi, fatelo con contratti chiari (es. usufrutto, mandato) dichiarando però i redditi correttamente: ad esempio, se intestate a un figlio un immobile ma ve ne riservate l’usufrutto, dichiarate voi i redditi da locazione come usufruttuario; così è tutto regolare. L’interposizione nasce quando si vuole la botte piena e la moglie ubriaca, cioè il vantaggio fiscale ma senza cambiare davvero la sostanza.
  • Quando costituite una società o un trust, chiedetevi: ha uno scopo concreto, indipendente dalla fiscalità? Se la risposta è no, probabilmente state configurando un’interposizione o un abuso. Ad esempio, aprire una LTD in UK solo per fatturare ciò che fate in Italia, senza personale in UK, è un classico schema a forte rischio. Se invece aprite una filiale in UK perché avete clienti lì e ci mettete dipendenti e ufficio, allora è genuino.
  • Tenete separati i patrimoni: se create enti diversi (società, trust), comportatevi davvero come se fossero soggetti altri da voi. Non usate i soldi dell’azienda come fossero i vostri; non trasferite fondi personali senza giustificazione; remuneratevi con atti ufficiali (stipendi, dividendi) pagando le imposte relative. Molte interposizioni emergono perché il soggetto mescola i conti aziendali con i suoi (prelievi ingiustificati, spese personali pagate dall’azienda, etc.). Questi comportamenti sono campanelli d’allarme per il Fisco.
  • Consultate professionisti seri: spesso chi cade in schemi fittizi lo fa seguendo consigli di persone poco scrupolose. Un bravo fiscalista vi illustrerà quali margini di pianificazione esistono e quali no, e vi terrà lontani da operazioni indifendibili. Ci sono modi leciti di risparmiare imposte (regimi agevolati, deduzioni, strutture societarie trasparenti…), meglio usare quelli piuttosto che trucchi.
    In definitiva, la miglior prevenzione è la correttezza: pagare il giusto di imposte in base a quello che realmente si guadagna e possiede. Se si ritiene di pagare troppo, è lecito ottimizzare, ma sempre muovendosi entro quello che la legge consente. L’interposizione fittizia è un imbroglio e come tale viene trattato severamente dall’ordinamento.

Conclusioni

L’interposizione fittizia in materia tributaria è una pratica illecita che attira – comprensibilmente – alcuni contribuenti in cerca di scorciatoie, ma che oggi più che mai risulta pericolosa e controproducente. Il quadro che emerge da questa guida approfondita è chiaro: il diritto tributario italiano dispone di strumenti robusti per scovare e reprimere le interposizioni di persona. La normativa (art. 37, comma 3 DPR 600/73 in primis) e la giurisprudenza consolidata fanno prevalere la sostanza economica sulla forma giuridica, guardando al titolare effettivo dei redditi e non al prestanome.

Dal punto di vista del Fisco, tolleranza zero verso gli schermi fittizi: che si tratti di società di comodo, trust simulati o parenti compiacenti, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a “tirare via la maschera” e a pretendere le imposte dal soggetto che realmente dispone della capacità contributiva. Le recenti sentenze – dalla Cassazione n. 1358/2023 sulle società fittizie alle pronunce del 2025 sui trust – confermano un orientamento rigoroso e sofisticato, attento anche alle forme più elaborate di interposizione internazionale. Non c’è più scappatoia geografica: grazie allo scambio di informazioni e a concetti come beneficial owner, l’esterovestizione viene spesso neutralizzata, riportando in Italia redditi e patrimoni apparentemente emigrati.

Dal punto di vista del contribuente/debitore, il messaggio è quello di agire con prudenza e legalità. Operare nell’ombra attraverso prestanome può sembrare vantaggioso nel breve termine, ma comporta il rischio di conseguenze devastanti in futuro: recuperi retroattivi di imposte con sanzioni pesantissime, procedimenti penali con possibili condanne e sequestri, oltre al tracollo della credibilità e dell’onorabilità professionale. Questa guida ha mostrato come, specialmente in un’epoca di trasparenza fiscale globale, tentare di nascondersi dietro un’altra entità sia un gioco pericoloso, quasi sempre destinato ad essere scoperto.

Ciò non significa che non si possa pianificare fiscalmente: lo si può fare, ma in modo non fittizio, ovvero scegliendo strumenti che abbiano sostanza e rispettando gli obblighi di legge (dichiarativi e sostanziali). Un trust vero, con finalità autentiche, non verrà disconosciuto; una società estera che opera realmente all’estero non verrà contestata; al contrario, trust di comodo e scatole vuote verranno smontati. In caso di dubbio, il contribuente ha la possibilità di consultare l’Amministrazione (interpello) e professionisti esperti, per evitare di incorrere senza volerlo in situazioni di interposizione.

In conclusione, “interposizione fittizia” in ambito tributario equivale a “costruzione di sabbia”: può ingannare per un po’ dando l’illusione di una fortezza, ma di fronte alle onde del controllo fiscale è destinata a crollare, lasciando esposto il vero proprietario di quella sabbia. La moderna amministrazione finanziaria italiana, supportata da normative avanzate e da una giurisprudenza ferma, dispone del secchio e della pala per abbattere questi castelli in aria. Per i contribuenti, soprattutto imprenditori e privati con patrimoni rilevanti, la via più sicura è costruire su fondamenta solide di legalità e trasparenza, piuttosto che confidare in facili occultamenti. Come si è visto, il punto di vista del debitore accorto deve essere di prevenire, laddove possibile, tali situazioni e, se già coinvolto, di gestirle con responsabilità (eventualmente sanando) per limitare danni ulteriori.

In definitiva, la moral suasion che emerge anche dalle ultime pronunce è: “Se controlli tu, il reddito è tuo”. Questo principio, ormai ben radicato, invita ciascun contribuente a non nascondersi, perché il sistema tributario è orientato a scovare chiunque tenti di sottrarsi al contributo comune dietro artifici. Chi aderisce a questo principio evita non solo sanzioni, ma anche di alterare quella leale concorrenza tra imprese e quell’equità fiscale tra cittadini che l’interposizione fittizia, se impunita, andrebbe a compromettere.


Fonti e riferimenti normativi

Normativa italiana:

  • D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3: disciplina l’inopponibilità al Fisco delle interposizioni fittizie di soggetti. Testo: “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.
  • Legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis: definizione di abuso del diritto ed elusione fiscale (Disciplina introdotta dal D.Lgs. 128/2015). Stabilisce che operazioni prive di sostanza economica volte a ottenere vantaggi fiscali indebiti possono essere disconosciute dall’Amministrazione finanziaria, pur rimanendo lecite civilmente. Prevede il contraddittorio obbligatorio e l’assenza di sanzioni amministrative/penali in caso di contestazione di abuso (differenziandosi così dal fenomeno dell’interposizione fittizia, che invece implica violazioni).
  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), art. 73: criteri di residenza fiscale per enti e società (co.3: sede dell’amministrazione o oggetto principale in Italia => soggetto considerato residente). Identifica inoltre i trust tra i soggetti passivi IRES (co.1, lett. b) e regola la tassazione dei trust interni/esteri distinguendo quelli con beneficiari (trasparenti) e senza (opachi). Interpretazioni di prassi e giurisprudenza (es. Cass. 9782/2020) precisano che i redditi di trust “interposti” sono imputati al disponente ai sensi dell’art. 73 e 37, co.3.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74: normativa penale tributaria. Rilevanti:
    • Art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti);
    • Art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) – rilevante per interposizioni perché punisce comportamenti anche formalmente leciti ma fraudolenti che ostacolano l’accertamento;
    • Art. 4 (dichiarazione infedele); Art. 5 (omessa dichiarazione);
    • Art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) – punisce atti simulati o fraudolenti sui propri/altrui beni per rendere inefficace la riscossione coattiva, tipicamente intestazioni fittizie di beni a terzi. Giurisprudenza: atto fraudolento = comportamento connotato da inganno o artificio, non la mera idoneità a ostacolare il Fisco.
    • Art. 13 (causa di non punibilità): estinzione dei reati di cui agli artt. 2,3,4,5 D.Lgs.74/2000 se prima del dibattimento l’imputato estingue i debiti tributari e accessori.
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 9 e art. 7 DL 269/2003: principi in materia di sanzioni amministrative tributarie. In particolare, art. 7, co.1 DL 269/2003 prevede che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica”. Tuttavia, giurisprudenza (Cass. 1358/2023) ha stabilito che tale norma non si applica se la società è una mera fictio creata nell’esclusivo interesse personale dell’amministratore: in tal caso, “le violazioni, pur formalmente dell’ente, vanno riferite all’attività” dell’interponente, ripristinando il principio generale di responsabilità personale.
  • Normativa antiriciclaggio (D.Lgs. 231/2007) – titolare effettivo: anche se non strettamente tributaria, introduce l’obbligo di identificare il titolare effettivo di società, trust e rapporti finanziari. Questo concetto permea anche il diritto tributario: ad esempio, il titolare effettivo di conti esteri deve dichiararli (Quadro RW). I registri dei titolari effettivi, se accessibili dall’Amministrazione, facilitano l’individuazione di interposizioni.

Giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione):

  • Cass., Sez. Trib., 15 gennaio 2025, n. 939: ha ribadito l’applicabilità dell’art. 37, comma 3 DPR 600/73 anche all’interposizione reale, e non solo a quella fittizia. La norma mira a colpire ogni ipotesi in cui vi sia dissociazione tra titolarità formale e possesso effettivo del reddito, facendo prevalere la realtà economica sull’apparenza.
  • Cass., Sez. Trib., 26 maggio 2025, n. 9445: caso di trust estero utilizzato per detenere partecipazioni societarie non dichiarate (monitoraggio fiscale). Conferma che ai fini tributari conta il “possesso” del reddito e la situazione di fatto circa il controllo, anche provata per indizi. Ha codificato che l’art. 37, co.3 esprime un principio ampio: rileva il titolare effettivo del reddito, sia in presenza di più soggetti coinvolti sia di uno solo (es. coincidenza settlor/trustee). Ha ritenuto, nel merito, il trust un mero schermo e attribuito al contribuente (disponente) gli obblighi fiscali sui redditi esteri.
  • Cass., Sez. Trib., 7 aprile 2025, n. 9096: caso di trust estero con holding (pianificazione fiscale aggressiva di imprenditore). La Suprema Corte ha riconosciuto la natura fittizia del trust, accertando che il disponente residente manteneva il controllo sostanziale sul patrimonio e sulle decisioni del trustee. Principio affermato: la residenza fiscale effettiva e la titolarità effettiva dei redditi prevalgono su qualsiasi costruzione artificiosa; se il controllo resta in Italia, i redditi si considerano prodotti in Italia. Ricorso contribuente dichiarato inammissibile, confermando decisioni di merito.
  • Cass., Sez. Trib., 17 gennaio 2023, n. 1358: caso di società “cartiera” utilizzata a fini personali (frode IVA auto intracomunitarie). Ha stabilito che quando una società di capitali è costituita artificiosamente a fini illeciti e usata nell’esclusivo interesse della persona fisica, quest’ultima è trasgressore e contribuente al contempo. In tal caso non opera l’art.7 DL 269/2003 sulle sanzioni a carico solo della società, ma si applica l’art. 37, co.3 DPR 600/73: i redditi societari sono imputati all’amministratore di fatto interponente. La sentenza dettaglia che l’interponente va oltre il ruolo di mero gestore quando “utilizza l’entità come una mera fictio creata nel suo esclusivo interesse”, traendone egli i benefici esclusivi. In tali circostanze, imposte e sanzioni vanno riferite alla persona fisica.
  • Cass., Sez. Trib., 17 febbraio 2022, n. 5276: (richiamata da Cass. 2025) ha confermato che art.37, co.3 copre sia interposizione fittizia che reale, con particolare riferimento a gestione di fatto di società. Ha richiesto prova rigorosa per traslare reddito d’impresa: l’interponente deve disporre uti dominus delle risorse sociali. Una volta provato il totale asservimento della società, il reddito di impresa va imputato a lui, con onere del contribuente di dare prova contraria (assenza di interposizione o mancata percezione).
  • Cass., Sez. Trib., 19 ottobre 2018, n. 26414: (cit. in Cass. 9445/2025) ha evidenziato che l’interposizione soggettiva, quale possesso di reddito da parte di un soggetto diverso dal titolare formale, è fattispecie accertabile anche su base indiziaria.
  • Cass., Sez. Trib., 30 ottobre 2018, n. 27625 & Cass., Sez. Trib., 29 luglio 2016, n. 15830: anch’esse citate sul punto che non vi è distinzione tra interposizione fittizia e reale ai fini dell’art.37, co.3. La funzione della norma è impedire che il contribuente effettivo si sottragga al prelievo nascondendosi dietro interposizioni.
  • Cass., Sez. Trib., 6 marzo 2017, n. 5520: (cit. da dottrina) sul concetto di soggetto uti dominus, in tema di socio unico di fatto/holding unipersonale. Ha assimilato l’interponente che controlla totalmente una società all’ipotesi della holding individuale: colui che esercita in via stabile indirizzo, controllo e coordinamento di società formalmente altrui. Ciò a conferma che se un soggetto fagocita in sé il ruolo economico della società, ne verrà considerato l’effettivo possessore di reddito.
  • Cass., Sez. Pen., 5 settembre 2022, n. 32507: (ordinanza, Sez. III Penale) ha affrontato tema di esterovestizione societaria e reati ex art. 5 e 11 D.Lgs.74/2000. Ribadito che far figurare società estere prive di consistenza per occultare imponibili integra omissione di dichiarazione e giustifica sequestri sui beni dell’indagato in previsione della confisca (contributo a definire il profitto confiscabile come il risparmio d’imposta ottenuto).
  • Cass., Sez. Un. Pen., 13 novembre 1996, n. 9961: risalente ma autorevole, sul metodo delle presunzioni semplici: per la prova per indizi non serve necessaria conseguenzialità logica, basta che il fatto ignoto sia desumibile dal noto come “conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità”. Spesso citata in materia tributaria a supporto dell’uso di presunzioni nel provare l’interposizione.

Giurisprudenza di merito e prassi rilevante:

  • CTR (Lazio) Roma, 25 marzo 2025, n. 7948: (evincibile da informativa fiscale) – caso di cooperative edilizie gestite da interponente. Confermata in Cassazione la legittimità dell’accertamento per interposizione, chiarendo che la mancanza di tracce bancarie personali non esclude l’appropriazione occulta di redditi.
  • Tribunale di Roma, Sez. IX Penale, 16 ottobre 2018, n. 10972: sentenza in materia di trust e art. 11 D.Lgs.74/2000. Ha assolto gli imputati (gestori di un trust autodichiarato costituito da un debitore fiscale poi deceduto) perché il fatto non sussiste. Interpretazione: gli atti posti in essere non avevano natura fraudolenta in senso penalistico, mancando artificio/inganno; la mera idoneità a rendere inefficace la riscossione non basta se non c’è stratagemma ingannatorio. Importante per delimitare l’ambito del reato di sottrazione fraudolenta nel caso di trust istituiti con finalità non elusive (in quel caso addirittura prevedevano il pagamento dei debiti tributari come obbligo agli esecutori testamentari).
  • Agenzia Entrate – Risposta a interpello n. 145/2025 (e 144/2025): caso di trust estero (Malta) con guardiano indipendente e disponente “excluded”. L’Agenzia, richiamando Circolare 61/E/2010, ha riconosciuto il trust come non interposto dato che: trustee con ampi poteri, nessuna eterodirezione, guardiano (terzo) con potere di revoca trustee, disponente completamente escluso da benefici. Di conseguenza ha trattato il trust come soggetto estero autonomo: ad es. negando però l’aliquota ridotta 1,20% sui dividendi ex art. 27, co.3-ter DPR 600/73 perché il trust non rientra nelle società “madre” UE, ma concedendo l’esenzione su plusvalenze ex art. 5, co.5, D.Lgs. 461/97 essendo il trust residente white list. Questa prassi conferma i criteri di riconoscimento vs interposizione dei trust.
  • Agenzia Entrate – Circolare 6 agosto 2010, n. 61/E: (“Disciplina fiscale dei trust”) – delineati criteri per tassazione trust. Identifica casi di trust interposti in cui i redditi restano imponibili in capo al disponente o beneficiario: es. disponente = beneficiario, disponente con poteri di revoca o sostituzione trustee, trust revocabile liberamente, ecc. Viene spesso citata nelle risposte a interpello per valutare l’interposizione (come nel caso n.145/2025).

Interposizione fittizia? Fatti Aiutare da Studio Monardo

In ambito tributario, l’interposizione fittizia si verifica quando un soggetto è solo formalmente intestatario di redditi, beni o attività, mentre il reale beneficiario è un altro.
L’Agenzia delle Entrate può allora disconoscere l’apparente intestazione e tassare il reddito in capo al soggetto realmente interessato, con effetti fiscali anche molto pesanti.


Cosa si intende per interposizione fittizia?

È una simulazione giuridica o economica in cui un soggetto (interposto) figura come intestatario di un’attività, ma non ne ha né il controllo né il beneficio reale.

Le situazioni più comuni:

  • 📄 Intestazione di quote societarie a terzi per nascondere il reale proprietario
  • 🏠 Acquisto di immobili intestati a familiari per evitare il carico fiscale
  • 🏢 Utilizzo di società di comodo per occultare utili o beni
  • 💼 Finta collaborazione tra soggetti per ridurre la base imponibile
  • 🌍 Trasferimenti di redditi o beni a soggetti esteri per eludere le imposte italiane

In tutti questi casi, l’Amministrazione finanziaria può rivalutare la sostanza rispetto alla forma, ricostruendo la situazione economica reale.


Quali sono le conseguenze fiscali?

  • ⚠️ Accertamento della reale titolarità del reddito
  • 💰 Tassazione retroattiva in capo al soggetto effettivo
  • 🧾 Recupero di imposte evase, sanzioni e interessi
  • ⚖️ Possibili profili di reato in caso di frode fiscale o simulazione
  • 🔎 Attivazione di indagini bancarie, reddituali e patrimoniali

In caso di contestazione, l’onere della prova si sposta spesso sul contribuente, che deve dimostrare la genuinità dell’operazione.


È sempre illecito?

No. L’interposizione può essere:

  • Reale (lecita): quando il soggetto interposto ha effettiva disponibilità del bene o reddito, anche se per conto di altri
  • Fittizia (illecita): quando la forma giuridica è solo apparente e serve a disorientare il Fisco o eludere il prelievo

Spetta all’Agenzia delle Entrate dimostrare che l’intestazione è fittizia, ma una difesa tempestiva e ben documentata è fondamentale.


🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Analizza nel dettaglio la tua situazione patrimoniale e fiscale
📑 Verifica la legittimità di intestazioni e operazioni sotto accertamento
⚖️ Ti difende in caso di contestazione per interposizione fittizia
✍️ Redige memorie difensive o propone adesione per ridurre le sanzioni
🔁 Ti assiste in eventuali ricorsi e nel contenzioso tributario


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in accertamenti tributari e ricostruzioni reddituali
✔️ Consulente per interposizione fittizia, esterovestizione e società di comodo
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per imprenditori, liberi professionisti e famiglie


Conclusione

L’interposizione fittizia può portare a conseguenze fiscali e penali gravi. Ma se le operazioni sono lecite e documentate, puoi dimostrarlo e difenderti.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, hai al tuo fianco una difesa tecnica e strategica per dimostrare la legittimità delle tue operazioni e tutelare il tuo patrimonio.

📞 Richiedi ora una consulenza riservata: affronta l’accertamento con competenza e preparazione.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
Si invita a leggere attentamente il disclaimer del sito.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto

Abbiamo Notato Che Stai Leggendo L’Articolo. Desideri Una Prima Consulenza Gratuita A Riguardo? Clicca Qui e Prenotala Subito!