Avviso Di Accertamento A Società Di Capitali: Cosa Fare

Hai ricevuto un avviso di accertamento a nome della tua società di capitali e ti stai chiedendo cosa comporta, entro quanto tempo devi reagire e quali rischi corre l’amministratore? L’Agenzia delle Entrate ti contesta imposte non versate, ricavi non dichiarati o costi indeducibili?

L’avviso di accertamento è l’atto formale con cui il Fisco modifica la posizione fiscale della società, imponendo maggiori imposte, sanzioni e interessi. Se non viene impugnato, diventa definitivo e può essere iscritto a ruolo, con conseguente cartella esattoriale. Ma non tutti gli accertamenti sono legittimi e, soprattutto, difendersi è possibile.

Cos’è l’avviso di accertamento per una società di capitali?
– È un atto impositivo emesso nei confronti di una S.r.l., S.p.A. o altra società di capitali, in cui si contesta un maggior reddito imponibile
– Può riguardare IRES, IRAP, IVA e ritenute
– Può derivare da controlli automatizzati, verifiche fiscali, accertamenti induttivi o ricostruzioni bancarie
– In alcuni casi è esecutivo, cioè dà direttamente il via al recupero forzato del credito dopo 60 giorni

Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate a una società?
Ricavi non dichiarati, spesso ricostruiti in via presuntiva o con controlli incrociati
Costi indeducibili, come fatture non congrue, spese non inerenti o prive di tracciabilità
Utilizzo di fatture soggettivamente o oggettivamente inesistenti
Violazioni IVA, con omissioni o errori nella dichiarazione e detrazione
Compensi non congrui agli amministratori o soci
– Sanzioni proporzionali alle imposte ritenute evase, più interessi

Come puoi difenderti da un avviso di accertamento?
– Analizzando ogni rilievo contestato, per verificarne la legittimità e la fondatezza
– Ricostruendo con documenti interni, contabili e bancari la verità sostanziale delle operazioni
– Dimostrando che i costi sono deducibili, i ricavi corretti, l’attività lecita e documentata
– Presentando osservazioni nel contraddittorio, oppure aderendo o impugnando l’atto
– In alcuni casi, valutando l’accertamento con adesione, che consente una riduzione delle sanzioni
– Se ci sono profili gravi, tutelando anche l’amministratore da eventuali responsabilità personali o penali

Cosa succede se non presenti ricorso entro 60 giorni?
– L’avviso diventa definitivo e non più contestabile
– Viene iscritto a ruolo, con emissione della cartella esattoriale
– In caso di mancato pagamento, la società rischia fermi, pignoramenti, blocco conti e beni
– In certe ipotesi, il Fisco può agire anche verso l’amministratore o i soci, soprattutto in caso di operazioni simulate o abuso della personalità giuridica

Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare l’avviso: decorso il termine, diventa esecutivo anche se è sbagliato
– Delegare tutto al commercialista senza un confronto legale: l’aspetto giuridico è decisivo
– Accettare l’accertamento per paura, senza analizzarne le basi: spesso contiene vizi o errori macroscopici
– Pensare che “tanto paga la società”: in caso di responsabilità aggravata, può essere coinvolto anche l’amministratore

Un avviso di accertamento a una società di capitali si può bloccare. Ma serve reagire subito, con una strategia tecnico-legale.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in accertamenti fiscali e responsabilità degli amministratori – ti spiega come leggere un avviso di accertamento, quando è impugnabile, come difendere la società e tutelare il patrimonio degli amministratori.

Hai ricevuto un avviso di accertamento fiscale per la tua società?

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Introduzione

Ricevere un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate è un evento delicato per qualsiasi contribuente, in particolare per le società di capitali (es. S.p.A., S.r.l., S.a.p.a.). Si tratta di un atto formale con cui il Fisco contesta alla società un’imposta non versata o un errore dichiarativo, avanzando una pretesa tributaria ben precisa. Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – offre un quadro avanzato e completo sulle azioni da intraprendere dal punto di vista del debitore, ossia della società destinataria dell’accertamento, dei suoi amministratori o soci coinvolti. Verranno illustrate la normativa italiana di riferimento, le pronunce giurisprudenziali più recenti, nonché strumenti pratici di difesa e soluzioni deflative del contenzioso. Il taglio sarà tecnico-giuridico ma con intento divulgativo, utile tanto per professionisti legali e fiscali quanto per imprenditori e privati interessati.

Cosa troverete in questa guida: inizieremo definendo cos’è un avviso di accertamento e quali elementi deve contenere secondo la legge. Inquadreremo il regime fiscale delle società di capitali e i motivi tipici per cui scattano gli accertamenti. Approfondiremo poi le modalità di notifica, i termini entro cui l’amministrazione finanziaria può emettere l’atto e le cause di nullità formali o sostanziali (vizi che il contribuente può far valere). A seguire, esamineremo cosa fare in concreto: opzioni come l’adesione all’accertamento, l’eventuale acquiescenza con pagamento ridotto delle sanzioni, il ricorso alle nuove Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni Tributarie) e gli strumenti come la sospensione della riscossione, la rateizzazione del debito o l’autotutela amministrativa. Non mancherà uno sguardo alle situazioni particolari, ad esempio il caso di società in liquidazione o già estinte (con le relative responsabilità per liquidatori e soci), e agli effetti di un eventuale mancato intervento (iscrizione a ruolo e misure esecutive).

Nel corso della trattazione verranno citate le fonti normative italiane pertinenti – dallo Statuto dei diritti del contribuente alle disposizioni del D.P.R. 600/1973 e del D.Lgs. 546/1992 sul processo tributario – e le sentenze più aggiornate di Cassazione o Corti Tributarie di merito. Abbiamo inserito inoltre tabelle riepilogative (ad esempio sui termini di decadenza o sul confronto tra strumenti deflattivi) e una sezione di domande e risposte frequenti, per chiarire i dubbi pratici più comuni. Tutte le fonti utilizzate sono elencate in fondo alla guida, nella sezione dedicata, per permettere ulteriori approfondimenti.

Nota sul contesto normativo attuale: il legislatore italiano ha recentemente introdotto importanti novità in materia di accertamento e processo tributario (ad esempio l’obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale dal 2023-2024, la riforma del processo tributario con D.Lgs. 119/2022 e D.Lgs. 130/2022, l’abrogazione della mediazione tributaria nel 2023). Questa guida tiene conto di tali aggiornamenti, evidenziando le differenze rispetto al passato quando rilevanti. L’obiettivo è fornire un quadro attuale e completo al giugno 2025, in modo che chi si trova ad affrontare un avviso di accertamento possa prendere decisioni informate e tutelare efficacemente i propri diritti.

Passiamo dunque ad esaminare nel dettaglio cos’è un avviso di accertamento e quali caratteristiche specifiche assume quando il destinatario è una società di capitali.

Cos’è un Avviso di Accertamento e quale funzione ha

Un avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’ufficio finanziario (di norma, l’Agenzia delle Entrate) comunica al contribuente un risultato di controllo: in sostanza contesta ufficialmente maggiori imposte o differenze d’imposta dovute a seguito di verifiche su dichiarazioni fiscali, scritture contabili, operazioni economiche ecc. Si tratta della manifestazione formale della pretesa tributaria da parte del Fisco, successiva a un controllo sostanziale svolto dagli organi accertatori. In altri termini, l’avviso di accertamento porta a conoscenza del contribuente (mediante notifica) l’esito delle attività di accertamento dell’ufficio e quantifica le maggiori imposte, sanzioni e interessi che si ritengono dovuti.

Dal punto di vista giuridico, l’avviso di accertamento è un atto amministrativo impositivo unilaterale, emanato in esercizio del potere di accertamento riconosciuto all’Amministrazione finanziaria. Attraverso di esso, l’ente impositore (lo Stato, per il tramite dell’Agenzia delle Entrate, oppure un ente locale per i tributi di competenza) rettifica i dati dichiarati dal contribuente oppure accerta d’ufficio imponibili non dichiarati, formalizzando la propria pretesa fiscale. Per le società di capitali, tipicamente l’avviso di accertamento riguarda imposte come IRES (imposta sul reddito delle società) e IRAP (imposta regionale sulle attività produttive), nonché l’IVA se oggetto di verifica; può però includere anche contestazioni su ritenute non versate o altre imposte indirette a carico della società.

Un avviso di accertamento deve sempre essere motivato, a pena di nullità, indicando in modo chiaro i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che giustificano la maggiore pretesa. In pratica, l’atto contiene una ricostruzione di ciò che secondo l’ufficio è emerso dal controllo (ad esempio redditi non dichiarati, costi indeducibili, operazioni imponibili non fatturate, ecc.), il calcolo dei maggiori imponibili e delle imposte corrispondenti, e la spiegazione normativa del perché quelle somme sono dovute. Inoltre l’avviso indica al contribuente come e entro quando può reagire (il termine per un eventuale ricorso e l’autorità giudiziaria competente) e come effettuare il pagamento, anche in forma ridotta se si intende accettare l’accertamento.

Va chiarito che l’avviso di accertamento si distingue da altri tipi di comunicazioni del Fisco. Ad esempio, le comunicazioni di irregolarità o “avvisi bonari” inviate dopo controlli automatici (ex art. 36-bis DPR 600/1973 o 54-bis DPR 633/1972) non sono avvisi di accertamento: si tratta di inviti al pagamento per correggere errori formali o versamenti carenti, che se non ottemperati sfociano poi in cartelle di pagamento. L’avviso di accertamento invece è un atto impo-esattivo (come vedremo, dopo le riforme del 2011 diventa immediatamente titolo esecutivo decorso il termine di impugnazione) e tipicamente consegue a verifiche più approfondite, ad esempio ispezioni fiscali, verifiche contabili, indagini finanziarie o accertamenti mirati su specifiche annualità.

In sintesi, se ricevete un avviso di accertamento significa che l’Agenzia delle Entrate (o altro ente impositore) ritiene che la vostra società abbia pagato meno imposte del dovuto in uno o più periodi d’imposta, e formalizza questa contestazione chiedendovi di versare le somme indicate. Da questo momento decorrono per la società una serie di diritti (come quello di difendersi in sede amministrativa o contenziosa) ma anche di doveri (ad esempio l’obbligo di pagare tempestivamente se non si intende fare ricorso). Nei prossimi paragrafi vedremo nel dettaglio la base normativa dell’avviso di accertamento, le sue caratteristiche formali, e come procedere una volta ricevuto.

Inquadramento fiscale delle società di capitali e base normativa

Le società di capitali (come S.r.l., S.p.A., S.a.p.a.) sono soggetti giuridici distinti dalle persone dei soci, dotati di propria personalità e autonomia patrimoniale. Dal punto di vista fiscale, queste società sono soggetti passivi d’imposta autonomi: producono un reddito imponibile proprio, sul quale pagano l’IRES (Imposta sul Reddito delle Società, aliquota ordinaria 24%) e concorrono a formare la base imponibile IRAP regionale (aliquota ordinaria 3,9%, con possibili maggiorazioni regionali). Pertanto, quando il Fisco riscontra anomalie o omissioni nei redditi dichiarati da una società di capitali, l’accertamento viene notificato direttamente alla società, e non ai singoli soci. Ciò differisce dalle società di persone (snc, sas) e imprese individuali, dove invece l’eventuale maggior reddito accertato “transita” nell’imposizione IRPEF dei soci/imprenditore. Nel caso di società di capitali, l’avviso di accertamento riguarda le imposte dovute dalla persona giuridica e il pagamento è a carico della società stessa (nei limiti della sua capienza patrimoniale).

Le principali fonti normative italiane in materia di accertamento tributario – applicabili anche alle società di capitali – sono le seguenti:

  • D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 37-43: disciplina l’accertamento delle imposte sui redditi (disposizioni comuni IVA esclusa). In particolare l’art. 42 DPR 600/1973 regola l’avviso di accertamento (contenuto, firma, motivazione), mentre l’art. 43 fissa i termini di decadenza per notificare gli accertamenti (vedi sezione dedicata sui termini).
  • D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57: disciplina i termini per gli accertamenti IVA (simili a quelli delle imposte sui redditi) e altri aspetti specifici per l’IVA; gli artt. 54 e 55 DPR 633/1972 disciplinano le modalità di accertamento IVA (analitico, induttivo).
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, 472, 473: contengono la disciplina delle sanzioni amministrative tributarie (es. omessa dichiarazione, dichiarazione infedele, omessi versamenti, etc.) che vengono irrogate spesso insieme all’imposta nell’avviso di accertamento.
  • Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente): pone principi generali a tutela del contribuente. L’art. 7 L.212/2000 richiede che “gli atti dell’amministrazione finanziaria siano motivati indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche” alla base e che, se l’atto fa riferimento ad altri documenti non conosciuti dal contribuente, questi vengano allegati (obbligo di allegazione). Inoltre l’art. 7 Statuto impone di indicare nell’atto l’ufficio competente e il responsabile del procedimento. Lo Statuto prevede anche all’art. 12, c.7 un diritto al contraddittorio endoprocedimentale al termine delle verifiche fiscali in loco (si veda oltre) e altre importanti garanzie (come il divieto di emissione di avvisi nel mese di agosto per alcune materie, ecc.).
  • D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218: disciplina gli strumenti di definizione agevolata degli accertamenti, in particolare l’accertamento con adesione (artt. 2-15) e l’acquiescenza agli accertamenti (art. 15), con i relativi benefici sulle sanzioni. Questo decreto è cruciale per capire le opzioni a disposizione se si intende evitare o limitare il contenzioso.
  • D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (come modificato da riforme successive, da ultimo D.Lgs. 149/2022 e D.Lgs. 130/2022): è la fonte sul processo tributario. Esso elenca gli atti impugnabili (art. 19 include espressamente l’avviso di accertamento tra gli atti contro cui si può ricorrere) e regola le fasi di ricorso in Commissione/Corte di giustizia tributaria di primo e secondo grado, la sospensione giudiziale (art. 47), la conciliazione giudiziale (art. 48), ecc. Le recenti modifiche (in vigore dal 2023) hanno, tra l’altro, abrogato l’obbligo del reclamo/mediazione per le liti minori a partire dai ricorsi notificati dal 2024 e introdotto il giudice monocratico per cause fino a €3.000, nonché ammesso in misura limitata la prova testimoniale nel processo tributario.
  • Altre norme: numerose altre disposizioni possono rilevare nel contesto degli avvisi a società, ad es. l’art. 2495 c.c. (sulla cancellazione della società e successione nei debiti verso i soci), l’art. 36 D.P.R. 602/1973 (responsabilità fiscale di liquidatori, soci e amministratori in caso di società estinte, modificato dal D.Lgs. 175/2014), nonché norme dei decreti “attuativi” della riforma fiscale 2022-2023 (come il D.Lgs. 118/2023 e 119/2022 sulla giustizia tributaria, il D.Lgs. 156/2015 di riforma del contenzioso, etc.).

È importante sottolineare che per le società di capitali l’accertamento riguarda la società in sé. Eventuali riflessi sui soci vi possono essere solo in casi particolari (ad esempio se l’ufficio contesta che certi utili non dichiarati siano stati distribuiti “in nero” ai soci, oppure in caso di società cancellata con debiti tributari in cui i soci rispondono entro limiti che vedremo). In linea ordinaria però, i soci di una S.r.l. o S.p.A. non rispondono dei debiti tributari sociali oltre il capitale conferito, salvo appunto circostanze eccezionali previste dalla legge. Ciò non esclude comunque la possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di agire indirettamente sui soci con strumenti come il recupero di utili extrabilancio (tassando i soci per utili occulti in base all’accertamento sulla società) o, come ultima ratio, chiedere il fallimento della società debitrice se insolvente.

Riassumendo, il quadro normativo attuale offre alle società contribuenti una serie di garanzie (motivazione dell’atto, contraddittorio, termini di decadenza fissi) ma anche procedure stringenti da rispettare (termine breve per impugnare, pagamento provvisorio di parte del tributo in caso di ricorso, ecc.). Nei paragrafi successivi vedremo come queste norme si applicano concretamente in ciascuna fase: dall’emissione alla notifica dell’avviso, fino alla riscossione coattiva, analizzando anche le pronunce giurisprudenziali più rilevanti che ne hanno chiarito la portata.

Motivi e tipologie di accertamento fiscale verso le società

Perché un’società di capitali può ricevere un avviso di accertamento? Le ragioni possono essere varie, ma tutte riconducibili alla constatazione, da parte del Fisco, di una difformità tra il dichiarato e il dovuto. I motivi più comuni di accertamento tributario a carico di società sono:

  • Omissione totale della dichiarazione: se la società non ha presentato la dichiarazione dei redditi IVA o altre dichiarazioni dovute per un anno fiscale (dichiarazione omessa), l’Amministrazione può accertare d’ufficio gli imponibili presumendo ricavi e redditi in base a dati esterni, con sanzioni aggravate. Un avviso per omessa dichiarazione tipicamente accerta l’intero reddito presunto dell’anno più una sanzione dal 120% al 240% dell’imposta evasa (minimo elevato) oltre interessi.
  • Dichiarazione infedele (redditi imponibili non dichiarati o ricavi non contabilizzati): la società ha presentato dichiarazione ma avrebbe sottostimato il reddito. Esempi: maggiori ricavi non fatturati scoperti attraverso verifiche (vendite “in nero”), ricavi o plusvalenze non dichiarate, operazioni attive non contabilizzate. In questi casi l’ufficio effettua un accertamento in rettifica: ricalcola il reddito imponibile aggiungendo quanto scoperto. La base può essere un Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto dalla Guardia di Finanza o dall’Agenzia in sede di verifica, oppure controlli incrociati (es. versamenti bancari non giustificati). Spesso si parla di accertamento analitico se basato voce per voce, o induttivo/sintetico se basato su presunzioni globali (ad es. percentuali di ricarico, indici di redditività, movimenti bancari non registrati). L’avviso motiverà i fatti specifici trovati (ad es. vendite senza scontrino rilevate, fatture false, etc.) e le norme violate.
  • Costi indeducibili o indebite detrazioni: un’altra tipologia frequente è la contestazione di costi che la società ha dedotto dal reddito ma che secondo l’ufficio non sono deducibili (per carenza dei requisiti di inerenza, competenza, documentazione, o perché ritenuti soggettivamente inesistenti). Analogamente sul versante IVA, si possono contestare detrazioni IVA indebite (es. IVA su fatture per operazioni inesistenti) o crediti d’imposta non spettanti. In questi casi l’avviso di accertamento rettifica il reddito imponibile negando la deduzione di tali costi, con recupero di IRES/IRAP e spesso IVA (se erano acquisti) oltre sanzioni per dichiarazione infedele. È tipico negli accertamenti da “industrie cartiere” (falsi crediti IVA) o nell’ambito di verifiche su transazioni infragruppo.
  • Errata classificazione di componenti di reddito: ad esempio, compensi agli amministratori dedotti ma ritenuti eccessivi (con parziale ripresa a tassazione come utili distribuiti), riserve occulte, utili in nero ai soci. In questi casi l’Agenzia può contestare alla società la mancata tassazione e, parallelamente, accertare un reddito di capitale in capo al socio (utili non dichiarati).
  • Violazioni IVA e imposte indirette: una società può ricevere avvisi di accertamento IVA per omesso versamento dell’IVA dichiarata (in realtà questo caso genera prima una comunicazione e poi, se non sanato, iscrizione a ruolo), oppure per maggior IVA dovuta a causa di vendite non fatturate scoperte, o per IVA detratta indebitamente (es. su fatture false). Gli avvisi IVA rientrano comunque nella categoria degli avvisi di accertamento e seguono regole simili, con peculiare attenzione alle norme comunitarie (i tributi armonizzati come IVA richiedono il rispetto del diritto UE, ad esempio sul contraddittorio preventivo – si veda oltre). Anche imposte di registro, successione, bollo ecc. possono avere accertamenti, ma spesso questi prendono la forma di avvisi di liquidazione o accertamenti dell’Agenzia delle Entrate – Ufficio territoriale o AdE Riscossione, a seconda del caso.
  • Studi di settore/ISA o accertamenti sintetici: in passato, se una società dichiarava ricavi inferiori a quelli presunti dagli studi di settore, poteva subire un accertamento basato sullo scostamento pluriennale. Dal 2019 gli studi di settore sono stati sostituiti dagli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA): un punteggio basso ISA può far scattare controlli, ma non costituisce di per sé accertamento automatico. Tuttavia, persistenti incongruenze possono essere un indicatore di rischio che porta l’ufficio ad approfondire.
  • Accertamenti bancari: l’Agenzia può eseguire indagini finanziarie (accesso ai conti correnti) e presumere che prelevamenti non giustificati e versamenti non giustificati siano ricavi non dichiarati, salvo prova contraria (art. 32 DPR 600/73). Questo spesso dà luogo ad accertamenti induttivi, specie per società di piccole dimensioni o ditte individuali; per le società di capitali la presunzione sui prelevamenti opera solo se si tratta di società di persone o imprenditori individuali, ma sui versamenti anomali può valere anche per le società di capitali (in quanto comunque, se non giustificati, possono indicare ricavi non contabilizzati).
  • Accertamento parziale: la normativa prevede che, se durante controlli l’ufficio scopre un singolo elemento di reddito non dichiarato (es. una fattura non inserita, un conto estero non dichiarato), può emettere un avviso di accertamento parziale (art. 41-bis DPR 600/1973 per imposte dirette, art. 54 c.5 DPR 633/1972 per IVA). Si chiama parziale perché non preclude all’ufficio di compiere ulteriori accertamenti sul periodo d’imposta per altri motivi. Il contribuente lo può impugnare come qualsiasi avviso. In pratica l’ufficio spesso usa l’accertamento parziale per notificare in tempi brevi recuperi su elementi certi, riservandosi eventualmente di approfondire altro.

Ogni avviso di accertamento indicherà quale metodologia è stata applicata (analitica, induttiva, parziale) e le norme che autorizzano tale accertamento. Ad esempio, se si tratta di un accertamento basato su presunzioni qualificate, verrà citato l’art. 39 c.1 lett. d) DPR 600/73; se è un accertamento “a tavolino” senza contraddittorio, verrà indicato che è stato emesso ai sensi delle facoltà istruttorie di cui all’art. 32 DPR 600/73, e così via. Ricordiamo che la legge impone di esplicitare nell’atto i “fatti e circostanze” che giustificano l’eventuale uso di metodi induttivi o sintetici e le ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni o detrazioni dichiarate. Questo per garantire trasparenza: il contribuente deve capire se l’ufficio sta ricostruendo il reddito con metodi indiretti (ad es. percentuali di ricarico sul magazzino) o se ha semplicemente rettificato voci puntuali.

Esempio pratico

Esempio: La società Alfa S.r.l. opera nel commercio all’ingrosso. In base a una verifica della Guardia di Finanza, emergono vendite non fatturate per €100.000 nell’anno X (tramite riscontro di movimentazioni di magazzino e incassi su c/c non contabilizzati). L’Agenzia delle Entrate, ricevuto il PVC, emette un avviso di accertamento per l’anno X contestando maggiori ricavi per €100.000. La società aveva dichiarato un reddito di €50.000; l’ufficio ricalcola l’utile imponibile in €150.000. Su questa differenza, applica l’aliquota IRES 24%: imposta aggiuntiva €24.000. Aggiunge inoltre l’IVA evasa sulle operazioni non fatturate (supponendo IVA 22% su 100.000, sono €22.000 di IVA dovuta). Le sanzioni: per IRES, trattandosi di reddito non dichiarato, viene applicata la sanzione per dichiarazione infedele (ordinariamente dal 90% al 180% dell’imposta evasa, art. 1 co.2 D.Lgs. 471/97). L’ufficio di solito applica il minimo edittale se non ci sono aggravanti: quindi 90% di €24.000 = €21.600 di sanzione IRES. Per l’IVA evasa, la sanzione è anch’essa dal 90% al 180% dell’imposta: minimo 90% di €22.000 = €19.800. In totale l’avviso intimerebbe quindi il pagamento di €24.000 (IRES) + €22.000 (IVA) + €21.600 + €19.800 (sanzioni) + interessi maturati (calcolati per IRES dal giorno di saldo imposte a oggi, e per IVA dal momento in cui l’IVA era esigibile). Gli interessi legali ad esempio al tasso del 3,5% annuo composti potrebbero essere, su circa 3 anni trascorsi, approssimativamente €4.000. Il totale da pagare supererebbe così €91.400.

L’avviso in questione spiegherà in motivazione che si tratta di accertamento analitico-induttivo basato sul PVC della Guardia di Finanza del [data], dettagliando che: “dai controlli incrociati su contabilità e movimenti di magazzino risulta omessa fatturazione di vendite per €100.000, come da elenco allegato; pertanto, ai sensi dell’art. 39, c.1, lett. d) DPR 600/73 si accertano maggiori ricavi non dichiarati…” etc. Allegherà molto probabilmente il PVC per esteso (o ne riprodurrà i passi salienti) dato che ne costituisce parte integrante della motivazione. In mancanza di allegazione, il contribuente potrebbe eccepire un vizio di motivazione, ma solo se non avesse già ricevuto il PVC: poiché in sede di verifica il PVC è stato consegnato alla società, l’ufficio può motivare per relationem richiamandolo senza allegarlo, considerandolo “noto” al contribuente. (Su questo punto, la Cassazione ha chiarito che l’omessa allegazione di atti richiamati comporta nullità solo se il loro contenuto è essenziale per comprendere la motivazione e il contribuente non ne era già in possesso; se invece sono meri documenti accessori o già noti, l’atto è valido).

In conclusione, è fondamentale leggere attentamente la motivazione dell’avviso, perché da essa si comprendono sia la tipologia di accertamento (analitico, induttivo, parziale, ecc.) sia gli elementi specifici contestati. Questo consentirà alla società di valutare la fondatezza delle pretese e decidere il da farsi (pagare, aderire, impugnare…). Prima però di vedere “cosa fare”, occorre esaminare alcuni aspetti preliminari cruciali: come viene notificato l’avviso e entro quali termini può essere emesso.

Notifica dell’Avviso di Accertamento

L’avviso di accertamento deve essere portato a conoscenza del contribuente tramite una procedura formale di notifica. La notifica è un passaggio essenziale: un avviso non correttamente notificato non produce effetti finché la notifica non è regolare. Per le società di capitali, la legge prevede specifiche modalità di notifica, che nel tempo si sono evolute privilegiando i canali digitali:

  • Notifica via PEC (Posta Elettronica Certificata): dal 2017, per i soggetti dotati di PEC (imprese costituite in forma societaria, imprese individuali e professionisti iscritti ad Albi), gli atti dell’Agenzia delle Entrate devono essere notificati prioritariamente via PEC all’indirizzo risultante dagli elenchi ufficiali (INI-PEC). La PEC ha valore legale equivalente alla raccomandata e consente di certificare data e ora di consegna. Dunque, una società di capitali riceverà l’avviso di accertamento sulla propria casella PEC registrata. La notifica si perfeziona quando il messaggio PEC viene consegnato nella casella (risultante dalla ricevuta di avvenuta consegna). Se la casella PEC è satura o non funzionante, l’Agenzia effettua un secondo tentativo entro 5 giorni; se anche questo fallisce, la notifica via PEC si considera non riuscita e si procede in modo tradizionale (vedi oltre). È importante dunque che la società mantenga attiva e monitorata la PEC: un avviso inviato lì si considera ricevuto anche se di fatto nessuno legge la PEC (fa fede la ricevuta). In caso di PEC non più valida o non attiva, l’atto può essere depositato in un’apposita area web (registro imprese) con invio di raccomandata di avviso.
  • Notifica a mezzo posta (raccomandata AR): è il metodo tradizionale. L’avviso viene spedito in plico raccomandato con avviso di ricevimento all’indirizzo della sede legale della società (che è anche il suo domicilio fiscale, salvo diversa elezione di domicilio fiscale). Può ritirarlo il legale rappresentante o altro delegato presente. Se il postino non trova nessuno, lascia un avviso e deposita l’atto presso l’ufficio postale: la notifica si perfeziona decorsi 10 giorni di compiuta giacenza (o alla data di ritiro antecedente). Per le società, essendo persone giuridiche, la consegna può avvenire a un incaricato alla ricezione presente in sede (es. dipendente, receptionist) oppure, in mancanza, anche al portiere dello stabile (art. 139 c.p.c.). Se l’indirizzo è errato o la società si è trasferita senza aggiornare il Registro Imprese, l’ufficio può cercare nuova sede o procedere al deposito presso il Comune. La notifica postale è tuttora utilizzata se la PEC fallisce o per atti di alcuni enti locali.
  • Notifica tramite messo notificatore o ufficiale giudiziario: in alcuni casi, soprattutto per atti di enti locali (comuni per IMU/TASI ecc.), la notifica può essere eseguita da messi comunali o ufficiali giudiziari, con consegna dell’atto in mani proprie al legale rappresentante oppure mediante affissione di avviso e deposito al Comune se irreperibile. Nel caso di Agenzia Entrate, raramente si usa il messo se la posta e la PEC sono percorribili, ma rimane una possibilità (ad esempio per consegna diretta in casi urgenti, oppure in concomitanza con accessi sul posto).
  • Notifica per irreperibilità: se la sede della società risulta irreperibile (es. azienda cessata o sede chiusa) e non si trova un luogo di notifica, la legge consente la notifica mediante deposito dell’atto presso l’albo del Comune (art. 60 DPR 600/73, richiamando art. 140 c.p.c. o 60 lett. e) per irreperibilità assoluta). In pratica l’atto viene affisso e dopo un certo tempo la notifica si dà per eseguita. Questo è un caso limite, spesso oggetto di contenzioso perché la società potrebbe eccepire di non aver mai saputo dell’atto. È importante mantenere aggiornati sede legale e domicilio fiscale per evitare notifiche “in bacheca”.
  • Notifica a società estinte o trasformate: caso particolare. Se la società è stata incorporata in altra (fusione) o trasformata, l’avviso va notificato al soggetto risultato dalla trasformazione/fusione. Se invece la società risulta cancellata dal Registro Imprese, dal 2014 vige una regola particolare: l’estinzione ha efficacia differita di 5 anni ai fini fiscali. Significa che l’ufficio può notificare atti (entro 5 anni dalla cancellazione) come se la società esistesse ancora, indirizzandoli quindi alla società (presso l’ultimo domicilio fiscale) ma chiamando in causa i soci e liquidatori per il pagamento dei debiti (vedi sezione sulle società estinte). Ad ogni modo, notificare ad un soggetto estinto è complesso: la prassi è notificarlo agli ex soci (in solido nei limiti delle quote di liquidazione) oppure al liquidatore. La norma citata (art. 28 c.4 D.Lgs 175/2014) crea una fictio juris per cui, ai soli fini della validità dell’atto, la società si considera esistente ancora per 5 anni post-cancellazione. In pratica, l’atto va comunque indirizzato alla società “(già) XYZ Srl in liquidazione” e consegnato magari al liquidatore o socio reperibile.

In linea generale, per le società di capitali oggi la regola primaria è la notifica telematica via PEC. Solo in subordine si passa ad altre forme. È fondamentale sapere quando la notifica si considera perfezionata: ad esempio via PEC coincide con la consegna (per il mittente) e la lettura avviene con l’avviso di recapito; via posta può richiedere la compiuta giacenza. Questo è importante perché da quella data decorrono i 60 giorni per presentare ricorso o per pagare.

Prova della notifica: nella successiva fase contenziosa, sarà onere dell’ente impositore dimostrare la corretta notifica (esibendo la ricevuta PEC o l’avviso di ricevimento). Un difetto di notifica può rendere l’avviso inesistente o nullo, ma attenzione: se il contribuente comunque ne è venuto a conoscenza e fa ricorso, spesso la notifica viene “sanata” (principio di raggiungimento dello scopo, art. 156 c.p.c.). Esempio: se l’Agenzia inviasse l’avviso ad una PEC non corretta ma poi la società lo scopre e ricorre, difficilmente il giudice annullerà per vizio di notifica, considerando che la difesa è avvenuta (a meno che il vizio abbia concretamente leso il diritto di difesa, come nei casi di irreperibilità totale dove l’azienda scopre l’atto troppo tardi).

Notifica invalida e rimedi: se la società riceve tardivamente un avviso (magari perché consegnato altrove) e perde i 60 giorni di tempo, può far valere il vizio di notifica. Ad esempio Cassazione ha ritenuto nulla la notifica fatta a un indirizzo diverso dalla sede legale senza prova che vi fosse trasferimento. In tal caso, l’atto potrebbe essere impugnato appena se ne viene a conoscenza, eccependo la nullità della notifica e chiedendo la rimessione in termini. Se il Fisco riconosce l’errore, potrebbe anche rinotificare l’atto (se i termini di decadenza non sono scaduti).

In sintesi: verificate sempre la PEC e l’indirizzo di notifica. Il momento in cui l’avviso viene notificato è cruciale perché da lì decorrono i termini per reagire. La sezione seguente approfondirà quali sono i termini di decadenza per l’emissione dell’avviso (ovvero entro quando il Fisco deve notificare gli accertamenti) e i termini di impugnazione/pagamento per il contribuente una volta ricevuto.

Termini di decadenza per l’emissione dell’accertamento

La legge impone che gli avvisi di accertamento siano notificati al contribuente entro specifici termini perentori, trascorsi i quali l’amministrazione finanziaria decade dal potere di accertare per quell’anno. Ciò è fondamentale per garantire certezza: una volta scaduti i termini di decadenza, il contribuente sa che il periodo d’imposta è “chiuso” e non subirà più accertamenti su di esso. Vediamo i termini vigenti (come modificati dalle riforme degli ultimi anni):

  • Termine ordinario – dichiarazione presentata: per le imposte sui redditi (IRES) e l’IVA, il termine di decadenza è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione. Questo è stabilito dall’art. 43, comma 1, DPR 600/1973 per le imposte sui redditi e dall’art. 57 DPR 633/1972 per l’IVA. In pratica, ad esempio:
    • Periodo d’imposta 2019, dichiarazione presentata nel 2020: l’accertamento deve essere notificato entro il 31 dicembre 2025.
    • Periodo d’imposta 2020, dichiarazione 2021: entro 31 dicembre 2026, e così via.
    Fino a qualche anno fa (per le annualità fino al 2015) il termine era il quarto anno successivo, poi elevato a quinto anno per le dichiarazioni dal 2016 in poi (in virtù delle modifiche apportate dal D.Lgs. 128/2015 e D.Lgs. 193/2016, che hanno abolito il meccanismo del raddoppio termini in favore di termini ordinari più lunghi). Attenzione: le tabelle seguenti riepilogano gli ultimi anni accertabili a giugno 2025: Anno d’imposta Anno presentazione dich. Termine accertamento (dichiarazione presentata) Annotazioni 2017 2018 31/12/2023 (scaduto) – 2018 2019 31/12/2024 (in scadenza a fine anno) 2019 2020 31/12/2025 – 2020 2021 31/12/2026 – 2021 2022 31/12/2027 – 2022 2023 31/12/2028 – 2023 2024 31/12/2029 – 2024 2025 31/12/2030 – (Nota: per il 2018 e 2019 in tabella compaiono termini al 2024 e 2025; occorre ricordare che per il 2018 il termine ordinario è fine 2024 salvo proroghe Covid, vedi avanti).
  • Termine – dichiarazione omessa: se la società non ha presentato la dichiarazione per un dato anno, i termini sono più lunghi. L’art. 43 DPR 600/73 prevede che l’avviso possa essere notificato entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Esempio:
    • Periodo d’imposta 2019, dichiarazione doveva essere presentata nel 2020 ma omessa: l’accertamento può essere notificato fino al 31 dicembre 2026.
    • Periodo d’imposta 2020 (dich. 2021) omessa: fino al 31 dicembre 2027, e così via.
    Anche qui, il termine è stato allungato (era il sesto anno, diventato settimo per le annualità recenti). Ecco i termini se dichiarazione omessa: Anno d’imposta Dich. dovuta nell’anno Termine accertamento (omessa) 2017 2018 31/12/2024 (scaduto se non prorogato) 2018 2019 31/12/2025 2019 2020 31/12/2026 2020 2021 31/12/2027 2021 2022 31/12/2028 2022 2023 31/12/2029 2023 2024 31/12/2030 2024 2025 31/12/2031
  • Violazioni penali tributarie (raddoppio dei termini): in passato esisteva il raddoppio dei termini di accertamento in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia penale (es. dichiarazione fraudolenta). Questo raddoppio permetteva di accertare fino al raddoppio dei termini ordinari. Tale meccanismo è stato però fortemente limitato dalla riforma del 2015 (D.Lgs. 128/2015): in sostanza, per i periodi dal 2016 in poi non c’è raddoppio, ma sono stati fissati termini più lunghi (5 e 7 anni come sopra). Per le annualità precedenti invece il raddoppio si applicava solo se la denuncia penale era presentata entro la scadenza ordinaria. Nelle tabelle sopra si notano dei riferimenti (ad es. per 2015 e 2014 c’erano scadenze raddoppiate rispettivamente al 2026 ecc. per chi avesse reati tributari). Al 2025, il tema del raddoppio è poco attuale perché riguarda anni ormai prescritti o al limite il 2015. Pertanto non ci soffermiamo oltre, se non per dire che oggi l’ufficio ha già termini sufficientemente lunghi (5/7 anni) e se c’è un reato procede autonomamente in parallelo senza ampliamento ulteriore dei termini (fanno eccezione alcuni casi particolari come investimenti esteri non dichiarati, vedi oltre).
  • Attività estere non dichiarate (Quadro RW): per attività finanziarie detenute all’estero non dichiarate (monitoraggio fiscale), una norma speciale prevede termini raddoppiati (10 anni se dichiarazione presentata, 14 se omessa). Questo riguarda però la contestazione di sanzioni sul quadro RW o redditi da paradisi fiscali. È un ambito di nicchia, ma rileva per società che magari abbiano stabili organizzazioni non dichiarate o patrimoni esteri. In generale, se la società è residente e non dichiara attività estere, l’Agenzia ha 10 anni.
  • Sospensioni straordinarie dei termini: bisogna tener conto di eventuali sospensioni o proroghe disposte per legge. Ad esempio, a causa dell’emergenza COVID-19, i termini di decadenza che cadevano al 31/12/2020 sono stati prorogati di alcuni mesi (precisamente, il DL 34/2020 ha prorogato al 28/02/2022 gli accertamenti relativi al periodo d’imposta 2015). Questo spiega perché in alcune tabelle 2015 appare con scadenza nel 2022. Al giugno 2025 questi effetti transitori sono ormai passati: le annualità dal 2016 in poi seguono le regole ordinarie senza proroghe, salvo diversa emergenza futura.

Dunque, una società nel 2025 può ancora ricevere avvisi relativi fino all’anno 2019 (in caso di dichiarazione regolare) o 2018 (se omessa), tenendo presente la proroga COVID per il 2018: infatti il 2018 (dich. 2019) scade a fine 2024, ma per l’IVA 2018 c’era proroga fino 26/03/2025 – dettaglio tecnico dovuto al periodo di sospensione (questa proroga differenziata ha generato confusione, ma semplificando: l’Agenzia ha potuto notificare gli atti 2015 fino al 2022, 2016 fino al 2023 ecc.). Per non appesantire, ricordiamo il concetto chiave: se la società riceve un avviso per un anno ormai decaduto (cioè oltre questi termini), potrà eccepire in ricorso la decadenza dell’azione accertatrice e ottenere l’annullamento. È un’eccezione importante di cui i giudici tengono conto d’ufficio solo se ben documentata in atti.

Termini per impugnare e pagare: diverso dai termini di decadenza (che riguardano il potere dell’ufficio) è il termine a disposizione del contribuente per reagire. L’avviso di accertamento deve indicare il termine per presentare ricorso che, per legge, è di 60 giorni dalla notifica. Entro lo stesso termine di 60 giorni il contribuente può decidere di pagare le somme richieste beneficiando della riduzione sanzioni in caso di acquiescenza (vedi oltre). Se non fa nulla entro 60 giorni, l’atto diviene definitivo ed esecutivo.

Da notare che se il contribuente presenta istanza di accertamento con adesione, questo sospende il termine per impugnare per ulteriori 90 giorni (oppure 30 giorni in certe ipotesi dal 2024, come vedremo). Quindi in tal caso il “conto alla rovescia” per il ricorso si ferma e riprende dopo la sospensione. Esiste inoltre una sospensione feriale (1-31 agosto) che dilata i termini nel periodo estivo per gli atti notificati in prossimità di quel mese.

Riepilogo dei termini essenziali:

  • Decadenza emissione avviso: 5 anni (dich. presentata) o 7 anni (omessa) dal anno di presentazione. Oltre tali date l’accertamento è nullo.
  • Impugnazione/Acquiescenza: 60 giorni dalla notifica per ricorrere o pagare con sanzioni ridotte.
  • Adesione: entro lo stesso termine, se presentata istanza, sospende ricorso per 90 gg (o 30 gg in nuovi casi contraddittorio obbligatorio, v. infra).
  • Esecutività: trascorsi 60 giorni senza ricorso, l’avviso è esecutivo; se si ricorre, bisogna pagare una quota pari ad 1/3 delle maggior imposte entro il termine di ricorso (a titolo provvisorio).

I prossimi paragrafi approfondiranno i requisiti di contenuto dell’avviso (la cui mancanza può costituire vizi) e quindi tutte le possibili azioni da fare una volta ricevuto l’atto.

Contenuto e requisiti dell’avviso di accertamento

Un avviso di accertamento valido deve rispettare precisi requisiti formali e sostanziali dettati dalla legge. La mancanza di uno di questi elementi essenziali può renderlo nullo. Vediamo quali informazioni deve necessariamente contenere l’atto:

  • Sottoscrizione: l’avviso deve essere firmato dal capo dell’ufficio che lo emette o da un funzionario da questi delegato (art. 42, c.1, DPR 600/1973). La firma può essere autografa oppure digitale (in caso di documento informatico notificato via PEC) e, nella prassi attuale, spesso sugli atti cartacei compare la dicitura a stampa del direttore o funzionario delegato. È importante che vi sia l’indicazione del nome e qualifica del firmatario. La mancanza di firma è causa tassativa di nullità dell’avviso. Attenzione: la firma può essere apposta anche in forma meccanografica (es. riproduzione a stampa) purché vi sia una delega interna valida. La Corte di Cassazione ha infatti chiarito che la firma meccanica non invalida l’atto, trattandosi di un mero mezzo di formazione se supportato da regolare delega di firma. Ad esempio l’ordinanza Cass. n. 31928/2024 ha confermato che un avviso sottoscritto meccanograficamente dal capo ufficio delegante è valido e non nullo solo per mancanza di firma autografa. In sintesi: se l’avviso non è sottoscritto affatto, è nullo; se è firmato digitalmente o con timbro meccanico ma con delega esistente, è valido.
  • Indicazione degli imponibili e imposte: l’avviso deve indicare gli imponibili accertati (ossia le basi imponibili ricalcolate dall’ufficio), le aliquote applicate e le imposte liquidate, sia al lordo che al netto di detrazioni, ritenute e crediti d’imposta. In pratica ci deve essere un quadro di riepilogo con il calcolo della maggior imposta per ciascun tributo e annualità oggetto di accertamento. Ad esempio: “IRES 2019: imponibile dichiarato €100.000, imponibile accertato €150.000, aliquota 24%, imposta accertata €36.000, imposta versata €24.000, differenza dovuta €12.000”. Analogo per IVA (con indicazione dell’IVA dovuta originaria e quella accertata). Questo consente al contribuente di comprendere quantitativamente la pretesa. L’assenza di tali indicazioni numeriche renderebbe l’atto indeterminato e quindi nullo per difetto di uno degli elementi essenziali.
  • Motivazione chiara e sufficiente: è forse il requisito più importante. L’avviso deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Significa che l’ufficio deve spiegare quale fatto (omessa fattura, errore di calcolo, ecc.) è stato riscontrato e quale norma impone la maggiore imposta. La motivazione può anche essere “per relationem”, cioè fatta rinviando ad altri atti (es. il PVC della Guardia di Finanza, un rapporto di verifica): in tal caso, però, se tali atti non sono già noti al contribuente, devono essere allegati all’avviso. La legge anzi sancisce la nullità dell’avviso se alla motivazione per relationem non segue l’allegazione dell’atto richiamato non conosciuto. Su questo punto la giurisprudenza ha elaborato il principio per cui la mancata allegazione comporta nullità solo se quell’atto contiene elementi integrativi indispensabili della motivazione. La Cassazione (ordinanza n. 17573/2024) ha ribadito che il contribuente che eccepisce difetto di motivazione per mancata allegazione deve provare che la parte non conosciuta di quegli atti era necessaria per comprendere la pretesa. Se, ad esempio, l’avviso cita un PVC di cui però riporta già gli elementi essenziali, la mancata allegazione non lo rende nullo. In ogni caso, la motivazione deve dare certezza dei punti contestati: un avviso con motivazione contraddittoria o incoerente è nullo perché non consente al contribuente di capire su quali basi difendersi. Cassazione 13620/2023, ad esempio, ha annullato un avviso la cui motivazione conteneva ragioni tra loro incompatibili (ipotesi alternative di evasione) creando incertezza.
  • Indicazione dell’ufficio competente e del responsabile del procedimento: lo Statuto del contribuente (art. 7, co.2, L.212/2000) prevede che ogni atto impositivo riporti l’ufficio da cui promana e il nominativo del funzionario responsabile del procedimento. Di solito gli avvisi dell’Agenzia indicano in calce o nell’intestazione: “Ufficio X dell’Agenzia – Responsabile del procedimento: Dr. Y”. Questa indicazione, pur obbligatoria, non è causa di nullità se manca, per espressa previsione normativa limitata alle sole cartelle di pagamento. Infatti, la sanzione di nullità per omessa indicazione del responsabile è stata introdotta nel 2008 ma solo per le cartelle esattoriali, non per gli avvisi di accertamento. La Cassazione ha confermato che l’assenza del nome del responsabile del procedimento nell’avviso non invalida l’atto (Cass. 1042/2023; Cass. 11856/2017), poiché la L. 212/2000 non prevede tale nullità e l’art. 36, c.4-ter del DL 248/2007 la prevede esclusivamente per le cartelle emesse da giugno 2008 in poi. Pertanto, pur se inadempimento, un eventuale avviso privo di indicazione del responsabile non è annullabile per questo vizio (diversamente da una cartella “muta” che invece sarebbe nulla). In pratica, però, quasi tutti gli avvisi riportano tale nome, quindi è raro dover eccepire ciò.
  • Indicazione delle modalità e termini di pagamento e impugnazione: l’avviso deve indicare come il contribuente può pagare (IBAN, modelli F24 precompilati allegati, etc.) e il termine entro cui farlo, nonché il termine di 60 giorni per proporre ricorso e la Commissione/Corte tributaria competente. Deve anche indicare che in caso di ricorso va versato intanto un importo pari ad 1/3 delle maggiori imposte (vedi oltre sulla esecutività) e che si può chiedere sospensione al giudice. L’omissione di queste indicazioni in genere è un’irregolarità formale (oggi sono format standard, difficilmente mancanti).
  • Intimazione ad adempiere e avvertimenti sulla riscossione: a seguito della riforma del 2011, l’avviso di accertamento contiene anche un’intimazione di pagamento entro il termine di presentazione del ricorso. Ciò è previsto dall’art. 29, DL 78/2010, e serve a conferire all’atto natura di titolo esecutivo dopo 60 giorni dalla notifica. In pratica, nell’avviso è scritto che il contribuente è tenuto a pagare le somme dovute entro 60 giorni (termine del ricorso) oppure, se presenta ricorso, a pagare provvisoriamente un terzo delle maggiori imposte accertate entro lo stesso termine. Inoltre l’atto deve avvertire che, decorsi 30 giorni dal termine di pagamento, si procederà a iscrivere a ruolo le somme non versate e attivare la riscossione coattiva tramite Agente della Riscossione, con sospensione di 180 giorni prima di avviare l’esecuzione forzata. Tutto questo apparato di clausole è di solito riportato nelle pagine finali dell’avviso (in carattere anche evidenziato). La mancanza di intimazione potrebbe inficiare la possibilità di attivare la riscossione, ma in pratica gli atti odierni la contengono sempre per legge. Si noti che se l’avviso comporta anche sanzioni con atto a parte, anche lì viene messa intimazione.
  • Diritti e benefici del contribuente: spesso l’avviso riporta anche, a titolo informativo, i possibili benefici se si paga subito (ad es. “se non si propone ricorso e si paga entro 60 giorni, le sanzioni sono ridotte a 1/3 per acquiescenza ex art.15 DLgs 218/97”) oppure se si chiede adesione (sanzioni 1/3 del minimo). Queste informazioni, pur non obbligatorie per legge, sono inserite per trasparenza e per incentivare le definizioni. La loro assenza non invalida l’atto (sono più una cortesia istituzionale), ma la presenza può essere utile al contribuente per conoscere le opzioni.

Riassumendo: un avviso di accertamento deve essere completo e chiaro. In caso contrario, si hanno i cosiddetti “vizi propri dell’atto”. Ad esempio, se manca la motivazione o è incomprensibile, si ha un difetto di motivazione impugnabile ai sensi dell’art. 42 DPR 600/73 e art. 7 L.212/2000. Se manca la firma autorizzata, è nullità assoluta ex lege. Se mancano imponibili e calcoli, è nullità per indeterminatezza. Se l’atto presenta motivazioni incoerenti o alternative, si può far valere la nullità per confusione (come da Cass. 13620/2023). Se non venisse allegato un atto fondamentale ignoto, nullità per violazione art.7 Statuto (salvo prova contraria del fisco di non necessità). Dunque, appena ricevuto l’avviso, occorre verificarne attentamente la struttura: eventuali vizi formali vanno eccepiti già nel primo ricorso, pena decadenza (non possono essere sanati poi).

Nel paragrafo seguente esamineremo in modo più sistematico proprio i vizi dell’atto e le principali cause di nullità che la giurisprudenza ha riconosciuto, in modo da sapere quali strategie difensive impostare sul profilo formale, oltre che sul merito.

Vizi dell’avviso di accertamento e possibili nullità

Dal punto di vista del contribuente (società destinataria), un’importante linea di difesa contro l’avviso di accertamento consiste nell’individuare eventuali vizi formali o procedurali dell’atto, che possano comportarne la nullità o annullabilità indipendentemente dal merito della pretesa. Elenchiamo le principali cause di nullità dell’avviso riscontrate dalla normativa e dalla giurisprudenza, evidenziando gli orientamenti più aggiornati:

  • Mancanza di sottoscrizione valida: come già detto, se l’avviso non reca la firma del capo ufficio o di un delegato, esso è nullo per espressa previsione normativa. Questo vizio è per lo più teorico, perché l’Agenzia appone sempre una firma (digitale o a stampa). Più concreto è il caso della delega di firma irregolare: se ad esempio l’atto è firmato da Tizio ma la delega del direttore a Tizio mancava o era generale non nominativa, si potrebbe eccepire la nullità. Tuttavia, la Cassazione è piuttosto restrittiva: la delega di firma è considerata un fatto interno all’amministrazione, la cui carenza non sempre invalida l’atto a meno che risulti che chi ha firmato non aveva titolo. La recente Cass. 31928/2024 ha ribadito che la delega di firma non equivale a delega di funzioni e il principio di tassatività delle nullità nel processo tributario fa sì che la firma meccanografica delegata sia legittima. Insomma, puntare su questo vizio richiede di avere prove che quel funzionario non fosse affatto delegato (cosa non semplice, perché l’Agenzia in giudizio produce la lettera di delega retrostante se contestata).
  • Difetto di motivazione: è un motivo di annullamento frequente. Consiste nell’assenza o insufficienza di motivazione nell’atto. Può assumere varie forme:
    • Motivazione del tutto mancante: l’atto non spiega perché chiede denaro. Questa ipotesi estrema equivalerebbe a nullità evidente (violazione art. 7 Statuto e art.42 DPR 600).
    • Motivazione apparente o tautologica: quando l’atto usa formule vaghe e non fa capire la ragione specifica (es. “Si accerta un maggior reddito in base a elementi raccolti” senza dire quali). La Cassazione ha spesso annullato atti dalla motivazione meramente assertiva o priva di concreto riferimento ai fatti.
    • Motivazione contraddittoria: quando all’interno dell’atto ci sono affermazioni incoerenti, che generano incertezza sulla causa (come accertamenti che ipotizzano due fatti alternativi, oppure errori materiali tipo cifre discordanti). Cass. 13620/2023 ha chiarito che motivazioni contraddittorie rendono nullo l’avviso perché non garantiscono certezza sugli elementi fondanti.
    • Mancata allegazione di atti richiamati: se l’avviso motiva “per relationem” rinviando ad un altro atto (es. PVC, rapporto) non conosciuto dal contribuente e non allegato, ciò comporta nullità ex art.42 DPR 600. Tuttavia, come visto, la giurisprudenza richiede al contribuente di provare l’utilità di quell’atto ai fini della difesa. Ad esempio, Cass. 17573/2024: il contribuente lamentava la mancata notifica del PVC alla base dell’accertamento; la Corte gli ha dato torto perché doveva dimostrare che qualcosa nel PVC, non riportato nell’avviso, fosse essenziale e a lui ignoto. In quel caso il contribuente era persona fisica considerata regista occulto di una società, e il PVC era intestato alla società; la Cassazione ha ritenuto che la mancata notifica del PVC non inficiava la motivazione perché l’avviso riportava già gli elementi essenziali e il contribuente non provò quali parti del PVC ignote avrebbero cambiato la difesa. In altre parole, la tendenza attuale è: se l’avviso fa riferimento ad altri atti, per far annullare bisogna dimostrare come l’assenza di quegli atti impedisce di capire e contestare.
    • Motivazione integrata in giudizio: una nota importante è che la motivazione dell’atto impositivo non può essere sanata né integrata successivamente. Se in sede processuale l’ufficio tenta di aggiungere ragioni nuove non presenti nell’atto originario, ciò non vale a colmare il difetto. Il giudice valuterà la legittimità dell’avviso in base a ciò che c’era scritto al momento della notifica. Pertanto, se ad esempio l’atto non indicava un certo presupposto, l’Agenzia non può farlo emergere ex novo in giudizio (principio del divieto di integrazione postuma della motivazione, sancito anche da Cass. nn. 10903/2015, 1896/2016, ecc.).
  • Violazione del contraddittorio endoprocedimentale: qui entriamo su un vizio di procedura più che di contenuto, ma che può portare all’annullamento dell’avviso se la legge (o la giurisprudenza) lo ritiene obbligatorio. Il “contraddittorio endoprocedimentale” è il confronto tra Fisco e contribuente prima dell’emissione dell’avviso. In alcuni casi è obbligatorio:
    • Verifiche in loco: l’art. 12 c.7 Statuto prescrive che dopo una verifica presso la sede del contribuente (accesso, ispezione, verifica) i verificatori rilascino il PVC e non si possa emettere avviso prima di 60 giorni dalla consegna, a meno di particolare urgenza motivata. In quei 60 giorni il contribuente può presentare osservazioni difensive. Se l’ufficio emette comunque l’avviso senza aspettare i 60 giorni e senza urgenza, l’atto è nullo per violazione del contraddittorio (nullità riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale, sent. 37/2015). Quindi, per le verifiche on-site il contraddittorio è garanzia assoluta.
    • Accertamenti “a tavolino” per tributi armonizzati: per l’IVA (tributo armonizzato UE) la Corte di Giustizia UE ha sancito che in alcuni casi l’amministrazione deve offrire il contraddittorio prima dell’avviso (sentenza Sopropé C-349/07). La Cassazione, con SU 24823/2015 e successive, ha stabilito che non esiste un obbligo generale di contraddittorio per tutti i tributi, ma solo:
      • per i tributi “armonizzati” (IVA), l’assenza di contraddittorio preventivo comporta nullità dell’atto se il contribuente prova in giudizio che la partecipazione mancata gli avrebbe permesso di far valere elementi idonei a evitare (anche parzialmente) l’atto;
      • per i tributi non armonizzati (es. IRES, IRAP), nessun obbligo se non stabilito da norme specifiche (come il citato art.12 Statuto per le verifiche in loco), a meno che non si provi uno specifico pregiudizio (ma SU 2015 fu netta nel dire che per IRPEF/IRES non c’è obbligo).
    • Novità 2023-2024: è stata introdotta una norma generale, l’art. 6-bis dello Statuto (L.212/2000) in vigore da gennaio 2024, che generalizza l’obbligo di contraddittorio amministrativo per gli avvisi di accertamento, salvo atti di “pronta soluzione” o automatizzati. In base al nuovo art. 6-bis, prima di emettere un avviso di accertamento l’ufficio deve notificare al contribuente una sorta di “schema di atto” o invito a fornire osservazioni entro 60 giorni, oppure invitarlo a chiedere l’accertamento con adesione entro 30 giorni, nei casi in cui è obbligatorio il contraddittorio. Sono esentati solo gli atti espressamente esclusi da apposito DM (ad esempio quelli da controlli formali, liquidazioni automatiche, ecc., come da DM 24.9.2024). Questo significa che per gli avvisi emessi dal 2024, se rientrano nelle categorie non escluse, la mancanza del contraddittorio pre-emissione potrà essere motivo di nullità. La stessa norma 6-bis prevede che se l’ufficio viola tale obbligo, l’atto è nullo ma solo se il contribuente nel ricorso indica quali difese avrebbe potuto far valere in sede precontenziosa (c’è una sorta di onere di “prova di resistenza” codificato). Dunque, nel 2025 questa disciplina è agli inizi applicativi, ma va tenuta presente: se ricevete un avviso senza aver avuto prima un invito al contraddittorio mentre dovevate averlo, potete eccepirne la nullità per violazione dell’art. 6-bis Statuto.
    In sintesi sul contraddittorio: fino al 2023 la giurisprudenza era restrittiva (salvo IVA e verifiche in loco, la mancanza di contraddittorio non annullava l’atto). Dal 2024 c’è la volontà legislativa di renderlo prassi generale. Ad esempio, se la vostra società viene controllata in ufficio (no visita in azienda), prima dell’avviso dovrebbero mandarvi uno “schema di accertamento” permettendovi difese. Se ciò non avviene e l’atto rientrava tra quelli con obbligo, potrete far valere questa violazione. È un tema tecnico, ma in prospettiva fornisce un’altra freccia all’arco difensivo. (Va segnalato che per avvisi di tipo “parziale” o automatizzati, come quelli su liquidazioni, il DM potrebbe escluderli dall’obbligo, quindi occorrerà valutare caso per caso in base alla normativa vigente al momento).
  • Notifica invalida o tardiva: un avviso notificato oltre i termini di decadenza (anche di un solo giorno) è inefficace. La decadenza può essere eccepita anche d’ufficio dal giudice, ma è bene sollevarla nel ricorso con precisione di date. Inoltre, se la notifica è stata fatta con modalità viziate (persona priva di qualifica, indirizzo errato, ecc.), si può eccepire la nullità della notifica stessa ex art. 160 c.p.c. e chiedere l’annullamento dell’atto in quanto non ritualmente notificato entro i termini. La giurisprudenza distingue tra inesistenza della notifica (ad es. consegna a soggetto completamente estraneo e in luogo diverso) e nullità sanabile (ad es. errore nel nome, presa in consegna da persona non perfettamente abilitata ma consegnata in sede): nel secondo caso, se il ricorrente ha comunque avuto l’atto, la notifica si considera sanata dallo stesso ricorso. Quindi invocare la nullità della notifica serve soprattutto se si è venuti a conoscenza dell’atto tardivamente fuori termine. In pratica, questo vizio viene usato come scudo quando il Fisco tenta di notificare a un soggetto ormai cessato o assente. Abbiamo visto, l’estinzione delle società è differita di 5 anni per evitare l’argomento dell’inesistenza, però errori grossolani possono capitare (es. notifica ad una sede vecchia malgrado trasferimento regolarmente registrato, etc.).
  • Altri vizi formali: Ce ne sono diversi possibili, ad esempio:
    • Errata intestazione: se l’avviso è intestato ad un soggetto giuridico sbagliato (nome errato, codice fiscale errato) ciò potrebbe renderlo nullo se genera incertezza sul destinatario. Errori lievi (denominazione sociale con piccola imprecisione) di solito non inficiano se il CF è corretto. Ma se c’è scambio di soggetti potrebbe essere contestabile.
    • Errata determinazione del tributo: se l’atto chiede un tributo inesistente o calcola male l’imposta (errori materiali) in teoria non è nullo ma sbagliato nel merito. Si fa valere nel merito, non come vizio formale.
    • Mancata indicazione delle annualità o duplicazione: se l’atto non specifica chiaramente a quale periodo si riferisce, sarebbe nullo per indeterminatezza. Questo è raro perché gli avvisi hanno sempre l’anno d’imposta in oggetto.
    • Incompetenza territoriale: ogni società ricade sotto un Ufficio dell’AdE (in base alla sede). Se per assurdo un ufficio non competente emettesse l’atto, si potrebbe annullare. Nella prassi però gli uffici competenti sono ben individuati (Direzioni Provinciali) e questi errori non accadono quasi mai.

In sede di ricorso, le eccezioni preliminari sui vizi dell’atto sono importanti: se il giudice le accoglie, annulla l’avviso senza nemmeno esaminare il merito (tassazione). Ad esempio, ottenere l’annullamento per difetto di motivazione o per decadenza significa vincere la causa a prescindere che la società avesse evaso o meno. Dunque vale la pena farle valere quando sussistono. In particolare, difetto di motivazione è spesso un cavallo di battaglia, ma bisogna argomentarlo bene alla luce dei principi attuali: non basta dire “non è motivato”, occorre spiegare cosa manca o cosa è contraddittorio e perché ciò lesiona il diritto di difesa.

Chiaro che se l’atto è formalmente ineccepibile, allora la difesa dovrà concentrarsi sul merito (contestazione dei rilievi fiscali). In tal caso la partita si gioca su prove, argomentazioni economiche, perizie, ecc., e si affronterà nel ricorso (vedi oltre).

Prima di passare alle possibili strategie di risposta (pagamento, adesione, ricorso), facciamo un breve riepilogo delle pronunce giurisprudenziali recenti che abbiamo citato come riferimento sui vizi:

  • Cass. 13620/2023: Avviso nullo se motivazione contraddittoria (ragioni eterogenee e inconciliabili).
  • Cass. 17573/2024: su allegazione atti – onere contribuente provare utilità dell’atto non allegato ai fini della motivazione.
  • Cass. 31928/2024: delega di firma valida anche se firma meccanica; nullità solo se completamente privo di firma.
  • Cass. 1042/2023: indicazione responsabile del procedimento non è richiesta a pena di nullità nell’accertamento (solo cartelle).
  • Cass. SU 24823/2015 e succ.: contraddittorio non obbligatorio per imposte interne (salvo prove difesa mancate); obbligatorio per IVA con prova di resistenza. Novità: art.6-bis Statuto dal 2023/24 estende obbligo contraddittorio (avremo in futuro contenziosi interpretativi, ad es. D.Lgs. 13/2024).
  • Cass. SU 37/2015: avviso emesso ante 60gg da PVC senza urgenza è nullo per violazione art.12 c.7 Statuto (questo è un must da far valere se succede).
  • Corte Cost. 98/2014: mediazione tributaria obbligatoria originaria era incostituzionale; poi il legislatore l’ha resa non preclusiva. Oggi comunque l’hanno abolita (vedi infra).

Con questa rassegna sui vizi formali e procedurali, abbiamo completato la parte “difensiva” passiva, cioè individuare errori dell’atto su cui far leva. Il contribuente tuttavia non deve limitarsi a cercare vizi: deve anche decidere attivamente cosa fare in risposta all’avviso. Nel prossimo capitolo entriamo proprio nel vivo: quali sono le azioni possibili quando si riceve un avviso di accertamento e quali i pro e contro di ciascuna, dal punto di vista di una società di capitali che debba gestire la contestazione fiscale.

Cosa fare: opzioni per il contribuente (società debitrice)

Ricevuto l’avviso di accertamento, la società ha davanti a sé un ventaglio di possibili azioni. La scelta dipende dal merito della contestazione (si ritiene giusta o infondata in tutto o in parte), dalla situazione economico-finanziaria della società (è in grado di pagare subito? ha liquidità?), nonché dalla strategia che si intende adottare (conciliante o contenziosa). Di seguito analizziamo in dettaglio le principali opzioni a disposizione, che non si escludono necessariamente a vicenda – alcune possono essere tentate in sequenza – evidenziando per ciascuna i benefici e le condizioni:

1. Pagamento integrale con acquiescenza (definizione agevolata delle sanzioni)

L’acquiescenza all’accertamento consiste nell’accettare integralmente le pretese contenute nell’avviso e provvedere al pagamento di quanto dovuto entro 60 giorni dalla notifica, ottenendo in cambio una riduzione delle sanzioni amministrative irrogate. Questo istituto è disciplinato dall’art. 15 del D.Lgs. 218/1997. In pratica, se la società decide di non impugnare l’atto e salda tempestivamente le somme, ha diritto a pagare le sanzioni in misura ridotta ad 1/3 (un terzo) rispetto a quelle contestate. I benefici concreti sono:

  • Sanzioni ridotte al 66,67% del loro importo originario. Ad esempio, se l’avviso commina sanzioni per €30.000, con acquiescenza se ne pagano €20.000.
  • Nessuna spesa aggiuntiva di giudizio né interessi di mora successivi (si ferma il conteggio interessi alla data di pagamento).
  • Chiusura definitiva della pendenza fiscale per quell’anno e tributo: l’accertamento definito per acquiescenza non è impugnabile e non possono più essere emessi altri avvisi su quegli elementi (fatto salvo il caso di accertamento parziale che non preclude eventuali altri su elementi diversi, ma se definito, l’ufficio difficilmente riapre su quell’anno).
  • Immagine di collaborazione: ai fini del rating di affidabilità e rapporti futuri con il Fisco, aver definito potrebbe essere meglio di un contenzioso prolungato, ma questo è un aspetto secondario.

Per fruire dell’acquiescenza sono necessari alcuni requisiti:

  • Rinuncia espressa o implicita a proporre ricorso. In pratica, non presentare ricorso nei 60 giorni (l’atto deve passare in giudicato amministrativo).
  • Rinuncia a presentare istanza di accertamento con adesione (se uno chiede adesione, l’acquiescenza “pura” non è più applicabile perché ha attivato una trattativa).
  • Pagamento entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, di tutte le somme dovute tenendo conto delle riduzioni. Il pagamento può avvenire in un’unica soluzione oppure, se l’ammontare è elevato, è ammessa la rateazione: fino a 8 rate trimestrali se il dovuto supera €50.000 (o 16 rate se supera €100.000) – questo secondo i criteri generali di dilazione dell’accertamento (art. 8 D.Lgs. 218/97). Attenzione: per ottenere la riduzione delle sanzioni in caso di rateazione, occorre versare la prima rata entro i 60 giorni.
  • Formalizzazione della rinuncia al ricorso: di solito il pagamento stesso entro i termini vale come acquiescenza. L’Agenzia però richiede che si compili e presenti il modello di comunicazione di definizione (ma non è obbligatorio per legge, è un atto unilaterale del contribuente).

In sostanza, l’acquiescenza conviene quando la società riconosce la fondatezza dell’accertamento o comunque valuta che opporsi sarebbe inutile o più oneroso. Ad esempio, se l’errore è palese o le prove del Fisco schiaccianti, si può evitare il contenzioso e almeno risparmiare una parte delle sanzioni. Anche nel caso in cui la società voglia chiudere rapidamente la posizione fiscale (magari perché deve cedere l’azienda, liquidare, ecc.), definire l’accertamento può dare certezza.

Va detto che la riduzione a 1/3 è molto significativa: le sanzioni tributarie su maggiori imposte vanno minimo al 90% dell’imposta, quindi pagare 1/3 di 90% significa il 30% dell’imposta. È quasi come avere uno sconto del 60% sulla sanzione originaria. Se poi erano aggravate, il vantaggio è ancora maggiore. Durante eventuali contenziosi o conciliazioni giudiziali, raramente le sanzioni scendono così in basso (nelle conciliazioni sono al 50% in primo grado). Quindi l’acquiescenza è lo sconto sanzionatorio massimo previsto.

Esempio quantitativo: la nostra società Alfa S.r.l. dell’esempio precedente dovrebbe pagare €91.400 tra imposte (€46k) e sanzioni (€41.4k) + interessi (€4k). Con acquiescenza le sanzioni di €41.400 diventerebbero circa €27.600 (ossia un taglio di €13.800). Dovrebbe quindi versare circa €77.600 + interessi maturati (gli interessi non si riducono). Un bel risparmio sulle sole sanzioni (un terzo in meno).

Procedura pratica: l’avviso contiene già i bollettini/modelli per pagare con la riduzione (spesso c’è scritto “Se paghi entro 60gg senza fare ricorso: importo dovuto X”). Se non ci fossero, bisogna calcolare manualmente 2/3 delle sanzioni e sommarle al totale imposte + interessi. Conviene sempre contattare l’ufficio locale per una verifica degli importi prima di pagare, così da evitare errori (anche perché se uno paga un importo minore per sbaglio, perde la definizione agevolata e l’ufficio potrebbe iscrivere a ruolo i residui + sanzioni piene).

Ricordiamo: acquiescenza vale solo se tutto l’atto viene accettato. Non è possibile fare acquiescenza parziale (ad esempio pagando solo un rilievo e impugnandone un altro): l’ordinamento non lo prevede. In caso di atti con più annualità, tuttavia, si ritiene possibile definire annualità diverse separatamente se l’ufficio ha distinto il tutto per anno. Formalmente però, se le annualità sono nello stesso avviso, o si accetta tutto o nulla (ci sono state discussioni dottrinali su definizioni parziali, ma la prassi AdE non le consente).

2. Accertamento con adesione (definizione concordata con l’ufficio)

L’accertamento con adesione è uno strumento deflattivo che consente al contribuente e all’ufficio di raggiungere un accordo sul contenuto dell’accertamento, tramite un procedimento di contraddittorio volontario. Invece di subire passivamente l’atto o di andare in causa, la società può chiedere all’ente impositore di ridiscutere le risultanze, presentare elementi e cercare una mediazione. La disciplina si trova nel D.Lgs. 218/1997, articoli 5 e seguenti.

Come si attiva: dopo la notifica dell’avviso di accertamento (non preceduto da invito al contraddittorio), il contribuente ha 60 giorni per presentare istanza di accertamento con adesione all’ufficio competente. La presentazione dell’istanza sospende automaticamente il termine per ricorrere per 90 giorni (nei casi ordinari). Ciò significa che dai 60 giorni di ricorso, una volta inviata l’istanza, il countdown si ferma e si hanno ulteriori 90 giorni di “pausa” durante i quali svolgere la discussione. Se entro questi 90 giorni si raggiunge l’accordo, il ricorso non servirà; se non si raggiunge, il contribuente ha comunque 30 giorni dalla chiusura dei 90 per impugnare. Eccezione: con le novità 2024, se l’atto è di quelli con contraddittorio obbligatorio già svolto prima (ex art. 6-bis), e non si è aderito in quella fase, allora la successiva istanza di adesione va fatta entro 15 giorni dalla notifica e sospende il termine per ricorrere solo per 30 giorni. Quindi attenzione: ad esempio un avviso emesso nel 2025 su tributi armonizzati, a seguito di uno schema di atto ignorato, concederà solo 15 giorni per chiedere adesione e un breve tempo. Negli altri casi (ancora la maggior parte) restano i 90 giorni di sospensione.

Svolgimento: presentata l’istanza (una lettera in carta libera con i riferimenti dell’atto e la volontà di adesione), l’ufficio convoca il contribuente (di solito entro 15-30 giorni) per avviare il contraddittorio. Ci si presenta (di solito tramite il consulente/avvocato delegato) e si discute con i funzionari dell’Agenzia le posizioni contestate. La società può portare documenti, giustificazioni, spiegare errori, e l’ufficio può rivedere parzialmente la sua tesi. Se le parti trovano un’intesa su nuovi importi, viene redatto un atto di adesione con le nuove somme concordate (spesso un imponibile ridotto o una sanzione ridotta). La legge impone che le sanzioni, in caso di adesione, siano automaticamente ridotte ad 1/3 del minimo di legge. Questo spesso significa sanzioni ancora inferiori a quelle dell’atto originario e anche inferiori all’acquiescenza. Per esempio, se una certa violazione ha minimo 90%, 1/3 del 90% è 30% dell’imposta. Nell’avviso originario magari l’ufficio aveva applicato il 100% (pieno), con adesione scende al 30%. Oltre a ciò, l’ufficio può anche concordare su imponibili minori (es. si litiga su €100k di ricavi non dichiarati e si accorda che siano €60k).

Concretamente, i vantaggi dell’adesione:

  • Possibilità di ottenere una riduzione degli imponibili accertati o di ricondurre a giusto valore questioni tecniche. Es: riconoscimento di qualche costo in più, riduzione di ricavi presunti, ecc. L’ufficio ha margine per transigere perché l’alternativa è il contenzioso.
  • Sanzioni ridotte a un terzo del minimo previsto per legge. Questo è un trattamento di favore analogo a quello della conciliazione giudiziale.
  • Sospensione del termine di ricorso (quindi più tempo per valutare il da farsi, senza precipitare subito in giudizio).
  • Clima più disteso: è un confronto in sede amministrativa anziché in tribunale, spesso si può chiarire malintesi con prove documentali.
  • Rateazione: l’importo concordato può essere rateizzato come nell’acquiescenza (fino 8 rate trimestrali, o 16 se importo > €50.000).
  • Chiusura definitiva: l’atto di adesione sottoscritto preclude ogni contenzioso sull’oggetto (diventa titolo definitivo come una sentenza passata in giudicato).

Svantaggi o rischi:

  • Se non si trova l’accordo, i 90 giorni passano e ci si deve comunque preparare al ricorso (però nulla vieta di concludere anticipatamente il mancato accordo e ricorrere prima).
  • Durante la trattativa, sono sospesi i termini ma bisogna stare attenti a non sforare: se ad esempio l’ufficio non convoca mai o si arriva a 90 giorni senza accordo, occorre depositare ricorso nei 60 + 90 giorni totali. Non viene ulteriore avviso.
  • Nessuna possibilità di impugnare l’atto di adesione: una volta firmato, è vincolante. Quindi bisogna essere convinti di ciò che si firma.
  • L’ufficio potrebbe proporre riduzioni modeste. Se l’ufficio è convinto di avere un caso forte, magari cede poco sul merito (es: ricavi 100k, offrono di ridurre a 90k – poco vantaggioso). In quei casi uno può decidere di non aderire e tentare in giudizio, magari ottenendo annullamento totale.

Quando conviene l’adesione:

  • Quando ci sono elementi negoziabili. Ad esempio, contestazioni induttive dove la società può convincere l’ufficio a dimezzare la pretesa mostrando evidenze (meglio evitare l’alea processuale ad entrambi).
  • Quando la società preferisce evitare i costi di un contenzioso (spese legali, tempi lunghi) e può accettare un compromesso.
  • Se l’ufficio fa intendere di avere margine (es: a volte negli inviti al contraddittorio o informalmente il funzionario può dire “se venite in adesione potremmo ridurre le sanzioni e qualcosa sull’imponibile”).

Novità contraddittorio obbligatorio: come accennato, dal 2024 per molti avvisi ci sarà già una fase di pre-accertamento in cui l’ufficio manda uno schema e magari propone di aderire prima ancora dell’emissione formale. Se in quella fase la società ignora o non trova accordo, comunque dopo la notifica definitiva può ancora richiedere adesione, ma con i termini ridotti (15 giorni di tempo e 30 giorni sospensione). Quindi l’adesione “post avviso” rimane, ma il legislatore punta a spostare la definizione prima dell’atto definitivo. In ogni caso, per il 2025, gran parte degli accertamenti in arrivo riguarderanno annualità precedenti per cui quell’invito pre-avviso non c’è stato (norma non retroattiva), quindi la prassi rimane: ricevi l’avviso, chiedi adesione entro 60 gg, hai 90 gg di tempo.

Procedura conclusiva: se si raggiunge l’accordo, si firma un atto di adesione (sottoscritto dal contribuente e dal Capo Ufficio) in cui si riportano i nuovi importi di imponibile, imposta, sanzioni concordate. Entro 20 giorni dalla redazione dell’atto di adesione, il contribuente deve versare le somme dovute o la prima rata. Il mancato pagamento nei termini rende inefficace l’adesione (come se non fosse avvenuta, e l’ufficio riprende la somma piena con cartella). Quindi è cruciale pagare puntualmente.

Domanda comune: si può chiedere adesione anche prima di ricevere l’avviso? Sì, esiste la fase pre-contenziosa di invito all’adesione (l’ufficio può inviare un “invito” prima di fare l’avviso). Se si riceve quell’invito, è un’opportunità di chiudere l’accertamento con riduzione sanzioni a 1/6 (vantaggiosa!). Tuttavia, l’invito all’adesione è discrezionale dell’ufficio o ora obbligatorio per alcuni atti col 6-bis. Non approfondiamo oltre, perché la guida si concentra sull’avviso già notificato. Se arriva un invito prima, conviene aderire lì con sanzione 1/6 minimo.

In conclusione, l’accertamento con adesione è uno strumento che conviene valutare sempre, a meno che si voglia sicuramente fare ricorso. Anche solo per sfruttare i 90 giorni aggiuntivi, spesso la si chiede comunque (la cosiddetta “adesione in bianco” solo per guadagnare tempo di studio). Non ci sono controindicazioni nel provare la via dell’adesione: se va male, si ricorre comunque.

Di seguito, passiamo all’opzione successiva, ovvero il ricorso in sede giudiziaria, da utilizzare se non si è risolto prima o se si vuole contestare formalmente l’atto davanti al giudice tributario.

3. Ricorso al giudice tributario (Corte di giustizia tributaria di primo grado)

Se la società ritiene infondato in tutto o in parte l’accertamento e non accetta di pagare quanto richiesto, l’unica strada per evitare che l’atto diventi definitivo è presentare ricorso presso la competente Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (il nuovo nome, dal 2023, delle Commissioni Tributarie Provinciali).

Termine e forma: il ricorso va notificato all’ente che ha emesso l’avviso (di solito Direzione Provinciale AdE) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto – termine che, come detto, può essere esteso se c’è stata istanza di adesione (+90 gg) o se ricade nel periodo feriale (agosto sospende i termini dall’1 al 31). Il ricorso è un atto difensivo scritto da redigere con l’assistenza di un difensore abilitato (avvocato, commercialista, o esperto tributario iscritto, salvo cause sotto €3.000 dove la parte può stare da sé, ma per una società di capitali di solito gli importi superano tale soglia e comunque le società devono avere rappresentanza tecnica). Nel ricorso si espongono i motivi di fatto e di diritto per cui si chiede l’annullamento (totale o parziale) dell’avviso, e va indicata la prova delle avvenute notifiche (all’ente e all’organo giudiziario) e il rispetto di eventuali procedimenti come il reclamo/mediazione se ancora applicabile.

Mediazione tributaria: importante update: dal 2023 la mediazione tributaria è stata abolita per i nuovi ricorsi. In passato, per le controversie di valore fino a €50.000, era obbligatorio presentare un reclamo all’Agenzia e attendere 90 giorni prima che diventasse ricorso. Il D.Lgs. 156/2015 e DL 50/2017 l’avevano introdotta e modificata. Ora, con la riforma (D.Lgs. 130/2022 e D.Lgs. 220/2023), l’istituto del reclamo/mediazione è soppresso per i ricorsi notificati dal 2024 in avanti (con qualche complicazione transitoria fino a 1/9/2024). In sostanza, per un atto notificato nel 2025, non si deve più fare reclamo all’AdE: si ricorre direttamente in giudizio. Questo semplifica molto la procedura per le società (prima bisognava fare un atto di reclamo, aspettare la risposta AdE o i 90 giorni, etc.). Adesso è sufficiente depositare il ricorso in Commissione entro 30 giorni dalla notifica all’ente convenuto. Quindi attenzione: molte guide vecchie parlano di “mediazione obbligatoria se sotto 50k”; da quest’anno non è più cosi. Per scrupolo: se l’avviso è stato notificato prima di gennaio 2024, si segue ancora la vecchia regola; ma qui parliamo di avvisi aggiornati a giugno 2025, quindi presumibilmente ricade tutto nel nuovo regime di assenza di mediazione obbligatoria.

Effetti del ricorso: presentando ricorso, l’avviso di accertamento non viene automaticamente sospeso. In base alle norme sull’accertamento esecutivo, la società, pur avendo fatto ricorso, deve comunque versare un importo pari al 1/3 delle imposte accertate (oltre a interessi maturati su quel terzo) entro il termine di 60 giorni. Questo importo è detto anche importo provvisoriamente dovuto in caso di impugnazione. Se la società non lo versa, l’Agenzia Entrate Riscossione può comunque procedere alla riscossione coattiva di quel terzo, dopo la spedizione di una comunicazione di presa in carico (la famosa lettera di affidamento in carico di cui parlava la circolare). Tuttavia, è possibile chiedere al giudice tributario la sospensione dell’esecutività dell’atto (sospensione cautelare) per evitare di pagare il terzo in pendenza di giudizio – ne parleremo a breve in un punto dedicato.

Il ricorso avvia il processo tributario di primo grado. Esso è attualmente quasi del tutto telematico: gli atti si depositano via PEC/Piattaforma SIGIT, e le udienze possono essere in presenza o da remoto. La Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex CTP) esaminerà il caso e alla fine emetterà una sentenza che potrà:

  • annullare in toto l’avviso (se accoglie il ricorso),
  • annullarlo parzialmente (riducendo imponibili o sanzioni),
  • oppure rigettare il ricorso (confermando l’atto).

I tempi medi: dipende dalla regione, ma in primo grado si va da 6 mesi nei casi più veloci a 2-3 anni in quelli complessi.

La società ricorrente deve essere consapevole che:

  • In caso di esito sfavorevole in primo grado (ricorso respinto), dovrà pagare anche i 2/3 residui delle imposte entro 60 giorni dalla notifica della sentenza (la legge prevede che se perdi, devi pagare intanto il resto dell’imposta accertata, anche se fai appello).
  • In caso di esito favorevole parziale, l’obbligo di pagamento si ridetermina sul residuo importo confermato.
  • Si può poi fare appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR, entro 60 gg dalla notifica sentenza, con simili regole).
  • Alla fine, possibile ricorso in Cassazione per soli motivi di diritto ulteriori 60 gg.

Insomma il contenzioso può essere lungo (anche >5 anni per tre gradi).

Costi del ricorso: oltre all’eventuale importo provvisorio (quel 1/3) se non sospeso, la società deve sostenere:

  • Il compenso del difensore (che varia secondo tariffari e complessità).
  • Il contributo unificato per iscrivere a ruolo il ricorso: per valori di causa fino a 50k è €30, 50-200k è €60, 200-1.000k è €120, oltre 1 milione è €250 (questi importi potrebbero essere stati aggiornati dal 2022, ma sono nell’ordine di poche centinaia di euro al max). [Precisiamo: i valori esatti del contributo andrebbero controllati, ma di massima è qualche decina di euro tranne per cause molto grosse].
  • Eventuali perizie o CTU se si rendono necessarie (rare in primo grado, ma possibili in appello se ammessa la prova peritale).
  • Il rischio spese di giudizio: se si perde, il giudice può condannare la società a rifondere spese legali all’Agenzia. Di solito nei tributari, ogni parte sopporta le proprie spese o il soccombente viene condannato a importi forfettari non elevati, specie in cause minori. Comunque, un rischio c’è.

Sospensione giudiziale della riscossione: data la rilevanza, dedichiamo un paragrafo specifico all’istanza di sospensione nel prossimo punto.

In generale, fare ricorso conviene se:

  • Si ravvisano solidi motivi di diritto (es. vizi formali, interpretazioni di legge contestabili) o di fatto (prove che l’Agenzia ha torto, testimoni, documenti chiave). Se la società ha buone chance di vincere, allora il contenzioso è la via giusta.
  • L’importo in gioco è significativo e comprometterebbe l’attività se dovuto pagare. Spesso, ricorrere serve anche a guadagnare tempo: ad esempio, una società in crisi potrebbe usare il contenzioso per differire la riscossione nella speranza di risolvere.
  • Non si è trovato accordo in adesione e l’atto appare sbagliato almeno in parte.

Possibilità di esiti intermedi: durante la fase di giudizio, esiste anche la conciliazione giudiziale (art. 48 D.Lgs. 546/92). Questo consente alle parti di trovare un accordo in corso di causa, con ulteriori riduzioni sanzioni (in primo grado sanzioni ridotte al 40% del minimo, in appello al 50%). La conciliazione può essere proposta da una delle parti o dal giudice. Ad esempio, la società può ancora negoziare con l’ufficio dopo aver presentato ricorso; se trovano un accordo, lo formalizzano e la controversia si chiude. La conciliazione è in sostanza simile all’adesione come risultato (importi concordati e sanzioni ridotte), ma avviene sotto l’egida del giudice. Con la riforma, la conciliazione verrà incentivata come strumento principale di deflazione (anche perché la mediazione è stata tolta). Quindi, anche se si litiga, c’è sempre margine fino alla decisione per patteggiare su un importo di compromesso.

In conclusione, il ricorso al giudice è l’arma principale di difesa se si contesta l’accertamento. Deve però essere preparato con cura, supportato da memorie, documenti e giurisprudenza a favore. La società farebbe bene a farsi assistere da un avvocato tributarista o da un commercialista esperto in contenzioso. Vista la complessità delle norme e l’evoluzione giurisprudenziale, il fai-da-te è sconsigliato, anche perché – ribadiamo – le società comunque non possono stare in giudizio senza difensore (solo le persone fisiche entro 3mila euro potrebbero, e pure lì non conviene).

Passiamo adesso ad analizzare alcuni aspetti specifici correlati al ricorso, come la sospensione della riscossione e la rateizzazione, e successivamente altri strumenti come l’autotutela.

4. Sospensione della riscossione (tutela cautelare)

Come accennato, la presentazione del ricorso non blocca automaticamente la riscossione delle somme pretese con l’accertamento. Ci sono però strumenti per evitare o posticipare il pagamento in attesa della sentenza:

  • Sospensione amministrativa interna: la società può presentare un’istanza all’Agenzia delle Entrate (all’ufficio che ha emesso l’atto) chiedendo la sospensione della riscossione, motivando con ragioni di fondatezza del ricorso e di grave danno che subirebbe pagando. Questa istanza di solito viene rigettata o nemmeno riscontrata dall’ufficio (che difficilmente autosospende il proprio atto, a meno di errori palesi). Però è prevista dall’art. 39 D.Lgs. 112/1999 e qualcuno la tenta. Non è molto efficace.
  • Sospensione giudiziale (cautelare): è il mezzo principale. Ai sensi dell’art. 47 D.Lgs. 546/92, il contribuente può chiedere alla Corte di Giustizia Tributaria adita di sospendere in via provvisoria l’esecutività dell’accertamento, quando dall’atto può derivargli un danno grave e irreparabile e sussistono fondati motivi di ricorso. In pratica occorre presentare, insieme al ricorso (o anche dopo, entro certi limiti), un’istanza motivata di sospensione indicando:
    • il periculum in mora: cioè il pregiudizio grave che avrebbe il contribuente se dovesse pagare subito. Per una società può essere la compromissione della liquidità, rischio fallimento, necessità di licenziare dipendenti, ecc. Si possono allegare bilanci per dimostrare che esborso immediato creerebbe grave crisi.
    • il fumus boni iuris: cioè la plausibilità del ricorso, l’esistenza di motivi validi. Non serve dimostrare di vincere al 100%, ma far vedere che le censure non sono pretestuose. Ad esempio citare la giurisprudenza favorevole, evidenziare errori macroscopici dell’atto.
    Il giudice tributario, spesso in composizione monocratica (il presidente), fissa un’udienza in tempi brevi (entro 30-45 giorni) e decide con ordinanza. Se la sospensione è accolta, l’atto viene congelato fino alla sentenza di primo grado (o per un termine massimo di 180 giorni dopo la sentenza se l’Agenzia non notifica la cartella prima, ma dettagli tecnici). Questo significa che la società non deve pagare nel frattempo e l’Agente della riscossione non può procedere ad azioni esecutive. Se invece la sospensione è negata, la società deve pagare il 1/3 subito (per evitare aggravi) e potrà eventualmente ripetere le somme se vincerà poi. Nei fatti, i giudici tributari concedono la sospensione quando rilevano effettivamente sia il rischio di danno grave sia almeno un motivo serio di annullamento. Ad esempio, se c’è un evidente vizio procedurale o un doppio pagamento che si configurerebbe. La percentuale di accoglimento è discreta, specialmente per importi alti dove è credibile il danno finanziario.

NB: La sospensione riguarda tipicamente tutto l’atto, quindi anche l’obbligo del 1/3. Finché c’è sospensione, la società non deve versare e l’ente non può riscuotere.

Sospensione in appello: se in primo grado il ricorso viene respinto e si fa appello, si può chiedere sospensione dell’esecutività della sentenza (art. 52 D.Lgs.546/92) per non pagare i 2/3 residui. Criteri simili: periculum + fumus in appello.

Misure cautelari del Fisco: la sospensione giudiziale non copre le misure cautelari che l’AER può comunque adottare come l’iscrizione di ipoteca o il fermo amministrativo di beni mobili (auto) prima dell’esecuzione. Infatti la legge di esecutorietà prevede che la sospensione legale di 180 giorni non si applica alle azioni cautelari. Ciò significa che se la somma supera €20.000 di debito, l’Agenzia Riscossione può iscrivere ipoteca su immobili della società anche senza aspettare. Idem per fermo su veicoli oltre €1.000 di debito. La sospensiva giudiziale non menziona espressamente questi atti: in teoria sospende l’atto e quindi il credito non è esigibile, ma la prassi ha visto casi di ipoteche nonostante sospensive. In tali frangenti, se succede, bisogna ricorrere contro l’ipoteca stessa sostenendo che l’atto principale era sospeso (di solito AER rispetta le sospensive, ma meglio saperlo).

In conclusione, chiedere la sospensione al giudice è fortemente consigliato se l’importo è rilevante e la società non può permettersi di versare subito. Spesso i difensori presentano l’istanza contestualmente al ricorso, proprio per congelare la situazione ed evitare esborsi.

5. Rateizzazione del debito tributario

Nel caso in cui, a qualsiasi stadio, la società decida o sia obbligata a pagare, ma abbia difficoltà a farlo in un’unica soluzione, la normativa offre la possibilità di rateizzare il debito derivante da avvisi di accertamento. Ci sono più situazioni in cui si può richiedere la dilazione:

  • Rateazione in sede di acquiescenza o adesione: come accennato, l’art. 8 D.Lgs. 218/97 consente, per importi elevati, di ripartire il pagamento:
    • fino a 8 rate trimestrali se l’importo dovuto supera €50.000;
    • fino a 16 rate trimestrali se supera €100.000.
      Le rate sono trimestrali, con interesse al tasso legale (attualmente in aumento per via inflazione, nel 2023 era 5% annuo, ora 2024 circa 5%). Questa dilazione va concordata al momento di formalizzare l’adesione o decidere l’acquiescenza. La prima rata va pagata entro 20 giorni (adesione) o 60 giorni (acquiescenza) dal perfezionamento, le successive ogni 3 mesi. Se si salta una rata (dopo 5 giorni di tolleranza), l’accordo decade e tutto il debito residuo diventa subito esigibile con sanzione piena. Quindi estrema attenzione a rispettare il piano.
  • Rateazione delle somme iscritte a ruolo: se il contribuente non ha definito prima e l’avviso è diventato definitivo (dopo sentenza o mancato ricorso), l’Agente della Riscossione (ex Equitalia, ora Agenzia Entrate Riscossione) prende in carico le somme e notifica una cartella o un avviso di intimazione. A quel punto, la società può chiedere a AER una dilazione secondo le regole della riscossione coattiva (art.19 DPR 602/73). Attualmente:
    • Debiti fino a €120.000: concessione automatica fino 72 rate mensili (6 anni) su semplice istanza.
    • Debiti oltre €120.000: concessione subordinata a dimostrazione di difficoltà finanziaria (indice di liquidità). Possono dare fino 72 rate o in casi eccezionali 120 rate (10 anni).
      Il tasso di interesse di dilazione con AER è diverso (intorno al 3-4% annuo, varia).
      Questa rateazione post-cartella è utile se la società non ha impugnato l’atto o ha perso causa e vuole evitare esecuzioni.
  • Rateazione provvisoria del “1/3”: un tema controverso è se il contribuente può rateizzare il terzo dovuto provvisoriamente in pendenza di giudizio. Formalmente no, quel terzo andrebbe pagato entro 60 giorni senza dilazione. Alcuni interpretano che quell’importo, essendo “intimato” nell’avviso esecutivo, può essere rateizzato se si fanno 1/3 come adesione (ma l’adesione ormai no se in contenzioso). Più pratico: se non paga, AER può emettere una cartella per il terzo e a quel punto uno chiede dilazione su cartella. In sostanza, c’è uno sfasamento temporale: per evitare la mora, meglio pagare il terzo o ottenere la sospensione; se proprio non si può, si aspetta la cartella e la si dilaziona (con un certo aggravio).
  • Interazione con procedure concorsuali: se la società è in procedure di crisi (es. concordato preventivo, ristrutturazione), le imposte accertate di solito vanno dentro il piano di risanamento e possono subire falcidie o dilazioni come da piano concordatario. Ma questo è un contesto specialistico oltre lo scopo qui. Lo menzioniamo solo: se la società è insolvente, l’avviso di accertamento è un credito verso di essa come un altro, e potrà essere oggetto di transazione fiscale nell’ambito della crisi d’impresa.

In conclusione sulla rateazione: il punto di vista del debitore è di sfruttarla quando necessario, ma facendo attenzione:

  • Se si è chiuso con adesione/acquiescenza, rispettare quelle scadenze a tutti i costi.
  • Se si è in contenzioso, magari cercare di ottenere sospensione per guadagnare tempo e, se poi va male, chiedere dilazione con AER.
  • Pianificare i flussi di cassa: a volte la rateazione dà ossigeno, ma se la situazione è disperata può essere solo rimandare il problema (es. 8 rate in due anni possono comunque essere importi mensili sostanziosi per la società).

6. Autotutela amministrativa

L’autotutela è il potere dell’Amministrazione finanziaria di annullare o rettificare i propri atti d’ufficio, quando riconosce che sono illegittimi o infondati. Dal lato contribuente, significa che si può presentare una istanza di autotutela all’ente impositore chiedendo l’annullamento (totale o parziale) dell’avviso di accertamento, magari segnalando errori evidenti o documenti risolutivi emersi dopo.

Esempi di casi in cui ha senso invocare l’autotutela:

  • Errore di persona: l’avviso è stato emesso a soggetto sbagliato.
  • Errore di calcolo macroscopico: sbaglio aritmetico nell’imposta dovuta.
  • Doppia imposizione palese: stesso reddito tassato due volte per errore.
  • Documenti non considerati: il contribuente scopre di avere un documento risolutivo che era sconosciuto all’ufficio (es. quietanza di pagamento di un’imposta già versata).
  • Giurisprudenza sopravvenuta: ad esempio, dopo l’emissione dell’avviso la Corte Costituzionale dichiara illegittima la norma applicata. L’ufficio, preso atto, dovrebbe annullare quell’atto in autotutela.

In pratica, l’istanza di autotutela è una lettera in cui si espongono i motivi e si chiede l’annullamento/sgravio. Va rivolta allo stesso ufficio emittente (e per conoscenza al suo organo superiore, es. Direzione Regionale, se si vuole).

Caratteristiche importanti:

  • L’autotutela è una facoltà dell’amministrazione, non un obbligo verso il contribuente. Ciò significa che il contribuente non ha diritto a una risposta né può ricorrere se l’ufficio rifiuta o tace. Non esiste un vero ricorso avverso il diniego di autotutela (salvo casi di rifiuti su errori materiali, in cui qualcuno ha tentato vie particolari come ricorso gerarchico).
  • Presentare istanza di autotutela non sospende i termini di ricorso né la riscossione. Il contribuente deve comunque rispettare i 60 giorni per ricorrere se l’atto è sbagliato, altrimenti poi non potrà più far valere nulla se l’ufficio ignora la sua istanza. È quindi essenziale non cadere nel tranello: a volte i contribuenti confidano nell’autotutela e lasciano decorrere i termini di ricorso, ma se l’ufficio poi non annulla, l’avviso diventa definitivo e non c’è più nulla da fare. Bisogna dunque, se si è vicini alla scadenza, presentare ricorso comunque, magari segnalando al giudice che è stata chiesta autotutela (qualora l’ufficio, in corso di causa, annulli, il giudizio verrà estinto per cessata materia del contendere).
  • L’autotutela può essere esercitata anche posteriore ai termini di ricorso, perfino su atti divenuti definitivi, se l’amministrazione lo ritiene opportuno (ad esempio, anni dopo scopre un errore grave a danno del contribuente e cancella il debito). Però per il contribuente, non avendo mezzi per imporla, resta un gesto unilaterale di “clemenza” fiscale.

In base alla nostra esperienza, l’autotutela su avvisi di accertamento viene accolta solo in casi lampanti di errore. L’ufficio tende a non smentire il proprio operato se non ha evidenza di uno sbaglio. Se si tratta di valutazioni discrezionali (tipo “secondo me quell’importo non era ricavo”), difficilmente annulleranno in autotutela: dicono “lo deciderà il giudice”. Invece su un diritto evidente (ad es. l’atto è stato emesso oltre i termini per un travisamento di date), a volte preferiscono annullare in autotutela, anche per non dover poi soccombere in giudizio con condanna spese.

Quindi conviene fare istanza di autotutela quando c’è:

  • Un appiglio chiaro normativo o fattuale,
  • E magari anche poco tempo per il ricorso (tentare non nuoce, in parallelo al ricorso comunque).

Se l’ufficio accoglie, emanerà un provvedimento di annullamento dell’avviso (o sgravio se intanto era andato a ruolo) e la questione si chiude senza costi. Questo è il best case scenario.

Esempio reale: l’Agenzia delle Entrate emette avviso per tardività di opzione fiscale, ma poi esce una circolare che ammette l’opzione; l’azienda fa istanza di autotutela citando la circolare nuova, l’ufficio prende atto e annulla l’accertamento.

Va segnalato che esiste una circolare, la n. 198/E del 1998 e succ. integrazioni, che incoraggia gli uffici a fare autotutela quando i ricorsi sono palesemente fondati, anche se in giudizio. Spesso durante il contenzioso, se il contribuente deposita prove inoppugnabili e magari il giudice sollecita, l’ufficio può procedere con autotutela parziale per ridurre il contendere.

In sostanza, l’autotutela è uno strumento di buon senso amministrativo. Per il contribuente, farne istanza è sempre possibile, anche se a volte purtroppo inefficace.

7. Transazione fiscale e casi di società in crisi

Uno scenario particolare, per completezza, riguarda la situazione in cui la società destinataria dell’avviso versi in gravi difficoltà finanziarie o si trovi in una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo, ecc.). In questi casi:

  • Se la società è in fallimento o liquidazione giudiziale: gli accertamenti pendenti devono essere portati a passivo nella procedura. L’Agenzia delle Entrate parteciperà come creditore insinuando il credito tributario accertato. Il curatore può contestare il credito davanti al giudice fallimentare se lo ritiene errato, oppure proseguire i giudizi tributari con autorizzazione. Spesso i processi tributari si sospendono in attesa di definire il passivo. La regola generale è che le sanzioni tributarie non sono ammesse al passivo in caso di fallimento (poiché hanno natura afflittiva personale della società ormai estinta). Quindi in fallimento l’avviso porta a un credito per imposte ed interessi, ma le sanzioni no.
  • Se la società propone un concordato preventivo o accordo di ristrutturazione: può includere nella proposta una transazione fiscale (art. 182-ter L.Fall. o art. 63 Codice Crisi 2019) offrendo il pagamento parziale delle imposte e contributi. L’AdE valuta e, se il concordato viene omologato, l’accertamento si chiude secondo quanto concordato (di solito taglio sanzioni e interessi, a volte anche imposte se chirografarie in certe condizioni). Questo è un mondo a parte, ma la morale per l’imprenditore è: se la società non è in grado di pagare i debiti fiscali, esistono procedure concorsuali per gestirli, e l’accertamento diventa elemento di quelle trattative. Non bisogna aspettare che l’Agente faccia fallire la società forzosamente: si può prendere l’iniziativa con una composizione negoziata o un concordato.
  • Soci e liquidatori responsabili: se la società va in liquidazione e non paga gli accertamenti, come abbiamo visto, ci sono norme (art. 36 DPR 602/73) che chiamano in causa i liquidatori e amministratori qualora abbiano pagato altri debiti preferendo quelli a quelli tributari, e i soci per l’attivo distribuito negli ultimi 2 anni. Dunque dal punto di vista del debitore, se la società è insolvente e pensa di chiudere, deve tener conto che l’avviso di accertamento potrebbe poi essere azionato verso di loro in certi limiti. Questo implica che spesso i soci preferiscono definire la posizione tributaria nella chiusura (per non trovarsi poi rincorsi personalmente).

Questo è un aspetto “avanzato” e infatti richiesto per livello avvocati, quindi l’abbiamo sintetizzato, ma non tocca tutte le situazioni comuni.


Abbiamo dunque analizzato tutte le principali strade: pagare con sconto (acquiescenza), negoziare (adesione), litigare (ricorso, sospensiva, conciliazione), chiedere clemenza (autotutela), e come diluire l’impatto (rateazione, transazione se crisi).

Nel prossimo capitolo, affronteremo alcune situazioni particolari legate alle società – in primis la questione delle società in liquidazione o estinte e la responsabilità di soci e amministratori di cui abbiamo accennato – e forniremo esempi pratici e tabelle riepilogative che aiutino a orientarsi.

Società in liquidazione o estinte: debiti tributari e responsabilità

Una circostanza frequente è quella in cui l’avviso di accertamento viene notificato quando la società di capitali è già stata posta in liquidazione o addirittura cancellata dal Registro delle Imprese. Questi scenari pongono questioni particolari su chi debba farvi fronte e su chi possa essere chiamato a pagare in caso di incapienza della società.

Avviso di accertamento a società in liquidazione

Quando una società è in liquidazione (cioè ha cessato l’attività e sta liquidando l’attivo per pagare i creditori e poi estinguersi), rimane comunque soggetto giuridico fino alla cancellazione finale. L’avviso di accertamento può essere notificato regolarmente alla società in liquidazione (presso la sede sociale o al liquidatore). Il liquidatore ha il dovere di gestire anche queste pretese fiscali nell’ambito della liquidazione:

  • Se ritiene l’accertamento corretto, dovrà includere l’Agenzia Entrate tra i creditori da pagare con le risorse disponibili, prima di distribuire ai soci.
  • Se ritiene l’accertamento infondato, può impugnarlo a nome della società (ha i poteri dell’amministratore durante la liquidazione).
  • Se le somme accertate sono ingenti e superano la liquidità, il liquidatore potrebbe dover sospendere le distribuzioni o persino richiedere un procedimento concorsuale (es. liquidazione giudiziale) se i debiti eccedono l’attivo.

Responsabilità del liquidatore: l’art. 36 DPR 602/1973, come modificato nel 2014, prevede che i liquidatori di società di capitali rispondono personalmente dei debiti tributari della società qualora non abbiano soddisfatto i crediti fiscali prima di pagare altri creditori di rango inferiore o di distribuire attivo ai soci. In sostanza:

  • Il liquidatore deve usare le attività della liquidazione per pagare prima i debiti erariali rispetto a debiti chirografari e soprattutto prima di restituire qualcosa ai soci.
  • Se non lo fa (cioè paga altri lasciando impagato il Fisco, pur avendo attivo sufficiente per soddisfarlo in parte), diventa personalmente responsabile del pagamento delle imposte fino a concorrenza di quanto avrebbe dovuto pagare con quelle risorse.
  • La norma precisa che la responsabilità è commisurata all’importo di crediti tributari che avrebbero trovato capienza se il liquidatore avesse rispettato l’ordine delle prelazioni. Quindi, se il liquidatore paga prima fornitori e finisce i soldi, e lascia le imposte a zero, l’Agenzia può chiedere a lui fino all’ammontare delle imposte che sarebbero state pagabili se il Fisco fosse stato considerato.
  • Se il liquidatore invece dimostra di aver utilizzato tutto l’attivo per pagare creditori preferiti (ad esempio ipotecari, dipendenti, etc.) e che per le imposte non residuava nulla, allora non è responsabile (non poteva pagarle comunque).
  • Questa responsabilità si estende anche agli amministratori che erano in carica prima della liquidazione, se non è stato nominato un liquidatore (o se l’hanno nominato tardivamente per sottrarsi a ciò), così come ai soci che hanno ricevuto beni in violazione delle regole.

Pertanto, un liquidatore che riceve un avviso di accertamento deve fare estrema attenzione: se chiude la liquidazione ignorandolo, potrebbe trovarselo personalmente.

Società estinte (cancellate) e accertamenti entro 5 anni

Se la società è cancellata dal Registro Imprese, in base all’art. 2495 c.c. essa perde la soggettività giuridica e i rapporti pendenti si trasferiscono ai soci (per le società di capitali, limitatamente a quanto riscosso in sede di liquidazione). Tradizionalmente, ciò creava un problema: un soggetto estinto non può essere destinatario di atti, e gli avvisi notificati dopo l’estinzione erano considerati nulli.

Il legislatore, per tutelare l’Erario, è intervenuto con il D.Lgs. 175/2014 (art. 28, co.4) stabilendo che, ai soli fini fiscali e contributivi, l’estinzione della società ha efficacia trascorsi 5 anni dalla cancellazione. Questa sorta di fictio juris significa:

  • La società, benché formalmente estinta, viene considerata ancora esistente per 5 anni, limitatamente alla possibilità di notificarle avvisi di accertamento, atti di contestazione sanzioni, cartelle e altri atti impositivi.
  • Entro quei 5 anni, l’Agenzia può quindi emettere avvisi a nome della società (tipicamente indirizzati “Società X Srl, già in liquidazione, c/o indirizzo del liquidatore”) e poi escutere i soci/liquidatori responsabili.
  • Trascorsi 5 anni dalla cancellazione, nessun nuovo accertamento può più essere notificato né alla società (che non esiste più ai fini fiscali) né direttamente ai soci se riguarda debiti della società non già accertati entro quel termine. I soci restano però responsabili per eventuali ruoli già notificati a loro durante il quinquennio.

In pratica:

  • Se la società è cancellata da meno di 5 anni, l’Agenzia spedisce l’avviso magari al vecchio indirizzo sociale o all’indirizzo del liquidatore. Formalmente l’atto è intestato alla società (per rispettare l’obbligo di notifica entro 5 anni) ma sostanzialmente finisce per essere a carico di soci e liquidatori.
  • I soci/liquidatori possono impugnare quell’avviso anche a proprio nome, contestando ad esempio la pretesa. La giurisprudenza ha chiarito che il socio destinatario di pretese conseguenti all’accertamento può far valere in giudizio le eccezioni contro l’atto impositivo originario (Cass. SU 6070/2013 lo affrontò).
  • Responsabilità dei soci: l’art. 36 DPR 602/73, comma 3, stabilisce che i soci di società cancellata che hanno ricevuto somme in corso di liquidazione o nei 2 anni precedenti la liquidazione, sono responsabili verso il Fisco fino a concorrenza del valore di quanto ricevuto (salvo ovviamente maggior responsabilità se erano illimitatamente responsabili, ma nelle società di capitali i soci di regola non lo sono oltre a questo). Dunque il Fisco può chiedere ai soci di restituire i dividendi o rimborsi ricevuti se servono a pagare imposte rimaste.
  • Per i amministratori (che non siano soci), vige come detto una responsabilità simile al liquidatore se non hanno provveduto, ma nel caso di estinzione, l’amministratore di solito coincide con il liquidatore nell’ultima fase.

Caso pratico: Alfa Srl si cancella nel 2023 distribuendo ai soci residuo attivo €50.000 ciascuno. Nel 2025 spunta un accertamento per anni passati con imposte €80.000. L’Agenzia notifica entro il 2028 (5 anni) l’avviso alla ex Alfa Srl (presso liquidatore). I due soci, avendo avuto €50k ciascuno, rispondono fino a quell’importo. Il liquidatore, se ha pagato altri e lasciato scoperte imposte che poteva pagare, può rispondere in proprio per l’eventuale differenza.

Tutela per i soci: i soci potrebbero eccepire, in ricorso, che l’avviso notificato a società estinta è nullo. Tuttavia, dopo la norma del 2014, questa eccezione non trova accoglimento se l’avviso è entro 5 anni. Cassazione ha avuto alterne posizioni in passato, ma attualmente la prevalente è che la fictio 5 anni consente validità dell’atto, e il socio deve impugnarlo nei meriti. C’è giurisprudenza (Cass. 7676/2016) che addirittura dice: se l’atto è notificato solo alla società estinta ma non ai soci, i soci possono impugnarlo comunque per far valere che non ne hanno responsabilità. In genere la raccomandazione è: se la società chiude, conservare fondi per possibili imposte per 5 anni oppure fare un passaggio col Fisco (es. richiesta liberatoria, non esiste formalmente, ma si può fare una due diligence fiscale prima di chiudere).

Quindi, dal punto di vista del debitore-socio: non pensare che la cancellazione della società faccia sparire i debiti col Fisco. Per 5 anni si è in una sorta di limbo in cui il Fisco può rifarsi sugli ex soci e organi. Passato il quinquennio, se l’Agenzia non ha notificato nulla, allora sì che quei tributi non potranno più emergere (salvo casi di reato? ma no, la norma fissa 5 anni netti).

Tabelle di sintesi sulle responsabilità post-estinzione

SoggettoResponsabilità per debiti tributari società estinta
LiquidatoreSe ha violato l’obbligo di pagare i tributi con le attività della liquidazione, risponde personalmente del pagamento dei tributi non versati, nei limiti delle somme distratte verso altri crediti inferiori o soci. Se ha correttamente pagato i crediti prioritari e non c’era capienza per il Fisco, non è responsabile.
Amministratore (in assenza di liquidatore)Equiparato al liquidatore ai fini fiscali (art.36 DPR 602/73): se la società si estingue senza liquidazione formale, gli amministratori finali possono rispondere come sopra.
SociRispondono dei debiti tributari nei limiti di quanto ricevuto in distribuzione negli ultimi 2 esercizi prima della messa in liquidazione e durante la liquidazione. Ciò include utili, rimborsi capitale, ecc. Oltre tale importo, il socio non è tenuto (salvo abbia garanzie prestate o sia socio illimitatamente responsabile in società di persone).
TempisticaL’avviso di accertamento va notificato (fittiziamente) alla società entro 5 anni dalla cancellazione. Entro lo stesso termine il Fisco di norma attiva la riscossione verso soci/liquidatori. Scaduti i 5 anni, i debiti non accertati non possono più essere fatti valere verso soci (decadenza speciale).

In base alla normativa e alle sentenze citate, appare evidente che la cancellazione della società non è una via per sottrarsi ai debiti tributari. I responsabili (soci e liquidatori) diventano in parte i successori obbligati. Un consiglio: se possibile, gestire eventuali accertamenti prima di chiudere la società, ad esempio concordando un’adesione e pagando col patrimonio sociale, così i soci prelevano solo ciò che resta netto.

Se un accertamento arriva dopo la chiusura, i soci farebbero bene a affrontarlo (magari anche con una definizione agevolata) prima che generi ruoli e aggravio di interessi.

Con ciò abbiamo coperto il tema delle società estinte e correlate responsabilità – argomento avanzato e di taglio specialistico, ma importante per avvocati e consulenti che assistono imprese in cessazione.

Domande frequenti (FAQ) sul tema

Passiamo ora a una sezione Domande e Risposte per chiarire i dubbi più comuni in materia di avviso di accertamento a società di capitali, dal punto di vista pratico del contribuente/debitore.

D: Cosa succede se ignoro un avviso di accertamento e non faccio nulla entro 60 giorni?
R: L’avviso diventa definitivo. Trascorso il termine per ricorrere, l’atto acquista efficacia di titolo esecutivo. L’Agenzia delle Entrate affiderà il debito a Agenzia Entrate Riscossione che, dopo averti inviato una comunicazione di presa in carico, potrà attivare la riscossione coattiva. Ciò significa che potresti ricevere una cartella di pagamento (in realtà l’avviso stesso vale come cartella, quindi spesso arriva direttamente un intimazione) e successivamente, se non paghi, subire azioni come il fermo amministrativo su automezzi, l’iscrizione di ipoteca su immobili aziendali o personali (se sei garante), il pignoramento di conti correnti, ecc. Inoltre, perderesti il beneficio della riduzione delle sanzioni: passato il termine di 60 giorni, le sanzioni restano quelle intere contestate (salvo eventuali definizioni agevolate straordinarie previste da leggi di bilancio). In sintesi, ignorare non è mai una buona strategia: se non vuoi o non puoi ricorrere, almeno valuta l’acquiescenza per ridurre le sanzioni.

D: La mia società non ha liquidità sufficiente per pagare l’accertamento. Posso chiedere più tempo o una dilazione all’Agenzia prima che scadano i 60 giorni?
R: All’interno dei 60 giorni dall’avviso, l’Agenzia Entrate non concede piani di dilazione formali (non esiste una rateazione “amministrativa” prima del ruolo, a parte quella prevista in sede di adesione/acquiescenza di cui abbiamo parlato). Se vuoi evitare che scada il termine, due strade:

  1. Chiedi accertamento con adesione: ciò ti dà 90 giorni in più e, se si trova accordo, possibilità di rateizzare in 8 o 16 trimestri.
  2. Se non vuoi o non puoi aderire, puoi far decorrere i 60 giorni senza pagare e poi rateizzare con l’Agente della Riscossione dopo che il debito va a ruolo (come spiegato, fino 72 rate mensili). Però attenzione: in quel caso perdi la riduzione sanzioni e pagherai un po’ di interessi di mora nel frattempo. Sarebbe meglio prevenire definendo entro i 60 gg. In situazioni particolari (somme piccole) l’Agenzia può attendere a inviare al ruolo per qualche mese, ma non c’è garanzia. Quindi, se la cassa è un problema, l’opzione adesione e rateazione è la migliore entro i 60 gg.

D: La società vuole fare ricorso. Deve comunque versare 1/3 delle imposte accertate?
R: Sì, la normativa sull’“accertamento esecutivo” prevede che, se fai ricorso, devi versare a titolo provvisorio un importo pari al 1/3 delle imposte contestate (non delle sanzioni) entro il termine di impugnazione. Le sanzioni e interessi restano sospesi fino a esito. Se ometti di pagare il terzo, l’Agenzia Riscossione potrà iniziare a fartelo riscuotere forzosamente (anche senza aspettare la sentenza). Tuttavia, puoi presentare istanza di sospensione alla Corte tributaria: se il giudice concede la sospensiva, non dovrai pagare il terzo finché pende il giudizio. In pratica molti ricorrenti richiedono la sospensione proprio per non pagare quel terzo. Se la sospensione è negata, conviene pagarlo per evitare aggravi. Nota: il 1/3 si calcola sulle imposte al netto di interessi e sanzioni. Esempio: se l’avviso chiede €30k imposte + €15k sanzioni, il terzo è €10k (più i soli interessi maturati su quei 10k). Se poi vincerai il ricorso, quell’importo ti verrà restituito con interessi.

D: La notifica dell’avviso via PEC è arrivata a una casella PEC che la società non usa più o non ha letto: posso contestarla?
R: Di norma no. Se la PEC era quella risultante dal Registro delle Imprese, la notifica si intende perfezionata con la ricevuta di consegna del messaggio PEC. Non importa se la casella non viene monitorata o è scaduta (in teoria non dovrebbe scadere perché l’indirizzo PEC rimane attivo finché iscritta). L’unico appiglio è verificare se il mittente PEC dell’Agenzia era un indirizzo certificato valido: tempo fa c’erano contenziosi su notifiche via PEC da caselle non iscritte nei registri pubblici (per le cartelle, Cass. 589/2020 ha annullato un atto di riscossione notificato da PEC non autorizzata). Ma oggi l’Agenzia usa PEC ufficiali. Quindi l’impossibilità di leggere non è scusante: la società deve tenere aggiornata la PEC. Se davvero l’indirizzo PEC non esisteva più (es. società cancellata e PEC rimossa), l’Agenzia avrebbe dovuto procedere con notifica secondaria (raccomandata/digitale su portale InIPEC). In quei rari casi c’è margine di contestare la notifica se non eseguita col metodo alternativo. Ma se la PEC era attiva e ricevente, la notifica è valida.

D: Posso impugnare un avviso di accertamento solo per far ridurre le sanzioni?
R: No, non direttamente. Il giudice tributario può in teoria ridurre le sanzioni se accoglie parzialmente il ricorso sul merito (es. annulla un rilievo, le sanzioni connesse cadono, o può riconoscere circostanze attenuanti se dedotte). Ma non esiste un ricorso solo sulla quantificazione della sanzione se il tributo è dovuto: le sanzioni irrogate in misura legale non sono riducibili discrezionalmente dal giudice (salvo rientrare nei min-max e c’era errore di calcolo). Se la tua unica lamentela è “la sanzione è troppo alta anche se ho sbagliato”, difficilmente avrai soddisfazione dal giudice, perché applica la legge (90% imposta evasa è legale). Invece in sede di conciliazione o adesione si può ottenere riduzione sanzione come parte dell’accordo. Quindi, se l’intento è solo mitigare la sanzione, meglio definire in via amministrativa (acquiescenza: sanzioni 2/3; adesione: sanzioni 1/3 del minimo; conciliazione: 40-50%). Il giudice al massimo può togliere sanzioni per obiettiva incertezza normativa o non punibilità, ma sono situazioni particolari (es. uno spiraglio è l’art. 6, co.2, D.Lgs.472/97: niente sanzioni se errore scusabile per incertezza su norma). Da far valere se applicabile.

D: La società ha un credito d’imposta verso l’Erario; può compensarlo con le somme richieste nell’avviso?
R: Fino a qualche anno fa, quando l’accertamento veniva iscritto a ruolo, era vietato compensare in F24 debiti da accertamento con crediti (bisognava pagarli e poi chiedere rimborso separato dei crediti). Con l’accertamento esecutivo attuale, in teoria le somme vanno versate secondo intimazione. Tuttavia, è ammessa la compensazione in F24 delle somme dovute a seguito di istituti definitori (adesione, acquiescenza, conciliazione) con crediti tributari disponibili, purché non oltre i limiti di legge (attualmente 2 milioni annui di compensabilità per imposte dirette). Quindi, se hai un credito IVA o IRES dalla dichiarazione, potresti usarlo per versare l’importo dovuto dell’accertamento. È fondamentale indicare i codici tributo esatti e l’anno di riferimento come da avviso, utilizzando il modello F24 “Accise/Erario” etc. Fai attenzione: la compensazione è lecita se il credito è non prescritto, certo, liquido ed esigibile (ad esempio, IVA a credito riportata e disponibile). Non è ammessa invece per importi iscritti a ruolo già definitivi (in quel caso dovresti chiedere compensazione nel mod. Riscossione, ma per ruoli c’è divieto di compensare crediti erariali). In sintesi, se stai definendo col Fisco un accertamento e hai crediti, puoi sfruttarli in sede di pagamento (ci sono risoluzioni AE che lo confermano). Meglio se ne parli con l’ufficio durante l’adesione: a volte loro stessi dicono “può pagare tot anche via F24 in compensazione”.

D: Se la società vince il ricorso, otterrà il rimborso di quanto pagato?
R: Sì. Se in pendenza di giudizio hai versato il famoso 1/3 o altri importi (magari perché non avevi ottenuto sospensione, o perché l’accertamento era parzialmente definito), e poi il giudice annulla in tutto o in parte l’atto, hai diritto al rimborso delle somme non dovute. L’Agenzia deve restituire l’imposta con gli interessi legali maturati. In genere, dopo passaggio in giudicato della sentenza favorevole, occorre presentare un’istanza di rimborso all’ufficio allegando la sentenza e i modelli di pagamento fatti. L’ufficio effettua i calcoli e dispone il rimborso. I tempi variano (qualche mese, raramente anni se importi grossi). In certi casi, se c’è un credito di imposta parallelo, possono scomputare d’ufficio. Importante: se invece il contribuente perde, non c’è simmetria perfetta – nel senso che se la sentenza conferma tutto, gli interessi a debito continuano a maturare fino a pagamento, e in appello possono aggiungersi spese di lite e un’eventuale maggiorazione sanzioni del 50% se comportamento temerario (poco applicata). Ma per vincitore sì, rimborso integrale. Attenzione: il rimborso delle spese legali invece dipende dalla condanna alle spese in sentenza (spesso modesto rispetto al costo reale).

D: Un avviso “bonario” (comunicazione di irregolarità) non pagato può trasformarsi in avviso di accertamento?
R: Non esattamente. Le comunicazioni di irregolarità (ex controlli automatici o formali) seguono un altro iter: se non paghi entro 30 giorni, l’importo viene iscritto a ruolo e ti arriva direttamente una cartella esattoriale con sanzione ridotta al 10% (per controlli automatici) o al 20%. Non c’è emissione di avviso di accertamento perché l’avviso bonario non è un atto impugnabile di per sé. Quindi, se trascuri un avviso bonario, la fase successiva è la cartella (che potrai impugnare entro 60 gg dalla notifica della cartella, ma solo per vizi formali o se il calcolo era sbagliato, non entri nel merito del dichiarato). L’avviso di accertamento invece è usato per i controlli sostanziali e di norma non è preceduto da comunicazioni bonarie (eccetto in alcuni casi di PVC, ma quello è un atto di verifica, non un bonario). Per chiarezza:

  • Se ricevi una comunicazione per 36-bis (tasse non versate o errori aritmetici in dichiarazione) e non paghi, non aspettarti un “accertamento”: arriverà cartella.
  • Se ricevi un PVC da Guardia di Finanza e non rispondi, quello non è un pagamento bonario, seguirà un avviso di accertamento dopo 60 gg.
  • L’avviso di accertamento vero e proprio di solito non è preceduto da importi ridotti al 10% di sanzione ecc.; arriva direttamente con sanzione piena 90% e possibilità di adesione.

D: Ci sono differenze nel contenzioso per una società di capitali rispetto a una persona fisica?
R: Le regole processuali sono le stesse. La differenza pratica è che la società deve sempre farsi rappresentare da un difensore abilitato, mentre una persona fisica può (se l’importo < €3.000) stare in giudizio da sola. Inoltre, la società di capitali non può accedere al patrocinio gratuito (riservato alle persone fisiche nei limiti di reddito). Per il resto, un argomento in più per le società a volte è invocare la “doppia conformità” e trascinamento soci: ad esempio, se una società di persone perde, i soci devono impugnare anche i loro avvisi. Nel caso di società di capitali, l’accertamento rimane confinato alla società (a meno di profili come amministratori per sanzioni, reati etc. ma non nel processo tributario). Quindi una società di capitali discute sul proprio reddito IRES e IVA senza coinvolgere terzi.

D: Dopo un avviso di accertamento, la Guardia di Finanza potrebbe intervenire penalmente?
R: Possibile. Se l’accertamento riguarda importi o condotte che integrano reati tributari (es. dichiarazione infedele sopra soglie, omessa dichiarazione rilevante, utilizzo fatture false, occultamento di documenti contabili), l’Agenzia delle Entrate è obbligata a trasmettere rapporto alla Procura (notitia criminis). In alcuni casi, la Gdf interviene già prima, effettuando verifiche penali parallele. Dal punto di vista aziendale, un avviso di accertamento può quindi fare da preludio a un procedimento penale a carico degli amministratori o rappresentanti legali (la società in quanto tale non ha sanzioni penali, salvo la responsabilità 231 in rarissimi casi di reati tributari strumentali). Dunque, se ricevi un pesante accertamento per evasione, è prudente attivare anche un legale penalista per prevenire o gestire l’indagine. A volte definire l’accertamento con pagamento integrale può attenuare le sanzioni penali (ad es. causa di non punibilità per alcuni reati se paghi tutto il debito prima del dibattimento, art. 13 DLgs 74/2000). Comunque è tema parallelo: il processo tributario e quello penale sono autonomi, anche se collegati nei fatti.


Abbiamo dunque affrontato in forma di FAQ i quesiti pratici principali. Nella prossima sezione conclusiva, presentiamo alcune tabelle riepilogative che riassumono punti chiave discussi, come una comparazione tra le opzioni difensive e i termini da ricordare.

Tabelle riepilogative e scenari pratici

Per una visualizzazione immediata, riportiamo qui alcune tabelle di sintesi.

Tabella 1 – Termini essenziali relativi all’accertamento

Evento/ScadenzaDescrizioneRiferimento Normativo
Termine decadenza accertamento (dichiarazione presentata)31 dicembre del 5° anno successivo alla presentazione della dichiarazione. Esempio: Dich. 2019 (anno imposta 2018) → avviso entro 31/12/2024.art. 43 c.1 DPR 600/73; art.57 c.1 DPR 633/72
Termine decadenza accertamento (dich. omessa)31 dicembre del 7° anno successivo a quello di obbligo dichiarativo. Esempio: omessa 2018 → avviso entro 31/12/2025.art. 43 c.2 DPR 600/73; art.57 c.2 DPR 633/72
Termine impugnazione avviso (ricorso)60 giorni dalla notifica (escl. sospensione feriale e proroghe per adesione).art. 21 DLgs 546/92
Sospensione termini per adesione+90 giorni presentando istanza di adesione entro 60 gg. (30 gg se contraddittorio obbligatorio già svolto e istanza entro 15 gg)art. 6 c.3 DLgs 218/97 (mod. da DLgs 73/2022)
Versamento per acquiescenzaEntro 60 giorni dalla notifica – sanzioni ridotte a 1/3. Possibile rate fino 8-16 trimestri (≥€50k/100k).art.15 DLgs 218/97
Versamento in caso di ricorso (no sospensione)Entro 60 gg dalla notifica – 1/3 delle imposte accertate (importo a titolo provvisorio).art. 29 DL 78/2010 conv. L.122/2010
Sospensione giudiziale dell’attoRichiedibile immediatamente col ricorso; decisione in ~30-60 gg. Se accolta, blocca obbligo pagamento finché pende causa.art. 47 DLgs 546/92
Riscossione coattiva post-impugnazioneSe nessuna sospensione: dopo 30 gg dalla scadenza pagamento, affidamento ad Agente riscossione e dopo 180 gg possibile esecuzione.art. 29 DL 78/2010; art. 17-bis DL 34/2019 su 180 gg
Notifica dopo estinzione societàPossibile entro 5 anni dalla cancellazione.art. 28 co.4 D.Lgs 175/2014

Tabella 2 – Confronto strumenti deflattivi e contenziosi

OpzioneVantaggiSvantaggi/CondizioniRiduzione sanzioni
Acquiescenza (pagamento entro 60 gg senza ricorso)– Chiude subito la pendenza.- Evita costi e incertezze del contenzioso.- Rate fino a 8/16 trimestri possibili.- Niente iscrizione a ruolo successiva.– Occorre liquidità per pagare (anche rate iniziali).- Rinuncia totale a contestare: se emergono errori dopo, non rimedi.-1/3 (paghi 2/3 delle sanzioni)
Accertamento con adesione (istanza entro 60 gg, sospende 90 gg)– Dialogo con ufficio, possibile riduzione imponibili.- Sanzioni per legge ridotte al 1/3 del minimo.- Estende tempi per decidere.- Rate 8/16 trim. possibili su importo concordato.– Richiede negoziazione, esito incerto.- Se fallisce, si torna a dover ricorrere (perdendo però solo tempo, non diritti se entro 90gg).- Serve collaborazione e trasparenza su dati.-2/3 circa (sanzioni = 1/3 minimo edittale). Esempio: minimo 90% → paghi 30%.
Ricorso (contenzioso) (entro 60 gg o 150 se adesione)– Chance di annullamento integrale o parziale dell’atto (se si ha ragione).- Tempi lunghi → dilazione di fatto del pagamento.- Possibile ulteriore conciliazione in causa.– Costi legali e contributo unificato.- Bisogna pagare 1/3 provvisoriamente (salvo sospensiva).- Esito incerto e tempi anche pluriennali.- Se si perde, restano imposte + sanzioni intere + interessi, più rischio spese di giudizio.Nessuna riduzione ex lege in sentenza (salvo decisione giudice su circostanze attenuanti). In caso di conciliazione in primo grado: -60% (sanzioni al 40% del minimo). In appello conciliazione: sanzioni 50%.
Conciliazione giudiziale (accordo in corso di processo)– Ulteriore opportunità di chiudere dopo aver visto come va il processo.- Sanzioni ridotte (40% in 1° grado).- Rateizzabile come adesione (fino 8 semestrali, art.48 DLgs 546).– Richiede volontà di entrambe le parti di transigere.- Se interviene in appello, sanzioni ridotte meno (50%).- Comporta cessazione del contendere (rinuncia ad ulteriori appelli).-60% (in 1° grado) / -50% (in 2° grado) sulle sanzioni .
Autotutela (richiesta annullamento amministrativo)– Può risolvere senza costi se l’ufficio riconosce l’errore.- Utilizzabile anche fuori termini ricorso (per atti definitivi, in teoria).– Non sospende termini né riscossione.- È discrezionale: spesso viene rigettata o ignorata.- Valida solo per errori oggettivi/palesi.Non pertinente (è annullamento totale/parziale dell’atto, non graduazione sanzioni).

Tabella 3 – Esempio numerico comparativo (scenario)
Supponiamo un avviso che accerta €50.000 di maggior imponibile IRES (24%) => €12.000 imposte, con sanzione 100% = €12.000, e interessi €1.000.

SceltaImporto totale da pagareNote
Nessuna reazione (diventa definitivo)€12.000 imposte + €12.000 sanzioni + interessi in crescita + aggio riscossione (3%) = ~€26.000(dopo 60 gg, affidato a riscossione, con interessi di mora finché non paghi)
Acquiescenza entro 60gg€12.000 + sanz. ridotta 2/3 (≈€8.000) + interessi €1.000 = €21.000(risparmio ~€5.000 rispetto all’inazione; si può rateizzare in max 8 trim. perché >50k totali)
Adesione concordata (ipotesi: imponibile ridotto a €40.000)Imposta €9.600 + sanzione 1/3 minimo (minimo 90%→ 30%: €2.880) + interessi €800 ≈ €13.280(grande risparmio: imposta ridotta e sanzione drasticamente calata)
Ricorso vinto al 100% (dopo 2 anni)€0 (ma inizialmente versato 1/3 = €4.000, restituito con interessi)(pagato €4k nel 2023, restituiti magari nel 2025; spese legali magari €3k non recuperate tutte)
Ricorso perso (soccombente)€12.000 + €12.000 + interessi 2 anni ~€1.500 = €25.500 + spese di lite €…(interessi aggiunti per il ritardo; nessuno sconto sanzioni; possibile condanna a qualche spesa)
Conciliazione in giudizio (accordo su imponibile €45.000)Imposta €10.800 + sanz. 40% min (0.4*90%*10800=€3.888) + int. €900 ≈ €15.588(meno vantaggiosa dell’adesione, ma ottenuta dopo aver visto giudice e prove)

N.B.: i numeri sono indicativi per illustrare le differenze. Si vede come la via giudiziale è un rischio: vincendo annulli tutto (a parte costi), perdendo paghi di più. Le vie intermedie (adesione, conciliazione) spesso portano a pagare importi tra quelli due estremi, con significativo abbattimento di sanzioni.


Conclusioni

Affrontare un avviso di accertamento per una società di capitali richiede un approccio attento e strategico. Occorre innanzitutto analizzare l’atto nei minimi dettagli – sia sotto il profilo formale (validità e vizi dell’atto) sia nel merito (fondatezza delle pretese fiscali) – e poi valutare, in base a tale analisi e alla situazione finanziaria aziendale, quale strada intraprendere tra quelle illustrate.

Questa guida, aggiornata a giugno 2025, ha evidenziato che il quadro normativo italiano offre diversi strumenti “di difesa” e “di dialogo” con il Fisco:

  • Dal contraddittorio preventivo (oggi rafforzato dall’art. 6-bis Statuto) all’accertamento con adesione, che consente di negoziare un esito più equilibrato dell’accertamento;
  • Dall’acquiescenza con pagamento ridotto delle sanzioni – opzione veloce e a volte conveniente – al ricorso dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria, necessario quando ci sono solidi motivi per far annullare l’atto;
  • Fino alla possibilità di soluzioni intermedie come la conciliazione in corso di causa o il ricorso all’autotutela, in casi di errore evidente.

Per le società di capitali, inoltre, bisogna considerare aspetti peculiari come la responsabilità dei liquidatori e soci in caso di società che si estinguono lasciando debiti tributari. La normativa protegge l’Erario con regole che estendono di fatto l’esistenza fiscale dell’ente per cinque anni dopo la cancellazione e che permettono di aggredire il patrimonio distribuito ai soci entro certi limiti. Ciò sottolinea l’importanza di gestire correttamente gli accertamenti prima di chiudere una società, o comunque di conservarne le risorse necessarie per fronteggiare possibili contestazioni nel quinquennio successivo.

Dal punto di vista operativo, è sempre consigliabile per la società farsi assistere da un professionista qualificato (avvocato tributarista o dottore commercialista esperto in contenzioso) fin dal momento della notifica dell’avviso. Questo perché la materia è tecnica, in continua evoluzione (si pensi alle recenti riforme del 2022-2023 sulla giustizia tributaria), e ogni mossa – anche la sola richiesta di adesione o la scelta di pagare – può avere implicazioni importanti e irreversibili. Un professionista potrà:

  • Verificare la legittimità formale dell’atto (ad esempio richiamandosi alle ultime pronunce di Cassazione, come quella che ha annullato un avviso per motivazione contraddittoria);
  • Quantificare con esattezza le somme dovute nelle varie ipotesi (tenendo conto di interessi e sanzioni ridotte);
  • Rappresentare la società efficacemente nel contraddittorio con l’ufficio o in giudizio;
  • Preservare i diritti della difesa (presentando ricorso tempestivo, istanze di sospensione, ecc., in modo da non incorrere in decadenze).

Infine, va ricordato che l’avviso di accertamento non va considerato un affronto personale o una rovina inevitabile, ma come un atto giuridico con cui è possibile interagire. Molte controversie possono risolversi in modo ragionevole: l’Agenzia delle Entrate stessa, per mission istituzionale, mira a far emergere la base imponibile realmente dovuta e incassare il giusto tributo, non a vessare inutilmente chi è in buona fede. Dimostrare collaborazione (fornendo documenti, spiegazioni) e al contempo far valere con fermezza i propri diritti, è spesso la chiave di un esito soddisfacente.

In sintesi, quando una società di capitali riceve un avviso di accertamento, dovrebbe:

  1. Analizzare immediatamente l’atto (magari con un consulente), verificando termini e vizi.
  2. Decidere una strategia entro i 60 giorni: pagare (tutto o con adesione), oppure impugnare.
  3. Comunicare tempestivamente con l’ufficio (adesione, istanze) se si sceglie la via amministrativa, oppure predisporre il ricorso se si va in giudizio.
  4. Garantire la liquidità necessaria per eventuali pagamenti provvisori o rate iniziali, o in alternativa attivarsi per la sospensione.
  5. Seguire con attenzione l’evolversi del procedimento (scadenze delle rate, udienze, ecc.), senza abbassare la guardia finché la questione non è definitivamente risolta (tramite atto di adesione, conciliazione omologata, sentenza passata in giudicato o pagamento eseguito).

Questa guida ha fornito un quadro completo e aggiornato al 2025 di tutte queste fasi, con riferimenti normativi puntuali e pronunce giurisprudenziali di rilievo, per orientare la società (e i suoi consulenti) in ogni passo. Agire informati è il modo migliore per trasformare un momento critico – la contestazione di un’imposta – in un procedimento gestibile, tutelando i diritti dell’impresa e, ove possibile, negoziando soluzioni sostenibili.

Fonti e riferimenti normativa e giurisprudenziale

  • DPR 29 settembre 1973, n.600, art. 42 e 43 – Avviso di accertamento e termini decadenziali
  • DPR 26 ottobre 1972, n.633, art.57 – Termini accertamento IVA, allineati a 5 e 7 anni (armonizzato)
  • Legge 27 luglio 2000, n.212 (Statuto contrib.), art.7 – Motivazione atti tributari e obbligo indicazione responsabile
  • D.Lgs. 19 giugno 1997, n.218, artt.6-15 – Accertamento con adesione (sospensione termini 90gg; sanzioni 1/3 min.)
  • D.Lgs. 31 dicembre 1992, n.546, art.47 – Sospensione giudiziale degli atti impugnati (presupposti periculum e fumus)
  • DL 78/2010 conv. L.122/2010, art.29 – Introduzione accertamento esecutivo: intimazione a pagare entro 60gg e 1/3 se ricorso
  • Legge 15 luglio 2011, n.111, art.7 c.2 – Conferma esecutività immediata avvisi dal 1/10/2011
  • Cass. civ. Sez. V, ord. 13620 del 17/05/2023 – Avviso nullo per motivazione contraddittoria (ragioni eterogenee)
  • Cass. civ. Sez. V, ord. 31928 dell’11/12/2024 – Firma meccanografica valida; delega firma vs delega funzioni
  • Cass. civ. Sez. V, ord. 17573 del 26/06/2024 – Allegazione atti richiamati: onere contribuente provare utilità ai fini motivazione
  • Cass. civ. Sez. Unite, sent. 24823 del 09/12/2015 – Contraddittorio endoprocedimentale: obbligo generalizzato solo per IVA (con prova resistenza)
  • Cass. civ. Sez. V, sent. 1042 del 16/01/2023 – Responsabile procedimento non indicato: atto non nullo (nullità solo per cartelle)
  • DLgs. 130/2022 e DLgs. 156/2023 – Riforma processo tributario: abrogazione reclamo-mediazione dal 2024
  • D.Lgs. 175/2014, art.28 co.4 – Estinzione società efficace dopo 5 anni ai fini accertamento e riscossione
  • DPR 602/1973, art.36 – Responsabilità fiscale liquidatori e soci: obbligo soddisfare Erario prima di distribuire attivo
  • Circolare Agenzia Entrate n.31/E del 30/12/2014 – Chiarimenti su nuova responsabilità liquidatori (art.36 modif.)
  • Cass. SU 6070/2013 – Continuità rapporti processuali con soci di società estinte (soci legittimati ad agire o essere convenuti)

Hai ricevuto un avviso di accertamento alla tua società di capitali? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Se una S.r.l., S.p.A. o altra società di capitali riceve un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, è fondamentale agire in tempi rapidi e con la giusta strategia.
L’accertamento può riguardare IRES, IVA, IRAP, ritenute e può generare effetti gravi: iscrizione a ruolo, sanzioni pesanti, blocchi operativi. Ma è possibile difendersi e ridurre il danno.


Cos’è un avviso di accertamento per una società di capitali?

È un atto formale con cui il Fisco contesta:

  • 💰 Maggiori ricavi non dichiarati
  • 📊 Costi indeducibili o non documentati
  • 🧾 I.V.A. non versata o portata in detrazione illegittimamente
  • 🧮 Errori di bilancio o incongruenze contabili
  • 🔍 Utilizzo di fatture ritenute false o da fornitori non tracciabili

Può basarsi su verifiche, accessi, controlli formali, dati bancari, analisi di settore, incroci informatici.


Quali sono le conseguenze per l’azienda?

  • 💸 Pagamento delle imposte contestate, con sanzioni fino al 180% e interessi
  • ⏳ Blocco dei rimborsi fiscali, crediti IVA e compensazioni
  • ⚠️ Attivazione della riscossione coattiva e pignoramenti
  • 👤 Estensione delle responsabilità ai soci, amministratori e professionisti (in certi casi)
  • ⚖️ Avvio di procedimenti penali tributari per dichiarazioni infedeli o fraudolente

Cosa fare appena ricevi l’accertamento

  1. 📬 Verifica la data di notifica: hai 60 giorni per presentare ricorso
  2. 📂 Analizza con attenzione il contenuto: motivazioni, periodo d’imposta, metodologia
  3. 🧾 Raccogli la documentazione contabile a supporto della tua posizione
  4. ✍️ Valuta la possibilità di presentare un’istanza di accertamento con adesione per ridurre le sanzioni
  5. ⚖️ In caso di irregolarità, prepara il ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria competente

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📑 Analizza in dettaglio l’avviso di accertamento e individua i punti contestabili
📂 Ricostruisce la posizione fiscale della società con perizie contabili e difensive
✍️ Redige istanza di adesione o ricorso tributario in modo strategico e tempestivo
⚖️ Ti difende anche in sede penale se vengono ipotizzati reati tributari
🔁 Ti assiste nella gestione fiscale straordinaria per evitare crisi aziendale o perdita di continuità


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Esperto in fiscalità societaria e contenzioso tributario complesso
✔️ Consulente per procedimenti per accertamenti su società di capitali
✔️ Iscritto come Gestore della crisi d’impresa presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per amministratori, soci e imprese soggette a controlli fiscali e bancari


Conclusione

Un avviso di accertamento a una società di capitali può avere impatti devastanti, ma non sempre è legittimo o fondato. Con una difesa tecnica e tempestiva, puoi bloccare il danno e difendere il tuo business.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi affrontare l’accertamento, tutelare la società e prevenire escalation giudiziarie.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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