Residenza Fiscale Delle Società E Presunzione Di Esterovestizione: La Guida

Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate che contesta la residenza fiscale della tua società estera? Ti accusano di esterovestizione, anche se la società ha sede all’estero? Ti stai chiedendo quando una società è considerata fiscalmente residente in Italia e cosa puoi fare per difenderti?

La presunzione di esterovestizione è uno degli strumenti più potenti che il Fisco utilizza per colpire le società estere controllate da soggetti italiani, soprattutto se formalmente costituite all’estero ma gestite di fatto dall’Italia. Ma non sempre la contestazione è fondata: tutto dipende da cosa si riesce a dimostrare in concreto.

Quando una società è considerata fiscalmente residente in Italia?
– Quando ha sede legale in Italia
– Quando ha sede dell’amministrazione in Italia (cioè da dove vengono prese le decisioni)
– Quando ha l’oggetto principale dell’attività in Italia
Basta che anche solo uno di questi tre criteri si verifichi, per far scattare la residenza fiscale italiana.

Cos’è la presunzione di esterovestizione?
– Se una società è formalmente estera, ma è controllata da soggetti italiani, il Fisco può presumere che sia fittiziamente residente all’estero
– Questa presunzione è legale e colpisce le società con sede in Stati a fiscalità privilegiata (black list), ma può estendersi anche ad altri casi
– Sta a te dimostrare il contrario: che la società è autonoma, ha sede reale, gestione estera, personale e mezzi propri

Quali sono gli elementi che il Fisco analizza per contestare l’esterovestizione?
– Il luogo effettivo di gestione (chi prende le decisioni operative e dove)
– La documentazione societaria: verbali, firme, contratti, contabilità
– La presenza di sede reale all’estero (ufficio, dipendenti, attività)
– I rapporti con l’Italia: clienti, fornitori, conti correnti, domiciliazione
– L’effettività dell’attività svolta, non solo la forma giuridica

Cosa può contestarti l’Agenzia delle Entrate?
– Il trasferimento fittizio della sede
– L’occultamento di utili, redditi e ricavi in Italia
– La violazione del principio di trasparenza fiscale
– L’omessa dichiarazione dei redditi societari in Italia
– L’intento elusivo o fraudolento della struttura societaria

Come puoi difenderti da un’accusa di esterovestizione?
– Dimostrando che la gestione reale della società avviene all’estero, con prove concrete
– Esibendo documenti societari regolari, verbali firmati all’estero, contabilità locale
– Provando che l’amministratore risiede all’estero e prende decisioni fuori dall’Italia
– Dimostrando l’operatività estera: clienti, dipendenti, sede, spese, contratti
– Contestando ogni presunzione infondata con una difesa fiscale tecnica

Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare l’avviso di accertamento: diventa definitivo in 60 giorni
– Limitarti a dire “la società è all’estero per davvero”: servono prove documentali dettagliate
– Pensare che basti avere una sede legale estera per essere al sicuro: conta chi decide, dove e come
– Affrontare il Fisco senza supporto professionale: l’esterovestizione può costarti centinaia di migliaia di euro in imposte e sanzioni

La contestazione di residenza fiscale e la presunzione di esterovestizione sono tra gli strumenti più aggressivi del Fisco, ma anche tra i più impugnabili. La difesa si gioca tutta sui fatti, sulla documentazione e sulla strategia legale.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso su società estere – ti spiega quando una società è considerata residente in Italia, cosa comporta la presunzione di esterovestizione e come difenderti con precisione.

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Introduzione

L’esterovestizione indica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, allo scopo di sottrarla al Fisco italiano. In altri termini, un’entità formalmente costituita in un paese estero viene di fatto gestita dall’Italia, beneficiando indebitamente di un regime fiscale estero più vantaggioso. Si tratta di un fenomeno elusivo che l’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza contrastano in base al principio della “substance over form” (prevalenza della sostanza sulla forma), imputando alla società lo status di residente fiscale in Italia quando, al di là della sede legale estera, l’effettiva direzione e l’attività sono svolte nel territorio italiano. Questo comporta l’assoggettamento a tassazione in Italia di tutti i redditi prodotti dalla società, ovunque generati.

Questa guida avanzata esamina in dettaglio il quadro normativo italiano vigente (con particolare attenzione all’art. 73 del TUIR e alle recenti modifiche introdotte dal D.Lgs. 209/2023), la prassi amministrativa e la giurisprudenza più recente (Corte di Cassazione, corti tributarie, con cenni alla Corte di Giustizia UE). Troverete anche tabelle riepilogative dei criteri di collegamento e degli indizi di esterovestizione, simulazioni pratiche di casi tipici in vari settori, una sezione FAQ con domande frequenti di imprenditori e professionisti, e infine linee guida pratiche (check-list) per prevenire e difendersi da contestazioni di esterovestizione. Il focus è sul punto di vista del contribuente (debitore d’imposta) che si trovi a gestire queste problematiche, con linguaggio giuridico ma divulgativo.

Quadro normativo sulla residenza fiscale delle società

Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)

La disciplina italiana individua tre criteri alternativi di collegamento per stabilire se una società o ente è fiscalmente residente in Italia. Tali criteri sono fissati dall’art. 73, comma 3 del TUIR (D.P.R. 917/1986) e, a partire dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 209/2023 (Decreto “Fiscalità Internazionale”), risultano così definiti:

  • Sede legale in Italia: la sede legale o statutaria della società (come risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto) si trova nel territorio dello Stato. Questo è un criterio formale.
  • Sede di direzione effettiva in Italia: luogo in cui avviene la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società nel suo complesso. In pratica corrisponde alla sede dell’amministrazione (o “place of effective management”) e coincide con il centro effettivo di direzione e gestione dell’impresa. Importante: ai fini della “direzione effettiva” non rilevano le decisioni dei soci che non abbiano carattere gestorio – ad es. mere attività di supervisione o coordinamento dei soci non costituiscono sede di direzione effettiva.
  • Sede di gestione ordinaria in via principale in Italia: luogo in cui si svolge in modo continuo e coordinato il compimento degli atti di gestione corrente relativi all’attività della società nel suo complesso. In sostanza, coincide con il luogo in cui si esplica il funzionamento normale e quotidiano dell’impresa (amministrazione ordinaria, operatività aziendale). È una nozione introdotta dal 2024 per valutare l’effettivo radicamento territoriale dell’attività societaria.

Questi tre criteri – sede legale, sede di direzione effettiva, sede di gestione principale – hanno pari dignità e operano in alternativa: è sufficiente che uno solo di essi ricorra, per la maggior parte del periodo d’imposta (oltre 183 giorni nell’anno), perché la società sia considerata residente fiscale in Italia e quindi tassata in Italia sui redditi ovunque prodotti.

Nota: Queste definizioni introducono nel TUIR concetti allineati alla prassi internazionale. In particolare, la nozione di “sede di direzione effettiva” riprende il criterio utilizzato nei trattati contro le doppie imposizioni (Modello OCSE, art. 4(3)) per risolvere i casi di “doppia residenza” delle persone giuridiche. Infatti, se una società risultasse residente in due Stati in base alle rispettive leggi interne, le Convenzioni prevedono che le autorità competenti risolvano il conflitto di doppia residenza determinando un’unica residenza fiscale, di regola basata proprio sul luogo di direzione effettiva (o mediante accordo amichevole considerando anche altri fattori). A tal proposito, va segnalato che gli sviluppi più recenti (Modello OCSE 2017 e Multilateral Instrument) tendono a preferire il mutual agreement tra Stati per decidere la residenza in casi di doppia imposizione, anziché un tie-breaker automatico basato solo sulla sede di direzione.

In sintesi, una società di capitali con sede legale all’estero ma direzione effettiva oppure attività principale in Italia sarà comunque considerata residente fiscalmente in Italia. Ciò può generare casi di doppia residenza internazionale; in tal caso, l’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni (ove esistenti) risolverà quale Stato ha il potere impositivo prevalente, in genere attraverso il criterio del “place of effective management” o accordi tra autorità competenti.

Presunzione legale di residenza in Italia (anti-esterovestizione, art. 73 co. 5-bis TUIR)

Oltre ai criteri generali sopra esposti, il legislatore ha introdotto una presunzione legale relativa di residenza in Italia mirata a contrastare specifiche operazioni elusive di esterovestizione. Tale norma, originariamente inserita dal D.L. 223/2006 e poi modificata dalla L. 208/2015 (Legge di Stabilità 2016), è attualmente contenuta nell’art. 73, comma 5-bis del TUIR. La formulazione vigente (aggiornata dal D.Lgs. 209/2023) recita:

«Salvo prova contraria, si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato le società ed enti che detengono partecipazioni di controllo (ai sensi dell’art. 2359, co.1 c.c.) in soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 [ossia società ed enti già residenti in Italia], se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione (o analogo organo) composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato».

In parole più semplici, la presunzione di esterovestizione scatta quando una società estera presenta congiuntamente questi elementi:

  • Funzione di holding italiana: la società estera possiede una partecipazione di controllo in una o più società/enti residenti in Italia (cioè funge da holding capogruppo di soggetti italiani).
  • Collegamento personale con l’Italia: ricorre almeno una delle seguenti condizioni: (a) la società estera è a sua volta controllata, direttamente o indirettamente, da soggetto(i) residente(i) in Italia; (b) l’organo amministrativo della società estera è composto in maggioranza da soggetti residenti in Italia.

Se tali presupposti sono soddisfatti, la legge presume (fino a prova contraria) che la società estera abbia in Italia la propria sede di amministrazione effettiva, e quindi che sia residente fiscale in Italia. Si tratta di una presunzione legale relativa, che comporta un’inversione dell’onere della prova: in prima battuta, l’Amministrazione finanziaria può dedurre la residenza italiana basandosi su questi elementi formali (struttura del controllo societario e composizione del CdA), e sarà poi il contribuente a dover fornire evidenze per confutare tale qualificazione e dimostrare la reale operatività all’estero.

Ambito oggettivo: questa norma è mirata soprattutto alle società esterovestite “di mero assetto”, create da soggetti italiani per interporre un guscio societario estero a capo di società italiane, allo scopo di delocalizzare fittiziamente i profitti senza spostare alcuna sostanza economica. Nella Relazione governativa introduttiva (2006) e nella prassi dell’Agenzia (Circolare AdE 28/E/2006) si sottolineava la difficoltà, caso per caso, di accertare la sede effettiva o l’oggetto principale soprattutto in presenza di holding, società estere che gestiscono beni immateriali (royalties), o entità costituite all’estero per gestire asset di gruppi italiani. La presunzione è stata introdotta proprio per “facilitare il compito del verificatore” in tali casi, fornendo indici legali che attivano un controllo più immediato. In pratica, si vuole porre un freno alle esterovestizioni intese come localizzazioni fittizie della residenza societaria all’estero con il prevalente scopo di eludere le imposte italiane, valorizzando invece gli aspetti concreti e sostanziali dell’operatività societaria. Ciò è perfettamente coerente col principio internazionale del substance over form e con la nozione di “costruzioni artificiali” priva di sostanza economica.

È importante evidenziare che la presunzione di cui al comma 5-bis non esaurisce tutte le ipotesi di esterovestizione contestabili. Al di fuori dei casi che rientrano in questa norma (ad esempio, società estere senza partecipazioni in Italia ma comunque gestite dall’Italia, oppure società controllate italiane ma in cui non vi è formale holding estera), l’Amministrazione finanziaria può comunque contestare la residenza di entità estere come fiscalmente residenti in Italia, ma in tali situazioni dovrà farsi carico integralmente dell’onere probatorio, dimostrando con una pluralità di elementi fattuali che la sede effettiva di direzione è in Italia. In altre parole, fuori dal perimetro del comma 5-bis l’Agenzia deve procedere con un “accertamento pieno” della sede di amministrazione effettiva, basato su indizi gravi, precisi e concordanti, senza il beneficio della presunzione legale.

Evoluzione normativa: la formulazione originaria del 2006 della presunzione (art. 73 co. 5-bis, D.L. 223/2006) era più ampia: prevedeva come condizioni alternative il controllo italiano o la maggioranza di amministratori italiani, senza richiedere espressamente che la società estera detenesse partecipazioni in società italiane. In teoria, dunque, in base al testo del 2006 qualunque società estera controllata da italiani (anche operante all’estero) poteva ricadere nella presunzione. La Legge 208/2015 ha ristretto il campo, introducendo il requisito oggi vigente della detenzione di partecipazioni di controllo in soggetti italiani (rendendo la norma mirata alle sole holding esterovestite). Contestualmente, tra 2015 e 2016, sono state eliminate molte “black list” di paradisi fiscali un tempo rilevanti (in materia CFC, indeducibilità costi, ecc.), orientando il contrasto all’elusione non più sul mero fatto di risiedere in uno Stato a fiscalità privilegiata, ma sulla sostanza delle operazioni.

Nota sulla natura dell’esterovestizione: La contestazione di esterovestizione non richiede la prova di un intento elusivo specifico ulteriore rispetto alla violazione delle norme sulla residenza. La Corte di Cassazione ha chiarito che l’art. 73 TUIR individua criteri oggettivi di collegamento che determinano la residenza fiscale in Italia a prescindere dalla finalità elusiva del contribuente. In altri termini, accertata la sede effettiva in Italia, non è necessario dimostrare anche un indebito vantaggio fiscale perseguito (elemento tipico invece dell’“abuso del diritto” ex art. 10-bis Statuto del contribuente). La Cassazione (ord. n. 23225/2022) ha affermato espressamente il principio di diritto secondo cui la residenza viene attribuita in base ai criteri dell’art. 73, “a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva” volta ad ottenere benefici fiscali. Pertanto l’esterovestizione è considerata come una forma di elusione specificamente disciplinata (mediante la presunzione di legge) e non rientra nell’alveo generale dell’abuso del diritto. Ciò ha implicazioni pratiche importanti: ad esempio, non è applicabile l’iter dell’interpello anti-abuso ex art. 11, co. 2, L. 212/2000 per avere conferma preventiva sulla residenza, perché formalmente l’esterovestizione è esclusa dal campo di applicazione dell’art. 10-bis (trattandosi di fattispecie già presidiata da una norma anti-elusiva specifica). Analogamente, in sede di accertamento, non è strettamente necessario per l’Ufficio provare un “vantaggio fiscale indebito” ulteriore: la contestazione verte sulla falsa rappresentazione della residenza, non su uno schema di abuso di per sé (la legge presume già che si tratti di uno “stabilimento artificioso” all’estero).

Ulteriori presunzioni (art. 73 co. 5-quater TUIR): Va menzionata, per completezza, un’altra norma anti-elusiva correlata alla residenza societaria. L’art. 73, co. 5-quater TUIR prevede che, salvo prova contraria, “si considerano residenti nel territorio dello Stato le società o enti il cui patrimonio sia investito in misura prevalente in quote o azioni di organismi di investimento collettivo del risparmio immobiliari, ed [essi] siano controllati, direttamente o indirettamente, da soggetti residenti in Italia”. Questa disposizione mira a contrastare schemi in cui un soggetto residente costituisce all’estero un veicolo societario che investe principalmente in fondi immobiliari italiani, così da schermare la titolarità e godere di esenzioni fiscali: in tal caso il veicolo estero, se di fatto controllato da italiani, è presunto residente in Italia. Si tratta di un’ipotesi più di nicchia (riguarda i cosiddetti fondi immobiliari), ma conferma l’approccio del legislatore: dove individua situazioni tipiche di interposizione fittizia, introduce presunzioni legali che facilitano il compito probatorio del Fisco. Anche questa è una presunzione relativa (onere della prova a carico del contribuente per dimostrare il contrario) e convive con la generale potestà di accertamento della residenza effettiva.

Accertamento dell’esterovestizione: onere della prova e prassi ispettiva

Indizi e prova della residenza effettiva

La verifica della residenza effettiva di una società estera richiede un’analisi fattuale approfondita. L’Amministrazione finanziaria, spesso in collaborazione con la Guardia di Finanza, raccoglie una serie di indizi per dimostrare che, al di là delle apparenze formali, il centro direzionale e operativo della società si trova in Italia. Tra gli elementi probatori più comuni ci sono:

  • Luogo di gestione aziendale: dov’è situata la sede di fatto? Si esamina dove vengono prese le decisioni aziendali (riunioni del consiglio, direttive strategiche), ad esempio analizzando la posizione dei dirigenti e amministratori. Se risiedono e operano in Italia, è un segnale forte.
  • Domicilio degli amministratori e soci di controllo: Se il management (amministratore unico, membri del CdA) è composto in maggioranza da persone residenti in Italia, e ancor più se i proprietari/soci sono italiani, l’ipotesi di esterovestizione diventa concreta. Questo elemento da solo, come visto, può attivare la presunzione legale (nel caso di holding) o comunque costituire un indizio primario.
  • Luogo di svolgimento dell’attività operativa: Si verifica dove si svolge l’attività economica principale della società – es. dove sono gli stabilimenti produttivi, dove si erogano i servizi, dove si trovano i clienti o i mercati di riferimento. Se l’“oggetto principale” dell’attività si esercita in Italia (produzione, commercio, servizi resi sul territorio), questo non solo configura uno dei criteri di residenza (ex art. 73 co.3), ma è un indicatore sostanziale di radicamento.
  • Struttura organizzativa all’estero: Si valuta se la società estera ha una struttura reale nel paese dichiarato: uffici attrezzati, personale dipendente locale, conti bancari operativi in loco, contratti con fornitori locali, iscrizioni a registri, ecc.. Al contrario, la presenza di un semplice domicilio presso studi professionali o uffici virtuali all’estero, senza dipendenti né attività tangibili, è fortemente sospetta.
  • Flussi finanziari e operazioni bancarie: L’Agenzia traccia i flussi di denaro: ad esempio, bonifici ricorrenti dai conti esteri della società verso conti personali o aziendali in Italia, utilizzo di carte di credito aziendali estere in Italia, distribuzione sistematica di utili all’Italia. Questi elementi rivelano che i benefici economici tornano ai residenti italiani.
  • Documentazione contrattuale e corrispondenza: Spesso vengono acquisite email aziendali, contratti, fatture, report interni. Se tali documenti mostrano che sono stati redatti o inviati dall’Italia (ad es. metadati di file creati su PC in Italia, orari/indirizzi IP italiani nelle email), oppure che i contratti con clienti/fornitori sono negoziati in Italia, ciò indica che la gestione operativa avviene qui. Allo stesso modo, riunioni svolte in Italia con controparti, o testimonianze di clienti che confermano di aver sempre interagito con il personale in Italia, sono indizi preziosi.
  • Utilizzo di infrastrutture italiane: ad esempio, se la società estera utilizza uffici, magazzini o beni situati in Italia (magari di proprietà di altre società dello stesso gruppo), o se i dipendenti formalmente esteri lavorano in realtà in Italia, si può configurare anche una stabile organizzazione occulta oltre all’esterovestizione. Bollette elettriche, consumi energetici, movimenti doganali, possono essere confrontati: se restano in Italia invariati nonostante il “trasferimento” dichiarato, ciò smaschera la simulazione.

Tutti questi elementi vanno poi valutati congiuntamente. La Cassazione ha più volte ribadito che la prova dell’esterovestizione può essere data tramite presunzioni, purché gli indizi di fittizia localizzazione, considerati nel loro insieme, siano gravi, precisi e concordanti. È necessario un esame globale e non atomistico degli elementi raccolti: ogni indizio, preso singolarmente, potrebbe avere spiegazioni neutre, ma se tutti puntano nella stessa direzione (assenza di struttura estera, decisioni in Italia, etc.), si rafforzano reciprocamente fino a rivelare il disegno elusivo.

In un caso recente, la Cassazione (sent. n. 2458/2025) ha censurato la sentenza di merito che, nel valutare un’asserita esterovestizione, si era focalizzata unicamente su un elemento formale (un certificato di residenza estera) trascurando invece una molteplicità di indizi contrari raccolti dall’ufficio. La Suprema Corte ha ribadito che una semplice attestazione formale di residenza all’estero non può prevalere sugli elementi sostanziali che indicano l’effettiva amministrazione in Italia. Pertanto, il giudice tributario deve considerare tutti i fatti e gli indizi portati dall’Amministrazione (es. composizione del CdA, luogo di esercizio dell’attività, flussi finanziari, etc.) e motivare adeguatamente se intende disattenderli.

Ruolo del contribuente: prova contraria e diritto di difesa

Quando non opera una presunzione legale (cioè al di fuori dei casi di cui all’art. 73 co.5-bis e 5-quater), l’onere della prova dell’esterovestizione ricade interamente sull’Amministrazione finanziaria. Il Fisco deve dimostrare, come visto, che la società è di fatto gestita dall’Italia. Viceversa, nei casi in cui scatta la presunzione (ad esempio una holding estera di italiani), l’onere della prova si inverte: è il contribuente che deve fornire la prova contraria per vincere la presunzione.

Cosa significa prova contraria in concreto? La società estera e i suoi soci/amministratori italiani dovranno documentare in maniera convincente che la società ha una reale sostanza economica e gestionale all’estero. Ad esempio: contratti di affitto di uffici all’estero con relative bollette e fotografie dei locali; contratti di lavoro che attestino personale impiegato stabilmente lì; documenti societari (verbali di assemblea e CdA) che provino riunioni tenute fisicamente all’estero; attestazioni che clienti o fornitori interagiscono con la sede estera. Ogni elemento che mostri un’organizzazione autentica fuori dall’Italia aiuterà a ribaltare la presunzione. Al contrario, mere certificazioni formali (es. il certificato di residenza fiscale estero, o l’iscrizione al registro locale) non sono sufficienti da sole se non supportate da evidenze sostanziali.

Nell’ambito del procedimento di accertamento, il contribuente ha diritto a interloquire e difendersi. In base allo Statuto dei diritti del contribuente, quando l’Ufficio intende procedere ad accertamento basato su presunzioni, deve attivare un contraddittorio endoprocedimentale (invio di questionari, richiesta di documenti, invito a comparire) per consentire al contribuente di fornire spiegazioni. Questo è particolarmente importante in materia di esterovestizione internazionale, in cui può anche rilevare il diritto UE al contraddittorio preventivo in ipotesi di possibile abuso della libertà di stabilimento. Ad esempio, la giurisprudenza ha affermato che, per contestare un abuso di diritto comunitario, l’assenza di contraddittorio può invalidare l’atto. Pertanto, se la società è situata in un altro paese UE, è buona prassi che l’Agenzia convochi i rappresentanti per permettere loro di illustrare le ragioni economiche della struttura estera. Il contribuente dovrebbe sfruttare questa fase: presentare memoria scritta, produrre documenti, e soprattutto spiegare il “business rationale” dell’operazione transnazionale (ad esempio: “abbiamo costituito la società in Lussemburgo per cercare investitori internazionali, non per ragioni fiscali” etc.). Mostrare trasparenza e collaborazione in sede pre-contenziosa può talvolta indurre l’ufficio a conclusioni meno gravose o a riconsiderare la posizione qualora emergano elementi genuini di sostanza estera.

In caso di esito sfavorevole, il contribuente potrà impugnare l’avviso di accertamento davanti alla giustizia tributaria (entro 60 giorni dalla notifica, salvo prolunghe per il tentativo di adesione). Dal 2023 le Commissioni Tributarie sono state ridenominate Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, ma la sostanza non cambia: in primo grado il contribuente potrà far valere sia vizi formali (es. nullità dell’atto per difetto di motivazione, omissione del contraddittorio dovuto, ecc.), sia contestare nel merito la ricostruzione del Fisco, allegando perizie e testimoni a proprio favore. È fondamentale impostare un ricorso tecnico e documentato, magari corredato da perizie giurate di esperti internazionali che attestino, ad esempio, dove risiedeva la direzione effettiva. Durante il processo, è sempre possibile tentare la conciliazione giudiziale con l’ufficio, soprattutto se emergono margini per transigere (pagamento delle imposte con sanzioni ridotte al 50%, se l’Agenzia accetta).

Orientamenti della giurisprudenza recente

La giurisprudenza tributaria italiana negli ultimi anni ha consolidato vari principi in tema di esterovestizione:

  • Esterovestizione vs. abuso del diritto: Come già evidenziato, la Cassazione (nn. 11709/2022, 11710/2022, 23225/2022) ha statuito che per qualificare una società come residente in Italia non occorre provare un ulteriore disegno abusivo oltre al riscontro dei criteri di legge. In particolare, è irrilevante accertare il vantaggio fiscale indebito ottenuto spostando la sede in un paese a fiscalità inferiore, poiché i criteri di collegamento dell’art. 73 svolgono già in sé una funzione selettiva dei soggetti passivi a prescindere dallo scopo di evasione. Dunque, l’esterovestizione di per sé non viene ricondotta alla disciplina generale dell’abuso (art. 10-bis L. 212/2000), ma è trattata come una specifica violazione di norme sulla residenza.
  • Libertà di stabilimento in ambito UE: Quando l’esterovestizione riguarda società in paesi UE, entra in gioco la tutela della libertà di stabilimento garantita dal Trattato UE. La Corte di Giustizia UE, nel noto caso Cadbury Schweppes (C-196/04), ha affermato che un contribuente comunitario non può essere privato dei vantaggi fiscali offerti da un altro Stato membro solo perché vi ha trasferito la residenza allo scopo di beneficiare di un regime più favorevole, a meno che tale trasferimento configuri una costruzione di puro artificio priva di sostanza economica. In pratica, nell’UE vige un equilibrio: costituire una società in un altro Stato membro per usufruire di aliquote minori è lecito, finché la società svolge effettivamente un’attività economica reale in quel paese; diventa abuso della libertà di stabilimento quando la società è solo una “letterbox company”, senza attività genuina, creata al solo scopo di eludere la normativa fiscale dello Stato di origine. La Cassazione italiana ha recepito tali principi: ad esempio, nelle sentenze n. 5066 e 5075/2023, riguardanti una società slovacca con attività in realtà svolta in Italia, la Corte – pur dichiarando inammissibile per motivi procedurali il ricorso – ha ricordato in obiter dictum che anche nello spazio UE un assetto estero meramente artificioso costituisce abuso della libertà di stabilimento e legittima lo Stato a contrastarlo. D’altro canto, se il contribuente prova che la sua società UE aveva una struttura economica effettiva, l’elemento del vantaggio fiscale non può di per sé giustificare la riqualificazione (principio Cadbury citato).
  • Caso Dolce & Gabbana e successivi: Un caso emblematico di esterovestizione è stata la vicenda della holding di un noto gruppo della moda costituita in Lussemburgo. In sede penale i soggetti coinvolti furono assolti, e in sede tributaria vi furono pronunce contrastanti. Nel 2018 la Cassazione (nn. 33234 e 33235/2018) annullò con rinvio la ripresa fiscale, rilevando difetti nella motivazione circa la prova dell’effettiva amministrazione in Italia (in quella vicenda, la difesa sottolineò l’esistenza di motivazioni economiche e manager locali). Tuttavia, casi successivi con schemi analoghi ma meno “attenuanti” hanno visto la Cassazione dare pienamente ragione al Fisco. Ad esempio, Cass. n. 16697/2019 ha confermato la residenza in Italia di una società estera (formalmente un trust company estero) totalmente controllata da italiani, evidenziando l’assenza di reale attività all’estero. In generale, oggi i giudici sono molto rigorosi: una holding estera familiare senza sostanza è considerata esterovestita, a nulla valendo giustificazioni di mero asset protection o convenienza amministrativa.
  • Stabile organizzazione occulta vs esterovestizione: Spesso l’Amministrazione contesta in via subordinata la presenza di una stabile organizzazione non dichiarata in Italia di società formalmente estere. Questo avviene quando l’impresa ha effettivamente una base operativa in Italia (uffici, stabilimenti) ma la casa madre estera mantiene una gestione all’estero. La differenza concettuale è che con la stabile organizzazione si considera la società non residente ma tenuta a tassare in Italia i redditi attribuibili alla sua unità locale italiana, mentre con l’esterovestizione si assume che tutta la società sia residente in Italia. In casi concreti, i due fenomeni possono sovrapporsi: ad es. nel caso di una società slovena che operava in Italia con stabilimento e personale italiano (citato nelle sentenze 5066/2023), l’Agenzia ha contestato sia la residenza (esterovestizione totale) sia la stabile organizzazione occulta, per assicurarsi comunque l’imposizione su quei redditi. La Cassazione ha confermato che l’ufficio può procedere in via gradata: prima sostenere l’esterovestizione, e in subordine la stabile organizzazione, senza incorrere in contraddizione. In ogni caso, l’esito è che i profitti generati in Italia vengono tassati dallo Stato italiano, in tutto o in parte. Dal punto di vista sanzionatorio, poi, la presenza di una stabile organizzazione occulta può far configurare reati tributari (es. dichiarazione fraudolenta) analogamente all’esterovestizione totale.

Simulazioni pratiche di esterovestizione: casi tipici

Per illustrare come le regole si applicano in concreto, di seguito presentiamo alcuni scenari realistici nei quali l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare un’esterovestizione. Questi esempi coprono diversi settori e schemi operativi, evidenziando gli elementi chiave su cui il Fisco fa leva e le possibili difese (in corsivo eventuali argomenti difensivi). Si noti che ogni caso reale avrà peculiarità proprie; le simulazioni servono a comprendere dinamiche ricorrenti.

Caso 1 – Startup digitale estera gestita dall’Italia

Scenario: Un giovane imprenditore italiano costituisce una startup innovativa nel settore digitale aprendo una società in Irlanda (dove l’aliquota sugli utili è 12.5% e vi è un ecosistema favorevole alle tech companies). La società sviluppa un’app mobile e vende servizi online a clienti globali. Formalmente la sede legale è a Dublino, con un indirizzo preso in coworking. In realtà, il fondatore vive e lavora a Milano: da lì coordina gli sviluppatori (free-lance remoti) e prende tutte le decisioni strategiche. La società irlandese non ha dipendenti fissi né ufficio operativo (solo un recapito di comodo). I pagamenti dei clienti arrivano su un conto bancario online irlandese, ma poi vengono trasferiti sul conto personale italiano del founder per pagare spese in Italia.

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate viene a conoscenza della società attraverso i flussi finanziari (bonifici ripetuti dal conto estero al fondatore in Italia, segnalati nell’anagrafe dei rapporti finanziari) e magari articoli di stampa sul successo della startup. Avvia quindi un controllo incrociato sul fondatore e sulla struttura estera. Dalle indagini emergono vari elementi: il fondatore risulta fiscalmente residente in Italia; la società irlandese non ha uffici né dipendenti propri a Dublino; tutte le decisioni aziendali (sviluppo prodotto, politiche di prezzo) sono prese dal fondatore mentre si trova in Italia (le email aziendali acquisite riportano fuso orario e IP italiani); i contratti con fornitori (servizi cloud, marketing) sono stati negoziati via Zoom dal fondatore in Italia. L’Agenzia contesta dunque che la sede di direzione effettiva della società è in Italia e, applicando l’art. 73 co.3 TUIR, la qualifica come residente in Italia sin dall’inizio. Inoltre richiama l’art. 73 co.5-bis lett. b) come ulteriore supporto: il CdA (composto dal solo founder) è di fatto residente in Italia – sebbene la presunzione 5-bis tecnicamente richiederebbe anche il controllo di società italiane, la prevalenza italiana nell’organo amministrativo resta un indizio potente a favore del Fisco.

Esito potenziale: Se il founder non riesce a provare che la gestione avveniva davvero dall’Irlanda (es. dimostrare una sua presenza fisica continuativa a Dublino, documentare riunioni locali con investitori, ecc.), l’accertamento verrà con tutta probabilità confermato in ogni grado. La società estera verrà trattata come esterovestita e i suoi utili pregressi verranno tassati in Italia (IRES 24% e IRAP se dovuta), con riconoscimento di credito per le imposte eventualmente già pagate in Irlanda. Il fondatore persona fisica, pur non essendo destinatario diretto dell’accertamento (che riguarda la società), potrebbe subire conseguenze collaterali: l’Agenzia potrebbe approfondire il suo tenore di vita e le somme ricevute, contestandogli eventualmente redditi di fonte estera non dichiarati o configurando una sua responsabilità solidale in quanto amministratore che ha concorso nell’illecito. Per evitare questo esito, il founder avrebbe dovuto fin dall’inizio operare coerentemente con la scelta estera: ad esempio, trasferirsi stabilmente in Irlanda per dirigere da lì l’azienda, oppure assumere un management locale competente delegando a quest’ultimo le funzioni operative. In assenza di ciò, una startup digitale “leggera” è una facile preda per il Fisco, data la mobilità del business: l’Agenzia si concentra su dove risiede la “mente” dell’impresa, che in questo caso era palesemente in Italia.

Caso 2 – Società di consulenza estera con attività in Italia

Scenario: Un consulente aziendale italiano (attività individuale) decide di aprire una società a Londra (Ltd) per offrire servizi di business consulting. La motivazione dichiarata è di avere una sede nella City per prestigio e approfittare della burocrazia più snella in UK. In realtà, la maggior parte dei suoi clienti sono PMI in Italia e lui svolge i progetti presso le loro sedi in Italia. La Ltd ha sede presso un ufficio virtuale (solo un indirizzo di domiciliazione a Londra). Il consulente stesso è l’unico amministratore e socio, e continua a vivere a Milano, emettendo fatture della Ltd ai clienti italiani. I compensi vengono pagati sul conto corrente UK della società, ma poi prelevati frequentemente dal consulente in Italia (tramite carta aziendale o bonifici a sé stesso). La Ltd dichiara i redditi in UK (aliquota 19%), ma essendo i costi minimi, l’imposta versata è esigua.

Accertamento: L’Agenzia rileva la situazione attraverso l’esterometro (le comunicazioni obbligatorie delle operazioni transfrontaliere): le aziende italiane clienti hanno dichiarato fatture ricevute da quella Ltd inglese. Collegando i puntini, l’ufficio scopre che dietro c’è un consulente italiano conosciuto. Scatta una verifica per omessa dichiarazione dei redditi esteri da parte del consulente e sospetta esterovestizione. Gli elementi raccolti: l’amministratore unico della Ltd è il consulente stesso, residente in Italia; non risultano dipendenti né uffici operativi in UK; tramite scambio di informazioni con l’HMRC britannico, l’Agenzia verifica che l’indirizzo londinese è solo un servizio di mailbox. Al consulente viene richiesto di esibire la documentazione: egli consegna i contratti con i clienti – che però risultano tutti con soggetti italiani – e qualche biglietto aereo per Londra (sporadici viaggi di breve durata). L’Agenzia ascolta come testimoni alcuni manager delle PMI clienti, i quali confermano che le riunioni e l’esecuzione delle consulenze sono avvenute in Italia. Di fronte a ciò, l’Ufficio riqualifica la situazione: la Ltd viene considerata un mero schermo per trasformare quelli che in realtà sono redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia (che sarebbero stati soggetti ad IRPEF ~43%) in reddito societario estero tassato meno. Dunque contesta l’esterovestizione della società: la Ltd è fiscalmente residente in Italia ex art. 73 TUIR, con recupero a tassazione IRES e IRAP dei compensi conseguiti, oltre all’eventuale imputazione di quei redditi direttamente al consulente in base all’art. 37, comma 3, DPR 600/73 (norma che consente di disregardare entità interposte attribuendo il reddito al socio unico). In parallelo, viene contestata l’omessa dichiarazione di redditi esteri da parte della persona fisica.

Esito potenziale: L’accertamento in casi del genere ha ottime probabilità di essere confermato in ogni grado, data l’evidenza dell’artificiosità dello schema. Qui infatti la sede legale UK è fittizia e lo scopo principale era fiscale (abbattere il carico IRPEF): la società non ha vita propria all’estero. La Cassazione e le Corti Tributarie in casi simili (professionisti italiani con Ltd estera) hanno giudicato legittimo il recupero a tassazione in Italia. Il consulente, oltre a dover pagare le imposte italiane arretrate con interessi, subirebbe pesanti sanzioni amministrative per omessa/infedele dichiarazione (in genere dal 90% fino al 180% delle imposte evase) e potrebbe essere perseguito penalmente per omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000, punibile se l’imposta evasa supera €50.000 annui). Spesso, in tali casi, la difesa cerca di negoziare una definizione agevolata (adesione all’accertamento, conciliazione) per ridurre sanzioni ed evitare guai peggiori, perché sul piano probatorio è difficile sostenere la genuinità di una struttura così vuota. La lezione per i consulenti è chiara: se la clientela e l’attività rimangono in Italia, una società estera di comodo non regge al vaglio fiscale. Alternative lecite per alleggerire il carico fiscale vanno semmai ricercate altrove (regimi agevolati italiani, trasferimento reale all’estero, ecc.), ma non nella creazione di “finte Ltd” prive di sostanza.

Caso 3 – Delocalizzazione fittizia di azienda manifatturiera

Scenario: Un’azienda manifatturiera italiana (es. produttore di calzature) decide di chiudere la propria società italiana e proseguire l’attività attraverso una nuova società in Slovenia (paese UE con tassazione più bassa). Ufficialmente, dunque, l’imprenditore dichiara di aver spostato la produzione in Slovenia. In realtà, lo stabilimento rimane quello in Italia: viene solo intestato ad una terza società di comodo italiana, che lo affitta alla società slovena. I macchinari restano fisicamente in Italia. Per quanto riguarda la manodopera: alcuni operai italiani vengono licenziati dalla vecchia società e riassunti da una cooperativa locale, che poi li “distacca” di fatto nello stabilimento italiano; altri operai sono formalmente assunti dalla società slovena ma continuano a lavorare ogni giorno in Italia senza trasferirsi. In Slovenia, la società ha soltanto un piccolo ufficio amministrativo con due impiegati, dove sposta parte della contabilità. Tutte le decisioni strategiche (scelte produttive, acquisti di materie prime, vendite ai clienti, quasi tutti italiani o UE) sono ancora prese dall’imprenditore nel suo ufficio in Italia. In sostanza, si è cercato di far figurare la produzione come estera, mentre logisticamente tutto avviene come prima in Italia.

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza avviano controlli incrociati. Notano che dopo la chiusura della società italiana, le attività proseguono identiche presso lo stesso luogo: stessi capannoni, stessi clienti, cambiano solo le intestazioni delle fatture ora emesse dalla società slovena. Emerge che la società slovena non ha una vera fabbrica operativa in Slovenia; le bollette elettriche e i consumi energetici dello stabilimento italiano sono rimasti costanti anche dopo il “trasferimento”. La GdF effettua un sopralluogo a sorpresa e trova gli operai al lavoro nello stabilimento in Italia: questi dichiarano di essere pagati dalla società slovena (o dalla cooperativa intermediaria) ma di fatto lavorano lì tutti i giorni. Questi fatti portano a contestare due profili: da un lato, la società slovena ha una stabile organizzazione occulta in Italia (lo stabilimento è una sede fissa di affari non dichiarata); dall’altro, l’intera operazione appare come un’esterovestizione perché la direzione e l’organizzazione dell’impresa sono rimaste in Italia. L’Agenzia formula dunque contestazioni in via principale e subordinata: primariamente sostiene che la società estera è in realtà residente in Italia (art. 73 co.3: l’oggetto principale – la produzione – si svolge in Italia, e la sede amministrativa effettiva è in Italia); in subordine, qualora per qualche motivo formale non passi la tesi della residenza, afferma che c’è comunque una stabile organizzazione italiana non dichiarata a cui imputare i redditi d’impresa prodotti in Italia. In ogni caso, l’azione del Fisco mira a tassare in Italia gli utili generati dall’attività di produzione. L’Agenzia ricalcola il reddito imponibile sottratto (considerando che molta parte dei profitti era “trasferita” in Slovenia tramite prezzi di trasferimento infragruppo non allineati) e notifica avvisi di accertamento recuperando IRES, IRAP e anche ritenute non operate sugli stipendi di fatto corrisposti a lavoratori italiani (assunti formalmente all’estero). Data la presenza di artifici (società schermo, triangolazioni) e l’entità dell’evasione, scattano profili penalmente rilevanti come la frode fiscale (dichiarazione fraudolenta mediante artifici, art. 3 D.Lgs. 74/2000) o l’omessa dichiarazione dei redditi in Italia da parte della società estera.

Esito potenziale: In un caso così eclatante, la difesa del contribuente è estremamente difficoltosa. Le prove raccolte (lavoratori in Italia, impianti mai spostati, consumi industriali invariati, etc.) mostrano una simulazione quasi evidente. La Cassazione in passato ha già condannato schemi analoghi – si ricordano ad esempio le vicende di talune fonderie che avevano fittiziamente spostato sede in Svizzera mantenendo però impianti e produzione in Italia (casi anni ‘90-2000). La Corte ha affermato che questi schemi sono illegittimi e configurano sia stabile organizzazione che esterovestizione, dando priorità alla sostanza economica. La società slovena del nostro scenario verrebbe dunque considerata residente in Italia; l’eventuale Convenzione Italia-Slovenia contro le doppie imposizioni non aiuterebbe il contribuente, poiché il tie-breaker convenzionale è il luogo di direzione effettiva, che risulta in Italia. Al più, si attiverebbe una procedura amichevole tra Stati, ma difficilmente la Slovenia difenderebbe una residenza meramente fittizia. L’azienda e l’imprenditore si troverebbero quindi a dover pagare imposte arretrate con sanzioni e interessi ingenti, e i responsabili potrebbero affrontare processi penali (concrete le ipotesi di reato considerate gli importi e gli artifici). In definitiva, il rischio di “delocalizzazioni fittizie” è altissimo: oggi, con la cooperazione fiscale internazionale, è molto difficile nascondere simulazioni di questo genere. Come avverte la GdF, rimangono tracce ovunque – dalle bolle doganali (se la società slovena non importa materie prime perché in realtà queste arrivano in Italia) ai flussi energetici, ai dati di videosorveglianza industriale. Spesso, operazioni simili vengono smascherate e portano a conseguenze ben più gravi del semplice risparmio ottenuto: il gioco non vale la candela.

Caso 4 – Holding familiare estera (Lussemburgo) controllante società italiane

Scenario: Una famiglia italiana detiene un gruppo di società operative in Italia. Per ragioni storico-fiscali, anni fa costituì una holding in Lussemburgo (chiamiamola “Alfa Holding SA”) alla quale vennero conferite tutte le partecipazioni delle società italiane. Lo scopo era duplice: approfittare della participation exemption lussemburghese (aliquota quasi zero sui dividendi e plusvalenze da partecipazioni) e schermare l’assetto di controllo familiare. Alfa Holding non ha uffici né personale in Lussemburgo: è domiciliata presso uno studio fiduciario locale, che fornisce servizi amministrativi di base (indirizzo, tenuta dei registri, un amministratore fiduciario locale per facciata). Il CdA di Alfa Holding, però, è composto dai tre fratelli italiani della famiglia (residenti a Milano), affiancati formalmente da un amministratore lussemburghese fornito dallo studio. In pratica, i fratelli prendono tutte le decisioni sulla holding e sulle società figlie, firmando spesso documenti societari dall’Italia (a volte con deleghe o procure). Ogni anno, Alfa Holding incassa dividendi dalle società italiane per diversi milioni, che distribuisce in parte sui conti personali dei fratelli (in Italia) e in parte reinveste. Fiscalmente, in Lussemburgo quelle somme sono quasi esenti; in Italia i fratelli dichiarano solo il 5% imponibile (regime madre-figlia) sugli utili percepiti. Nel 2023, con la riforma del TUIR (D.Lgs. 209/2023), la famiglia inizia a temere che quell’assetto possa essere contestato come esterovestizione, visti anche i nuovi automatismi di scambio informazioni.

Accertamento: L’Agenzia effettua un’analisi di rischio e identifica Alfa Holding come potenziale caso di esterovestizione di una holding. I requisiti formali ci sono tutti: società estera controllata da residenti italiani che detiene partecipazioni di controllo in società italiane – è esattamente lo scenario cui si applica l’art. 73 co.5-bis TUIR. Parte quindi un controllo: l’Agenzia invia un questionario alla famiglia e attiva lo scambio di informazioni con il Lussemburgo. Dalle autorità lussemburghesi ottiene i bilanci di Alfa Holding e scopre quanto già noto: nessuna struttura economica, solo il servizio di domiciliazione fornito dal fiduciario (nessun ufficio né dipendenti propri). I movimenti finanziari mostrano chiaramente i flussi: dividendi dalle società italiane -> Alfa Holding -> conti personali in Italia. I funzionari dell’Agenzia convocano i fratelli: questi provano a giustificare la scelta del Lussemburgo con motivi di “protezione patrimoniale” e di opportunità internazionale, ma non riescono a fornire prove di una reale attività estera della holding oltre al semplice incasso di dividendi. Forte della presunzione legale relativa prevista dal comma 5-bis, l’Ufficio presume la residenza in Italia di Alfa Holding e notifica un avviso di accertamento in tal senso. Effetti fiscali: se Alfa Holding è considerata residente in Italia sin dalla costituzione, tutti i dividendi incassati dalle figlie italiane avrebbero dovuto scontare la ritenuta 26% alla fonte (non essendo più applicabile la direttiva madre-figlia UE). Inoltre, eventuali plusvalenze che la holding ha realizzato (es. vendendo partecipazioni estere) diverrebbero imponibili in Italia, salvo esenzioni applicabili internamente. In pratica, l’Agenzia richiede: alle società operative italiane di versare le ritenute sui dividendi distribuiti negli anni (ritenute che non erano state applicate credendo la holding lussemburghese una non residente esente); alla holding il pagamento di IRES su eventuali utili non tassati. Si genera un massiccio recupero di imposte su più annualità (compatibilmente con i termini accertativi). Potenzialmente scattano anche sanzioni per omessa dichiarazione da parte di Alfa Holding (che, essendo considerata residente, avrebbe dovuto presentare dichiarazione dei redditi in Italia e non l’ha mai fatto).

Esito potenziale: La famiglia verosimilmente propone ricorso, contestando l’accertamento. L’esito però è incerto e pendente più verso il Fisco: i fatti sostanziali sono a sfavore dei contribuenti (una classica holding esterovestita familiare). È vero che il caso ricorda la vicenda Dolce & Gabbana (holding lussemburghese): lì, in sede penale i contribuenti furono assolti, e anche in sede tributaria nel 2018 vennero “salvati” per insufficienza di prova del disegno elusivo, con la Cassazione che annullò il recupero per difetti di motivazione. Ma va detto che in quel caso gli stilisti avevano anche motivazioni legate alla gestione internazionale del marchio, e la vicenda era borderline. In casi meno noti, la giurisprudenza recente è molto severa: come citato, Cass. 16697/2019 (riguardante una trust company estera usata come holding) ha dato ragione piena al Fisco, e altre pronunce analoghe pure. Se Alfa Holding non può dimostrare un minimo di sostanza (ad esempio di svolgere effettivamente attività finanziaria o di coordinamento all’estero con propria organizzazione), la battaglia legale sarà in salita. È probabile che già in primo e secondo grado le Corti Tributarie confermino l’accertamento, richiamando il principio della prevalenza della sostanza sulla forma. In Cassazione, la difesa potrebbe provare a giocare la carta della libertà di stabilimento UE (visto che il Lussemburgo non è paradiso fiscale, si potrebbe sostenere che non era uno schema “puro artificio” secondo Cadbury). Ma con un CdA interamente italiano e zero attività fuori, tale argomento appare debole. In definitiva, l’epoca delle holding estere “letterbox” sta tramontando: molte famiglie in situazioni simili hanno già preferito far rientrare le holding in Italia (spesso sfruttando la Voluntary Disclosure). Nel nostro scenario, la strategia difensiva più prudente potrebbe essere cercare una transazione con l’Agenzia – ad esempio in sede di mediazione o adesione, ottenendo sanzioni ridotte – perché rischiare fino in Cassazione potrebbe significare vedersi confermare l’intero debito con interessi e sanzioni.

Caso 5 – Società estera proprietaria di immobili in Italia

Scenario: Un investitore italiano possiede vari immobili di pregio in Italia (ville, case vacanza). Decide di intestare ciascun immobile a una società estera differente: per esempio, costituisce una LLC negli USA per una villa in Costa Smeralda, una Ltd nel Regno Unito per un appartamento a Roma, ecc. Gli obiettivi sono: privacy (schermare il nome dietro veicoli societari), vantaggi fiscali (ad esempio evitare l’IMU sulla villa se formalmente di proprietà estera non soggetta, o differire l’imposta di successione) e forse eludere il monitoraggio fiscale (RW). Queste società estere sono meri gusci vuoti, possedute fiduciariamente dall’italiano tramite trust o fiduciarie. Non svolgono alcuna attività d’impresa: il loro unico asset è l’immobile italiano, che viene utilizzato dallo stesso investitore come casa vacanza. Formalmente, per dare parvenza, l’investitore versa un piccolo affitto alle società (o le usa in comodato). A un certo punto, l’investitore decide di vendere uno degli immobili: invece di fare un atto di vendita in Italia, fa cedere tutte le quote della società estera proprietaria a un compratore (magari anch’esso estero), così che l’immobile cambi di mano “indirettamente” senza passare da un rogito italiano. L’intento è evitare l’imposta di registro e le imposte sulla plusvalenza in Italia, sostenendo che si è venduta una società (all’estero) e non un immobile in Italia. L’operazione viene però segnalata al Fisco italiano (per via dei controlli sui trasferimenti di proprietà estere con asset italiani).

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate considera queste situazioni come interposizione o esterovestizione. Le società USA/UK appaiono chiaramente come veicoli passivi per detenere immobili italiani. Applicando i principi sulla residenza, l’Agenzia contesta che la sede effettiva di tali società coincide con il luogo in cui gli immobili sono gestiti, cioè in Italia (in pratica, la gestione dell’immobile – affitti, manutenzione, uso – è curata dall’Italia). Inoltre ricorrono i presupposti della presunzione anti-esterovestizione: c’è un soggetto controllante italiano e beni (immobili) situati in Italia, il che suggerisce fortemente che si tratti di una schermatura patrimoniale. L’Agenzia quindi può muoversi su due fronti:

  • Residenza fittizia delle società estere: dichiara che le società estere proprietarie sono in realtà residenti in Italia, in quanto il loro centro di interessi e la gestione dei beni è qui. Quindi, eventuali plusvalenze realizzate (es. dalla vendita delle quote societarie corrispondenti al valore dell’immobile) sarebbero imponibili qui; e gli immobili andrebbero assoggettati alle imposte patrimoniali italiane come se fossero detenuti da un residente.
  • Ignorare l’interposizione (look-through): In parallelo, l’Agenzia può disconoscere la personalità giuridica delle società (soprattutto se non svolgono nessuna attività), trattando l’investitore italiano come titolare effettivo degli immobili. Così, recupera l’IMU non versata negli anni (se le società estere non la pagavano, adducendo l’esenzione per immobili di entità estera) e eventuali redditi fondiari non dichiarati (se l’immobile era affittato a terzi). Sulla compravendita, l’Agenzia contesta che la cessione di quote estere ha in realtà mascherato una vendita di immobile italiano, quindi soggetta a imposta di registro in Italia (con aliquota proporzionale) e a eventuale tassazione della plusvalenza immobiliare.

Un caso simile è già approdato in Cassazione: la sent. n. 14485/2024 (depositata il 28/07/2024) riguardava proprio un conferimento di immobile italiano in una società UK seguito dalla cessione delle quote con tassazione fissa. La Cassazione ha riqualificato il tutto come operazione elusiva, confermando le pretese del Fisco. Un’altra pronuncia, Cass. 11245/2019, ha colpito un caso in cui un appartamento a Montecarlo intestato a società estera veniva usato dall’italiano senza pagare l’IVIE: anche lì fu riconosciuta l’esterovestizione fittizia e il contribuente fu sanzionato.

Esito potenziale: Di fronte a simili contestazioni, il contribuente ha poche chance. La giurisprudenza è molto severa contro queste pratiche di schermatura immobiliare, specie quando appare evidente che lo scopo era eludere imposte su immobili (IMU, imposta di registro, IVIE, successione, ecc.). Le società estere qui sono “scatole vuote” prive di qualunque sostanza economica: è difficile sostenere che abbiano una ragion d’essere diversa dal possesso dell’immobile italiano per conto dell’azionista. L’Agenzia dunque tratterà molto probabilmente tali società come fiscalmente italiane (avendo il loro unico interesse e attività in Italia) oppure le ignorerà del tutto considerandole interposte. In entrambi i casi, l’investitore sarà chiamato a pagare le imposte dovute: recupero dell’IMU arretrata (se indebitamente non pagata o pagata in misura ridotta perché l’intestatario era estero), sanzioni per omessa dichiarazione nel quadro RW (mancato monitoraggio finanziario), imposta di registro sulla vendita simulata tramite share deal, e così via. Sul piano penale, se gli importi evasi sono elevati, potrebbero configurarsi reati di dichiarazione infedele o omessa. In genere, osserva l’esperienza, contribuenti colti in queste operazioni tendono a definire bonariamente (magari tramite ravvedimento operoso o adesione) per evitare guai peggiori, data la difficoltà difensiva. Va infine notato che l’esterovestizione qui assume la forma di “esterovestizione di beni” (immobili), concetto improprio ma efficace: usare società estere come “contenitori” di asset italiani. Il Fisco italiano ormai riconosce e contrasta sistematicamente tali schemi, sostenuto da vari precedenti giurisprudenziali in suo favore.

Considerazione generale: i cinque scenari delineati, pur diversi (digitale, consulenza, manifattura, holding, immobiliare), condividono un filo conduttore: se la sostanza economica (produzione, prestazione del servizio, detenzione del bene) rimane in Italia, l’esterovestizione verrà contestata dal Fisco, indipendentemente dalla forma giuridica utilizzata. Viceversa, se un’attività è effettivamente svolta all’estero con mezzi e organizzazione proprie, la residenza estera sarà rispettata. Per chi opera su più paesi, la chiave è la effettività: un imprenditore digitale con team e mercati davvero globali può giustificare una sede estera; un consulente o una holding familiare, no, se tutto gravita attorno all’Italia.

FAQ – Domande frequenti sull’esterovestizione

Di seguito rispondiamo ad alcuni quesiti comuni che imprenditori e professionisti si pongono riguardo all’esterovestizione e alla residenza fiscale.

D1: Posso aprire una società all’estero per pagare meno tasse senza rischiare l’esterovestizione?
R: Sì, ma solo a condizione che la società operi davvero all’estero in modo autonomo. Costituire una società in un altro Stato esclusivamente per beneficiare di aliquote più basse, mantenendo però in Italia la direzione e l’attività, configura senz’altro un caso di esterovestizione. In pratica, puoi godere legittimamente di una fiscalità estera favorevole solo se trasferisci anche la sostanza dell’attività in quel paese: uffici, personale, funzioni decisionali. Se invece crei una società estera “di comodo” mentre tutto continua ad essere gestito dall’Italia, il Fisco italiano ti considererà comunque residente qui e vorrà le sue imposte. Va ricordato che un contribuente non è obbligato a scegliere l’alternativa più tassata (in linea di principio è libero di stabilirsi dove le tasse sono minori), purché la scelta sia autentica e sostanziale. Non si possono creare costruzioni artificiose prive di effettiva attività economica al solo scopo di eludere le imposte italiane. Quindi, se vuoi davvero sfruttare le minori tasse di un altro paese, devi trasferire anche la tua vita d’impresa lì per davvero. Diversamente, rischi un accertamento per esterovestizione che annullerà i supposti vantaggi.

D2: Quali sono i criteri principali che il Fisco guarda per decidere se una società estera è esterovestita?
R: Gli indicatori chiave che l’Agenzia delle Entrate esamina sono: (i) dove si trova la sede di amministrazione effettiva – ossia da dove vengono prese le decisioni di gestione (se queste decisioni promanano dall’Italia è un segnale fortissimo); (ii) dove si svolge l’attività operativa o l’oggetto principale – se la produzione, i servizi o il mercato della società sono in prevalenza in Italia; (iii) la composizione dell’organo amministrativo – una prevalenza di amministratori residenti in Italia fa scattare sospetti (ed è uno dei due presupposti della presunzione legale, in caso di holding); (iv) la proprietà – se la società estera è controllata da soggetti italiani, soprattutto se persone fisiche residenti, è l’altro presupposto della presunzione; (v) la struttura organizzativa estera – se esiste davvero (uffici, dipendenti, attrezzature nel paese estero) o se la società risulta essere solo un indirizzo postale senza sostanza; (vi) i flussi finanziari – se gli utili realizzati all’estero vengono poi quasi tutti rimpatriati o spesi da residenti in Italia, ciò denota che l’estero è solo un passaggio formale. In sintesi, l’Agenzia cerca di capire se la società estera ha una vita propria e indipendente all’estero o se è “pilotata” dall’Italia. Ad esempio, se trovano che la società estera non ha ufficio né dipendenti, l’amministratore vive in Italia, i contratti sono firmati a Milano – messi insieme questi elementi delineano la fittizietà della presenza estera. Altro esempio: se la società straniera è una holding e serve solo a detenere quote di società italiane, con soci e manager italiani, scatta la presunzione di residenza qui. In generale il Fisco utilizza sia i parametri normativi (art. 73 TUIR e presunzioni) sia la prassi investigativa più ampia: esamina email, spese aziendali, tabulati telefonici, testimonianze, per capire dov’è il cervello e il cuore dell’impresa. Se sono in Italia, poco importa dove sia il “guscio” legale.

D3: Se gli amministratori di una società estera sono in maggioranza italiani, la società è considerata automaticamente residente in Italia?
R: Non automaticamente, ma quasi. La prevalenza di consiglieri italiani è uno dei fattori che attivano la presunzione di esterovestizione ex art. 73 co.5-bis qualora la società estera sia holding di partecipazioni italiane. In tale caso (holding estera di italiani), basta che il CdA sia a maggioranza italiana per presumere la residenza in Italia salvo prova contraria. Se invece la società estera non è holding di società italiane, avere amministratori italiani resta comunque un indizio molto pesante, benché non vi sia la presunzione legale automatica. In pratica, un board quasi tutto italiano farà sorgere forti sospetti che le decisioni vengano prese in Italia. La società dovrà allora dimostrare che, nonostante ciò, le riunioni e la gestione avvengono oltre confine (ad esempio esibendo verbali di CdA tenuti all’estero, prove che gli amministratori si sono recati lì regolarmente, presenza di una struttura significativa all’estero che richiede la loro presenza). Dunque, non è il singolo elemento a costituire prova assoluta, ma il suo combinarsi con altri. Certo è che un CdA “tricolore” è un campanello d’allarme: chi vuole sostenere la residenza estera dovrebbe sforzarsi di avere amministratori prevalentemente locali (o comunque non residenti in Italia), o almeno di fatto indipendenti dall’Italia.

D4: E se i soci (proprietari) sono italiani ma gli amministratori no? Ad esempio, una Ltd inglese con soci italiani ma amministratore unico britannico.
R: Questa configurazione migliora un po’ le cose, ma non garantisce affatto l’assenza di rischi. Il comma 5-bis copre due scenari alternativi: (a) controllo da soggetti italiani, (b) CdA a maggioranza italiano. Quindi, anche se eviti il CdA italiano nominando un amministratore britannico, rimane il fatto che i soci di controllo sono italiani – il che è di per sé sufficiente, in uno schema di holding, ad innescare la presunzione (è il caso (a) del 5-bis). Anche al di fuori della presunzione, l’Agenzia si chiederà: l’amministratore locale è realmente indipendente o è un prestanome? In molti modelli di nominee director, l’amministratore locale firma quello che i soci italiani gli dicono di firmare. Se emergono retroscena in tal senso (email istruzioni, bozze di atti predisposte dagli italiani, ecc.), la presenza di un amministratore straniero non salverà dalla contestazione – anzi sarà vista come un elemento artificioso aggiuntivo. Invece, se quell’amministratore è effettivamente un professionista che gestisce l’azienda con autonomia, magari coadiuvato da una struttura locale, ciò potrà essere un argomento difensivo (da supportare con deleghe, documenti che mostrino decisioni prese da lui, ecc.). In conclusione: soci italiani + amministratore fantoccio estero = rischio altissimo di esterovestizione; soci italiani + amministratore estero indipendente e operativo = rischio un po’ minore, ma comunque servono prove concrete dell’indipendenza di quest’ultimo per stare tranquilli.

D5: Qual è la differenza tra esterovestizione e “stabile organizzazione occulta”?
R: Sono due concetti distinti, anche se talvolta legati e contestati insieme (come visto nel Caso 3). L’esterovestizione attiene alla residenza fiscale complessiva della società: significa che una società formalmente estera viene considerata invece residente in Italia, e quindi tassata in Italia su tutti i suoi redditi mondiali (worldwide taxation). La stabile organizzazione occulta, invece, riguarda una presenza operativa in Italia di una società estera che rimane formalmente non residente: in questo caso la società continua ad essere considerata estera, ma si ritiene che abbia un “ramo d’azienda” o base fissa in Italia non dichiarata, attraverso la quale svolge attività sul territorio; pertanto i redditi attribuibili a quella base sono tassati in Italia. Esempio: una società USA non trasferisce la sede in Italia (la direzione rimane negli USA, dunque niente esterovestizione), però apre di nascosto un ufficio commerciale a Milano senza dichiararlo al Fisco – in tal caso non diremmo che la società è residente in Italia, ma diremmo che ha una stabile organizzazione non dichiarata a Milano, tassando in Italia i profitti generati da quell’ufficio. Nell’esterovestizione, invece, si afferma che l’intera società ha sede di amministrazione in Italia, e dunque l’intero soggetto diventa residente italiano (non solo una branch). In pratica, l’esterovestizione è un concetto più ampio (residenza fittizia globale), la stabile organizzazione occulta è più circoscritta (evasione dovuta al mancato riconoscimento di una unità locale). Entrambi portano comunque a tassare in Italia i redditi, ma con differenze: con l’esterovestizione il Fisco prende tutto il reddito societario, con la stabile organizzazione solo la quota attribuibile alle attività italiane. L’esterovestizione spesso è “preferita” dal Fisco perché consente di tassare di più (tutto), mentre la stabile organizzazione limita l’imposizione ai proventi della base locale. Va da sé che l’ufficio talvolta contesta entrambe, per coprire ogni evenienza.

D6: Se una società estera viene considerata residente in Italia, cosa succede in concreto? Rischio doppia imposizione, devo pagare le tasse due volte (estero + Italia)?
R: In linea generale, la società verrà trattata come contribuente italiano a tutti gli effetti, quindi dovrà presentare dichiarazioni dei redditi in Italia per gli anni contestati e pagare le imposte italiane sui redditi ovunque prodotti, come se fosse stata sempre italiana. Però non c’è volontà di doppia imposizione: il nostro ordinamento (e le convenzioni) prevedono strumenti per evitarla. In particolare, si scomputano le imposte estere eventualmente già pagate su quei redditi, tramite il meccanismo del credito per imposte estere (art. 165 TUIR). Inoltre, se c’è una Convenzione contro le doppie imposizioni con il Paese in questione, si applicherà la relativa clausola di tie-breaker sulla doppia residenza: di solito i trattati stabiliscono che, in caso un soggetto sia residente in due Stati secondo le leggi interne, la residenza fiscale ai fini del trattato sia attribuita allo Stato in cui si trova la sede di direzione effettiva (o con procedura di accordo reciproco). Quindi, se l’Italia accerta che la direzione effettiva è qui, e l’altro Stato concorda, quest’ultimo dovrebbe rinunciare a tassare come residente (limitandosi eventualmente a tassare i redditi di fonte locale o le stabili organizzazioni lì). Se invece l’altro Stato non concorda e continua a considerarla residente, si ha un conflitto di doppia residenza: in teoria va risolto con la Mutual Agreement Procedure (MAP) tra le due Amministrazioni, come previsto dai trattati, per evitare doppia tassazione. Nella pratica, molti paesi cooperano e accettano il risultato degli accertamenti quando appare fondato: ad esempio, in casi di holding lussemburghesi poi tassate in Italia, spesso il Lussemburgo ha chiuso un occhio (anche perché quelle holding spesso pagavano lì imposte irrisorie). Quindi non è che pagherai due volte: pagherai in Italia la differenza se qui l’aliquota è maggiore, e verrà riallocato il diritto di tassazione. Se l’altro Paese era un paradiso che non tassava nulla, allora non c’è neppure doppia imposizione da eliminare – pagherai semplicemente tutto in Italia e basta. In sintesi, lo scopo dell’Agenzia non è farti pagare due volte ma farti pagare almeno una volta in Italia quanto dovuto. Il coordinamento internazionale poi dovrebbe evitare duplicazioni; in assenza di convenzione, si userà il credito d’imposta unilaterale italiano. Certo, possono esserci complicazioni temporali: ad esempio, se il fisco italiano arriva dopo anni, può succedere che hai già pagato imposte all’estero e ora ti chiedono anche quelle italiane per gli stessi redditi – dovrai attivarti per ottenere un credito/rimborso da uno dei due Stati, e non sempre è immediato.

D7: L’esterovestizione riguarda solo i rapporti società italiane–estere o anche le persone fisiche?
R: Il termine “esterovestizione” in senso stretto si riferisce alle società (significa letteralmente “vestire da estero” un soggetto di fatto nazionale). Per le persone fisiche esiste un concetto analogo, disciplinato però da altra norma: se un cittadino italiano trasferisce la residenza anagrafica in un paese a fiscalità privilegiata (black list), l’art. 2, comma 2-bis TUIR presume che non abbia davvero perso la residenza italiana, salvo prova contraria. È una presunzione simile a quella societaria: se, ad esempio, Tizio si iscrive all’AIRE trasferendosi a Montecarlo o a Dubai, ma poi di fatto continua a vivere prevalentemente in Italia, l’Agenzia può considerarlo ancora residente fiscale in Italia e tassarlo su tutti i redditi mondiali. Spesso in gergo si parla di “esterovestizione della persona fisica”, anche se il termine tecnico sarebbe fittizio espatrio. Il concetto di fondo è lo stesso: residenza formalmente estera vs residenza effettiva in Italia. Negli ultimi anni l’Agenzia è molto attenta a casi di sportivi, influencer, manager che dichiarano residenza a Dubai, Montecarlo, Svizzera ecc. ma passano gran parte dell’anno in Italia: anche in questi casi, se emerge che il centro degli interessi rimane in Italia (famiglia, attività, dimora abituale), si contesterà la residenza italiana. In conclusione, pur se il termine esterovestizione si usa soprattutto per le società, il fenomeno esiste anche per le persone fisiche (ed è contrastato con strumenti normativi dedicati). La regola di sostanza>forma vale per tutti: se ti trasferisci all’estero “sulla carta” ma non nella realtà, il Fisco ti inseguirà.

D8: Cosa rischio in caso di accertamento per esterovestizione?
R: Sul piano tributario, rischi un recupero molto oneroso di imposte, sanzioni e interessi. L’Agenzia ricalcolerà le imposte italiane dovute sui redditi della società come se questa fosse sempre stata residente qui: tipicamente IRES al 24% per ciascun anno sugli utili non dichiarati (al netto di eventuali crediti per imposte pagate fuori) e IRAP se applicabile. Contestualmente vengono recuperate più annualità arretrate (in genere fino a 5 anni addietro, o 8 in caso di omessa dichiarazione). Alle imposte si sommano sanzioni amministrative per dichiarazione infedele/omessa: oggi tali sanzioni possono arrivare anche al 180% dell’imposta evasa per ciascun anno (ad esempio, €100k di imposte evase possono comportare €180k di sanzioni). Maturano poi gli interessi moratori su ogni somma dovuta. Sul piano penale, se l’imposta evasa è superiore alle soglie di punibilità, scatta il reato di omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000, soglia €50.000 annui evasi, pena 1 anno e 6 mesi – 4 anni di reclusione). In casi di utilizzo di schemi fraudolenti (es. documenti falsi, doppie contabilità), potrebbe configurarsi dichiarazione fraudolenta (art. 3, soglia €30.000), anche se tipicamente nell’esterovestizione l’artificio è la struttura societaria stessa. La presenza di società estere fittizie rientra in genere nell’omessa dichiarazione (poiché non hai presentato la dichiarazione IRES in Italia mentre avresti dovuto). Quindi potenzialmente si apre un procedimento penale a carico degli amministratori/soci principali, con possibili misure cautelari come sequestro di beni fino a concorrenza dell’imposta evasa. Inoltre possono scattare sanzioni accessorie in caso di condanna (ad es. interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche per un certo periodo). Non ultimo, ci sono implicazioni civili e reputazionali: l’Agenzia può ritenere responsabili d’imposta anche soggetti terzi coinvolti (es. nell’esempio dell’immobile venduto via società estera, potrebbe chiedere all’acquirente l’imposta di registro non pagata, creandogli problemi). Mediaticamente, un’imprenditore scoperto in uno schema di esterovestizione finisce sui giornali come “evasore con società fantasma all’estero”, con danno d’immagine. Insomma, le conseguenze sono serie: si può arrivare a pagare oltre il doppio di quanto non pagato originariamente (tra imposte e sanzioni) e nei casi estremi a subire condanne penali.

D9: Come posso difendermi se l’Agenzia contesta un’esterovestizione?
R: La miglior difesa è preventiva: sin dal giorno in cui decidi di operare con una società estera, predisponi una solida documentazione che ne provi la reale operatività estera (vedi oltre le linee guida). Se però sei già sotto verifica o hai ricevuto un accertamento, devi agire prontamente e su più fronti:

  • Raccogli prove di sostanza estera: come già detto, contratti di affitto di uffici esteri, contratti di lavoro di personale locale, fatture di fornitori e spese nel paese estero, foto dei locali, iscrizioni a registri d’impresa esteri, ecc. Tutto ciò che dimostra che la società non è una scatola vuota. Ad esempio, se hai una società in UK, porta evidenza che hai un vero ufficio a Londra con dipendenti e che lì si tengono riunioni periodiche.
  • Verbali e trasferte: esibisci i verbali delle assemblee e dei consigli degli anni passati, mostrando che le riunioni si sono tenute all’estero. Meglio se puoi allegare anche biglietti di viaggio, ricevute di soggiorni, che provino la presenza fisica tua (o degli amministratori) in quei luoghi in quelle date. Se nei verbali risultano decisioni importanti prese all’estero, è un punto a favore.
  • Testimonianze di terzi: se possibile, procurati dichiarazioni da clienti, fornitori o partner esteri che attestino di aver sempre trattato con la sede estera e non con l’Italia. Oppure un’attestazione di un consulente fiscale locale che confermi che la società ha adempiuto a tutti gli obblighi nel paese estero e ha effettiva sostanza (non è molto probante giuridicamente, ma aiuta come contesto).
  • Argomentazioni giuridiche: attraverso il tuo difensore, sfrutta ogni eventuale vizio procedurale dell’accertamento (ad es. mancato contraddittorio preventivo se era dovuto in ambito UE, difetto di delega o di motivazione nell’atto). Questi aspetti possono portare all’annullamento dell’avviso a prescindere dal merito. Nel merito poi contesta puntualmente la valutazione degli indizi: prova a mostrare che ciascun elemento addotto dal Fisco può avere spiegazioni alternative innocue (contro-deduzioni). Richiama giurisprudenza favorevole: ad esempio, alcune sentenze (poche, in verità) hanno censurato l’assenza di prova di un fine esclusivo di vantaggio fiscale – come nel caso D&G – per annullare l’atto; citare quei precedenti può alzare l’asticella probatoria a carico del Fisco (anche se, come detto, la Cassazione oggi non richiede quella prova). Se c’è in ballo la libertà di stabilimento UE, invoca i principi Cadbury e successivi (costruzione artificiosa, presenza di sostanza economica).
  • Confutare i singoli indizi: entra nel dettaglio delle contestazioni. Esempio: l’Ufficio dice “non avete dipendenti all’estero” – tu rispondi “non servivano dipendenti perché l’attività è svolta tramite outsourcing locale, ecco i contratti con le società di servizi in loco”. Oppure l’Ufficio dice “non avete un ufficio all’estero” – tu replica “abbiamo una sede presso un business center perché l’attività non richiede stabilimenti, ecco il contratto di domiciliazione e foto della postazione utilizzata”. Ogni contestazione va controbattuta con spiegazioni e prove specifiche.
  • Coordinamento internazionale: se è coinvolta una Convenzione contro le doppie imposizioni e l’altro Stato riconosce la residenza estera, porta la certificazione di residenza fiscale estera e invoca l’art. 4(3) del trattato (tie-breaker). Attenzione però: un semplice certificato di residenza fiscale straniero non basta se i fatti indicano diversamente (vale poco se la direzione effettiva era in Italia). In convenzioni più recenti, dove il tie-breaker è demandato ad accordo tra Stati, puoi chiedere che sia attivata la MAP tra le amministrazioni, sperando magari in un esito a te favorevole (non comune, ma tentabile).
  • Valutare soluzioni deflattive: parallelamente al ricorso, considera eventuali opportunità di definizione agevolata. Ad esempio, l’accertamento con adesione: se la tua posizione è debole, forse è meglio negoziare con l’Agenzia un accordo con riduzione di sanzioni e un imponibile concordato. Soprattutto in questi casi complessi, il Fisco potrebbe acconsentire a chiudere la vertenza con un compromesso, pur di evitare un contenzioso lungo e incerto. Inoltre, perfezionare un’adesione con pagamento integrale estinguerebbe i reati tributari eventualmente configurabili (grazie all’art. 13 D.Lgs. 74/2000), il che è un vantaggio enorme se si rischia sul penale. Valuta anche se intervenissero norme di condono o definizione delle liti pendenti: spesso nelle manovre finanziare vengono offerte “pacificazioni” fiscali, e molti contribuenti con cause di esterovestizione ne hanno approfittato per chiudere pagando il dovuto ridotto.
  • Rimedi alternativi e tardivi: se l’esterovestizione non è ancora avvenuta ma stai pianificando una struttura estera dubbia, potresti valutare un interpello (anche se, come detto, l’interpello anti-abuso non è ammesso espressamente, un interpello ordinario sui nuovi investimenti potrebbe essere un’opzione in certi casi). Se invece sei già in contenzioso, l’interpello non è più possibile, ma potresti comunque “ravvederti” in parte: ad esempio, trasferire ora la sede in Italia e iniziare a pagare le tasse regolarmente qui per il futuro, mostrando buona fede e collaborazione; questo può aiutare quanto meno a trattare meglio le sanzioni e a chiudere più favorevolmente la lite.

In sintesi, la difesa deve cercare di demolire la tesi che la società estera sia un guscio vuoto e convincere che vi fosse una ragione economica sostanziale (non fiscale) per operare all’estero e che effettivamente l’attività estera c’è stata. Non è facile: occorre lavorare su documenti, testimonianze e procedure. Spesso, il risultato migliore si ottiene combinando più strategie: fornire quante più prove possibili di sostanza, e parallelamente cercare un accordo transattivo con il Fisco per ridurre i danni e azzerare il rischio penale.

D10: Vale la pena costituire una società all’estero oggi per risparmiare sulle tasse?
R: Dipende dalle circostanze. Se parliamo di espansione reale in Paesi esteri a fiscalità ordinaria (es. aprire una filiale in Francia, Spagna, USA per servire quei mercati), ed effettivamente si svolge attività in quei Paesi, allora nulla in contrario: è fisiologico in un’economia globalizzata scegliere di operare anche all’estero. In tal caso, se la sostanza è in loco, non incorrerai in problemi (basta gestire correttamente il transfer pricing tra casa madre e filiali, ecc.). Se invece l’idea è aprire società in nazioni estere solo per tagliare il carico fiscale, senza spostare l’attività, oggi è molto rischioso. L’epoca in cui bastava aprire una Ltd a Londra o una LLC a Panama e “stare tranquilli” è finita: la cooperazione internazionale e le normative anti-abuso sono diventate stringenti. Il Fisco ha strumenti per scoprire dove realmente operi (dalle banche dati finanziarie allo scambio informazioni, a incroci di ogni genere). Quindi, a meno che tu non sia disposto a delocalizzare davvero la tua vita e la tua impresa, creare società estere solo per tasse minori è sconsigliabile. Esistono semmai regimi agevolati interni che potresti valutare: per piccole partite IVA c’è il forfait 15% (5% start-up), per redditi di beni immateriali c’è il Patent Box, per PMI c’è la tassazione per cassa o l’IRI (se reintrodotta), ecc.. Ci sono modi leciti di ridurre il carico fiscale senza fingere di essere all’estero. Naturalmente, se hai un business genuinamente internazionale e puoi scegliere dove basarlo, sei libero di scegliere un paese efficiente – ma devi stabilirti davvero lì con mezzi e sostanza. In conclusione: fare esterovestizione “fai-da-te” è oggi una strategia obsoleta e pericolosa. Vale la pena avere società all’estero solo se accompagnate da reale sostanza estera; altrimenti, i rischi superano di gran lunga i benefici.

Linee guida pratiche (prevenzione e check-list difensiva)

Di seguito presentiamo una check-list in punti per aiutare imprenditori e professionisti sia sul fronte preventivo (quando valutano o intraprendono strutture estere) sia sul fronte difensivo (in caso di verifica o contenzioso in corso). Si tratta di accorgimenti pratici e suggerimenti operativi derivanti dall’esperienza:

1. Prevenzione: assicurare sostanza economica all’estero

  • Substance over form: assicurati che la sostanza segua la forma. Se decidi di stabilire una società all’estero, predisponi una reale struttura operativa in loco: un ufficio vero (non solo un indirizzo virtuale), personale o collaboratori locali, un manager residente che prenda decisioni quotidiane. Documenta puntualmente tutte le attività svolte all’estero (rapporti, progetti, incontri). Più tangibile e autonoma è la presenza all’estero, minore il rischio che il Fisco la qualifichi come “esterovestizione”.
  • Evitare strutture di puro artificio: se l’entità estera è passiva (tipo holding, sub-holding, società immobiliare), valuta attentamente se ha un ruolo economico effettivo. Se il suo unico scopo è fiscale, sei nella “zona rossa” dell’abuso. Prova a darle anche compiti funzionali concreti: ad esempio, una holding estera potrebbe occuparsi di treasury finanziaria del gruppo, di R&D condiviso, di centralizzare acquisti per filiali – qualunque attività genuina che giustifichi la sua esistenza oltre all’incasso di dividendi. Naturalmente ciò va implementato realmente, non solo a parole.
  • Non abusare di prestanome locali: nominare amministratori locali solo pro forma è controproducente. Se hai partner o dirigenti esteri di fiducia, includili davvero nella governance e delega loro alcune decisioni operative. Un CdA misto con ruoli reali è meglio di un CdA italiano mascherato. Inoltre, se sei tu amministratore, organizza la tua agenda in modo da trascorrere periodi significativi nel paese estero per seguire l’azienda: trasferte frequenti e magari periodi prolungati presso la sede estera (se riesci, oltre 183 giorni/anno così da invertire anche eventuali presunzioni di residenza come persona fisica). Conserva biglietti aerei, ricevute di soggiorno – sono prove semplici ma efficaci della tua presenza fuori dall’Italia.
  • Separare nettamente le attività italiane ed estere: non gestire dall’Italia ciò che formalmente appartiene alla società estera. Ad esempio, non firmare contratti della società estera mentre ti trovi in Italia (se proprio devi, fallo con una procura notarile localizzata all’estero). Se scambi email, cerca di utilizzare infrastrutture coerenti: un trucco può essere usare server di posta situati nel paese estero per la corrispondenza aziendale, così gli header IP risultano di lì (non è per barare, ma per coerenza – se tutto il traffico passa per server italiani, emerge subito un indizio di gestione dall’Italia).
  • Transfer pricing equilibrato: nei gruppi internazionali, se la società estera presta servizi o vende beni a quella italiana, applica correttamente il transfer pricing (prezzi di mercato) per evitare rettifiche. Specularmente, se l’italiana fa praticamente tutto e l’estera è solo una holding che raccoglie utili, non c’è vero transfer pricing da applicare ma quello è un sintomo di interposizione (cioè l’estera non aggiunge valore, quindi è uno schermo). In ogni caso, fai analizzare le operazioni intercompany: prezzi fuori mercato o remunerazioni anomale destano sospetti di spostamento di utili all’estero e possono essere corretti d’ufficio dall’Agenzia.
  • Attenzione alle giurisdizioni scelte: anche se le “black list” formali del TUIR sono in parte abrogate, restano liste usate a fini antielusivi (es. la lista dei paradisi fiscali per la presunzione di residenza delle persone fisiche, o per le CFC). Stabilire sedi in paradisi fiscali noti (Panama, Isole Vergini, etc.) ti mette immediatamente sotto la lente del Fisco. Se devi scegliere una giurisdizione, meglio paesi con fiscalità normale e accordi con l’Italia. Ad esempio, una società a Dubai è ad alto rischio (Emirati con imposte quasi nulle e scambio info finora limitato), mentre una società in Irlanda o UK, se ben strutturata, è più difendibile (tasse non zero, cooperazione piena – in tal caso la verifica verte sulla sostanza, non sul fatto di essere in blacklist). Attenzione anche alle Free Zone: se apri in una zona franca che dà esenzione totale, potresti far scattare la disciplina CFC o comunque essere considerato a fiscalità privilegiata. Insomma, scegli giurisdizioni “white list” e cooperative quando possibile.
  • Considera entità non societarie: l’art. 73 co.5-bis si applica anche a enti diversi dalle società (trust, fondazioni) se presentano quelle caratteristiche (controllo di entità italiane, ecc.). Quindi, non pensare di eludere la norma costituendo ad esempio un trust alle Bahamas: se dietro ci sono italiani e asset italiani, sei nei guai uguale, anzi forse peggio (perché i trust off-shore fanno scattare anche la presunzione di cui al comma 3, trust in paesi black list con disponente e beneficiario italiani). In sintesi: qualunque forma giuridica scegli, se la sostanza è elusiva il rischio rimane.

2. Documentazione difensiva permanente

  • Crea un dossier di difesa dal Day-1: se operi con società estere, predisponi fin dall’inizio un fascicolo permanente dove raccogli tutte le evidenze della sostanza estera. Dentro ci vanno: visura locale della società, organigramma con ruoli e nazionalità, contratto di sede (affitto o domiciliazione) con relative bollette e foto dei locali, contratti di lavoro dipendenti o consulenti esteri, copia di biglietti aerei e ricevute di viaggio per riunioni all’estero, calendari di meeting, materiale pubblicitario o sito web che mostri l’attività locale, e così via. Questo dossier va tenuto aggiornato anno per anno.
  • Verbali societari accurati: redigi sempre i verbali di assemblea e CdA indicando chiaramente il luogo (estero) in cui si svolgono, i partecipanti presenti fisicamente e quelli in teleconferenza. Se possibile, fai presenziare un notaio o testimoni locali per dare ufficialità. Conserva i registri sociali e assicurati che siano timbrati/localizzati nel paese estero.
  • Contabilità e fiscale locale in ordine: adempi scrupolosamente a tutti gli obblighi fiscali nel paese estero (dichiarazioni, versamenti). La presenza di dichiarazioni dei redditi e bilanci depositati all’estero, anche se con imposte modeste, mostra che la società ha rispettato la legge locale (evitando che si dica “non ha quasi pagato tasse perché non ha attività”).
  • Comunicazioni interne ed esterne: utilizza carta intestata con indirizzo estero, numeri di telefono esteri, server email localizzati come detto. Ogni dettaglio comunicativo deve essere coerente con l’immagine di una società che opera veramente da quel paese.
  • Consulenza preventiva: valuta di far fare una review annuale ad un fiscalista esperto (anche italiano) delle tue strutture estere: un check-up che evidenzi eventuali punti deboli da correggere prima che li trovi l’Agenzia. Ad esempio, se quell’anno la maggior parte degli amministratori era in Italia, magari fai ruotare la carica di presidente CdA su un estero l’anno seguente, ecc. Insomma, un audit interno di residenza per essere pronti.

3. In caso di accertamento (gestione della verifica e del contenzioso)

  • Non sottovalutare la verifica: se ricevi un questionario o PVC (Processo Verbale di Constatazione) in tema di esterovestizione, attivati immediatamente con il tuo commercialista e un avvocato tributarista esperto in fiscalità internazionale. Sono questioni delicate, da seguire professionalmente. Fornisci collaborazione all’ufficio, ma in modo mirato: rispondi per iscritto in maniera precisa e completa, allegando i documenti richiesti e magari qualcun altro strategico che possa chiarire dubbi (qui torna utile il dossier preparato ex ante).
  • Contraddittorio e spiegazioni orali: chiedi (o comunque non rifiutare) un incontro di contraddittorio con l’ufficio per spiegare la tua posizione. Questo è il momento per illustrare il business rationale della struttura estera: evidenzia motivazioni economiche non fiscali (penetrazione di un mercato estero, vicinanza a clienti internazionali, ricerca di investitori stranieri, tutela legale particolare). L’obiettivo è mostrare che non c’era solo un motivo fiscale e che comunque l’operatività all’estero è stata reale e “alla luce del sole”. Se riesci a instillare nell’ufficio il dubbio che la struttura avesse una logica di business sensata e che non hai nascosto nulla, potresti orientarlo a chiudere con esito parziale o a ridurre l’aggressività (ad esempio limitandosi a una sola annualità anziché tutte).
  • Verifica dei vizi dell’accertamento: fai controllare al tuo difensore se l’accertamento rispetta tutte le regole formali. Ad esempio, se la società era in UE e l’accertamento si fonda su abuso del diritto, forse era obbligatorio il contraddittorio preventivo e l’ufficio non l’ha fatto (in alcuni casi ciò può far annullare l’atto). Oppure controlla la delega di firma del funzionario che ha firmato l’avviso, eventuali errori di notifica, ecc. Questi vizi procedurali possono offrire appigli di annullamento indipendenti dal merito.
  • Valutare sanatorie o definizioni: tieni d’occhio se il legislatore apre finestre di definizione agevolata durante il contenzioso. Negli ultimi anni ci sono state possibilità di chiudere le liti pendenti con sconti (es. la “definizione delle controversie tributarie pendenti” del 2023 con pagamento ridotto delle sanzioni). Se sei nel bel mezzo di un processo e arriva un’offerta di pace fiscale, valuta seriamente di aderire: pagherai qualcosa ma toglierai l’incertezza e soprattutto mitigherai i rischi penali (pagare, anche se in forma ridotta, aiuta in sede penale per estinguere il reato). Molti con cause di esterovestizione lo hanno fatto.
  • Gestione del contenzioso: se vai avanti in Commissione (Corte Giustizia Trib.), prepara un ricorso molto dettagliato, magari supportato da perizie tecniche (es. perizia di un esperto estero che attesta dov’era la direzione effettiva). In udienza, insisti sull’assenza di intento fraudolento e sulla sostanza economica di ciò che hai fatto. Considera di proporre una conciliazione giudiziale: l’Agenzia spesso preferisce chiudere in appello con un compromesso (pagamento imposte, sanzioni ridotte al 50%). Non scartare questa opzione se il giudizio è incerto: ti eviti il rischio Cassazione e dimezzi le sanzioni.

4. Strumenti preventivi e cooperative compliance

  • Interpello anti-abuso (limiti): Formalmente, l’esterovestizione rientra nelle elusioni specifiche escluse dall’interpello anti-abuso generale (art. 10-bis c.13, lett. c) Statuto). Quindi non puoi chiedere all’Agenzia “se faccio questa struttura estera, è ok?”. Tuttavia, per operazioni transnazionali complesse dove il confine di residenza è labile, puoi provare a consultarti informalmente con l’Agenzia: ad esempio, se sei un grande gruppo, puoi richiedere un pre-filing o un incontro nell’ambito dell’adempimento collaborativo (cooperative compliance) se aderente. Non aspettarti risposte scritte su “dove sarà la sede effettiva”, ma un confronto con l’ufficio grandi contribuenti può darti un’idea di come vedono la struttura e magari orientarti a modificarla.
  • Ruling nuovi investimenti: se stai investendo almeno 15-20 milioni in Italia in un progetto internazionale, puoi utilizzare il ruling per nuovi investimenti (art. 2 D.Lgs. 147/2015) per ottenere dall’Agenzia un parere su vari aspetti fiscali connessi. Questo può includere anche chiarimenti sulla residenza delle società coinvolte. È uno strumento poco usato, riservato a operazioni di una certa dimensione, ma ha il vantaggio di vincolare l’Agenzia alla risposta data.
  • Adempimento collaborativo: se la tua azienda è molto grande (fatturato > €1 mld, o soglie inferiori per progetti pilota), puoi aderire al regime di cooperative compliance. In quel contesto di trasparenza totale con l’Agenzia, puoi discutere a priori anche di eventuali rischi di esterovestizione nelle tue strutture e ottenere un “comfort” su come gestirle. È un approccio avanzato che evita a monte il contenzioso, ma richiede grande disclosure e compliance.

5. Se hai dubbi sulla regolarità: meglio rientrare o regolarizzare

  • Valuta il rientro volontario: se ti rendi conto che la tua società estera non ha più una valida ragione economica e rappresenta ormai un rischio fiscale, considera di chiuderla o trasferirla in Italia spontaneamente. Ad esempio, liquida la holding estera e riporta gli asset sotto una holding italiana, pagando eventualmente le imposte correnti sulle plusvalenze (meglio oggi che con sanzioni domani). Farlo prima che parta un accertamento è sempre meglio. In passato ci sono state due edizioni di Voluntary Disclosure (2015 e 2017) per regolarizzare attività estere non dichiarate, incluse partecipazioni in società esterovestite: hanno permesso di sanare pagando imposte e interessi, con sanzioni ridotte e di solito senza conseguenze penali. Non sappiamo se in futuro riproporranno una VD, ma se dovesse capitare un’altra finestra di “scudo fiscale” e tu ti trovassi in situazione irregolare, cogli l’opportunità. Dopo una regolarizzazione volontaria è più difficile che quell’annualità venga contestata come esterovestizione (hai già autodenunciato e pagato).
  • Gestione rischi penali: sul fronte penale, se sei già sotto indagine per esterovestizione (omessa dichiarazione, ecc.), la miglior difesa è pagare il dovuto (o far pagare alla società) prima che arrivi la sentenza di primo grado: così, ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000, i reati di omessa o infedele dichiarazione si estingueranno. In altre parole, salvi te stesso dalla condanna penale pagando integralmente le imposte evase e relativi interessi (le sanzioni amministrative se paghi tutto vengono condonate penalmente). Anche il patteggiamento penale è più facile se hai già risolto il debito col Fisco. Bisogna quindi coordinare la difesa tributaria con quella penale: spesso conviene risolvere il contenzioso tributario transando e mettendosi in regola col Fisco, per poi beneficiare della non punibilità penale.
  • Reputazione e altri effetti collaterali: valuta anche gli effetti indiretti. Una contestazione di esterovestizione può finire sulla stampa, danneggiando la tua reputazione professionale o quella della tua azienda (clienti e partner potrebbero vedere la cosa negativamente). Inoltre, pensa alle implicazioni future: se volevi partecipare a gare pubbliche, ottenere finanziamenti, ecc., un precedente del genere potrebbe complicare le cose. Quindi, meglio prevenire l’esterovestizione o, se commessa, regolarizzarla per tempo, così da non avere macchie nel curriculum fiscale.

Conclusione: operare con strutture estere è possibile e lecito, ma richiede consapevolezza e cautela. La normativa italiana (aggiornata al 2025) offre criteri chiari su cosa costituisce residenza fiscale e prevede strumenti efficaci per contrastare le esterovestizioni. Dal canto suo, il contribuente ha mezzi per difendersi, ma la miglior strategia resta quella di dare sostanza alle proprie scelte imprenditoriali ed evitare costruzioni artificiali. Speriamo che questa guida abbia fornito un quadro completo e degli strumenti utili per navigare in sicurezza tra le complesse acque della fiscalità internazionale e della residenza societaria.

Fonti

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), art. 73 (definizione di residenza fiscale società) e commi 5-bis, 5-quater (presunzioni anti-esterovestizione).
  • D.Lgs. 29 dicembre 2023, n. 209 – “Decreto sulla Fiscalità Internazionale” (riforma art. 73 TUIR dal 2024: criteri di collegamento, definizione di sede effettiva e gestione ordinaria).
  • Agenzia Entrate – Circolare n. 20/E del 4 novembre 2024, “Residenza fiscale delle persone fisiche, delle società ed enti – Chiarimenti alle novità del D.Lgs. 209/2023” (istruzioni agli uffici su criteri di collegamento, esempio definizione di sede effettiva).
  • Cassazione Civile, Sez. Trib. ord. n. 23225 del 25/07/2022 – Principio di diritto: criteri art.73 TUIR determinano la residenza indipendentemente da finalità elusive.
  • Cassazione Civile, Sez. Trib. nn. 11709 e 11710 del 2022 – Confermano che l’esterovestizione non richiede la prova dell’indebito vantaggio fiscale (non rientra nell’abuso del diritto).
  • Cassazione Civ., Sez. Trib. nn. 5066 e 5075 del 17/02/2023 – Casi di esterovestizione in ambito UE (soc. slovacca): la Corte rileva che la libertà di stabilimento non copre costruzioni di puro artificio finalizzate solo al risparmio d’imposta.
  • Corte di Giustizia UE, sentenza 12/09/2006, C-196/04, Cadbury Schweppes – Definisce il concetto di stabilimento “fittizio” in ambito UE: uno Stato membro può negare benefici fiscali (CFC rule) solo se la società estera è una costruzione artificiosa priva di sostanza economica reale.
  • Cassazione Civ., Sez. Trib. n. 16697 del 21/06/2019 – Caso di holding estera (trust company) controllata da italiani: confermata esterovestizione, sottolineando valutazione globale degli indizi.
  • Cassazione Civ., Sez. Trib. n. 1301 del 20/01/2025 – (Massima) Ribadisce che la presunzione art.73 co.5-bis TUIR limita il campo alle società estere holding di partecipazioni in società italiane.
  • Cassazione Civ., Sez. Trib. n. 2458 dell’01/02/2025 – Esterovestizione (società in Antille Olandesi controllata da italiani): Cassazione censura la CTR che aveva considerato solo il certificato di residenza estero ignorando plurimi indizi di direzione in Italia.
  • Cassazione Civ., Sez. Trib. n. 23150 del 25/07/2022 – Notifica come l’esterovestizione non è inquadrabile come abuso del diritto ex art.10-bis L.212/2000 e non richiede dunque la prova di un vantaggio fiscale specifico (nota in Rivista Dir. Trib. 2023).
  • Cassazione Civ., Sez. Trib. n. 14485 del 28/07/2024 – Conferimento di immobile a società UK e successiva vendita quote: operazione riqualificata come elusiva (esterovestizione di bene immobile), richieste imposte di registro in Italia.
  • Cassazione Civ., Sez. VI, n. 11245 del 23/04/2019 – IVIE su casa di lusso a Montecarlo intestata a società estera: riconosciuta esterovestizione fittizia e tassazione in capo al contribuente italiano.
  • Agenzia Entrate – Circolare n. 28/E del 4 agosto 2006, §3 – Chiarimenti introduttivi sull’art.73 co.5-bis TUIR (come modificato dal D.L. 223/2006): ratio anti-abuso e onere della prova a carico del contribuente (citata in Relazione gov. 2006).

La tua società ha sede all’estero, ma il Fisco italiano contesta l’esterovestizione? Fatti Aiutare da Studio Monardo

L’Agenzia delle Entrate sta intensificando i controlli sulle società costituite all’estero ma riconducibili a soggetti italiani, applicando la presunzione di residenza fiscale in Italia.
Se non dimostri il contrario, rischi che la tua società venga considerata fiscalmente residente in Italia, con tassazione integrale e sanzioni pesanti.


Quando una società è fiscalmente residente in Italia?

Secondo la normativa italiana, una società è considerata residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta, ha:

  • 📍 La sede legale o amministrativa nel territorio dello Stato
  • 🧠 Il centro effettivo di direzione e gestione in Italia
  • 🔍 L’amministrazione svolta, di fatto, da soggetti residenti in Italia
  • 📊 L’attività operativa o le decisioni strategiche prese sul suolo italiano

Questi elementi possono valere anche per società estere: è qui che scatta la presunzione di esterovestizione.


Cos’è la presunzione di esterovestizione?

È una presunzione legale relativa secondo cui le società estere con:

  • 📍 Sede legale in Paesi a fiscalità privilegiata (black list)
  • 📋 Amministratori residenti in Italia
  • 🏦 Conti correnti o rapporti bancari gestiti dall’Italia
  • 💼 Struttura o attività che ruota intorno a soggetti italiani

possono essere considerate, per il Fisco, società fittizie, costituite al solo fine di eludere la tassazione italiana.


Quali sono i rischi in caso di accertamento per esterovestizione?

  • ⚠️ Tassazione in Italia dei redditi prodotti all’estero
  • 💰 Imposizione su 5 anni precedenti, con sanzioni fino al 240%
  • 🧾 Contestazione di distribuzione occulta di utili e compensi
  • 🚫 Pignoramenti, ipoteche e responsabilità patrimoniali per soci e amministratori
  • ⚖️ Rischio penale per dichiarazione infedele, omessa o fraudolenta

Come difendersi dalla presunzione di esterovestizione?

  1. 📂 Documenta l’effettiva operatività della società nello Stato estero
  2. 🏢 Dimostra che le decisioni societarie vengono prese all’estero
  3. 👥 Verifica la residenza fiscale degli amministratori reali
  4. 🧾 Organizza una difesa tecnica con prove concrete e tracciabili
  5. ⚖️ Presenta una memoria difensiva o un ricorso ben strutturato

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📑 Analizza lo statuto e la governance della tua società estera
📂 Ricostruisce il quadro delle attività, dei flussi e della gestione
✍️ Redige memorie difensive o ricorsi tributari contro l’esterovestizione
⚖️ Ti rappresenta nei procedimenti dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria
🔁 Ti assiste nella pianificazione fiscale internazionale per evitare futuri accertamenti


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e residenza delle società
✔️ Consulente per esterovestizione e abuso del diritto
✔️ Iscritto come Gestore della crisi d’impresa al Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per imprenditori, holding familiari e società costituite all’estero


Conclusione

La residenza fiscale delle società è una delle aree più controverse del diritto tributario. Ma con una difesa documentata e tempestiva puoi dimostrare la legittimità della tua struttura estera.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, affronti le contestazioni di esterovestizione con una strategia completa e professionale.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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