Accertamento Esterovestizione Società in Slovenia: Cosa Fare

Hai ricevuto un accertamento per esterovestizione di una società con sede in Slovenia e ti stai chiedendo perché il Fisco italiano ritiene che la tua impresa estera sia in realtà residente in Italia? Ti contestano di aver trasferito solo formalmente la sede, mantenendo però in Italia la gestione effettiva?

L’esterovestizione è una delle contestazioni più gravi in materia di fiscalità internazionale. L’Agenzia delle Entrate può disconoscere la residenza fiscale estera di una società e pretendere che venga tassata interamente in Italia, con recupero retroattivo delle imposte e sanzioni molto elevate. Ma difendersi è possibile, soprattutto se l’attività in Slovenia è reale, documentata e autonoma.

Cos’è l’esterovestizione secondo il Fisco italiano?
– È la situazione in cui una società ha sede legale all’estero, ma la direzione effettiva è in Italia
– La società è quindi considerata fiscalmente residente in Italia, anche se formalmente costituita in Slovenia
– Il Fisco guarda alla gestione concreta dell’attività: chi prende decisioni, da dove si amministra, dove si trovano mezzi e personale
– Conta la sostanza, non la forma

Perché viene contestata l’esterovestizione di una società slovena?
– Perché i soci o amministratori sono italiani e operano fisicamente dall’Italia
– Perché clienti, fornitori, conti bancari, contratti e uffici operativi sono tutti in Italia
– Perché la sede slovena è fittizia o priva di reale autonomia gestionale
– Perché il Fisco ritiene che la società estera sia stata usata per ottenere un risparmio fiscale illecito

Cosa può fare l’Agenzia delle Entrate?
– Disconoscere la residenza slovena e tassare la società come fosse italiana
– Contestare l’omessa dichiarazione dei redditi in Italia per anni interi
– Applicare IRES, IRAP, IVA e sanzioni fino al 100% delle imposte evase
– In certi casi, segnalare il caso all’autorità giudiziaria per evasione internazionale
– Estendere le contestazioni anche a soci, amministratori e prestanome

Come puoi difenderti da un’accusa di esterovestizione?
– Dimostrando che la società ha una struttura reale in Slovenia: uffici, dipendenti, contabilità, attività operative
– Provando che le decisioni vengono prese in Slovenia da un consiglio o amministratore residente
– Esibendo prove di autonomia funzionale, come contratti locali, rapporti commerciali, mezzi propri
– Dimostrando che non c’è un controllo diretto dall’Italia, né operazioni simulate
– Contestando l’errata interpretazione dei fatti da parte del Fisco, anche attraverso una perizia o un’istanza difensiva

Quando l’esterovestizione non può essere contestata?
– Quando la sede slovena è effettiva, stabile e operativa
– Quando la gestione è all’estero e dimostrabile, anche se i soci sono italiani
– Quando non c’è evasione fiscale, ma solo ottimizzazione lecita
– Quando l’attività non ha alcun legame economico o strutturale con il territorio italiano

Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare l’accertamento: diventa definitivo e scatena il recupero forzoso
– Rispondere con argomentazioni vaghe: serve una difesa precisa, documentale e ben impostata
– Continuare a operare come se nulla fosse: può aggravare la tua posizione anche penalmente
– Confondere esterovestizione con una semplice sede estera: il Fisco guarda dove è gestita realmente la società

L’accusa di esterovestizione è grave, ma può essere respinta se dimostri l’effettiva autonomia e operatività all’estero.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario – ti spiega cosa significa esterovestizione, perché viene contestata alle società in Slovenia e come difenderti da un accertamento aggressivo.

Hai ricevuto un avviso per esterovestizione di una società slovena?

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Introduzione

L’esterovestizione è un fenomeno di elusione/evasione fiscale internazionale che si verifica quando una società appare formalmente localizzata all’estero, ma in realtà è gestita e amministrata dall’Italia, allo scopo di ottenere un risparmio d’imposta indebito. In altre parole, l’azienda “si veste da estero” – spesso costituendosi in un paese con fiscalità più vantaggiosa – mentre il centro effettivo delle decisioni e dell’attività rimane in Italia. Ciò comporta una dissociazione tra la residenza formale (all’estero) e quella sostanziale (in Italia), configurando un schermo fittizio utilizzato per sottrarsi alla tassazione italiana.

Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli sul fenomeno dell’esterovestizione, che è divenuto uno degli schemi elusivi più contestati dal Fisco. In particolare, la costituzione di società in paesi vicini come la Slovenia – membro UE con aliquote fiscali più basse – è spesso oggetto di verifiche per accertare se si tratti di una genuina delocalizzazione dell’attività oppure di una mera “società esterovestita” creata ad hoc per fini fiscali. L’attrattiva di aprire una società in Slovenia risiede, tra l’altro, nel regime fiscale più favorevole (aliquota sull’utile d’impresa attorno al 19%, inferiore all’IRES italiana del 24%) e nella vicinanza geografica e culturale. Tuttavia, costituire una società in Slovenia non mette al riparo da possibili accertamenti fiscali italiani: se la sede effettiva delle decisioni o dell’attività aziendale risulta in Italia, l’impresa può essere considerata residente in Italia ai fini tributari e tassata di conseguenza.

Questo guida – aggiornata a giugno 2025 – offre un’analisi approfondita e aggiornata sul tema dell’accertamento per esterovestizione di società in Slovenia, dal punto di vista del contribuente “esterovestito” (cioè della società e del suo amministratore che subiscono la contestazione). Esamineremo innanzitutto il quadro normativo italiano in materia di residenza fiscale delle società e le norme anti-esterovestizione, con riferimenti alla normativa vigente e alle più recenti pronunce giurisprudenziali (Corte di Cassazione e corti tributarie). Verranno poi descritti i passaggi dell’accertamento fiscale e delle successive fasi contenziose, evidenziando le possibili sanzioni e le implicazioni (anche penali) per il contribuente. Seguirà una sezione dedicata alle strategie di difesa legale, con consigli su come reagire a un accertamento di esterovestizione: strumenti deflativi (es. accertamento con adesione), ricorso in Commissione tributaria (oggi Corte di Giustizia Tributaria), onere della prova e prove contrarie da raccogliere, nonché possibili soluzioni preventive (interpello, ruling) per chi sta pianificando un’espansione all’estero. Saranno incluse tabelle riepilogative dei criteri di residenza e degli indicatori di esterovestizione, oltre a simulazioni pratiche di casi tipici (es. società slovena di consulenza con gestione in Italia, holding slovena di partecipazioni italiane, ecc.), così da illustrare con esempi concreti come si applichino le regole. Infine, una sezione di Domande e Risposte (FAQ) affronterà i quesiti frequenti di imprenditori e professionisti sul tema (come ad esempio “Quali sono gli indizi che usa il Fisco?”, “Che sanzioni rischio?”, “Come difendersi efficacemente?”).

Avvertenza: le informazioni fornite riguardano esclusivamente la normativa e giurisprudenza italiana in materia, con focus sulle società estere operanti in Italia (non trattiamo quindi aspetti fiscali sloveni se non marginalmente). Inoltre, quando parliamo di esterovestizione ci riferiamo sempre a contestazioni fiscali (civili/amministrative) – sebbene, come vedremo, gravi fenomeni di esterovestizione possano integrare anche ipotesi di reato tributario, qui ci concentreremo sul piano tributario-contabile e sulla difesa davanti alle Commissioni Tributarie.

Passiamo dunque ad esaminare il quadro normativo di riferimento.

Quadro Normativo Italiano sull’Esterovestizione

Per capire quando una società estera può essere considerata fiscalmente residente in Italia (e quindi potenzialmente “esterovestita” se formalmente estera), occorre partire dai criteri generali di collegamento previsti dal legislatore italiano. Successivamente analizzeremo la presunzione legale anti-esterovestizione introdotta per colpire schemi elusivi specifici, e infine vedremo come si inserisce il discorso nel contesto europeo della libertà di stabilimento.

Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)

La norma cardine è l’art. 73 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, D.P.R. 917/1986), che al comma 3 definisce quando un ente o società si considera residente in Italia ai fini delle imposte sui redditi. In base a tale disposizione (come da ultimo modificata dal D.Lgs. 209/2023, in vigore dal 1° gennaio 2024), un soggetto estero è considerato fiscalmente residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta, ricorre almeno uno dei seguenti criteri di collegamento col territorio dello Stato:

  • Sede legale in Italia: il luogo in cui la società ha la sede legale risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto. Questo è un criterio formale e facilmente individuabile (la residenza “di diritto” dell’ente).
  • Sede di direzione effettiva in Italia: il luogo in cui si svolge in modo continuo e coordinato la direzione strategica dell’ente, ovvero dove vengono assunte le decisioni strategiche riguardanti la società nel suo complesso. È il concetto equivalente al “place of effective management” dei trattati internazionali, sostanzialmente coincidente con la nozione di “sede dell’amministrazione” già elaborata dalla giurisprudenza. In pratica, si tratta del “cervello gestionale” della società: dove gli organi direttivi si riuniscono, dove si accentrano le decisioni operative e amministrative e da cui partono le direttive aziendali.
  • Gestione ordinaria (oggetto principale) in Italia: il luogo in cui viene svolta prevalentemente l’attività principale della società, ossia dove si realizza l’oggetto sociale o l’insieme degli affari societari. Questo criterio (già noto come “oggetto principale”) guarda al radicamento dell’attività economica: ad esempio, se una società produce o commercia beni principalmente in Italia, il baricentro economico è considerato italiano.

Tali criteri sono alternativi ed equivalenti: basta che uno solo di essi risulti localizzato in Italia per la maggior parte dell’anno (oltre 183 giorni) perché la società sia considerata residente fiscale italiana. Il legislatore ha quindi scelto un approccio sostanzialistico: prevale la realtà effettiva della gestione e dell’attività, rispetto alla mera forma giuridica della sede legale. Ad esempio, una società di capitali con sede legale all’estero ma che di fatto è amministrata dall’Italia o vi svolge la sua attività principale sarà comunque tassata in Italia sui redditi ovunque prodotti.

Questa impostazione può dar luogo a casi di “doppia residenza fiscale” (dual residence) qualora anche l’altro Stato consideri la società residente in base ai propri criteri. Nel caso di conflitto, intervengono le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia: tipicamente, il tie-breaker rule previsto all’art. 4(3) del Modello OCSE assegna la residenza fiscale al Paese in cui si trova la sede di direzione effettiva (place of effective management). Va notato che i modelli più recenti (OCSE 2017) e il Multilateral Instrument (MLI) prevedono alternativamente che due Stati risolvano la doppia residenza tramite accordo reciproco (mutual agreement) valutando caso per caso vari fattori (luogo di direzione, luogo di costituzione, ecc.). Ad ogni modo, in mancanza di un accordo, se per l’ordinamento italiano una società è residente, l’Agenzia delle Entrate pretenderà l’imposizione in Italia, salva l’applicazione di eventuali crediti d’imposta per le imposte pagate all’estero (o altre clausole convenzionali). Nel caso della Slovenia, esiste una Convenzione Italia-Slovenia contro le doppie imposizioni (basata sul Modello OCSE) che risolve la doppia residenza delle persone giuridiche dando prevalenza al criterio della direzione effettiva o, in caso di stallo, mediante accordo tra le autorità competenti. Ciò significa che, se la vostra società è considerata residente in entrambi i Paesi, saranno le autorità fiscali italiana e slovena a dover concordare a chi spetti la potestà impositiva, tenendo conto di dove effettivamente è amministrata l’azienda.

Tabella 1 – Principali criteri di collegamento per la residenza fiscale delle società

Criterio di collegamentoDescrizione (art. 73, co. 3 TUIR)
Sede legale in ItaliaLa sede legale o statutaria è fissata in Italia (risulta dall’atto costitutivo). Criterio formale, può essere facilmente dimostrato tramite visura camerale/statuto.
Sede di direzione effettiva in ItaliaLa direzione strategica e le decisioni operative avvengono stabilmente in Italia (place of effective management). Equivale alla “sede dell’amministrazione” effettiva: dove gli amministratori operano, si tengono le riunioni e da dove si impartiscono direttive.
Oggetto principale (gestione ordinaria) in ItaliaL’attività principale della società si svolge prevalentemente in Italia. Ad es., la produzione, le vendite o i servizi core sono radicati sul territorio italiano, anche se la sede legale è altrove.
Durata (>183 giorni)Ciascuno dei criteri sopra deve sussistere per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno ~6 mesi) per attribuire residenza in Italia. Non basta un’attività temporanea o una presenza sporadica.
Effetti fiscaliSe ricorre almeno uno dei criteri (per oltre metà anno), la società è considerata residente fiscale in Italia, con assoggettamento all’IRES (24%) e all’IRAP sui redditi ovunque prodotti, salvo misure per evitare doppie imposizioni.

In sintesi, la normativa italiana individua la residenza fiscale delle società guardando oltre la forma giuridica: anche senza una sede legale in Italia, un’impresa può essere considerata residente se il “cuore” gestionale o l’attività economica pulsano in Italia. Questo concetto è cruciale per comprendere l’esterovestizione: il semplice fatto di aver registrato una d.o.o. in Slovenia (o altra entità estera) non basta a sfuggire al fisco italiano se poi di fatto l’azienda viene diretta dall’Italia o vi opera sostanzialmente.

Presunzione legale anti-esterovestizione (art. 73, comma 5-bis TUIR)

Accertare concretamente dov’è la sede effettiva di una società può richiedere indagini complesse, soprattutto in casi di gruppi societari e holding internazionali. Per facilitare l’azione di contrasto ai fenomeni patologici di esterovestizione, il legislatore italiano ha introdotto una specifica norma anti-elusiva: la presunzione relativa di residenza in Italia, oggi contenuta nell’art. 73, comma 5-bis TUIR. Questa disposizione – inserita dal D.L. 223/2006 (conv. L. 248/2006) e modificata dalla L. 208/2015 (legge di Stabilità 2016) – inverte l’onere della prova a carico del contribuente in presenza di determinati elementi, presumendo ex lege che la società formalmente estera sia in realtà residente in Italia.

Contenuto della norma (art. 73 co.5-bis TUIR) – Nella versione attuale (aggiornata al D.Lgs. 209/2023), il comma 5-bis stabilisce che: “Salvo prova contraria, si considerano residenti nel territorio dello Stato le società e gli enti che detengono partecipazioni di controllo […] in soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 [ossia società ed enti già residenti in Italia], se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, […] da soggetti residenti in Italia; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo equivalente composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia”.

In parole più semplici, la presunzione di esterovestizione scatta quando una società estera presenta congiuntamente queste caratteristiche:

  • Funzione di holding italiana: la società estera possiede una partecipazione di controllo in una o più società/enti residenti in Italia. In pratica, fa da “cassaforte” o capogruppo di imprese italiane.
  • Collegamento forte con l’Italia: inoltre si verifica almeno una delle seguenti condizioni: (a) la società estera è a sua volta controllata (anche indirettamente) da soggetto/i residente/i in Italia; (b) l’organo amministrativo della società estera è composto in maggioranza da persone residenti in Italia (ad es. la maggioranza dei consiglieri d’amministrazione vive in Italia).

Se entrambe le condizioni sussistono, la legge presume che la società estera abbia la propria sede di amministrazione in Italia, qualificandola quindi come residente fiscale italiana a tutti gli effetti. Si tratta di una presunzione legale relativa (iuris tantum): è valida “salvo prova contraria” da parte del contribuente. La particolarità è nell’onere probatorio: grazie a questa norma, l’Amministrazione finanziaria non deve più provare attivamente che la società è gestita dall’Italia, ma le basta evidenziare quei due elementi formali (controllo societario e maggioranza di amministratori italiani). Una volta che il Fisco dimostra tali elementi, spetta al contribuente l’onere di fornire evidenze contrarie per dimostrare che la residenza estera è reale (non fittizia) e che lo schema non è artificioso. In mancanza di prove contrarie convincenti, la presunzione vince e la società viene trattata come residente in Italia fin dall’inizio.

Ambito di applicazione: dalla formulazione, è chiaro che la norma mira soprattutto alle società estere “di mero assetto” create da soggetti italiani per interporre un guscio societario straniero a capo di società italiane. Tipicamente si pensi alla classica holding esterovestita: un soggetto italiano costituisce una holding in Slovenia (o altro Paese) che detiene le quote di società operative italiane; se quella holding è gestita da italiani, la legge ne presume la residenza in Italia. La ratio è evitare che, sfruttando l’interposizione di una scatola estera, i profitti delle società italiane vengano dirottati all’estero fittiziamente (tramite dividendi o altri flussi infragruppo) per godere di minor tassazione. Documenti di prassi e lavori preparatori (es. Relazione governativa e Circolare AdE 28/E/2006) sottolineano infatti che è difficile per il Fisco accertare caso per caso la sede effettiva, specie in presenza di holding, società di gestione di beni immateriali (royalties) o entità estere costituite per gestire asset di gruppi italiani. La presunzione 5-bis funge quindi da strumento anti-elusivo preventivo in questi scenari: se ci sono partecipazioni in società italiane e controllo/amministrazione italiana, scatta il campanello d’allarme automatico.

Limiti della presunzione – il caso delle società estere “operative”: Importante evidenziare che il perimetro di questa presunzione non copre tutte le società estere controllate da italiani, ma solo quelle con funzione di holding di partecipazioni italiane. Se una società estera controllata da italiani non detiene partecipazioni in società italiane, la presunzione del comma 5-bis non si applica. È esattamente quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella Risposta ad interpello n. 164/2023: un contribuente italiano amministratore di una propria società estera (operativa nel commercio online) temeva di ricadere nell’esterovestizione; l’Agenzia ha escluso l’applicabilità della presunzione perché tale società non fungeva da holding di società italiane. In altri termini, una società estera “semplice” (non holding), ancorché controllata e gestita da italiani, non è automaticamente considerata residente ex art. 73(5-bis). Ciò non significa che sfugga al fisco: semplicemente, in tal caso si torna ai criteri ordinari del comma 3 (sede effettiva, ecc.) e l’onere della prova resta a carico dell’Amministrazione finanziaria. Infatti, come chiosa la stessa Agenzia, in assenza di partecipazioni italiane “potrebbe rilevare il disposto del comma 3 […] secondo cui si considera residente la società che […] ha la sede dell’amministrazione nel territorio dello Stato”. Dunque, anche una società slovena “operativa” (non holding) può essere contestata per esterovestizione, ma in sede di accertamento l’Ufficio dovrà provare che la sua sede amministrativa di fatto è in Italia, senza poter beneficiare dell’inversione dell’onere probatorio prevista dal 5-bis.

Onere della prova e prova contraria: Come detto, quando applicabile, la presunzione impone al contribuente di dimostrare che la società ha davvero una vita all’estero e non è una scatola vuota. Ad esempio, tra le possibili prove contrarie che possono essere portate (tipicamente in sede di difesa nel contenzioso) vi sono: documentazione che attesti una struttura organizzativa reale nel Paese estero (uffici, dipendenti, mezzi aziendali, contabilità tenuta in loco), verbali che provino che le riunioni del CdA si svolgono all’estero, evidenze che decisioni e direttive aziendali sono assunte fuori dall’Italia, contratti e clienti esteri, ecc.. Si tratta di dimostrare l’“effettività” dell’operatività estera e dunque l’assenza di uno scopo esclusivamente fiscale. La mera esistenza di un certificato di residenza fiscale estero o l’iscrizione in registri stranieri non basta a vincere la presunzione, se tutti gli indizi concreti suggeriscono che la gestione è italiana. La giurisprudenza ha infatti chiarito che in tema di esterovestizione occorre una valutazione globale e non atomistica degli elementi indiziari, evitando di dare peso isolato a singoli aspetti marginali (come appunto un certificato formale). Torneremo tra poco sul tema probatorio quando parleremo delle sentenze di Cassazione.

In definitiva, la presunzione legale di cui all’art. 73(5-bis) TUIR è un’arma a disposizione del Fisco italiano per smascherare strutture elusive “esterovestite”, ma si applica in situazioni ben delimitate (holding di società italiane). Nel caso di società in Slovenia, se questa non detiene società italiane controllate, l’eventuale contestazione di esterovestizione dovrà fondarsi sui normali criteri sostanziali (sede effettiva o attività prevalente in Italia) e richiederà quindi una più articolata dimostrazione da parte dell’Ufficio, senza il beneficio della presunzione. Se invece la società slovena funge da holding di imprese italiane ed è controllata/gestita da italiani, allora la presunzione scatterà e l’onere di provare il contrario graverà sul contribuente.

Libertà di stabilimento nell’UE e costruzioni artificiose

Un ulteriore elemento normativo da considerare, trattando di una società in Slovenia (Paese UE), è il diritto dell’Unione Europea, in particolare la libertà di stabilimento garantita dall’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’UE. Tale principio consente alle persone fisiche e giuridiche di costituire e gestire liberamente imprese in qualsiasi Stato membro. Ne discende che fissare la sede legale in uno Stato UE a fiscalità più vantaggiosa non è di per sé illecito, né può essere automaticamente qualificato come abuso. La Corte di Giustizia UE (famosa sentenza Cadbury Schweppes, causa C-196/04) ha però chiarito che gli Stati possono adottare misure per impedire abusi della libertà di stabilimento, ma solo nei confronti di “costruzioni di puro artificio” predisposte al solo fine di eludere la normativa nazionale.

Recependo tali principi, la Corte di Cassazione italiana ha affermato che la contestazione di esterovestizione deve differenziarsi a seconda che la società estera abbia sede in un Paese UE o extra-UE. In particolare, per le società in ambito UE (come la Slovenia) qualsiasi misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammissibile solo se mirata a colpire specificamente costruzioni societarie puramente artificiali, create con finalità elusive. Ciò significa che, in caso di una società slovena, l’Agenzia delle Entrate dovrà dimostrare che si tratta di un’entità fittizia, priva di reale attività economica nel proprio Stato, istituita al solo scopo di ottenere vantaggi fiscali indebiti. Non basta quindi che la società goda di un regime fiscale più leggero: finché essa svolge effettivamente un’attività economica genuina in Slovenia, l’Italia non può legittimamente qualificarla come esterovestita senza violare il diritto UE. Al contrario, se emerge che l’insediamento estero è meramente fittizio, privo di sostanza economica, allora l’azione anti-elusiva italiana è giustificata e compatibile con i Trattati.

Nel caso di società situate in Stati extra-UE (non rilevante per la Slovenia ma utile come confronto), la Cassazione ha indicato che trovano piena applicazione le disposizioni interne (art. 73 TUIR e art. 58 DPR 600/1973) senza doversi confrontare con la libertà di stabilimento. In tali casi, per rettificare la residenza fiscale di una società estera è sufficiente riscontrare uno dei criteri di collegamento ex art. 73(3) TUIR (sede amministrativa o oggetto in Italia) senza ulteriori accertamenti sull’artificiosità. Invece, per le società UE è richiesto un passo in più: l’indagine sull’eventuale natura artificiosa dello stabilimento all’estero, ovvero verificare se manca una reale attività economica nel Paese di costituzione. La Cassazione stessa, in alcune pronunce recenti, ha riconosciuto tale impostazione. Ad esempio, la sent. Cass. n. 1883/2023 (su due società con sede in San Marino e Svizzera) ha ribadito che per le società in Paesi UE la qualificazione come abuso è subordinata alla prova di una costruzione di puro artificio, mentre per quelle extra-UE è sufficiente la sussistenza di un criterio del TUIR. Nel caso deciso, poiché San Marino e Svizzera non erano UE, la Corte si è limitata a verificare i criteri del TUIR, senza indagare sull’abuso della libertà di stabilimento (non applicabile).

Riassumendo per il contesto UE/Slovenia: il punto di equilibrio è che la costituzione di una società in Slovenia è pienamente lecita e protetta dal diritto UE, a meno che dietro la facciata giuridica non vi sia nulla di sostanziale (personale, mezzi, attività effettiva) e risulti che l’operazione è finalizzata unicamente a trarre vantaggi fiscali indebiti in Italia. In quest’ultimo caso, l’intervento dell’Amministrazione italiana (riqualificando la società come residente in Italia) è lecito, perché mirato a contrastare un abuso della libertà di stabilimento (cioè un uso distorto di tale libertà per scopi di elusione). Questo concetto è cruciale per la difesa del contribuente: se l’impresa slovena ha sostanza economica (uffici, dipendenti, business reale nel mercato locale o internazionale) potrà rivendicare la legittimità della propria scelta di stabilimento; se invece è una scatola vuota che opera solo verso l’Italia con decisioni prese in Italia, sarà molto probabilmente considerata un “puro artificio” e dunque un caso da reprimere.

Accertamento fiscale per esterovestizione: procedura e fasi

Chiarito il quadro normativo, vediamo come si svolge in pratica un accertamento per esterovestizione e quali sono le fasi che un imprenditore può trovarsi ad affrontare, dal momento in cui il Fisco nutre sospetti sulla sua società estera fino all’eventuale contenzioso in Commissione Tributaria.

Segnali e attività istruttoria: come il Fisco individua un’esterovestizione

L’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, spesso in collaborazione con la Guardia di Finanza) dispone oggi di vari strumenti per intercettare possibili casi di esterovestizione. I segnali d’allarme che tipicamente possono far scattare una verifica includono:

  • Soci o amministratori italiani dietro società estere: ad esempio, dalle banche dati emerge che un contribuente italiano è amministratore unico o detiene quote rilevanti di una società con sede in Slovenia. I flussi finanziari verso quell’entità, o il fatto che il soggetto dichiari poco/nulla in Italia pur avendo attività all’estero, possono indurre un controllo.
  • Operazioni infragruppo con l’estero: se una società italiana paga importi significativi a una consociata slovena per servizi, consulenze, royalties, ecc., l’Ufficio può indagare per capire se la consociata estera è sostanziale o solo un veicolo per spostare utili.
  • Localizzazione di assets o attività in Italia: quando beni o attività formalmente intestati alla società estera risultano in realtà collocati in Italia (es. immobili, magazzini, dipendenti di fatto operanti in Italia). Ad esempio, in un caso deciso dalla Cassazione, due società estere (San Marino e Svizzera) avevano i prodotti destinati al loro principale cliente stoccati permanentemente in un magazzino presso una società terza in Italia. Questo elemento, insieme ad altri, ha fatto presumere che la sede effettiva fosse occulta in Italia.
  • Assenza di struttura operativa all’estero: un segnale classico è la mancanza di uffici, dipendenti e costi di gestione nel Paese estero, a fronte magari di fatturati consistenti realizzati con clienti italiani. Se dai bilanci o dalle informazioni scambiate tra autorità risulta che la società slovena non ha spese per personale o sedi in Slovenia, il sospetto di esterovestizione è forte.
  • Amministratori e decisioni localizzate in Italia: se si scopre (ad esempio tramite email, documenti, interviste) che le decisioni vengono prese dall’Italia, che l’amministratore estero è solo nominale mentre un “dominus” italiano tira le fila, ecc. Anche la composizione del CdA: un consiglio con maggioranza di italiani (soprattutto se residenti in Italia) è un indizio, tanto che è uno dei criteri della presunzione.
  • Documentazione formale lacunosa: il Fisco può chiedere i verbali delle riunioni societarie, la copia dei libri sociali, ecc. Se emergono incongruenze (es. assemblee sempre tenute in Italia, o documenti firmati sempre dallo stesso soggetto in Italia), questo rafforza la tesi.

Quando uno o più di questi indizi emergono, l’iter inizia con un’attività istruttoria che può comprendere:

  • Scambio di informazioni internazionale: essendo Slovenia un Paese UE e aderente allo scambio info OCSE, l’Agenzia può attivare una richiesta alle autorità slovene per ottenere dati (bilanci depositati, informazioni bancarie, fiscali, ecc. della società).
  • Verifiche in loco e controlli incrociati: la Guardia di Finanza, se coinvolta, può eseguire controlli sul territorio italiano (presso eventuali sedi operative occulte) e raccogliere testimonianze. Ad esempio, potrebbero ispezionare il luogo dove l’azienda dichiara di operare in Italia (es. un magazzino, un ufficio del socio) e vedere se vi sono documenti riferibili alla società estera. Possono anche convocare l’imprenditore per chiarimenti.
  • Analisi dei flussi finanziari: tramite l’Anagrafe dei Conti o altri strumenti, l’Amministrazione può tracciare i pagamenti tra Italia e la società estera, i conti correnti utilizzati, ecc. Spesso nelle esterovestizioni i soldi fanno giri complessi ma finiscono nella disponibilità di soggetti italiani (ad esempio, utili che rientrano sotto forma di finanziamenti soci, pagamenti personali, prelievi con carte estere sul suolo italiano, ecc.).
  • Accesso presso il commercialista o altri soggetti: la GdF può eseguire accessi domiciliari o acquisire documenti dal consulente fiscale del contribuente, se ritiene che ci siano elementi probatori (ad esempio, trovare chi realmente tiene la contabilità e da dove).
  • Verifiche fiscali parallele su collegati: se esiste una società italiana collegata (es. fornitrice o cliente principale), quell’azienda potrebbe essere oggetto di verifica e da lì reperire elementi (contratti, email, ecc.) che riguardano la consociata slovena.

Terminata la fase istruttoria, se gli elementi raccolti inducono a ritenere la società come esterovestita, l’Ufficio procede ad emettere un Processo Verbale di Constatazione (PVC) (se c’è stato accesso/controllo formale, tipicamente GdF redige un PVC) oppure direttamente prepara l’atto impositivo. Il contribuente spesso viene convocato o invitato a fornire chiarimenti durante questa fase. È fondamentale sfruttare l’opportunità di difesa preventiva: dopo un PVC, il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni e memorie difensive (ai sensi dell’art. 12, c.7 L. 212/2000 – Statuto del Contribuente) prima che l’accertamento venga emesso. Presentare in questa sede documenti che dimostrino l’effettività della sede estera può talvolta convincere l’Ufficio a non procedere (o a ridimensionare la contestazione).

Emissione dell’avviso di accertamento e contenuto della contestazione

Se le controdeduzioni non hanno successo (o se l’Ufficio procede senza PVC), viene notificato un Avviso di Accertamento al contribuente. Trattandosi di una società estera, l’atto è di norma notificato al rappresentante fiscale in Italia (se esistente per IVA o altro) oppure, in mancanza, tramite procedura per l’estero o presso il domicilio del soggetto collegato in Italia. Spesso, se l’esterovestizione coinvolge una persona fisica residente (es. l’amministratore italiano), l’accertamento può essere notificato anche a quest’ultimo in qualità di rappresentante di fatto.

L’avviso di accertamento detta le conclusioni dell’Agenzia, tipicamente contenendo:

  • La riqualificazione della residenza: si afferma che la società XYZ, ancorché formalmente con sede in Slovenia, è da considerarsi residente in Italia ai fini fiscali dall’anno X, in virtù di (elenco di elementi: es. sede di amministrazione di fatto a …, attività principale in Italia, applicazione eventuale art. 73(5-bis) se pertinente, ecc.).
  • Il recupero a tassazione dei redditi non dichiarati in Italia: generalmente l’atto quantifica il reddito imponibile della società per gli anni accertati, ricalcolando l’IRES dovuta (attualmente al 24%) su tali redditi. Se la società non ha presentato dichiarazioni dei redditi in Italia (caso tipico, ritenendosi estera), l’accertamento verrà effettuato a titolo di “omessa dichiarazione”. Questo comporta il recupero dell’intera imposta evasa per ogni anno e l’applicazione di pesanti sanzioni (come vedremo più avanti).
  • L’IRAP: se l’attività economica è considerata esercitata in Italia (presenza di base fissa, personale, ecc.), l’atto potrebbe assoggettare i redditi anche ad IRAP (l’imposta regionale sulle attività produttive, ~3.9%) per gli anni in esame, in quanto la società – essendo considerata residente – avrebbe avuto un’autonoma organizzazione produttiva in Italia.
  • Altre imposte indirette o ritenute: in alcuni casi l’esterovestizione tocca anche altre imposte. Un esempio è dato dalla Cass. 3386/2024, dove una società inglese esterovestita aveva ricevuto un immobile con agevolazione d’imposta di registro (aliquota fissa) riservata alle società UE; l’accertamento ha disconosciuto l’agevolazione ritenendo che non spettasse essendo la società in realtà italiana. Analogamente, potrebbero emergere recuperi di IVA (se, ad esempio, operazioni finte intracomunitarie erano in realtà interne) o di ritenute non operate su pagamenti transfrontalieri (dividendi, interessi, royalties) nel caso in cui la società estera venga ignorata come entità separata.
  • Le sanzioni amministrative: in caso di omessa dichiarazione, la sanzione base è dal 120% al 240% dell’imposta dovuta (D.Lgs. 471/1997). Se invece la società aveva presentato qualche dichiarazione in Italia (ipotesi rara in contesto esterovestizione) ma infedele, sarebbe 90%-180% della maggior imposta. In ogni caso, l’avviso dettaglia le sanzioni per ciascun tributo e anno. Spesso l’Ufficio applica anche la sanzione per omessa presentazione del quadro RW (monitoraggio fiscale attività estere) se applicabile, e/o altre minori.
  • Gli interessi di mora calcolati su imposte e sanzioni, al tasso legale.
  • L’eventuale segnalazione penale: se dall’accertamento risulta un’imposta evasa sopra soglie di rilevanza penale, l’atto può contenere cenno alla comunicazione alla Procura della Repubblica per i reati tributari (es. omessa dichiarazione ex art.5 D.Lgs. 74/2000, soglia €50.000 di imposta evasa annua). Di solito non è specificato nell’atto (perché l’azione penale è separata), ma il contribuente deve esserne consapevole (vedi oltre sezione sanzioni/penali).

È fondamentale leggere attentamente l’accertamento per capire la base giuridica invocata: ad esempio se l’Ufficio dichiara di applicare la presunzione 5-bis TUIR (tipicamente lo farà esplicitamente se pertinente), oppure se fonda la contestazione solo sui criteri generali e su una ricostruzione fattuale (“sede effettiva occulta in Italia sulla base di…”). Sapere ciò è importante per poi impostare la strategia di difesa (onere della prova, ecc.).

Un dettaglio procedurale: l’accertamento per omessa dichiarazione deve essere emesso entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui andava presentata la dichiarazione (termine ordinario) oppure, se c’è violazione che comporta obbligo di denuncia penale per taluni reati, si estende a otto anni (raddoppio dei termini, ex art. 43 DPR 600/73 come modificato). In sostanza, se una società era esterovestita nel 2020 e non ha dichiarato nulla, l’atto poteva essere notificato fino al 31/12/2025 (termine ordinario, essendo 5 anni dal 2021) oppure 31/12/2028 se l’evasione integra reato. Quindi l’orizzonte temporale di recupero può essere ampio (fino a 7-8 annualità pregresse, considerando anche l’anno in corso al momento dell’avvio accertamento).

Conseguenze per il contribuente: imponibili, sanzioni e rischi penali

Un accertamento di esterovestizione comporta effetti molto gravosi per il contribuente (società e spesso il suo amministratore/beneficiario). Riassumiamo le principali conseguenze:

  • Tassazione retroattiva dei redditi esteri in Italia: la società esterovestita viene trattata come se fosse sempre stata residente in Italia. Dunque deve assoggettare ad IRES tutti i suoi utili degli esercizi contestati (generalmente, l’Ufficio ricostruisce i ricavi e costi o si basa sui bilanci esteri adattati alle regole italiane). Se la società ha già pagato imposte in Slovenia su quegli utili, in teoria avrebbe diritto al credito per le imposte estere (art. 165 TUIR) per evitare doppia imposizione, ma spesso nei verbali tali crediti non vengono riconosciuti d’ufficio e andrebbero eventualmente richiesti/contestati dal contribuente. In ogni caso, di solito l’imposta italiana risulta più alta (differenza aliquote).
  • Applicazione di sanzioni tributarie elevate: come accennato, la sanzione per omessa dichiarazione dei redditi è pari al 120% dell’imposta evasa (minimo) fino al 240% (massimo). Anche considerando eventuali riduzioni (per adesione, acquiescenza, ecc.), si tratta di importi pesanti. Se ad esempio una società ha evaso €100.000 di IRES, la sanzione base sarà €120.000 (minimo) e potenzialmente €240.000. Inoltre, potrebbero sommarsi sanzioni per omessi versamenti IVA se del caso, sanzioni per infedele/omessa dichiarazione IRAP, sanzioni per mancata indicazione nel quadro RW di attività estere (se l’amministratore era tenuto a dichiarare partecipazioni estere), ecc. Il cumulo può portare l’esposizione complessiva a valori molto alti. NB: In sede di adesione o conciliazione giudiziale, le sanzioni possono essere ridotte (normalmente a 1/3).
  • Interessi di mora: gli interessi legali maturano giornalmente dal momento in cui le imposte avrebbero dovuto essere pagate (per IRES, dal mese di giugno/luglio dell’anno successivo a ciascun esercizio) fino alla data di notifica e oltre fino al pagamento. A tassi legali variabili (nel 2023-2025 attorno al 3-5%), su importi consistenti anche gli interessi diventano significativi.
  • Iscrizione a ruolo e riscossione: l’accertamento diventa titolo per la riscossione coattiva. Attenzione: con le norme attuali, se il contribuente propone ricorso, l’esecutività dell’atto è parzialmente sospesa ex lege, nel senso che l’Agenzia delle Entrate Riscossione (AdER, ex Equitalia) può intanto riscuotere un importo pari a circa 1/3 delle imposte accertate (e relativi interessi) in pendenza di giudizio di primo grado. Dopo la sentenza di primo grado, se ancora sfavorevole, si può riscuotere un ulteriore 1/3, e dopo secondo grado il residuo (questa è la regola generale di riscossione frazionata). Quindi, dal punto di vista del debitore, il fatto di impugnare non evita completamente l’esborso: occorre essere pronti a pagare almeno una quota (salvo ottenere una sospensione, come vedremo più avanti). Se invece non si impugna l’atto entro 60 giorni, questo diventa definitivo ed esecutivo per intero, con emissione di cartella di pagamento per l’intero importo dovuto. L’Agente della Riscossione ha facoltà di attivare misure cautelari (ipoteche su immobili, fermi amministrativi su automezzi) e procedure esecutive (pignoramenti) per recuperare il dovuto. Nel contesto di esterovestizione, in cui spesso l’importo è molto elevato, il rischio per il patrimonio personale dell’imprenditore è concreto – specie se la società estera non ha beni aggredibili in Italia.
  • Segnalazione penale e responsabilità personali: come anticipato, un caso di esterovestizione può sfociare in processo penale tributario. In particolare, se per uno degli anni l’imposta evasa (IRES + eventuale IVA) supera €50.000, scatta il reato di Omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000), punito con reclusione da 2 a 5 anni. Qualora invece il contribuente abbia presentato dichiarazione ma infedele (meno frequente in questi schemi), la soglia penale è imposta evasa > €100.000 o elementi attivi non dichiarati > 2 milioni (art. 4 D.Lgs. 74/2000). Spesso nell’esterovestizione la figura dell’amministratore di diritto o di fatto della società estera è quella che può essere indagata: se, ad esempio, Tizio ha amministrato di fatto la società slovena pur senza dichiarare nulla al Fisco, verrà imputato come autore dell’omessa dichiarazione (essendo equiparato al legale rappresentante di un soggetto obbligato a dichiarare in Italia). In alcune vicende sono stati contestati anche reati di dichiarazione fraudolenta o associazione per delinquere finalizzata all’evasione, specie se lo schema coinvolge più persone e fatturazioni fittizie, ma ciò esula dal nostro ambito. Qui basti dire che il rischio penale esiste e va valutato: la pendenza di un procedimento penale può complicare la difesa (necessità di coordinare strategia penale e tributaria) e comporta in prospettiva sanzioni detentive e interdittive, oltre all’obbligo di pagare un’ulteriore somma a titolo di confisca (pari al profitto dell’evasione) in caso di condanna penale definitiva. Dal 2019 alcuni reati fiscali gravi (es. dichiarazione fraudolenta) sono stati inseriti anche tra gli illeciti presupposto del D.Lgs. 231/2001, esponendo le società a responsabilità amministrativa, ma nel caso dell’esterovestizione la società incriminata sarebbe quella estera (non perseguibile ex 231) mentre di solito sono le persone fisiche ad essere perseguite.

In sintesi, l’accertamento per esterovestizione mette il contribuente di fronte a pretese erariali molto elevate (imposte arretrate + sanzioni + interessi) e possibili conseguenze penali. Pertanto, è indispensabile sin da subito approntare una difesa efficace, sia sul piano amministrativo (gestione del debito, eventuali richieste di rateazione, ecc.) sia soprattutto sul piano giuridico, per tentare di far valere le proprie ragioni ed evitare o ridurre il salasso fiscale.

Di seguito esamineremo le possibili strategie di difesa e gli strumenti a disposizione del contribuente “esterovestito” per tutelare i propri interessi.

Strategie di difesa e fasi del contenzioso (punto di vista del debitore)

Affrontare un’accertamento di esterovestizione richiede un approccio tempestivo e ben strutturato. Vediamo passo passo le opzioni difensive dal momento della ricezione dell’avviso di accertamento in poi, senza dimenticare alcune possibilità pre-contenziose.

Valutazioni iniziali e decisioni immediate

1. Consultare un professionista specializzato: appena ricevuto un PVC o un avviso di accertamento per esterovestizione, è fortemente consigliato rivolgersi a un avvocato tributarista o a un commercialista esperto in fiscalità internazionale. La materia è complessa e tecnica; un professionista potrà analizzare gli elementi contestati, valutare la solidità della posizione dell’Ufficio e delineare le possibili vie d’azione (adesione, ricorso, ecc.).

2. Verifica dei termini: prendete nota della data di notifica e calcolate i termini. Normalmente ci sono 60 giorni per presentare ricorso (che diventano 150 se la notifica è all’estero, ma se avete un domicilio fiscale in Italia vale 60). Se intendete valutare un accordo con l’ufficio (accertamento con adesione), potete presentare istanza di adesione entro 60 giorni, il che sospende i termini di ricorso per ulteriori 90 giorni. Attenzione: non far decorrere inutilmente i termini; anche se state trattando per adesione, preparate il ricorso per sicurezza in parallelo, in caso la trattativa fallisca.

3. Pagamento in misura ridotta (“acquiescenza”)?: una prima decisione da prendere è se accettare l’accertamento (integralmente o parzialmente) beneficiando delle riduzioni sanzioni previste per acquiescenza. Se ritenete la posizione indifendibile e preferite evitare il contenzioso, pagando entro 60 giorni potete ottenere la riduzione delle sanzioni a 1/3. Tuttavia, negli importi di solito in gioco nell’esterovestizione, difficilmente il contribuente è in grado di pagare immediatamente tutto, né trova conveniente rinunciare a difendersi. L’acquiescenza è consigliabile solo in casi in cui l’evidenza dell’esterovestizione è schiacciante e magari gli importi non sono eccessivi. Per contro, presentare ricorso permette spesso di guadagnare tempo (rateazione automatica del debito in tre scaglioni come detto) e possibilità di esito favorevole o transattivo.

4. Istanza di sospensione della riscossione: se l’importo accertato è enorme e temete azioni esecutive, valutate di chiedere la sospensione cautelare al giudice tributario (una volta presentato ricorso). Occorre dimostrare sia il fumus boni iuris (motivi validi del ricorso) sia il periculum (danno grave e irreparabile dalla riscossione, ad es. rischio fallimento). Il tribunale può sospendere in toto l’esecutività fino alla sentenza di primo grado. Questa richiesta si fa con istanza motivata contestuale al ricorso o anche successiva. Nel frattempo, potete anche presentare istanza di sospensione amministrativa all’AdER (che raramente la concede).

5. Comunicazione penale: se sapete di avere superato soglie penali, contattate anche un avvocato penalista. Non esiste una tempistica fissa per le mosse penali – l’Agenzia trasmette il fascicolo alla Procura, ma talvolta l’indagine parte in parallelo. Preparatevi al fatto che potrebbero arrivare convocazioni dalla Guardia di Finanza come polizia giudiziaria o sequestri preventivi sui beni (la Procura può chiedere sequestro per equivalente pari all’imposta evasa). La strategia penale potrebbe consigliare (in accordo col tributarista) di iniziare a sanare il debito pagando il dovuto o aderendo, perché l’estinzione del debito può attenuare la posizione penale (talora con causa di non punibilità per particolare tenuità se importi modesti, o almeno come attenuante).

Accertamento con adesione: negoziare con l’Ufficio

L’accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997) è uno strumento che consente al contribuente e all’Ufficio di “trattare” una definizione concordata dell’accertamento, evitando il contenzioso. Presentando un’istanza di adesione all’Agenzia (direzione provinciale che ha emesso l’atto) entro 60 giorni dalla notifica, si apre una fase di dialogo: si viene convocati (di solito entro 90 giorni) per un contraddittorio. In tale sede, potete portare documenti e argomentazioni all’attenzione dei funzionari, cercando di ottenere una riduzione della pretesa.

Pro di questa via: le sanzioni vengono automaticamente ridotte a 1/3 (quindi, per omessa dichiarazione, dal 120-240% al 40-80%). Inoltre, l’adesione consente anche di eventualmente spuntare qualche abbattimento su imposte o imponibili, se l’Ufficio riconosce elementi a vostro favore (es. costi deducibili non considerati, credito per imposte estere, ecc.). In un contesto di incertezza sulla prova, talvolta l’Ufficio preferisce chiudere con il contribuente con reciproche concessioni.

Contro: bisogna comunque riconoscere la propria posizione ed evitare il ricorso, quindi accettare di pagare (anche se a sanzioni ridotte). Se ritenete di avere buone chance in giudizio, l’adesione potrebbe farvi perdere l’occasione di annullare l’atto. Inoltre, se parallelemente c’è un procedimento penale, aderire potrebbe equivalere ad ammettere i fatti (va valutato con cautela).

Nella pratica, per casi di esterovestizione, l’adesione può essere tentata ma spesso il Fisco potrebbe essere poco incline a sconti significativi sull’imposta (sulle sanzioni sì, per legge). Dipende dalla forza delle prove: se voi in contraddittorio esibite documenti convincenti (es. contratti di affitto uffici in Slovenia, buste paga di dipendenti sloveni, ecc.) potreste persuadere i funzionari a rimodulare l’accertamento (ad esempio, limitandolo ad alcuni anni, o riconoscendo attenuanti). Se invece la controparte ha in mano prove solide (e magari coordinamento col penale), sarà meno propensa a trattare.

In caso di accordo, si redige un atto di adesione con le somme dovute. Il pagamento va fatto entro 20 giorni (o prima rata entro 20 giorni, con possibilità di rate trimestrali fino a 8 rate se importo >€50k). L’adesione chiude la partita per quei periodi, precludendo ricorsi successivi.

Il ricorso in Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria)

Se non si è aderito (o la trattativa è fallita), occorre predisporre il ricorso tributario. Dal 2023 le Commissioni Tributarie hanno cambiato nome in Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, ma la sostanza del processo resta simile (salvo alcune innovazioni, come la possibilità di sentire testimoni in casi particolari). Il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (se c’è stata istanza di adesione, i 60 gg decorrono dalla eventuale notifica di esito negativo o dalla scadenza dei 90 gg di sospensione + 60 residui). È un atto che deve contenere i motivi di impugnazione, i fatti e le richieste.

Principali motivi di ricorso nel merito (esterovestizione):

  • Insussistenza dei presupposti di legge: contestate l’errata applicazione dell’art. 73(5-bis) TUIR se l’Ufficio lo ha invocato indebitamente. Ad esempio, se la vostra società slovena non detiene partecipazioni italiane ma l’Agenzia ha ugualmente parlato di presunzione, evidenziate che la norma non è applicabile. Questo è un punto di diritto importante.
  • Libertà di stabilimento UE: se pertinente, argomentate che la vostra struttura non è una costruzione di puro artificio e che una riqualificazione aggressiva viola i principi UE. Citare giurisprudenza (Cadbury, Cass. 1883/2023) a supporto che solo entità senza attività reale possono essere ignorate.
  • Nel merito, mancanza di prova della sede effettiva in Italia: qui bisogna smontare gli indizi presentati dal Fisco e/o opporre le prove contrarie. Ad esempio: l’Ufficio afferma che non avevate ufficio in Slovenia? Produrre contratto di affitto, foto degli uffici, fatture di utenze, ecc. Contesta che non avevate dipendenti? Mostrare contratti di lavoro, attestati previdenziali sloveni, etc. Dice che l’amministratore risiede in Italia? Sì, ma magari dimostrate che viaggiava frequentemente in Slovenia, e che esiste un co-amministratore locale che seguiva le operazioni. Ogni elemento indiziario va analizzato e, se possibile, confutato o minimizzato. Ad esempio, se la GdF vi ha contestato che la contabilità era tenuta in Italia dallo studio Caio, potreste sostenere che ciò avveniva solo per praticità, ma le decisioni di gestione erano prese in Slovenia e la contabilità veniva poi registrata secondo le normative locali (magari con traduzioni, etc.). L’idea è creare un quadro di sostanza economica estera e/o di incertezza sulla reale ubicazione della sede effettiva, sufficiente a far venire meno la “gravità, precisione e concordanza” degli indizi accusatori.
  • Valutazione atomistica vs globale delle prove: spesso l’Ufficio (e talvolta i giudici di merito) commettono l’errore di concentrarsi su un singolo elemento. Richiamate il principio espresso dalla Cassazione per cui gli indizi vanno considerati nel complesso e in modo coerente. Ad esempio, Cass. 2458/2025 ha censurato la CTR che si era soffermata solo sul certificato di residenza estera trascurando tutti gli altri elementi. Ugualmente, se l’Ufficio ha enfatizzato solo un aspetto (es. amministratore italiano) ma ignorato altri (es. attività svolta davvero in Slovenia), sottolineate questa carenza metodologica.
  • Errori procedurali o formali: non trascurate eventuali vizi dell’avviso: è stato notificato correttamente? Contiene la motivazione adeguata? Avete avuto la garanzia del contraddittorio (specie se c’è PVC, l’ufficio ha atteso 60 gg)? Se vi sono vizi procedurali (nullità, decadenze), vanno eccepiti subito.

Onere della prova in giudizio: in linea generale, spetta all’Amministrazione provare il fatto costitutivo della pretesa, ossia che la società è di fatto residente in Italia. La Cassazione ha affermato che nelle contestazioni di esterovestizione (fuori presunzione) l’onere è del Fisco, il quale può utilizzare presunzioni semplici purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Voi come contribuente non siete tenuti a provare la vostra innocenza, ma è chiaro che produrre prove difensive è essenziale per vincere. Se poi era applicato l’art. 73(5-bis), l’onere si capovolge e tocca a voi dare la prova contraria; in tal caso la vostra attività probatoria diventa ancora più decisiva.

Nota sull’audizione di testimoni: fino a poco fa, nel processo tributario italiano vigeva il divieto di prova testimoniale. Con la riforma 2022/2023, è stata introdotta una possibilità limitata di assumere testimonianze, su istanza di parte, ma solo tramite dichiarazioni scritte giurate e in casi specifici (la norma è l’art. 7, c.5-bis D.Lgs. 546/92). Quindi, se avete persone (es. un consulente sloveno, un dipendente estero) che possano attestare determinati fatti, potreste valutare di acquisire dichiarazioni da far valere. Tuttavia, la procedura è complessa e la loro efficacia è limitata rispetto ai documenti.

Il giudizio di primo grado si svolgerà presumibilmente presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente in base al vostro domicilio fiscale (se siete persona fisica) o sede (se fosse riconosciuta italiana) o, in caso di soggetto estero senza sede in Italia, quella del luogo di notifica o dell’ufficio che ha emesso l’atto (spesso la Direzione Regionale o Provinciale dove hanno sede le società controllate o il domicilio dell’amministratore). Si tratta di un processo in cui la fase scritta è prevalente: depositato il ricorso e la costituzione in giudizio dell’Ufficio (entro 60 gg dal ricorso), potete replicare con memorie e produrre ulteriori documenti fino a 20 giorni prima dell’udienza. All’udienza, di solito, c’è discussione orale sintetica. La decisione segue entro qualche mese.

Se la sentenza di primo grado vi è favorevole, l’accertamento viene annullato (in tutto o in parte). L’Amministrazione potrebbe appellare, ma intanto potreste chiedere lo sgravio e il rimborso di quanto eventualmente pagato (per la parte di imposte annullate). Se invece siete sconfitti in primo grado, si può presentare appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. Il secondo grado è un riesame di merito, in cui potete far valere errori dei primi giudici e riproporre le vostre ragioni. La durata può essere di 1-2 anni.

Oltre al merito, non dimenticate che in ogni fase è possibile trovare un accordo transattivo con l’Agenzia: conciliazione giudiziale. Potete proporla già in primo grado (entro l’udienza): se si trova un accordo, si chiude la lite con un atto di conciliazione, pagando il concordato (sanzioni ridotte al 1/3). In secondo grado è possibile solo conciliazione fuori udienza con sanzioni 1/2. Valutate questa opzione se il processo prende una piega sfavorevole o se l’Ufficio mostra apertura.

Infine, dopo l’appello, c’è l’eventuale ricorso per Cassazione (entro 60 gg dalla notifica della sentenza di appello). Qui si discutono solo errori di diritto, non più i fatti: ad esempio, la violazione di norme (TUIR, principi UE, onere della prova mal ripartito, ecc.). La Cassazione, se vi dà ragione, può cassare senza rinvio (se la causa è definibile) o con rinvio a altra CGT di secondo grado.

Vale la pena segnalare alcune pronunce della Cassazione recenti che costituiscono precedenti utili per la difesa:

  • Cass. 3386/2024: ha stabilito che la riqualificazione della residenza fiscale di una società estera (nel caso, UK) esplica effetti anche su imposte indirette come quella di registro, a conferma che l’esterovestizione è un fenomeno trasversale. Ha ribadito inoltre la definizione stessa di esterovestizione: si ha quando la società ha in Italia la sede effettiva dell’amministrazione, pur avendo collocato formalmente la residenza all’estero per fruire di un regime più vantaggioso. In tale sentenza, la Cassazione ha annullato la decisione di secondo grado che aveva erroneamente preteso la prova della residenza estera da parte dell’Ufficio, mentre bastavano gli indizi gravi presentati (assenza di uffici e personale estero, amministratore unico in Italia, etc.). Questo precedente insegna che un insieme di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, valutati globalmente, può bastare a dimostrare l’esterovestizione. E che il giudice non deve richiedere prove impossibili (la “prova diabolica” di dove fosse la residenza) ma valutare il quadro indiziario nel suo complesso.
  • Cass. 14485/2024: (Sez. Trib.) ha sottolineato che i giudici di merito devono esaminare tutti gli indizi di esterovestizione in modo approfondito, senza tralasciarne alcuni; ha richiamato il dovere di valutazione globale e non atomistica e l’importanza di motivare adeguatamente la decisione alla luce di tutti i fatti.
  • Cass. 2458/2025: caso di società nelle Antille Olandesi controllata da italiani, ha enunciato principi analoghi: definizione di esterovestizione come localizzazione fittizia all’estero di società con sede amministrativa in Italia per finalità fiscali; utilizzo delle presunzioni semplici ammesso se gli indizi sono valutati unitariamente e sono gravi, precisi, concordanti. Ha cassato la sentenza di merito che aveva dato peso eccessivo ad un certificato di residenza estero, omettendo la valutazione congiunta di plurimi elementi offerti dal Fisco (composizione organo amministrativo, controllo italiano totalitario, ecc.). Ciò rafforza la tesi difensiva che un semplice certificato formale non può da solo prevalere su una molteplicità di indizi sostanziali.
  • Cass. 1883/2023: già citata, ha chiarito la distinzione UE/extra-UE e confermato che un’esterovestizione in Paese UE va provata come costruzione artificiosa e non può essere dedotta solo perché si gode di fiscalità privilegiata. In quel caso specifico, avendo rilevato che gli elementi indiziari della sede effettiva in Italia non erano sufficienti (per inconsistenza degli stessi), la Cassazione ha dato ragione al contribuente confermando l’annullamento dell’accertamento. Ciò dimostra che non sempre il Fisco riesce a provare l’esterovestizione, soprattutto se i fatti lasciano margini di dubbio (l’onere probatorio non assolto dall’Ufficio porta alla vittoria del contribuente).

Questi principi vanno opportunamente inseriti nel ricorso e nelle memorie, così da orientare i giudici di merito verso una corretta analisi.

Tabella 2 – Indizi tipici di esterovestizione vs. possibili prove difensive

Indizi addotti dal Fisco (pro Esterovestizione)Elementi di difesa (pro Residenza estera effettiva)
Amministratore unico o maggioranza del CdA residente in Italia.Controfatti: presenza di amministratori locali effettivamente coinvolti nella gestione; verbali CdA tenuti in Slovenia; deleghe di poteri operative a residenti esteri.
Nessuna sede operativa reale in Slovenia (mancano uffici propri, utenze, ecc.).Controfatti: contratto di affitto di uffici in Slovenia, bollette e utenze intestate alla società; foto e descrizioni dei locali aziendali; targa o insegna presso la sede estera.
Nessun dipendente o organico locale; costi amministrativi nulli in loco.Controfatti: contratti di lavoro con dipendenti sloveni, buste paga, contributi versati in Slovenia; contratti con fornitori locali (commercialista, servizi, etc.).
Attività concentrata in Italia (es. beni stoccati in Italia, operazioni su clienti italiani).Controfatti: dimostrare attività anche verso clienti esteri; spiegare logistica (es. merce in conto deposito in Italia per servire clientela, ma vendita gestita da Slovenia); contratti che provano il ruolo attivo della struttura estera.
Contabilità e amministrazione svolte di fatto in Italia (es. da consulenti italiani).Controfatti: evidenziare che la contabilità è tenuta secondo leggi slovene (anche se da remoto); eventuale doppia contabilità (esterna vs interna); dimostrare che decisioni aziendali non coincidevano con la tenuta conti.
Utili non distribuiti o fatti rientrare in Italia occultamente (es. prelievi cash con carte estere in Italia).Controfatti: giustificare i movimenti finanziari; dimostrare reinvestimento utili all’estero; assenza di benefici personali in Italia provenienti dalla società (o loro legittima natura se presenti).
Documenti societari poco trasparenti (sede estera “virtual office”, asset intangible).Controfatti: produzione di ogni documento ufficiale (visura, certificati) per attestare regolarità; eventuale perizia su effettivo svolgimento di attività economica (es. volumi di affari reali in Slovenia).
(Se applicabile) Presunzione art. 73(5-bis) soddisfatta: holding di società italiane + controllo/gestione italiana.Controfatti: contestare la sussistenza dei requisiti (es. non c’è partecipazione di controllo in soggetti italiani, quindi presunzione non operante); provare che, pur essendo controllata da italiani, la società estera svolge attività propria reale (non mero assetto).

N.B.: La strategia difensiva vincente spesso consiste nel fornire una narrazione alternativa credibile: la vostra società slovena non è un “fantasma” creato per pagare meno tasse, ma un’entità autentica con una logica di business valida (es. vicinanza a fornitori dell’Est Europa, costo del lavoro inferiore, mercato locale da servire, ecc.) e con una gestione effettivamente svolta (almeno in buona parte) fuori dall’Italia. Se riuscite a veicolare questa narrazione con riscontri documentali, mettendo in dubbio o minimizzando gli indizi avversi, aumentano le chance che il giudice accolga il vostro ricorso o almeno riduca l’accertamento.

Strumenti “paralleli” e prevenzione per il futuro

Difesa penale: qualora vi sia un procedimento penale in corso, la strategia nel contenzioso tributario deve essere coordinata con quella difensiva penale. Spesso conviene, se possibile, ottenere un esito positivo nel tributario, poiché una sentenza della Commissione Tributaria che vi dà ragione (escludendo l’esterovestizione) sarebbe una prova importante dell’assenza di dolo evasivo, potenzialmente facendo venir meno l’elemento materiale del reato (nessuna evasione d’imposta). Viceversa, attenzione che eventuali dichiarazioni rese in sede di adesione o di ricorso (memorie) potrebbero essere acquisite in sede penale. È opportuno farsi assistere da professionisti che tengano conto di entrambi i fronti.

Regolarizzazione spontanea: se vi rendete conto di essere effettivamente in una posizione indifendibile (società fittizia), potreste valutare strumenti di regolarizzazione come il ravvedimento operoso o la collaborazione volontaria. Purtroppo, in presenza di un accertamento già notificato, il ravvedimento non è più ammesso per quei periodi/imposte. In passato, scudi o voluntary disclosure erano utilizzabili per sanare situazioni estere, ma attualmente non vi sono programmi aperti. Potreste tuttavia sanare anni non ancora accertati presentando dichiarazioni integrative (sempre che non siano già stati attivati controlli su di essi).

Ruling internazionale o interpello per il futuro: se la questione della residenza permane controversa (ad esempio, intendete continuare ad operare con la società slovena), considerate di ottenere certezza per il futuro. Purtroppo l’interpello ordinario sulla residenza fiscale viene dichiarato inammissibile dall’Agenzia (non è ammesso chiedere “dove ho la residenza fiscale”, la risposta sarebbe fattuale). Tuttavia, esistono strumenti come l’Advance Tax Ruling per nuovi investimenti (art. 2 DL 147/2015) se avete progetti di ampio importo, oppure l’adempimento collaborativo (cooperative compliance) se siete un gruppo di grandi dimensioni. In pratica, se l’investimento in Slovenia fa parte di un piano di investimento in Italia ≥15 milioni, potete chiedere all’Agenzia un parere che includa anche aspetti di residenza. Non aspettatevi però che l’Agenzia scriva nero su bianco “va bene così”; al massimo, vi confronterete e capirete che assetti prediligere per non incorrere in problemi (es. nominare amministratori locali, ecc.). In sostanza, è consigliabile farsi assistere ex ante da consulenti per strutturare correttamente la presenza estera, in modo da evitare che sia considerata fittizia.

Conclusione della difesa: dal punto di vista del “debitore” esterovestito, cosa fare quindi in sintesi? Attivarsi subito, non sottovalutare la contestazione (che è di natura molto seria), raccogliere ogni prova a discolpa, sfruttare gli strumenti deflativi se opportuno, e combattere in giudizio con tutti gli argomenti giuridici e fattuali disponibili. La complessità di queste cause è elevata, ma come si è visto la giurisprudenza non sempre dà ragione al Fisco: se il contribuente riesce a dimostrare una parvenza di sostanza economica estera e a mettere in dubbio la “frode”, i giudici possono annullare l’accertamento. Viceversa, se la realtà dei fatti conferma che era tutto orchestrato dall’Italia, è probabile che alla fine il contribuente dovrà pagare il conto (magari con qualche riduzione).

Nei capitoli seguenti, per meglio illustrare l’applicazione concreta di queste regole, proponiamo alcune simulazioni pratiche di casi tipici di esterovestizione con coinvolgimento della Slovenia, seguite da una sezione di Domande e Risposte frequenti.

Simulazioni pratiche (casi esemplificativi in Italia)

Di seguito presentiamo alcune simulazioni di casi pratici riguardanti società con sede in Slovenia potenzialmente esterovestite, esaminando come si potrebbe svolgere l’accertamento e quale difesa potrebbe essere opposta. Si tratta di esempi ipotetici ma realistici, utili per capire l’applicazione sul campo delle norme discusse. Tutte le situazioni riguardano rapporti Italia-Slovenia, quindi in ambito UE.

Caso 1: “Consulenza Slovena, ufficio in salotto”
Scenario: Mario Rossi, residente a Udine, costituisce nel 2022 la “Rossi Consulting d.o.o.” a Capodistria (Slovenia), di cui è amministratore unico e socio al 100%. La società offre consulenze informatiche e ha come principali clienti alcune PMI italiane. In Slovenia, Mario non ha un ufficio vero e proprio: usa un indirizzo di comodo fornito da un service (ufficio virtuale) e non ha dipendenti. Lui svolge il lavoro da casa sua a Udine, recandosi in Slovenia solo sporadicamente per adempimenti burocratici. La contabilità viene tenuta da un commercialista italiano. I ricavi annui sono circa 200.000 €, con utili tassati in Slovenia al 19%. In Italia Mario dichiara solo il suo stipendio minimale come amministratore. Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate avvia un controllo incrociato: nota che Mario risulta amministratore di una società estera e che spende somme in Italia non compatibili col suo reddito dichiarato. Viene contestata l’esterovestizione per gli anni 2022-2023.

Contestazione Fiscale: Il PVC della Guardia di Finanza rileva che la società è priva di sostanza in Slovenia: nessuna sede effettiva (indirizzo presso uno studio, mai utilizzato da Mario), nessun dipendente, tutti i clienti e fornitori sono italiani. Mario vive stabilmente in Italia e lì svolge l’attività di consulenza (via computer). Tutte le decisioni – essendo egli amministratore unico – sono prese in Italia. Si conclude che la sede di direzione effettiva coincide con la sua residenza (Udine). Inoltre si evidenzia che l’unica ragione dello schema è pagare 19% invece che ~50% complessivo (IRES+IRPEF) che avrebbe pagato se avesse operato come ditta individuale in Italia. Applicando l’art. 73(3) TUIR, si considera la Rossi d.o.o. residente in Italia. Non si applica il 5-bis perché la società non controlla soggetti italiani (è un’operativa). L’accertamento liquida IRES 2022 e 2023 su 200k € di redditi (aliquota 24%), più IRAP (3.9%), meno quanto versato in Slovenia come credito (che l’Ufficio in questo caso riconosce per evitare doppia imposizione economica), sanzione omessa dichiarazione 150% (mediamente) e interessi. Totale importo preteso: circa 48.000 € imposte + 72.000 € sanzioni = 120.000 € (interessi esclusi). Segnalazione penale per omessa dichiarazione (imposte evase ~48k > 50k solo considerando due anni cumulati, penalmente conta per anno ma supponiamo 2023 fosse >50k da solo, così scatta reato).

Difesa di Mario (con il suo avvocato): Consapevole della difficoltà, Mario valuta di non impugnare il merito (in effetti sa di aver gestito tutto dall’Italia) ma punta a ridurre il danno. Presenta istanza di accertamento con adesione: al tavolo con l’Agenzia ottiene di eliminare l’IRAP (sostiene che non c’era autonoma organizzazione in Italia, era solo lui a lavorare) e di calcolare una sanzione minima al 120%. Inoltre, facendo leva sul fatto che ha già pagato il 19% in Slovenia, ottiene un piccolo sconto sull’IRES per riconoscergli più credito d’imposta. Alla fine concorda di pagare circa 40.000 € tra imposte e interessi e 16.000 € di sanzioni (ridotte a 1/3 per adesione: 40k*120%/3). Totale ~56.000 €, rateizzabili in 8 rate trimestrali da ~7.000 €. Mario accetta perché teme anche il penale: con l’adesione, paga il dovuto e subito il suo legale sfrutta ciò in Procura per chiedere l’archiviazione per particolare tenuità (poco sopra soglia) o almeno il patteggiamento con pena mite. Se l’adesione fosse saltata, probabilmente Mario avrebbe avuto scarsissime chance in causa: il suo è un caso da manuale di esterovestizione, con tutti gli indizi contro e zero sostanza estera. In questa simulazione, la difesa migliore è stata negoziare e chiudere presto, limitando sanzioni e conseguenze penali.

Caso 2: “Produzione delocalizzata con management italiano”
Scenario: Alfa S.p.A. è un’azienda manifatturiera di Padova. Nel 2019 apre una consociata in Slovenia, Beta d.o.o., per sfruttare il minor costo del lavoro: trasferisce lì una parte della produzione di componenti. Beta d.o.o. ha uno stabilimento vero a Maribor con 50 operai locali. Formalmente Alfa S.p.A. possiede il 100% di Beta d.o.o.; il CdA di Beta è composto da 3 membri: 2 dirigenti di Alfa (residenti a Padova) e 1 sloveno (direttore di stabilimento). Le decisioni strategiche su budget, investimenti e politiche commerciali di Beta sono prese dalla capogruppo Alfa, che impartisce istruzioni; il direttore locale gestisce il day-by-day produttivo. Beta vende i semilavorati ad Alfa; genera utili tassati al 19%. Nel 2025, l’Agenzia verifica Alfa S.p.A. e sospetta che Beta sia esterovestita, ipotizzando che in realtà Beta sia solo un’estensione di Alfa con sede effettiva in Italia (presso Alfa stessa). Contestano l’esterovestizione di Beta per gli anni 2020-2024, applicando la presunzione art. 73(5-bis) TUIR: Beta detiene partecipazioni (nessuna, in realtà Beta è partecipata, non partecipante – qui la presunzione 5-bis tecnicamente non si applicherebbe perché Beta è la controllata estera, non una holding; ma ipotizziamo l’Ufficio confonda i ruoli e provi ad applicarla inversamente, oppure consideri Beta come “esterovestita” non via presunzione ma via fatti).

Contestazione Fiscale: L’Agenzia delle Entrate evidenzia che Beta d.o.o. è interamente controllata da Alfa (italiana) e amministrata in maggioranza da italiani. Quindi, sostiene, è presumibilmente residente in Italia (qui l’Ufficio prova ad applicare il 5-bis analogicamente). In subordine, anche senza presunzione, ritiene che Beta abbia la sede di direzione effettiva a Padova, dove Alfa decide tutto (Beta non ha autonomia strategica, funge da mera “fabbrica” per Alfa). Vengono recuperati a tassazione gli utili di Beta (non dichiarati in Italia) per 5 anni, circa €1 milione di imponibile, con IRES e sanzioni annesse. Alfa viene chiamata come coobbligata (essendo controllante che avrebbe beneficiato dei profitti).

Difesa di Alfa/Beta: La posizione qui è più sfumata rispetto al Caso 1. Beta ha substance (stabilimento e dipendenti reali in Slovenia). Il nodo è se la sua gestione può considerarsi estera o no. I legali di Alfa impostano la difesa così:

  • Contestano formalmente l’applicabilità dell’art. 73(5-bis) perché Beta non detiene partecipazioni in Italia (è controllata, non controllante). Citano la risposta AdE 164/2023: la norma colpisce le holding estere, non le controllate operative. Quindi l’onere della prova rimane a carico del Fisco.
  • Sul merito, ammettono che Alfa indirizza Beta, ma sottolineano che Beta svolge un’effettiva attività economica in Slovenia: 50 operai, produzione di beni, vendite (anche a terzi minori, se presenti). La direzione operativa quotidiana è in mano al direttore sloveno. La presenza di due consiglieri italiani nel CdA è fisiologica data la proprietà, ma le riunioni del CdA si tengono sia a Padova che a Maribor (presentano verbali, alcuni in Slovenia). Sostengono che Beta non è un guscio fittizio, bensì una stabile organizzazione produttiva. Se proprio, dicono, l’Ufficio avrebbe dovuto contestare prezzi di trasferimento o stabile organizzazione di Alfa in Beta, non la residenza di Beta.
  • Richiamano la libertà di stabilimento: Beta non è costruzione artificiosa perché impiega risorse e produce valore aggiunto in Slovenia (non è un caso Cadbury di società “cash box”).
  • Offrono volontariamente una documentazione assai dettagliata su Beta: bilanci con evidenza di costi locali significativi (stipendi, utilities), contratti di fornitura energia, foto dello stabilimento con i macchinari. Ciò per convincere i giudici che non è un’esterovestizione classica, ma un caso di delocalizzazione produttiva genuina. L’obiettivo è far apparire Beta come autonoma realtà imprenditoriale (sebbene controllata).

Nel processo, magari viene anche sentito come testimone il direttore sloveno, il quale dichiara che egli prende decisioni su produzione, che Alfa non interviene se non su grandi linee di budget. La Commissione, alla luce di tutto, potrebbe ragionare così: “Sì, il controllo italiano c’è, ma Beta non pare una scatola vuota, opera davvero. Dunque non è dimostrato che la residenza fiscale sia in Italia; Beta può restare considerata slovena.” In conclusione, in questa simulazione la difesa riesce e l’accertamento viene annullato. L’Agenzia potrebbe a quel punto ripiegare su altre azioni (ad esempio, verificare i prezzi di trasferimento tra Alfa e Beta, o accertare in capo ad Alfa utili occulti se sospettano che Alfa sposti troppi utili a Beta). Ma la contestazione di esterovestizione pura, in presenza di substance, è alquanto ardua da sostenere in giudizio. Questo caso mostra l’importanza, per le società, di avere autonomia operativa all’estero: se Beta fosse stata completamente priva di personale, Alfa avrebbe perso; con 50 operai, la storia cambia.

Caso 3: “La holding personale in Slovenia”
Scenario: Un facoltoso imprenditore italiano, Giovanni Bianchi, nel 2018 costituisce una Holding slovena, SlovenHold d.o.o., con sede a Lubiana. SlovenHold non ha dipendenti né uffici propri (domiciliata presso uno studio legale sloveno), ma possiede quote in due società italiane di famiglia (Bianchi S.r.l. al 60% e Beta S.r.l. al 40%). Giovanni e i suoi familiari risiedono tutti in Italia e tramite SlovenHold raccolgono i dividendi delle aziende italiane, pagando in Slovenia (dove la holding è tassata). Il CdA di SlovenHold è composto da Giovanni e sua moglie (entrambi residenti in Italia). Nel 2024 l’Agenzia avvia controlli antiriciclaggio e scopre questo schema: subito contesta l’esterovestizione di SlovenHold per gli anni 2019-2023.

Contestazione Fiscale: Caso da manuale per l’art. 73(5-bis) TUIR: SlovenHold detiene partecipazioni di controllo in soggetti italiani e è controllata da italiani e amministrata da italiani. La presunzione legale si applica in pieno. L’avviso di accertamento dichiara SlovenHold residente in Italia e recupera a tassazione i dividendi incassati, come se fossero stati percepiti da una holding italiana (quindi soggetti a tassazione del 95% esente? Attenzione: i dividendi percepiti da una società italiana sono tassati solo per il 5% del loro ammontare, ma se la holding estera non ha mai dichiarato nulla, l’Ufficio potrebbe tassare il 100% come reddito non dichiarato – però trattandosi di dividendi, credo applicherebbero comunque la regola del 5% imponibile. Comunque, accertano IRES su tale base, più sanzioni e interessi). Giovanni in solido come amministratore viene chiamato.

Difesa di Giovanni/SlovenHold: Onere della prova a loro. Cercano possibili appigli: “SlovenHold non è un guscio, ha deliberato investimenti in Slovenia”. Ma in realtà non ha nulla. Provano a sostenere che la holding ha ragione economica extrafiscale (es. attrarre partner internazionali, image – argomenti fragili). Portano un certificato di residenza fiscale sloveno – inutile da solo. Forse invocano la convenzione Italia-Slovenia: secondo il trattato, la residenza in caso di doppia attribuzione va risolta d’accordo tra autorità, quindi finché la Slovenia la considera residente solo lì, loro chiedono di attendere esito MAP (Mutual Agreement Procedure). Ma l’Agenzia può replicare che la convenzione non impedisce di accertare, al massimo se Giovanni avvia una MAP potrà poi forse evitare doppia imp. Esito: è probabile che la difesa fallisca. Questo scenario è proprio quello per cui la norma è nata: holding estera di comodo. Cassazione su casi simili (es. le famose sentenze “Dolce & Gabbana” su holding in Lussemburgo) ha dato ragione al Fisco, ritenendole costruzioni elusive. Giovanni, se è accorto, potrebbe cercare almeno di transigere: adesione o conciliazione per ridurre sanzioni al 1/3. Se l’importo è alto, forse anche patteggiare penalmente (per reati come dichiarazione infedele o omessa). Imparerebbe la lezione che questo schema in era di trasparenza non funziona più.

Questi casi evidenziano differenti situazioni: dal piccolo imprenditore-consulente che usa la Slovenia come “schermo” personale (altissimo rischio, facilmente contestabile), alla multinazionale domestica che delocalizza parte del business (rischio minore se c’è sostanza), fino alla holding puramente finanziaria (rischio elevatissimo, facilmente individuabile e contestabile con la presunzione).

Domande Frequenti (FAQ)

Infine, proponiamo una serie di domande comuni sul tema dell’esterovestizione di società estere (in particolare in Slovenia) e le relative risposte, per chiarire i dubbi più ricorrenti di imprenditori e professionisti.

Domanda: Che cosa si intende esattamente per “esterovestizione” di una società?
Risposta: Con il termine esterovestizione si indica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società che in realtà ha il proprio centro direttivo/gestionale in Italia. In pratica è quando una società appare “vestita da straniera” (costituita e formalmente con sede legale fuori dai confini), ma sotto il vestito opera e viene amministrata dall’Italia, con il solo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale. Non ogni società estera fondata da italiani è esterovestita: lo è solo se la sede estera è una facciata e la realtà gestionale è rimasta in Italia. In tal caso, la legge fiscale italiana ignora la veste estera e considera la società come residente in Italia (tassandola qui sui redditi ovunque prodotti).

Domanda: La Slovenia ha tasse più basse: non posso liberamente aprire lì la mia società per pagare meno imposte? Non è libertà di stabilimento in UE?
Risposta: Certamente ogni cittadino UE ha diritto di stabilire un’attività in qualsiasi Stato membro, anche perché offre un regime fiscale più vantaggioso – questo è parte della libertà di stabilimento garantita dai Trattati. Quindi non è illegale in sé costituire una società in Slovenia per beneficiare, ad esempio, di un’IRES al 19% anziché 24% italiana. Tuttavia, tale scelta è legittima solo se la società in Slovenia è autentica, cioè svolge effettivamente attività economica lì e non è una pura costruzione artificiosa volta a reincanalare redditi che di fatto sono generati in Italia. In altre parole: se trasferisco realmente parte del business in Slovenia (produzione, uffici, dipendenti) sto esercitando la libertà di stabilimento genuinamente; se invece creo solo un guscio in Slovenia e continuo a fare tutto dall’Italia, sto abusando di quella libertà e l’Italia può tassarmi come se fossi rimasto qui. La Cassazione ha proprio sancito che l’Italia può contrastare la libertà di stabilimento solo in presenza di “costruzioni di puro artificio” finalizzate a eludere la sua normativa. Dunque, l’apertura di una società in Slovenia è lecita ma deve avere sostanza e scopi economici reali. Se è un simulacro, verrà ignorata dal Fisco italiano.

Domanda: Quali sono gli indizi che utilizza il Fisco per dire che la mia società estera è in realtà italiana?
Risposta: Gli indizi più frequenti, emersi anche dalla casistica giurisprudenziale, includono: amministratori o soci italiani residenti in Italia (specie se hanno ruoli operativi forti); assenza di una struttura operativa all’estero (niente uffici fisici, nessun dipendente locale, nessun costo significativo in loco); operatività concentrata in Italia (clienti quasi esclusivamente italiani, beni o attività svolte in Italia, es. magazzini, cantieri, etc., riconducibili alla società estera); decisioni aziendali tracciabili in Italia (riunioni tenute in Italia, documenti firmati in Italia, email che mostrano che le direttive partono da qui); utilizzo di professionalità italiane (es. contabilità curata da un commercialista italiano, gestione amministrativa delegata a studi in Italia); flussi finanziari che riportano utilità in Italia (dividendi alla persona fisica italiana senza tassazione, spese personali pagate con conti esteri). Anche la funzione di mera holding di aziende italiane è un indizio molto forte (tanto da essere formalizzato nella presunzione di legge). Nessuno di questi elementi da solo è prova assoluta, ma se ve ne sono parecchi e concordanti, l’Amministrazione li considera segnali di esterovestizione. Ad esempio, se la società slovena di Tizio: ha sede presso uno studio (senza uffici propri), è amministrata da Tizio che vive a Milano, fattura per lo più a clienti italiani, non ha dipendenti in Slovenia – ecco, messi insieme questi fatti fanno praticamente certezza di esterovestizione. Viceversa, se l’unico indizio è che l’amministratore è italiano ma tutto il resto (uffici, impiegati, mercato) è in Slovenia, quello non basta per una contestazione vincente.

Domanda: Cosa può costituire prova contraria per difendersi da un’accusa di esterovestizione?
Risposta: La prova contraria deve mirare a dimostrare che la società estera ha una sede effettiva all’estero e/o svolge attività economica reale fuori d’Italia. In pratica, occorre portare elementi che attestino l’autonomia e sostanza della struttura estera: contratti di locazione di uffici all’estero, bollette, fotografie e descrizioni dei locali adibiti a sede; contratti di lavoro e buste paga di personale locale; documenti che provino che le decisioni societarie vengono prese all’estero (verbali di assemblea e CdA firmati lì, calendari di meeting, biglietti aerei che dimostrano che i dirigenti italiani vanno regolarmente in Slovenia per riunioni, etc.); copia di libri sociali e contabili tenuti presso la sede estera (meglio se in lingua locale, a riprova che la gestione è collocata lì); contratti con clienti o fornitori esteri, a indicare che l’attività non è rivolta solo all’Italia; insomma, qualunque elemento che dipinga la società estera come inserita realmente nel tessuto economico locale e con una gestione amministrativa fuori dall’Italia. Inoltre, se applicano la presunzione 5-bis (holding), la prova contraria può consistere nel dimostrare che, benché formalmente ci siano controllo italiano e CdA italiano, la holding non è una scatola vuota: ad esempio, che svolge funzioni finanziarie reali, che ha investimenti diversificati, che esiste un business plan autonomo. In certi casi, anche perizie di terzi (es. un revisore che certifichi la presenza di determinati requisiti economici all’estero) possono aiutare. Attenzione: presentare un semplice certificato di residenza fiscale estera ottenuto dall’autorità locale serve a poco da solo. È utile allegarlo, ma va corredato da prove sostanziali. In definitiva, la strategia è mostrare al giudice che l’apparenza coincide con la realtà: avete sì la sede legale in Slovenia, ma non è solo “di carta”, lì c’è davvero una sede effettiva dell’amministrazione (o per lo meno non c’è in Italia).

Domanda: Quali sanzioni tributarie rischia una società esterovestita?
Risposta: Le sanzioni amministrative principali sono quelle per omessa o infedele dichiarazione dei redditi. Nel caso più comune – la società estera non ha presentato dichiarazioni in Italia perché si riteneva non residente – la violazione contestata è omessa dichiarazione IRES/IRAP, punita con una sanzione dal 120% al 240% dell’imposta evasa (minimo €250). Se invece, in ipotesi, la società aveva presentato una dichiarazione in Italia ma omettendo quei redditi esteri (meno probabile), sarebbe dichiarazione infedele al 90-180% dell’imposta. Oltre a ciò, possono applicarsi: sanzione fissa per omessa dichiarazione del quadro RW (attività estere) se dovuto; sanzioni IVA se c’erano operazioni da dichiarare; more per ritardati versamenti, etc. In termini quantitativi, l’agenzia tende a posizionare la sanzione base piuttosto alta (anche 150-200% del tributo) specie se ravvisa dolo. Fortunatamente, esistono possibilità di riduzione: con l’adesione o la conciliazione giudiziale, le sanzioni sono ridotte al 1/3; con acquiescenza (pagamento entro 60gg senza ricorso) sono ridotte a 1/3; con il ravvedimento operoso (se fatto prima di accertamento, ormai raro in questi casi) si riducono anch’esse. In ogni caso, essendo di importo proporzionale all’imposta evasa, parliamo facilmente di cifre di decine o centinaia di migliaia di euro. A ciò si aggiungono gli interessi legali che maturano sulle somme dovute fino al pagamento. E non dimentichiamo le eventuali spese di giustizia se si arriva in Cassazione e le spese legali.

Domanda: Ci sono anche conseguenze penali?
Risposta: Sì, se l’imposta evasa supera certe soglie scatta il reato di omessa o infedele dichiarazione. In particolare, omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) si configura se la società (o chi per essa) non presenta la dichiarazione pur essendo obbligata e l’imposta evasa supera €50.000 per ciascun anno. La pena è la reclusione da 2 a 5 anni. Questo è spesso il caso nelle esterovestizioni, perché l’azienda estera di regola non presenta proprio la dichiarazione in Italia, e se ha utili consistenti facilmente l’evasione >50k per anno. Il reato di dichiarazione infedele (art. 4) invece richiede imposta evasa >€100.000 oppure elementi attivi non dichiarati >€2 milioni; punito con reclusione fino a 3 anni. Può capitare se magari qualche dichiarazione in Italia è stata fatta ma incompleta. In aggiunta, se per realizzare l’esterovestizione si sono usati documenti falsi o altri artifizi, potrebbero contestare dichiarazione fraudolenta (art. 3, punita più gravemente, fino a 6-7 anni). Comunque, il reato tipico è omessa dichiarazione. Vale la pena notare che la responsabilità penale ricade sulle persone fisiche (amministratori, rappresentanti legali, o anche di fatto chi ha diretto la politica fiscale). La società in sé non è punibile penalmente (se non indirettamente con la 231/2001 in alcuni casi limite). Dunque l’imprenditore rischia personalmente processo e potenziale condanna. Esistono possibilità di attenuanti o cause di non punibilità se si paga il debito prima del dibattimento (per alcuni reati tributari ciò può estinguere il reato, ma attualmente solo per dichiarazione infedele mi pare ci sia uno scudo se paghi tutto con sanzioni). Va valutato caso per caso con un legale penalista. In sintesi: sì, l’esterovestizione può portare anche in tribunale penale per evasione fiscale.

Domanda: Se ricevo un accertamento per esterovestizione, devo pagare subito tutto?
Risposta: Non immediatamente tutto, ma attento ai meccanismi di riscossione. L’avviso di accertamento oggi è esecutivo decorsi 60 giorni dalla notifica. Ciò significa che, passato quel termine, l’importo accertato viene affidato all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) per il recupero. Tuttavia, se presenti ricorso entro 60 giorni, la legge prevede una sorta di “sospensione parziale” automatica: si può riscuotere intanto solo un terzo delle imposte contestate (e relativi interessi), in attesa della sentenza di primo grado. Quindi ti verrebbe notificata (di solito qualche mese dopo il ricorso) una cartella o intimazione per il pagamento del 1/3. Il restante 2/3 resta sospeso fino all’esito del primo grado. Se poi perdi in primo grado, l’Ufficio può riscuotere un altro 1/3 (arrivando ai 2/3) e dopo il secondo grado il residuo. Questa è la regola generale. Ovviamente, se vinci in primo grado, anche quel 1/3 che hai eventualmente versato ti va restituito (o sgravato). In più, hai la possibilità di chiedere al giudice una sospensione totale per gravi motivi: devi provare che il pagamento anche solo del 1/3 ti creerebbe un danno grave e che il ricorso ha fondamento (fumus). La corte potrebbe sospendere la riscossione fino alla sentenza. Non è facile ma in casi di importi altissimi e società a rischio default può accadere. Se invece non fai ricorso (né adesione) entro 60 giorni, l’atto diventa definitivo e dovrai pagare tutto l’importo entro 30 giorni dalla scadenza, altrimenti partirà la riscossione coattiva su tutto. A quel punto non hai più strumenti se non chiedere eventualmente una rateazione all’Agente della Riscossione (possibile dilazionare fino a 72 rate mensili ordinariamente, o 120 rate se stato di grave difficoltà). Quindi, riassumendo: presentando ricorso, inizialmente versi al massimo un terzo (a meno di ottenere sospensione), il resto è differito; non presentando ricorso, dovresti pagare l’intero in 2 mesi dall’atto.

Domanda: La Slovenia è considerata un “paradiso fiscale” dalla normativa italiana?
Risposta: No, la Slovenia non è affatto un paradiso fiscale. È un Paese UE con tassazione ordinaria sulle società (aliquota 19% sugli utili) che è inferiore a quella italiana ma non talmente bassa da rientrare nelle black list. La normativa italiana definisce “regimi fiscali privilegiati” quelli di Stati con aliquote effettive inferiori alla metà di quella italiana (quindi <12% circa) o che hanno regimi speciali opachi. La Slovenia non rientra in queste categorie. Dunque non si applicano alla Slovenia misure automatiche come la presunzione di residenza per le persone fisiche espatriate in paradisi fiscali (art. 2 co.2-bis TUIR) né le regole CFC (Controlled Foreign Companies) in automatico. Caso diverso: se uno schermasse redditi italiani dietro società slovene, la normativa CFC potrebbe comunque applicarsi se la società slovena, pur non paradisiaca, realizza principalmente passive income e l’italiano detiene più del 50% (ma la Slovenia è white list, quindi direi CFC non scatta). In conclusione, la Slovenia è considerata un Paese collaborativo e a fiscalità “normale” (solo un po’ più conveniente): non c’è alcuna “black list Slovenia”. Le contestazioni quindi non si basano su liste di paradisi, ma sui principi generali di residenza effettiva e abuso di diritto come abbiamo visto.

Domanda: Che differenza c’è tra esterovestizione e stabile organizzazione occulta?
Risposta: Sono due concetti diversi di fiscalità internazionale. L’esterovestizione riguarda la residenza fiscale di un’intera società: il Fisco sostiene che una società apparentemente estera sia in realtà residente in Italia e quindi tassabile come soggetto italiano su tutti i suoi redditi globali. La stabile organizzazione occulta, invece, presuppone che la società estera rimanga estera, ma che essa abbia in Italia un centro di attività stabile non dichiarato, tramite il quale svolge affari qui. In tal caso, l’Italia non pretende di tassare tutti i redditi della società, ma solo quelli attribuibili alla stabile organizzazione in Italia (ossia alla parte di attività svolta sul territorio). Ad esempio: una società slovena genuinamente gestita a Lubiana però ha un ufficio commerciale a Trieste non dichiarato al Fisco – questo è un caso di stabile organizzazione occulta in Italia, e l’Italia può tassare i profitti generati dall’ufficio di Trieste. Nell’esterovestizione, invece, non si riconosce alcuna vera struttura estera: se è accertata, la società viene trattata come se fosse stata italiana sin dall’inizio, non si fa una distinzione di “pezzi” di attività. Spesso l’Amministrazione valuta in alternativa le due opzioni. Di solito contesta l’esterovestizione se ritiene che la società estera sia solo un guscio senza autonomia (quindi tutta l’attività in realtà è italiana); contesta invece la stabile organizzazione se la società estera ha sostanza ma comunque opera anche in Italia (ad esempio personale che conclude contratti in Italia). Dal punto di vista difensivo, a volte far riconoscere almeno l’esistenza della società estera e ricondurre la questione a una stabile organizzazione può essere un successo per il contribuente: significa salvare l’esterovestizione (no tassazione mondiale, no sanzioni omessa dichiarazione) pagando semmai solo le imposte sulla quota di utili riferibile all’Italia. Nel contenzioso, comunque, l’esterovestizione è da combattere con argomenti sulla residenza, mentre la stabile organizzazione riguarda argomenti su presenza economica (e può entrare in gioco la Convenzione contro le doppie imposizioni che definisce la S.O.).

Domanda: Dopo aver subito un accertamento di esterovestizione, posso continuare a usare la società slovena in qualche modo?
Risposta: Dipende molto dall’esito e dalla situazione. Se la contestazione si è risolta con un vostro successo (avete dimostrato che era tutto regolare), in teoria potete proseguire l’operatività cercando magari di sanare le aree grigie che avevano fatto sorgere dubbi (es. aumentando la sostanza locale, nominando un amministratore estero, ecc.). Se invece l’avete persa e avete dovuto pagare, significa che la vostra società è stata riconosciuta come residente in Italia perlomeno per gli anni contestati. Questo apre un problema: per il futuro quella società, se nulla cambia, continuerà a essere soggetta a rischio accertamento. Anzi, a rigore, dopo l’accertamento l’Agenzia potrebbe inserirla d’ufficio nell’Anagrafe tributaria come soggetto residente. Una strategia potrebbe essere: o estinguere la società estera (se non ha più senso) e magari farne una italiana, oppure cambiare radicalmente setup: trasferire la direzione effettiva davvero in Slovenia (ad esempio assumendo un amministratore locale e facendo in modo che decida lui, e che la vostra presenza sia minima), oppure qualora questo non sia possibile, considerare strumenti come un interpello per capire se l’Agenzia considera ancora residente la società. In pratica, dopo un accertamento definito, se volete tenere in vita la struttura estera, dovreste adeguarvi alle indicazioni emerse: se vi hanno contestato che non avevate ufficio, allora dotatevi di ufficio serio; se l’amministratore era italiano, valutate di nominarne uno locale o di spostare la residenza dell’amministratore fuori; ecc. Comunque, è probabile che quella società rimanga “sorvegliata speciale” dal Fisco italiano. A volte la soluzione pragmatica è liquidarla e ripartire eventualmente con una struttura diversa più robusta (o restare in Italia). In alternativa, come accennato, potreste cercare un accordo preventivo: in casi di investimenti grandi, con il ruling internazionale l’Agenzia può dare indicazioni su come considererà la residenza. Ma per PMI è raro. Insomma, se siete stati colti in fallo, conviene non perseverare con lo stesso identico assetto perché rischiereste nuovi accertamenti a catena per gli anni successivi.

Domanda: Ho un amico imprenditore che dice “io ho la società in Bulgaria da 10 anni e nessuno mi ha fatto niente, fai anche tu”. Quanto è diffuso il fenomeno e che probabilità ci sono di essere controllati?
Risposta: Negli anni 2000-2010 molti piccoli imprenditori hanno adottato lo schema della società nell’Est Europa (Bulgaria, Romania, Slovenia stessa, Malta, ecc.) un po’ “alla leggera”, e per un periodo non c’è stata una reazione forte del Fisco anche per carenza di informazioni. Oggi però siamo nel 2025: l’Agenzia delle Entrate riceve dati automatici dai colleghi esteri (fatturati, conti correnti, ecc.), incrocia banche dati, e soprattutto ha sviluppato sensibilità sul tema. Il rischio di controllo è significativamente aumentato. Non è detto che tutti vengano scoperti – ovviamente le risorse del Fisco non coprono ogni caso. Ma i criteri di selezione (soci amministratori italiani, operazioni con l’Italia, ecc.) fanno sì che se la tua società estera interagisce con l’Italia (clienti, fornitori o soldi che rientrano a te persona fisica) prima o poi un controllo mirato può scattare. In particolare, sono stati attivati controlli su società estere con rappresentanti italiani e volumi rilevanti. Inoltre la giurisprudenza dal 2018 in poi ha sviluppato tanti casi, segno che contenziosi su esterovestizione ne arrivano. Quindi fidarsi del passaparola “a me è andata bene finora” è pericoloso. Magari il tuo amico ha caratteristiche diverse, o semplicemente non è ancora capitato. Ma contare sull’impunità oggi è azzardato. Diciamo che se la società estera è davvero finta, la domanda non è “se” ma “quando” verrà notata. Il consiglio è: meglio fare le cose in regola (dare sostanza vera alla struttura estera) o se non è possibile, valutare di non rischiare affatto quell’impianto.

Domanda: Quali accorgimenti posso prendere ex ante per evitare che la mia società estera venga considerata esterovestita?
Risposta: In base a tutto quanto detto, gli accorgimenti principali riguardano il dare sostanza e coerenza alla presenza estera. Ad esempio:

  • Struttura organizzativa locale: aprire un vero ufficio nel Paese estero, anche piccolo ma operativo; assumere almeno una persona del posto che segua l’attività amministrativa/operativa quotidiana.
  • Governance bilanciata: se possibile, nominare amministratori o procuratori locali, oppure se gli amministratori sono italiani, prevedere che trascorrano tempo significativo presso la sede estera e che le riunioni societarie si svolgano lì (documentando il tutto).
  • Documentazione formale curata: tenere tutti i libri sociali aggiornati presso la sede estera; stilare verbali dettagliati che mostrino decisioni prese in loco; ottenere la certificazione di residenza fiscale estera ogni anno dall’autorità locale.
  • Evitare commistioni con l’Italia: ad esempio, non gestire la contabilità estera dallo stesso PC dello studio italiano; non far firmare contratti esteri in Italia (fai viaggiare qualcuno per firmare in sede estera o usa firme digitali localizzate); se possibile aprire conti bancari nel Paese estero e usarli da lì (evitare che tutte le operazioni sul conto sloveno avvengano con home banking dall’Italia, perché in caso di indagine lo vedrebbero).
  • Business reale e diversificato: meglio avere anche clienti di altri paesi, non solo italiani. Se vendi solo a Italia, è comunque lecito, ma agli occhi del Fisco stona. Se invece la tua società slovena vende in tutta Europa, è più credibile che servisse davvero essere lì. Analogamente, se acquistate forniture locali, fate investimenti in loco, tutto ciò è positivo.
  • Trasparenza nei rapporti infragruppo: se la società estera transa con parti correlate italiane (es. la tua persona fisica o tua azienda italiana), segui logiche di mercato nei prezzi, documenta i transfer pricing, così da non dare l’idea che sia un serbatoio di utili finti.
  • Consulenza preventiva: valuta un parere professionale o un ruling con l’Agenzia (se sei grande) prima di strutturare l’operazione. Anche se l’Agenzia non risponde formalmente su dove hai la residenza, durante i pre-filing puoi capire quali aspetti preoccupano il Fisco e correggerli.
  • Aggiornarsi sulla normativa: come visto, nel 2024 sono entrate in vigore definizioni nuove di “sede di direzione effettiva” e “gestione ordinaria”. Bisogna essere consapevoli che il Fisco ha strumenti via via più affinati, quindi restare informati e adattare la propria struttura di conseguenza.

In sintesi: crea substance, substance, substance. Se la società estera è esterovestita solo sulla carta, prima o poi verrà contestata. Se invece c’è sostanza, le probabilità di una contestazione ingiustificata calano drasticamente, e anche se arrivasse potrai difenderti con buone carte.


Conclusione: L’esterovestizione di società – come quella in Slovenia analizzata qui – è materia complessa che richiede di bilanciare pianificazione fiscale, normative anti-abuso e diritti del contribuente. Dal punto di vista del debitore (contribuente), è fondamentale conoscere le regole del gioco: quando si può operare liberamente all’estero e quando invece si sconfina nell’abuso punito severamente. Speriamo che questa guida avanzata abbia fornito un quadro chiaro delle cose da fare e di quelle da non fare, delle strategie difensive e delle precauzioni utili. In ogni caso concreto, è consigliabile farsi assistere da consulenti esperti, perché come abbiamo visto le variabili normative (italiane e internazionali) e fattuali possono cambiare l’esito di una vicenda di esterovestizione.

Fonti (Normative, Giurisprudenziali e di Prassi)

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) – Art. 2 (residenza persone fisiche) e Art. 73 (residenza società), comma 3 (criteri di collegamento: sede legale, sede direzione effettiva, oggetto principale) e comma 5-bis (presunzione legale di residenza per società controllate da italiani che controllano società italiane). (Testo vigente aggiornato al D.Lgs. 29 novembre 2023, n. 209).
  • D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, art. 2 – Introduzione del regime di ruling internazionale per nuovi investimenti in Italia (possibilità di accordo con Agenzia Entrate su varie tematiche, incluse questioni di residenza in caso di investimenti ≥15 milioni).
  • Circolare Agenzia Entrate 28/E del 4 agosto 2006 – Primi chiarimenti sull’art.73 comma 5-bis TUIR introdotto dal D.L. 223/2006, focalizzata sul contrasto alle società esterovestite di mero assetto (holding). (Indicata in ).
  • Risposta a interpello Agenzia Entrate n. 164/2023 (26 gennaio 2023) – Chiarimenti sulla non applicabilità della presunzione di residenza fiscale (art. 73(5-bis) TUIR) a una società estera non holding (operativa) controllata da italiani: in assenza di partecipazioni in società italiane, la presunzione non scatta; resta però valutabile la residenza in base ai criteri ordinari se la sede amministrativa è di fatto in Italia.
  • Cassazione Civile, Sez. V (Tributaria), sent. n. 33234 e 33235/2018 (11 dicembre 2018) – Caso “Dolce & Gabbana”, sulla esterovestizione di società in Lussemburgo: affermano che la costituzione di società estere prive di reale autonomia, al solo fine di ottenere vantaggi fiscali, configura un abuso del diritto suscettibile di contestazione.
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 16697/2019 (20 giugno 2019) – Ribadisce che la sede dell’amministrazione coincide col luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell’impresa; definisce esterovestizione la localizzazione fittizia all’estero della residenza fiscale societaria per fruire di fiscalità favorevole.
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 1883/2023 (depos. 9 febbraio 2023) – Principio: la contestazione di esterovestizione va modulata diversamente a seconda se la società estera è in Stato UE o extra-UE. In ambito UE, occorre tener conto della libertà di stabilimento: la rettifica è legittima solo contro “costruzioni di puro artificio” finalizzate a eludere la norma nazionale; in ambito extra-UE, si applicano pienamente le disposizioni interne (art. 73 TUIR) e per qualificare la residenza italiana basta la sussistenza di un criterio di collegamento. Nella fattispecie (società in San Marino e Svizzera), la Cassazione ha confermato la vittoria del contribuente perché gli indizi raccolti non provavano con certezza la sede effettiva in Italia, e non essendo UE non si è proceduto ad ulteriori analisi sull’artificiosità.
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 5537/2023 (22 febbraio 2023) – Riguarda anch’essa l’esterovestizione; in continuità con altre pronunce sottolinea che l’art.73(5-bis) TUIR è disposizione di carattere procedurale che inverte l’onere della prova, e precisa che tale presunzione non si applica se i presupposti (società estera holding di partecipazioni italiane) non ricorrono, dovendo allora l’Ufficio provare l’effettiva sede amministrativa in Italia (richiamata in Eutekne, 2024).
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 9400/2023 (depositata 5 aprile 2023) – Ha statuito che per l’operatività della presunzione legale di residenza (art.73 co.5-bis) occorre il contestuale soddisfacimento dei requisiti, in particolare la detenzione di partecipazioni di controllo in soggetti italiani unita al controllo o amministrazione di soggetti italiani. Inoltre ha affermato che gli effetti della riqualificazione di residenza in Italia di una società estera si estendono anche alle imposte indirette (nel caso, negata l’agevolazione registro per conferimento a società UE poiché la società era considerata italiana).
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 5066 e 5075/2023 (17 febbraio 2023) – Ulteriori pronunce in materia di esterovestizione (spesso citate con la 1883/2023) in cui la Suprema Corte ha discusso dell’onere probatorio e dell’abuso della libertà di stabilimento (Osservatorio Fisc. Int. 2023).
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 3386/2024 (depositata 6 febbraio 2024) – Sentenza chiave 2024: ha esteso la rilevanza dei criteri di residenza (art.73 TUIR) anche all’ambito dell’imposta di registro, affermando che se una società UE è esterovestita (residente di fatto in Italia) non può fruire dei benefici fiscali riservati alle società estere. Ha inoltre ribadito una chiara definizione di esterovestizione (sede effettiva in Italia con localizzazione formale all’estero per fine di vantaggio fiscale) e l’importanza di valutare globalmente gli indizi gravi, precisi e concordanti di fittizietà. In concreto, ha cassato la decisione di merito che non aveva considerato adeguatamente evidenze come: nessun ufficio o dipendente in UK, amministratore unico italiano, unico socio italiano, ecc., elementi ritenuti idonei a provare la sede in Italia.
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 14485/2024 (depositata 23 maggio 2024) – Ha rimarcato che il giudice deve valutare tutti gli indizi di esterovestizione e motivare la propria decisione tenendo conto dell’insieme delle prove. Ha inoltre confermato l’approccio della Cassazione di pretendere un quadro indiziario completo e non contraddittorio per dare ragione al Fisco.
  • Cass. Civ., Sez. V, sent. n. 2458/2025 (depositata 25 gennaio 2025) – Pronuncia recentissima: definisce l’esterovestizione come quando una società, pur mantenendo la sede amministrativa in Italia, localizza la residenza fiscale all’estero al solo fine di fruire di un regime fiscale più vantaggioso. Sottolinea che la prova può essere data tramite presunzioni semplici, purché valutate nel loro complesso con criteri di gravità, precisione, concordanza. Ha criticato una sentenza di merito per non aver considerato molteplici elementi indicativi di esterovestizione (composizione CdA, controllo italiano totalitario, ecc.) e per essersi soffermata solo su un elemento marginale quale un certificato estero. Questo arresto conferma la linea rigorosa della Cassazione nel pretendere analisi globali delle prove e mette in guardia i giudici di merito dal farsi trarre in inganno da apparenze formali.
  • Corte di Giustizia UE, causa C-196/04 (Cadbury Schweppes) – Principio UE: la creazione di una controllata in altro Stato membro per usufruire di regime fiscale più favorevole è lecita nell’ambito della libertà di stabilimento, a meno che si tratti di una “costruzione di puro artificio priva di effettività economica” volta elusivamente a sottrarre base imponibile allo Stato di origine. Solo in tale caso uno Stato può applicare misure anti-elusive (nel caso Cadbury relative a CFC). Questo principio è stato recepito dalla Cassazione italiana nelle pronunce sopra citate.
  • Convenzione tra Italia e Slovenia contro le doppie imposizioni (Ljubljana, 2001, in vigore dal 2004) – In particolare l’art. 4(3) sul tie-breaker per la residenza delle persone giuridiche: prevede che, in caso di doppia residenza, le autorità competenti dei due Stati cerchino di determinare di comune accordo lo Stato di residenza tenendo conto della sede di direzione effettiva e di altri fattori. (Rilevante per risolvere eventuali conflitti di residenza Italia-Slovenia, sebbene in assenza di accordo prevalga la potestà impositiva di entrambe sui rispettivi criteri finché il conflitto non è risolto.)

Hai ricevuto un accertamento per esterovestizione della tua società slovena? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Se hai costituito una società in Slovenia ma l’Agenzia delle Entrate ritiene che questa abbia in realtà la sede effettiva in Italia, potresti essere oggetto di un accertamento per esterovestizione.
In questo caso, il Fisco può pretendere che tutti i redditi societari vengano tassati in Italia, con conseguenze economiche e penali rilevanti. Ma puoi difenderti.


Cos’è l’esterovestizione societaria?

L’esterovestizione si verifica quando una società risulta formalmente residente all’estero (in questo caso in Slovenia), ma secondo il Fisco:

  • 🧠 Le decisioni strategiche vengono prese in Italia
  • 📂 La gestione amministrativa è condotta da soggetti italiani
  • 🏢 La struttura operativa o il personale si trovano in Italia
  • 💼 I clienti, fornitori o mercati di riferimento sono principalmente italiani
  • 📍 Il domicilio fiscale coincide di fatto con il territorio italiano

In questi casi, la residenza fiscale estera può essere disconosciuta.


Cosa contesta l’Agenzia delle Entrate?

Nel caso della Slovenia, l’Amministrazione Finanziaria italiana può:

  • 🔍 Verificare la reale operatività della società estera
  • 📑 Contestare una residenza solo formale o fittizia
  • 💰 Richiedere il pagamento di IRES, IVA, IRAP e ritenute in Italia
  • ⚠️ Contestare operazioni con prezzi di trasferimento non congrui
  • 🧾 Applicare sanzioni e avviare procedimenti anche di natura penale

Le conseguenze dell’accertamento per esterovestizione

  • 💸 Recupero integrale delle imposte evase con sanzioni fino al 200%
  • 📅 Estensione retroattiva dell’accertamento fino a 8 anni
  • ⚖️ Rischio di processo penale per dichiarazione infedele o omessa
  • 🚫 Blocco dei conti correnti, iscrizione a ruolo e procedure cautelari
  • 🌍 Problemi nei rapporti con l’Amministrazione slovena e nei regimi di doppia imposizione

Come difendersi?

La difesa si fonda su elementi sostanziali e documentali:

  • 📂 Dimostrare che la società ha effettiva autonomia gestionale in Slovenia
  • 🧾 Produrre prove di attività economica reale nel Paese estero (contratti, utenze, dipendenti, sede)
  • 🏢 Mostrare che le decisioni strategiche e operative vengono prese all’estero
  • 📑 Analizzare la convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Slovenia
  • ⚖️ Presentare un ricorso tempestivo e motivato per contestare l’accertamento

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Analizza in dettaglio l’accertamento per individuare vizi formali e sostanziali
📑 Ricostruisce la struttura della società estera e la legittimità della residenza
✍️ Redige il ricorso tributario o l’adesione per ridurre l’impatto sanzionatorio
⚖️ Ti difende anche in ambito penale per reati tributari contestati
🔁 Ti assiste nella pianificazione fiscale internazionale e nelle regolarizzazioni


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Esperto in fiscalità internazionale e accertamenti per esterovestizione
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per start-up, PMI e gruppi internazionali


Conclusione

Un’accusa di esterovestizione può mettere in pericolo l’intera operatività della tua società estera. Ma con prove concrete e una difesa mirata, puoi dimostrare la legittimità della tua struttura in Slovenia.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, affronti l’Agenzia delle Entrate con competenza, esperienza e strategia.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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