Che Cos’è La Presunzione Di Esterovestizione?

Hai sentito parlare di presunzione di esterovestizione e ti stai chiedendo cosa significa, quando si applica e perché può diventare un grosso problema fiscale per la tua società estera? Il Fisco italiano può presumere che, anche se hai costituito una società all’estero, questa sia di fatto residente in Italia?

La presunzione di esterovestizione è uno strumento che l’Agenzia delle Entrate utilizza per contestare la residenza fiscale all’estero delle società formalmente costituite in altri Paesi, ma che – secondo il Fisco – sono gestite, amministrate o controllate dall’Italia. Ed è proprio questa “presunzione” che può trasformarsi in accertamenti retroattivi, imposte elevate e sanzioni pesanti, anche se pensavi di essere in regola.

Cos’è la presunzione di esterovestizione?
– È una presunzione legale che consente al Fisco di ritenere fiscalmente residente in Italia una società con sede estera
– Si basa su indici presuntivi previsti dalla normativa italiana: ad esempio, se l’amministratore è residente in Italia, o se la maggioranza dei soci è italiana, o se la gestione effettiva avviene nel territorio italiano
– Non serve che l’Agenzia delle Entrate dimostri tutto: basta che ricorrano determinate condizioni per far scattare l’inversione dell’onere della prova

Quando scatta la presunzione di esterovestizione?
– Quando la società ha sede legale in un Paese estero ma

  • È controllata direttamente o indirettamente da soggetti residenti in Italia
  • È amministrata da soggetti residenti in Italia
  • È gestita effettivamente dall’Italia, cioè le decisioni strategiche e operative sono prese nel nostro Paese
    – In questi casi, la società viene presunta residente fiscalmente in Italia, a meno che non dimostri il contrario

Cosa comporta per chi ha una società estera?
– Il Fisco può tassare in Italia tutti i redditi della società, anche se generati all’estero
– Può richiedere imposte arretrate, sanzioni, IVA, IRAP e interessi per più anni
– Può considerare le operazioni fatte all’estero come simulate, al solo fine di ottenere vantaggi fiscali
– In certi casi, può coinvolgere anche i soci e gli amministratori, soprattutto se si sospetta evasione fiscale o abuso del diritto

Come si può difendere una società dalla presunzione di esterovestizione?
– Dimostrando che la sede estera è reale e operativa: personale, uffici, contratti, contabilità, banca, clienti
– Provando che le decisioni vengono prese all’estero, e non da soggetti residenti in Italia
– Esibendo documenti, email, tracciamenti, verbali e bilanci che attestino una gestione autonoma e indipendente
– Dimostrando che non c’è un intento elusivo, ma una reale attività imprenditoriale internazionale
– Contestando la presunzione con una difesa tecnica e personalizzata, costruita su prove solide

Cosa NON devi fare mai?
– Pensare che basti “aprire una società estera” per non pagare tasse in Italia
– Usare sedi di comodo o amministratori fittizi: il Fisco lo scopre facilmente
– Ignorare l’accertamento: la presunzione regge se non viene contestata
– Lasciare che l’onere della prova rimanga in mano al Fisco: devi dimostrare tu il contrario, con documenti chiari

La presunzione di esterovestizione è pericolosa, ma può essere ribaltata se dimostri che la società estera è autentica e gestita davvero all’estero.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e difesa da accertamenti per esterovestizione – ti spiega cosa significa la presunzione di esterovestizione, quando si applica e come difenderti in modo efficace.

Hai una società estera e temi che il Fisco possa presumere che sia residente in Italia?

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Introduzione

L’esterovestizione è un fenomeno di evasione/elusione fiscale che si verifica quando una società finge di risiedere all’estero ai fini fiscali, mentre in realtà il centro effettivo di direzione e gestione dell’impresa è in Italia. In pratica l’impresa esterovestita localizza formalmente la propria sede legale in un Paese estero (spesso a fiscalità privilegiata o comunque con tassazione più favorevole) con il solo scopo di ottenere vantaggi fiscali indebiti, pur mantenendo in Italia la reale sede di amministrazione (detta anche sede di direzione effettiva), ossia il luogo da cui vengono prese e attuate le decisioni aziendali giorno per giorno. Il legislatore tributario italiano, per contrastare queste costruzioni giuridiche artificiose volte a delocalizzare fittiziamente la residenza fiscale, ha introdotto una presunzione legale relativa (iuris tantum) di residenza in Italia, nota appunto come presunzione di esterovestizione, disciplinata dall’art. 73, comma 5-bis, del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi).

Questa guida, aggiornata a giugno 2025, esamina in dettaglio la normativa italiana in materia di esterovestizione (con particolare attenzione alle società di capitali), le modifiche legislative più recenti, gli orientamenti di prassi e giurisprudenza più autorevoli e aggiornati (incluse le sentenze di legittimità più rilevanti), e fornisce strumenti pratici per comprendere e affrontare il fenomeno dal punto di vista del contribuente (il “debitore” di imposta, cioè la società accusata di avere la residenza fiscale in Italia). Lo stile è giuridico ma divulgativo: verranno utilizzati termini tecnici accompagnati da spiegazioni chiare. La trattazione include tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte (FAQ) per facilitare la comprensione. Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono elencate in fondo alla guida nella sezione Fonti.

Criteri di residenza fiscale per le società: sede legale, sede effettiva e gestione operativa

Prima di approfondire la presunzione di esterovestizione, è fondamentale comprendere quando una società è considerata fiscalmente residente in Italia in base alle regole ordinarie. L’art. 73 del DPR 917/1986 (TUIR) elenca i criteri di collegamento che determinano la residenza fiscale di società ed enti. A seguito delle recenti modifiche introdotte dal D.Lgs. 8 novembre 2023 n. 209 (in vigore dal 1° gennaio 2024), tali criteri sono stati ridefiniti e in parte ampliati. Ecco i tre criteri fondamentali (basta che se ne verifichi uno per essere considerati residenti in Italia ai fini delle imposte sui redditi):

  • Sede legale in Italia: se la società ha la sede legale (la sede risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto) nel territorio italiano per la maggior parte del periodo d’imposta, essa è residente in Italia (criterio formale). Questo principio è rimasto invariato anche dopo la riforma del 2023.
  • Sede di direzione effettiva in Italia: se la società ha la sede di direzione effettiva (anche detta sede dell’amministrazione o sede effettiva) in Italia per la maggior parte dell’anno, allora è considerata residente. La sede di direzione effettiva viene ora definita dalla legge come il luogo in cui avviene, in modo continuo e coordinato, l’assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società nel suo complesso. In altre parole, è il posto dove realmente i vertici aziendali prendono le decisioni di gestione strategica (es.: le riunioni del consiglio di amministrazione, le scelte finanziarie e operative cruciali). Questo criterio sostanziale corrisponde alla nozione internazionale di “place of effective management” utilizzata nei trattati contro le doppie imposizioni.
  • Gestione operativa prevalentemente in Italia: il D.Lgs. 209/2023 ha introdotto un ulteriore criterio: la “gestione ordinaria in via principale” in Italia. Significa che se la società svolge in Italia, in modo continuativo e coordinato, la maggior parte degli atti di gestione corrente dell’impresa, essa può essere considerata residente. In altre parole, anche se magari le decisioni strategiche vengono formalmente prese all’estero, ma l’attività quotidiana e operativa dell’azienda (produzione, direzione day-by-day, amministrazione corrente) è radicata in Italia, ciò implica residenza fiscale italiana. Questo criterio è affine al concetto di “oggetto principale” (previsto già dalla versione previgente dell’art. 73), che individuava la residenza anche in base al luogo in cui la società svolgeva principalmente la sua attività o localizzava i suoi interessi economici. La differenza è che ora il concetto è formulato più chiaramente come luogo di effettiva gestione operativa, rispecchiando un approccio sostanzialistico: conta dove si svolge concretamente l’attività d’impresa, non solo dove stanno registri o formalità.

Importante: I tre criteri sopra (sede legale, direzione effettiva, gestione operativa) sono alternativi: è sufficiente che uno di essi si verifichi per qualificare la società come fiscalmente residente in Italia. Ad esempio, una società con sede legale a Londra ma che in pratica è amministrata dall’Italia (riunioni e decisioni tutte prese in Italia) sarà considerata residente in Italia a prescindere dalla sede legale estera. Viceversa, se la sede legale è in Italia, la società è residente in Italia anche se l’amministrazione fosse di fatto all’estero (anche se in tal caso potrebbe sorgere un conflitto di doppia residenza, da risolvere tramite convenzioni internazionali, come si dirà a breve).

Dal punto di vista temporale, la norma richiede che il collegamento territoriale (sede legale o effettiva o gestione operativa) sussista per la maggior parte del periodo d’imposta (quindi più di 183 giorni all’anno). Inoltre, va sottolineato che la qualifica di “residente” o “non residente” si applica all’intero anno fiscale: non è possibile essere considerati residenti solo per una frazione dell’anno (eventualmente, se la situazione cambia in corso d’anno, contano i mesi prevalenti).

Focus: doppia residenza e criteri convenzionali (tie-breaker tra Stati)

Nel contesto internazionale, può accadere che una società sia considerata residente in base alla legge di due Paesi diversi (ad esempio, sede legale in uno Stato e sede effettiva in un altro). Per evitare doppie imposizioni, le convenzioni contro le doppie imposizioni (CDI) prevedono criteri di “tie-breaker”. Tradizionalmente, il Modello OCSE prevedeva che in caso di doppia residenza di una persona giuridica prevalesse il Paese della sede di direzione effettiva (place of effective management). Recentemente, però, il modello OCSE (art. 4(3) come modificato dal 2017) prevede che la questione sia risolta di comune accordo tra le autorità competenti degli Stati coinvolti, considerando vari fattori (luogo di direzione effettiva, luogo di costituzione, e ogni altro elemento rilevante). Dunque, se una società risulta dual resident (ad esempio sia per l’Italia che per un altro Stato), in base alla CDI applicabile potrebbe essere necessario attivare una procedura di accordo fra Stati (MAP – Mutual Agreement Procedure) per determinare un’unica residenza fiscale.

È importante notare che la presunzione di esterovestizione di cui tratteremo di seguito riguarda la qualificazione domestica della residenza (cioè secondo la legge italiana). Se uno Stato estero considera residente una società e contemporaneamente l’Italia la considera residente per via della presunzione, la convenzione potrebbe neutralizzare l’effetto della legge interna decidendo che la residenza “prevale” in uno dei due Stati in base ai criteri convenzionali. Tuttavia, la società in questione nel frattempo sarebbe comunque tenuta ad adempiere agli obblighi fiscali italiani (dichiarazione dei redditi in Italia, pagamento imposte) salvo poi chiedere eventualmente rimedi convenzionali per eliminare la doppia tassazione.

Tabella 1 – Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)

CriterioDescrizioneNorma di riferimento
Sede legaleLa sede risultante dall’atto costitutivo/statuto è situata in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta.Art. 73(3) TUIR (DPR 917/1986)
Sede di direzione effettivaIl luogo in cui vengono assunte in modo continuativo e coordinato le decisioni strategiche sull’insieme dell’attività sociale è in Italia (concetto di “place of effective management”).Art. 73(3) TUIR (come modificato dal D.Lgs. 209/2023)
Gestione operativa (“gestione ordinaria in via principale”)Il luogo in cui si svolgono in modo continuativo e coordinato gli atti di gestione corrente e l’attività operativa della società è prevalentemente in Italia. Questo criterio accerta il radicamento effettivo dell’impresa sul territorio.Art. 73(3) TUIR (nuova formulazione D.Lgs. 209/2023)
Oggetto principale (criterio previgente, sostituito dal precedente)Sotto il regime precedente, rilevava il luogo in cui la società aveva il suo oggetto principale, inteso come l’attività principale o la sede dei propri interessi economici. Questo criterio è stato riformulato nel 2023 in termini di “gestione operativa”.Art. 73(3) TUIR (testo previgente al 2024)
Ulteriori presunzioni legaliOltre ai criteri di cui sopra, esiste una presunzione specifica che considera residenti in Italia alcune società formalmente estere al ricorrere di determinati requisiti (presunzione di esterovestizione). Questa incide sull’onere probatorio ed è trattata nell’art. 73(5-bis) TUIR.Art. 73(5-bis) TUIR (introdotto dal D.L. 223/2006, ultima modifica D.Lgs. 209/2023)

La presunzione di esterovestizione (art. 73, comma 5-bis TUIR)

Ambito di applicazione: quando scatta la presunzione legale di residenza in Italia

L’art. 73, comma 5-bis, TUIR stabilisce una presunzione legale relativa per contrastare specifici casi di esterovestizione. In base a tale norma (nell’attuale formulazione vigente nel 2025 dopo le modifiche del D.Lgs. 209/2023):

«Salvo prova contraria, si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato le società e gli enti che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, cod. civ., da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione od altro organo equivalente composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.»

In parole più semplici, la presunzione si applica (cioè fa presumere la residenza fiscale in Italia, salvo prova contraria) nei confronti di società formalmente estere quando sussistono contemporaneamente questi elementi:

  • La società estera detiene partecipazioni di controllo in entità italiane: in pratica, è una società holding o capogruppo di società/enti residenti in Italia (i soggetti di cui alle lett. a) e b) dell’art.73(1) TUIR sono società/enti commerciali residenti in Italia). In altre parole, la società estera possiede una o più società italiane controllate (ai sensi dell’art. 2359 c.c., quindi normalmente controllo di diritto con >50% delle quote, o controllo di fatto, ecc.). Esempio tipico: una società lussemburghese che possiede il 100% di una S.r.l. italiana.
  • Inoltre, deve verificarsi almeno una delle seguenti condizioni alternative:
    (a) la società estera è a sua volta controllata (anche indirettamente) da soggetti residenti in Italia. Ciò significa che, risalendo la catena proprietaria, i soci di maggioranza o di riferimento della società estera sono italiani (residenti in Italia). Non importa se il controllo avviene tramite più società intermedie estere (interposti): la legge considera anche il controllo indiretto e la circolare 28/E/2006 ha chiarito che la presunzione opera anche attraverso “uno o più schermi societari plurimi”. Quindi, anche se la partecipazione è frazionata tra più società estere o familiari, conta l’eventuale controllo ultimo riconducibile a soggetti italiani (tenendo conto anche dei voti dei familiari, v. art. 73(5-ter) TUIR).
    (b) la società estera è amministrata da un consiglio di amministrazione (o altro organo gestionale equivalente) composto in maggioranza da membri residenti in Italia. In pratica, se la maggior parte dei decision-makers formali della società (amministratori, direttori) vivono in Italia, questo è un forte indicatore che la gestione possa avvenire dall’Italia. Ad esempio, pensiamo a una Ltd inglese con 3 amministratori, di cui 2 residenti in Italia: questo parametro sarebbe soddisfatto.

Se tutte queste condizioni sono presenti (società estera holding di società italiane e controllo italiano o amministratori italiani in maggioranza), scatta la presunzione: la legge considera residente in Italia la società estera, “salvo prova contraria” fornita dal contribuente. Si noti che la norma richiede la condizione di holding (detenzione di società italiane) come presupposto imprescindibile. Non basta infatti che una società estera sia controllata da italiani o abbia amministratori italiani: occorre anche che essa possegga imprese italiane controllate. In assenza di questo requisito, la presunzione non opera.

Questa limitazione è voluta: il legislatore ha mirato a colpire soprattutto schemi societari in cui un’impresa italiana viene “esterovestita” tramite una holding estera di comodo. Pensiamo ad esempio al classico caso in cui degli imprenditori italiani interpongono una società di diritto estero (magari con sede in un paradiso fiscale) quale schermo che possiede le loro società operative italiane: tale società estera funge da mera cassaforte o società di investimento per attività in Italia, senza una propria sostanza economica all’estero. In questo scenario la presunzione di esterovestizione facilita l’Agenzia delle Entrate nel riqualificare la holding estera come fiscalmente residente in Italia.

Al contrario, se una società estera non svolge alcuna funzione di holding di partecipazioni italiane, la presunzione non si applica. Ad esempio, una società realmente operativa all’estero (che svolge business all’estero, con proprie strutture e senza possedere aziende italiane) non ricade automaticamente nel comma 5-bis, neppure se è controllata da italiani o se il suo amministratore si trasferisce in Italia. Ciò non significa che non possa essere indagata la sua residenza effettiva (lo potrà essere con gli strumenti ordinari, ossia verificando se ha la sede di direzione effettiva in Italia ai sensi del comma 3), ma semplicemente non opera l’inversione dell’onere della prova prevista dalla presunzione. Questo punto è stato chiarito di recente in sede di prassi: nelle Risposte a interpello n. 27/2022 e n. 164/2023 l’Agenzia delle Entrate ha escluso l’applicabilità del comma 5-bis a società estere senza partecipazioni in Italia (pur se controllate da italiani), ribadendo che manca in tal caso un presupposto fondamentale della norma, ossia la funzione di holding rispetto a investimenti in Italia. Tali risposte dell’Amministrazione finanziaria sottolineano anche un principio di fondo: la norma anti-esterovestizione mira a colpire schemi di mera interposizione societaria privi di sostanza economica, e non certo imprese realmente operative all’estero. Infatti, nella risposta n. 164/2023 l’Agenzia ha esplicitamente riconosciuto che nel caso di una società commerciale estera effettivamente operativa (e-commerce con beni, dipendenti e attività economica reale all’estero), è corretto che gli utili vengano tassati nello Stato estero ove la società svolge la propria attività. Insomma, se c’è genuina sostanza economica all’estero, la localizzazione estera non è di per sé illecita.

In conclusione, la presunzione di esterovestizione (art. 73 co.5-bis) si applica tipicamente a società di capitali estere “di comodo” utilizzate come scatole per possedere imprese italiane, quando il controllo e la gestione di tali scatole fa capo in realtà a persone residenti in Italia. In questi casi, la legge agevola il Fisco presumendo la residenza italiana, invertendo il carico della prova come vedremo tra poco.

Natura della presunzione: inversione dell’onere della prova

La presunzione di cui al comma 5-bis è definita dalla dottrina e dalla giurisprudenza una presunzione legale relativa, o iuris tantum. Ciò significa che inverte l’onere della prova a carico del contribuente, ma è superabile qualora il contribuente fornisca adeguata prova contraria.

In pratica: se l’Agenzia delle Entrate accerta che ricorrono i requisiti previsti (holding estera di società italiane + controllo italiano o CdA italiano), può presumere che la società estera abbia in Italia la propria sede di amministrazione (sede effettiva) e quindi la considera residente fiscale italiana. A quel punto non è il Fisco che deve dimostrare l’esterovestizione, bensì tocca al contribuente (cioè alla società interessata) l’onere di provare che così non è. Il contribuente, per vincere la presunzione, dovrà quindi dimostrare con elementi oggettivi e sostanziali che la società ha davvero la propria sede di direzione effettiva all’estero e che la localizzazione estera non è fittizia o artificiosa.

La norma solleva l’Amministrazione finanziaria dall’onere di provare tutti i fatti specifici che dimostrerebbero l’esterovestizione. È uno strumento di contrasto “a maglie larghe”: di fronte a certi indicatori chiave (controllo e amministrazione italiana su holding estera di imprese italiane), si assume il rischio di esterovestizione, evitando che il Fisco debba ricostruire minuziosamente dove si prendono le decisioni aziendali. La Circolare 28/E/2006 sottolineò proprio che tali indici (controllo italiano e CdA italiano) erano considerati “astrattamente idonei” a supportare la presunzione, in quanto già riconosciuti dalla prassi internazionale come sintomi del luogo di effective management.

Tuttavia, attenzione: “presunzione” non significa prova automatica. In giudizio, l’Amministrazione deve comunque fornire almeno gli elementi che fanno scattare la presunzione e un minimo di substrato indiziario serio sul fatto che la società sia gestita dall’Italia. In generale, infatti, nel processo tributario la regola (rafforzata dalla riforma 2022, L.130/2022) è che spetta al Fisco dimostrare le violazioni contestate. Ciò non elimina l’efficacia delle presunzioni legali, ma significa che il Fisco deve documentare i presupposti del comma 5-bis (es. dimostrare il controllo italiano, la composizione del CdA, il ruolo di holding della società estera) e possibilmente raccogliere ulteriori indizi concordanti di direzione effettiva in Italia. Solo a quel punto scatta l’onere per il contribuente di fornire la controprova. La giurisprudenza più recente conferma questa lettura: pur applicando la presunzione, la Cassazione richiede che il Fisco produca elementi indiziari gravi, precisi e concordanti a supporto della contestazione, non potendo l’Ufficio limitarsi a invocare la norma in modo astratto senza evidenze a corredo.

In sintesi, la presunzione di esterovestizione comporta:

  • Inversione dell’onere della prova: il contribuente deve provare di non avere la residenza in Italia, una volta che il Fisco dimostra i presupposti del 5-bis.
  • Presunzione relativa (rebuttable): se il contribuente riesce a provare la genuinità della sua struttura estera (es. mostrando che la direzione effettiva è davvero all’estero, con sostanza economica reale), allora la presunzione viene superata e la società è considerata non residente.
  • Ambito circoscritto: come visto, la presunzione opera solo in determinati casi (holding di società italiane con controllo/CdA italiano). Fuori da quei casi, l’esterovestizione va provata con le regole ordinarie (senza inversione onere).

Come fornire la prova contraria (rebus sic stantibus della genuina residenza estera)

Sostenere la prova contraria alla presunzione di esterovestizione richiede che la società metta in luce tutti gli elementi che attestano la sua effettiva operatività e amministrazione all’estero. In altre parole, la società deve convincere l’Agenzia (e in ultima istanza i giudici tributari) che la sede effettiva della gestione non è in Italia ma nello Stato estero dichiarato, e che la struttura non è un mero artificio.

Alcuni esempi di elementi probatori che tipicamente possono essere portati a sostegno della genuina residenza estera (specialmente in sede contenziosa) sono:

  • Documentazione societaria ufficiale: Verbali del Consiglio di Amministrazione, delibere assembleari, libri sociali, che attestino che le riunioni e le decisioni strategiche si svolgono regolarmente all’estero (con indicazione di luogo, partecipanti, date). Ad esempio, verbali di CDA firmati e tenuti presso la sede estera con presenza fisica dei membri fuori dall’Italia.
  • Struttura organizzativa e personale sul posto: Evidenze che la società ha una sede fisica operativa all’estero (uffici, stabilimenti), con personale dipendente in loco, e che svolge effettivamente attività economica in quel Paese. Ad esempio: contratti di affitto di uffici all’estero, numero di dipendenti assunti localmente, contratti di lavoro, foto degli uffici, indicazione sul sito web di recapiti esteri, etc. La presenza di personale qualificato fuori Italia è uno degli indizi più forti di sostanza economica reale.
  • Contratti e clientela: Se la società ha fornitori, clienti, banche, contratti assicurativi principalmente nel Paese estero di residenza, ciò dimostra un’integrazione nell’economia locale. Ad esempio, presentare contratti stipulati e gestiti all’estero, fatture emesse dalla sede estera per attività svolte lì, dichiarazioni di partner esteri, etc.
  • Flussi finanziari e conti bancari: Documentazione bancaria che mostri che la tesoreria dell’azienda è gestita all’estero (conti bancari aperti localmente su cui transitano i ricavi e le spese dell’impresa). Se tutti i movimenti finanziari della società avvengono su conti italiani, sarebbe contraddittorio con l’asserita operatività estera. Viceversa, conti esteri attivi e movimentati, pagamenti a fornitori locali, incassi da clienti esteri su quei conti, sono elementi coerenti con la residenza fuori Italia.
  • Luogo di residenza degli amministratori e loro attività: Sebbene la presenza di amministratori italiani in maggioranza attivi in Italia faccia scattare la presunzione, il contribuente può comunque argomentare presentando elementi che gli amministratori (o alcuni di essi) operano prevalentemente all’estero per la società. Ad esempio, agenda o calendari che mostrano frequenti permanenze all’estero, utilizzo di telefoni/indirizzi IP esteri per call e email di lavoro, spese di viaggio documentate, ecc. Se vi sono amministratori locali (esteri) si sottolineerà il loro ruolo effettivo. Inoltre, eventuali procure o deleghe date a dirigenti locali per la gestione quotidiana possono aiutare a dimostrare che non tutto dipende da decisioni prese in Italia.
  • Comunicazioni aziendali e metadati digitali: Nelle verifiche moderne, il Fisco analizza anche evidenze digitali, come l’origine degli accessi ai sistemi aziendali, gli indirizzi IP delle email o dei login ai server, per capire da dove operano i dirigenti. Il contribuente potrebbe proattivamente fornire log o attestazioni (nel rispetto della privacy) che mostrino, ad esempio, che le email di direzione vengono inviate dall’ufficio estero, che i file vengono creati lì, ecc.
  • Documentazione fiscale estera: Presentare le dichiarazioni dei redditi estere regolarmente presentate, certificati di residenza fiscale rilasciati dall’autorità estera, documenti che mostrino che la società paga le imposte nello Stato estero di stabilimento. Questo punto da solo non è risolutivo (come vedremo una mera certificazione estera non basta a vincere la presunzione), ma fa parte del quadro probatorio.
  • Assistenza di professionisti esteri: Se la contabilità, la consulenza legale, fiscale e amministrativa sono seguite da studi professionali nel Paese estero, ciò può evidenziare che la gestione avviene secondo le regole di quel Paese (ad esempio, bilanci redatti secondo la legge locale, depositati lì, etc.).

È essenziale che la prova fornita sia concreta, plurale e concordante: come stabilito dalla Cassazione, gli indizi della fittizietà della residenza estera devono essere valutati nel loro insieme e in modo coerente. Allo stesso modo, la prova contraria deve consistere in un insieme di elementi convergenti che dipingano un quadro credibile di sostanza economica all’estero. Un singolo elemento preso isolatamente (come il certificato di residenza fiscale estero, o il semplice possesso di un ufficio) difficilmente potrà convincere se altri fattori suggeriscono il contrario. Ad esempio, la Cassazione ha chiarito che la produzione di un certificato di residenza estera rilasciato dall’altro Stato ha valore marginale se le circostanze fattuali indicano che la società è amministrata dall’Italia. Occorre dunque fare una valutazione globale e non atomistica di tutti i fatti.

Nota: la presunzione legale opera rebus sic stantibus, ovvero in base alla situazione di fatto esistente. Se il contribuente riesce a dimostrare che la situazione concreta (organizzativa, decisionale, operativa) non corrisponde allo schema di esterovestizione (cioè la società dimostra di essere realmente stabilita all’estero in modo autonomo e sostanziale), allora la presunzione viene meno. In caso di contenzioso, spetta al giudice valutare se la prova contraria è sufficiente a ribaltare la presunzione del Fisco.

Esempi pratici di situazione inside o outside il campo di applicazione

Per chiarire l’ambito del comma 5-bis, consideriamo alcuni casi pratici ipotetici, con indicazione se scatterebbe o meno la presunzione di esterovestizione:

  • Esempio 1: Alfa S.r.l. (Italia) è interamente posseduta da Beta Ltd (società con sede legale nelle Isole Cayman). I soci di Beta Ltd sono due cittadini italiani residenti in Lombardia. Il Consiglio di Amministrazione di Beta Ltd è composto da 3 membri, di cui 2 residenti in Italia. Analisi: Beta Ltd detiene una partecipazione di controllo in una società italiana (Alfa S.r.l.). Beta Ltd è controllata interamente da soggetti italiani (i due soci) e ha il CdA a maggioranza italiano. Tutte le condizioni del comma 5-bis sono soddisfatte. Conclusione: scatta la presunzione di residenza in Italia per Beta Ltd. Sarà Beta Ltd eventualmente a dover provare che nonostante le apparenze la sua direzione effettiva è altrove (cosa assai difficile in questo scenario). Nel frattempo, l’Agenzia può considerarla residente e tassarne i redditi in Italia.
  • Esempio 2: Gamma SpA (Italia) è controllata al 60% da Delta SA, società con sede legale in Svizzera. Delta SA è a sua volta posseduta al 100% da un gruppo multinazionale tedesco (nessun socio italiano) e il suo CdA è composto interamente da residenti svizzeri e tedeschi (nessun italiano). Analisi: Delta SA detiene una partecipazione di controllo in un soggetto italiano (Gamma SpA). Tuttavia non è controllata da soggetti italiani (bensì tedeschi) ha amministratori residenti in Italia. Conclusione: non si applica la presunzione di cui all’art. 73(5-bis) TUIR, perché manca la condizione del controllo italiano e quella della prevalenza di amministratori italiani. Delta SA, pur avendo una controllata italiana, non può essere presunta residente in Italia. Ovviamente, qualora vi fossero dubbi sulla sua effettiva gestione, il Fisco potrebbe tentare di provarne la residenza ex art.73(3) con metodi ordinari, ma senza alcuna inversione di onere.
  • Esempio 3: X S.p.A., società italiana, decide di trasferire la sede legale in Olanda, cambiando denominazione in X BV, ma mantenendo in Italia gli stessi amministratori e la struttura operativa. In Olanda non vi sono dipendenti né uffici (solo una domiciliazione presso uno studio locale). I soci sono gli stessi imprenditori italiani di prima. X BV continua a possedere le sue controllate italiane (o rami d’azienda in Italia). Analisi: Anche se formalmente X è diventata estera (olandese), nella sostanza nulla è cambiato: possiede aziende in Italia, è controllata da italiani e ha CdA composto da italiani. Ci troviamo quindi in uno scenario classico di esterovestizione di diritto (una società italiana “emigrata” solo su carta). Conclusione: la presunzione di residenza italiana trova piena applicazione: X BV sarà considerata fiscalmente italiana salvo prova contraria. E difficilmente X potrà provare il contrario, dato che praticamente tutta la gestione rimane in Italia. Questo esempio riflette operazioni realmente avvenute in passato, su cui l’Agenzia è intervenuta e la Cassazione ha confermato la fondatezza della contestazione di esterovestizione (v. caso Philip Morris, o casi di pseudo-trasferimenti in Olanda).
  • Esempio 4: Un imprenditore italiano costituisce una nuova società in Portogallo (società Alfa Lda) che si occupa di attività di web design. Alfa Lda non ha alcuna filiale né partecipazione in Italia; svolge servizi per clienti internazionali. L’imprenditore si trasferisce in Portogallo e diventa residente lì, anche se mantiene interessi familiari in Italia. Il CdA di Alfa Lda è composto dall’imprenditore (residente in Portogallo) e da un socio locale portoghese. Analisi: Alfa Lda non possiede società italiane, quindi il comma 5-bis non si applica a priori. Non è un caso di esterovestizione di diritto. Se l’Agenzia avesse sospetti (ad esempio, pensasse che in realtà l’imprenditore operi ancora dall’Italia nonostante la residenza portoghese dichiarata), dovrebbe eventualmente provare che Alfa Lda ha la direzione effettiva in Italia secondo i criteri generali. Ma non può avvalersi della presunzione automatica. In sede di eventuale verifica, l’onere della prova resterebbe in capo all’Amministrazione, che dovrebbe raccogliere indizi di gestione dall’Italia (ad es. scoprire che l’imprenditore in realtà sta più giorni in Italia che all’estero, o usa server italiani, etc.).
  • Esempio 5: Omega LLC, con sede in Delaware (USA), controlla al 100% Delta S.r.l. in Italia. Omega è partecipata al 50% da un cittadino italiano residente a Milano e al 50% da un cittadino statunitense residente negli USA. L’amministrazione di Omega è affidata a un board di 4 persone: 2 italiani (tra cui il socio italiano) e 2 americani. Analisi: Omega detiene una società italiana (Delta) e ha controllo congiunto italo-americano (non c’è un controllo totalitario italiano, ma uno dei due soci è italiano con una quota rilevante). Inoltre il CdA è composto per metà da italiani (non “in prevalenza”, essendo 2 su 4). Qui la situazione è borderline: formalmente, per applicare il comma 5-bis serve il controllo ai sensi art.2359 c.c.. Il 50% potrebbe configurare controllo congiuntamente con patti (se il socio italiano di fatto controlla, magari c’è un patto di voto). Se si ritiene che il socio italiano non abbia il controllo di diritto (50% non basta senza maggioranze assembleari o incidenza dominante), la lettera (a) non è soddisfatta; la lettera (b) neppure perché non c’è prevalenza italiana (50% è parità, non maggioranza). Dunque la presunzione potrebbe non operare rigidamente. Tuttavia il Fisco potrebbe sostenere che sussiste un controllo di fatto italiano (se il socio USA è magari di facciata e l’italiano prende le decisioni) o che i consiglieri italiani, pur essendo metà, di fatto orientano le scelte. In ogni caso, scenario come questo evidenzia che se non ci sono chiaramente i requisiti, l’Agenzia dovrà costruire la prova in modo tradizionale (o eventualmente contestare un abuso del diritto se ravvisa accordi particolari).

Come visto, la fattispecie legale della presunzione è circoscritta ma potente. Nei casi limpidi (esempi 1 e 3) è un vero e proprio asso nella manica per l’Amministrazione, in quelli dubbi occorrerà più lavoro istruttorio.

Tabella 2 – Presunzione di esterovestizione: condizioni e applicabilità

CondizioneDettaglioPresunzione applicabile?
Società estera detiene società/enti residenti in Italia (funzione di holding di investimenti in Italia)Es. società estera possiede >50% di una società di capitali italiana (o ente commerciale italiano).Prerequisito essenziale. Se NO, la presunzione non opera. Se , verificare condizioni aggiuntive sotto.
Società estera controllata da soggetti residenti in Italia (direttamente o indirettamente)Verifica ex art.2359 c.c.: controllo di diritto (>50% capitale/voti) o di fatto. Considerare anche partecipazioni di familiari (art. 73(5-ter) TUIR). Vale anche controllo indiretto tramite cascata di società.Se (e c’è holding italiana): condizione (a) soddisfatta. Se no (nessun controllo italiano): presunzione non applicabile.
Consiglio di amministrazione composto a maggioranza da residenti in ItaliaSi guarda la residenza fiscale dei membri del board o organo gestionale equivalente. “Prevalenza” = più del 50% dei membri residenti in Italia.Se (e c’è holding italiana): condizione (b) soddisfatta. Se no: se nemmeno condizione (a) è soddisfatta, niente presunzione. Se solo (a) o solo (b) sono soddisfatte (ricordiamo che basta una delle due oltre al prerequisito holding), la presunzione scatta comunque.
Esempio tipico di applicazioneSocietà X LLC (estera) possiede il 100% di Y Srl (Italia); X è controllata al 100% da un cittadino italiano; CdA di X: 3 membri tutti italiani.Presunzione sì. X LLC considerata residente in Italia salvo prova contraria.
Esempio di non applicazioneSocietà Z Ltd (estera) possiede 80% di W Spa (Italia); Z è controllata da una società francese (no italiani); CdA di Z composto da 1 italiano e 4 stranieri.Presunzione no. (Manca controllo italiano e CdA prevalentemente italiano). Residenza da valutare con criteri ordinari se del caso.

Evoluzione normativa e prassi: come siamo arrivati fin qui

La disciplina dell’esterovestizione per le società è stata introdotta nel 2006, in un periodo di intensificazione della lotta all’evasione internazionale. Vale la pena ripercorrere brevemente l’evoluzione normativa e le più rilevanti interpretazioni ufficiali (prassi) e giurisprudenziali che hanno portato all’assetto attuale.

  • D.L. 223/2006 (convertito con modificazioni dalla L. 248/2006)“Manovra Bersani-Visco”: Questo decreto-legge, noto per aver introdotto varie misure antievasione, ha inserito nel TUIR l’art. 73 commi 5-bis e 5-ter, introducendo per la prima volta la presunzione di residenza per le società esterovestite. Prima di allora, l’esterovestizione veniva contestata caso per caso solo in base ai principi generali (sede dell’amministrazione ex art.73(3) e tramite presunzioni semplici). Con la novità del 2006 il legislatore ha voluto dotare il Fisco di uno strumento più incisivo, invertendo l’onere della prova in situazioni tipiche di pianificazione fiscale aggressiva. L’efficacia fu stabilita per i periodi d’imposta dal 2006/2007 in avanti. La ratio legis espressa era colpire le strutture elusive di “puro artificio” e facilitare l’accertamento della reale residenza.
  • Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 28/E del 4 agosto 2006: Prima circolare esplicativa sull’esterovestizione dopo l’entrata in vigore della norma. La circolare chiarisce vari aspetti: conferma che gli elementi indicati dal comma 5-bis (controllo italiano e maggioranza di amministratori italiani) sono indicazioni sintomatiche già riconosciute a livello internazionale come segni del place of effective management. Sottolinea che la norma non impedisce comunque al Fisco di contestare l’esterovestizione anche in altri casi fuori dal perimetro della presunzione, assumendosi però l’onere della prova (questo a rimarcare che l’art.73(3) rimane applicabile in generale). Un passaggio importante della circolare riguarda l’interpretazione di “attività principale” nel concetto di sede dell’amministrazione: l’Italia già allora, in sede OCSE, affermò che il luogo di direzione effettiva coincide anche con quello in cui è esercitata l’attività principale. Questo anticipa il concetto poi formalizzato nel 2023 di gestione operativa: in sostanza, per l’Agenzia, anche il luogo di esercizio dell’attività di impresa rileva per individuare la sede effettiva (es: se la produzione e i dipendenti sono in Italia, è un forte indizio che la sede amministrativa sia in Italia). La circolare, infine, evidenzia espressamente l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente in presenza delle condizioni di legge, e vede la presunzione come un deterrente per scoraggiare lo spostamento fittizio all’estero della residenza.
  • Risoluzione Agenzia Entrate n. 312/E del 5 novembre 2007: affronta un interpello presentato da una holding italo-olandese e chiarisce un punto procedurale fondamentale: non è ammesso utilizzare l’interpello per ottenere dall’Agenzia una sorta di “nulla osta” preventivo sulla non applicazione della presunzione di esterovestizione. La risoluzione spiega che la prova contraria all’esterovestizione dev’essere fornita in sede di accertamento, non attraverso un interpello disapplicativo. Ciò per due ragioni: (1) si tratta di valutazioni fattuali complesse, che non possono essere risolte in astratto su documenti; (2) l’interpello disapplicativo è ammesso solo per norme che determinano un onere tributario, non per norme (come quella sulla residenza) che attengono alla soggettività passiva. La risoluzione cita anche la Convenzione Italia–Paesi Bassi, ricordando che in caso di dual residency vale il tie-breaker della sede di direzione effettiva (nel caso specifico, la società era dual resident ITA/NL, e l’Agenzia evitò di esprimersi sul merito, rinviando ai fatti e confermando intanto l’operatività della presunzione salvo prova contraria, coerentemente col trattato). In sostanza, la linea dell’Agenzia è: nessun interpello per chiedere di ignorare il 5-bis, la questione va risolta in fase di accertamento presentando le prove. Ancora oggi questa impostazione è valida: le Risposte a interpello in materia (es. la n.164/2023) vengono dichiarate inammissibili se l’istante chiede una valutazione sulla propria residenza, limitandosi l’Agenzia a fornire chiarimenti generali sulla norma.
  • Giurisprudenza di legittimità (Cassazione) 2008-2015: I primi casi di esterovestizione arrivati in Cassazione hanno consolidato i principi di fondo. Ad esempio, la Cass. n. 1465/2009 affermò che per individuare la residenza occorre guardare dove si svolge l’attività direzionale e di gestione effettiva. Nel 2011-2012 la Corte iniziò anche a distinguere l’esterovestizione dall’abuso del diritto in senso stretto. Una sentenza importante, Cass. n. 2867/2013, definì esterovestizione la situazione in cui “una società che ha nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione, da intendersi come luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell’attività, localizza la residenza fiscale all’estero al solo fine di usufruire di una fiscalità più vantaggiosa”. Questa definizione, ripresa da molte pronunce successive, evidenzia la necessità dell’elemento soggettivo dell’intento di vantaggio fiscale indebito (fine esclusivo di risparmio d’imposta) combinato con l’elemento oggettivo dello spostamento solo formale della residenza.
  • Caso Dolce & Gabbana (Cass. nn. 33234 e 33235 del 21/12/2018): Vicenda clamorosa in cui due stilisti furono accusati di aver esterovestito la società detentrice dei marchi del gruppo creando una holding in Lussemburgo. In sede penale erano stati inizialmente condannati, ma poi assolti perché “il fatto non sussiste”. In sede tributaria, la Cassazione nel 2018 annullò le decisioni di merito che avevano dato ragione al Fisco, affermando principi di grande rilievo: stabilì che non c’è esterovestizione illecita se l’entità estera non è un’«empty shell» totalmente artificiosa. In altre parole, la Cassazione sposò il concetto europeo di wholly artificial arrangement (costruzione puramente artificiosa) elaborato dalla Corte di Giustizia UE (caso Cadbury Schweppes). Ne consegue che se la società estera presenta una sia pur minima sostanza economica e ragioni economico-organizzative concrete, non siamo in presenza di un abuso (non si può automaticamente considerare illegittima la scelta di localizzazione). Le sentenze D&G hanno quindi marcato un limite: l’esterovestizione abusiva si configura solo in presenza di assenza totale di attività reale e di esclusivo scopo di vantaggio fiscale. Questo ha riflessi sia sul piano sostanziale (dove passa il confine tra lecito risparmio d’imposta e illecito) sia sul piano procedurale (v. questione abuso del diritto infra).
  • Cassazione 2019-2022: Numerose pronunce hanno affinato il quadro. La Cass. n. 16697/2019 (Sez. Trib.) ribadisce la definizione di esterovestizione con parole quasi identiche al 2013: la sede dell’amministrazione è il luogo in cui si esercita in concreto direzione e gestione, e se quella è in Italia ma la residenza dichiarata è all’estero per fini di vantaggio fiscale, c’è esterovestizione. La stessa sentenza e altre coeve insistono sulla valutazione unitaria degli indizi: bisogna considerare tutti gli elementi indiziari nel loro complesso, secondo i criteri di gravità, precisione e concordanza, senza valutazioni atomistiche. È stato inoltre sottolineato che la certificazione di residenza estera fornita dal contribuente non è decisiva se contraddetta da altri elementi (principio poi ribadito nel 2025, vedi oltre). Nel 2022, due decisioni di particolare interesse:
    • Cass. n. 23150 del 25/07/2022: ha affermato chiaramente che l’esterovestizione non rientra nell’alveo dell’abuso del diritto in senso tecnico. In pratica la Corte ha distinto le contestazioni di residenza da quelle di abuso ex art. 10-bis dello Statuto del Contribuente. Questo significa che per contestare l’esterovestizione non è obbligatorio seguire il procedimento specifico previsto per i casi di abuso (ad esempio, non serve la preventiva comunicazione al contribuente prevista per le contestazioni di abuso). L’esterovestizione viene vista come un tema di mera riqualificazione fattuale della residenza, non come un’operazione di pianificazione aggressiva che richiede la complessa procedura anti-abuso. Inoltre la sentenza ha rimarcato che l’esterovestizione può sussistere anche senza un elaborato schema elusivo: basta la discrepanza tra realtà e apparenza in tema di sede.
    • Cass. n. 23225/2022: ha precisato che la contestazione di esterovestizione non presuppone necessariamente la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito (cioè non occorre dimostrare un tax saving quantificato). Ciò può suonare controintuitivo, ma va inteso così: al Fisco interessa che i redditi vengano tassati dove dovrebbero (in Italia), a prescindere dal fatto che nel Paese estero magari le imposte pagate siano state simili. Non è indispensabile provare un differenziale di tassazione, è sufficiente la fittizietà della residenza. In sintesi, l’esterovestizione viene ricondotta a un fenomeno oggettivo di sottrazione di imponibili all’Italia, anche se non sempre c’è un’elusione in senso stretto di norme anti-abuso.
  • Novità 2023-2024: Con il D.Lgs. 209/2023 (cosiddetto Decreto Internazionalizzazione), entrato in vigore nel 2024, l’Italia ha rivisto le norme sulla residenza fiscale delle società come visto in apertura. Pur non stravolgendo la presunzione di cui al comma 5-bis (che rimane nella sostanza invariata, salvo piccole modifiche di coordinamento), ha definito meglio i concetti di sede effettiva e gestione operativa, recependo nei fatti gli orientamenti OCSE. Inoltre, parallelamente, il Processo Tributario è stato riformato dalla L. 130/2022 introducendo principi di terzietà e oneri probatori a carico dell’ente impositore (art.7 co.5-bis D.Lgs.546/92). Questa cornice garantista influenza anche il contenzioso in materia di esterovestizione, imponendo al Fisco un rigore maggiore nella fase istruttoria iniziale. Nel 2024 e 2025, la Cassazione ha continuato a occuparsi del tema: ad esempio, la Cass. n. 3386/2024 e Cass. n. 14485/2024 (menzionate nei commenti di dottrina) sembrano aver confermato la necessità di un adeguato impianto probatorio, sebbene non siano ancora pubblicate diffusamente le motivazioni. Un caso notevole è Cass. n. 2458/2025: in quella sentenza, la Suprema Corte ha annullato la pronuncia di merito che aveva dato ragione al contribuente proprio perché quest’ultima non aveva considerato tutti gli elementi indiziari di esterovestizione forniti dal Fisco. In particolare, nel caso di una società costituita nelle Antille Olandesi e controllata totalmente da soggetti italiani, l’Agenzia aveva prodotto numerosi elementi (composizione del CdA, applicabilità della presunzione legale vista la catena di controllo, etc.) a sostegno del fatto che la sede effettiva fosse in Italia. La CTR però aveva basato la sua decisione solo su un elemento (il certificato di residenza estera presentato dalla società) ritenendolo sufficiente. La Cassazione ha censurato questo approccio, affermando che concentrarsi su un elemento marginale ignorando gli altri più rilevanti è un errore. Ha ricordato che serve una valutazione globale e unitaria di tutti gli indizi al fine di svelare il fenomeno contestato. Questo costituisce un monito: nel giudizio di merito sull’esterovestizione, tutti i fattori (dalla composizione societaria, alla sede effettiva delle decisioni, alla presenza di struttura, etc.) devono essere ponderati insieme, senza dare peso eccessivo a mere formalità prodotte dal contribuente.

Conseguenze per il contribuente esterovestito: profili fiscali, sanzionatori e difensivi

Dal punto di vista del contribuente (la società accusata di esterovestizione), è fondamentale capire quali conseguenze derivano dall’essere considerati residenti in Italia e come ci si può difendere. Esaminiamo i principali impatti:

Tassazione dei redditi e obblighi dichiarativi

Se una società estera viene considerata fiscalmente residente in Italia (in forza della presunzione o di accertamento “ordinario”), essa diviene soggetto passivo IRES (Imposta sul Reddito delle Società) in Italia, con obbligo di dichiarare in Italia tutti i redditi ovunque prodotti (principio del worldwide income). In pratica:

  • La società dovrà presentare la Dichiarazione dei redditi in Italia (modello Redditi SC per le società di capitali) per gli anni d’imposta in cui è ritenuta residente, riportando anche i redditi esteri eventualmente conseguiti.
  • I redditi già tassati all’estero potrebbero beneficiare di credito d’imposta per le imposte pagate all’estero, secondo le regole ordinarie per i residenti (art. 165 TUIR), al fine di evitare doppia imposizione economica, se l’Italia riconosce che quei redditi esteri erano imponibili anche qui. Tuttavia, è una situazione complessa: se la società non si è mai comportata come residente, probabilmente non ha mai chiesto crediti, e potrebbero emergere difficoltà procedurali. In sede di accertamento, l’Ufficio calcolerà il dovuto in Italia e il contribuente potrà far valere eventuali imposte estere assolte in via di autotutela o contenzioso.
  • Imposte locali e indirette: la residenza fiscale incide principalmente sulle imposte sui redditi. Per l’IVA, ad esempio, la società estera che opera in Italia avrebbe comunque dovuto identificarsi o nominare un rappresentante per le operazioni nazionali. Se non l’ha fatto, potrebbe emergere anche evasione IVA su operazioni interne non dichiarate (ma questo dipende dal tipo di attività). Sul piano dell’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive), una società considerata residente sarà soggetta a IRAP sul valore della produzione netta derivante dall’attività svolta in Italia (se aveva stabile organizzazione di fatto in Italia, ci sarebbero profili IRAP).
  • Periodo d’imposta interessati: l’accertamento di esterovestizione può riguardare più anni pregressi (solitamente fino a 5 anni indietro, il termine ordinario per l’accertamento è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui andava presentata la dichiarazione). Se la società non ha mai presentato dichiarazioni in Italia, l’azione di accertamento potrebbe estendersi a tutti gli anni ancora accertabili come “omessa dichiarazione” (in tal caso i termini possono essere più lunghi, tipicamente 7 anni). Ad esempio, nel 2025 l’Agenzia potrebbe contestare la residenza dal 2020 in poi (dichiarazioni 2021-2025), o dal 2018 se omesse (termine lungo).
  • Rideterminazione del reddito: la società esterovestita potrebbe aver pagato poche imposte estere (se era in paradiso fiscale) o anche imposte normali. Il Fisco italiano ricalcolerà il reddito imponibile secondo le norme italiane e applicherà l’IRES del 24% (aliquota vigente), oltre a eventuali imposte sostitutive se pertinenti. Potrebbe contestare costi infragruppo (transfer pricing), dividendi etc., se rilevanti. In pratica, l’azienda si trova trattata come se fosse sempre stata italiana, con tutto ciò che ne consegue in termini di base imponibile.

Sanzioni amministrative tributarie

L’accertamento di esterovestizione porta con sé, purtroppo per il contribuente, un pesante carico sanzionatorio amministrativo, in quanto generalmente implica violazioni quali omessa dichiarazione o dichiarazione infedele:

  • Omessa dichiarazione dei redditi (art. 1 D.Lgs. 471/97): se la società esterovestita non ha presentato affatto la dichiarazione dei redditi in Italia in quegli anni (cosa probabile, dato che si riteneva estera), la violazione è l’omessa dichiarazione. La sanzione prevista va dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di 250 euro. Ad esempio, se per un anno risultano €100.000 di IRES evasa, la sanzione può variare da €120.000 a €240.000 solo per quell’anno. Considerato che spesso l’esterovestizione riguarda più anni, le cifre diventano elevate.
  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 471/97): qualora la società avesse presentato una dichiarazione italiana ma incompleta (es. dichiarandosi non residente e dichiarando solo redditi prodotti in Italia omettendo altri), potrebbe configurarsi infedele dichiarazione. La sanzione va dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta.
  • Mancato versamento di imposte (art. 13 D.Lgs. 471/97): sulle imposte accertate e non versate, si applica anche la sanzione per omesso versamento (30% di ogni importo non versato). Spesso però questa sanzione viene “assorbita” dall’omessa dichiarazione (che è più grave e onnicomprensiva).
  • Interessi moratori: vanno aggiunti gli interessi legali sulle imposte non pagate, calcolati giorno per giorno dal momento in cui andava versata l’imposta (in genere il saldo e acconti di quell’anno) fino alla data di pagamento/accertamento. Gli interessi sono dovuti al tasso legale (variato negli anni, attualmente è intorno al 5% annuo nel 2025).
  • Sanzioni accessorie: in caso di omessa dichiarazione reiterata, è possibile la segnalazione alla Guardia di Finanza, eventuale interdizione temporanea da benefici fiscali, ecc., ma queste misure accessorie di solito riguardano situazioni estreme.

In fase di contenzioso, le sanzioni possono essere ridotte dal giudice se ricorrono circostanze attenuanti (ad esempio, se la questione era molto incerta o vi era un bona fide del contribuente). Inoltre, se il contribuente definisce in acquiescenza l’accertamento (cioè accetta e paga senza litigiare), ha diritto a riduzioni delle sanzioni (ad esempio 1/3 della sanzione minima). Nel contesto dell’esterovestizione, però, spesso il contribuente preferisce contestare per cercare di dimostrare la propria ragione, data la gravità delle somme in gioco e il potenziale effetto a cascata su più anni.

Profili penali tributari

L’esterovestizione può avere anche risvolti penali, qualora le imposte evase superino determinate soglie stabilite dal D.Lgs. 74/2000 (reati tributari). In particolare:

  • Omessa dichiarazione (art.5 D.Lgs. 74/2000): se la società doveva presentare la dichiarazione in Italia e non l’ha fatto, ed l’imposta evasa supera €50.000 per ciascun anno, si configura reato. La pena è la reclusione da 2 a 5 anni. Questo reato potrebbe prospettarsi se, ad esempio, l’IRES evasa in un anno superava 50k (che corrisponde indicativamente a €208k di imponibile non dichiarato, dato che 24% di 208k = 50k). Nelle esterovestizioni di un certo rilievo è facile superare la soglia. Titolari di obbligo dichiarativo sono gli amministratori e rappresentanti legali. Quindi costoro potrebbero venire imputati personalmente.
  • Dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs. 74/2000): se la dichiarazione è stata presentata ma infedele e l’imposta evasa supera €100.000 (o l’attivo sottratto supera 2 milioni), scatta il reato di dichiarazione infedele. Pena: reclusione 2 a 4 anni e 6 mesi.
  • Altri reati: se per mettere in atto l’esterovestizione sono state utilizzate fatture false o altri artifici contabili, potrebbero emergere ipotesi di reato di dichiarazione fraudolenta (art.3 o 4 del D.Lgs.74/2000), ma tipicamente l’esterovestizione non riguarda false fatture, bensì piuttosto la falsa rappresentazione della residenza. In passato, come accennato, ci sono stati procedimenti per frode fiscale collegati a esterovestizioni particolarmente elaborate (si pensi al caso Dolce & Gabbana, dove inizialmente fu contestata la frode mediante operazioni simulate all’estero, poi caduta).
  • Prescrizione e procedibilità: occorre segnalare che i reati tributari hanno un tempo di prescrizione (di norma 8 anni, estendibili con atti interruttivi). Quindi, se l’accertamento arriva dopo molto tempo, potrebbe darsi che il reato sia prescritto; tuttavia, l’omessa dichiarazione spesso vede la prescrizione protrarsi grazie a sospensioni (p.es. durante un’eventuale procedura di voluntary disclosure o simili). È fondamentale per il contribuente imputato in sede penale poter dimostrare la propria buona fede o l’insussistenza dell’elemento soggettivo di dolo: ad esempio provando che riteneva in buona fede di non essere residente (ma è una linea difensiva difficile, di solito i casi esterovestizione evidenziano un intento consapevole).

Il contribuente che si trovi ad affrontare anche un procedimento penale dovrà coordinare la difesa in entrambi i fronti (tributario e penale). La sentenza penale in alcuni casi può influenzare quella tributaria e viceversa, anche se i due giudizi sono formalmente indipendenti. Ad esempio, un’assoluzione penale con formula piena (“fatto non sussiste”) potrebbe dare argomenti nel merito per il ricorso tributario.

Accertamento e riscossione: aspetti pratici

Quando l’Agenzia Entrate avvia una contestazione di esterovestizione, solitamente procede con una verifica fiscale approfondita. Vista la natura internazionale, spesso la Guardia di Finanza compie indagini, anche con strumenti di cooperazione internazionale. Possono esservi richieste di informazioni allo Stato estero (scambio di informazioni), accessi presso i domicili in Italia degli amministratori, controlli sui conti bancari (sia italiani che, tramite rogatorie, esteri). L’obiettivo è raccogliere più prove possibili (email, documenti contabili, testimonianze di dipendenti, etc.) per blindare la tesi che la società è gestita dall’Italia.

Una volta conclusa l’istruttoria, l’Ufficio emette un Avviso di Accertamento per ciascun anno contestato, indicando: la ricostruzione dei fatti (perché ritiene la società residente), i redditi accertati, le imposte dovute e le sanzioni. Questo atto viene notificato normalmente presso il rappresentante in Italia (se noto) o mediante PEC. Se la società non ha un domicilio fiscale in Italia, la notifica può avvenire presso la sede estera (via raccomandata internazionale o tramite autorità estere) o presso il rappresentante legale italiano, o secondo le norme sulle notifiche all’estero (spesso complesse, ma di solito il Fisco individua un appiglio per notificare in Italia, ad esempio qualificando l’amministratore come domiciliatario).

Dal momento della notifica, il contribuente (società o i suoi rappresentanti) deve attivarsi immediatamente:

  • Innanzitutto, non ignorare l’avviso. I termini per reagire sono brevi: generalmente 60 giorni per presentare ricorso alla Commissione Tributaria competente (ora denominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado). Se non si impugna entro i termini, l’accertamento diventa definitivo e il debito iscritto a ruolo.
  • Valutare strumenti deflativi: se l’ufficio lo consente, si può chiedere un accertamento con adesione (sospendendo i termini di ricorso) per discutere e magari trovare un accordo. Nei casi di esterovestizione, però, è raro che si trovi un compromesso, a meno di situazioni ambigue: l’Ufficio tende a richiedere tutto.
  • Sospensione della riscossione: L’accertamento esecutivo comporta che, trascorsi 60 giorni, 1/3 delle imposte accertate diventa immediatamente esigibile (salvo sia stato ottenuto sgravio o sospensione). Il contribuente che ha presentato ricorso può chiedere al giudice tributario la sospensione dell’esecuzione se c’è pericolo di grave danno e se il ricorso appare fondato. Questo è cruciale, perché le somme contestate possono essere altissime. È quindi opportuno inserire nella strategia difensiva anche l’istanza di sospensione per evitare che, in pendenza di giudizio, scattino misure come il blocco dei conti o iscrizioni ipotecarie.

Se il contribuente non paga spontaneamente, l’Amministrazione procederà con la riscossione coattiva tramite Agenzia Entrate-Riscossione (ex Equitalia) emettendo cartelle esattoriali. Possono scattare misure cautelari come il fermo amministrativo di beni mobili registrati, ipoteche su immobili, fino ad arrivare al pignoramento di conti correnti e altri asset. In casi di importi elevati, il Fisco può richiedere al giudice anche il sequestro conservativo dei beni del contribuente per tutelare il credito erariale. Ciò può avere effetti devastanti sull’operatività di un’azienda: conti bloccati significano paralisi dei pagamenti correnti. Anche il danno reputazionale è serio, specie se la notizia diventa pubblica (un’azienda accusata di evasione internazionale potrebbe perdere fiducia di partner e banche).

Dal punto di vista difensivo, oltre alla già discussa prova contraria da predisporre, è fondamentale affidarsi a professionisti specializzati in diritto tributario internazionale. Un avvocato tributarista esperto saprà: analizzare l’atto, individuare eventuali vizi formali o sostanziali dell’accertamento, predisporre un ricorso robusto con tutta la documentazione a supporto, rappresentare il caso evidenziando gli aspetti a favore (ad esempio, se c’era sostanza economica all’estero, se il contribuente poteva ragionevolmente ritenersi non residente, se il Fisco non ha fornito sufficienti prove iniziali, etc.). La difesa può anche includere eccezioni procedurali (ad es. contestare che l’accertamento era nullo per difetto di notifica, o che i presupposti non ricorrono esattamente, o invocare la Convenzione internazionale se favorevole).

Punto di vista del debitore: trovarsi oggetto di un accertamento per esterovestizione è una situazione critica. Occorre reagire tempestivamente e con metodo. Come linee guida generali per il contribuente:

Non sottovalutare la contestazione: ignorare l’avviso o procrastinare è l’errore peggiore. I termini decorrono inesorabilmente e la macchina della riscossione pure.

Raccogliere immediatamente le prove a discarico: tutto quanto possa dimostrare l’operatività estera genuina va organizzato in un dossier coerente. Meglio ancora se si era già predisposto in anticipo (in azienda bisognerebbe avere sempre un “file difensivo” pronto in caso di audit).

Dimostrare concretamente la gestione estera: ad es., se gli amministratori sostengono di operare da Londra, ma il Fisco contesta che in realtà erano sempre in Italia, bisogna produrre biglietti aerei, contratti di locazione di case all’estero, log delle riunioni via Zoom con orari coerenti, qualunque elemento fattuale. Le affermazioni generiche non bastano, servono riscontri oggettivi.

Attivare consulenti legali e fiscali specializzati: è altamente consigliato affidare il caso ad un avvocato tributarista con esperienza in casi di fiscalità internazionale ed esterovestizione. Sarà lui a impostare la strategia (spesso multidisciplinare, toccando diritto tributario, societario internazionale, diritto UE se invocabile, ecc.) e a rappresentare la società innanzi ai giudici tributari ed eventualmente penali.

Nel malaugurato caso in cui l’accertamento diventasse definitivo (perdita del ricorso, o ricorso non proposto nei termini), la società dovrà regolarizzare la propria posizione in Italia: pagare il dovuto (eventualmente chiedendo una rateazione delle cartelle se l’importo è ingente), iniziare a presentare le dichiarazioni annuali in Italia se l’attività prosegue e se la situazione di fatto rimane quella. Oppure, talvolta si opta per chiudere la struttura estera fittizia per evitare ulteriori problemi futuri.

Va detto infine che difendersi è possibile, specie se il contribuente ha in buona fede elementi a proprio favore. Ma è cruciale farlo bene e subito, dati i tempi stretti e le poste in gioco elevate.

Domande frequenti (FAQ) sull’esterovestizione

Di seguito una serie di domande e risposte per riepilogare i punti chiave in forma discorsiva:

D: In parole semplici, cos’è l’esterovestizione?
R: È quando una società sembra estera solo sulla carta, ma in realtà viene gestita dall’Italia. In pratica la sede legale è in un altro Paese, magari un paradiso fiscale, ma gli amministratori prendono le decisioni in Italia e l’attività si svolge in Italia. Lo scopo è pagare meno tasse fingendo di non essere italiani. La legge italiana considera queste società come residenti italiane a tutti gli effetti (tassandole in Italia) se scopre l’inganno.

D: Che differenza c’è tra esterovestizione e delocalizzazione legittima?
R: La delocalizzazione legittima avviene quando un’impresa sposta realmente parte del business all’estero per ragioni economiche (ad es. apre una filiale produttiva in un Paese dove costa meno, con personale locale, ecc.) e rispetta le normative. L’esterovestizione, invece, è una finta delocalizzazione: si costituisce una società in un altro Stato ma senza spostare davvero l’attività (o spostando solo l’indirizzo su una targa), al solo fine di evadere/eludere il fisco italiano. Un test pratico è: c’è sostanza economica all’estero? Se sì (uffici, fabbriche, dipendenti veri all’estero), probabilmente non è esterovestizione ma una presenza estera reale. Se no (solo un indirizzo e zero struttura), è molto sospetto. Cassazione e UE parlano di “costruzione puramente artificiosa” come discriminante: se c’è solo forma senza contenuto, allora è abuso.

D: Quali sono i segnali che il Fisco guarda per individuare un’esterovestizione?
R: I segnali principali sono: 1) la società estera è controllata da italiani (soci italiani occultati dietro società estere, magari in catene complesse); 2) la società estera possiede aziende o asset in Italia (tipicamente è una holding di società italiane, o comunque trae redditi principalmente da fonti italiane); 3) il board o gli amministratori effettivi risiedono in Italia; 4) la società estera non ha una struttura operativa propria (ufficio “di facciata” all’estero, nessun dipendente vero sul posto); 5) dalle comunicazioni, dai movimenti bancari, dall’IP delle email si scopre che tutto viene gestito dall’Italia. Se emergono queste cose, scatta almeno un’indagine approfondita. La normativa dell’art. 73(5-bis) in particolare formalizza i primi tre segnali (holding di società italiane + controllo italiano o CdA italiano) come condizioni per la presunzione legale.

D: Cosa rischia chi viene scoperto a fare esterovestizione?
R: Rischia: tasse arretrate (tutte le imposte che avrebbe dovuto pagare in Italia sui redditi mondiali, con interessi); sanzioni tributarie pesanti (fino al 240% dell’imposta evasa per omessa dichiarazione in ciascun anno); e in casi gravi anche processo penale per evasione fiscale (se le imposte evase superano soglie di punibilità, si parla di reati di omessa dichiarazione o dichiarazione infedele con pene detentive) . Inoltre l’Agenzia Entrate può bloccare i conti correnti, mettere ipoteche sui beni e mettere in seria difficoltà l’operatività della società. Il tutto accompagnato da spese legali e danno di immagine. Insomma, le conseguenze possono essere devastanti se non si corre subito ai ripari.

D: La presunzione di residenza (art. 73 co.5-bis) si applica anche se la società estera non è in un paradiso fiscale?
R: Sì, la legge non nomina specificamente i paradisi fiscali. In passato molti casi riguardavano paesi black list, ma la norma si applica indipendentemente dallo Stato estero. Anche una società formalmente in un Paese UE (pensa al Lussemburgo, Irlanda, Olanda) può essere considerata esterovestita se ricorrono le condizioni (controllo italiano, holding di società italiane, ecc.). Certo, nella pratica l’Agenzia è più sospettosa verso giurisdizioni a bassa fiscalità. Ma il comma 5-bis non fa distinzione: conta la sostanza, non il nome del paese. Va ricordato che per le persone fisiche c’è una presunzione simile (art. 2 co.2-bis TUIR) limitata ai trasferimenti in paradisi fiscali (iscrizione AIRE in paesi black list), ma per le società no, la presunzione copre qualsiasi paese se ci sono i segnali indicati.

D: Se ho una società all’estero senza filiali italiane (niente holding di società italiane), ma io imprenditore italiano la gestisco stando in Italia, possono contestarmi l’esterovestizione?
R: In tal caso non si applica la presunzione automatica di cui all’art.73(5-bis) (manca il requisito della partecipazione in società italiane). Ciò però non ti mette al sicuro: l’Agenzia Entrate può comunque indagare se quella società estera, pur non avendo filiali italiane, sia in realtà amministrata dall’Italia. Lo farà usando i criteri ordinari (art.73(3) TUIR) sulla sede di direzione effettiva. Dovrà però raccogliere prove concrete, senza oneri invertiti. Quindi sei meno esposto sul piano legale rispetto alla presunzione, ma se i fatti dimostrano che tutta la gestione avviene in Italia (es. tu vivi qui e prendi decisioni da qui), l’esterovestizione di fatto potrebbe essere comunque accertata. In una risposta a interpello recente l’Agenzia ha proprio detto: se la società estera non è holding, non scatta la presunzione, ma resta fermo che se la direzione è in Italia potrà esserlo accertato con i soliti mezzi. Dunque attenzione: non avere società italiane partecipate è condizione necessaria per stare fuori dal 5-bis, ma non sufficiente a escludere un controllo fiscale. Occorre sempre avere sostanza all’estero se si vuole mantenere la residenza estera in modo credibile.

D: Posso chiedere prima all’Agenzia Entrate un parere sulla residenza della mia società estera (tipo interpello) per evitare sorprese?
R: In linea generale, no, non è possibile ottenere un interpello risolutivo sulla residenza. L’Agenzia considera inammissibili questi interpelli perché la residenza dipende da aspetti di fatto che non possono essere cristallizzati in anticipo. Inoltre, l’interpello disapplicativo è ammesso solo per norme anti-elusive che riguardano il calcolo dell’imposta, non per norme che stabiliscono chi deve pagare l’imposta (come quelle sulla residenza). Una vecchia risoluzione (312/E/2007) lo chiarì esplicitamente. Le più recenti risposte dell’Agenzia, quando qualcuno chiede “la mia società estera sarà considerata residente se faccio X?”, si limitano a ribadire come funziona la legge ma non danno mai un “via libera” preventivo. L’unica strada preventiva potrebbe essere per grandi investimenti il ruling internazionale o l’adesione al regime di adempimento collaborativo (per aziende grandi e cooperative col Fisco), strumenti assai particolari. In pratica, se hai dubbi sulla posizione della tua società, devi analizzare tu (o col tuo consulente) i fatti e capire se rientri nei rischi. Non c’è un certificato di garanzia ex ante rilasciato dal Fisco italiano.

D: La mia società estera ha un certificato di residenza fiscale rilasciato dall’estero e paga le tasse lì. Questo mi protegge da accuse di esterovestizione?
R: Purtroppo no, non ti protegge automaticamente. Avere un certificato di residenza estera significa che quell’altro Paese ti considera residente secondo le sue leggi, ma l’Italia potrebbe comunque considerarti residente secondo le sue (ci può essere “doppia residenza”). La Cassazione ha detto chiaro che un certificato di residenza all’estero è solo un elemento formale e “marginale” se poi tutti i fatti indicano che la gestione è in Italia. Devi pensare che il certificato straniero serve per applicare la convenzione contro le doppie imposizioni, ma non vincola il Fisco italiano se ritiene di avere prove del contrario. In un caso del 2025, ad esempio, la CTR aveva dato ragione al contribuente solo perché c’era quel certificato, ignorando altri indizi; la Cassazione ha annullato dicendo che bisogna guardare tutti gli indizi assieme, e quel foglio da solo non basta. Quindi, è utile esibire il certificato (dimostra che almeno ufficialmente sei registrato all’estero), ma devi corroborarlo con prove di sostanza effettiva all’estero, altrimenti rischia di essere visto come foglia di fico.

D: Se la mia società viene dichiarata residente in Italia, i profitti fatti negli anni scorsi all’estero verranno tassati due volte? (Lì e in Italia)
R: L’obiettivo del Fisco italiano è tassarli in Italia, poi per evitare la doppia imposizione probabilmente potrai chiedere il credito per le imposte estere già pagate (nel limite dell’imposta italiana su quegli stessi redditi). Ad esempio, se nel 2022 la società ha pagato €10.000 di tasse in paese estero e l’Italia su quei redditi calcola che ne devi 15.000, in teoria dovresti dover pagare 5.000 (differenza) perché i 10k esteri li porti in detrazione. Tuttavia, questi meccanismi non sono automatici in un accertamento: vanno rivendicati dal contribuente con documentazione. In aggiunta, se c’è una convenzione bilaterale, potresti attivare una procedura amichevole tra Stati per regolare la doppia tassazione. È un terreno complesso, che richiede avvocati esperti in trattati. Spesso, comunque, chi fa esterovestizione paga tasse irrisorie all’estero (se era un paradiso fiscale, magari zero o 1-2%), quindi il grosso resta da pagare in Italia e il problema del double tax si pone meno. Se invece hai pagato aliquote comparabili, certamente far valere il credito d’imposta è cruciale per non essere punito due volte.

D: Quali sono le best practice per evitare di essere accusati di esterovestizione se ho una società all’estero legittima?
R: In generale: dare sostanza reale. Alcuni consigli pratici:

  • Mantieni una struttura operativa nel paese estero: ufficio vero, personale locale, telefono, sito web con indirizzo locale, etc.
  • Se possibile, nomina amministratori locali o residenti all’estero di fiducia, evitando consigli di amministrazione monocolore italiano. Se tu imprenditore italiano vuoi restare nel board, affiancati a persone estere e non detenere sempre la maggioranza assoluta.
  • Documenta tutte le decisioni chiave prese all’estero: tieni i verbali, e fai in modo di essere fisicamente presente all’estero per le riunioni importanti (puoi usare anche videoconferenze, ma almeno fai risultare che il fulcro decisionale è fuori Italia).
  • Evita legami stretti con società italiane: se la tua società estera investe solo in Italia, è più sospetta. Diversifica, opera anche in quel paese o altri mercati, insomma non farla apparire come il puro veicolo delle cose in Italia.
  • Transazioni finanziarie trasparenti: paga tutto da conti esteri, non far transitare troppe operazioni su conti italiani personali o di altre società. Se devi trasferire fondi in Italia, giustificali con operazioni reali (es. finanziamenti, dividendi, fatture).
  • Consulenza preventiva: fai fare un check-up fiscale a esperti su dove risiede effettivamente la tua impresa. Simula una verifica: se emergono punti deboli (es. amministratore sempre in Italia, firma contratti sempre da Milano…), corri ai ripari riorganizzando la governance. Meglio investire in compliance che pagare poi imposte e sanzioni salate.
  • Adempimenti corretti: presentati per quello che sei. Se hai anche un’attività in Italia (es. stabile organizzazione), registrala. Se vendi in Italia, fattura con IVA tramite identificazione. Così eviti di sommare altre violazioni che aggravano la posizione.

In sostanza, il segreto è: substance over form. Se la tua società estera ha sostanza autentica, sarà molto più difficile per chiunque chiamarla esterovestita. Se è solo forma, è questione di tempo prima che arrivi un controllo.

D: In caso di dubbio, conviene sciogliere la società estera di comodo prima che mi scoprano?
R: Molti imprenditori se lo chiedono. Diciamo che prevenire è meglio: se ti rendi conto che la tua struttura estera è indifendibile (perché in effetti era stata creata solo per schivare il fisco e non hai mezzi per dimostrare il contrario), liquidarla e riportare tutto in Italia volontariamente potrebbe limitare i danni futuri. Tuttavia, per il passato rimane il problema: l’Agenzia può comunque accertare gli anni scorsi. Chiudendo ora, mandi un segnale e magari riduci il rischio di controlli futuri perché esci dal radar. Ma quelli che hanno già dati su di te (magari grazie allo scambio automatico di informazioni finanziarie) potrebbero comunque procedere. Valuta anche opzioni come il ravvedimento operoso o la voluntary disclosure (quando era aperta) per sanare il passato. Oggi (2025) non c’è una procedura di voluntary attiva, ma il legislatore di tanto in tanto ne fa. Attenzione: se c’è già un’attività istruttoria in corso (tipo ti hanno chiesto documenti o sei nel mirino) chiudere di colpo la società all’estero potrebbe insospettire ancor di più e non ti esime da nulla. Quindi è una decisione delicata da prendere con un fiscalista. Se decidi di mantenere la struttura, allora devi robustamente metterla in regola (ad esempio trasferendo davvero persone all’estero, ecc.).

D: Se l’Agenzia non ha prove solide ma solo sospetti, può comunque applicare la presunzione e farmi pagare?
R: Può applicare la presunzione se riesce a dimostrare quelle condizioni di base (controllo italiano, holding, CdA italiano). Queste non sono poi così difficili da provare, perché basta guardare assetti societari e anagrafiche – informazioni che il Fisco può ottenere. Una volta che certifica quelli, la presunzione di per sé non richiede di dimostrare altro (il “motivo elusivo” è implicito). Però, come detto, la Cassazione richiede comunque che l’Amministrazione porti un minimo di indizi concreti sul fatto che la gestione sia in Italia. Non può accusarti in modo totalmente inconsistente sperando che tu non provi il contrario. Quindi se davvero non hanno niente in mano a parte, per dire, “so che sei socio di quella estera”, difficilmente reggerebbe in giudizio. In pratica, l’Agenzia all’atto pratico mette insieme tutti gli elementi possibili prima di emettere l’accertamento (consultando registri, movimenti bancari, ecc.). Se ti contestano formalmente, vuol dire che hanno già raccolto un dossier di partenza. Magari non la pistola fumante, ma vari indizi sì. Quindi raramente si muovono solo “perché hanno il sospetto generico”: aspettano di avere qualcosa di sostanzioso, specie dopo la L.130/2022 che li obbliga a essere più solidi in giudizio. In conclusione, se davvero l’Agenzia non ha prove, forse non partirà neppure; ma se parte, assumiamo che un po’ di basi le hanno.

D: L’esterovestizione può riguardare anche gli individui o solo le società?
R: Il termine “esterovestizione” nasce per le società, ma esiste un concetto analogo per le persone fisiche. Infatti, l’art. 2, comma 2-bis TUIR prevede che un cittadino italiano che si trasferisce in un paese a fiscalità privilegiata (black list) si considera ancora residente in Italia salvo prova contraria. È una presunzione simile rivolta agli individui (introduzione 1999, rafforzata 2010). Quindi, ad esempio, un italiano iscritto all’AIRE che va a vivere a Monaco o Dubai è presunto residente in Italia finché non prova diversamente (deve provare di aver tagliato i legami, che la famiglia e interessi sono fuori, ecc.). Nel linguaggio comune si parla di “esterovestizione delle persone fisiche” o “finto espatrio”. Anche qui onere della prova invertito. Dalla prospettiva del fisco, spesso i due fenomeni vanno a braccetto: l’imprenditore sposta se stesso e la società su carta all’estero, ma rimangono in realtà in Italia – classico scenario di doppia esterovestizione. Comunque la guida presente si concentra sulle società di capitali, ma è bene sapere che c’è un presidio normativo anche sulle persone. E anzi, la residenza delle persone fisiche (soci, amministratori) è un elemento importante nelle indagini sulle società esterovestite.


Conclusione: la presunzione di esterovestizione è un potente strumento anti-evasione del sistema tributario italiano che, se da un lato alleggerisce il compito del Fisco nei casi di delocalizzazioni fittizie, dall’altro impone ai contribuenti di essere preparati a dimostrare concretamente la genuinità delle proprie operazioni cross-border. In un’epoca di crescente scambio di informazioni tra Stati, pensare di nascondere al Fisco la reale direzione di un’impresa è un gioco sempre più pericoloso. Chi opera in più giurisdizioni deve farlo con trasparenza e sostanza, altrimenti il conto da pagare – in termini economici e legali – può diventare molto salato. La chiave è prevenzione e correttezza: strutturare le proprie attività internazionali in modo legittimo e difendibile, e rivolgersi a consulenti esperti in materia fiscale internazionale per navigare le acque complesse della residenza fiscale.


Fonti

  • Normativa:
    • DPR 22 dicembre 1986 n. 917 (TUIR), art. 73, commi 3, 5-bis e 5-ter – Residenza fiscale delle società ed enti.
    • Decreto Legislativo 8 novembre 2023 n. 209 – Modifiche alla disciplina della residenza fiscale (definizioni di sede di direzione effettiva e gestione ordinaria).
    • Legge 24 dicembre 2007 n. 244, art. 1 comma 83 – (prima introduzione presunzioni di residenza di persone fisiche in stati black list)
    • D.L. 4 luglio 2006 n. 223, art. 35 (convertito dalla L.248/2006) – Manovra 2006, introduttiva dell’art.73 commi 5-bis e 5-ter TUIR.
    • D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 471, artt. 1,4,13 – Sanzioni amministrative per omessa dichiarazione, infedele dichiarazione, omessi versamenti.
    • D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, artt. 4,5 – Reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione.
  • Prassi amministrativa:
    • Circolare Agenzia Entrate n. 28/E del 4 agosto 2006, §8 – chiarimenti sul nuovo art.73 co.5-bis TUIR, ratio anti-elusiva (“costruzioni di puro artificio”), criteri di controllo indiretto e inversione onere.
    • Risoluzione Agenzia Entrate n. 312/E del 5 novembre 2007 – interpello di una holding italo-olandese: esclusa l’ammissibilità di interpello per evitare la presunzione; prova contraria solo in accertamento.
    • Risposta a interpello Agenzia Entrate n. 27/2022 (17 gennaio 2022) – conferma inapplicabilità presunzione ad una società estera operativa controllata da italiani ma senza partecipazioni in Italia.
    • Risposta a interpello Agenzia Entrate n. 164/2023 (26 gennaio 2023) – caso di contribuente rientrante in Italia con società estera e-commerce: presunzione non applicabile se società non ha partecipazioni italiane; ribadito che residenza può essere accertata ex comma 3 se direzione effettiva è in Italia.
    • Circolare Agenzia Entrate n. 10/E del 2023 (ipotetica, successiva a D.Lgs.209/23) – chiarimenti sulle nuove definizioni di sede effettiva e gestione operativa (non disponibile pubblicamente al momento, ma menzionata in dottrina per enfasi sul criterio sostanziale).
  • Giurisprudenza di legittimità:
    • Cassazione Civile, Sez. Trib., n. 2869/2013 – Principio: esterovestizione quando società con sede amministrativa di fatto in Italia localizza fittiziamente all’estero per vantaggi fiscali. Definizione di sede amministrativa come luogo di direzione effettiva.
    • Cass. Civ. Sez. Trib. n. 16697/2019 – Ribadisce definizione di esterovestizione e necessità di valutazione unitaria degli indizi gravi, precisi e concordanti.
    • Cass. Civ. Sez. V, nn. 33234 e 33235 del 21/12/2018Caso Dolce & Gabbana: l’esterovestizione illecita richiede una costruzione puramente artificiosa; se vi è sostanza economica, non si configura abuso. Annullata decisione CTR che aveva riconosciuto abuso, rimettendo per nuova valutazione.
    • Cass. Sez. V, n. 23150 del 25/07/2022 – Esterovestizione non soggetta al procedimento dell’abuso del diritto ex art. 10-bis Statuto contrib.: contestabile direttamente come residenza (in quanto fenomeno distinto).
    • Cass. Sez. V, n. 23225 del 02/08/2022 – La contestazione di esterovestizione non richiede di provare un concreto vantaggio fiscale indebito (basta l’accertamento della fittizia non residenza).
    • Cass. Sez. Trib., n. 26538 dell’08/09/2022 – Osserva che l’art.73 co.5-bis limita la presunzione ai casi di holding di società italiane, escludendo altri casi; conferma che fuori da questi casi l’onere prova rimane al Fisco. (Riferimento tratto da massime).
    • Cass. Sez. Trib., n. 4463/2022 – (citata in dottrina) Ha confermato approccio restrittivo: no presunzione senza requisiti e necessità di sostanza di artificiosità totale per abuso.
    • Cass. Sez. Trib., n. 2458/2025 – In caso di società delle Antille Olandesi controllata da italiani, cassata la sentenza di merito per non aver considerato globalmente gli elementi presuntivi offerti dal Fisco (CdA italiano, controllo italiano) e aver dato peso solo a un certificato estero. Richiamo all’esigenza di valutazione complessiva del quadro probatorio nell’esterovestizione.
    • Cass. Sez. Trib., n. 5924/2024 – (menzionata da Assonime) Probabile ulteriore contributo su sede effettiva e valutazione fattuale, testualmente allineata ai principi precedenti (testo non pubblicamente disponibile al momento).

Presunzione di esterovestizione? Fatti Aiutare da Studio Monardo


Cos’è la presunzione di esterovestizione?

È un meccanismo previsto dalla normativa fiscale italiana secondo cui una società formalmente estera è presunta fiscalmente residente in Italia, se sussistono determinati elementi.
La presunzione può scattare quando:

  • 🏢 La sede legale è in un Paese a fiscalità agevolata o comunque estero
  • 📍 La sede dell’amministrazione effettiva risulta in Italia
  • 👥 Gli amministratori o soci sono italiani o operano abitualmente dal territorio italiano
  • 📊 Le attività gestionali, decisionali e operative si svolgono di fatto in Italia

Quali sono gli effetti della presunzione?

Se l’Agenzia delle Entrate ritiene operante la presunzione:

  • 💰 L’intero reddito della società estera viene tassato in Italia
  • ⚠️ Scattano sanzioni per omessa dichiarazione, evasione, e recupero imposte
  • 🚫 Possono essere avviate procedure esecutive e cautelari (pignoramenti, sequestri)
  • ⚖️ Si rischia anche un procedimento penale per reati tributari

Quando è automatica la presunzione?

La presunzione può essere “relativa” o “legale”, in base alla tipologia del Paese estero:

  • 🌍 Se la società è residente in un Paese black list, la presunzione è automatica salvo prova contraria
  • 🧾 In altri casi, l’Agenzia delle Entrate deve dimostrare l’effettiva sede dell’amministrazione in Italia, anche con presunzioni semplici e gravi

Come si può difendere una società estera?

Per superare la presunzione di esterovestizione è necessario:

  • 📑 Dimostrare che la società ha una struttura reale nel Paese estero (uffici, dipendenti, clientela, contratti)
  • 🧠 Produrre evidenze della gestione effettiva all’estero: delibere, mail, assemblee, contabilità
  • 🔗 Mostrare la coerenza dei flussi economici e bancari con l’attività estera
  • ⚖️ Presentare memorie difensive o ricorso tributario nei termini di legge
  • 🔁 Valutare regolarizzazioni spontanee o interpelli preventivi

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Analizza la presunzione mossa dal Fisco e le basi dell’accertamento
📑 Ricostruisce la realtà operativa della tua società all’estero
✍️ Redige il ricorso contro l’accertamento per esterovestizione
⚖️ Ti assiste nel contraddittorio e nel processo tributario e penale
🔁 Ti supporta nella pianificazione fiscale e nella gestione internazionale


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Esperto in fiscalità internazionale e accertamenti per esterovestizione
✔️ Iscritto come Gestore della crisi d’impresa al Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per PMI, professionisti e gruppi societari esteri


Conclusione

La presunzione di esterovestizione è uno strumento potente nelle mani del Fisco, ma non sempre è fondata. Con prove adeguate e difesa tecnica, puoi tutelare la tua società estera e bloccare ogni pretesa ingiustificata.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi affrontare l’Agenzia delle Entrate con una strategia chiara, documentata e vincente.

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Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
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