Hai ricevuto un accertamento per fatture false e ti stai chiedendo cosa significa, quali rischi corri e come puoi difenderti concretamente? L’Agenzia delle Entrate ti contesta l’utilizzo o l’emissione di fatture inesistenti e ti accusa di evasione fiscale?
Le fatture false sono tra le violazioni più gravi nel diritto tributario: possono generare accertamenti fiscali pesanti e persino denunce penali. Ma non ogni contestazione è fondata, e difendersi è possibile, se conosci le prove da opporre e i punti deboli dell’accertamento.
Cos’è una fattura falsa secondo il Fisco?
– Una fattura che riguarda operazioni mai avvenute, totalmente o parzialmente
– Può trattarsi di soggetti fittizi, prestazioni non eseguite, importi gonfiati, date retrodatate o numerazioni incoerenti
– Il Fisco distingue tra fatture soggettivamente false (emesse da un soggetto diverso da chi ha realmente eseguito l’operazione) e oggettivamente false (relative a operazioni mai avvenute)
Cosa può contestarti l’Agenzia delle Entrate?
– Indebita detrazione IVA per fatture passive false
– Evasione d’imposta sul reddito, per costi non deducibili
– Emissione di fatture false, se hai emesso documenti per operazioni inesistenti
– Concorso in frode, se sei legato a un sistema organizzato di false fatturazioni
– In certi casi, può avviare procedimenti penali per dichiarazione fraudolenta o emissione di documenti falsi
Come si può difendere chi riceve un accertamento per fatture false?
– Dimostrando l’effettiva esistenza dell’operazione con contratti, DDT, email, bonifici, testimonianze
– Provando che l’operazione è reale anche se il fornitore è contestato dal Fisco
– Contestando che non vi era conoscenza o volontà di partecipare a un sistema fraudolento
– Attaccando le presunzioni dell’Agenzia, che spesso si basano solo su indagini su altri soggetti
– Richiedendo l’accesso agli atti e analizzando i processi verbali di constatazione per eventuali vizi
Quando una fattura non è falsa anche se il Fisco lo sostiene?
– Quando l’operazione è realmente avvenuta, ma solo il soggetto emittente ha avuto problemi
– Quando non vi è prova dell’intento fraudolento o della conoscenza della falsità
– Quando la prestazione o la consegna dei beni può essere provata con tracciabilità documentale
– Quando non c’è alcun vantaggio fiscale ottenuto o il vantaggio è minimo rispetto all’imposta regolarmente versata
Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare l’accertamento: dopo 60 giorni diventa definitivo e partono le sanzioni
– Tentare di “spiegare tutto” a parole senza prove: serve documentazione concreta
– Firmare un verbale senza leggere o accettare una definizione automatica: potresti ammettere la frode
– Agire senza il supporto di un avvocato esperto in contenzioso tributario e penale: in questi casi la difesa è tecnica e strategica
Un’accusa di fatture false può essere smontata. Ma serve una difesa mirata, basata su fatti, documenti e diritto.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa da accuse di frode fiscale – ti spiega quando una fattura è davvero falsa, come contestare un accertamento e quali strategie usare per proteggere la tua posizione.
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Introduzione
Le cosiddette fatture per operazioni inesistenti – comunemente note come fatture false – rappresentano uno dei rischi più insidiosi in ambito fiscale e penale per imprese e professionisti. Si tratta di fatture emesse a fronte di operazioni mai realizzate (in tutto o in parte) o effettuate da soggetti diversi da quelli indicati nei documenti. Tali pratiche vengono spesso utilizzate per ottenere indebiti vantaggi fiscali (es. IVA detratta senza diritto o costi fittizi dedotti) e sono oggetto di severe sanzioni amministrative e persino di reati tributari specifici. Affrontare con successo un’accusa di false fatturazioni richiede un approccio strutturato e avanzato, che unisca conoscenza normativa approfondita, riferimenti giurisprudenziali aggiornati, strategia difensiva tecnica e raccolta accurata di prove.
In questa guida – aggiornata a giugno 2025 con le ultime novità normative e sentenze – esamineremo come difendersi efficacemente da contestazioni relative a fatture false, dal punto di vista del contribuente (debitore) che subisce l’accertamento. La trattazione avrà un taglio operativo e giuridico avanzato (adatto a professionisti legali e fiscali, imprenditori e contribuenti consapevoli), ma con un linguaggio chiaro. Copriremo sia i profili tributari (accertamenti dell’Agenzia delle Entrate, contenzioso nelle Corti di Giustizia Tributaria) sia i profili penali (reati ex D.Lgs. 74/2000, procedimento penale), includendo riferimenti a norme italiane, alle più recenti pronunce giurisprudenziali autorevoli, alle strategie difensive tecniche e alle possibili soluzioni (come il ravvedimento operoso). Troverete inoltre tabelle riepilogative dei concetti chiave, una sezione di domande e risposte (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni, e alcune simulazioni pratiche di casi reali tipici, per comprendere in concreto come applicare i principi esposti.
Importante: Tutte le fonti normative e giurisprudenziali menzionate sono elencate nell’ultima sezione (“Fonti e riferimenti”) per consentire ulteriori approfondimenti. Il fine ultimo è fornire al debitore-contribuente una panoramica completa e aggiornata dei propri diritti e strumenti di tutela, e al professionista una base solida di riferimenti normativi e giurisprudenziali per impostare una difesa efficace in materia di fatture false.
Cosa si intende per “operazioni inesistenti”
In ambito fiscale, il termine operazioni inesistenti identifica quelle operazioni economiche (cessioni di beni o prestazioni di servizi) che in realtà non sono mai avvenute – del tutto o in parte – oppure che sono avvenute tra soggetti diversi da quelli indicati nei documenti fiscali. In poche parole, parliamo di fatture false: documenti emessi allo scopo di simulare operazioni fittizie, tipicamente per generare vantaggi fiscali indebiti (ad esempio, detrarre indebitamente l’IVA o dedurre costi mai sostenuti). La normativa e la giurisprudenza italiane distinguono principalmente due tipologie di falsità nelle operazioni, con caratteristiche e implicazioni diverse:
- Operazioni oggettivamente inesistenti – L’operazione descritta in fattura non è mai avvenuta nella realtà. La fattura è completamente falsa perché documenta una cessione di beni o un servizio che non si è mai verificato: i beni non sono stati consegnati, il servizio non è stato reso. Esempio tipico: Tizio emette fattura a Caio per una consulenza che in realtà non ha mai svolto, oppure Alfa Srl fattura a Beta Srl la vendita di macchinari che non sono mai stati né venduti né consegnati. In questi casi, il documento fiscale è falso in toto, attestando eventi economici inesistenti sotto ogni profilo. Chi utilizza queste fatture crea costi fittizi (abbattendo l’utile imponibile) e crediti IVA fittizi; chi le emette di solito lo fa dietro compenso, consentendo al destinatario di evadere imposte, senza alcuna reale movimentazione di beni o servizi.
- Operazioni soggettivamente inesistenti – In questo caso un’operazione economica è avvenuta realmente, ma tra soggetti diversi da quelli riportati in fattura. Di solito lo schema è: un determinato bene o servizio viene effettivamente ceduto al destinatario finale, ma la fattura viene emessa da un soggetto interposto (spesso una società cartiera o un prestanome) che formalmente figura come fornitore, pur non avendo svolto alcun ruolo effettivo. In sostanza, la fattura è “falsa soggettivamente” perché il cedente/prestatore indicato non è il vero operatore economico che ha effettuato la prestazione. Un esempio classico è la “frode carosello”: la società Alfa acquista beni all’estero e li rivende a Beta; per evadere l’IVA, inserisce fittiziamente un soggetto intermedio (la cartiera Gamma) che emette fattura a Beta. Beta riceve effettivamente la merce, ma la fattura proviene da Gamma (che non ha svolto alcuna attività reale, se non “di carta”). Un altro esempio: un’impresa effettua lavori in subappalto tramite ditte non autorizzate o pagate in nero, ma per dedurre i costi e detrarre l’IVA si procura fatture da una ditta compiacente che non ha eseguito i lavori. In tutti questi casi l’operazione economica c’è stata (beni consegnati o servizi resi), ma non con il soggetto indicato in fattura.
Esistono poi situazioni intermedie o parzialmente inesistenti: ad esempio quando la fattura indica importi superiori al reale (sovrafatturazione) oppure descrive beni/servizi diversi da quelli effettivamente forniti, con lo scopo di gonfiare i costi deducibili. In tal caso la fattura è considerata falsa limitatamente alla parte non veritiera (per l’importo o la qualità non corrispondente al vero). Dal punto di vista fiscale, anche la sovrafatturazione viene assimilata alle operazioni inesistenti per la parte fittizia: l’IVA relativa alla maggiorazione indebita non corrisponde a una reale operazione imponibile ed è quindi indetraibile, mentre la quota di costo eccedente il reale non è deducibile in quanto priva di effettiva inerenza.
Di seguito una tabella riepilogativa delle differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti:
Caratteristica | Oggettivamente inesistente | Soggettivamente inesistente |
---|---|---|
Esistenza dell’operazione | Nessuna operazione reale (bene/servizio mai scambiato) | Operazione reale avvenuta, ma con un soggetto diverso da quello in fattura |
Falsità della fattura | Totale – documento interamente fittizio | Parziale – falso il soggetto emittente (il cedente/prestatore indicato non è quello reale) |
Esempio tipico | Fattura per merce mai consegnata o servizio mai reso | Fattura emessa da una società “cartiera” per coprire un’operazione svolta da un altro fornitore effettivo |
Scopo fiscale | Creare ex novo costi fittizi e crediti IVA a credito (evasione totale) | Detrarre costi reali e relativa IVA, occultando però il vero fornitore (spesso un evasore IVA) |
Deducibilità dei costi | NO – costi totalmente fittizi, indeducibili | SÌ in linea di principio se il costo è reale e inerente (anche se il fornitore in fattura è fittizio), ma soggetto a condizioni e sospensioni (vedi testo) |
Detraibilità dell’IVA | NO – IVA indetraibile (operazione mai avvenuta) | NO in via generale – IVA indetraibile perché versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa, salvo prova di totale buona fede del cessionario (vedi oltre) |
Prova richiesta al Fisco | Dimostrare (anche per presunzioni gravi) che l’operazione non è avvenuta | Dimostrare che il fornitore è fittizio e che l’acquirente era consapevole della frode (o che avrebbe dovuto accorgersene) |
Difesa del contribuente | Provare che l’operazione c’è stata davvero (es. consegna beni, utilizzo nei processi aziendali, testimonianze) | Provare di aver agito con buona fede e massima diligenza, essendo stato ignaro della frode (nonché provare la sostanza effettiva dell’operazione) |
Nota: la questione della deducibilità dei costi nelle operazioni soggettivamente inesistenti è complessa. In generale, la Cassazione ha affermato che se il costo è effettivamente sostenuto e inerente, esso può essere dedotto ai fini delle imposte sui redditi anche se la fattura proviene da un soggetto fittizio (differenziando l’IVA dai costi ai fini IRPEF/IRES). Viceversa, nessun costo è deducibile se l’operazione è oggettivamente inesistente (mancando qualsiasi esborso reale). Tuttavia, entra in gioco l’art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993 (come vedremo più avanti): se il contribuente viene rinviato a giudizio per reati tributari dolosi legati a quelle fatture, i relativi costi vengono “congelati” e resi temporaneamente indeducibili in quanto costi da reato. Solo in caso di successiva assoluzione piena, tali costi potranno ri-diventare deducibili e l’azienda ha diritto al rimborso delle imposte pagate su di essi.
Normativa di riferimento
Per impostare una difesa adeguata, è fondamentale conoscere le principali norme italiane che disciplinano le fatture false, sia sul piano tributario (recupero delle imposte e sanzioni amministrative) sia sul piano penale (reati tributari connessi). Di seguito presentiamo un quadro dei riferimenti normativi chiave, evidenziando anche le modifiche più recenti:
Normativa tributaria (accertamento e sanzioni amministrative)
- D.P.R. 633/1972 (Decreto IVA), art. 21 comma 7: dispone il principio cardine secondo cui “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, l’IVA è dovuta per l’intero ammontare indicato in fattura”. In altre parole, anche se l’operazione fatturata non è reale, l’emittente della fattura falsa resta debitore d’imposta verso l’Erario per tutta l’IVA indicata (come se avesse realmente effettuato la cessione); d’altro canto, l’IVA esposta in tale fattura non è detraibile per il destinatario. La norma “isola” quindi l’IVA afferente a fatture inesistenti, escludendola dal normale meccanismo di rivalsa e detrazione: il Fisco incassa comunque l’IVA dall’emittente, ma nega il credito al cessionario. Si attua così il principio di cartolarità dell’IVA: la fattura, per il solo fatto di essere emessa, diventa titolo per l’imposta indicata, anche a prescindere dalla reale esecuzione dell’operazione. In sintesi, una fattura falsa non produce effetti ai fini della detrazione o deduzione per chi la riceve, ma fa comunque sorgere l’obbligo di versare l’IVA a carico di chi l’ha emessa.
- D.P.R. 633/1972, art. 54 comma 2: norma sull’accertamento IVA che consente all’Amministrazione finanziaria di rettificare la dichiarazione IVA del contribuente anche sulla base di presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti. Questo potere istruttorio è cruciale nelle contestazioni di fatture false: l’ufficio può fondare l’atto impositivo su indizi (es. mancanza di movimentazione bancaria reale, fornitore irreperibile, incongruenze nei documenti di trasporto) che, se dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, invertono l’onere della prova a carico del contribuente. In presenza di tali presunzioni qualificate, infatti, scatta il principio (confermato anche per le imposte sui redditi, v. art. 39 DPR 600/1973 infra) per cui sarà il contribuente a dover fornire la prova contraria.
- D.P.R. 600/1973, art. 39 comma 1 lett. d): analogo al precedente ma in ambito imposte sui redditi. Consente al Fisco di determinare induttivamente il reddito imponibile basandosi su presunzioni semplici (gravi, precise e concordanti) in caso di contabilità inattendibile o elementi fittizi. L’utilizzo di fatture false rientra tipicamente in questa fattispecie: se l’ufficio prova con indizi che certi costi dedotti sono fittizi, li può riprendere a tassazione aumentando il reddito dichiarato. Anche qui, presunzioni forti comportano inversione dell’onere probatorio: il contribuente dovrà dimostrare la legittimità dei costi dichiarati. In pratica, l’art. 39 DPR 600 e l’art. 54 DPR 633 operano di concerto come base legale per gli accertamenti su fatture false.
- Legge 537/1993, art. 14 comma 4-bis (costi da reato indeducibili): introdotta nel 1993 e modificata dal D.L. 16/2012, prevede che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività costituenti reato non colposo, per il quale sia esercitata l’azione penale”. In pratica, se un costo aziendale è legato a un reato doloso e il contribuente è formalmente imputato per quel reato (rinvio a giudizio, patteggiamento, ecc.), tale costo diviene indeducibile ai fini fiscali. L’utilizzo di fatture false configura un reato doloso tributario; pertanto, i costi fittizi relativi rientrano in questo divieto se è iniziato un procedimento penale a carico del contribuente. La norma però prevede che, in caso di assoluzione con sentenza definitiva, al contribuente spetti il rimborso delle maggiori imposte versate a causa della mancata deduzione di quei costi. Inoltre, sempre col D.L. 16/2012, è stato precisato che nell’accertamento dei redditi “non concorrono a formare il reddito […] i componenti positivi afferenti a spese relative a beni o servizi non effettivamente scambiati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione”. Ciò per evitare una doppia tassazione: quando il Fisco nega la deduzione di un costo inesistente, non deve aggiungere un ricavo fittizio corrispondente (impedendo di tassare due volte lo stesso fatto). In sintesi, l’art. 14 co.4-bis opera come norma di salvaguardia: finché pende un processo penale per frode fiscale, i costi sospetti restano esclusi; se poi il processo si chiude con proscioglimento, quei costi potranno essere dedotti e le imposte restituite. Se invece c’è condanna definitiva, l’indeducibilità diventa permanente (il costo è definitivamente “da reato” e resta fuori dal reddito imponibile).
- D.L. 2 marzo 2012 n. 16 (conv. L. 44/2012): ha integrato il quadro normativo chiarendo proprio gli aspetti suddetti. L’art. 8 di questo decreto ha riscritto l’art. 14 co.4-bis L.537/93 e introdotto esplicitamente la regola per cui, ai fini dell’accertamento, “non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese […] relative a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione”. È stata così codificata la gestione fiscale delle operazioni oggettivamente inesistenti: il Fisco disconosce il costo fittizio (aumentando il reddito di pari importo) e applica una sanzione amministrativa del 25%–50% su tale componente fittizio, ma non considera come ricavo omesso un importo corrispondente (evitando di ipotizzare una “vendita in nero” speculare). Ad esempio, se un’azienda registra un acquisto mai avvenuto per 100, l’Ufficio aumenterà il reddito di 100 (togliendo il costo) e applicherà la sanzione pecuniaria del 25–50% su 100, ma non aggiungerà ulteriori ricavi presunti. Questa norma recepisce un orientamento giurisprudenziale garantista, finalizzato a evitare duplicazioni impositive e a punire l’evasione in modo proporzionato al fatto.
Normativa penale (reati tributari e sanzioni)
L’utilizzo e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti integrano specifiche fattispecie di reato tributario, previste dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (la “legge penale tributaria”). Questi reati mirano a sanzionare sia chi si avvale di documenti falsi per evadere le imposte, sia chi quei documenti li crea e li mette in circolazione. Ecco le norme principali:
- Art. 2 D.Lgs. 74/2000 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, indica in una dichiarazione fiscale elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture false. In pratica è il reato di chi utilizza fatture false, cioè il contribuente destinatario che le registra e le inserisce in dichiarazione per abbattere le imposte dovute. È un delitto punito con la reclusione da 4 a 8 anni. La pena edittale è elevata – dal 2019 è stata inasprita (prima il minimo era 1 anno e 6 mesi, portato ora a 4 anni) – in quanto il legislatore considera tale condotta altamente insidiosa: è un reato di pericolo, in cui l’uso della fattura falsa ostacola l’accertamento e svia il Fisco con documenti all’apparenza regolari. È prevista una diminuente (comma 2-bis): se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a 100.000 euro, si applica la pena ridotta da 1 anno e 6 mesi a 6 anni. Importante: a differenza di altri reati tributari, l’art. 2 non prevede soglie di punibilità (è reato anche per importi modesti); la soglia di 100.000 € rileva solo per modulare la pena. La Corte Costituzionale ha giudicato non irragionevole l’assenza di una soglia minima, data la particolare gravità del reato legata al mezzo fraudolento utilizzato (la fattura). Ai fini della configurabilità, è sufficiente che nella dichiarazione siano indicati passivi fittizi basati su fatture false; non occorre che l’evasione d’imposta sia effettivamente realizzata. La Cassazione ha chiarito infatti che l’evasione non è elemento costitutivo del delitto (rileva solo come dolo specifico, cioè il fine di evadere, ma non serve che il fine sia raggiunto). Dunque il reato si perfeziona al momento della presentazione della dichiarazione fraudolenta, anche se poi il contribuente non ha ottenuto il rimborso IVA o l’Ufficio scopre subito la frode: ciò che conta è l’intento fraudolento e l’utilizzo del documento falso.
- Art. 8 D.Lgs. 74/2000 – Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. È il reato speculare di chi emette o rilascia fatture false, al fine di consentire ad altri l’evasione. È punito con la reclusione da 4 a 8 anni (anche qui attenuabile a 1 anno e 6 mesi – 6 anni se l’importo complessivo delle fatture false è inferiore a 100.000 € per periodo d’imposta). L’art. 8 tipicamente si riferisce al titolare o amministratore della cartiera o ditta compiacente che “vende” documenti falsi. Notare che questo delitto è di natura istantanea: si consuma nel momento in cui le fatture vengono emesse o consegnate all’altra parte (non occorre la realizzazione effettiva dell’evasione; basta emetterle con quello scopo). La Cassazione ha più volte ribadito che anche le fatture soggettivamente false rientrano nel reato di emissione: sebbene l’operazione sottostante sia avvenuta, il fatto di fatturarla a nome di un soggetto fittizio mira comunque a far evadere il reale fornitore e il cessionario. Anche la mancata individuazione del vero fornitore non esclude il reato: la falsa fatturazione, coprendo l’identità dell’operatore effettivo, ha già raggiunto il risultato illecito di tenere quest’ultimo indenne dal debito IVA. In sintesi, l’art. 8 colpisce chi alimenta il sistema fraudolento fornendo ad altri contribuenti “pezze giustificative” fasulle. È un reato distinto dall’art. 2: chi utilizza le fatture e chi le emette sono perseguibili separatamente.
- Concorso di persone: spesso nelle frodi complesse c’è coordinamento tra emittente e utilizzatore. La giurisprudenza, però, ha chiarito che l’imprenditore che utilizza fatture false risponde solo del reato di dichiarazione fraudolenta (art. 2) e non concorre nel reato di emissione (art. 8) commesso dal fatturatore. Ciò perché le due fattispecie tutelano beni giuridici diversi e non confluiscono in un unico disegno criminoso: l’utilizzatore mira a evadere le proprie imposte; l’emittente offre uno strumento per far evadere altri. Ciascuno risponde quindi del proprio reato autonomo (salvo il caso particolare in cui lo stesso soggetto realizzi entrambe le condotte – es. un imprenditore che, tramite una società cartiera di cui è dominus occulto, si auto-emette fatture: in tal caso potrebbe ipotizzarsi un concorso formale di reati, ma in genere le imputazioni restano separate). Dal punto di vista difensivo, dunque, un utilizzatore di fatture false non andrebbe incriminato per emissione a meno che non abbia egli stesso materialmente predisposto le fatture fittizie intestandole a un terzo. (Su questo punto: Cass. pen. sez. III n.16800/2022 ha sancito che l’utilizzatore risponde solo di frode fiscale ex art.2, e non concorre nel reato di emissione).
- Pene accessorie e confisca: per reati tributari gravi come quelli in esame, oltre alla pena detentiva sono previste pene accessorie come l’interdizione dai pubblici uffici e dalle cariche direttive delle imprese (per la durata della pena) e la confisca obbligatoria dei beni che costituiscono profitto o prezzo del reato. Di regola, il profitto coincide col vantaggio economico ottenuto (es. imposte evase) e, se non è rinvenibile in forma diretta, si procede a confisca per equivalente su altri beni del condannato. Inoltre, la condanna penale per frode fiscale viene segnalata alla Camera di Commercio e può incidere sul rating di affidabilità fiscale dell’azienda.
- Responsabilità delle persone giuridiche (D.Lgs. 231/2001): dal 2019 i reati tributari più gravi – inclusi art. 2 e art. 8 D.Lgs. 74/2000 – sono stati inseriti tra i reati-presupposto che possono far sorgere la responsabilità amministrativa dell’ente (società). In particolare, il D.L. 124/2019 (conv. L.157/2019) ha introdotto l’art. 25-quinquiesdecies nel D.Lgs. 231/2001, prevedendo sanzioni pecuniarie e interdittive a carico della società nel cui interesse o vantaggio siano stati commessi reati tributari come la dichiarazione fraudolenta o l’emissione di fatture false. Ciò significa che un’azienda i cui vertici siano coinvolti in frodi con false fatture rischia, oltre alle conseguenze tributarie e penali per le persone fisiche, anche sanzioni dirette in capo all’ente (multe fino a 500 quote, quindi sino a ~774.500 €, e sanzioni interdittive come l’interdizione dall’attività, l’esclusione da appalti pubblici, etc.). L’unico modo per evitarle è dimostrare che l’ente aveva adottato modelli organizzativi idonei a prevenire tali reati tributari. In ottica difensiva, quindi, la società dovrà attivarsi per provare di avere adeguate procedure di controllo e compliance fiscale, così da evitare o attenuare la propria responsabilità ex 231.
- Cause di non punibilità e attenuanti speciali: la riforma del 2019 ha introdotto un importante strumento premiale a favore del contribuente che intende regolarizzare la propria posizione. In particolare è stata estesa anche ai reati di frode fiscale ex artt. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000 la causa di non punibilità per integrale pagamento del debito tributario, già prevista dall’art. 13, comma 2 dello stesso D.Lgs. 74/2000. In base a tale norma, se l’imputato estingue totalmente i debiti tributari relativi ai fatti incriminati – comprensivi di imposte, sanzioni amministrative e interessi – prima della dichiarazione di apertura del dibattimento penale di primo grado, non è punibile per il reato tributario. In altre parole, pagando spontaneamente tutto il dovuto (mediante ravvedimento operoso o definizione dell’accertamento), il reato si estingue. Questa previsione, originariamente non applicabile alle frodi (valevole solo per reati minori), dal 2019 copre anche l’utilizzo/emissione di false fatture – segnale della volontà del legislatore di incentivare il ravvedimento e il recupero del gettito. Attenzione: il pagamento deve essere completo e tempestivo (prima del dibattimento); tipicamente si concretizza presentando dichiarazioni integrative e versando quanto dovuto (vedremo oltre il meccanismo del ravvedimento). Se il pagamento avviene dopo l’apertura del dibattimento ma prima della sentenza di primo grado, la causa di non punibilità non opera più, però l’art. 13-bis D.Lgs. 74/2000 prevede in tal caso una circostanza attenuante speciale: riduzione di pena fino alla metà per l’integrale pagamento avvenuto durante il procedimento (entro la sentenza di primo grado). Dunque, chi “corregge il tiro” in tempo evita il processo penale; chi lo fa più tardi otterrà comunque uno sconto di pena. In sintesi: dal punto di vista difensivo, se ci si trova imputati per false fatture, valutare subito (con professionisti) l’opportunità di estinguere il debito tributario: se la prova del reato è schiacciante, pagare tutto e beneficiare della non punibilità penale può essere la scelta più saggia.
Di seguito una tabella riepilogativa dei reati e relative sanzioni penali previste:
Reato (D.Lgs. 74/2000) | Condotta | Pena base | Note |
---|---|---|---|
Art. 2 – Dichiarazione fraudolenta con fatture false | Utilizzo in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti (elementi passivi fittizi) | Reclusione 4–8 anni (1 anno e 6 mesi – 6 anni se < €100.000) | Reato senza soglia di punibilità; richiesto dolo specifico di evasione. Non punibile se paghi tutto prima del dibattimento (art.13 D.Lgs.74/2000). |
Art. 8 – Emissione di fatture false | Emissione di fatture o altri documenti falsi per consentire l’evasione di terzi | Reclusione 4–8 anni (1 anno e 6 mesi – 6 anni se < €100.000) | Reato istantaneo (si consuma all’emissione); configurabile anche se operazione è solo soggettivamente falsa; non serve provare l’evasione effettiva. |
(Art. 3 – Dichiarazione fraudolenta con altri artifici) | Frode fiscale senza utilizzo di false fatture (es. alterazione di registri o altri documenti) | Reclusione 3–8 anni (soglie di punibilità previste) | Non riguarda direttamente le fatture inesistenti (qui menzionato per completezza). |
Altre conseguenze | – | – | Confisca obbligatoria del profitto del reato (imposte evase) o equivalente; Interdizioni dai pubblici uffici e da cariche societarie. Responsabilità enti ex D.Lgs. 231/2001: sanzione pecuniaria fino a 500 quote + eventuali sanzioni interdittive (art. 25-quinquiesdecies). |
Nota: il ricorso al ravvedimento operoso – trattato più avanti – con integrale pagamento produce effetti positivi sia sul piano amministrativo (riduzione delle sanzioni tributarie) sia su quello penale (causa di non punibilità ex art. 13 D.Lgs. 74/2000, se il pagamento è effettuato prima del dibattimento). Questo vale oggi anche per condotte inizialmente fraudolente: dal 2022 è stato eliminato il divieto che un tempo impediva di ravvedersi in caso di frode, proprio per favorire la collaborazione e il versamento del dovuto.
L’accertamento fiscale e l’onere della prova
Quando l’Agenzia delle Entrate (spesso a seguito di verifiche della Guardia di Finanza) contesta l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, si avvia un procedimento di accertamento tributario con caratteristiche peculiari. In questa sezione esamineremo come si svolge tale accertamento, focalizzandoci sul riparto dell’onere probatorio tra Fisco e contribuente – nodo cruciale su cui si gioca la difesa – e sugli strumenti con cui l’Ufficio cerca di dimostrare la falsità delle operazioni. Comprendere questi meccanismi è essenziale per predisporre una strategia difensiva efficace.
Avvio e sviluppo dell’accertamento
Di norma, la contestazione di fatture false emerge nell’ambito di una verifica fiscale. Può trattarsi di una verifica generale (controllo a tappeto di contabilità e dichiarazioni) oppure di controlli mirati (ad esempio su crediti IVA sospetti o su operazioni con determinati fornitori). Spesso l’innesco è dato da indagini della Guardia di Finanza o da controlli incrociati: ad esempio, quando viene scoperta una società cartiera che ha emesso fatture fittizie, l’Agenzia attiva accertamenti verso tutti i clienti di quella cartiera che hanno dedotto i relativi costi.
Quando i verificatori ipotizzano che alcune fatture registrate dal contribuente si riferiscano a operazioni inesistenti, redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dettagliando gli elementi riscontrati. Ad esempio: dichiarazioni del presunto fornitore che ammette la falsità delle operazioni, incongruenze documentali, assenza di struttura operativa in capo al fornitore, movimenti finanziari anomali (come pagamenti che tornano indietro in contanti), ecc. Il contribuente di regola viene coinvolto durante la verifica: gli vengono richieste spiegazioni e documentazione a supporto della reale esistenza delle operazioni contestate.
Al termine della verifica, l’Agenzia delle Entrate emette un Avviso di Accertamento in cui contesta formalmente l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Nell’avviso vengono elencate le fatture ritenute false, con indicazione dei fornitori coinvolti, degli importi e degli anni d’imposta interessati. Le conseguenze tipiche indicate sono:
- Recupero dell’IVA indebitamente detratta su quelle fatture, con applicazione degli interessi e di una sanzione pari al 90% dell’imposta (sanzione per credito IVA inesistente).
- Recupero delle imposte dirette (IRES/IRPEF e IRAP) relative ai costi fittizi dedotti: ciò comporta la rettifica in aumento del reddito imponibile (eliminando quei costi) e il ricalcolo delle maggiori imposte dovute, con interessi e sanzione – solitamente del 90% (minimo) fino a 180% dell’imposta evasa, trattandosi di dichiarazione infedele.
- Disconoscimento di eventuali crediti d’imposta generati dalle operazioni inesistenti (es. crediti IVA riportati a nuovo).
- Sanzioni accessorie: in casi particolarmente gravi o recidivi, può proporsi ad es. l’inibizione temporanea alla compensazione di crediti tributari (se si sono utilizzati in compensazione crediti IVA fittizi) o – raramente – la sospensione di licenze/autorizzazioni (art. 12 D.Lgs. 472/97). Si tratta comunque di misure applicate solo in circostanze eccezionali.
L’avviso di accertamento deve essere motivato: l’Ufficio vi espone gli elementi probatori su cui fonda l’affermazione che le operazioni sono simulate. Tipicamente, tra gli elementi che il Fisco porta a sostegno troviamo:
- Dichiarazioni del fornitore: se il presunto emittente della fattura è stato verificato e magari ha confessato di essere una cartiera o di non aver realmente effettuato la cessione, la sua deposizione (resa magari in sede penale) costituisce un indizio forte. La Cassazione ammette che dichiarazioni di terzi raccolte dalla GdF possano costituire indizio utilizzabile, specie se rese contra se (ammissione di illecito). Ovviamente da sole non bastano come prova “legale” piena: vanno supportate da altri riscontri, ma rappresentano un inizio importante.
- Elementi oggettivi sul fornitore: dall’Anagrafe Tributaria o da accessi in loco, può emergere che la ditta fornitrice era in realtà una scatola vuota (nessuna sede operativa reale, indirizzo fittizio, zero dipendenti, nessun magazzino, capitale sociale irrisorio, amministratori nullatenenti o prestanome). Tali elementi fanno presumere che la società non avesse la capacità di effettuare davvero le forniture fatturate. Se inoltre la ditta è cessata poco dopo, non ha presentato dichiarazioni, o i suoi rappresentanti legali sono irreperibili, ciò rafforza l’ipotesi che fosse una cartiera di comodo.
- Movimentazione finanziaria: un indizio tipico è la cosiddetta ciclicità dei pagamenti o restituzione delle somme. Esempio classico: l’azienda A paga con bonifico la fattura alla società B; subito dopo B preleva in contanti gran parte dell’importo e lo restituisce “sottobanco” ad A (trattenendo magari una percentuale di commissione per la fattura fittizia). Se l’Ufficio, tramite indagini bancarie, documenta prelievi sospetti dal conto del fornitore subito dopo i pagamenti, e magari individua beneficiari del contante collegabili al cliente, può dedurne che i soldi sono tornati all’utilizzatore, evidenziando la frode.
- Irregolarità nella documentazione commerciale: spesso le fatture false presentano errori o anomalie (formato insolito, numerazione incoerente, descrizioni vaghe e ripetitive). Oppure manca del tutto la documentazione accessoria tipica di operazioni reali: ad esempio, nessun DDT (documento di trasporto) a supporto della consegna di beni voluminosi; nessun contratto, preventivo o progetto per servizi teoricamente complessi; nessuna corrispondenza commerciale. L’assenza totale di tracce operative dell’affare fatturato – specie a fronte di importi rilevanti – è un indizio serio di inesistenza.
- Confronto con l’attività del contribuente: il Fisco può contestare l’inerenza o l’effettività di un costo se questo appare sproporzionato o incoerente rispetto all’attività. Esempio: una piccola ditta individuale dichiara di aver acquistato servizi di consulenza per centinaia di migliaia di euro da fornitori poi rivelatisi inesistenti – importo inverosimile rispetto al suo giro d’affari; oppure un’impresa edile contabilizza l’acquisto di materiali in quantità enormi e incongruenti con i cantieri in corso, facendo pensare a fatture gonfiate per creare costi. Operazioni economicamente irragionevoli o incoerenti col profilo del contribuente legittimano dubbi sulla reale esecuzione.
- Indici di frodi sistemiche (caroselli IVA): la GdF e l’Agenzia dispongono di indicatori per identificare possibili caroselli, come l’appartenenza a filiere di frode note. Ad esempio, se A compra da B a prezzi insolitamente bassi, e B a sua volta da C, e nella catena c’è un soggetto che omette i versamenti IVA, si può presumere che quell’anello sia fittizio. La Cassazione però avverte: la semplice inaffidabilità fiscale del fornitore (ad es. è un noto evasore) non basta di per sé a considerare false tutte le fatture, specie se potrebbe trattarsi di una interposizione soggettiva (operazione reale, ma con altro soggetto). Occorre che l’ufficio fornisca indizi concreti della consapevolezza del cliente. Torneremo su questo parlando dell’onere probatorio nelle fatture soggettivamente inesistenti.
Una volta raccolti questi elementi, l’Ufficio li inserisce nella motivazione dell’atto impositivo. Proceduralmente, l’accertamento per fatture false segue le regole generali: l’avviso va notificato al contribuente entro i termini di decadenza previsti (in genere il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello della dichiarazione “incriminata”, esteso a sette anni in caso di omessa dichiarazione). Spesso l’Agenzia notifica l’avviso contestualmente alla trasmissione della notitia criminis in Procura (denuncia penale) quando dagli stessi fatti emerge il reato ex art. 2 D.Lgs. 74/2000. Quindi il contribuente talvolta scopre con l’accertamento fiscale di avere anche un procedimento penale avviato in parallelo.
Una volta ricevuto l’avviso, il contribuente può valutare se definire la questione in via pre-contenziosa (ad es. tramite un’adesione all’accertamento con riduzione delle sanzioni, se prospettata dall’Ufficio, o un accordo transattivo se possibile) oppure se presentare entro 60 giorni ricorso tributario alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (già Commissione Tributaria Provinciale). Data la gravità e l’importo spesso elevato in gioco, nella maggior parte dei casi si propone il ricorso. Da lì si apre il contenzioso, con eventuale secondo grado presso la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale) e poi possibilità di ricorso in Cassazione.
Ripartizione dell’onere della prova
Chi deve provare cosa nei casi di fatture false? Questo è il fulcro di molte cause tributarie. La giurisprudenza (specie di legittimità, Cassazione) ha consolidato un principio di distribuzione bilaterale dell’onere probatorio, modulato a seconda che si tratti di operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti:
- In generale (principio base): spetta inizialmente all’Amministrazione finanziaria fornire elementi – anche indiziari o presuntivi – idonei a far ritenere fittizia l’operazione contestata. L’Ufficio deve cioè provare (anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti ex art. 39 DPR 600/73 e art. 54 DPR 633/72) che la realtà effettiva diverge da quanto rappresentato in fattura. Ad esempio, dovrà dimostrare che il fornitore era inesistente o una cartiera, oppure che non vi è traccia della merce, o altre circostanze gravi. Se il Fisco non fornisce alcun elemento concreto e si limita a affermazioni generiche, la pretesa va rigettata: la fattura, infatti, gode inizialmente di una presunzione di veridicità (il contribuente l’ha registrata e utilizzata, e in linea di principio i documenti contabili fanno fede finché non smentiti). Tuttavia, questa presunzione è relativa e cade non appena il Fisco presenti indizi seri di falsità.
- Una volta assolto tale onere minimo dal Fisco, l’onere della prova si inverte: sarà compito del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza dell’operazione contestata. La Cassazione lo ha affermato chiaramente: “in caso di contestazione dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio provare che l’operazione fatturata non è mai avvenuta (anche tramite indizi); mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo […] non essendo sufficiente a tal fine la regolarità formale delle scritture o dei pagamenti”. In altre parole, non basta esibire una fattura ben compilata e un bonifico tracciabile, poiché – come osserva la Suprema Corte – questi elementi possono essere facilmente “fabbricati” per simulare realtà inesistenti. Servono riscontri sostanziali. Questo principio (si vedano, ad es., Cass. 11624/2020 e Cass. 28628/2021) è ormai costante giurisprudenza.
Fin qui il principio generale, che si applica soprattutto alle operazioni oggettivamente inesistenti. In tali casi, infatti, la prova a carico del contribuente consiste nel dimostrare che invece l’operazione c’è stata davvero (esibendo DDT, prove di consegna, utilizzo dei beni, testimonianze di terzi, ecc.). Ribadiamo: la sola esibizione della fattura e la prova del pagamento formale non bastano affatto, perché – come detto – spesso nelle frodi questi elementi formali vengono appositamente curati per non destare sospetti. Servono prove sostanziali della reale esistenza.
Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti (frode con interposta persona), la giurisprudenza ha elaborato uno schema probatorio duplice a carico dell’Erario prima di spostare l’onere sul contribuente: l’Amministrazione deve provare sia che il fornitore è un soggetto fittizio, sia che il contribuente era consapevole (o comunque avrebbe dovuto esserlo) della natura fittizia e quindi partecipe della frode. In altre parole, se l’Ufficio contesta che un’operazione è solo soggettivamente falsa (bene consegnato ma fornitore di comodo), per negare la detrazione IVA non basta dimostrare che il fornitore era una cartiera; occorre anche provare che l’acquirente sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a un’evasione IVA, ossia che non ha adottato la dovuta diligenza per evitarlo. Questo orientamento, mutuato dalla Corte di Giustizia UE e recepito dalla Cassazione, tutela il contribuente in buona fede: se uno acquista merce reale da un soggetto e ignora che questi è solo un prestanome, non può automaticamente subire le conseguenze del comportamento fraudolento altrui, a patto di aver tenuto un comportamento diligente.
Dunque, nelle soggettivamente inesistenti, lo schema probatorio è:
- Fase 1 (onere del Fisco): l’Amministrazione prova (anche con presunzioni) che il fornitore era fittizio e porta indizi che farebbero sorgere, in un operatore onesto mediamente esperto, il sospetto di frode – ad es. prezzi troppo bassi fuori mercato, fornitore privo di struttura, operazioni anomale – così da sostenere che il cessionario “non poteva non accorgersi” dell’inganno. La Cassazione parla di indizi idonei a mettere in allerta qualunque imprenditore avveduto; se tali indizi c’erano e il contribuente li ha ignorati, si presume la sua consapevolezza della frode.
- Fase 2 (onere del contribuente): una volta che l’Ufficio ha fornito tali elementi, l’onere passa al contribuente, il quale per evitare le sanzioni (e la perdita della detrazione) deve provare di non essere stato consapevole della frode e di aver adottato tutte le cautele e la diligenza massima esigibili da un operatore prudente nel caso concreto. In pratica, deve dimostrare la propria buona fede: ad esempio di aver verificato la partita IVA e l’iscrizione alla CCIAA del fornitore, di aver controllato il DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva) se pertinente, che i pagamenti sono avvenuti su conti intestati al fornitore in modo tracciabile, che vi erano DDT regolari, ecc., insomma che nessun segnale evidente di irregolarità era presente. Inoltre, deve provare che ha effettivamente ricevuto i beni/servizi (quindi che l’operazione c’è stata in sostanza) – ciò non “salva” di per sé la detrazione IVA (che per legge sarebbe negata), ma corrobora la tesi della sua buona fede. Se il contribuente riesce a convincere il giudice che neanche un imprenditore diligente avrebbe scoperto l’inganno, la pretesa del Fisco risulterà quantomeno priva di prova sulla complicità del cessionario.
In sintesi, oggi la prova contraria del contribuente varia a seconda delle circostanze:
- Se l’ufficio contesta un’operazione oggettivamente inesistente, il contribuente dovrà provare l’effettiva esistenza materiale dell’operazione: ad es., dimostrare la consegna e l’utilizzo dei beni (produzione aziendale corrispondente a quegli input), testimonianze di chi ha visto la fornitura, contratti, email e qualsiasi elemento dal quale risulti che quanto fatturato è realmente accaduto. Ribadiamo: la regolarità formale di fatture e pagamenti non basta a vincere la presunzione di inesistenza, perché – parole della Cassazione – “essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia”. Serve la sostanza.
- Se l’ufficio contesta un’operazione soggettivamente inesistente (es. fornitore cartiera), il contribuente dovrà provare la propria estraneità soggettiva alla frode: mostrare di aver fatto tutto il possibile per assicurarsi della serietà del fornitore e che, nonostante ciò, è stato tratto in inganno. Ciò implica documentare le verifiche svolte (visure camerali storiche, controlli VIES per fornitori UE, riscontri su referenze), l’assenza di comportamenti anomali (es. nessuna retrocessione di denaro), la concretezza della fornitura (merce effettivamente utilizzata in produzione, servizi di cui esiste riscontro tangibile), ecc. È utile sottolineare qualunque elemento provi la normalità commerciale del rapporto: ad esempio, che i prezzi praticati erano di mercato (non incredibilmente bassi come spesso accade nelle frodi), che il fornitore operava anche con altri clienti ed era considerato affidabile, che eventuali controlli all’epoca non avevano fatto emergere nulla di sospetto.
Se il contribuente fallisce nel fornire queste prove contrarie, gli elementi presuntivi del Fisco – se ritenuti validi dal giudice – porteranno alla conferma dell’accertamento. Ecco perché la fase istruttoria difensiva è determinante: occorre raccogliere quante più evidenze possibile a discarico per ribaltare la presunzione di frode.
Il ruolo (limitato) della buona fede del contribuente
Spesso chi riceve una contestazione di fatture false tende a difendersi affermando: “Non ne sapevo nulla, pensavo fosse tutto regolare”. Ovvero invoca la propria buona fede. Sul piano umano è comprensibile, ma giuridicamente questo argomento ha valore limitato in ambito tributario, specie per quanto riguarda l’IVA. Ciò perché la normativa interna (art. 21 DPR 633/72) e l’impostazione tradizionale della Cassazione hanno privilegiato l’oggettività dell’operazione rispetto alla soggettiva buona fede: se l’operazione non c’è (o il fornitore è fittizio), l’IVA è comunque indetraibile, a prescindere dall’ignoranza incolpevole del cessionario. La fattura falsa viene considerata un documento “fuori dal contesto IVA”, come detto, e nessuna buona fede può trasformarla in un documento genuino. La Cassazione, ad esempio, ha affermato che “non è configurabile la buona fede del contribuente in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti”.
Negli ultimi anni, tuttavia, si è aperto uno spiraglio a favore di chi sia realmente ignaro delle frodi, ma solo nel caso delle operazioni soggettivamente inesistenti: come visto, è stato introdotto l’onere per il Fisco di provare la “consapevolezza, anche solo in forma di conoscibilità, della frode” da parte del contribuente prima di negare il diritto alla detrazione. Questo deriva dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (casi Mecsek-Gabona, Teleos, Mahagében, Volkswagen, ecc.), secondo cui il diritto alla detrazione IVA – cardine del sistema comunitario – può essere negato al cessionario solo se si dimostra che sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a un’evasione IVA. L’Italia, recependo tale principio, di fatto introduce il concetto di buona fede/diligenza nell’analisi almeno in termini fattuali: se il contribuente prova di aver agito diligentemente in buona fede e il Fisco non dimostra indici di conoscenza, il giudice potrebbe ritenere non soddisfatto l’onere probatorio dell’amministrazione e annullare la ripresa IVA (come accaduto in alcune pronunce di merito). In alcune sentenze delle Corti di Giustizia Tributaria, infatti, contribuenti accorti hanno avuto ragione, soprattutto quando l’unica contestazione era la fittizietà soggettiva e nulla lasciava presagire al cliente la natura fraudolenta del fornitore.
Va però chiarito: la buona fede in sé non conserva automaticamente i benefici fiscali. In pratica, può capitare che il giudice, riconoscendo la buona fede del contribuente, annulli le sanzioni amministrative (per difetto di dolo o colpa grave, in ossequio al principio di colpevolezza in materia sanzionatoria) ma confermi il recupero dell’imposta. Questo perché, anche se incolpevole, il contribuente comunque ha fruito di una detrazione IVA non spettante per legge (essendo la fattura “fuori conto” IVA). Alcune Commissioni Tributarie hanno però osato di più, ritenendo che in presenza di buona fede e diligenza massima negare la detrazione violerebbe i principi UE, dando quindi ragione integralmente al contribuente (mantenendo il credito IVA). Si tratta però di esiti non scontati e spesso poi ribaltati in Cassazione se difformi dall’indirizzo dominante.
In definitiva, il punto di vista del debitore deve essere pragmatico: proclamare la propria innocenza non basta, occorre dimostrarla con fatti (documenti, circostanze concrete) e utilizzarla per smontare l’accusa di negligenza consapevole mossa dal Fisco. La buona fede diventa quindi un argomento di equità che può aiutare a persuadere il giudice a una lettura meno rigida, ma non è una “bacchetta magica” giuridica. È più efficace declinarla come diligenza comprovata: “Ho fatto tutto ciò che era ragionevole fare, ecco le prove; dunque l’Ufficio non può sostenere che avrei dovuto accorgermi della frode”. Questo approccio è accettato come controprova nell’ambito del riparto dell’onere probatorio visto sopra.
Riassumendo sul riparto delle prove:
- Fisco: deve offrire elementi (prove dirette o presunzioni qualificate) che dimostrino la natura fittizia di quanto fatturato (operazione mai avvenuta oppure fornitore finto). Nelle frodi soggettive deve anche evidenziare segnali di allarme che il contribuente ha ignorato.
- Contribuente: se il Fisco ha assolto il suo onere iniziale, deve a sua volta provare l’effettiva esistenza dell’operazione (per le fatture oggettivamente false) oppure la propria buona fede/diligenza ed effettività sostanziale dell’operazione (per le fatture soggettivamente false). La semplice regolarità formale di contratti, fatture e pagamenti non basta, ma è utile se accompagnata da molti altri riscontri concreti.
Profili temporali: termini di accertamento e prescrizione
Un ultimo cenno riguarda i tempi. Il contribuente che si difende deve sempre verificare se l’accertamento sia stato notificato entro i termini di legge e considerare i tempi di prescrizione penale:
- Termini di accertamento tributario: come accennato, il termine ordinario per notificare l’avviso di accertamento è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (per IVA e imposte sui redditi). Se la dichiarazione era omessa, si estende a 7 anni. Nel caso di fatture false, in passato entravano in gioco i raddoppi dei termini in presenza di reato tributario: per violazioni fino al 2015, se vi era obbligo di denuncia ex art.331 c.p.p., i termini raddoppiavano (fino all’ottavo anno). Oggi il raddoppio è stato “assorbito” dall’estensione ordinaria a 5 anni introdotta dal 2016, e rimane solo nei casi di omessa dichiarazione. In pratica, spesso per contestazioni di false fatture relative a dichiarazioni fino al 2015 l’avviso poteva arrivare entro l’ottavo anno; per anni successivi generalmente entro il quinto (salvo omessa dich.). Bisogna inoltre considerare eventuali sospensioni eccezionali (es. sospensione feriale di agosto, o sospensioni COVID per accertamenti negli anni 2020-21).
- Notifiche e vizi procedurali: il contribuente deve controllare attentamente la data di spedizione/consegna dell’avviso e la correttezza formale della notifica. Un vizio di notifica o una tardività possono portare all’annullamento dell’atto a prescindere dal merito. Inoltre, va esaminata la motivazione dell’avviso: se l’Ufficio non esplicita chiaramente gli indizi a supporto della falsità o non confuta le giustificazioni eventualmente fornite dal contribuente in sede di PVC, ciò può costituire vizio di motivazione, anch’esso causa di annullamento.
- Prescrizione del reato penale: il reato di dichiarazione fraudolenta ex art.2 (così come quello di emissione ex art.8) prevede oggi pena massima 8 anni; la prescrizione è di norma 6 anni aumentata di 1/4 per atti interruttivi, ma con pena oltre 6 anni sale a 8 anni (più eventuali aumenti). Con l’inasprimento pene del 2019 e successivi ritocchi normativi, si arriva a circa 8 anni di base, estensibili fino a 10 o più in caso di atti interruttivi. Ciò significa che la minaccia penale può pendere per diversi anni. In pratica comunque le indagini partono subito dopo la verifica, quindi il procedimento penale di solito si sviluppa parallelamente al contenzioso tributario nei 2–5 anni successivi. Da segnalare che lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) prevede la sospensione biennale della riscossione in pendenza di processo penale per reato tributario, il che spesso porta l’Agenzia/giudice tributario a sincronizzare i tempi con l’esito penale (ma non sempre, come vedremo). In generale, passati oltre 10 anni dai fatti senza una condanna o rinvio a giudizio, le chance di subire conseguenze penali diventano remote (prescrizione maturata); oltre 5-7 anni i recuperi fiscali non notificati sarebbero decaduti (salvo omessa dichiarazione).
Difendersi dall’accusa di fatture false: strategie e prove
Affrontare un accertamento per operazioni inesistenti richiede una difesa ben preparata che combini argomentazioni giuridiche mirate e solide prove di fatto. In questa sezione vediamo come un contribuente (tipicamente un imprenditore o professionista) può articolare la propria strategia difensiva, quali documenti e riscontri utilizzare e quali errori evitare.
Strategia generale di difesa
La prima regola è: contestare analiticamente le presunzioni del Fisco. Bisogna esaminare ogni elemento addotto dall’Ufficio e cercare di smontarlo o ridimensionarlo, fornendo una spiegazione alternativa lecita. Ad esempio, se il Fisco sostiene “il fornitore non aveva dipendenti, quindi non poteva eseguire la lavorazione fatturata”, il contribuente potrebbe replicare mostrando che il fornitore ha subappaltato ad altri (allegando contratti di subappalto, fatture di terzi emesse al fornitore, etc.), dimostrando così che la prestazione è avvenuta per altra via lecita. Se l’Ufficio deduce l’inesistenza dalla mancanza di DDT, il contribuente può magari esibire documenti di trasporto che non erano stati registrati ma che esistono, oppure contratti di spedizione con corrieri, registri di magazzino con entrata dei beni, e-mail di ordinazione e avvisi di consegna con date e riferimenti. Ogni argomento dell’accusa va passato al vaglio e, se possibile, confutato con documenti o circostanze alternative.
Occorre poi produrre attivamente prove a favore. Ecco alcune possibili categorie di prove utili:
- Documentazione commerciale completa: oltre la fattura in sé, è fondamentale recuperare tutti i documenti collegati all’operazione. Esempi: ordini d’acquisto, preventivi, contratti firmati, bolle di accompagnamento merci (DDT) per le consegne, rapporti di intervento per i servizi, collaudi o certificati di accettazione, fotografie di merci consegnate o lavori eseguiti, corrispondenza e-mail tra le parti, eventuali permessi o autorizzazioni legati al lavoro svolto. Più si riesce a ricostruire la traccia documentale dell’operazione, più sarà credibile che essa sia effettiva. Se alcuni documenti mancano (cosa frequente se il fornitore era scorretto), ci si può avvalere di testimonianze o dichiarazioni di terzi: ad esempio, dichiarazioni scritte dei clienti finali che hanno ricevuto quei beni, o di dipendenti che li hanno maneggiati, o di sub-fornitori coinvolti.
- Prove dei pagamenti e flussi finanziari: presentare le evidenze dei pagamenti effettuati è necessario ma non sufficiente a provare la realtà di un’operazione (il Fisco obietterà che i soldi possono essere tornati indietro in nero). Tuttavia, va fatto per completezza formale: mostrare bonifici puntuali a fronte delle fatture. Dopodiché, se possibile, occorre dimostrare che il denaro non è rientrato al mittente: ad esempio, evidenziare che dopo il pagamento la società fornitrice ha usato quei fondi per pagare propri fornitori o dipendenti, o che li ha lasciati sul conto per altre spese, contraddicendo l’ipotesi di retrocessione. Se si riesce a rompere la catena pagamento-restituzione, si indebolisce molto la tesi dell’operazione simulata.
- Prove fisiche e logistiche: per beni materiali, un grande alleato è la prova tangibile che quei beni esistono e sono stati usati. Ad esempio, se si tratta di attrezzature acquistate, presentarle o documentarle fotograficamente; dimostrare dove e quando sono state installate, con eventuali rapporti tecnici di collaudo. Se sono materie prime o merci consumate nel ciclo produttivo, mostrare come hanno alimentato la produzione (report di produzione, schede di magazzino con movimentazione in entrata/uscita). Se è un servizio (es. consulenza), presentare il deliverable di tale servizio: ad esempio, la relazione tecnica redatta dal consulente, il software sviluppato, il progetto consegnato, ecc. Nelle cause su fatture di consulenza inesistente, chi perde spesso non ha nulla in mano a dimostrare il lavoro svolto; viceversa, esibire un corposo report prodotto dal consulente X (con data certa, firma, allegati) rende molto più credibile che il lavoro sia stato effettivamente svolto.
- Diligenza preventiva (due diligence sul fornitore): per invocare la buona fede, è utile dimostrare quali verifiche si sono fatte ex ante sul fornitore. Ad esempio: allegare la visura camerale storica del fornitore all’epoca dei fatti, per mostrare che risultava attivo, con sede e oggetto sociale coerenti; un controllo del DURC se era un appaltatore (se all’epoca risultava regolare, ciò giustifica la fiducia riposta); eventuali certificazioni o referenze presentate dal fornitore; copia di documenti d’identità e del certificato di attribuzione P.IVA del legale rappresentante (spesso acquisiti in fase di registrazione fornitori). Se la controparte era estera, prova di aver consultato il sistema VIES per verificarne la partita IVA comunitaria. Tutto questo serve a dimostrare che il contribuente non è stato negligente: ha fatto ciò che normalmente si fa per cautelarsi, e nulla di anomalo è emerso dai controlli all’epoca.
- Testimonianze e perizie tecniche: fino a poco tempo fa, nel processo tributario la prova testimoniale era preclusa. Dal 2023, con la riforma del processo tributario (D.Lgs. 149/2022), è stata introdotta la possibilità di assumere testimonianze scritte su istanza di parte in determinate condizioni (nuovo art. 7, co. 5-bis, D.Lgs. 546/92). Ciò consente oggi di presentare dichiarazioni giurate di terzi. Questo può aiutare in casi di false fatture: ad es., far rendere una dichiarazione a un dipendente che attesti di aver visto i fornitori consegnare la merce, o di aver lavorato insieme al personale del fornitore in cantiere; oppure far testimoniare il trasportatore che ha movimentato la merce. Un’altra via è la perizia tecnica: far analizzare da un esperto indipendente i conti e i documenti per certificare che – dati i consumi di materie prime e i tempi di lavorazione – l’azienda aveva effettivamente bisogno di quei beni/servizi fatturati, rendendo implausibile che siano inventati. Oppure far stimare la congruità dei prezzi pagati rispetto al mercato, per smentire l’idea di prezzi stracciati (spesso spia di frode). Questi elementi, pur non avendo valore di prova legale piena, possono convincere il giudice se integrano il quadro probatorio. (Nota: la Cassazione a Sezioni Unite, sent. 28433/2022, ha aperto all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da terzi in altri procedimenti, es. deposizioni raccolte in sede penale, come elementi indiziari valutabili dal giudice tributario).
- Argomenti giuridici e vizi legali: oltre alle prove di fatto, il difensore tributarista solleverà ogni possibile eccezione legale a favore. Ad esempio: eccepire che la ripresa IVA è illegittima se l’Ufficio non ha provato la participatio fraudis del contribuente (richiamando la giurisprudenza UE e di Cassazione sull’onere nelle soggettive inesistenti); contestare il cumulo di sanzioni (es. il 90% per credito inesistente e il 25-50% sui costi fittizi, che potrebbero costituire duplicazione punita due volte lo stesso fatto, invocando il ne bis in idem amministrativo e il favor rei); invocare l’esimente dell’“errore inevitabile” per chiedere esonero dalle sanzioni amministrative (art. 6, co.2, D.Lgs. 472/97 prevede che non è punibile chi ha violato norme tributarie per obiettive condizioni d’incertezza o forza maggiore: giurisprudenza la applica raramente, ma si può tentare sostenendo che l’acquirente è stato tratto in inganno da artifizi del fornitore e non poteva saperlo).
- Contraddire le presunzioni del Fisco: ad esempio, se l’Ufficio deduce falsità dalla mancanza di tracce fisiche, si può replicare con spiegazioni alternative documentate: “È vero che il fornitore non aveva un proprio magazzino, ma perché consegnava direttamente dal produttore al nostro stabilimento in drop-shipping, come provano queste bolle di consegna”. Oppure: “Il fornitore non aveva dipendenti, ma si avvaleva di sub-fornitori: ecco in allegato copie di fatture che questi sub-fornitori hanno emesso a carico del nostro fornitore”. O ancora: “È vero che poco dopo il fornitore ha chiuso, ma ciò è avvenuto perché l’imprenditore è deceduto (o ha avuto un dissesto finanziario), non perché fosse una cartiera; infatti prima di chiudere aveva pagato regolarmente le imposte X e Y”. Se si riesce a dare spiegazioni credibili e documentate agli indizi, la presunzione grave, precisa e concordante del Fisco può cadere o quantomeno perdere forza (diventando dubbia o isolata). Questo richiede un esame minuzioso di ogni dettaglio dell’accusa e un lavoro investigativo difensivo quasi pari a quello della GdF, ma spesso è l’unico modo per vincere nei casi dubbi.
- Buona fede e compliance aziendale: se l’azienda, all’epoca, aveva procedure interne di controllo dei fornitori (es. richiedeva copia del DURC, verificava le white list antimafia, ecc.), portarle all’attenzione del giudice aiuta. Mostrare di avere un manuale interno sulla scelta dei fornitori e di averlo seguito, o magari di aver chiesto parere al proprio consulente fiscale su quell’operazione sospetta, può testimoniare la compliance del contribuente. In alcuni casi, imprese più strutturate integrano questi controlli nei modelli 231 e possono dire: “La nostra società aveva un modello organizzativo finalizzato a prevenire frodi IVA; questo soggetto è riuscito comunque a ingannarci, dunque più di così non potevamo fare”. Ciò non elimina l’imposta evasa, ma sul piano sanzionatorio e penale può essere molto rilevante (se esclude il dolo, al più configura colpa).
Difesa in sede penale e rapporto con il contenzioso tributario
Sebbene qui ci si concentri soprattutto sulla difesa dall’accertamento fiscale, bisogna tener presente che in parallelo – o in prospettiva – può esservi un procedimento penale per i medesimi fatti. La difesa penale segue logiche proprie, ma è auspicabile coordinarla con quella tributaria: gli esiti del penale possono influenzare (di fatto, se non formalmente) il giudizio tributario, e viceversa.
In generale, vige il principio di autonomia dei giudizi tributario e penale: il giudice tributario non è vincolato dalle risultanze penali. È dunque teoricamente possibile che in sede tributaria il contribuente venga assolto (atto annullato) e in sede penale condannato, o viceversa. Tuttavia, una sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste costituisce un elemento estremamente favorevole per il contribuente, che consente di riaprire eventualmente il contenzioso tributario o di chiedere il rimborso delle imposte versate (ex art. 14 co.4-bis L.537/93). Se infatti in sede penale si accerta in via definitiva che le operazioni erano reali e che il contribuente era estraneo alla frode, sarà difficile per l’Agenzia sostenere in sede tributaria la tesi opposta (pur non essendo giuridicamente vincolata a ribaltare il giudizio).
Perciò, una strategia difensiva completa considera anche il penale. Spesso conviene cercare di coordinare i tempi: talora il contenzioso tributario viene sospeso in attesa dell’esito penale, o viceversa; oppure è possibile utilizzare atti del processo penale come prova nel tributario depositandoli al giudice tributario. Ad esempio, se nel penale un perito del tribunale certifica che i lavori fatturati sono stati effettivamente eseguiti, quel documento diventa una prova potentissima anche nel giudizio tributario.
Un’altra leva difensiva è valutare se definire transattivamente in via amministrativa o meno. Ad esempio, l’accertamento con adesione o la conciliazione giudiziale tributaria: se il contribuente riconosce parzialmente la pretesa e vuole limitare i danni, può provare a negoziare col Fisco una definizione agevolata (pagando imposte e sanzioni ridotte). Occorre però cautela: aderire all’accertamento (ammettendo di fatto l’indebita detrazione) può costituire un’implicita ammissione utilizzabile in sede penale. C’è però un caso in cui potrebbe essere vantaggioso: se l’obiettivo primario è rientrare nella causa di non punibilità penale ex art.13 D.Lgs. 74/2000 pagando tutto, allora definire subito il debito tributario in adesione ha senso, perché mette il contribuente in regola fiscalmente e consente di invocare l’estinzione del reato per avvenuto pagamento. Dunque la scelta dipende dalla strategia sul doppio binario: valutare i pro e contro di combattere nel merito in Commissione (con esito incerto) vs chiudere la partita fiscale per evitare guai penali.
In conclusione, la difesa tecnica da un accertamento di fatture false è estremamente impegnativa: occorre costruire un dossier di prove parallelo a quello accusatorio e attaccare ogni punto debole giuridico. È fondamentale affidarsi a professionisti esperti (commercialisti, tributaristi, legali) perché i dettagli – dalle date ai documenti – possono fare la differenza tra vincere e perdere. A seguire, esamineremo nello specifico le conseguenze sanzionatorie in caso di soccombenza (cosa si rischia in termini di imposte e sanzioni se la difesa non ha successo) e poi i profili penali (cosa succede se scatta il procedimento penale e come muoversi su quel fronte).
Sanzioni tributarie (amministrative) in caso di fatture false
Se l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate dovesse essere confermato (ossia se il contribuente non riesce a farlo annullare del tutto), occorrerà affrontare il pagamento delle imposte recuperate e delle relative sanzioni amministrative. È importante conoscere sin dall’inizio l’ordine di grandezza dell’esborso potenziale in caso di soccombenza, sia per valutare costi/benefici di un eventuale accordo, sia per impostare una strategia di riduzione del danno (ravvedimento, definizione agevolata, ecc.). Vediamo dunque quali sanzioni si applicano tipicamente:
- Imposta sul Valore Aggiunto (IVA): la detrazione dell’IVA relativa a fatture inesistenti viene annullata. Ciò significa che il contribuente deve restituire all’Erario l’IVA indebitamente detratta, con gli interessi (calcolati al tasso legale dal momento della detrazione all’effettivo pagamento). Inoltre, scatta la sanzione del 90% dell’imposta, prevista dall’art. 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997 per chi si avvale indebitamente di un credito IVA inesistente. Esempio: se ho detratto indebitamente 10.000 € di IVA su fatture false, dovrò restituire i 10.000 € + interessi e pagare 9.000 € di sanzione. Qualora l’IVA fittizia fosse stata utilizzata in compensazione (per pagare altri tributi), la situazione viene qualificata come credito inesistente compensato: la sanzione, in tal caso, è più pesante, dal 100% al 200% del credito compensato (minimo 258 €) se l’importo annuo del credito inesistente supera 5.000 € (art. 13, comma 5, D.Lgs. 471/97). Tuttavia, spesso l’Ufficio contesta semplicemente l’indebita detrazione in dichiarazione, applicando il 90%. Nota: in presenza di fatture soggettivamente false (fornitore fittizio ma merce consegnata), alcuni contribuenti cercano di sostenere che non si tratta di “credito inesistente” bensì “credito non spettante” – distinzione tecnica rilevante perché il credito non spettante (imposta dovuta ma non detraibile per altri motivi) comporterebbe una sanzione del 30% invece che 90%. La prassi però qualifica come inesistenti le operazioni fittizie, dunque applica il 90%. Il contribuente può tentare la tesi più favorevole (sanzione 30%), ma la giurisprudenza la respinge in caso di operazione oggettivamente inesistente, mentre per ipotesi soggettive c’è stato qualche dibattito (talora risolto a favore del 90%). Se il contribuente adotta il ravvedimento operoso prima di essere formalmente contestato (o comunque prima della notifica dell’atto), la sanzione IVA può ridursi notevolmente: ad esempio a 1/5 del minimo (quindi 18% invece di 90%) se ravvede entro un anno, o 1/6 se oltre, ecc. In caso di definizione in adesione o conciliazione giudiziale, c’è la riduzione a 1/3 (il 90% diventa 60%). In presenza di buona fede conclamata, si può chiedere all’Ufficio di applicare la sanzione al minimo (ma 90% è già il minimo edittale per crediti inesistenti, quindi oltre alle riduzioni di rito non c’è molto margine).
- Imposte sui redditi (IRES/IRPEF) e IRAP: i costi relativi alle fatture false vengono integralmente disconosciuti. Ciò comporta che il reddito imponibile viene aumentato di pari importo e dunque il contribuente deve versare la maggiore imposta (IRES o IRPEF) su tale maggior reddito, oltre agli interessi. Anche qui si applica una sanzione proporzionale per dichiarazione infedele. L’art. 1, comma 2, D.Lgs. 471/97 prevede, per chi indica in dichiarazione elementi passivi fittizi (o comunque dichiara un reddito inferiore al reale), una sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Di solito l’Ufficio irroga il minimo (90%) in assenza di aggravanti particolari. Dunque, ad esempio, se 50.000 € di costi sono stati indebitamente dedotti e ciò corrisponde a 12.000 € di IRES evasa (aliquota 24%), la sanzione sarà di 10.800 € (90% di 12.000). Ci sono particolarità normative: come visto, il D.L. 16/2012 ha introdotto una norma specifica per i componenti positivi correlati a costi indeducibili da operazioni inesistenti, prevedendo una sanzione dal 25% al 50% dell’importo dei costi fittizi negati. Questa previsione si sovrappone in parte alla disciplina generale. In pratica, la prassi recente tende ad applicare entrambe le sanzioni (90% sull’imposta evasa + 25-50% sul costo fittizio) ma evitando il cumulo integrale: si applica il principio del cumulo giuridico, per cui la sanzione finale viene contenuta. Spesso la sanzione effettiva totale non supera il 100% del tributo evaso, ma la questione è tecnica e può essere oggetto di contestazione in giudizio (invocando il ne bis in idem amministrativo se l’Ufficio duplicasse le sanzioni).
- Altre imposte: se le fatture false hanno avuto impatto su altre imposte oltre IVA e redditi, si applicano le relative sanzioni. Ad esempio, in caso di false fatture per cessioni immobiliari, potrebbe esserci un’indebita esenzione o credito su imposta di registro; in frodi doganali possono esserci dazi evasi. In ogni caso, la gran parte delle situazioni riguarda IVA e imposte sui redditi, che abbiamo coperto.
- Sanzioni accessorie amministrative: nei casi di frode fiscale grave e ripetuta, l’Agenzia può proporre la sospensione della licenza o dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (art. 12 D.Lgs. 472/97) per un periodo da 3 mesi a 2 anni. Questa misura colpisce tipicamente chi emette fatture false in modo sistematico (come attività d’impresa illecita), più che l’utilizzatore occasionale inconsapevole. Inoltre, un contribuente recidivo in violazioni IVA potrebbe subire controlli più stringenti in futuro (es. obbligo di garanzie fideiussorie per ottenere rimborsi IVA). In generale però, per l’utilizzatore “vittima” le sanzioni accessorie sono evenienze rare.
- Riscossione e rateizzazione: le somme accertate, una volta definitive, vengono iscritte a ruolo ed eventualmente notificate tramite cartella (o ingiunzione) per la riscossione. Il contribuente può chiedere la rateizzazione: fino a 16 rate trimestrali (4 anni) oppure, per importi superiori a 50.000 €, fino a 20 rate trimestrali (5 anni) con garanzia. Se invece si chiude in adesione o conciliazione, c’è la possibilità di dilazionare in 8 rate trimestrali. Dal punto di vista pratico difensivo, quindi, uno scenario possibile è: perdere la causa ma ottenere una dilazione del carico, magari con sanzioni ridotte al minimo applicabile.
- Ravvedimento operoso come strumento di mitigazione: come accennato, il ravvedimento consente al contribuente di sanare spontaneamente una violazione prima che questa sia contestata formalmente. Dal 2019-2020 in poi, l’Agenzia delle Entrate – con circolare 11/E del 12.05.2022 – ha espressamente aperto al ravvedimento anche per violazioni inizialmente fraudolente. Ciò significa che, se un contribuente si accorge (o teme) di aver involontariamente utilizzato fatture false, può presentare una dichiarazione integrativa per correggere le precedenti (eliminando quei costi e l’IVA detratta) e pagare il dovuto con sanzioni ridotte. Questo può avvenire anche se l’azienda ha già subito una verifica, purché prima della notifica formale di un atto impositivo o del PVC conclusivo. Il vantaggio è evidente: sanzioni ridotte (ad esempio 1/6 del minimo, quindi ~15% dell’imposta invece del 90%, se ravvedimento “lungo”) e – come visto – effetti penali positivi (estinzione del reato se tutto pagato prima del dibattimento). Certo, ravvedersi significa ammettere la violazione e rinunciare al contenzioso su di essa; va quindi valutato caso per caso con l’assistenza di un esperto. È un’opzione da considerare specialmente se ci si rende conto che la difesa nel merito è molto incerta e i costi di un eventuale processo (anche penale) superano i benefici di tentare di resistere.
In conclusione sulle sanzioni amministrative: sono sicuramente ingenti, ma in parte negoziabili (tramite adesione, conciliazione) e riducibili (ravvedimento). Nel predisporre la difesa, però, è bene non farsi scoraggiare solo dall’ammontare potenziale: se si hanno buone ragioni, vale la pena lottare fino in fondo, perché in caso di annullamento totale dell’atto si azzera sia l’imposta che la sanzione. Se invece la situazione è compromessa, muoversi per tempo per ridurre il danno (pagando con sconti ed evitando il penale) può essere la scelta più saggia.
Profili di responsabilità penale
Abbiamo già delineato la cornice normativa penale (artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000) e i relativi reati in una sezione precedente. Ora esaminiamo la questione dal punto di vista pratico del contribuente: cosa succede se si viene coinvolti penalmente, quali strategie difensive ci sono in ambito penale, e come questo interagisce con la vicenda tributaria.
Quando scatta il penale?
In caso di false fatture, l’azione penale scatta in quasi tutti i casi rilevanti, poiché – come detto – non esistono soglie di evasione al di sotto delle quali i fatti non siano penalmente rilevanti (per art. 2 e 8 D.Lgs.74/2000). È sufficiente aver usato anche poche migliaia di euro di fatture fittizie con dolo di evasione perché tecnicamente il reato sia integrato. In pratica, la Guardia di Finanza, nel corso della verifica, se individua fatture false redige un PVC che viene trasmesso sia all’Agenzia Entrate per l’accertamento, sia alla Procura della Repubblica per la notizia di reato. A quel punto la Procura (tramite un PM specializzato in reati economici) aprirà un procedimento penale.
I soggetti tipicamente indagati sono: il legale rappresentante dell’azienda che ha utilizzato le fatture (per il reato ex art. 2), e il titolare/amministratore della società emittente (per il reato ex art. 8). Dal punto di vista del nostro debitore-contribuente (utilizzatore), quindi, l’indagato sarà il rappresentante legale (es. amministratore unico, o più membri del CdA se si prova un concorso decisionale). Se la società è piccola e l’amministratore sostiene “non ne sapevo nulla, ha fatto tutto il mio contabile”, quest’ultimo potrebbe a sua volta essere indagato; tuttavia, generalmente la responsabilità penale ricade su chi firma la dichiarazione (l’amministratore), salvo deleghe di funzioni molto specifiche.
Esempio: Alfa Srl ha utilizzato fatture false per 200.000 € di costi fittizi. L’Agenzia fa l’accertamento fiscale; la Procura incrimina l’amministratore di Alfa per dichiarazione fraudolenta (avendo inserito elementi passivi fittizi in dichiarazione) e l’emittente (se identificato, ad es. Beta Srl col suo prestanome) per emissione di fatture false.
Indagini e istruttoria
L’accusa ex art. 2 D.Lgs.74/2000 richiede di provare il dolo specifico di evasione. In altre parole, occorre dimostrare che l’amministratore era consapevole della falsità delle fatture e aveva il fine di evadere. Ciò lascia margine alla difesa penale per sostenere la mancanza di dolo: “pensavo fossero operazioni vere, sono stato ingannato”. Se tale tesi regge, la condotta non integra il reato (perché l’uso inconsapevole di fatture false – pur negligente – non è punito penalmente). Potrebbe semmai configurare un illecito amministrativo, ma non penale.
La difesa penale quindi può puntare su vari fronti:
- Buona fede dell’imputato: dimostrare che il contribuente ha agito in buona fede, senza sapere della frode. Questo è analogo a quanto discusso per il tributario, ma qui ha rilevanza decisiva: se manca la coscienza e volontà di utilizzare fatture false, manca l’elemento soggettivo del reato. Ad esempio, provare che l’amministratore si è fidato di documenti apparentemente regolari e che il fornitore era presentato come affidabile.
- Insufficienza di prove sulla falsità o sul dolo: evidenziare eventuali lacune probatorie dell’accusa. Ad esempio, se il PM non ha individuato chi ha realmente eseguito la prestazione, la difesa può sostenere che non vi è certezza assoluta che fosse una prestazione fittizia (anche se la Cassazione sul reato di emissione ha detto che non serve individuare il reale autore, come già notato). Per l’utilizzatore, dimostrare che la prestazione è stata resa da qualcuno (anche se non dal fatturatore) può aiutare a sostenere che egli legittimamente credeva di aver pagato chi di dovere, riducendo il dolo.
- Eccepire vizi procedurali e interpretazioni alternative: in ambito penale la difesa può cercare nullità negli atti investigativi (es. intercettazioni o perquisizioni non autorizzate a dovere). Oppure offrire letture alternative dei flussi finanziari: il contante prelevato dal fornitore non necessariamente è tornato al cliente – insinuare dubbi su questa correlazione può minare l’impianto accusatorio.
Ovviamente, se la difesa tributaria ha raccolto robusti elementi a favore (merce consegnata, ecc.), questi verranno portati anche nel penale per sostenere l’assenza di artificio o quantomeno la buona fede dell’imputato.
Scelte processuali: patteggiamento o processo
Per il reato di false fatturazioni, specie se gli importi sono significativi, va considerato che la pena edittale minima di 4 anni è alta. Ciò comporta che non è possibile evitare il carcere con la condizionale tramite una semplice condanna minima, perché la sospensione condizionale della pena si applica solo fino a 2 anni (massimo 2 anni e mezzo in casi eccezionali). Con un minimo edittale di 4 anni, l’unico modo per evitare misure detentive è ridurre la pena. Ecco perché la causa di non punibilità del pagamento integrale è stata estesa: lo Stato preferisce incassare i soldi e lasciare impunito il reo, piuttosto che inseguire condanne detentive lunghe (che peraltro affollano le carceri).
Dal punto di vista pratico, quindi, un imputato per art. 2 valuterà spesso di pagare integralmente il dovuto e chiedere l’archiviazione o il proscioglimento per intervenuto pagamento ex art. 13. Se è possibile economicamente, questa è di gran lunga la via più “pulita” per uscire dal penale.
Se non si può (o vuole) pagare tutto, c’è l’opzione del patteggiamento (applicazione della pena su accordo col PM). Ad esempio, patteggiando prima del dibattimento si può ottenere fino a 1/3 di sconto sulla pena; inoltre, se si sono pagate in parte le imposte, si può invocare l’attenuante del ravvedimento parziale (art. 13-bis), che il giudice può riconoscere. Così magari da 4 anni si scende a circa 2 anni e mezzo o meno, rendendo la pena sospendibile. Il patteggiamento comporta la condanna penale (seppur concordata) ma evita un lungo processo pubblico e spesso porta benefici come l’esclusione delle pene accessorie interdittive (se la pena patteggiata non supera i 2 anni).
Se invece l’imputato è convinto di poter dimostrare la sua innocenza (ad esempio perché era davvero estraneo consapevolmente alla frode), allora punterà all’assoluzione in dibattimento. Un’assoluzione piena “perché il fatto non sussiste” (ad es. dimostrando che i costi erano reali e lui non sapeva del prestanome) è il miglior risultato: oltre a evitare ogni sanzione, permette poi – come detto – di chiedere il rimborso delle imposte eventualmente pagate in più al Fisco (ricordiamo l’art. 14 L.537/93: se assolto, i costi tornano deducibili e l’Erario deve restituire quanto incassato su di essi).
Emittenti di fatture false: particolarità difensive
Dal punto di vista del nostro “debitore” tipo (utilizzatore), l’emissione di fatture false è meno rilevante, ma vale la pena spendere qualche parola anche su chi viene accusato di emettere false fatture (magari un professionista che “vende” fatture a terzi). Per costui la difesa è ancora più ardua: se la Procura ha raccolto le prove (fatture trovate, conti correnti con movimenti sospetti di ritorno, società di comodo intestate a nullatenenti, ecc.), il reato è solitamente ben configurato. Inoltre, pagare le imposte evase non aiuta l’emittente, perché l’art. 13 non si applica a chi emette (l’emittente non ha un debito tributario “suo” da estinguere, se non l’IVA indicata in fattura che comunque lo Stato esigerà da lui, ma questo non estingue il reato). Quindi l’emittente non ha quella scappatoia. Può sperare di patteggiare, magari mostrando di aver collaborato (es. indicando i beneficiari delle sue fatture false – una collaborazione che può portare ad attenuanti generiche). Oppure deve puntare su aspetti procedurali (vizi negli atti) o sulla propria posizione soggettiva: ad esempio, se era un mero prestanome ignorante potrebbe cercare l’assoluzione per difetto di dolo specifico (sostenendo: “mi pagavano per firmare ma io non capivo il fine evasivo” – scenario limite ma a volte invocato). In sintesi, per l’emittente le vie di uscita sono poche: la regola è patteggiare e contenere i danni.
Conseguenze penali accessorie
In caso di condanna per art. 2 o 8, oltre alla pena detentiva principale possono scattare le pene accessorie già menzionate: interdizione dai pubblici uffici e dall’esercizio di imprese o uffici direttivi di persone giuridiche. Queste interdizioni sono temporanee, di durata pari a quella della pena inflitta; se però la pena supera 3 anni, possono diventare permanenti (per i pubblici uffici). Ciò infligge un duro colpo all’imprenditore condannato, che non potrebbe amministrare società durante quel periodo.
Inoltre, la condanna comporta la confisca obbligatoria del profitto del reato: significa che se con la frode si sono risparmiati, poniamo, 100.000 € di tasse, il giudice ordinerà di confiscare una somma equivalente dai beni del condannato (denaro sui conti, immobili, ecc.). Se però il contribuente ha già versato quell’importo al Fisco quando è stato accertato, generalmente la confisca viene limitata all’eventuale differenza (non si va a confiscare due volte la stessa somma). Anche la società, come visto, può subire la confisca del profitto in sede di procedimento ex D.Lgs. 231.
Collegamento tra definizione fiscale e procedimento penale
Una domanda frequente è: “Se definisco l’accertamento tributario pagando imposte e sanzioni, il penale decade automaticamente?”. Risposta: non automaticamente, a meno che non si verifichino le condizioni dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000 viste sopra. Cioè: se il pagamento integrale (imposte + interessi + sanzioni) avviene prima dell’apertura del dibattimento penale, allora sì, quel pagamento causa l’estinzione del reato. Ma se il pagamento è fuori tempo (es. dopo l’inizio del dibattimento), aver sistemato col Fisco serve solo come circostanza attenuante. Quindi il tempismo è cruciale.
Altra domanda: “Se mi assolvono in penale perché il fatto non sussiste, è garantito che vincerò anche col Fisco?”. No, non automaticamente. In pratica, però, un’assoluzione “il fatto non sussiste” (quindi che l’operazione era reale, o che manca il dolo e quindi manca l’elemento oggettivo di reato) dovrebbe riflettersi sul giudice tributario come prova nuova per far revocare l’accertamento o ottenere il rimborso di quanto pagato. Purtroppo, i tempi differiscono: il processo tributario spesso si conclude prima di quello penale. Ad esempio, se il contribuente perde in Commissione e in Cassazione rapidamente, e viene confermato il debito tributario, ma anni dopo ottiene un’assoluzione penale, può solo chiedere il rimborso delle imposte dirette pagate (come detto, l’art. 14 L.537/93 lo prevede). L’IVA invece è più complicata da recuperare: la legge parla di “maggiori imposte versate per la non deducibilità dei costi” (quindi riguarda IRPEF/IRES). L’IVA, teoricamente, si potrebbe chiedere indietro con un’istanza di rimborso per indebito, sostenendo: “l’operazione c’era, quindi l’IVA era detraibile secondo i principi UE”. Non è automatico, ma ci sono margini da far valere. In generale, un’assoluzione piena nel penale aiuta enormemente anche nel rimettere le cose a posto col Fisco. Al contrario, se in penale si patteggia o si viene condannati, ciò formalmente non vincola il giudice tributario (per legge, la sentenza penale di condanna non vincola il tributario); però, in pratica, se hai patteggiato è come ammettere la frode, quindi difficilmente avrai successo nel contenzioso tributario (spesso infatti in questi casi il contenzioso fiscale si chiude prima, proprio con un’adesione o rinuncia).
Dalla prospettiva del debitore, alcuni consigli pratici quando c’è di mezzo anche il penale:
- Attivarsi immediatamente appena si percepisce un rischio penale: consultare un penalista esperto in reati tributari, valutare se esistono margini di incolpevolezza da far valere o se conviene piuttosto collaborare e pagare.
- Considerare il pagamento integrale come opzione chiave per chiudere la vicenda penale: se l’importo non è astronomico e la società/persona ha risorse o può procurarsele (finanziamenti, vendite di asset), pagare il dovuto può evitare anni di processo e possibili condanne. Lo Stato riconosce formalmente questa scelta come condotta virtuosa postuma e “perdona” penalmente.
- Coordinare la difesa tributaria e penale: ad esempio, può essere opportuno evitare di fare ammissioni in sede tributaria che possano pregiudicare la linea penale, e viceversa. Se in tributario si potrebbe dire “anche se c’è stata evasione io non ne sapevo niente”, ma contemporaneamente in penale l’azienda patteggia, quella ammissione contraddice la linea della non conoscenza – serve coerenza. Bisogna quindi pianificare le mosse su entrambi i fronti con una strategia unitaria (idealmente con avvocati tributari e penali che collaborano).
- Sfruttare eventuali successi nel tributario a favore nel penale (e viceversa): se l’accertamento tributario viene annullato perché gli indizi erano deboli, quel risultato può essere usato dal penalista per argomentare: “neanche in ambito amministrativo la tesi ha retto, figuriamoci in penale dove lo standard di prova è più alto”. Non è un argomento decisivo sul piano giuridico, ma fattualmente ha il suo peso. All’opposto, se in penale si ottiene un’archiviazione, nel tributario si può chiedere una revocazione in base alla sopravvenienza del giudicato penale assolutorio.
Infine, riguardo agli esiti: se condannati penalmente, dopo aver scontato la pena (o anche durante, se sospesa) rimane la macchia sul casellario giudiziale; per i professionisti ci possono essere conseguenze disciplinari; per gli imprenditori limitazioni nell’accesso a incarichi (ad es. niente appalti pubblici, perdita onorabilità per settori regolamentati ecc.). Se assolti, invece, oltre a poter chiedere i rimborsi fiscali, si potrebbe persino valutare un’azione per danni da ingiusta accusa (caso raro ma possibile, se vi fossero errori grossolani nelle indagini).
Giurisprudenza recente e casi rilevanti
Per avere un quadro avanzato e aggiornato, è utile conoscere alcune tra le più importanti pronunce degli ultimi anni su questa materia, che hanno consolidato principi fondamentali:
- Cassazione Civile, Sez. V, 9 agosto 2022 n. 24471: operazioni soggettivamente inesistenti. Ha stabilito che, per recuperare l’IVA su acquisti da soggetti fittizi, l’Amministrazione deve provare sia la fittizietà del fornitore sia la consapevolezza (anche in forma di colpevole ignoranza) del cessionario. In altre parole, il Fisco deve fornire indizi che il contribuente avrebbe dovuto notare (fornitore anomalo, prezzi fuori mercato, ecc.), mentre il contribuente per difendersi deve dimostrare di aver agito senza consapevolezza della frode e con massima diligenza. Questa pronuncia – recependo i principi UE – è alla base del nuovo orientamento della “doppia prova” nelle frodi soggettive, ed è richiamata anche da sentenze successive (es. Cass. 35091/2023).
- Cassazione Civile, Sez. V, 14 dicembre 2023 n. 35091: ha confermato i principi di cui sopra (richiamando esplicitamente Cass. 24471/2022) e ha aggiunto un’osservazione importante: ha ammonito che spesso l’accertamento si fonda sulla presunzione logica “fornitore irregolare = fatture false”, ma ciò non è un automatismo ineccepibile. Alla luce anche della riforma del processo tributario 2022 (art. 7, co. 5-bis D.Lgs. 546/92, che consente di assumere prove testimoniali scritte), il giudice deve valutare con rigore il peso di tale presunzione e considerare eventuali dichiarazioni di terzi. La Corte ha ricordato che lo schema tipico di frode IVA è l’interposizione soggettiva (frode carosello) dove la vendita è reale e la cartiera serve a evadere – scenario che implica operazione soggettivamente inesistente ma oggettivamente avvenuta. Quindi la semplice esistenza di una cartiera non basta a dire che l’acquirente non abbia ricevuto la merce: spesso la merce c’è, solo proveniva da un altro soggetto. Pertanto, la presunzione generalizzata “cartiera = tutto falso” non regge senza ulteriori evidenze sostanziali. Questo passaggio è utile alla difesa: se il Fisco ha ragionato in modo troppo semplicistico equiparando fornitore scorretto a operazione inesistente, la sentenza 35091/2023 fornisce appiglio per contestare la validità di tale assunto.
- Cassazione Civile, Sez. Unite, 30 settembre 2022 n. 28433: pur non riguardando specificamente fatture false, è rilevante sul tema delle prove nel processo tributario. Le Sezioni Unite hanno sancito che rimane preclusa la testimonianza orale tradizionale in udienza, ma nulla vieta al contribuente di produrre dichiarazioni rese da terzi in altre sedi (es. verbali di testimonianze raccolte in un processo penale, o dichiarazioni scritte extra-giudiziali) e che il giudice tributario possa valutarle come elementi indiziari. Inoltre, come detto, la riforma del 2022 consente per le nuove cause alcune testimonianze scritte con giuramento. Questo significa che oggi è più facile utilizzare efficacemente le deposizioni dei fornitori o di altri soggetti a favore del contribuente (ad es., se un fornitore in sede penale ha ritrattato dicendo “in realtà la merce l’ho consegnata io veramente”, quella dichiarazione può essere portata in Commissione Tributaria come prova favorevole).
- Cassazione Civile, Sez. V, 20 dicembre 2021 n. 28628: (richiamata anche da Cass. 35091/2023) – Operazioni oggettivamente inesistenti. Ha ribadito che, in caso di contestazione di fatture per operazioni inesistenti, il contribuente deve provare l’effettiva esistenza dell’operazione, e che la sola regolarità formale di contabilità e pagamenti non è sufficiente a dimostrare la realtà (serve produrre riscontri materiali).
- Cassazione Civile, Sez. V, 14 ottobre 2022 n. 30018 (ordinanza): ha affrontato il tema della deducibilità dei costi in presenza di frodi. Ha confermato che i costi “soggettivamente” falsi (operazione reale, fornitore fittizio) sono deducibili ai fini del reddito, anche se il contribuente era consapevole della frode (fermo restando che vi sia effettività e inerenza del costo), mentre restano indeducibili i costi “oggettivamente” falsi. Ciò in applicazione del principio di tassazione del reddito effettivo: se un costo, ancorché frutto di reato, ha effettivamente eroso il patrimonio dell’impresa ed è inerente, va dedotto, salvo sia escluso da altra norma (art. 14, c.4-bis opera finché pende il processo, ma se c’è condanna definitiva quei costi diventano definitivamente indeducibili). Implicazione pratica: un’azienda contestata per costi soggettivamente falsi può far leva su questa sentenza per chiedere di mantenere la deduzione di quei costi (pur pagando l’IVA e relative sanzioni), dimostrando che qualcuno quei beni/servizi li ha forniti e pagato c’è stato.
- Cassazione Civile, Sez. V, 11 novembre 2024 n. 28999: (in linea con Cass. 20411/2024, cit. da Sistema Ratio) – ha ribadito le motivazioni dell’indetraibilità IVA nelle operazioni soggettivamente inesistenti. Ha affermato chiaramente che quando fattura e realtà divergono nei soggetti, viene meno il presupposto della detrazione (l’operazione ai fini IVA non può considerarsi effettuata ai sensi dell’art. 19 DPR 633/72), poiché l’IVA è stata versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa né debitore d’imposta. In sostanza, l’IVA pagata al “falso” fornitore è considerata “fuori conto” e non detraibile. Questa sentenza conferma la linea dura sulla indetraibilità oggettiva dell’IVA anche nei casi di frode soggettiva (in coerenza col principio dell’art. 21 co.7 DPR 633/72). Per il difensore, significa che anche dimostrando la buona fede difficilmente si otterrà la detrazione in giudizio; al più si potranno evitare sanzioni, ma l’IVA resta un’imposta “oggettiva” che non ammette l’errore incolpevole come esimente.
- Cassazione Penale, Sez. III, 17 aprile 2023 n. 16576: importante sul fronte penale. Ha chiarito che il reato di emissione di fatture false (art. 8) sussiste anche se non si individua chi abbia svolto effettivamente la prestazione e anche se poi l’evasione non si è realizzata, perché l’elemento costitutivo è la condotta di creare documenti mendaci per consentire l’evasione. Inoltre ha sottolineato che l’effettivo mancato versamento d’imposta non è richiesto come evento del reato; rileva solo come dolo specifico (fine di evadere). Questa sentenza fornisce una base giurisprudenziale autorevole, ad esempio, per contrastare difese dell’emittente del tipo “ma io ho emesso la fattura però poi i terzi hanno versato l’IVA, quindi…”. Non regge: il reato c’è comunque al momento dell’emissione. D’altra parte, per l’utilizzatore, una pronuncia così ricorda che non conta se il trucco ha funzionato o meno, conta averci provato con documenti falsi – il reato di dichiarazione fraudolenta scatta indipendentemente dal risultato. (Sentenza coerente con Cass. pen. 24307/2017)
- Cassazione Penale, Sez. III, 2 maggio 2022 n. 16800: ha stabilito che “l’imprenditore che utilizza fatture false risponde soltanto del reato di frode fiscale e non concorre nel reato di emissione di documenti falsi”. Ciò serve a evitare doppie incriminazioni: come già spiegato, se sei utilizzatore non ti possono contestare anche l’emissione solo perché magari hai materialmente auto-prodotto la fattura intestandola a una cartiera consenziente. La Cassazione in quell’occasione ha escluso il concorso nel reato di emissione per l’utilizzatore, chiarendo la separazione dei ruoli. Questo precedente è utile perché talvolta in passato le Procure caricavano entrambe le imputazioni sui destinatari delle fatture; ora la difesa può opporsi richiamando questa pronuncia.
- Cassazione Penale, Sez. III, 27 ottobre 2023 n. 45525: ha affrontato nuovamente la questione del concorso di persone tra emittente e utilizzatore nelle frodi IVA. In linea con la sentenza 16800/2022, ha confermato che si tratta di fattispecie autonome e parallele, per cui l’utilizzatore non è correo nel reato di emissione. Inoltre, ha richiamato il concetto del “doppio dolo”: l’emittente deve avere il dolo di far evadere altri, l’utilizzatore il dolo di evadere lui stesso; sono fini paralleli ma distinti. Questa pronuncia quindi ribadisce e rafforza la distinzione delle responsabilità.
- Corte di Giustizia UE, 18 ottobre 2018, causa C-153/17 (“Volkswagen”): merita una menzione in ambito europeo. La CGUE ha affermato che, in caso di frode a monte (fornitore evasore), se il cessionario è ignaro e non poteva sapere dell’altrui frode, il diritto a detrazione non può essere negato (principio di neutralità IVA). Tuttavia, ha anche riconosciuto che gli Stati membri possono esigere dal soggetto che detrae l’IVA un certo onere di diligenza (non estremo, ma adeguato alle circostanze). L’Italia, come visto, ha recepito solo in parte questi principi: ha introdotto la “doppia prova” (fornitore fittizio + scientia fraudis) ma continua di fatto a negare la detrazione in presenza di fattura soggettivamente falsa, anche a contribuenti incolpevoli, salvo rimuovere sanzioni. In extremis, un contribuente in buona fede potrebbe portare la questione davanti alla Corte di Giustizia se dovesse subire la perdita della detrazione nonostante massima diligenza: la giurisprudenza UE tutela infatti il contribuente diligente e non permetterebbe di fargli sopportare l’IVA che il fornitore ha evaso. Al momento, tuttavia, la prassi interna resta quella descritta.
In definitiva, la giurisprudenza recente consolida alcuni trend: maggiore attenzione alla posizione del contribuente inconsapevole (anche se ciò non gli salva comunque l’IVA, per ora), riconoscimento della deducibilità dei costi reali anche in presenza di frode (aspetto importante per ridurre i danni economici), e severità penale mitigata dalla possibilità di ravvedersi e pagare.
Dal punto di vista difensivo, citare le sentenze giuste può dare autorevolezza alle tesi sostenute. Ad esempio: per l’onere della prova si richiameranno Cass. 24471/2022 e 35091/2023; per la deducibilità dei costi Cass. 30018/2022; per la non punibilità penale in caso di pagamento la L. 157/2019 e la Circolare Entrate 11/2022; per la separazione tra emissione e utilizzo Cass. 16800/2022, ecc. – tutte fonti autorevoli, come richiesto in una difesa avanzata.
Domande frequenti (FAQ)
D: Cosa si intende esattamente per “fattura per operazione inesistente”?
R: È una fattura emessa senza che vi sia un’effettiva operazione economica corrispondente, oppure emessa da un soggetto diverso dal reale fornitore dell’operazione. In sostanza, un documento falso o fittizio. Può trattarsi di una falsità oggettiva (nulla è avvenuto: la fattura documenta una vendita/prestazione mai accaduta) o soggettiva (il bene/servizio è stato ceduto da A a B, ma in fattura risulta come ceduto da C, un prestanome). In entrambi i casi la fattura serve tipicamente a creare un costo fittizio e un credito IVA indebito per chi la utilizza, e spesso a consentire al vero fornitore di occultare il ricavo non fatturandolo.
D: Quali differenze ci sono tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti ai fini della difesa?
R: Nel caso di un’operazione oggettivamente inesistente (cioè mai avvenuta), la difesa può solo cercare di dimostrare che invece l’operazione c’è stata davvero – il che, se la realtà è che non c’è stata, risulta impossibile. Se l’operazione non è mai avvenuta, di fatto non c’è difesa sul merito, se non eventualmente far leva su errori procedurali o carenze di prova formale del Fisco. Invece, per un’operazione soggettivamente inesistente, la difesa può argomentare che l’operazione in sé è avvenuta (beni consegnati, servizi resi) e che il contribuente era in buona fede riguardo all’identità fittizia del fornitore. In tal caso, pur dovendo restituire l’IVA (secondo la legge italiana vigente), si può almeno evitare le sanzioni se si dimostra di aver fatto tutto il possibile per prevenire la frode. Inoltre, i costi sostenuti per operazioni soggettivamente inesistenti possono rimanere deducibili se erano reali e inerenti, mentre se l’operazione è oggettivamente falsa nessun costo è deducibile (perché non c’è stata alcuna spesa effettiva).
D: Cosa deve provare l’Agenzia delle Entrate per contestarmi l’utilizzo di fatture false?
R: L’Ufficio deve provare – anche attraverso presunzioni semplici ma gravi, precise e concordanti – che la fattura si riferisce a un’operazione inesistente. Ad esempio, può provare che il tuo fornitore era in realtà una cartiera senza struttura, o che la merce in realtà non è mai stata consegnata, o che i soldi che hai pagato ti sono tornati indietro “in nero”. In caso di operazione soggettivamente falsa, deve anche dimostrare che esistevano elementi tali che tu avresti dovuto accorgerti della frode (fornitore anomalo, prezzi troppo vantaggiosi fuori mercato, pagamenti con triangolazioni strane, ecc.). Una volta forniti questi elementi indiziari qualificati, scatta a tuo carico l’onere di provare il contrario (cioè la genuinità dell’operazione e/o la tua buona fede).
D: Come posso difendermi efficacemente se sono accusato di aver utilizzato fatture inesistenti?
R: Devi raccogliere prove concrete a sostegno della reale esistenza delle operazioni. Alcuni esempi di passi da compiere: presentare i documenti di trasporto (DDT) che attestano la consegna dei beni, eventuali contratti o email con cui hai ordinato e ricevuto la merce/servizio, foto dei beni in magazzino o del lavoro svolto, testimonianze di clienti o dipendenti che confermino la fornitura. Inoltre, mostra di aver effettuato verifiche sul fornitore (visure camerali, controlli fiscali, DURC, referenze) e di non aver avuto alcun segnale di allarme. In sede di ricorso, allega tutto: fatture di acquisto correlate, registri di magazzino che evidenziano l’entrata dei beni, evidenze dei pagamenti effettuati e dimostra che i soldi non ti sono rientrati indietro. Contesta puntualmente le accuse: se ti dicono “il fornitore non aveva mezzi per consegnare”, produci prove che la consegna l’hai organizzata tu o affidata a un corriere esterno; se dicono “il fornitore non aveva dipendenti”, dimostra che magari quei lavori sono stati subappaltati ad altri (e magari allega le relative fatture tra fornitore e subappaltatori). Ogni dettaglio può servire a smontare la ricostruzione del Fisco. E soprattutto, se davvero eri all’oscuro della frode, fai emergere la tua diligenza: se hai preso una cantonata ma in buona fede, evidenzialo chiaramente con i fatti (documenta tutto ciò che hai controllato).
D: È vero che basta che la fattura sia regolare e che il pagamento sia tracciato per stare tranquilli col Fisco?
R: Purtroppo no. La Cassazione ha chiarito più volte che la mera regolarità formale (fattura corretta e pagamento con bonifico) non prova affatto che l’operazione sia reale. Anzi, spesso chi fa frodi si premura proprio di far apparire tutto formalmente a posto: i truffatori fanno fatture perfette e incassano su banca, poi magari restituiscono i soldi in contanti. Quindi, in caso di verifica, esibire fatture e bonifici è solo il punto di partenza: servirà ben altro (DDT, contratti, prove materiali della fornitura, etc.) per convincere il Fisco e il giudice che la transazione non era fittizia. Attenzione quindi a non pensare “ho la fattura e ho bonificato, quindi l’Agenzia non può dirmi nulla”: se la controparte poi sparisce o risulta un’impresa fantasma, i guai arrivano comunque.
D: Posso detrarre l’IVA di una fattura se io non sapevo fosse falsa (ero in buona fede)?
R: Secondo la legge italiana vigente e l’interpretazione prevalente, no, non puoi. Se l’operazione è inesistente, l’IVA è oggettivamente indetraibile (art. 21, co.7 DPR 633/72). Il fatto di essere in buona fede può, al limite, evitarti le sanzioni e le conseguenze penali, ma non ti restituisce il diritto alla detrazione: dovrai comunque restituire l’IVA detratta. Tuttavia, su questo punto c’è un dibattito per le operazioni soggettivamente inesistenti: la giurisprudenza UE direbbe che, se proprio non potevi sapere della frode, dovresti mantenere il diritto a detrazione. In Italia però, di fatto, devi dimostrare un tale grado di diligenza e assenza di colpa che – quando riesci a farlo – spesso già l’Ufficio desiste o il giudice annulla l’atto per difetto di prova sulla tua complicità. In tal caso, di fatto potresti salvare la detrazione (perché cade la contestazione). Ma formalmente, la regola di diritto interna resta: l’IVA è indetraibile sempre sulle fatture false, anche se eri vittima inconsapevole. Al massimo, in caso di tua piena buona fede dimostrata, avrai zero sanzioni a tuo carico, ma l’imposta la perdi comunque (salvo voler intraprendere una causa citando i principi comunitari, cosa complessa).
D: I costi documentati da fatture false sono comunque deducibili ai fini delle imposte sui redditi?
R: Dipende. Se la fattura è oggettivamente falsa (operazione mai esistita), quel costo non esiste proprio: quindi non è deducibile e ti verrà ripreso a tassazione aumentando il reddito. Se invece è soggettivamente falsa (bene/servizio ricevuto davvero ma fatturato da soggetto diverso), allora il costo effettivo c’è stato – hai effettivamente pagato qualcuno per quel bene/servizio – quindi in linea di principio sarebbe deducibile. La Cassazione ha confermato che in tal caso, a differenza dell’IVA, il costo va riconosciuto per determinare il reddito reale. Però attenzione: interviene l’art. 14, comma 4-bis L.537/93 che dice che, se c’è un procedimento penale per reato non colposo (come la frode fiscale), quei costi non sono deducibili finché il processo è pendente. Quindi nell’immediato l’Agenzia te li toglie. Se poi vieni condannato penalmente per l’uso di quelle fatture, quei costi restano indeducibili definitivamente (erano costi “da reato”). Se invece in penale sei prosciolto o paghi tutto estinguendo il reato, allora potrai far valere la deducibilità e chiedere rimborso delle imposte pagate. In pratica: sì, i costi reali sarebbero deducibili, ma se ti accusano di frode te li sospendono; se poi vieni assolto torneranno deducibili e avrai diritto a rimborso, se vieni condannato restano indeducibili per sempre. Spesso le Entrate, in attesa dell’esito penale, ricalcolano il reddito senza quei costi: potrai contestare citando Cass. 30018/2022 che quel costo andava ammesso perché effettivamente sostenuto nonostante la frode, ma servirà almeno un proscioglimento penale per riaverlo dedotto. In ogni caso, mai deducibili sono i costi totalmente fittizi (nessuno ha fornito nulla) e ovviamente anche le porzioni di costo gonfiate artificialmente oltre il valore normale (perché per la parte eccedente non c’è effettività né inerenza).
D: A quanto ammontano le sanzioni amministrative che rischio?
R: Molto elevate. In sintesi: dovrai restituire tutta l’IVA detratta indebitamente, con gli interessi, e pagare una sanzione del 90% su tale imposta (nel caso standard). Inoltre, dovrai pagare le maggiori imposte sui redditi dovute per i costi non ammessi in deduzione, più gli interessi, e la sanzione del 90% su queste imposte. Quindi grosso modo, per ogni importo indebitamente dedotto/detratto pagherai quasi il doppio: l’imposta/IVA non versata (100%) + una sanzione intorno al 90% di essa. Se poi hai usato crediti in compensazione, la sanzione sale al 100-200% su quei crediti. Ci possono essere sanzioni accessorie come la chiusura temporanea dell’attività (rare, solo in casi estremi) o la decadenza da benefici fiscali. Parliamo di cifre importanti: ad esempio, per 100.000 € di fatture false potresti ricevere un atto da 100k di IVA + 24k di IRES + circa 112k di sanzioni varie (90% su IVA e IRES, magari qualcosa in più per IRAP) + interessi. Di contro, se ti ravvedi per tempo, queste sanzioni possono ridursi moltissimo (anche a 1/7 o 1/8 del normale). E se hai ottime ragioni nel merito, puoi in contenzioso farti annullare tutto, sanzioni incluse. Quindi il ventaglio va da “quasi il doppio di ciò che hai detratto” nel peggior caso, a “solo imposte con piccola multa” se collabori subito, a “nulla” se vinci in giudizio.
D: E a livello penale, cosa rischio se uso fatture false?
R: Rischi una condanna penale per dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. 74/2000. La pena prevista oggi è la reclusione da 4 a 8 anni. Se l’ammontare delle fatture false è inferiore a 100.000 €, la fascia di pena è 1 anno e 6 mesi – 6 anni (comunque molto severa). Inoltre, avresti le pene accessorie: interdizione dai pubblici uffici, dalle cariche d’impresa, etc., per la durata della pena. Nel concreto, però, hai delle vie d’uscita: se paghi tutte le imposte, sanzioni e interessi prima del dibattimento, non vieni punito penalmente (estinzione del reato). Oppure puoi patteggiare per ottenere una pena ridotta magari a circa 2 anni (che potenzialmente può essere sospesa condizionalmente, evitando il carcere effettivo). Se invece neghi e vai a processo, dovrai puntare all’assoluzione dimostrando che eri estraneo al dolo. Se ci riesci, esci pulito; se no e vieni condannato, di solito per un incensurato la pena si attesta sui 2-3 anni con concessione di benefici (nonostante il minimo edittale 4 anni, si tende ad applicare attenuanti generiche, circostanze attenuanti per ravvedimento parziale, etc., per scendere sotto ai 4). In ogni caso, il procedimento penale è serio: possono scattare sequestri preventivi dei tuoi beni fino a concorrenza delle imposte evase (in vista poi della confisca), perquisizioni della Guardia di Finanza, e un pesante danno reputazionale per te e la tua azienda. Quindi il rischio penale è alto: potenzialmente il carcere (anche se spesso poi si evita con la condizionale o misure alternative, ma è comunque una spada di Damocle).
D: Se invece sono stato io a emettere fatture false per altri, cosa rischio?
R: Rischi il reato ex art. 8 D.Lgs. 74/2000, anch’esso con pena 4-8 anni di reclusione. In più, se hai emesso molte fatture in uno schema organizzato, spesso contestano anche l’associazione per delinquere (se c’era un sistema con più persone dedicato alle frodi). Non c’è la chance di estinguere il reato pagando, perché l’emittente non ha un debito d’imposta “personale” da estinguere (a parte l’IVA indicata in quelle fatture, che comunque lo Stato ti chiederà di versare, ma questo non ti salva dal penale). Per il resto, la dinamica è simile: puoi patteggiare per ridurre la pena; subirai la confisca dei profitti (di solito avrai percepito un 2-3% di commissione sulle false fatture – quel guadagno illecito viene confiscato); anche per te scatteranno interdizioni e discredito professionale. Se eri un mero prestanome di una cartiera, potresti difenderti dicendo che non avevi cognizione del fine evasivo (ti pagavano per firmare, ma tu non capivi bene) – è una difesa difficile, ma in qualche caso può evitare il dolo specifico, almeno per attenuare la posizione. Nota: se come emittente non hai versato l’IVA sulle fatture (cosa probabile), l’Agenzia Entrate potrà chiederti comunque quell’IVA (sei debitore d’imposta in solido) e applicarti le relative sanzioni, ma questo non ti evita la condanna penale.
D: Ho sentito parlare di ravvedimento operoso anche per le frodi; posso sanare spontaneamente la situazione prima di essere scoperto?
R: Sì. Dal 2022 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito ufficialmente (Circolare 11/E) che anche chi ha commesso frodi (dichiarazione fraudolenta) può accedere al ravvedimento operoso. Ciò significa che puoi presentare una dichiarazione integrativa per l’anno in questione in cui rimuovi quei costi fittizi e riduci di conseguenza i crediti IVA, e quindi versare tutto il dovuto (imposte, IVA da restituire, interessi e sanzioni ridotte). Facendo ciò prima che ti contestino formalmente la violazione (o comunque prima della chiusura delle indagini), ti metti in regola fiscalmente con sanzioni molto ridotte (es. se lo fai quando magari la verifica è già iniziata ma prima del PVC, potresti pagare sanzioni pari a 1/8 di quelle normali). Sul piano penale, questo pagamento integrale ti salva dal processo: costituisce la causa di non punibilità se completato nei termini (prima del dibattimento penale). Quindi il ravvedimento è fortemente consigliato se ti rendi conto di avere in contabilità fatture false e ancora non hai ricevuto accertamenti: meglio autodenunciarti fiscalmente e pagare un po’ di sanzioni ridotte, che attendere di essere scoperto e rischiare sanzioni piene + un procedimento penale. Ovviamente va valutato bene con un professionista come farlo e le conseguenze (ad esempio, se la cosa è già nota alla Procura per altri motivi, il ravvedimento potrebbe arrivare troppo tardi per fermare il penale; ma se sei il primo a scoprirlo e segnalarlo, funge anche da collaborazione attiva).
D: Quanto tempo ha il Fisco per contestarmi queste cose?
R: I termini di accertamento ordinari sono, come detto, fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello della dichiarazione incriminata (es. per l’anno d’imposta 2020, il termine è fine 2025). Se non hai presentato la dichiarazione (non usuale in questi casi, perché chi usa fatture false tipicamente presenta la dichiarazione, seppur infedele), si va a 7 anni. Inoltre, per le violazioni commesse fino al 2015, se c’era un reato tributario e la GdF ha fatto denuncia, i termini raddoppiavano (quindi potevano arrivare all’ottavo anno). Dopo la riforma del 2016 il raddoppio c’è solo se la dichiarazione era omessa. In pratica, spesso per le fatture false l’accertamento arriva entro ~8 anni dall’anno contestato (5 anni base + possibili proroghe). Per il penale, la prescrizione del reato di frode fiscale è circa 8 anni, estendibile a 10-11 con atti interruttivi (dipende da vari fattori, ma con le pene aumentate nel 2019 la prescrizione è 8 anni + eventuali prolungamenti). Quindi possono indagarti anche parecchio tempo dopo (se la frode emerge tardi), ma di solito se c’è segnalazione agiscono prima (entro 2-3 anni scatta l’indagine). Diciamo che, trascorsi più di 10 anni, sul penale puoi stare abbastanza tranquillo (sarebbe prescritto), e trascorsi oltre 5 (o 7 in casi di omessa dichiarazione) sei fuori rischio fiscale per decadenza dei termini.
D: Cosa succede se vengo assolto in sede penale?
R: Se l’assoluzione penale è piena (perché il fatto non sussiste o perché non lo hai commesso), la legge tributaria ti dà diritto al rimborso delle imposte che avevi pagato perché quei costi non te li avevano dedotti. In pratica: supponiamo che tu abbia perso nel 2023 in Cassazione tributaria e hai dovuto pagare tutto, ma nel 2025 la Corte d’Assise (penale) ti assolve dicendo che non c’era frode – tu puoi presentare istanza di rimborso per le imposte sui redditi pagate in più, e l’Agenzia deve restituirtele. Questo perché la legge riconosce che, se non c’è reato, il costo torna deducibile ex tunc. Invece, per l’IVA la situazione è più complicata: la norma (L.537/93) menziona il rimborso delle “imposte” in senso di imposte sui redditi. Per l’IVA eventualmente potresti chiedere separatamente la restituzione come indebito, sostenendo che – essendo l’operazione reale secondo il giudicato penale – quell’IVA era detraibile e quindi non doveva esserti addebitata. Non è un automatismo e potrebbe richiedere un ulteriore ricorso. Comunque, un’assoluzione penale piena ti mette in una posizione fortissima anche verso il Fisco. D’altra parte, se in penale patteggi o sei condannato, ciò formalmente non fa testo nel tributario (nel senso che il giudice tributario non è obbligato a adeguarsi). Però in pratica, se hai patteggiato in penale, è come se avessi ammesso la frode, quindi difficilmente vincerai nel tributario (spesso infatti il contenzioso tributario viene chiuso prima con adesione in questi casi, o comunque i giudici tributari tengono conto della condotta).
D: Cosa posso fare per prevenire problemi di fatture false?
R: Meglio prevenire che curare! Quindi: attua sempre una diligente selezione dei fornitori. Verifica l’identità e l’affidabilità di nuovi fornitori: chiedi visura camerale aggiornata; controlla che abbiano una sede fisica effettiva; magari fai una ricerca online per vedere se ci sono segnalazioni; verifica lo status della partita IVA (se estero, usa il VIES); chiedi referenze ad altri clienti. Diffida di offerte troppo vantaggiose (prezzi molto sotto il mercato possono nascondere giri strani) o di richieste di pagamento anomale (tipo “paga una società estera per merce consegnata da un’italiana” ecc.). Se possibile, inserisci nei contratti clausole in cui il fornitore garantisce la genuinità fiscale delle operazioni e si impegna a risarcirti se mai risultasse essere una cartiera – magari non ti salverà dal Fisco, ma potrai rivalerti civilmente su di lui. Tieni traccia di tutta la documentazione logistica: se compri beni, pretendi i DDT; se subappalti lavori, assicurati che i lavoratori siano identificati e registrati sul cantiere (così se qualcuno controlla, risulta che c’erano davvero). Insomma, costruisciti un audit trail. Inoltre, occhio ai segnali durante il rapporto: se un fornitore ti cambia spesso coordinate bancarie, o ti chiede di intestare ordini a società diverse nel tempo, o non ti permette mai visite in sede, potrebbe esserci qualcosa di strano – in quel caso, meglio interrompere subito i rapporti, approfondire, o persino segnalare all’Agenzia se sospetti fortemente (in modo da metterti al riparo dimostrando di non essere complice). Un altro consiglio: fai controllare periodicamente i fornitori principali al tuo commercialista/revisore; loro spesso hanno occhio per individuare situazioni anomale (es. vedono se la P.IVA del fornitore risulta cessata o “a rischio” da banche dati, o se gira voce nel settore che sia una cartiera). Implementare un sistema interno di verifica (checklist fornitori, procedure KYC – know your counterparty) è la miglior difesa per evitare di cadere vittima di frodatori. In sintesi: “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” quando scegli con chi fare affari.
Simulazioni pratiche (casi di esempio)
Per capire in modo più concreto come applicare i principi esposti, proponiamo ora alcune simulazioni pratiche, cioè casi ipotetici (basati su situazioni ricorrenti nella pratica italiana) con l’indicazione di come dovrebbe muoversi il contribuente (debitore) in ciascuna situazione e quali potrebbero essere gli esiti.
Esempio 1: Operazione soggettivamente inesistente con contribuente inconsapevole
Scenario: La Alfa Srl acquista semilavorati di alluminio dalla Beta Srl per €50.000 + IVA €11.000. La merce viene effettivamente consegnata ad Alfa e utilizzata nel suo processo produttivo. Alfa paga Beta con regolare bonifico. Dopo un anno, emerge (da indagini della GdF) che Beta Srl è in realtà una cartiera: non aveva struttura né dipendenti e serviva solo da emittente di fatture; i semilavorati in verità provenivano dalla Gamma Spa, una grossa fonderia che vendeva “in nero” usando Beta come schermo interposto. Alfa Srl non sapeva nulla di Gamma Spa: risultava aver trattato con Beta, presentatale da un intermediario commerciale. L’Agenzia delle Entrate contesta ad Alfa l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti (fornitore fittizio) e le notifica un avviso di accertamento chiedendo: il versamento dell’IVA detratta (€11.000) + interessi + sanzione 90% (€9.900) e il recupero di €50.000 di costo indeducibile, con maggior IRES (€12.000) + sanzione 90% (€10.800). Totale pretesa circa €43.700 tra imposte e sanzioni (oltre interessi). Contestualmente parte la notizia di reato: amministratore di Alfa indagato ex art.2, amministratore di Beta indagato ex art.8, responsabili di Gamma indagati (per frode carosello).
Difesa del contribuente: Alfa Srl, con il supporto di un legale tributarista, presenta ricorso sostenendo di aver agito in totale buona fede e contestando il riparto dell’onere probatorio. In particolare, porta in giudizio: (a) le visure camerali e fiscali di Beta Srl all’epoca: Beta risultava attiva, iscritta in CCIAA, rappresentata dal sig. Rossi incensurato – insomma nessun segnale evidente di anomalia; (b) le email di ordine e conferma con Beta, in cui Beta comunicava coordinate bancarie e condizioni come un normale fornitore; (c) i DDT firmati dal trasportatore che consegnò i semilavorati ad Alfa, indicando Beta come mittente; (d) una dichiarazione testimoniale del titolare dell’azienda di trasporto, che conferma di aver ritirato la merce presso la fonderia Gamma su incarico di Beta (ciò rivela che Beta era un intermediario, ma Alfa spiega di non aver potuto saperlo all’epoca); (e) prova che il prezzo pagato (€50k per tot tonnellate di alluminio) era in linea col mercato, dunque Alfa non aveva ottenuto un vantaggio sospetto anormale; (f) evidenze interne che Alfa ha correttamente contabilizzato e utilizzato quei semilavorati nella produzione (registro di produzione che mostra output coerenti con quell’input di alluminio, ecc.). Inoltre, Alfa sottolinea che Beta Srl risultava addirittura in regola col DURC (aveva presentato un DURC valido – sebbene forse artefatto – ma Alfa non poteva capirlo).
Giuridicamente, Alfa Srl argomenta che l’Agenzia non ha provato che Alfa fosse consapevole della frode – Beta aveva tutta l’apparenza di un fornitore legittimo. Invoca la giurisprudenza che richiede la prova della conoscibilità della frode con ordinaria diligenza (Cass. 24471/2022 etc.). Alfa evidenzia di aver esercitato la diligenza media: ha controllato la partita IVA, l’iscrizione al Registro Imprese, ha un contratto firmato, ha pagato su conto intestato a Beta, aveva persino un DURC, ecc. Dunque chiede l’annullamento dell’atto, quantomeno nella parte sanzionatoria e – se possibile – anche per IVA e costi.
Possibile esito: La Corte di Giustizia Tributaria, vista la documentazione, potrebbe ritenere che effettivamente l’operazione c’è stata (merce consegnata e usata) e che Alfa Srl non era connivente. A questo punto sono possibili più soluzioni: (i) Soluzione favorevole parziale: il giudice conferma il recupero dell’IVA (perché l’art. 21 co.7 DPR 633/72 è implacabile: Beta non era il vero cedente, quindi la detrazione IVA non spetta), ma annulla le sanzioni IVA per obiettiva incertezza o buona fede, e riconosce la deducibilità del costo ai fini IRES perché effettivamente sostenuto e inerente. Quindi Alfa dovrebbe versare gli €11.000 di IVA (con relativi interessi) ma non la sanzione su di essa, e non pagherebbe nulla per l’IRES (né imposta né sanzione, mantenendo il costo dedotto). (ii) Soluzione favorevole totale: il giudice – magari ispirandosi al diritto UE – annulla anche il recupero dell’IVA, sostenendo che negare la detrazione in caso di comprovata buona fede contrasta coi principi comunitari. Non tutti i collegi osano tanto, ma qualcuno sì: in tal caso Alfa vincerebbe su tutti i fronti e nulla sarebbe dovuto (scenario ideale). Oppure (iii) Soluzione sfavorevole: il giudice ritiene valida la tesi dell’Ufficio: Beta era falsa, poco importa la buona fede, e conferma integralmente l’atto. In tal caso Alfa potrebbe comunque fare appello e avrebbe buone chance di spuntarla in secondo grado almeno sulla parte sanzioni/costi, dato l’orientamento Cassazione favorevole su costi deducibili e diligenza. Nel frattempo, sul piano penale, l’amministratore di Alfa è stato indagato, ma la sua difesa presenta le stesse prove di buona fede al PM e riesce ad evitare il rinvio a giudizio (il PM chiede l’archiviazione per mancanza di elementi sul dolo specifico). Beta Srl e Gamma Spa invece verranno perseguite penalmente (Beta come emittente, Gamma per frode carosello). Alfa, dopo questa disavventura, d’ora in avanti farà controlli ancor più accurati sui nuovi fornitori.
Esempio 2: Operazione oggettivamente inesistente orchestrata dal contribuente (frode “classica”)
Scenario: La Delta Srl, per abbattere il proprio utile fiscale, si accorda con l’amico Epsilon (titolare di una ditta individuale di fatto inattiva) per farsi emettere fatture di consulenza informatica inesistenti. Nel corso di un anno, Epsilon emette a Delta fatture per €80.000 + IVA €17.600, descrivendo “sviluppo software” mai avvenuto. Delta registra le fatture, paga Epsilon con bonifico, poi Epsilon preleva i contanti e restituisce in nero l’80% dell’importo a Delta (trattenendo per sé un 20% di commissione). L’anno seguente, la frode viene scoperta durante una verifica fiscale (magari perché Epsilon era già sospetto in altre operazioni e la GdF risale a Delta). L’Agenzia notifica a Delta un accertamento recuperando €17.600 di IVA + interessi + sanzione 90% (€15.840), e negando la deducibilità di €80.000 di costi, con maggior IRES €19.200 + sanzione 90% (€17.280). Totale circa €69.000 più interessi. Contestualmente parte la denuncia penale: amministratore di Delta indagato ex art.2, Epsilon indagato ex art.8, eventuali altri complici indagati per associazione a delinquere se emerge un sistema organizzato.
Difesa del contribuente: In questo caso Delta Srl non ha vere prove a discarico perché davvero il lavoro non c’è stato. Formalmente esistono solo le fatture e i bonifici, ma non c’è alcun software, nessun report di attività, nulla. L’unica strategia difensiva sul piano tributario potrebbe essere cercare qualche appiglio procedurale: ad esempio eccepire un vizio di notifica, oppure la mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale se era dovuto – insomma, questioni formali. Sul merito, non c’è molto da difendere: la contabilità è falsa e il Fisco ha ragione. Delta Srl, capito di essere nei guai, sceglie la via del “limitare i danni”: attiva il ravvedimento postumo, ossia cerca un accordo con l’ufficio in sede di adesione o conciliazione. Ad esempio, se l’ufficio offre la chiusura con sanzioni ridotte a 1/3, Delta potrebbe accettare, pagando imposta + 1/3 delle sanzioni (invece del 100%). In parallelo, prepara la strategia penale.
Possibile esito: Data la malafede conclamata (probabilmente provata dalla GdF anche con intercettazioni o con la confessione di Epsilon), Delta Srl non ha scampo in sede tributaria: l’accertamento verrà confermato in pieno. Forse riesce a ridurre le sanzioni in fase pre-contenziosa (adesione), ma di poco. Dovrà quindi pagare tutto il dovuto (però magari in forma rateizzata). Sul piano penale, l’amministratore di Delta decide di giocare la carta del ravvedimento: paga integralmente i €69.000 + interessi prima dell’udienza. Così, quando il caso va a dibattimento, il suo avvocato chiede l’applicazione dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000: il tribunale dichiara il reato non punibile per intervenuto pagamento (il PM può opporsi solo verificando che il pagamento sia effettivamente completo di tutto). L’amministratore si salva dal carcere, sebbene la società abbia dovuto sborsare una bella somma. Epsilon, l’emittente, invece non può usufruire di cause estintive (non aveva debiti tributari da pagare, a parte quell’IVA che comunque gli verrà richiesta dall’Agenzia essendo debitore d’imposta, con relative sanzioni, ma ciò non lo salva dal penale). Epsilon patteggia: ad esempio a 1 anno e 8 mesi con sospensione condizionale, e paga una multa.
Questo esempio evidenzia come, in una frode conclamata orchestrata dal contribuente stesso, l’unica difesa sensata sia limitare i danni: collaborazione e pagamento per evitare il peggio (il carcere). Non essendoci difese nel merito, la strategia è tutta procedurale (accordi col Fisco, patteggiamenti con la Procura).
Esempio 3: Caso particolare – fattura falsa scoperta dal contribuente stesso e regolarizzazione
Scenario: La Zeta Spa commissiona lavori di manutenzione industriale a un fornitore, Ypsilon Srl. Dopo aver pagato fatture per €100.000 + IVA €22.000 e averle già detratte/dedotte, Zeta scopre (per vie informali, o perché l’amministratore di Ypsilon viene arrestato per frodi) che Ypsilon era in realtà una cartiera e che i lavori li ha eseguiti un subappaltatore in nero. Zeta Spa, preoccupata, decide di correre ai ripari prima di ricevere qualunque accertamento: contatta il proprio commercialista e avvocato per procedere a una sanatoria spontanea.
Azione intrapresa: Zeta Spa, su consiglio dei professionisti, presenta una dichiarazione integrativa per l’anno in questione: elimina quei €100.000 di costi dal bilancio fiscale e riduce il credito IVA di €22.000 che aveva detratto. Paga quindi le maggiori imposte dovute: IRES 24% di 100k = €24.000, IRAP 3,9% = €3.900, IVA €22.000 da restituire – totale imposte circa €49.900 – più i relativi interessi. Contestualmente versa le sanzioni ridotte: calcola la sanzione base 90% su 22k IVA = 19,8k; 90% su 24k IRES = 21,6k; 90% su 3,9k IRAP = ~3,5k; totale sanzioni base ~€44.900, ridotte a 1/8 (essendo ravvedimento oltre l’anno ma prima di PVC) = circa €5.600. Dunque paga circa €55.000 di imposte e circa €5.500 di sanzioni, oltre a qualche migliaio di euro di interessi. Invia all’Agenzia Entrate tutta la documentazione del ravvedimento operoso effettuato.
Esito: L’Agenzia delle Entrate verifica e accoglie il ravvedimento: non emette alcun avviso di accertamento sanzionatorio (forse notificherà solo un esito di liquidazione). Zeta Spa evita così l’atto impositivo e le relative sanzioni piene (che sarebbero state, se calcolate, ~90k di imposte e ~80k di sanzioni, quasi quattro volte di più di quanto pagato in ravvedimento). Sul piano penale, la Procura comunque indaga l’amministratore di Zeta per utilizzo di fatture false (perché Ypsilon è emersa come cartiera). Tuttavia, essendo Zeta intervenuta spontaneamente prima della notifica di atti e soprattutto prima del dibattimento penale, il suo legale fa valere la causa di non punibilità: Zeta ha estinto tutto il debito tributario (ha pagato imposte, sanzioni, interessi) come richiesto dall’art. 13 D.Lgs. 74/2000. Quindi il PM con ogni probabilità chiederà l’archiviazione, o al massimo il giudice dichiarerà il proscioglimento per intervenuto pagamento. L’amministratore esce pulito (record immacolato). Certo, Zeta ha dovuto sborsare ~55k, ma ha evitato un possibile esborso molto maggiore (sanzioni al 90% su 49,9k sarebbero state ~44,9k, quasi quattro volte tanto rispetto ai 5,5k pagati col ravvedimento) e soprattutto ha scongiurato rischi penali. Inoltre, avendo dimostrato collaborazione attiva, evita danni reputazionali o interdittivi. In Commissione Tributaria non si è neppure dovuti andare, perché l’Agenzia non emette l’accertamento (o se l’aveva emesso, lo ritira in autotutela data la definizione intervenuta).
Commento: Questo esempio mostra come un contribuente che si accorge per tempo di avere in contabilità fatture potenzialmente inesistenti possa (e dovrebbe) autodenunciarsi fiscalmente per limitare le conseguenze. È la strategia del ravvedimento operoso, ora resa possibile anche nei casi di frode dopo le riforme recenti. Non è propriamente una “simulazione” di contenzioso, ma un case study di prevenzione e difesa attiva. Il rovescio della medaglia è dover pagare comunque le tasse inizialmente evitate, ma quantomeno con un forte sconto sulle sanzioni e con l’immunità penale.
Questi esempi coprono alcune situazioni tipiche: il contribuente davvero ignaro (esempio 1), il contribuente complice attivo (esempio 2) e il contribuente che corre ai ripari (esempio 3). Ovviamente, ogni caso reale presenta sfumature diverse, ma i principi applicati rimangono quelli discussi nella guida.
Conclusioni
Le fatture per operazioni inesistenti rappresentano una mina fiscale e legale sul cammino di ogni contribuente e professionista. Difendersi con successo da un’accusa di false fatture richiede un approccio metodico: conoscenza approfondita delle norme, prontezza nel raccogliere ed esibire prove concrete, e abilità nel far valere i propri diritti procedurali e la giurisprudenza favorevole. Dal punto di vista del debitore/contribuente, è fondamentale:
- Agire con diligenza preventiva, per evitare di incappare in fornitori o situazioni rischiose. Prevenire è la miglior difesa: se tieni la contabilità libera da fatture sospette, non dovrai poi combattere battaglie incerte.
- Se arriva un accertamento, non farsi prendere dal panico ma predisporre una linea difensiva solida, basata sui fatti e non su mere dichiarazioni di buona fede. Ogni documento utile va prodotto a sostegno della genuinità delle operazioni; ogni falla nell’impianto accusatorio va sfruttata.
- Comprendere che la buona fede aiuta ma non risolve tutto: nel migliore dei casi ti salva da sanzioni e reati, ma potresti comunque dover pagare le imposte contestate. Ciò sprona ad essere doppiamente prudenti negli affari: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio quando si tratta di nuovi partner commerciali di cui non si ha certezza.
- Valutare pragmaticamente le opzioni di definizione agevolata e ravvedimento: a volte è più conveniente (e meno dispendioso, anche in termini di reputazione) pagare il dovuto con gli sconti previsti, piuttosto che imbarcarsi in lunghe cause dall’esito incerto. Altre volte, invece, si hanno valide ragioni per resistere, e allora conviene andare fino in fondo in Commissione (ed eventualmente in appello e Cassazione).
- Coordinare sempre la difesa tributaria e quella penale, perché sono due fronti della stessa guerra. Un passo falso in un ambito può costare caro nell’altro. L’ideale è muoversi con consulenti esperti che integrino le strategie (es. evitare di fare ammissioni affrettate in sede fiscale che possano nuocere in sede penale, a meno di puntare tutto sulla causa di non punibilità per pagamento).
In ultima analisi, il messaggio di questa guida è che difendersi è possibile – soprattutto quando si è effettivamente nel giusto – ma richiede impegno, competenza e preparazione. Le Corti tributarie e la Cassazione negli ultimi anni hanno mostrato sensibilità nel distinguere il grande evasore che costruisce frodi dal contribuente onesto tratto in inganno: il primo va punito severamente, il secondo va messo in guardia ma non distrutto. Come affermato in giurisprudenza: “l’amministrazione finanziaria non può esigere dal contribuente, al fine di assicurarsi che non partecipi a frodi altrui, verifiche più complesse di quelle esigibili da un accorto operatore in rapporto alle circostanze concrete”. Ciò significa che se hai fatto tutto il ragionevole, il sistema – in teoria – ti tutela.
Resta però vero che chi utilizza fatture false (anche senza saperlo) subirà comunque conseguenze: quantomeno la perdita del beneficio fiscale indebito. Il punto di vista del debitore deve quindi combinare la difesa tecnica con una riflessione: conviene davvero rischiare? La risposta è no. Questa consapevolezza, unita alle informazioni dettagliate fornite in questa guida su “come difendersi dall’accertamento”, speriamo metta i lettori e gli operatori in grado non solo di fronteggiare un’eventuale verifica, ma soprattutto di navigare nell’attività economica quotidiana con maggiore prudenza e coscienza, riducendo al minimo il pericolo di incorrere in fatture per operazioni inesistenti.
In sintesi: chi è debitore senza colpa può (e deve) far valere le proprie ragioni e ha strumenti per evitare le sanzioni peggiori; chi è debitore perché ha tentato la via facile dell’evasione tramite false fatture, sappia che la legge oggi offre poche scappatoie – una su tutte, il ravvedimento sincero con pagamento integrale – e che la tolleranza è zero verso questo comportamento. Conoscere le regole del gioco fiscale, come abbiamo illustrato, è il primo passo per non diventarne vittima.
Fonti e riferimenti
- D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (IVA) – Art. 21, comma 7 (fatture per operazioni inesistenti: IVA dovuta per l’intero importo in fattura); Art. 54, comma 2 (rettifiche IVA con presunzioni).
- D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 – Art. 39, comma 1, lett. d) (accertamento induttivo delle imposte sui redditi su presunzioni gravi, precise e concordanti).
- Legge 24 dicembre 1993 n. 537, art. 14 comma 4-bis – (Indeducibilità dei costi da reato), modificato dal D.L. 2 marzo 2012 n. 16 (conv. L. 44/2012).
- D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 – Art. 2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti); Art. 8 (Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti); Art. 13 e 13-bis (Causa di non punibilità per pagamento del debito tributario e circostanze attenuanti per pagamento tardivo).
- Legge 19 dicembre 2019 n. 157 (conversione D.L. 124/2019 “Decreto Fiscale 2020”) – Ha inasprito le pene per i reati di frode (art.2 e art.3 D.Lgs.74/2000), esteso l’applicabilità della non punibilità ex art.13 ai reati di frode, e introdotto i reati tributari (compresi art.2 e 8) tra i reati-presupposto del D.Lgs. 231/2001 (art. 25-quinquiesdecies).
- Circolare Agenzia Entrate n. 31/E del 30 dicembre 2020 e Circolare AE n. 11/E del 12 maggio 2022 – Chiarimenti in materia di ravvedimento operoso e definizione in casi di violazioni “fraudolente” (conferma dell’ammissibilità del ravvedimento anche per dichiarazioni fraudolente ex art.2 D.Lgs.74/2000).
- Cass. Civ., Sez. V, 16 giugno 2020 n. 11624: onere della prova nei casi di fatture oggettivamente inesistenti – il Fisco deve fornire indizi gravi di inesistenza e allora spetta al contribuente provare l’effettiva esistenza (non bastando le mere scritture formali).
- Cass. Civ., Sez. V, 18 ottobre 2021 n. 28628: operazioni oggettivamente inesistenti – il contribuente deve provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; la regolarità formale (fatture, pagamenti) è elemento neutro e non prova la sostanza.
- Cass. Civ., Sez. V, 9 agosto 2022 n. 24471: operazioni soggettivamente inesistenti – duplice onere probatorio a carico del Fisco (fornitore fittizio e consapevolezza del cessionario); onere di diligenza a carico del contribuente ignaro.
- Cass. Civ., Sez. V, 14 ottobre 2022 n. 30018 (ord.): deducibilità dei costi “soggettivamente” falsi (operazione reale) anche se c’è frode, salva effettività/inerenza; indeducibilità dei costi “oggettivamente” falsi.
- Cass. Civ., Sez. Unite, 30 settembre 2022 n. 28433: prova testimoniale nel processo tributario – preclusa l’audizione orale, ma utilizzabili dichiarazioni rese da terzi in altri procedimenti e, dal 2023, possibili testimonianze scritte (v. art.7 co.5-bis D.Lgs. 546/92).
- Cass. Civ., Sez. V, 20 dicembre 2023 n. 35091: conferma orientamenti su onere della prova per frodi oggettive e soggettive (doppia prova), critica l’automatismo “fornitore irregolare = fatture false”, richiama il dovere di rigorosa valutazione delle presunzioni semplici, alla luce anche della riforma processo tributario 2022.
- Cass. Civ., Sez. V, 23 luglio 2024 n. 20411: principio di indetraibilità IVA ex art.21 co.7 DPR 633/72 sempre e comunque, anche per operazioni soggettivamente inesistenti (seppur reali), salvo rivalsa verso il fornitore (richiamata da dottrina e giurisprudenza di merito – es. Sistema Ratio).
- Cass. Civ., Sez. V, 11 novembre 2024 n. 28999: motivazioni dettagliate sull’indetraibilità dell’IVA in operazioni soggettivamente inesistenti – l’IVA pagata a un soggetto non legittimato è fuori dal meccanismo della detrazione.
- Cass. Pen., Sez. III, 19 aprile 2017 n. 24307: emissione di fatture false configurabile anche in caso di falsità soggettiva (confermata poi da Cass. 16576/2023).
- Cass. Pen., Sez. III, 2 maggio 2022 n. 16800: utilizzatore di fatture false non concorre nel reato di emissione – separazione delle responsabilità (niente “doppia imputazione” all’utilizzatore).
- Cass. Pen., Sez. III, 17 aprile 2023 n. 16576: reato di emissione di fatture false sussiste anche senza individuarne l’autore effettivo e anche se l’evasione non si realizza, perché basta la condotta di emissione a fini fraudolenti (evasione effettiva non è elemento costitutivo).
- Cass. Pen., Sez. III, 27 ottobre 2023 n. 45525: concorso di persone tra emittente e utilizzatore – conferma che sono fattispecie autonome, l’utilizzatore non è correo nel reato di emissione; richiamo al “doppio dolo” distinto per emittente e utilizzatore.
- Corte di Giustizia UE, 18 ottobre 2018, causa C-153/17 (Volkswagen): in caso di frode IVA a monte, se il cessionario è ignaro e non poteva saperlo, il diritto a detrazione non può essere negato (principio di neutralità dell’IVA); tuttavia gli Stati possono richiedere una diligenza adeguata da parte dei contribuenti. (V. anche sentenze Kittel C-439/04, Mecsek-Gabona C-273/11, Mahagében C-80/11 in tema di buona fede del cessionario).
Ricevuto un accertamento per fatture false? Fatti Aiutare da Studio Monardo
L’Agenzia delle Entrate può avviare un accertamento o segnalare alla Procura della Repubblica la presunta emissione o utilizzo di fatture false, con conseguenze gravi sia in ambito fiscale sia penale.
Tuttavia, non tutte le fatture contestate sono realmente false, e la difesa tecnica può fare la differenza.
Cosa si intende per “fattura falsa”?
Una fattura è considerata falsa quando:
- 🧾 Riguarda operazioni mai avvenute (inesistenti)
- 🔁 Gonfia artificialmente il valore della prestazione o dei beni (sovrafatturazione)
- 🔍 Riporta soggetti o date non veritieri
- 📄 È utilizzata per creare costi fittizi e abbattere il reddito imponibile
Il problema può nascere sia dal soggetto che emette la fattura, sia da chi la riceve e detrae l’IVA o la porta in deduzione.
Quando si rischia l’accertamento per fatture false?
L’Agenzia delle Entrate può muovere contestazioni se:
- 📊 I fornitori risultano evasori totali, irreperibili o inesistenti
- 🧾 Le prestazioni non sono state effettivamente eseguite
- 🏗️ Le fatture si riferiscono a lavori mai avviati o conclusi
- 💳 I pagamenti sono sospetti, in contanti o non tracciabili
- 📂 Dall’incrocio dei dati fiscali (ISA, spesometro, anagrafe tributaria) emergono anomalie gravi
Quali sono le conseguenze?
- ⚠️ In sede amministrativa: recupero IVA, imposte dirette, sanzioni e interessi
- 🚨 In sede penale: reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000)
- 💣 Rischio di sequestro preventivo, iscrizione a ruolo e iscrizione nel registro degli indagati
Come difendersi da una contestazione per fatture false?
La difesa parte da un’analisi dettagliata e dalla produzione di prove a favore:
- 📂 Dimostrare che l’operazione è effettivamente avvenuta (documenti, e-mail, trasporti, bonifici)
- 🧾 Fornire prova dell’inerenza e della tracciabilità economica dell’operazione
- ✍️ Redigere una memoria difensiva o una risposta al PVC (processo verbale di constatazione)
- ⚖️ Presentare ricorso tributario o difesa penale tecnica entro i termini
- 🔁 Chiedere l’adesione, il ravvedimento o il patteggiamento, se strategicamente utile
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
📑 Esamina l’accertamento per valutarne la legittimità
📂 Ricostruisce la tracciabilità economica delle operazioni contestate
✍️ Redige il ricorso tributario o ti difende nel procedimento penale
🔍 Collabora con periti e consulenti per ricostruire la realtà economica
⚖️ Ti assiste nella gestione della crisi d’impresa in caso di danni collaterali
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Esperto in accertamenti da fatture inesistenti e contenzioso tributario
✔️ Iscritto come Gestore della crisi d’impresa al Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per imprese, professionisti e società coinvolte in verifiche complesse
Conclusione
Una contestazione per fatture false è tra le più gravi in ambito fiscale, ma non sempre è fondata. Con prove documentali, perizie e strategia legale, puoi difendere la tua posizione.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi agire subito, evitare danni irreversibili e difenderti sia sul piano fiscale che penale.
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