Accertamento Fiscale Per E-commerce E Dropshipping? Ecco Cosa Fare

Hai ricevuto un accertamento fiscale per la tua attività di e-commerce o dropshipping e non sai cosa fare? Ti stanno contestando redditi non dichiarati, mancate fatturazioni o omessi versamenti IVA, magari per vendite fatte su Amazon, Shopify o altri marketplace? Temi sanzioni, cartelle esattoriali o addirittura il penale?

L’Agenzia delle Entrate sta intensificando i controlli su chi vende online, anche se non ha una partita IVA, o se credeva che le piattaforme si occupassero di tutto. Ma attenzione: non tutto ciò che ti contestano è corretto o legittimo, e puoi difenderti.

Quando scatta l’accertamento fiscale per e-commerce o dropshipping?
– Quando superi certi volumi di incasso da vendite online
– Se ricevi bonifici, pagamenti PayPal o Stripe non coerenti con i redditi dichiarati
– Se utilizzi società estere o piattaforme straniere, e l’Agenzia presume che tu debba tassarti in Italia
– Se usi partite IVA non adeguate, o se non hai registrato correttamente l’attività

Cosa contesta di solito l’Agenzia delle Entrate?
Omessa dichiarazione dei redditi derivanti da vendite
Mancata apertura della partita IVA
Fatture non emesse o incomplete
Iva non versata su prodotti venduti in Italia o UE
Esterovestizione, se operi tramite entità estere ma di fatto gestisci tutto dall’Italia

Come puoi difenderti da un accertamento su e-commerce o dropshipping?
– Verificando se il calcolo dell’imponibile è corretto (molte volte non lo è)
– Dimostrando che non si tratta di attività abituale, se vendi saltuariamente
– Ricostruendo correttamente margini e costi, che spesso l’Agenzia ignora
– Contestando le presunzioni sui flussi PayPal o bancari
– Dimostrando la regolarità della struttura societaria (soprattutto se usi veicoli esteri)

Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare la comunicazione dell’Agenzia: non rispondere equivale ad ammettere
– Accettare tutto quello che ti contestano “per chiudere velocemente”: potresti pagare più del dovuto
– Metterti a modificare documenti o dati dopo la notifica: rischi il penale
– Confondere l’attività online con quella personale: separare bene finanze e contabilità è cruciale

Anche chi ha iniziato da autodidatta, o senza struttura formale, può difendersi e regolarizzare la propria posizione. Ma serve una strategia fiscale e legale precisa, costruita sul caso concreto.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso fiscale per attività digitali – ti spiega cosa fare se ricevi un accertamento per e-commerce o dropshipping, come difenderti in modo efficace e come evitare sanzioni e blocchi futuri.

Hai ricevuto un avviso o un controllo per la tua attività online?

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Introduzione

L’e-commerce e il dropshipping hanno conosciuto un boom negli ultimi anni, consentendo anche a piccoli imprenditori e privati di vendere beni online in tutto il mondo. Questa crescita ha attirato l’attenzione del Fisco: l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno intensificato i controlli sulle attività online per contrastare fenomeni di evasione ed elusione fiscale. In particolare, dal 2023-2024 sono state introdotte nuove misure di monitoraggio dei pagamenti elettronici e delle piattaforme digitali, per individuare vendite non dichiarate e redditi non tassati originati dal commercio elettronico.

Questa guida avanzata – aggiornata a luglio 2025 – offre un quadro completo della normativa italiana in materia di accertamenti fiscali per e-commerce e dropshipping, con un taglio pratico e giuridico. Esamineremo gli obblighi fiscali di chi vende online, le modalità con cui il Fisco effettua gli accertamenti (anche alla luce delle ultime direttive UE), e soprattutto cosa fare dal punto di vista del contribuente (il “debitore” verso l’Erario) in caso di verifica o contestazione.

Scopo della guida: mettere il lettore in grado di comprendere quando e come scatta un accertamento fiscale per attività online (specialmente di piccoli imprenditori o privati che vendono su marketplace, social network o siti propri), quali diritti di difesa ha il contribuente e quali passi intraprendere per regolarizzare la propria posizione o contestare eventuali addebiti, sempre dal punto di vista del debitore contribuente.

Nei prossimi paragrafi partiremo dal quadro normativo generale, per poi addentrarci negli aspetti specifici del dropshipping, nelle strategie di controllo del Fisco, nelle procedure di accertamento e nei rimedi difensivi. Verranno citati i più recenti orientamenti giurisprudenziali (fino alle sentenze di Cassazione del 2023-2025) e le circolari/novità normative di questi ultimi mesi, per garantire un’informazione aggiornata e autorevole.

Quadro Normativo: e-commerce tra obblighi fiscali e definizioni

Dal punto di vista fiscale italiano, vendere online non gode di alcun regime speciale: le vendite sul web sono soggette alle stesse imposte delle attività tradizionali (redditi e IVA) e agli stessi obblighi, una volta superata la soglia della semplice occasionalità. Ciò che conta, come vedremo, è la natura (episodica, occasionale o abituale) dell’attività e-commerce svolta dal contribuente, più che il mezzo (internet) utilizzato.

Vediamo le principali fonti normative e concetti chiave:

  • Imposte sui Redditi (IRPEF/IRES) e categorie di reddito: il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. 917/1986, “TUIR”) stabilisce che i proventi derivanti da attività commerciale abituale costituiscono reddito d’impresa (art. 55 TUIR) soggetto a tassazione ordinaria IRPEF (per persone fisiche) o IRES (per società). Se invece l’attività di vendita è occasionale e non professionale, i relativi guadagni possono rientrare tra i redditi diversi (art. 67, co.1, lett. i, TUIR). Esiste poi la fattispecie di vendite del tutto episodiche, prive di intento di lucro, che non configurano nemmeno reddito diverso e quindi non sono imponibili (ad es. la vendita di un proprio bene usato effettuata una tantum). Approfondiremo tra poco questi concetti di episodicità, occasionalità e abitualità.
  • Imposta sul Valore Aggiunto (IVA): le norme IVA (D.P.R. 633/1972) considerano soggette a IVA le cessioni di beni effettuate nell’esercizio di imprese o di arti e professioni (art. 2 e 5 D.P.R. 633/72). Dunque solo chi svolge attività di vendita in modo professionale o abituale è tenuto ad aprire una partita IVA e applicare l’IVA sulle vendite. Al contrario, cessioni occasionali o poste in essere da privati al di fuori di un’organizzazione d’impresa non sono operazioni IVA (manca il presupposto soggettivo). Ad esempio, la prestazione meramente occasionale rientra nei redditi diversi e rimane esclusa dal campo IVA. Va ricordato che per le vendite intra-UE o verso consumatori esteri esistono normative specifiche (come il regime OSS/IOSS) di cui diremo più avanti, ma il principio generale è lo stesso: se sei un soggetto passivo IVA, devi assolvere l’IVA sulle tue vendite ovunque dovuta.
  • Obbligo di apertura della Partita IVA: non c’è una soglia fissa di ricavi oltre la quale scatta automaticamente l’obbligo di aprire P.IVA; conta piuttosto la frequenza e modalità dell’attività. Secondo la giurisprudenza, chi esercita in modo abituale attività rientranti nell’art. 2195 c.c. (atti di commercio) svolge un’impresa commerciale e deve adempiere ai relativi obblighi, indipendentemente dall’assetto organizzativo scelto. In altre parole, anche un privato senza ditta formalmente costituita può essere considerato dall’Erario un imprenditore “di fatto” se vende con continuità online, e quindi avrebbe dovuto aprire P.IVA e tenere le scritture contabili. La Corte di Cassazione n. 7552/2025 ha ribadito proprio questo: le vendite online con elevato numero di transazioni su più anni configurano reddito d’impresa, data l’abitualità, indipendentemente dalla forma giuridica adottata (o non adottata). Lo stesso concetto era stato affermato già in precedenza da varie sentenze e prassi: un’attività economica professionale abituale è impresa ai fini fiscali anche se manca una struttura organizzata e anche se il soggetto non si è formalmente dichiarato imprenditore.
  • Vendite occasionali e regime fiscale: se le vendite non raggiungono la soglia dell’abitualità, possono essere inquadrate come redditi occasionali. In tal caso non c’è obbligo di P.IVA, ma i proventi devono comunque essere dichiarati come redditi diversi nel modello Redditi Persone Fisiche (quadro RL), con tassazione IRPEF ordinaria sul margine (ricavi meno costi). Non si applica l’IVA a tali operazioni occasionali. Attenzione: la distinzione tra occasionale e abituale non è rigida e dipende da elementi qualitativi e quantitativi. La Cassazione ha adottato una linea rigorosa: anche la ripetitività di atti di vendita con scopo di lucro, pur se non organizzati in modo professionale, costituisce presupposto d’imponibilità come redditi diversi. Dunque, vendere periodicamente oggetti (anche su piattaforme) con l’intento di guadagno comporta comunque tassazione, a meno che si tratti di episodi isolati e privi di spirito commerciale.
  • Vendite di beni personali usati: la cessione di beni appartenenti al patrimonio personale, effettuata una sola volta o raramente, non genera reddito imponibile. Ad esempio, vendere online un vecchio mobile di casa, un’auto usata o oggetti propri una tantum non rientra in nessuna categoria reddituale tassabile. Lo ha confermato la Cassazione (sent. n. 10117/2023) chiarendo che la vendita di beni dell’arredo domestico non è attività d’impresa né attività commerciale occasionale, mancando intento speculativo. Tali proventi restano esclusi anche da IVA per carenza del requisito soggettivo (non si agisce come operatore economico). Nota bene: l’esenzione vale per la mera dismissione di beni personali; se però si acquistano beni al fine di rivenderli, anche se pochi, c’è già finalità di lucro e si ricade almeno nei redditi diversi.

In sintesi, la normativa italiana richiede di dichiarare al Fisco qualsiasi reddito derivante da vendite online a scopo di lucro, con modalità diverse a seconda dei casi: come reddito d’impresa se l’attività è abituale (con obbligo di P.IVA e adempimenti IVA), oppure come reddito diverso se l’attività è occasionale (senza P.IVA né IVA, ma con obbligo di dichiarazione IRPEF del guadagno netto). Solo le vendite sporadiche di beni propri (senza organizzazione e senza intento di profitto ripetuto) rimangono fuori dal campo fiscale.

Nel prossimo paragrafo chiariremo meglio, anche con l’ausilio di una tabella riepilogativa, come distinguere cessioni episodiche, occasionali e abituali, e quali sono gli obblighi fiscali connessi a ciascuna categoria.

Tipologie di vendite online: episodiche, occasionali o abituali?

Molti contribuenti si chiedono quando la vendita online richieda l’apertura della partita IVA e quali parametri definiscano l’abitualità. La legge non fissa parametri numerici precisi (come un tetto di ricavi o numero di vendite), ma dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza possiamo trarre indicazioni utili:

  • Cessioni del tutto episodiche: una singola vendita (o poche vendite sporadiche) di beni di proprietà personale, senza scopo di profitto sistematico. Esempi: vendo la mia bici usata su un sito di annunci; metto all’asta un quadro ereditato. In tal caso non si configura attività economica, manca l’intento di intermediazione professionale. Conseguenze fiscali: nessuna tassazione su quanto ricavato (non è reddito imponibile); non occorre aprire P.IVA; non si applica IVA. È consigliabile comunque tenere traccia della natura personale del bene venduto (foto, ricevute d’acquisto originarie, ecc.) in caso di domande del Fisco.
  • Vendite occasionali (non abituali): una pluralità di atti di vendita compiuti magari in modo saltuario o limitato nel tempo, ma volti a lucro. Tipicamente il caso di chi, senza costituire un’impresa, vende oggetti (magari autoprodotti o collezionati) qualche volta all’anno tramite piattaforme o mercatini, senza continuità e senza una struttura organizzata. Esempi: un hobbista che realizza 5-10 vendite l’anno di proprie creazioni; chi svuota la cantina e vende vari oggetti su eBay nell’arco di alcuni mesi. Conseguenze fiscali: i guadagni sono tassati come redditi diversi ex art. 67 TUIR. In dichiarazione dei redditi andrà indicato il totale ricavato al netto dei costi sostenuti per procurarsi i beni (costi deducibili se documentati). Non c’è obbligo di partita IVA né di applicare l’IVA sulle vendite, perché manca il requisito dell’abitualità professionale. Tuttavia, le piattaforme online segnalano all’Agenzia delle Entrate i dati dei venditori non appena l’attività assume una certa regolarità (come vedremo, dal 2023 con DAC7 queste comunicazioni sono sistematiche). Quindi il Fisco può venire a conoscenza anche di vendite occasionali e verificare che i proventi siano stati dichiarati. Nota: se i proventi occasionali superano determinate soglie, potrebbero sorgere obblighi contributivi (ad es. per lavoro autonomo occasionale sopra 5.000 € c’è l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata INPS). Ma sul piano strettamente tributario, non vi è un tetto di esenzione: anche 1.000 € di guadagno occasionale sarebbe, in teoria, da dichiarare.
  • Vendite abituali (attività d’impresa): vendite effettuate in modo professionale, continuo e organizzato, anche se l’organizzazione è minima (basta la “professionalità” intesa come abitualità, non serve un negozio fisico né investimenti ingenti). È il caso di chi di fatto gestisce un commercio online, ad esempio caricando costantemente annunci, acquistando merce appositamente per rivenderla, evadendo numerosi ordini al mese. Non importa se si opera da soli, da casa, senza dipendenti: ciò che conta è la sistematicità e il fine di lucro continuativo. Conseguenze fiscali: scatta l’obbligo di apertura della Partita IVA, iscrizione al Registro Imprese (se ditta individuale o società) e posizione INPS (gestione commercianti, se persona fisica). I redditi vengono tassati come reddito d’impresa (IRPEF o IRES a seconda del soggetto); si applica inoltre l’IVA sulle vendite (22% salvo aliquote ridotte per beni particolari). Sarà necessario emettere fattura o comunque certificare i corrispettivi delle vendite come previsto dalla legge. Per l’e-commerce cosiddetto “indiretto” (vendita di beni con spedizione), la normativa prevede in genere l’esonero dall’emissione di scontrino o ricevuta fiscale, a condizione che le vendite siano registrate nel registro dei corrispettivi. Questo significa che il venditore online abituale può non fare uno scontrino per ogni transazione (come invece un negozio fisico dovrebbe), ma deve annotare quotidianamente gli incassi lordi giornalieri. In alternativa può comunque emettere fattura ordinaria per ogni vendita (obbligatoria se il cliente la richiede o se il cliente è soggetto IVA).

La linea di demarcazione tra vendite occasionali e attività d’impresa non è facile da tracciare a priori. Gli indizi che il Fisco considera per qualificare l’attività come impresa sono, in generale:

  • Frequenza/continuità delle operazioni: vendite ripetute nel tempo, su base mensile o annuale ricorrente, indicano abitualità.
  • Volumi significativi: un elevato numero di transazioni o importi complessivi importanti suggeriscono un’attività non meramente hobbistica (ad es. migliaia di euro di incassi totali all’anno).
  • Varietà dei beni venduti: vendere molti articoli diversi (specie se nuovi o comunque non legati al proprio uso personale) è tipico del commercio.
  • Organizzazione seppur minima: l’uso di account dedicati, di sistemi di pagamento business, l’allestimento di un sito web o magazzino, ecc., sono segnali di professionalità (ma ricordiamo: per la Cassazione il requisito organizzativo non è dirimente ai fini tributari, se l’attività è abituale).
  • Finalità speculativa: se una persona acquista beni allo scopo di rivenderli con profitto, anche se lo fa poche volte, dimostra un intento commerciale (es. un “speculatore occasionale” compra sporadicamente opere d’arte per rivenderle con guadagno: i proventi sono comunque tassabili come redditi diversi, secondo Cass. n. 6874/2023).

Di fronte a questi elementi, l’Agenzia delle Entrate tende a riqualificare i proventi come reddito d’impresa soggetto a tutte le imposte del caso. Ad esempio, se un privato dichiara piccole somme come redditi diversi ma dalle informazioni raccolte (ad es. dai movimenti bancari o dai dati delle piattaforme) risulta che le sue vendite online erano sistematiche e ingenti, il Fisco potrà contestare che si trattava di un’attività d’impresa mascherata, con recupero anche dell’IVA evasa.

Nella Tabella 1 sottostante riassumiamo le differenze tra le tre tipologie di vendite online (episodiche, occasionali, abituali) e il relativo trattamento fiscale:

Tabella 1: Tipologie di attività online e trattamento fiscale

Tipo di venditeCaratteristicheInquadramento fiscaleObblighi fiscali
Episodiche (una tantum)Vendite isolate di beni personali, senza intento di lucro né ripetizione. Esempio: cessione di un proprio bene usato una volta.Nessun reddito imponibile (non è attività economica).Nessuna dichiarazione richiesta; nessuna IVA (non operazione economica).
OccasionaliVendite non abituali ma con finalità di lucro, svolte saltuariamente. Operazioni non sistematiche ma pluralità di atti coordinati al guadagno (es. hobbista, vendite sporadiche online).Redditi diversi ex art. 67, co.1, lett. i) TUIR (commercio occasionale). Non soggetti IVA (manca abitualità).Dichiarare il reddito netto ottenuto (ricavi – costi) nel Quadro RL (persone fisiche). No obbligo di P.IVA né di emissione fattura/scontrino. Conservare traccia delle transazioni e costi.
Abituali (impresa)Vendite svolte con continuità e professionalità. Attività organizzata anche minimamente, con elevato numero di transazioni e scopo di lucro sistematico. Esempio: gestione di uno shop online con vendite ricorrenti mensili.Reddito d’impresa (art. 55 TUIR) soggetto a IRPEF/IRES. Operazioni rilevanti ai fini IVA (applicazione imposta su vendite). Potenzialmente soggetto anche a IRAP se sussiste autonoma organizzazione.Apertura P.IVA obbligatoria; tenuta della contabilità e registri IVA (corrispettivi/fatture). Emissione fatture o scontrino/ricevuta (per e-commerce indiretto ammesso registro corrispettivi). Versamento periodico IVA. Dichiarazioni annuali dei redditi e IVA. Versamento contributi INPS commercio se ditta individuale.

Nota: la qualificazione finale spetta all’Amministrazione finanziaria e, in caso di contenzioso, al giudice tributario, che valuteranno caso per caso. In dubbio, è prudente adottare la soluzione più conservativa (ad es. dichiarare i proventi occasionali, o aprire P.IVA se l’attività tende a stabilizzarsi). Le soglie come “5.000 € l’anno” spesso citate su internet non esistono nel diritto tributario come limite di esenzione, ma derivano da altre normative (ad es. obblighi previdenziali) e non proteggono da accertamenti fiscali.

Focus: Il fenomeno del Dropshipping e i profili fiscali

Cos’è il dropshipping? In ambito commerciale, il dropshipping è un modello di vendita in cui il venditore (dropshipper) non detiene materialmente la merce. Quando riceve un ordine da un cliente finale tramite il proprio sito o marketplace, egli a sua volta trasmette l’ordine a un fornitore terzo, il quale spedisce il prodotto direttamente al cliente. Il guadagno del dropshipper consiste tipicamente nella differenza tra il prezzo pagato dal cliente e quello pagato al fornitore. In pratica, il venditore online fa da intermediario commerciale: promuove i beni, incassa i pagamenti dal cliente finale, e gestisce l’ordine presso il grossista; ma non gestisce magazzino né logistica diretta.

Dal punto di vista fiscale italiano, è fondamentale chiarire che il dropshipping non gode di uno status speciale. Il dropshipper è a tutti gli effetti un venditore di beni, anche se la spedizione è effettuata dal suo fornitore. Pertanto valgono le stesse regole illustrate sopra in tema di abitualità, redditi d’impresa e IVA. Se l’attività di dropshipping è continuativa e organizzata, serve la partita IVA e vanno dichiarati i redditi d’impresa e versata l’IVA sulle vendite; se fosse svolta in modo sporadico (ipotesi rara data la natura del modello), potrebbe essere reddito diverso ma comunque imponibile. Nella pratica, chi intraprende il dropshipping lo fa generalmente come attività commerciale abituale, e dunque ricade nel regime d’impresa.

Vediamo alcuni profili fiscali specifici del dropshipping, specie in ambito internazionale, che meritano attenzione:

  • Territorialità IVA delle vendite: molto dropshipping coinvolge fornitori esteri (es. produttori cinesi) e clienti in Italia o UE. Occorre determinare dove avviene la cessione ai fini IVA. Se il venditore (dropshipper) è italiano con P.IVA, e vende a clienti italiani beni spediti da un paese extra-UE, normalmente si configura un’importazione dei beni in UE seguita da una cessione interna. Idealmente, il dropshipper dovrebbe figurare come importatore in dogana, assolvendo l’IVA all’importazione e poi rivendendo il bene al cliente con IVA italiana. In realtà molti dropshipper lasciano che il pacco venga spedito direttamente al cliente, il quale talvolta paga l’IVA (e dazi se dovuti) al corriere al momento della consegna. Questo modus operandi però non esonera il venditore dall’inquadrare correttamente l’operazione: l’Agenzia Entrate potrebbe considerare che il dropshipper italiano ha effettuato comunque una cessione rilevante in Italia, dovendo quindi addebitare l’IVA sul prezzo pagato dal cliente (con conseguente diritto del cliente di ricevere una fattura IVA). Dal luglio 2021 l’UE ha eliminato la franchigia IVA per importazioni di basso valore e ha introdotto il sistema IOSS (Import One Stop Shop) per facilitare l’applicazione dell’IVA sulle vendite a distanza di beni di valore fino a 150 €. Un’impresa italiana che fa dropshipping da extra-UE verso consumatori UE potrebbe (o dovrebbe) iscriversi al regime IOSS, riscuotendo l’IVA sulle vendite e versandola allo Stato UE di destinazione. Se non lo fa, rischia che l’IVA venga richiesta in dogana al cliente, con possibili disagi commerciali e profili di irregolarità fiscale per le autorità (ad esempio, se l’IVA non viene affatto pagata in dogana per errori o sotterfugi, l’operazione resterebbe non tassata e quindi il Fisco potrebbe rivalersi sull’intermediario).
  • Vendite intra-UE (OSS): se il fornitore e il cliente sono in due paesi UE diversi (es. fornitore in Francia, cliente in Italia, venditore/dropshipper italiano che non prende possesso del bene), l’operazione può configurarsi come vendita a distanza intra-UE. In tal caso, oltre una certa soglia (10.000 € annui complessivi di vendite intracomunitarie B2C), il venditore è tenuto ad applicare l’IVA del paese di destinazione. L’Italia e gli altri Stati UE hanno il sistema OSS (One Stop Shop) per dichiarare e versare facilmente l’IVA dovuta in altri Stati senza doversi identificare in ognuno. Il dropshipper italiano dovrebbe iscriversi all’OSS per dichiarare le vendite fatte a clienti UE fuori Italia, altrimenti rischia sanzioni per omessa applicazione dell’IVA estera. Analogamente, un venditore UE che fa dropshipping verso clienti italiani dovrebbe dichiarare l’IVA italiana tramite OSS oppure identificarsi in Italia. Il monitoraggio incrociato tra autorità fiscali UE è aumentato (anche grazie alla nuova direttiva DAC7 di scambio dati, come vedremo) per individuare vendite transfrontaliere non dichiarate.
  • Esterovestizione e residenza fiscale: molti dropshipper italiani, attratti da fiscalità estere più leggere, costituiscono società o aprono P.IVA in altri paesi (ad esempio Irlanda, Bulgaria, ecc.) mentre operano di fatto dal territorio italiano. Questa pratica presenta grossi rischi: la normativa italiana e i trattati contro le doppie imposizioni prevedono che una società estera possa essere considerata fiscalmente residente in Italia (e quindi tassata in Italia su tutti i redditi) se la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale sono in Italia (art. 73 TUIR). In particolare, se l’imprenditore gestisce dall’Italia il business (prende decisioni, coordina vendite, etc.), la società estera può essere dichiarata “esterovestita”, cioè fittiziamente localizzata all’estero. In tal caso il Fisco italiano recupera le imposte come se fosse italiana, con sanzioni salatissime. Anche senza società estera, operare con una semplice partita IVA estera (come alcuni che aprivano P.IVA in UK o Slovenia ma vivevano in Italia) non mette al riparo: se la stabile organizzazione dell’attività è in Italia, l’Agenzia Entrate può contestare l’omessa dichiarazione di redditi in Italia e l’omessa identificazione IVA in Italia. Insomma, spostare “sulla carta” il business fuori dai confini non è una soluzione lecita se la realtà operativa rimane italiana. La prospettiva del debitore/contribuente deve essere quella di adempiere correttamente in patria, perché il Fisco dispone di molte informazioni e accordi di cooperazione internazionale per scoprire queste situazioni.
  • Utilizzo di società filtro e frodi IVA: il dropshipping può anche essere sfruttato in schemi fraudolenti, come dimostra un caso clamoroso scoperto nel 2021 dalla Guardia di Finanza. Un imprenditore italiano vendeva elettronica online tramite due sue società e, sfruttando il dropshipping da un fornitore francese, aveva interposto decine di società cartiere italiane tra fornitore e le sue aziende, in modo da generare false fatture intra-UE e ottenere indebite detrazioni IVA per circa 2 milioni di €. In pratica, comprava dalla Francia attraverso queste società fantasma che non versavano l’IVA, e rivendeva alle sue società le quali così avevano crediti IVA fittizi. Il meccanismo (frode “carosello”) gli permetteva di battere la concorrenza con prezzi più bassi e sottrarre imposta. In quel caso è intervenuta la Procura: c’è stato un sequestro preventivo di beni per 2 milioni e l’imprenditore è sotto processo per reati tributari aggravati. Questo per dire che se da un lato ci sono piccoli venditori inconsapevoli, dall’altro il Fisco è molto attento anche a schemi sofisticati che coinvolgono vendite online e dropshipping. Le conseguenze penali e patrimoniali in caso di frode organizzata sono gravissime (sequestri, arresti, condanne).

In generale, il punto di vista del contribuente/dropshipper deve essere: anche se non vedo mai la merce, io sto compiendo una vendita ai clienti finali, quindi devo comportarmi come un venditore “tradizionale” agli occhi del Fisco. Ciò implica: regolare fatturazione, applicazione IVA dove dovuta, tenuta delle scritture, dichiarazione dei redditi, ecc. In caso di dubbi, meglio consultare un esperto fiscale e magari avvalersi delle procedure di interpello con l’Agenzia Entrate, per avere chiarimenti preventivi su situazioni transfrontaliere (ad esempio: come applicare l’IVA in un certo flusso dropshipping).

Riassumendo, il dropshipping è un modello innovativo ma fiscalmente trasparente: non c’è un regime agevolato o di favore. Il margine di profitto ottenuto è reddito imponibile; le vendite sono soggette a IVA come qualsiasi cessione di beni. Bisogna prestare particolare attenzione alle normative doganali e IVA internazionale (OSS/IOSS) per evitare di incorrere in omissioni involontarie. Più avanti, nella sezione Domande&Risposte, torneremo su questioni pratiche tipo: “Come dichiaro i redditi da dropshipping?”, “Devo pagare l’IVA se il fornitore è in Cina?”, ecc.

Controlli e Accertamenti Fiscali sulle attività online: strumenti del Fisco

Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire vendite online non dichiarate? Questa è una domanda cruciale. Negli ultimi anni, gli strumenti a disposizione del Fisco si sono moltiplicati e raffinati, combinando banche dati tradizionali, nuove fonti di informazione (reporting dai PSP e piattaforme digitali) e verifiche mirate sul campo. Esaminiamo i principali metodi di controllo attivati per l’e-commerce:

  • Comunicazioni dai Prestatori di Servizi di Pagamento (PSP): a partire dal 2024 è entrato in vigore un obbligo per banche, istituti di moneta elettronica e altri PSP di segnalare i beneficiari di pagamenti transfrontalieri oltre una certa soglia. In particolare, i PSP devono comunicare all’Agenzia delle Entrate (che poi alimenta il database europeo CESOP) l’identità e i dati di chi riceve più di 25 pagamenti cross-border per trimestre. Questa misura recepisce la direttiva UE 2020/284 ed è mirata a individuare imprese che vendono beni/servizi oltre confine senza dichiarare nulla nel paese di destinazione. Ad esempio, se un privato in Italia riceve in un trimestre 30 pagamenti dalla Francia tramite PayPal, la banca/PayPal segnalerà tale informazione alle autorità. In pratica, chi vende costantemente all’estero non potrà più passare inosservato. L’Agenzia Entrate italiana raccoglie i dati e li condivide a livello UE (sistema CESOP, Central Electronic System of Payment info). Le FAQ CESOP pubblicate dall’Agenzia (gennaio 2024) hanno chiarito dettagli, ad es. che se un conto è intestato a una ditta individuale e al titolare persona fisica, quei pagamenti si sommano per il conteggio dei 25. Questo evidenzia la volontà di non lasciare scappatoie.
  • Obbligo di comunicazione dei dati dei venditori da parte delle piattaforme (DAC7): un’altra novità cruciale è l’attuazione in Italia della direttiva UE DAC7 sulla cooperazione amministrativa. Con il D.Lgs. 30 marzo 2023 n. 32 l’Italia ha imposto ai gestori di piattaforme digitali (marketplace, siti di intermediazione) di raccogliere e comunicare all’Agenzia delle Entrate i dati dei venditori attivi sulle loro piattaforme. Dal 1° gennaio 2023 i gestori (anche non italiani ma operanti in UE) devono identificare i venditori, verificarne i dati (nome, P.IVA/codice fiscale, volume d’affari, conti correnti, ecc.) e poi trasmettere annualmente le informazioni alle autorità fiscali. L’Agenzia Entrate italiana, ricevuti i dati, li scambierà con gli altri Stati membri in cui risiedono i venditori segnalati. La comunicazione per l’anno 2023, ad esempio, doveva avvenire entro il 31 gennaio 2024. Sono escluse solo poche categorie di venditori (quelli molto piccoli, ad esempio chi ha meno di 30 operazioni e 2.000 € annui su certe piattaforme, stando alla direttiva). Tutti gli altri finiscono nei registri. Ciò significa che vendere su eBay, Amazon, Etsy, Airbnb, BlaBlaCar, Vinted ecc. comporta quasi sicuramente l’inserimento del proprio nome nei report fiscali. Anche le piattaforme di social commerce o di vendita tra privati (es. Subito.it) rientrano se facilitano transazioni dietro corrispettivo. Conclusione: l’era in cui bastava usare un nickname online per restare anonimi col Fisco è finita. Dal 2023 in poi, l’Agenzia può ricostruire i volumi d’affari generati online incrociando i dati delle piattaforme con quelli finanziari e doganali.
  • Archivio dei rapporti finanziari e indagini bancarie: l’Agenzia delle Entrate già disponeva di un potente strumento, ovvero l’archivio dei conti correnti e rapporti finanziari, dove confluiscono annualmente i saldi e movimenti dei conti di ogni contribuente. Questo archivio, unito al potere di indagine finanziaria (ex art. 32 DPR 600/73 e art. 51 DPR 633/72), consente di ottenere informazioni su qualsiasi transazione bancaria o postale. In un accertamento su vendite online, tipicamente l’ufficio chiede al contribuente l’accesso a tutti i suoi conti e strumenti di pagamento (incluse carte prepagate, conti PayPal, Stripe, ecc.). Se emergono movimenti di accredito non giustificati da redditi dichiarati, scatta la presunzione che siano ricavi non dichiarati. Ad esempio, se su un conto PayPal si vedono molti pagamenti ricevuti con causali di vendita, o se entrano decine di bonifici da persone fisiche, l’onere passa al contribuente di provare che non sono redditi imponibili. La Cassazione ha più volte confermato che in sede di accertamento finanziario, i versamenti su conti non giustificati sono considerati ricavi occulti salvo prova contraria (inversione dell’onere probatorio). Pertanto, nascondersi dietro un conto online non dichiarato non è efficace: il Fisco può rintracciare anche conti esteri (in virtù di accordi di scambio info CRS) e soprattutto ottenere i dati da intermediari come PayPal grazie a richieste mirate (nel 2016 la GdF di Pescara ricostruì un’evasione online enorme proprio chiedendo i dati a un portale di vendite durante un’indagine). Inoltre, dal 2019 la normativa italiana (Decreto Crescita) aveva già previsto obblighi di monitoraggio dei marketplace: ad esempio l’art. 13 DL 34/2019 imponeva ai gestori di piattaforme di comunicare trimestralmente all’Agenzia Entrate i dati dei venditori attivi e delle transazioni effettuate (pena divenire responsabili d’imposta). Queste misure nazionali ora confluiscono nel sistema DAC7, ma indicano che già da qualche anno erano in corso controlli incrociati su vendite e incassi online.
  • Verifiche mirate e “visite” della Guardia di Finanza: quando vi sono elementi concreti, la Guardia di Finanza può svolgere accessi, ispezioni e verifiche presso il domicilio o la sede del contribuente, anche per attività online. Ad esempio, se un soggetto vende su internet senza posizione fiscale, la GdF potrebbe presentarsi per un controllo documentale, ispezionare computer, corrispondenza di ordini, merci eventualmente stoccate in casa, ecc. Frequenti sono le operazioni sotto copertura: la GdF effettua acquisti di prova online come cliente anonimo, per verificare se il venditore rilascia fattura o ricevuta. Se non lo fa e risulta che l’attività è continuativa, scatta l’accertamento. In altri casi, si attiva direttamente la verifica fiscale: i verificatori raccolgono prove (screenshot di annunci, pacchi spediti, testimonianze di acquirenti) e alla fine redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC). Sul PVC vengono elencate le violazioni riscontrate (ricavi non dichiarati, IVA evasa, mancata istituzione scritture, ecc.). Il contribuente ha la possibilità di formulare osservazioni entro 60 giorni dal rilascio del PVC. Trascorso tale termine, l’Agenzia può emettere l’avviso di accertamento sulla base delle risultanze del PVC. Una verifica della GdF in casa può essere traumatica, ma è bene sapere che anche in quell’occasione si hanno dei diritti: ad esempio il diritto a consultare i documenti che vengono copiati, a farsi assistere da un professionista, a chiudere la verifica entro tempi ragionevoli. Se la GdF agisce su delega dell’Agenzia, spesso l’accertamento tributario viene emesso in tempi brevi dopo il PVC, e di solito l’esito è sfavorevole al contribuente se non emergono giustificazioni solide.
  • Controlli automatizzati e lettere di compliance: l’Agenzia delle Entrate conduce anche controlli meno invasivi, utilizzando le sue banche dati per scovare anomalie. Può inviare cosiddette lettere di compliance: comunicazioni con cui informa il contribuente che, ad esempio, ha rilevato accrediti sul conto corrente non coerenti con i redditi dichiarati, invitando a regolarizzare o fornire spiegazioni. Negli ultimi anni sono state inviate lettere a soggetti con movimenti PayPal elevati non giustificati da redditi. Se si riceve una simile lettera, è un’opportunità per sistemare spontaneamente la posizione (tramite dichiarazione integrativa e ravvedimento operoso) prima che scatti un vero accertamento con sanzioni piene. Ricordiamo che il ravvedimento operoso permette, a chi si autodenuncia prima di essere formalmente controllato, di pagare imposte dovute con sanzioni ridotte (ad esempio 1/8 o 1/5 della sanzione base a seconda del ritardo). Tuttavia, il ravvedimento non è ammesso se la violazione è già stata constatata o se sono iniziati accessi/ispezioni (art. 13 D.Lgs. 472/97). Dunque, appena arriva un segnale come una lettera di compliance, conviene valutare di ravvedersi subito, perché dopo potrebbe essere troppo tardi.
  • Analisi del tenore di vita e redditometro: sebbene il cosiddetto redditometro (accertamento basato sulle spese e sul tenore di vita) sia stato negli ultimi tempi poco utilizzato e oggetto di modifiche normative, teoricamente l’Agenzia potrebbe usare anche la discrepanza tra spese personali e redditi dichiarati come indizio di ricavi occulti da vendite online. Ad esempio, se un disoccupato compra auto di lusso o case ma risulta senza reddito ufficiale, il Fisco potrebbe sospettare che abbia entrate in nero (magari derivanti da attività sul web). Questo strumento è però generico e richiede un contraddittorio specifico; è più probabile che per e-commerce si usino gli strumenti mirati di cui sopra (dati transazionali) invece che il redditometro.

In conclusione, il panorama dei controlli sul commercio elettronico oggi è molto articolato e coordinato anche a livello internazionale. Dal 2023 c’è un flusso costante di informazioni che dai payment processor e dalle piattaforme arriva alle autorità fiscali. Questo si aggiunge ai tradizionali poteri di indagine su conti bancari e alle verifiche dirette. Il contribuente deve esserne consapevole: dichiarare il falso o omettere redditi nel settore e-commerce è altamente rischioso, perché lascia tracce digitali ovunque (pagamenti, spedizioni, account online) che possono essere incrociate. Nella prossima sezione vedremo come si svolge la procedura di accertamento vera e propria dal momento in cui l’Agenzia rileva una possibile evasione, e quali sono i diritti e i doveri del contribuente durante tale procedura.

Procedura di Accertamento Fiscale: fasi, garanzie e strategie del contribuente

Quando i controlli sopra descritti fanno emergere anomalie o omissioni fiscali, l’Agenzia delle Entrate dà avvio a una procedura di accertamento tributario formale. Analizziamo gli step principali di tale procedura e cosa può (e deve) fare il contribuente in ciascuna fase. È qui che entra in gioco il “punto di vista del debitore”: sapere cosa fare quando arriva una comunicazione o un avviso fiscale è fondamentale per tutelare i propri diritti e magari contenere i danni.

1. Invito al contraddittorio o questionario (fase pre-accertamento): In molti casi, prima di emettere un avviso di accertamento, l’ufficio invia al contribuente un “invito a comparire” per fornire dati, o un questionario scritto, oppure una comunicazione di irregolarità. Ad esempio, se i dati delle piattaforme mostrano che Tizio ha venduto per 50.000 € online e Tizio non ha partita IVA né ha dichiarato tali redditi, l’Agenzia potrebbe invitarlo a presentarsi con documentazione per discutere la sua posizione. Questo fa parte del contraddittorio endoprocedimentale preventivo, che dopo le riforme (DL 34/2019) è diventato obbligatorio in molti casi di accertamento (a pena di nullità dell’atto) salvo situazioni di particolare urgenza. È un momento molto importante: il contribuente può fornire spiegazioni, esibire documenti e memorie difensive. Ad esempio, potrebbe sostenere che parte di quei 50.000 € non erano vendite ma trasferimenti tra familiari, oppure che erano vendite di beni personali già tassati. È fondamentale partecipare attivamente e in buona fede a questa fase, preferibilmente assistiti da un professionista (commercialista o avvocato tributarista). Spesso, se le giustificazioni sono convincenti, l’ufficio può archiviare il controllo o ridimensionare l’addebito. Inoltre, collaborare può dare accesso a istituti deflativi come l’accertamento con adesione (vedi oltre).

2. Notifica dell’Avviso di Accertamento: Se il contraddittorio non risolve la questione (o se l’Agenzia ritiene di avere elementi sufficienti), viene emesso un Avviso di Accertamento, notificato al contribuente. Questo atto rappresenta la pretesa formale del Fisco: quantifica le maggiori imposte dovute (IRPEF, IVA, IRAP se applicata) per uno o più periodi d’imposta, e include le sanzioni amministrative e gli interessi. Ad esempio, per un soggetto senza partita IVA che ha evaso vendite online 2019-2020, l’avviso potrebbe determinare: tot redditi non dichiarati per il 2019 (con imposta IRPEF evasa X euro), tot per il 2020, IVA evasa Y euro su vendite rilevate, con relative sanzioni e interessi. L’avviso deve contenere la motivazione (cioè spiegare su quali elementi si basa: es. “dai dati comunicati da eBay…”, oppure “dall’indagine finanziaria sul c/c…”) e l’indicazione dei metodi di calcolo. Può trattarsi di un accertamento analitico (quando ricostruisce analiticamente ricavi e costi non dichiarati) o induttivo (quando, mancando contabilità, viene fatto in via presuntiva). Nel contesto e-commerce, sovente è induttivo puro, soprattutto se il contribuente non aveva scritture contabili – il che è frequente per chi vende da privato. La Cassazione ha affermato che in caso di omessa dichiarazione l’ufficio può basarsi anche su presunzioni semplici e dati comunque raccolti (come liste di vendite e incassi), e ciò sposta l’onere della prova sul contribuente.

L’Avviso di Accertamento oggi è spesso emesso in forma di “atto impo-esattivo” (per effetto del DL 78/2010): significa che, decorso un certo termine, esso vale anche come titolo esecutivo per la riscossione coattiva. In genere l’avviso richiede il pagamento entro 60 giorni dalla notifica. Entro questo termine il contribuente ha due opzioni principali: pagare (acquiescenza) oppure impugnare l’atto davanti al giudice tributario. Vediamole.

3. Pagamento con acquiescenza o definizione agevolata: Se il contribuente riconosce la correttezza dell’accertamento o comunque vuole chiudere subito la vicenda, può pagare quanto richiesto entro 60 giorni. In tal caso ha diritto a una riduzione delle sanzioni del 1/3 (ai sensi dell’art. 15 D.Lgs. 218/1997, “acquiescenza all’accertamento”). L’avviso stesso spesso indica l’importo ridotto da versare per avvalersi di tale beneficio. Attenzione: pagando in acquiescenza si accetta integralmente l’accertamento e si rinuncia al ricorso. Può essere una scelta sensata se l’ufficio ha ragione e magari ha già applicato sanzioni ridotte (ad esempio, talvolta in fase di adesione o contraddittorio l’Agenzia offre un abbattimento delle sanzioni). In alcuni casi particolari (come le sanatorie previste dalla “tregua fiscale” 2023) si potevano definire accertamenti pendenti con ulteriori sconti sulle sanzioni, ma tali misure hanno scadenze precise e vanno valutate caso per caso.

Se la somma è elevata e non si può pagare in un’unica soluzione, il contribuente può chiedere un pagamento rateale all’Agenzia Entrate Riscossione una volta che il debito va a ruolo, oppure, se l’avviso è “esecutivo”, può chiedere rate direttamente all’ufficio (solitamente fino a 8 rate trimestrali se l’importo < 50 mila €, o più rate con garanzie per importi maggiori). Importante: per fruire dell’acquiescenza con sanzioni ridotte occorre rispettare i termini di pagamento (anche delle eventuali rate iniziali) entro i 60 giorni.

4. Accertamento con adesione (fase pre-contenziosa facoltativa): Un’opzione intermedia tra pagare e ricorrere è chiedere un accertamento con adesione. Si tratta di un procedimento in cui il contribuente e l’ufficio trattano sui numeri dell’accertamento, trovando eventualmente un accordo. Nel contesto e-commerce, l’adesione potrebbe servire per ridurre la base imponibile riconoscendo ad esempio costi deducibili che l’ufficio non aveva considerato, o per riclassificare alcune poste (es. convincere che parte dei ricavi erano redditi diversi occasionali e non imponibili IVA). Se si raggiunge l’accordo, si firma un atto di adesione e il contribuente beneficia di sanzioni ridotte a 1/3 delle minime (anziché la misura piena). I termini per proporre istanza di adesione sono: entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (l’istanza sospende per 90 giorni i termini del ricorso). Va però valutato: se l’avviso è totalmente infondato, aderire non conviene; se invece ci sono elementi contestabili ma si preferisce evitare un lungo contenzioso, può essere utile. L’adesione permette il pagamento rateale (fino a 8 rate trimestrali normalmente) e chiude definitivamente la questione (precludendo il ricorso).

5. Ricorso alla Giustizia Tributaria (contenzioso): Se il contribuente ritiene l’accertamento errato (in toto o in parte) e non vuole o non può pagare, può presentare ricorso alla Commissione Tributaria (ora denominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado) entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso. Dal 2023 la mediazione tributaria non è più obbligatoria (in passato per importi sotto 50.000 € occorreva presentare reclamo/mediazione): ora si può ricorrere direttamente. Nel ricorso vanno indicati i motivi di impugnazione (violazioni di legge, vizi di motivazione, errori di fatto, ecc.). Ad esempio, motivi classici in materia di e-commerce: difetto di prova dei ricavi imputati (se l’ufficio non ha basi solide), errata qualificazione (es. il Fisco ha considerato d’impresa redditi che erano invece occasionali o addirittura esenti), mancato contraddittorio (se l’atto è stato emanato senza invito a comparire dove invece era richiesto), sanzioni errate o sproporzionate, prescrizione del periodo d’imposta, ecc. È fondamentale allegare prove a supporto: per esempio ricevute che mostrano che certi accrediti non erano vendite ma rimborsi, o documenti che attestano costi sostenuti riducendo l’utile imponibile. In giudizio tributario vige il principio dispositivo con inversione dell’onere in caso di accertamento induttivo: l’ufficio porta presunzioni e dati, e spetta al contribuente provare l’inesistenza del reddito contestato o l’esistenza di costi deducibili. Per le vendite online, la Cassazione ha sottolineato che se il Fisco contesta ricavi non dichiarati, vanno considerati anche i relativi costi che il contribuente dimostri di aver sostenuto, altrimenti si tassa un profitto inesistente. Questo è un punto di difesa importante: raccogliere fatture/acquisti dei beni rivenduti, spese di spedizione, commissioni pagate alla piattaforma, ecc., per abbattere la presunta evasione di profitto.

Con il ricorso, il contribuente può chiedere anche la sospensione dell’atto se il pagamento immediato gli causerebbe un danno grave e irreparabile (ad esempio importo enorme che manderebbe l’azienda in crisi). La sospensione viene decisa in via cautelare dalla Commissione di solito entro qualche mese. Se concessa, blocca la riscossione fino alla sentenza di primo grado.

Il giudizio di primo grado si conclude con una sentenza che può confermare l’accertamento, annullarlo (in tutto o parte) o rideterminare gli importi. Ad esempio, la Commissione potrebbe riconoscere che solo la metà dei ricavi era imponibile e annullare il resto. Sia il contribuente sia l’Agenzia possono appellare la sentenza sfavorevole alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. In appello si riesamina la questione nei limiti dei motivi impugnati.

6. Esito del contenzioso e riscossione: Se, al termine dei gradi di giudizio (compresa eventualmente la Corte di Cassazione per soli vizi di diritto), l’accertamento viene confermato, diventa definitivo il debito d’imposta con sanzioni e interessi. A quel punto l’Agenzia Entrate Riscossione procederà con la riscossione coattiva: iscrizione a ruolo e notifica di cartella esattoriale (anche se, come detto, oggi l’avviso stesso funge da titolo esecutivo quindi può seguire direttamente una “intimazione di pagamento”). Se il contribuente ancora non paga, si passa alle misure esecutive: fermo amministrativo su veicoli, ipoteca su immobili, pignoramento di conti correnti o stipendi, fino alla possibile vendita all’asta di beni. Dal punto di vista del debitore, è essenziale non far accumulare ritardi: se si decide di pagare dopo la sentenza, ci sono comunque degli sconti sulle sanzioni se ciò avviene entro certi termini (ad esempio la conciliazione giudiziale in appello può ridurre le sanzioni).

Conviene anche verificare se vi sono in corso misure agevolative (il 2023 ha visto la “rottamazione-quater” delle cartelle, lo stralcio dei piccoli debiti e un “ravvedimento speciale” per annualità fino al 2021). Alla data di luglio 2025, nuove edizioni di rottamazioni o condoni non sono attive, ma il legislatore potrebbe in futuro introdurne altre. Comunque, fare affidamento sui condoni non è una strategia: meglio prevenire o gestire subito l’accertamento.

7. Prescrizioni e termini: L’Agenzia può controllare e accertare entro termini di decadenza stabiliti dalla legge. Per i redditi non dichiarati, il termine ordinario è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (o del settimo se dichiarazione omessa). Ad esempio, redditi 2020 non dichiarati, avendo omesso la dichiarazione, sono accertabili fino al 31/12/2027. Per l’IVA i termini sono analoghi. Se quindi avete venduto online in nero per vari anni, l’Agenzia può recuperarli tutti entro queste scadenze. Attenzione: se nel 2023 ricevete un PVC della GdF su 2018-2019, la notifica dell’avviso può avvenire nei 60 giorni successivi al PVC più il termine di decadenza (che per 2018 scade a fine 2025 grazie a sospensioni Covid e per 2019 a fine 2025 pure). Insomma, c’è ampia finestra.

Nella Tabella 2 riassumiamo le principali fasi dell’accertamento fiscale e i relativi strumenti difensivi a disposizione del contribuente:

Tabella 2: Fasi dell’accertamento fiscale e azioni del contribuente

Fase dell’accertamentoDescrizioneAzione consigliata per il contribuente
Pre-avviso: invito o PVC (facoltativo)Lettera di compliance, invito a contraddittorio, questionario, oppure Processo Verbale di Constatazione se c’è stata verifica GdF.Partecipare attivamente: fornire documenti giustificativi, spiegare la natura di ricavi/versamenti sospetti. Presentare memorie scritte. Se emergono irregolarità ammissibili a ravvedimento (e non c’è ancora PVC), valutare il ravvedimento operoso per ridurre sanzioni.
Notifica Avviso di AccertamentoAtto formale con cui l’Agenzia chiede imposte, sanzioni, interessi su base delle violazioni riscontrate. Entro 60 giorni va pagato o impugnato.Analizzare con un esperto la fondatezza dell’atto. Opzioni: Acquiescenza (pagamento con sanzioni ridotte 1/3 entro 60 gg) se l’accertamento è corretto e conveniente chiudere; oppure presentare istanza di accertamento con adesione entro 60 gg per negoziare (sospende termini ricorso per 90 gg). Nel frattempo, predisporre eventuale ricorso.
Accertamento con adesione (opzionale)Incontro/i con l’ufficio per rideterminare concordemente il dovuto. Se accordo, firma e pagamento entro 20 gg.Durante l’adesione, portare elementi per ottenere uno sgravio (es. riconoscimento di costi). Valutare gli importi proposti. Se accordo insoddisfacente o nessun accordo, prepararsi al ricorso. (L’adesione chiude la partita, con sanzioni 1/3 del minimo).
Ricorso entro 60 giorniPresentazione ricorso alla Corte Giustizia Trib. I grado. (Senza mediazione obbligatoria dal 2023). Pagamento provvisorio di 1/3 imposte se si vuole evitare rischio esecutività immediata, salvo chiedere sospensione.Redigere ricorso dettagliato con motivi di opposizione. Allegare prove (ricevute, estratti conto, documenti) a supporto. Valutare se chiedere sospensiva per importi elevati. Versare il 1/3 delle imposte accertate (non delle sanzioni) entro 60 gg per evitare aggravi (obbligatorio in caso di ricorso? Nota: attualmente, l’obbligo di versare 1/3 entro 60gg vige se si vuole sospendere la riscossione automatica, data la natura esecutiva dell’atto; se si ottiene sospensiva dal giudice, la riscossione è sospesa).
Primo grado di giudizioCausa dinanzi al giudice tributario provinciale. Sentenza emessa (tempi medi 1-2 anni).Se il giudizio dura a lungo, considerare possibilità di conciliazione giudiziale con l’ufficio (sanzioni ridotte 40% in primo grado) prima della sentenza. Altrimenti attendere esito.
Appello (entro 60 gg da sentenza)La parte soccombente (contribuente o Agenzia) può appellare in Corte Giust. II grado. Versamento ulteriore 1/3 provvisorio se Fisco vittorioso in primo grado.Continuare la difesa se si è convinti delle proprie ragioni. Anche in appello è possibile tentare una conciliazione (sanzioni ridotte al 50% se accordo in appello). Pagare il secondo terzo provvisorio se la sentenza di primo grado è sfavorevole, per evitare esecuzione (salvo sospensione in appello).
Definitività e riscossioneSentenza passata in giudicato (dopo appello o Cassazione). L’accertamento (eventualmente modificato dal giudice) diventa definitivo a carico del contribuente.Se importo ancora dovuto, valutare rateazione con Agenzia Riscossione. In mancanza di pagamento, il concessionario avvierà misure esecutive (pignoramenti ecc.). Possibile in extremis chiedere saldo e stralcio o definizioni agevolate se previste da nuove norme.

Questa tabella semplifica un iter che nella realtà può avere varianti, ma fornisce un quadro di riferimento. Dal punto di vista del contribuente, i momenti chiave per “fare qualcosa” sono essenzialmente tre: prima che esca l’accertamento (fornire chiarimenti, ravvedersi se possibile), subito dopo averlo ricevuto (valutare pagamento ridotto o accordo, oppure predisporre ricorso) e durante il processo (sfruttare conciliazioni o rinegoziazioni possibili). Ignorare l’accertamento o reagire in modo scomposto è la scelta peggiore. Meglio farsi assistere e agire con cognizione, tenendo sempre d’occhio costi/benefici: contestare solo gli aspetti fondati (evitando liti temerarie), ma non arrendersi se si intravede un vizio nell’operato dell’ufficio.

Sanzioni e conseguenze in caso di evasione fiscale da e-commerce

Un accertamento fiscale per vendite online non dichiarate comporta, oltre al recupero delle imposte evase, l’irrogazione di sanzioni amministrative e potenzialmente anche sanzioni penali se ricorrono i presupposti di reato tributario. Diamo un quadro delle possibili sanzioni, ricordando che di recente (2023-2024) c’è stata una riforma che ha modificato alcuni importi sanzionatori per dichiarazioni infedeli.

Sanzioni amministrative tributarie:

  • Omessa dichiarazione dei redditi: se il contribuente non ha presentato affatto la dichiarazione annuale (es. agiva come “privato” e non ha dichiarato i guadagni), la sanzione base prevista era dal 120% al 240% dell’imposta evasa (con minimo 250 €). Ad esempio, se ha evaso 10.000 € di IRPEF, la sanzione poteva essere tra 12.000 € e 24.000 €. La recente riforma (D.Lgs. 87/2024) ha mantenuto per l’IVA una misura fissa del 120%, e ha ridotto le sanzioni per dichiarazioni infedeli (vedi dopo). Nel caso di omessa dichiarazione IRPEF, dopo le modifiche le sanzioni dovrebbero allinearsi a quelle dell’infedele (70%) se presentata con ritardo oltre 90 giorni è equiparata a omessa. (Va chiarito che spesso si parla di “omessa dichiarazione” anche se presentata tardivamente oltre 90gg). In ogni caso, omettere di presentare la dichiarazione espone a sanzioni molto elevate, vicine o superiori all’importo dell’imposta evasa stessa.
  • Dichiarazione infedele: se il contribuente ha presentato la dichiarazione dei redditi ma ha sottostimato i ricavi (ad esempio dichiarando zero mentre aveva vendite, o inserendo importi inferiori al reale), si applica la sanzione per infedele dichiarazione. Questa era dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Con la riforma del 2024 è stata abbassata a una misura fissa del 70% dell’imposta non dichiarata (quindi, evaso 10.000 € di IRPEF comporta 7.000 € di sanzione). Per l’IVA parimenti l’infedele dichiarazione comporta sanzione al 70% dell’IVA non versata. Nota: queste percentuali si riferiscono a violazioni su dichiarazione; se uno non aveva proprio P.IVA e non presentava la dichiarazione IVA, quella è omessa (120%). Se invece aveva P.IVA ma non dichiarava parte delle operazioni, è infedele (70%). Nel contesto che trattiamo, spesso c’è omessa sia la dichiarazione redditi sia quella IVA, quindi sanzioni molto alte.
  • Mancata emissione di fattura o scontrino: ogni singola operazione non documentata (mancata fattura quando dovuta, o mancato scontrino se obbligatorio) sarebbe punibile con sanzione dal 90% al 180% dell’IVA relativa (art. 6 D.Lgs. 471/97). Tuttavia, quando si recupera a tassazione un intero volume d’affari non contabilizzato, di solito l’ufficio cumula la sanzione da infedele/omessa dichiarazione con quella eventualmente per mancata fatturazione. In molti casi si applica solo la sanzione unificata sull’imposta evasa complessiva. Se però l’attività era completamente al nero, potrebbero contestare entrambe le violazioni (anche se la giurisprudenza tende a evitare duplicazioni sanzionatorie per lo stesso fatto).
  • Omessa regolarizzazione IVA vendite a distanza: vale come infedele/omessa IVA. Inoltre, la normativa prevede che se il marketplace è stato coinvolto, questo può essere chiamato a rispondere dell’IVA non versata se non ha comunicato i dati del venditore (norme 2019). Ma dal 2021 con IOSS, se uno non si adegua potrebbe incorrere in sanzioni doganali. Non entriamo nei dettagli, ma è un ulteriore rischio.
  • Sanzioni accessorie: in casi gravi di evasione d’impresa, il D.Lgs. 471/97 prevede possibili sanzioni accessorie tipo sospensione licenza o interdizione dall’esercizio dell’attività da 3 mesi a 2 anni. Tali misure scattano però solo per violazioni gravi e abituali (es. non emissione scontrini ripetuta). Per vendite online, prive di licenza formale, non c’è una licenza da sospendere; tuttavia, l’Autorità giudiziaria può arrivare a disporre il sequestro preventivo del sito web in casi estremi di reato fiscale.
  • Ravvedimento e riduzioni: se il contribuente collabora e regolarizza spontaneamente, le sanzioni si riducono. Abbiamo già menzionato: con ravvedimento operoso prima dell’accertamento, la sanzione può scendere fino a 1/8 del minimo (se fatto oltre 2 anni) o addirittura 1/10 se entro un anno. Con l’adesione o la conciliazione giudiziale, riduzione a 1/3 o a percentuali del 50-60%. In caso di perdono parziale legislativo (es. definizione agevolata), potrebbero tagliare le sanzioni (come fu per alcune liti pendenti nel 2023 con sanzioni azzerate). Sono opportunità da cogliere per risparmiare, quando disponibili.

Per dare un’idea numerica, consideriamo una simulazione pratica: Mario ha incassato 50.000 € vendendo oggetti in dropshipping nel 2022, con un margine stimato (ricavi meno quanto pagato ai fornitori) di 20.000 €. Non ha dichiarato nulla. L’Agenzia scopre la cosa tramite i dati PSP e piattaforme. In accertamento imputa 50.000 € di ricavi non dichiarati. Supponiamo fossero imponibili come d’impresa. L’IVA evasa su 50.000 € (al 22%) è 11.000 €. L’IRPEF evasa sul reddito di 20.000 € (aliquota marginale supponiamo 27%) è circa 5.400 €. Totale imposte evase ~ 16.400 €. Le sanzioni: per l’IVA omessa 11.000 € * 120% = 13.200 €; per l’IRPEF infedele 5.400 € * 90% (vecchio) = 4.860 € (o 70% nuovo = 3.780 €). Somma sanzioni ~ 18.000 €. Aggiungiamo interessi (2-3 anni al tasso legale del 4% medio, qualche centinaio di euro). Mario si troverebbe a dover pagare ~ 35.000 €, oltre due volte il suo guadagno netto. Se aderisse subito, le sanzioni scenderebbero forse a ~12.000 € totali e il dovuto intorno a 28.000 €. Se invece nulla fosse deducibile, i numeri potrebbero essere anche peggiori. Questa simulazione fa capire come l’evasione fiscale nel commercio online può portare a dover restituire ben più di quanto incassato, mandando potenzialmente in rovina il piccolo imprenditore. Perciò, dal punto di vista del contribuente, conviene mettersi in regola presto.

Profili penali: la vendita in nero può costituire reato tributario se supera determinati importi stabiliti dal D.Lgs. 74/2000. I reati potenzialmente configurabili nel nostro contesto sono:

  • Omessa dichiarazione (art.5 D.Lgs.74/2000): scatta se l’imposta evasa (IRPEF o IVA) supera €50.000 per ciascun tributo, per periodo d’imposta. Ad esempio, se in un anno Tizio ha evaso IVA per 60.000 €, la mancata presentazione della dichiarazione IVA costituisce reato penale, punibile con la reclusione da 2 a 5 anni. Nel nostro esempio di Mario, IVA evasa 11.000 € => niente reato (sotto soglia); ma se avesse venduto 10 volte tanto, sì. Anche l’omessa dichiarazione dei redditi oltre soglia (imposta evasa > 50.000) è reato con stessa pena.
  • Dichiarazione infedele (art.4): se uno presenta dichiarazione ma omette imponibili, è reato se imposta evasa > €100.000 e gli elementi attivi sottratti a tassazione superano il 10% del dichiarato o comunque €2 milioni. Molti venditori online non presentano proprio la dichiarazione, quindi ricade nel precedente; se la presentassero sotto-riportando (caso raro in questi contesti), dovrebbero evadere somme notevoli per incorrere nel penale.
  • Emissione di fatture false (art.8) o utilizzo di fatture false (art.2): poco attinente per il venditore singolo, ma se ha creato documenti per coprire il nero, potrebbe incorrere in reato di frode.
  • Riciclaggio/auto-riciclaggio: se i proventi evasi vengono reimpiegati in attività speculative, potrebbe profilarsi il reato di auto-riciclaggio. Ma rientriamo nel penale puro.

Nei casi estremi (come la frode carosello del dropshipper con società cartiere), si configurano reati di dichiarazione fraudolenta (art.3) e associazione a delinquere fiscale, con pene molto alte e misure cautelari (arresti, sequestri ingenti).

Per il piccolo imprenditore online, il rischio penale più concreto è l’omessa dichiarazione: se si cresce molto col business in nero, superando 50k di imposta evasa, si entra nel penale. Vale la pena sottolineare che in un eventuale processo penale, la quantificazione dell’imposta evasa spetta al giudice penale, che deve tenere conto anche dei costi non dichiarati (lo ricordava Cass. 39379/2016). Ad esempio, un soggetto condannato per vendite online non dichiarate contestava che non avevano considerato i costi e quindi l’evasione era in realtà sotto soglia penale; la Cassazione gli diede ragione nel dire che i costi vanno dedotti per calcolare l’imposta evasa effettiva. Ciò può salvare qualcuno dal penale, ma non dall’obbligo di pagare in sede tributaria.

Altre conseguenze: vanno menzionati gli effetti in ambito previdenziale e civile. Se la persona avrebbe dovuto iscriversi come ditta artigiana/commerciante, l’INPS potrebbe richiedere i contributi evasi sui redditi non dichiarati (con relativi interessi e sanzioni civili). Inoltre, l’evasione scoperta può portare segnalazioni per reato di indebita percezione di redditi esenti se ad esempio uno percepiva sussidi (reddito di cittadinanza ecc.) e intanto guadagnava col nero.

Insomma, le sanzioni pecuniarie e penali possono essere devastanti. Dal punto di vista del “debitore”, appena si rende conto di avere pendenze fiscali sull’e-commerce, la mossa migliore è cercare un ravvedimento e rientro nella legalità prima di farsi male. Se ormai l’accertamento è in corso, conviene collaborare per ridurre il danno e magari ottenere un pagamento rateale sostenibile.

Nel prossimo capitolo affrontiamo alcune domande frequenti (Q&A) per chiarire i dubbi più comuni su fiscalità di e-commerce e dropshipping, alla luce di quanto esposto.

Domande e Risposte Frequenti (FAQ)

Di seguito una serie di domande comuni poste da chi vende online (privati o piccoli imprenditori), con risposte basate sulla normativa e prassi attuale.

Q1: Devo aprire la partita IVA per vendere online?
A1: Dipende dalla continuità e dall’organizzazione con cui vendi. Se l’attività di vendita è abituale o professionale, sì, è obbligatorio aprire Partita IVA (oltre ad eventuale iscrizione al Registro Imprese). Ciò significa che stai svolgendo un’attività economica non occasionale, anche se da casa. Esempi: gestisci un negozio su eBay con decine di vendite mensili; fai dropshipping tutti i giorni; compri stock di merce per rivenderla online. In tutti questi casi sei considerato un imprenditore ai fini fiscali e devi avere una P.IVA. Se invece vendi solo ogni tanto qualcosa, ricavando piccole somme, potresti rientrare nella vendita occasionale senza obbligo di P.IVA. Attenzione però: “ogni tanto” vuol dire veramente sporadicamente (es. pochi affari all’anno). Non c’è un numero magico, ma se vendi, ad esempio, più di 4-5 oggetti al mese in modo costante, di solito l’Agenzia ti considererà abituale. Anche incassi annui rilevanti (es. qualche migliaio di euro) fanno scattare il sospetto di attività continuativa. In sintesi: per vendite isolate no, per un minimo di continuità meglio di sì. Una ditta individuale in regime forfettario (se rispetti i requisiti) potrebbe essere una soluzione semplificata se non superi €85.000 di ricavi annui (limite 2023/2024 per il forfait).

Q2: C’è una soglia di ricavi entro cui posso vendere online come privato senza pagare tasse?
A2: No. Non esiste una franchigia di reddito “tax free” specifica per l’e-commerce. Anche 1 euro guadagnato, se configura reddito (e non semplice vendita di un bene personale usato), sarebbe teoricamente imponibile. Spesso si sente dire “finché non superi 5.000 € l’anno sei a posto”: è un mito. La soglia di €5.000 riguarda semmai gli obblighi previdenziali per il lavoro autonomo occasionale, non l’esenzione fiscale. In ambito fiscale, ripetiamo, conta la natura delle operazioni. Se vendi qualcosa che era tuo (patrimonio personale), non paghi nulla indipendentemente dall’importo. Se invece stai svolgendo anche una sola operazione commerciale con intento di lucro, quell’utile è tassabile, fosse anche di 100 €. Naturalmente, l’Agenzia delle Entrate ha priorità e non rincorre chi guadagna 50 € su Subito.it vendendo la bicicletta. Ma formalmente, se tu fai per esempio 10 vendite occasionali di vari oggetti comprati e rivenduti, ricavando 3.000 € di margine, dovresti dichiararli come redditi diversi. Il vantaggio di restare piccolo è che potresti non dover aprire P.IVA finché l’attività non è abituale, ma il dovere di dichiarare i redditi c’è comunque. Quindi non confondere l’aspetto IVA/partita IVA (che dipende da abitualità) con l’aspetto imposte sui redditi (che dipende dall’esistenza di un reddito imponibile, anche se occasionale).

Q3: Vendo solo oggetti usati miei su eBay/Vinted: devo pagare tasse?
A3: Se davvero sono beni usati di tua proprietà personale, venduti saltuariamente per liberartene, allora no, non c’è tassazione sui proventi. È come se organizzassi un mercatino dell’usato tra privati: stai monetizzando un tuo bene che hai acquistato (magari a un prezzo superiore a quello di rivendita) e non c’è un’attività commerciale. La Cassazione ha confermato che la vendita di beni del patrimonio personale, anche online, non è attività d’impresa né lavoro occasionale. Ci sono però due caveat: (a) se vendi oggetti usati ma comprati da terzi apposta per rivenderli, non sono più “tuoi” in senso stretto, stai facendo intermediazione (anche se sono di seconda mano); (b) se vendi tantissimi oggetti usati in modo organizzato, l’Amministrazione potrebbe dubitare che fossero tutti tuoi e pensare a un commercio occulto. Un caso concreto: la Cassazione 26554/2020 riguardava uno che vendeva decine di orologi preziosi “usati” su eBay per anni; sosteneva fossero collezione personale, ma non ha convinto e ha perso, perché il numero e la modalità configuravano impresa e lui non ha provato altrimenti. Quindi: vendere la propria collezione di fumetti in blocco probabilmente esente; vendere centinaia di oggetti usati come “hobby remunerativo” può essere tassato.

Q4: Che differenza c’è tra vendite occasionali e abituali, in pratica?
A4: L’abitualità implica professionalità, cioè un’attitudine a ripetere gli atti di vendita in modo stabile. Non serve la partita IVA per definire che sei abituale; è il contrario, serve essere abituale per dover aprire la P.IVA. Alcuni indici pratici: se hai un catalogo di prodotti che cerchi di vendere attivamente, se dedichi tempo continuativamente all’attività, se hai dei fornitori abituali, se promuovi i prodotti (marketing), se c’è una organizzazione seppur minima (magazzino a casa, attrezzature, account business). L’occasionalità invece è il vendere senza cadenza prevedibile, un po’ quando capita, magari monetizzando opportunità sporadiche (es. svuoto la soffitta e vendo qualcosa, poi sto fermo, poi magari tra 6 mesi trovo altri oggetti da cedere). L’occasionalità può includere anche il procacciamento di affari sporadico (ad esempio: aiuto un amico a vendere la sua moto online e mi dà una provvigione: è un reddito occasionale). Il confine non è rigido, ma un criterio qualitativo e quantitativo complessivo. La CTR Molise 2020 ha ribadito che anche chi non ha particolari competenze o non è un commerciante “di mestiere” può essere imprenditore se la sua attività online è svolta con metodo e continuità. Dunque, la scusa “non sono esperto, lo faccio un po’ alla buona” non ti salva se i fatti dimostrano vendite regolari. In sintesi: occasionale è l’eccezione, abituale è la regola non appena la tua presenza sul mercato diventa costante.

Q5: Come fa l’Agenzia delle Entrate a sapere che sto vendendo online?
A5: Ormai il Fisco ha diversi modi. Primo, come spiegato, le piattaforme e le banche comunicano i dati: se vendi su eBay, Amazon, Etsy, Subito, Vinted etc., i gestori raccolgono info su di te e le inviano all’Agenzia (normativa DAC7). Se ricevi molti pagamenti via PayPal o bonifici da varie persone, le banche segnalano se sono più di 25 transazioni estere a trimestre (normativa PSP/CESOP). Inoltre, l’Agenzia incrocia i dati dei conti correnti: se vede molti movimenti sospetti e nessun reddito dichiarato, scatta un alert. Ci sono stati casi in cui sono bastati i movimenti su carte prepagate (tipo Postepay) per far partire un accertamento. Secondo, la GdF effettua controlli sul campo e sul web: monitorano gruppi Facebook, annunci su marketplace, ecc. Ad esempio, possono vedere su Instagram qualcuno che vende abiti homemade e verificare se ha P.IVA. Terzo, ci sono le banche dati doganali: con la fine della franchigia doganale, ogni pacco extra-UE viene dichiarato; se risultano centinaia di pacchi destinati a Mario Rossi, scatta la domanda se Mario Rossi è un consumatore molto attivo o un rivenditore. In generale, l’Agenzia ha team dedicati all’e-commerce che fanno data mining su grosse banche dati. E non dimentichiamo le segnalazioni anonime o di concorrenti: un commerciante in regola a volte segnala chi fa concorrenza sleale in nero. In conclusione, è difficile nascondere un’attività di e-commerce che abbia un minimo di volume. Magari non ti scoprono subito nel primo anno se sei piccolo, ma nel giro di qualche anno, incrociando dati, hai alte probabilità di emergere.

Q6: Cosa rischio se non ho mai dichiarato i miei guadagni da vendite online?
A6: Rischi: (1) di dover pagare tutte le imposte arretrate con interessi; (2) di pagare sanzioni molto pesanti (dal 90% al 180% o più dell’imposta evasa per ogni annualità, anche se ora ridotte a 70% fisso per infedele – resta comunque enorme); (3) se gli importi erano alti, di avere anche una denuncia penale per omessa dichiarazione (sopra 50k € di imposta evasa in un anno) con rischio di reclusione fino a 5 anni. Inoltre, dovrai quasi certamente aprire la partita IVA e metterti in regola per il futuro, con costi connessi. In pratica, potresti vedere polverizzati i guadagni accumulati e aggiungere debiti ulteriori. Non solo: se non paghi spontaneamente dopo l’accertamento, le somme vengono iscritte a ruolo e l’Agente della Riscossione può pignorare conti, stipendio, auto, immobili. Ci sono storie di piccoli imprenditori rovinati per non aver gestito correttamente la parte fiscale. Quindi il rischio è finanziario (pagare il doppio/triplo di quello che hai incassato) e, per somme rilevanti, anche la fedina penale sporca. Un altro rischio indiretto: se hai evaso IVA, l’Agenzia delle Entrate potrebbe segnalare la cosa all’INPS per verificare eventuali contributi non pagati (ad esempio gestione commercianti). E se percepivi sussidi mentre avevi redditi occulti (es. reddito di cittadinanza), potresti doverli restituire ed essere perseguito per indebita percezione. Insomma, le conseguenze sono plurime. Vale la pena, in questi casi, valutare seriamente il ravvedimento operoso: se l’Agenzia non ti ha ancora contestato nulla, puoi presentare dichiarazioni tardive per gli ultimi anni, pagando le imposte dovute con sanzioni ridotte (normalmente 1/10 o 1/8 della sanzione base se sono passati oltre 90 giorni, e interessi). Ad esempio, per 10.000 € evasi un anno fa, con ravvedimento pagheresti 10.000 + 1.000 di sanzione (1/10 di 10k*100%) + interessi modesti. Molto meglio di 10.000 + 9.000 di sanzione se accertato. Certo, ci vuole liquidità per farlo, ma almeno eviti l’incubo di un accertamento.

Q7: Mi è arrivata una lettera dell’Agenzia che chiede spiegazioni sulle mie vendite online, cosa devo fare?
A7: Questa è la famosa lettera di compliance o invito al contraddittorio. Non è (ancora) un atto impositivo, ma è un segnale serio. Devi rispondere entro il termine indicato, fornendo le informazioni richieste e, se opportuno, documenti. Se la lettera è generica (“abbiamo rilevato che ha percepito redditi non dichiarati su PayPal…”), puoi decidere di presentarti di persona (con tuo consulente) all’ufficio per discutere. In ogni caso, non ignorarla. Due scenari: (a) se effettivamente hai omissioni, valuta come regolarizzare. L’Agenzia spesso in queste lettere ti invita a ravvederti. Puoi presentare dichiarazioni integrative per gli anni coinvolti e versare le imposte con sanzioni ridotte. Questo chiuderà la questione senza altri atti (a meno che la situazione fosse già grave o si attendono verifiche). (b) Se ritieni di essere in regola (es. vendite erano esenti perché beni personali), prepara una risposta dettagliata. Ad esempio, elenca le transazioni contestate spiegando la natura: “vendita dei miei mobili usati – attività non commerciale, vedi sentenza Cass…”. Fornisci prove: ricevute di acquisto originarie, foto, estratti conto mostrando che non c’è margine di guadagno. L’obiettivo è convincere l’ufficio a non procedere oltre. Tieni traccia della risposta (protocollo). Se non rispondi o rispondi evasivamente, quasi sicuramente ti manderanno un accertamento. Meglio essere proattivo e, se colpevole, mostrarsi collaborativo (magari l’ufficio, vedendo che hai pagato col ravvedimento, lascerà perdere sanzioni più alte).

Q8: Ho ricevuto un Avviso di Accertamento per redditi da e-commerce non dichiarati. Posso difendermi, e come?
A8: Sì, puoi difenderti attraverso gli strumenti del contenzioso tributario. Prima di tutto, leggi bene l’atto e verifica se l’Agenzia ha applicato qualche sconto (a volte negli avvisi per chiusura automatica c’è già sanzione ridotta se paghi subito). Se l’importo non è devastante ed effettivamente hai evaso, può convenire pagare con acquiescenza (sanzioni ridotte di 1/3) per chiudere la vicenda rapidamente. Se invece ci sono elementi sbagliati nell’accertamento, puoi presentare ricorso entro 60 giorni. Prima del ricorso, valuta una richiesta di accertamento con adesione: congela i termini e potresti trovare un accordo con l’ufficio (magari riconoscono costi che abbattono la base imponibile, ecc.). Se ciò fallisce, vai in Commissione Tributaria. Le linee di difesa tipiche potrebbero essere:

  • Errata qualificazione: se sostieni che la tua non era attività d’impresa ma solo reddito occasionale, quindi l’IVA non era dovuta e l’IRAP neppure (questo ti toglierebbe una bella fetta di debito). Ricorda però Cassazione 2025: vendite ripetute su piattaforma con elevato numero di transazioni = impresa. Dovresti dimostrare che non erano elevate o che manca abitualità (difficile se i numeri sono alti).
  • Esistenza di costi: se ti contestano ricavi lordi, porta evidenze di quanto ti costò quella merce o servizio. Il Fisco tende a tassare il ricavo lordo se non hai contabilità, ma se puoi provare acquisti (anche con estratti conto, ricevute fornitore, email d’ordine, dogane, etc.) hai diritto a scaricare quei costi. Ad es., vendite 50k ma merce costata 30k: chiedi che il reddito imponibile sia 20k, non 50k.
  • Non imponibilità: prova che alcune transazioni non erano vendite tassabili. Ad esempio, magari sull’account PayPal transitavano anche rimborsi, prestiti tra amici, attività hobbistiche esenti. Se riesci a isolare quelle somme e documentare la loro natura (es. “questi 5 accrediti erano rimborsi di oggetti difettosi restituiti ai clienti, quindi non ricavi”), puoi ottenere uno sgravio parziale. Oppure se alcune vendite riguardavano beni personali (es. la tua auto usata), evidenzia che quell’importo non andava tassato affatto.
  • Vizi procedurali: controlla se l’avviso è stato preceduto dal contraddittorio: se no, e non c’era urgenza, puoi far leva sulla violazione del diritto al contraddittorio preventivo (spesso i giudici annullano l’atto per questo, ma non è garantito: la normativa in evoluzione, comunque tentar non nuoce se è palese). Oppure verifica se l’atto è stato notificato entro i termini (decadenza). O se la motivazione è carente (ma se allegano PVC o descrivono i dati delle vendite, di solito la motivazione c’è).
  • Prova della persona responsabile: in certe situazioni familiari, potresti sostenere che le vendite non erano tue ma di un congiunto che usava il tuo account. Questo è arduo: come visto nel caso CTR Molise, dire “era mio marito a usare il mio account” non ha funzionato senza prove. Se però tu fossi minorenne o incapace e qualcun altro operava, forse potresti contestare la soggettività passiva. In generale, quell’argomento regge poco senza riscontri oggettivi (pagamenti incassati su conto di un altro, ecc.).

In giudizio, potresti anche chiamare testimoni, ma nel processo tributario la prova testimoniale orale è vietata, ammessa solo in forma di dichiarazioni rese all’ufficio (art. 7 D.Lgs. 546/92 come modif. dal 2022). Quindi meglio affidarsi a prove documentali. Se la cifra è alta, affidati a un avvocato tributarista. Valuta pure se fare ricorso per avere magari una transazione in corso di causa: spesso l’Agenzia, se vede margini, in appello potrebbe accordarti una conciliazione (paghi un po’ meno sanzioni). In sintesi, puoi difenderti, sì, ma serve costruire una contro-narrazione credibile e supportata da evidenze, per contrastare le presunzioni fiscali.

Q9: Le sanzioni che mi hanno messo sono altissime, posso farle ridurre?
A9: In via amministrativa, l’Agenzia non può scendere sotto i minimi di legge (se non in adesione che applica 1/3 del minimo). Quindi se ti hanno messo 120% di sanzione, è il minimo per omessa dichiarazione. Però ci sono alcuni spiragli:

  • Accertamento con adesione / Conciliazione: come detto, aderire all’accertamento in fase amministrativa riduce le sanzioni ad 1/3 delle aliquote minime. Conciliare in giudizio riduce al 40% (primo grado) o 50% (secondo grado) delle sanzioni irrogate. Quindi se sei già in causa, puoi proporre all’ufficio un accordo transattivo con abbattimento delle sanzioni.
  • Non punibilità per particolare tenuità: in ambito tributario c’è poco spazio, esiste nel penale ma non nelle sanzioni amministrative (salvo violazioni formali senza imposta).
  • Cumulo giuridico: se hai violazioni ripetute della stessa indole in più anni, potresti chiedere di applicare il “cumulo giuridico” (una sola sanzione aumentata, invece di sommarle). Questo in realtà lo applica già l’ufficio di solito, ma verifica. Ad esempio, se ti contestano 3 anni di omessa fatturazione, c’è un meccanismo per non sommare 3 volte la sanzione massima, ma applicarne una unica con un aumento.
  • Istanza di autotutela: se c’è stato un errore di calcolo nelle sanzioni o chiara sproporzione per duplicazione, puoi segnalare all’ufficio in autotutela. Non è un diritto, ma a volte correggono se c’è un palese errore (es. ti hanno messo sia sanzione per omessa dichiarazione IVA sia per infedele IVA su stesse somme).
  • Ravvedimento postumo in extremis? Dopo l’avviso non si può ravvedere quella violazione, però se l’avviso riguarda più annualità e magari alcune non sono scadute, in teoria potresti ravvedere quelle non ancora contestate, ma se sono già nell’avviso no.
  • Attenuanti giudiziali: nel processo tributario, il giudice non ha facoltà di ridurre le sanzioni discrezionalmente per equità (lo hanno i giudici delle sanzioni amministrative extratributarie, ma nel tributario la sanzione è determinata per legge). Può però annullarle se annulla l’imposta o se riconosce che c’era obiettiva incertezza normativa (art. 6 comma 2 D.Lgs. 472/97) – ipotesi rara per e-commerce, la legge è chiara.

In prospettiva, c’è da dire che la riforma fiscale potrebbe introdurre sanzioni proporzionali più miti per piccoli errori. Ad esempio dal 1/9/2024 alcune sanzioni su versamenti calano al 25%. Ma per l’omessa dichiarazione redditi, attualmente la sanzione resta elevata. Quindi l’unica via concreta è sfruttare gli istituti deflativi (adesione, conciliazione) per strappare la riduzione di legge. Oppure, se escono nuove definizioni agevolate (condoni) in futuro, aderire a quelle (nel 2023 c’era la definizione delle liti pendenti con sanzioni azzerate se accettavi di pagare il tributo, ma valeva solo per ricorsi presentati entro 2022).

Q10: Faccio dropshipping: come devo pagare le tasse sui guadagni?
A10: Il dropshipping fiscalmente è come avere un negozio. Quindi:

  • Se sei ditta individuale in regime ordinario, pagherai l’IRPEF sul profitto netto annuo (ricavi – costi deducibili) in base agli scaglioni, più eventuale addizionali e contributi INPS. Se sei in regime forfettario, pagherai il 15% (o 5% startup) di imposta sostitutiva sul coefficiente di redditività applicato ai ricavi (per commercio è 40%, quindi 15% su 40% dei ricavi lordi).
  • L’IVA: emetterai fatture o scontrini con IVA al 22% (nel caso di beni generici) ai clienti italiani. Ai clienti UE consumer, se sei in OSS e superi 10k vendite estere, applicherai l’IVA del paese del cliente ma la verserai tramite OSS. Ai clienti extra-UE, la vendita è non imponibile (esportazione) se curi tu spedizione, oppure fuori campo se vendi e consegna avviene fuori UE. Se vendi in dropshipping da fornitore extra-UE a cliente UE, dovresti usare IOSS per importi <150€: in tal caso applichi già l’IVA del cliente all’atto di vendita. In sintesi: c’è IVA a seconda del luogo di consumo.
  • Altri obblighi: registrare le fatture di acquisto dal fornitore (se UE integri, se extraUE sdoganamento), e registrare i corrispettivi delle vendite B2C giornalieri. Niente scontrino se vendi online con spedizione (vendita a distanza esonerata da certificazione corrispettivi), a patto che annoti tutto nel registro. Se vendi anche di persona, lì serve lo scontrino telematico.
  • Dal lato doganale: se la merce la fa arrivare il fornitore, potresti farla intestare a te (Dichiarazione doganale a tuo nome, paghi tu IVA import) e poi rifatturi al cliente con IVA nazionale – oppure come spesso accade, arriva intestata al cliente che paga oneri: in quest’ultimo caso tu dovresti comunque emettere fattura al cliente del totale pagato (merce + eventuale spedizione) senza IVA (perché fatturi una vendita extra-UE, se contrattualmente la cessione avviene fuori UE? Situazione ambigua). Meglio farsi consigliare da un tributarista su come impostare: l’opzione IOSS semplifica per importi piccoli. Per importi grandi, conviene far transitare la merce per te (magari con un magazzino doganale o tramite spedizioniere) per poter dire “ho importato e venduto”.

Riassumendo: dichiara il reddito come impresa commerciale e assolvi l’IVA come in qualsiasi vendita. Non esiste una tassazione diversa specifica per dropshipping. Se non lo fai, rischi come tutti gli altri evasori: controlli, sanzioni, etc.

Q11: Se incasso tramite PayPal o su conti esteri, l’Agenzia se ne accorge?
A11: Sì, ormai sì. PayPal in particolare è vigilato sia come PSP (fornisce dati dei transazioni transfrontaliere) sia come sostituto “banca” (in Italia ha l’obbligo di comunicare al fisco i saldi e movimenti dei conti intestati a residenti, essendo istituto di moneta elettronica con succursale in Italia). Inoltre, in indagini specifiche, l’Agenzia/GdF possono chiedere a PayPal l’estratto completo del conto (già fatto in varie indagini). Lo stesso per conti correnti in paesi esteri: con lo scambio automatico di informazioni (CRS), l’Italia riceve ogni anno dati di saldo e interessi dei conti esteri dei propri residenti. Magari i movimenti dettagliati no, ma se un tuo conto in UK ha movimenti e entrate, il fisco sa che esiste e il saldo. Se vede entrate grosse può approfondire con richiesta mirata tramite mutua assistenza. Non dimentichiamo poi che se porti i soldi in Italia prima o poi, tramite bonifico o prelievo, lascerai traccia. Insomma, usare PayPal o un conto estero per “non farsi vedere” oggi è inefficace. Era forse un espediente 10+ anni fa. Adesso i soldi elettronici lasciano scie luminose per il Fisco. Una criptovaluta anonima sarebbe più difficile da rintracciare, ma convertire poi crypto in euro sul tuo conto ricadrebbe di nuovo nel tracciato. E comunque se fai decine di vendite, i clienti qualcosa useranno come canale di pagamento – alla fine i flussi emergono. Quindi non contare su PayPal come nascondiglio: anzi, molte verifiche su venditori online partono proprio dall’acquisizione degli estratti PayPal.

Q12: Se apro un’azienda all’estero posso evitare le tasse italiane sul mio e-commerce?
A12: Solo se realmente sposti all’estero l’attività e la residenza fiscale. Se apri una Ltd in Inghilterra ma vivi e operi in Italia, l’Italia considererà quell’azienda come potenzialmente “esterovestita”, cioè un’entità fittizia creata solo per usufruire di tassazione estera. L’art. 73 del TUIR dice che una società estera è fiscalmente italiana se ha sede di direzione in Italia. Basta che le decisioni e la gestione siano qui (anche se la costituisci tramite un agente estero). E se la controlli tu residente italiano, hai l’onere di provare che quell’azienda è indipendente. L’Agenzia fa molte contestazioni di esterovestizione, specie su società in paesi a fiscalità privilegiata o anche UK/Malta. Risultato: ti tassano in Italia tutti i redditi, e in più magari scatta pure la sanzione per mancata compilazione del quadro RW (monitoraggio) e per inversione onere (ti fanno pagare come dividendi occulti). Se invece sei disposto tu personalmente a trasferirti all’estero e gestire da lì, allora potresti legittimamente beneficiare di fiscalità estera (attenzione però: se resti residente in Italia oltre 183 giorni/anno, non vale, devi davvero trasferire residenza). In genere, per un piccolo e-commerce, il gioco di fare società estera non vale la candela: i costi di gestione estera, il rischio di problemi fiscali, e comunque se vendi in Italia devi rispettare regole IVA (identificazione, OSS). Un esempio: caio apre società in Bulgaria (tassa 10%), vende in Italia; legalmente, la società bulgara dovrebbe registrarsi come operatore OSS per versare l’IVA italiana sulle vendite ai clienti italiani, quindi paga l’IVA italiana. Risparmia sul 10% vs 24-35% di tasse sui redditi, ma deve evitare di apparire residente Italia. Se Caio sta in Italia, l’AE può dire: quella società è solo un tuo schermo, tassiamo qua. Dovresti almeno avere un socio locale, un amministratore locale, una sede reale. Insomma, per avere vantaggi stabili devi strutturarti, e non è banale. Se sei giovane e senza legami potresti decidere di emigrare e aprire la società in paese vantaggioso: è un cambio di vita oltre che fiscale. Altrimenti, il punto di vista del debitore è: meglio pagare le tasse in Italia (magari sfruttando il regime forfettario che fino a 85k è molto conveniente con 5% o 15% di imposta e niente IVA per ricavi UE) piuttosto che infilarsi in guai con esterovestizione. Ci sono influencer che promuovono queste scorciatoie, ma la realtà è che il fisco italiano e internazionale oggi ha gli occhi aperti. Quindi la risposta: no, non puoi semplicemente aprire all’estero e fare finta di niente, a meno di non trasferire davvero la tua vita fuori.

Abbiamo coperto le FAQ più comuni. Se ne potrebbero aggiungere altre (ad es. “posso vendere come hobbista alle fiere?” – risp: sì ma con limiti e comunicazioni; “devo iscrivermi alla gestione commercianti INPS se apro P.IVA?” – risp: sì per vendita di beni come ditta ind., circa 24% su reddito minimale; ecc.), ma entriamo troppo nello specifico. In generale, il messaggio chiave è: la fiscalità dell’e-commerce va presa sul serio tanto quanto quella delle attività tradizionali, e informarsi è la miglior arma per evitare brutte sorprese.

Giurisprudenza e casi pratici rilevanti

Per dare un taglio ancor più concreto e “da addetti ai lavori”, in questa sezione presentiamo alcuni casi giurisprudenziali rappresentativi sul tema vendite online e accertamenti fiscali, con indicazione del principio affermato. Queste pronunce, soprattutto della Corte di Cassazione, forniscono parametri utili sia al contribuente che al difensore su come vengono affrontate in sede legale queste situazioni.

Tabella 3: Principali sentenze su e-commerce e fisco (Italia)

Sentenza (anno)Oggetto del contenderePrincipio di diritto affermato
Cass. n. 7552/2025 (Sez. Trib.)Vendite online pluriennali su piattaforma (contestata qualifica reddito)Le vendite online sistematiche, con elevato numero di transazioni su più anni, configurano sempre reddito d’impresa se abituali, indipendentemente dall’assenza di struttura formale. L’esercizio abituale di attività commerciali comporta impresa commerciale ai fini fiscali, a prescindere dall’organizzazione giuridica scelta. (Contribuente tassato come impresa, niente reddito diverso)
Cass. n. 10117/2023 (Sez. Trib.)Vendita beni personali (mobili di casa) tramite internet, occasionale o tassabile?La cessione di beni del patrimonio personale, effettuata in via episodica, non è attività commerciale e i relativi proventi non sono inquadrabili nemmeno come redditi diversi da attività commerciale occasionale. (La Corte ha escluso la tassazione, cassando decisione CTR che aveva invece qualificato reddito diverso)
Cass. n. 6874/2023 (Sez. Trib.)Distinzione tra “mercante d’arte” vs “speculatore occasionale” (riferito a vendite sporadiche di opere d’arte)Viene ribadito che solo l’abitualità qualifica il reddito d’impresa. Il soggetto che acquista e rivende sporadicamente beni (opere d’arte nel caso) al fine di lucro genera redditi diversi occasionali, non d’impresa, purché manchi sistematicità. (Se invece la condotta diviene sistematica e rilevante, si scivola nell’impresa anche senza struttura)
Cass. ord. n. 26987/2019 (Sez. VI)Legittimità accertamento induttivo basato su vendite eBay non dichiarate (omessa dichiarazione)In caso di omessa dichiarazione fiscale, l’ufficio può procedere con accertamento induttivo puro, basato anche su presunzioni semplici, quali i dati delle vendite online risultanti da verbali GdF. Tali presunzioni “super-semplici” hanno valore di prova e spostano sul contribuente l’onere di dimostrare il contrario (es. provare che non ha prodotto redditi o che sono inferiori). (Confermato che elenco vendite eBay = base sufficiente per accertare ricavi non dichiarati)
Cass. ord. n. 26554/2020 (Sez. Trib.)Vendita di beni usati (orologi) su eBay – omessa dichiarazione di attività di commercioIl contribuente che vende regolarmente beni (anche usati) su eBay senza dichiarare nulla viene considerato aver svolto attività d’impresa occultata. L’onere probatorio a suo carico: deve fornire elementi contrari, ad esempio provare l’esistenza di costi o che fossero beni personali, altrimenti l’accertamento su ricavi lordi regge. (Nel caso, ricavi tassati per intero perché il contribuente non ha dimostrato costi né la non imponibilità, e ricorso rigettato)
Cass. n. 39379/2016 (Penale)Procedimento penale per infedele dichiarazione – calcolo imposta evasa su vendite online non dichiarateIn ambito penale tributario, contestando vendite non dichiarate, occorre considerare anche i costi d’acquisto dei beni venduti e non dichiarati, perché altrimenti si sovrastima l’imposta evasa. La quantificazione dell’imposta evasa spetta al giudice penale, che deve valutare il netto effettivo. (Questo principio ha rilevanza indiretta nel processo tributario: implica che anche in sede fiscale sarebbe giusto tener conto dei costi se provati, evitando tassazione di ricavi lordi irreali)
CTR Molise n. 280/2020 (Appello)Vendite online di orologi tramite account intestato a moglie – negata abitualità per mancanza di professionalitàHa statuito che l’assenza di particolari competenze informatiche o di professionalità non esclude l’esercizio di attività d’impresa se i fatti mostrano continuità e metodo. Nel caso, contribuente (moglie) sosteneva di non saper nulla e che operava il marito, ma la CTR ha ritenuto irrilevante tale affermazione non provata: l’account e le fatture erano a nome suo, quindi è lei la soggetta d’imposta. (Confermata imputazione dei redditi a lei, attività considerata imprenditoriale non occasionale). Importante anche l’osservazione finale: se abituale, reddito d’impresa; se prestazione occasionale (nei limiti art. 61 D.lgs 276/03), reddito diverso – quindi ribadito confine tra occasionalità e abitualità.
Cass. n. 26107/2018 (Sez. Trib.) – cit. in FiscoOggi(Massima nota su vendite online)Viene confermato che vendite online svolte in modo sistematico sono attività d’impresa rilevante ai fini imposte dirette e IVA; l’ufficio può ricostruire reddito/volume d’affari anche con presunzioni logiche, invertendo l’onere della prova. (Questa decisione prosegue il filone iniziato col caso eBay 2011 di CTP Firenze citato in FiscoOggi: nozione tributaria di esercizio d’impresa non coincide con civilistica, per il fisco basta abitualità anche non esclusiva).

(Fonti: Corti di Cassazione e Commissioni Tributarie come da riferimenti in guida; FiscoOggi per massime 2018 e CTP FI 2011.)

Osservando queste sentenze, si ricava che i punti fermi giurisprudenziali sono:

  • La soglia tra occasionale e abituale è facilmente sorpassata non appena c’è un minimo di continuità: i giudici tendono a considerare impresa la vendita online ripetuta su più anni o con importi rilevanti, allineandosi alla posizione dell’Agenzia.
  • Il contribuente in sede di contenzioso deve presentare prove concrete (documenti) per vincere: spesso i ricorsi falliscono perché non si forniscono elementi a supporto e il giudice si limita a constatare che l’Ufficio ha presunto legittimamente e il contribuente non ha confutato (vedi Cass. 2020 e 2019 sul punto onere della prova).
  • C’è una costante attenzione a non tassare più del dovuto: se emergono costi, vanno considerati (specialmente in penale, ma anche in tributario sarebbe equo). Chi vende online e non ha tenuto contabilità può almeno cercare ex post di recuperare ricevute di acquisto merce, estratti conto, per dimostrare margini ridotti.
  • Scuse come “non ero io, era un familiare” o “non sono capace, l’ho fatto inconsapevolmente” vengono rigettate se non supportate: la forma segue la sostanza economica, non si sfugge alla titolarità se si era formalmente intestatari delle attività. La buona fede soggettiva può semmai servire a chiedere clemenza sulle sanzioni (talvolta in giudizio si invoca l’esimente di obiettiva incertezza, ma con scarse chance nel e-commerce, le regole sono chiare).
  • Importante, inoltre, notare l’effetto delle normative UE: con DAC7 e CESOP attive, è probabile che nei prossimi anni vedremo contenziosi nuovi legati alla mole di dati trasmessi. Ad esempio, potremmo avere cause su soglie (es. uno dice “ho venduto solo roba usata, non dovevano tassarmi nonostante la piattaforma mi abbia segnalato” – qui Cass. 2023 già indica come trattare). Ma il trend generale è facilitare l’accertamento e ridurre i margini di discussione.

Conclusioni: consigli dal punto di vista del contribuente (debitore)

Abbiamo attraversato l’intero panorama dell’accertamento fiscale per e-commerce e dropshipping: dalla normativa agli strumenti di controllo, dalle procedure difensive alle sentenze chiave. Dal punto di vista di chi si trova – o potrebbe trovarsi – nella posizione di debitore verso il Fisco, possiamo trarre alcune linee guida finali:

  • Prevenire è meglio che curare: se stai avviando (o già svolgendo) un’attività online, informati subito sui tuoi obblighi. Apri la P.IVA se necessario, aderisci a un regime fiscale appropriato (es. forfettario), tieni traccia di entrate e uscite. Costa un po’ in termini di tasse e adempimenti, ma ti mette al riparo da guai futuri che potrebbero costare molto di più. L’Agenzia Entrate ha pubblicato guide semplificate per chi inizia un’attività, consultale e/o rivolgiti a un commercialista.
  • Se hai commesso omissioni, non aspettare il controllo: valuta il ravvedimento operoso. Più tempo passa, più gli importi aumentano (perché le sanzioni ridotte diventano meno ridotte). Ad esempio, ravvedere entro 1 anno costa 1/8 della sanzione, dopo 2 anni 1/5. Se già sai di essere nel mirino (es. ti è arrivata una comunicazione di controlli incrociati), agisci subito. Ravvedersi può anche mostrarti collaborativo qualora ci fosse poi un contenzioso residuale.
  • Documenta tutto il possibile: uno dei problemi di chi vende “in nero” è che non conserva documenti. Se sei in questa situazione e non sei ancora stato controllato, inizia a ricostruire la tua attività: scarica estratti conto completi, storici di vendite dalle piattaforme, ricevute d’acquisto dei prodotti venduti, spese di spedizione, commissioni. Fanne un archivio. Questo non ti esonera dalle sanzioni, ma se domani arriva un accertamento potresti usare quei documenti per ridurre il reddito accertabile (provando costi) o eliminare dall’imponibile vendite di beni propri personali. Senza documenti, sei disarmato e subisci integralmente le presunzioni del Fisco.
  • Non sottovalutare le comunicazioni del Fisco: come ripetuto, se ti scrivono o invitano, non ignorare credendo che “tanto non succede nulla”. È segno che hanno dati concreti. Il passo successivo sarà un avviso e poi la cartella. Meglio affrontare la cosa subito, magari facendo correggere eventuali errori all’ufficio in questa fase preliminare.
  • Pianifica la cassa per una difesa o per un accordo: se prevedi di dover pagare delle somme, inizia a pensare a come reperirle. L’Agenzia è abbastanza flessibile su rateazioni (8 rate in 2 anni per importi ordinari, fino a 20 rate in 5 anni per importi grandi con garanzia, e oltre via ADR in casi eccezionali). Ma devi comunque pagare le prime rate. Evita di sperperare i guadagni illeciti, tieni un fondo sapendo che potresti doverne restituire una quota significativa all’Erario.
  • Affidati a professionisti competenti: il campo tributario è complesso. Un bravo commercialista può aiutarti a regolarizzare la posizione e a gestire un eventuale contraddittorio con l’Agenzia (magari convincendoli a ridurre sanzioni in adesione). Un avvocato tributarista è indispensabile se devi fare ricorso in Commissione: saprà impostare le eccezioni giuste (ad esempio far valere vizi procedurali, che un profano magari neanche nota). Evita il fai-da-te in contenziosi importanti: spesso l’emotività porta a mosse sbagliate (ricorsi infondati, mancati pagamenti di importi non sospesi, ecc.) che complicano la situazione.
  • Occhio alle novità normative: il 2025 e oltre porteranno ulteriori evoluzioni. Ad esempio, dall’estate 2024 alcune sanzioni sono rimodulate e potrebbe entrare in vigore un nuovo Statuto del Contribuente 2.0 con più garanzie nel contraddittorio. L’UE potrebbe varare DAC8 (su cripto-assets) che se vendi NFT o accetti criptovalute rileverà i tuoi guadagni. Insomma, rimani aggiornato leggendo fonti ufficiali (es. FiscoOggi, la rivista online dell’Agenzia, o siti di diritto tributario). Questa guida è aggiornata a luglio 2025, ma in futuro potrebbero cambiare soglie, regimi semplificati, ecc. Sapere prima ti aiuta a muoverti di conseguenza.

In conclusione, gestire la fiscalità nel campo dell’e-commerce e del dropshipping è diventato parte integrante del gestire l’attività stessa. Dal punto di vista del debitore (o potenziale tale), la trasparenza e la conformità fiscale pagano: meglio dichiarare e pagare qualcosa oggi, che subire un accertamento devastante domani. Se ti trovi già nella “rete” del Fisco, non disperare: conosci i tuoi diritti, esercitali (contraddittorio, difesa in giudizio) e ricorri agli strumenti deflattivi che l’ordinamento offre. Come dice un adagio tra tributaristi, “nel dubbio, dichiara” – è più facile dormire la notte da contribuenti onesti, e concentrarsi sul far crescere il proprio business senza lo spettro di cartelle esattoriali future.

Fonti e Riferimenti Normativi

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Testo Unico delle Imposte sui Redditi (artt. 55, 67 sulle categorie di reddito d’impresa e redditi diversi).
  • D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – IVA (art. 2, 5 definizione di cessioni imponibili e soggetto passivo; art. 22 e 24 vendite per corrispondenza esonero da certificazione).
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 – Sanzioni tributarie (art. 1 infedele dichiarazione, art. 5 omessa dichiarazione imposte dirette, art. 6 mancata emissione documenti, art. 8 omessa dichiarazione IVA).
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – Principi generali sanzioni (art. 13 ravvedimento operoso).
  • D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 – Riforma sanzioni (ha modificato le percentuali di talune sanzioni dal 2016).
  • D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 – (Delega fiscale 2023, attuazione parziale) – in vigore dal 2024, ha abbassato sanzioni infedele al 70% e fissato omessa IVA 120%.
  • D.L. 30 aprile 2019, n. 34, art. 13 (conv. L. 58/2019) – Obblighi piattaforme digitali per vendite di beni (antecedente a DAC7).
  • D.Lgs. 1 marzo 2023, n. 32 – Attuazione Direttiva UE 2021/514 (DAC7) – Obbligo comunicazione venditori da parte piattaforme.
  • Direttiva (UE) 2020/284 e Regolamento (UE) 2020/283 – Obblighi per PSP e sistema CESOP (25 transazioni transfrontaliere).
  • Provvedimento AE 293390/2021 – Istituzione OSS/IOSS in Italia (recepisce direttive UE 2017/2455 e 2019/1995 sul commercio elettronico).

Prassi e Documenti di prassi:

  • Circolare GdF n.1/2018 – Manuale operativo contrasto evasione ecommerce (rilevante per indicazioni interne GdF – non disponibile in dettaglio qui).
  • Linee guida Agenzia Entrate – “Certificazione corrispettivi e-commerce indiretto” (es. Risoluzione AE 274/E/2009: vendite online assimilate a vendite per corrispondenza, no scontrino).
  • FAQ Agenzia Entrate su CESOP (24/01/2024) – chiarimenti su soglie PSP e beneficiari unici.
  • Relazione illustrativa D.Lgs. 32/2023 (DAC7) – spiega finalità raccolta dati venditori online.

Giurisprudenza:

  • Cassazione Civile – Sez. Tributaria: sentenza 17/04/2023 n. 10117; sentenza 08/03/2023 n. 6874; ordinanza 22/10/2019 n. 26987; ordinanza 23/11/2020 n. 26554; sentenza 21/03/2025 n. 7552.
  • Cassazione Penale: sentenza 23/09/2016 n. 39379 (competenza giudice penale su quantificazione imposta evasa).
  • Commissioni Tributarie: CTP Firenze sent. 56/06/2011 e 03/19/2012 (nozione d’impresa tributaria più ampia di civilistica); CTR Molise sent. 280/2020.
  • CTR Lazio sent. 7194/2015: (presunzioni e spostamento onere in vendite abituali online).
  • Cass. 26107/2018

Hai un e-commerce o fai dropshipping e ti è arrivato un accertamento? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Gestisci un’attività online, magari in dropshipping o tramite marketplace come Amazon, e hai ricevuto una comunicazione dall’Agenzia delle Entrate?
Molti venditori digitali vengono controllati per omessa dichiarazione, IVA non versata o incongruenze nei volumi di affari.
L’importante è non ignorare l’accertamento e difendersi con metodo.


Perché l’Agenzia delle Entrate controlla gli e-commerce?

Le attività online sono soggette a controlli specifici per:

  • 📦 Fatturati elevati non dichiarati
  • 🌍 Vendite in ambito UE o extra-UE con problemi di territorialità IVA
  • 🧾 Ricezione di bonifici o pagamenti elettronici non giustificati
  • 💸 Spese personali sproporzionate rispetto ai redditi dichiarati
  • ⚠️ Mancata apertura della partita IVA nonostante vendite sistematiche

Anche le attività svolte tramite Shopify, Etsy, eBay o pagine social possono essere oggetto di accertamento sintetico o induttivo.


Quali sono i rischi?

  • 🧾 Ricezione di un avviso di accertamento con recupero imposte, sanzioni e interessi
  • ⚖️ Contestazioni di evasione fiscale o esterovestizione se operi dall’estero
  • 🚫 Chiusura d’ufficio della partita IVA
  • 🧑‍⚖️ Procedimenti penali per dichiarazione infedele o omessa
  • 💼 Pignoramenti o iscrizione a ruolo delle somme accertate

Come difendersi da un accertamento fiscale su e-commerce?

  1. 📂 Verifica subito la legittimità dell’accertamento e i dati contestati
  2. ✍️ Richiedi, se necessario, l’accesso agli atti e verifica le fonti (pagamenti, corrieri, piattaforme)
  3. ⚖️ Presenta un ricorso o accertamento con adesione nei termini previsti
  4. 🔍 Dimostra, con documenti reali, l’effettiva entità e la regolarità dell’attività
  5. 🛡️ Valuta una difesa tecnica mirata con il supporto di un avvocato tributarista

E se non avevi la partita IVA?

Molti piccoli venditori online sottovalutano le soglie di legge. Ma l’attività svolta in modo:

  • Continuativo
  • Organizzato
  • Con scopo di lucro

… è considerata attività d’impresa e richiede l’apertura della partita IVA. In questi casi, è possibile regolarizzare la posizione, ma serve una strategia difensiva tempestiva.


🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📑 Analizza il tipo di accertamento ricevuto (sintetico, induttivo, da redditometro, ecc.)
📂 Valuta le fonti dei dati contestati: flussi di pagamento, corrieri, piattaforme online
✍️ Predispone memorie difensive, adesioni o ricorsi tributari nei termini
⚖️ Ti rappresenta nel contenzioso con l’Agenzia delle Entrate
🔁 Ti assiste anche nella regolarizzazione fiscale e nella corretta impostazione dell’attività e-commerce


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in fiscalità digitale ed e-commerce
✔️ Consulente per accertamenti per attività online non dichiarate
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per venditori online, digital marketers e imprenditori del dropshipping
✔️ Consulente per contestazioni su vendite estere e IVA OSS


Conclusione

Anche nel commercio digitale valgono le regole fiscali. Ma accertamento non significa condanna: hai il diritto di difenderti e spiegare.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi affrontare il controllo fiscale con metodo, far valere le tue ragioni e, se necessario, regolarizzare tutto senza compromettere il tuo business.

📞 Richiedi subito una consulenza riservata se hai ricevuto un accertamento su e-commerce o dropshipping: agire in tempo fa la differenza.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
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