Accertamento Da Presunzione Utili Extracontabili: Cosa Fare

Hai ricevuto un accertamento basato sulla presunzione di utili extracontabili e ti stai chiedendo cosa significa, se è legittimo e come puoi difenderti? L’Agenzia delle Entrate sostiene che hai realizzato ricavi “in nero” che non risultano dalla tua contabilità?

Gli utili extracontabili sono somme che il Fisco presume siano state incassate ma non registrate, spesso in base a disallineamenti contabili, margini sospetti, indagini bancarie o documenti rinvenuti in sede di verifica. Ma le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti, altrimenti l’accertamento può essere annullato.

Cos’è un accertamento per utili extracontabili?
– È un accertamento che si basa non su documenti ufficiali, ma su elementi indiziari
– Il Fisco presume che hai incassato di più di quanto risulta dalla tua contabilità ufficiale
– Può nascere da controlli incrociati, indagini bancarie, coefficienti di redditività, segnalazioni o appunti extracontabili
– L’accertamento viene spesso fatto in via induttiva o analitico-induttiva, con ricostruzione presuntiva dei ricavi

Cosa ti può contestare l’Agenzia delle Entrate?
Sottrazione di ricavi non dichiarati
Esistenza di fondi neri, depositi non tracciati o vendite non fatturate
Costi non documentati o gonfiati
– Utilizzo di elementi extracontabili come agende, file, fogli Excel, registri paralleli
– Presunta evasione fiscale, con sanzioni fino al doppio dell’imposta evasa

Come puoi difenderti da un accertamento del genere?
– Dimostrando che gli elementi indiziari non sono gravi, né concordanti, né precisi
– Provando che i margini o i movimenti bancari hanno spiegazioni alternative lecite
– Contestando la ricostruzione induttiva con perizie tecniche, analisi dei flussi, bilanci ricostruiti correttamente
– Dimostrando che non esistono utili extracontabili, oppure che si riferiscono ad anni diversi, soggetti terzi o attività cessate
– Presentando memorie difensive ben strutturate nei termini previsti per bloccare la definitività dell’accertamento

Quando l’accertamento può essere annullato?
– Quando il Fisco non riesce a dimostrare l’effettivo incasso dei presunti utili extracontabili
– Quando le presunzioni si basano su dati incompleti, contraddittori o non attribuibili con certezza al contribuente
– Quando la contabilità è formalmente regolare e non ci sono irregolarità sostanziali
– Quando la presunta evasione si basa solo su algoritmi, medie di settore o previsioni statistiche non personalizzate

Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare il PVC o l’avviso: dopo 60 giorni l’accertamento diventa definitivo
– Fornire spiegazioni generiche: serve una ricostruzione chiara, dettagliata e supportata da documenti
– Accettare l’adesione senza valutare le prove: potresti pagare somme non dovute
– Lasciare che sia il commercialista a gestire tutto senza supporto legale: serve una strategia difensiva multidisciplinare

Un’accusa di utili extracontabili può essere ribaltata. Ma solo se dimostri punto per punto che le presunzioni non reggono.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario e difesa da accertamenti induttivi – ti spiega come funziona un accertamento da utili extracontabili, quando può essere contestato e quali difese funzionano davvero.

Hai ricevuto un accertamento e ti contestano ricavi non registrati?

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Introduzione

In ambito fiscale italiano, l’accertamento da presunzione di utili extracontabili è uno strumento potente a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per contrastare l’evasione. Si tratta della ricostruzione induttiva dei redditi non dichiarati – i cosiddetti utili “extracontabili” o utili “in nero” – e della loro attribuzione ai soggetti ritenuti averne beneficiato, in primis i soci di società a ristretta base. Questa guida, aggiornata a giugno 2025, offre un’analisi approfondita (livello avanzato) del tema dal punto di vista del contribuente debitore.

Ci rivolgeremo a un pubblico composto sia da professionisti legali e fiscali (avvocati, commercialisti) sia da imprenditori e privati cittadini coinvolti in verifiche tributarie complesse. Adotteremo un linguaggio giuridico, preciso nei riferimenti normativi e giurisprudenziali, ma con uno stile divulgativo per renderne chiari i concetti chiave.

Nel corso della trattazione verranno fornite:

  • Le definizioni e i concetti chiave (utili extracontabili, presunzioni semplici e legali, società a ristretta base, ecc.);
  • I riferimenti normativi italiani pertinenti e le novità 2024-2025;
  • La spiegazione del meccanismo di accertamento induttivo basato su presunzioni e in particolare della presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati;
  • Le strategie difensive del contribuente: prove contrarie, strumenti deflattivi (come l’accertamento con adesione), ricorsi e vizi contestabili;
  • Gli aspetti sanzionatori amministrativi (imposte, soprattasse, interessi) e gli aspetti penali correlati (reati tributari configurabili, soglie di punibilità, interazioni tra procedimento tributario e penale);
  • Esempi pratici e simulazioni in ambito italiano, per contestualizzare le regole in situazioni reali;
  • Una sezione Domande & Risposte (FAQ) con i quesiti più comuni sul tema;
  • Alcuni modelli e fac-simili utili (es. istanza di accertamento con adesione, schema di ricorso tributario) per supportare operativamente chi deve reagire a un accertamento di questo tipo.

Concetti generali e definizioni chiave

Per comprendere appieno la materia, occorre prima definire alcuni concetti chiave.

Utili extracontabili (o utili “in nero”) – Sono i profitti di un’attività economica non risultanti dalle scritture contabili ufficiali, ossia redditi che non sono stati dichiarati al Fisco. Possono derivare da ricavi occultati (vendite non fatturate o fatture emesse per importi inferiori al reale), oppure emergere indirettamente da costi fittizi o indebiti contabilizzati (ad esempio fatture per operazioni inesistenti, sovrafatturazioni, ecc.) che riducono artificialmente l’utile dichiarato. In termini semplici, sono gli utili “nascosti” nelle pieghe di bilanci e dichiarazioni, sfuggiti all’imposizione. Tali utili, quando scoperti, segnalano capacità contributiva non dichiarata in violazione del principio costituzionale di cui all’art. 53 Cost. (ognuno è tenuto a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva).

Accertamento basato su presunzioni – È l’attività di rettifica delle dichiarazioni fiscali effettuata dall’Agenzia delle Entrate (o Guardia di Finanza in sede di verifica) ricorrendo a presunzioni, cioè deducendo l’esistenza di materia imponibile nascosta sulla base di indizi e fatti noti. Le presunzioni sono, in diritto, conclusioni tratte da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Si distinguono:

  • Presunzioni legali, il cui valore probatorio è stabilito direttamente dalla legge (talora assolute, più spesso relative): in ambito tributario sono quelle previste normativamente che di per sé legittimano l’accertamento; spostano l’onere della prova a carico del contribuente (deve provare il contrario per vincerle). Un esempio è la presunzione legale per cui i prelevamenti ingiustificati dal conto bancario di un imprenditore sono considerati ricavi, ex art. 32 DPR 600/1973.
  • Presunzioni semplici, non stabilite ex lege ma rimesse al giudice: per essere utilizzabili richiedono che gli indizi su cui si basano siano gravi, precisi e concordanti (art. 2729 c.c.). In ambito tributario, le presunzioni semplici consentono accertamenti induttivi solo se il quadro indiziario ha tale consistenza. L’onere della prova in giudizio, in tal caso, rimane a carico dell’Amministrazione finanziaria, che deve dimostrare la ricorrenza di indizi dotati di gravità, precisione e concordanza. Tuttavia, una volta che il Fisco fornisce indizi solidi, spetta al contribuente controbatterli con prova contraria.

Società di capitali a ristretta base societaria – Si definisce così una società di capitali (tipicamente S.r.l. o talvolta S.p.A.) caratterizzata da un numero esiguo di soci, spesso legati da vincoli familiari o comunque da stretti rapporti personali. In tali strutture “chiuse” si presume che i soci abbiano un controllo reciproco e solidale sulla gestione sociale, partecipando attivamente o comunque essendo a conoscenza dell’andamento degli affari. Non esiste un numero fisso per definire “ristretta” la base sociale, ma la giurisprudenza ha considerato tali, ad esempio, società con due o tre soci (anche se persone giuridiche interposte) specialmente se appartenenti al medesimo nucleo familiare. La ristrettezza si valuta quindi in termini sostanziali (quante persone fisiche in ultima istanza detengono il controllo) più che formali. Questo concetto è cruciale perché, come vedremo, dà vita a una specifica presunzione in caso di utili extra-contabili.

Presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci – È la regola per cui, se una società di capitali a base ristretta viene accertata per utili non dichiarati, tali utili si presumono distribuiti pro quota ai soci, a meno che si provi il contrario. In altri termini, il Fisco presume che gli utili occultati non siano rimasti nella società, ma siano stati in qualche forma goduti dai soci (come dividendi “in nero” percepiti). Si tratta di una presunzione semplice di origine giurisprudenziale, consolidatasi per via pretoria nel corso di decenni. Non è sancita espressamente da un articolo di legge, ma è riconosciuta come legittima dalla Cassazione e viene applicata regolarmente negli accertamenti tributari. Il “fatto noto” da cui si inferisce la distribuzione è la combinazione di due elementi: (1) l’esistenza di utili extra-bilancio accertati in capo alla società, e (2) la ristretta compagine sociale. Questa base fattuale giustifica l’applicazione di una massima di esperienza: in una piccola società, è comune che i soci si ripartiscano gli utili occulti. Non si tratta – secondo la Suprema Corte – di una vietata “doppia presunzione” (presunzione di secondo grado) perché il presupposto non è a sua volta un fatto ignoto inferito, bensì la ristrettezza societaria, considerata fatto noto e certo. Di conseguenza, tale presunzione non viola il divieto di praesumptio de praesumpto. Essa rimane comunque iuris tantum: i soci possono fornire prova contraria per dimostrare che, pur esistendo utili occulti, essi non ne hanno beneficiato.

Divieto di doppia presunzione – Principio probatorio secondo cui non si può fondare una decisione su una presunzione ricavata da un’altra presunzione. Nel nostro contesto, i contribuenti talvolta obiettano che presumere la distribuzione ai soci partendo da un utile societario determinato induttivamente costituisca un doppio salto logico. Tuttavia, come anticipato, la Cassazione esclude questa critica: la presunzione di distribuzione poggia su un fatto certo (ristrettezza della base sociale) e non semplicemente sul fatto presunto del maggior reddito. Pertanto è ritenuta lecita anche se l’utile extra-contabile della società è determinato tramite indizi (accertamento induttivo).

Massima di esperienza e abuso del diritto – La giurisprudenza inquadra la presunzione in esame come applicazione di una massima di esperienza, cioè un ragionamento basato su ciò che di regola avviene in certe situazioni (soci di piccole società che dividono tra loro i guadagni occulti). Viene anche richiamato il principio generale di divieto di abuso del diritto: non si può utilizzare la personalità giuridica della società come “schermo” per sottrarre alla tassazione i redditi effettivi dei soci. La tendenza del diritto tributario commerciale è di guardare alla sostanza economica, indipendentemente dalle forme giuridiche. Dunque se, in sostanza, un’impresa familiare si cela dietro una S.r.l., il Fisco può penetrare questo schermo ai fini fiscali quando rileva utili occulti.

Chiariti questi concetti generali, possiamo ora addentrarci nei dettagli normativi e procedurali, per poi esaminare come affrontare concretamente un accertamento fondato su tali presunzioni.

Riferimenti normativi di base

Passiamo in rassegna la normativa italiana rilevante in materia di accertamento induttivo e utili extracontabili, con aggiornamenti al 2025:

  • D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 – È la disposizione cardine sugli accertamenti delle imposte sui redditi. Il comma 1 lettera d) prevede l’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa qualora le scritture contabili del contribuente siano inattendibili o incomplete. In tali casi l’ufficio può determinare il reddito anche in base a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, desumendo ricavi non dichiarati o sopravvalutazione di costi. Il comma 2 dello stesso articolo disciplina il più radicale accertamento induttivo “puro” (detto anche extracontabile) in situazioni di totale omissione dichiarativa o contabilità inesistente: in queste circostanze il Fisco può prescindere in toto dalle scritture e utilizzare qualsiasi elemento disponibile, anche presunzioni prive dei requisiti anzidetti. Nel contesto degli utili extracontabili, l’art. 39 legittima l’Agenzia a ricostruire maggiori utili societari tramite presunzioni quando emergono violazioni che rendono inaffidabili i dati dichiarati.
  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) – Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi contiene le regole sulla tassazione dei dividendi e utili ai soci. In particolare: l’art. 47 TUIR individua quali utili distribuiti concorrono a formare il reddito del socio (in passato solo parzialmente imponibili se la partecipazione era qualificata), e l’art. 59 (ante modifiche 2017) prevedeva che gli utili derivanti da partecipazioni qualificate concorressero al reddito in misura del 40% (poi 49,72%). Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che gli utili extracontabili non godono di tale parziale imponibilità, poiché non hanno scontato imposizione in capo alla società. Quindi, in caso di distribuzione occulta, la tassazione avviene sull’intero ammontare. Da segnalare che per gli utili formatisi dal 2018 in poi la disciplina è cambiata: oggi gli utili societari distribuiti a persone fisiche sono soggetti a tassazione separata con aliquota 26% (flat tax sui dividendi), indipendentemente dalla percentuale di partecipazione. Resta inteso però che ciò vale per utili regolarmente deliberati e già tassati in capo alla società. Per gli utili “in nero” accertati, l’Agenzia tende ad applicare la tassazione ordinaria sul socio (aliquote IRPEF progressive) trattandosi, di fatto, di reddito mai tassato prima. Questa impostazione è stata confermata in sede giurisprudenziale: l’imposizione di utili extracontabili imputati al socio non va limitata al 40% (vecchio regime) ma avviene per l’intero importo, proprio perché su tali somme la società non ha pagato imposte. In altre parole, l’utile occulto viene tassato come se fosse un reddito aggiuntivo pieno del socio, senza esenzioni, per evitare un indebito vantaggio fiscale.
  • Statuto dei diritti del contribuente (L. 212/2000) – È la legge fondamentale a tutela del contribuente durante i rapporti col Fisco. Alcuni articoli assumono rilievo negli accertamenti presuntivi: l’art. 7 impone che ogni atto impositivo sia motivato, con l’indicazione dei fatti e delle norme che lo fondano, e che siano allegati o riprodotti gli atti richiamati (es. il processo verbale di constatazione, l’avviso di accertamento societario se si notifica al socio, ecc.). Una violazione di questo obbligo può rendere nullo l’atto per difetto di motivazione. L’art. 12 tutela il contribuente sottoposto a verifica fiscale, prevedendo diritti come: durata massima delle verifiche in azienda, contraddittorio endoprocedimentale (cioè possibilità di comunicare osservazioni entro 60 giorni dal PVC prima che l’ufficio emetta un avviso, salvo casi di particolare urgenza), divieto di richieste duplicative di documenti già forniti, ecc. Inoltre, l’art. 10 Statuto sancisce il principio di lealtà e buona fede nei confronti del contribuente, che potrebbe essere invocato contro interpretazioni eccessivamente punitive delle presunzioni.
  • D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 – Disciplina gli istituti deflattivi del contenzioso, in particolare l’Accertamento con adesione. L’art. 6 consente al contribuente che riceve un avviso di accertamento di presentare istanza per avviare un contraddittorio con l’ufficio al fine di trovare un accordo sull’entità della tassazione. Questo strumento è importante perché, in caso di accertamenti da utili extracontabili, può permettere di ridurre le sanzioni (sono ridotte a 1/3) e magari ottenere uno sconto sul quantum imponibile, evitando un lungo contenzioso. Inoltre, la presentazione dell’istanza sospende i termini per ricorrere per 90 giorni, dando più tempo per negoziare. Approfondiremo in seguito le modalità e i vantaggi dell’adesione.
  • D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – Regola il processo tributario. Rileviamo in particolare l’art. 18 (contenuto del ricorso introduttivo), l’art. 19 (atti impugnabili, tra cui l’avviso di accertamento), l’art. 20 (termini di impugnazione, 60 giorni dalla notifica dell’atto, salvo sospensioni), l’art. 17-bis (reclamo e mediazione tributaria, applicabile – fino al 2022 – per controversie di modesto valore), e l’art. 52 (sospensione dell’atto impugnato su richiesta, in caso di danno grave e irreparabile). Da marzo 2023, a seguito della riforma operata con L. 130/2022, le Commissioni Tributarie sono state rinominate “Corti di Giustizia Tributaria” e sono state introdotte modifiche procedurali (ad es. giudice monocratico per cause fino a €3.000, nuovi istituti di conciliazione in udienza, ecc.). Tali novità vanno tenute presenti dal difensore nel predisporre il ricorso.
  • D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, art. 28 co. 4 – Norma di particolare interesse per gli accertamenti post-estinzione delle società. Stabilisce che, ai soli fini fiscali, la società di capitali si considera ancora esistente per cinque anni dalla cancellazione dal registro delle imprese, al fine di permettere l’emissione di avvisi di accertamento per periodi d’imposta anteriori alla cessazione. In pratica, l’Agenzia delle Entrate può notificare un accertamento anche a una società formalmente chiusa, purché entro cinque anni dalla cancellazione. In tali casi, gli ex soci diventano i destinatari economici dell’obbligazione tributaria: l’accertamento degli utili extracontabili “in capo” alla società estinta potrà essere fatto valere nei loro confronti (in proporzione alle quote di partecipazione o a quanto percepito in sede di liquidazione). Questa previsione, collegata all’art. 2495 c.c., evita che, sciogliendo la società, si possano far sfuggire basi imponibili emerse successivamente. Come vedremo, però, la tutela dei soci in queste situazioni è problematica e “debole”, in quanto si trovano a rispondere di utili presumibilmente incamerati senza avere più la schermatura societaria né la possibilità per la società di interloquire.
  • Codice civile, art. 2727-2729 – Norme generali sulle presunzioni. L’art. 2729 c.c. è spesso richiamato nei contenziosi tributari perché prescrive che il giudice possa ammettere presunzioni semplici solo se sono caratterizzate da gravità, precisione e concordanza. Questo parametro viene utilizzato per valutare la legittimità degli accertamenti induttivi: se le “prove” addotte dal Fisco non raggiungono quella soglia qualitativa, l’accertamento va annullato. Ad esempio, “meri sospetti o congetture” non possono sorreggere un’avviso di accertamento: occorrono riscontri oggettivi. La Cassazione ha annullato accertamenti basati su presunzioni ritenute fragili o contraddittorie (es: ricostruzioni fondate su sole dichiarazioni di terzi non suffragate da dati, ecc.). Nel caso degli utili extracontabili, la giurisprudenza considera la presunzione di distribuzione supportata da una robusta massima di esperienza, quindi intrinsecamente grave, precisa e concordante, salvo controprova specifica.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – Disciplina penale tributaria. I reati potenzialmente rilevanti in ipotesi di utili extracontabili comprendono:
    • Dichiarazione fraudolenta (art. 2, 3 D.Lgs.74/2000) se vi è ricorso a fatture false o altri artifici per occultare il reddito;
    • Dichiarazione infedele (art. 4) se l’imposta evasa supera €100.000 e gli elementi attivi sottratti all’imposizione superano il 10% del reddito dichiarato o comunque €2 milioni;
    • Omessa dichiarazione (art. 5) se, addirittura, non è stata presentata la dichiarazione (soglia di punibilità: imposta evasa > €50.000);
    • Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) se sono state tenute scritture parallele o distrutte quelle ufficiali per impedire la ricostruzione del reddito;
    • Omesso versamento IVA (art. 10-ter) se dall’occultamento di ricavi deriva anche il mancato versamento dell’IVA dovuta oltre la soglia (attualmente €250.000).
      È essenziale sapere che l’art. 13 del medesimo decreto prevede cause di non punibilità o attenuazione di pena se il contribuente pagha integralmente il debito tributario (imposta, sanzioni amministrative e interessi) prima del dibattimento. In particolare, per i reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione, il pagamento integrale estingue il reato. Ciò incentiva il contribuente ad attivarsi per sanare il dovuto qualora si profilino anche conseguenze penali (vedremo oltre i dettagli).

Queste sono le principali fonti normative da tenere presenti. A cornice, ricordiamo anche la giurisprudenza di legittimità (Cassazione) più significativa e recente, che avremo cura di citare nel prosieguo per ogni questione rilevante. In particolare, tra 2024 e 2025 sono state depositate ordinanze della Cassazione di grande interesse: la n. 4861/2024, la n. 21593/2024, la n. 2752/2024, la n. 2464/2025, la n. 7739/2025, la n. 15274/2025, la n. 16467/2025, tra le altre. Esse chiariscono vari aspetti della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili (ambito di applicazione, prova contraria, soci estranei, ecc.) e verranno discusse nei paragrafi seguenti.

Come avviene l’accertamento induttivo di utili extracontabili

Esaminiamo ora come l’Amministrazione finanziaria può individuare e contestare utili extracontabili, ossia quali sono i presupposti e le modalità dell’accertamento basato su presunzioni in questo campo.

Presupposti fattuali e comportamenti evasivi tipici

L’accertamento di utili extra-bilancio parte solitamente dal riscontro di anomalie o irregolarità nelle dichiarazioni o nelle scritture contabili del contribuente. Alcune tipiche situazioni che insospettiscono il Fisco e portano a ricostruire utili occulti:

  • Ricavi “in nero”: omissione di fatturazione di parte delle vendite o dei compensi. Ciò può emergere, ad esempio, dal confronto tra acquisti e vendite (mark-up anomalo), da indagini finanziarie (versamenti in conto non giustificati da fatture emesse), da controlli sul magazzino (stock esaurito ma ricavi insufficienti), oppure mediante verifiche incrociate (es. fornitori che dichiarano di aver venduto beni a un’impresa in quantità superiore a quanto questa ha contabilizzato). Un classico è l’analisi dei movimenti bancari: l’art. 32 DPR 600/73 consente di presumere che i versamenti sul conto aziendale non supportati da giustificativi noti siano ricavi non dichiarati. Analogamente, prelevamenti ingenti e non motivati possono far ipotizzare pagamenti “in nero” a fornitori, con conseguente sottostima dei ricavi.
  • Sovrafatturazione di costi o costi fittizi: utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o gonfiate, che riducono l’utile ufficiale. Questo è uno schema fraudolento abbastanza comune: l’azienda registra spese che in realtà non ha sostenuto (o eccedenti il reale) per abbattere l’utile tassabile. Quando tali costi indebiti vengono scoperti – ad esempio perché il fornitore emittente è risultato inesistente o coinvolto in frodi IVA – l’Amministrazione li recupera a tassazione, aumentando di conseguenza il reddito imponibile. Tali maggiori utili, se la società è a base ristretta, sono considerati utili extracontabili di cui i soci avrebbero beneficiato. Esempio: la società Alfa SRL annota nel 2024 costi per €100.000 relativi a consulenze mai ricevute; una verifica fiscale accerta che si tratta di fatture false emesse da una cartiera. L’ufficio disconosce quel costo (rettificando il reddito d’impresa di Alfa), generando un utile extracontabile corrispondente di €100.000. Su tale importo Alfa SRL dovrà pagare le imposte evase (IRES, IRAP) e i soci, presumendo che quell’utile in più sia stato da loro incassato informalmente, saranno soggetti a tassazione aggiuntiva IRPEF e relativa sanzione. Nella vicenda concreta all’origine dell’ordinanza Cass. n. 15274/2025, ad esempio, una S.r.l. aveva contabilizzato acquisti di materie plastiche da un fornitore inesistente per non versare l’IVA, e l’ufficio ha disconosciuto il costo fittizio con avviso di accertamento, recuperando imposte dirette e IVA. Di conseguenza, ha poi emesso un ulteriore avviso verso il socio, per IRPEF sull’utile extracontabile distribuito e per la mancata ritenuta su dividendi in nero.
  • Incongruenze con indici o studi di settore: prima dell’introduzione degli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA), gli studi di settore e altri parametri presuntivi evidenziavano possibili ricavi non dichiarati. Se l’azienda mostrava sistematicamente ricavi inferiori rispetto agli standard del settore, l’ufficio poteva avviare un’indagine. Oggi gli ISA funzionano più come strumento di compliance che di accertamento automatico, ma anomali scostamenti potrebbero comunque allertare l’Agenzia, che poi cerca riscontri specifici.
  • Segnalazioni e indagini della Guardia di Finanza: elementi possono emergere da altre indagini (ad es. inchieste penali, segnalazioni di operazioni sospette in materia antiriciclaggio, controlli incrociati). La GdF dispone di un Manuale operativo che incoraggia l’uso ragionato delle presunzioni: la circolare n.1/2018 GdF ricorda che le presunzioni fiscali costituiscono indizi utilizzabili in sede penale come notizia di reato, ma devono essere valutate e riscontrate con cautela. Dunque se in sede di verifica si trovano, ad esempio, doppie contabilità (un registro “parallelo” con vendite non dichiarate) oppure appunti su utili extra da dividere, questi sono elementi probatori forti di utili extracontabili.

In sintesi, il presupposto fondamentale per attivare l’accertamento da utili extracontabili è che l’azienda non abbia dichiarato tutto il reddito prodotto. Quando gli ispettori ricostruiscono un maggior reddito imponibile (sia esso per ricavi occultati o per costi inesistenti rilevati), scatta l’obbligo per l’ufficio di emettere l’avviso di accertamento a carico della società per recuperare le imposte evase. Se la società ha natura e base sociale ristretta, a questo segue (di norma) un avviso ai soci per i redditi di partecipazione occulti.

Procedimento: accertamento alla società e presunzione verso i soci

Vediamo come procede in pratica l’iter:

  1. Contestazione al livello societario: L’ufficio fiscale (Agenzia Entrate) effettua la rettifica del reddito della società. Il risultato tipico è l’emissione di un avviso di accertamento nei confronti della società, in cui si elencano le maggiori imposte dovute (IRES, IRAP, IVA se pertinente) calcolate sul reddito rideterminato. Questo avviso deve essere motivato dettagliatamente, indicando gli elementi scoperti (ad es. movimenti bancari non giustificati, ricarichi medi di settore, documenti extracontabili reperiti, ecc.) e la metodologia di calcolo utilizzata. Si tratta del provvedimento “presupposto” rispetto a eventuali atti verso i soci. Infatti, senza un maggior utile accertato in capo alla società, non può esservi utili extracontabili da imputare a qualcuno. È cruciale notare che l’accertamento al socio non richiede che quello societario sia definitivo o passato in giudicato: la giurisprudenza ha chiarito che i due accertamenti possono viaggiare parallelamente, senza attendere l’esito dell’eventuale ricorso della società. In pratica, l’Agenzia spesso notifica quasi contestualmente l’avviso alla società e quelli ai soci, per evitare decadenze; starà poi eventualmente al giudice tributario valutare il coordinamento delle cause.
  2. Emissione avvisi ai soci (presunzione di distribuzione): Identificati i soci (nell’anno d’imposta verificato) e la quota di partecipazione di ciascuno, l’ufficio emette avvisi di accertamento personali a loro carico. In tali atti, generalmente l’impostazione è: “preso atto che la società X è stata accertata per un maggior reddito imponibile di €Y, si presume che tale reddito extra sia stato distribuito al socio al X%…”. Dunque, si imputano al socio redditi di capitale non dichiarati pari alla sua percentuale di utile occulto, da assoggettare a tassazione IRPEF. Tecnicamente può trattarsi di un riclassamento del reddito: spesso questi redditi figurano come “utile distribuito non tassato a titolo di dividendo” oppure, in casi di particolare configurazione, come redditi diversi. Ma a fini pratici, all’avviso viene calcolata l’IRPEF dovuta su tale somma (o la ritenuta d’acconto omessa, se il socio è persona giuridica) più le relative sanzioni per omessa/infedele dichiarazione. Importante: l’avviso al socio deve essere motivato tanto quanto quello societario. Tipicamente richiama l’accertamento societario (che dovrebbe essere allegato, secondo lo Statuto del contribuente, perché atto presupposto) e spiega che, stante la ristretta base, opera la presunzione di distribuzione. Se l’ufficio omette di allegare o di dare contezza del fondamento (es. non descrive affatto l’utile extra contestato alla società), il socio può eccepire la nullità per difetto di motivazione. La Cassazione ha in passato ritenuto legittimo l’avviso al socio anche se l’accertamento societario non è definitivo, purché ne siano indicati gli elementi essenziali.
  3. Notifica degli atti: Gli avvisi di accertamento devono essere notificati secondo le regole ordinarie (art. 60 DPR 600/73). Per le società, la notifica può avvenire presso la sede legale, consegnando l’atto a persona che si qualifica come addetta alla sede (anche un dipendente o collaboratore presente). La Cassazione ha precisato che se dall’atto di notifica risulta la consegna a una persona trovata nei locali sociali, si presume sia autorizzata a ricevere, salvo prova contraria della società. Per i soci persone fisiche, la notifica segue le norme del CPC (artt. 137 ss.): in pratica al domicilio fiscale (residenza anagrafica) o PEC se disponibile. Eventuali vizi di notifica (errato indirizzo, mancato rispetto delle forme) sono contestabili come motivi formali di ricorso.
  4. Calcolo delle somme dovute: L’avviso societario indicherà l’ammontare delle maggiori imposte accertate (con separata indicazione per IRES, IRAP, IVA se applicabile) e delle sanzioni amministrative tributarie. Le sanzioni per dichiarazione infedele (omesso reddito) sono disciplinate dal D.Lgs. 471/1997, art. 1: normalmente vanno dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Se però il contribuente aderisce o non fa ricorso, di solito l’ufficio applica il minimo edittale (90%) o riduzioni (adesione comporta 1/3 del minimo, quindi 30%). L’avviso al socio parimenti conterrà IRPEF (o addizionali) e sanzione al 90-180%. Da notare che, a differenza dei dividendi “leciti” su cui si applica una ritenuta o imposta sostitutiva, in questo caso trattandosi di materia occultata si procede con accertamento analogo a reddito non dichiarato: quindi potenzialmente l’IRPEF viene liquidata alle aliquote marginali del socio per quell’anno. Ad esempio, se l’importo imputato è consistente, potrebbe cadere nella fascia 43%. Il socio si trova quindi destinatario di un pagamento molto elevato, perché cumula: l’imposta evasa dalla società (di cui risponde indirettamente come socio se la società non paga) e la propria IRPEF sullo stesso importo distribuito, più sanzioni su entrambi i fronti. Ciò può apparire una doppia imposizione, ma in realtà rispecchia la fisiologia del sistema: un utile sociale normalmente subisce prima l’imposta societaria e poi quella sul dividendo; se si cerca di saltare entrambe, l’accertamento recupera entrambi i livelli di tassazione. Di certo, comunque, il rischio economico per i soci, una volta scoperto l’utile occulto, è altissimo (possiamo dire: il gioco non vale la candela).
  5. Termini di decadenza: L’Agenzia deve rispettare i termini di accertamento previsti dalla legge. In generale, per le imposte sui redditi, il termine ordinario è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (art. 43 DPR 600/73, come modificato). Ad esempio, per un reddito 2019 dichiarato nel 2020, il termine è 31/12/2025. Se la dichiarazione non fu presentata (omessa), il termine diventa il 31 dicembre del settimo anno. Inoltre, in presenza di un possibile reato tributario, la legge prevede il raddoppio dei termini di decadenza (art. 43 co.3 DPR 600/73): quindi fino a 10 anni. Questo avviene se l’ufficio trasmette una notitia criminis all’autorità giudiziaria entro i termini ordinari. Nel caso degli utili extracontabili, spesso i profili penali (dichiarazione infedele, frode, ecc.) portano al raddoppio: significa che l’Agenzia può accertare anche più in là nel tempo. Tuttavia, la Cassazione ha specificato che il raddoppio non opera automanticamente in giudizio se poi il reato è insussistente; ma in fase amministrativa l’ufficio si cautela applicandolo.
  6. Concomitanza con l’azione penale: se dagli stessi fatti emerge reato, come visto, scatterà una denuncia alla Procura. Il procedimento tributario e quello penale corrono su binari separati ma paralleli. L’azienda e i soci possono trovarsi a fronteggiare contestualmente la richiesta del Fisco di pagare e quella del PM di rispondere penalmente. Ciò può influire sulle strategie difensive (ad esempio, decidere di pagare il dovuto per estinguere il reato ex art.13 D.Lgs.74/2000). Sul versante probatorio, ricordiamo ancora: il giudice penale non è vincolato dall’accertamento tributario e deve formarsi la prova secondo le regole del codice di procedura penale, valutando le presunzioni fiscali solo come indizi. Un’assoluzione in sede penale per insufficienza di prove, però, non impedisce che in sede tributaria la presunzione regga, dato che gli standard di prova sono differenti (basti dire che per condannare penalmente serve prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, per tassare è sufficiente la prevalenza di evidenza). La Cassazione ha affermato che la mancanza di prove nel penale non esclude affatto la validità della presunzione fiscale in sede tributaria: i due giudizi restano autonomi. Pertanto il contribuente potrebbe risultare non colpevole penalmente ma dover ugualmente pagare le imposte evase in base alle presunzioni.

Riassumendo, l’accertamento induttivo di utili extracontabili è un processo a cascata: prima si individua il nero a livello d’impresa, poi lo si attribuisce ai soci. È un ambito dove il contraddittorio con il Fisco e la difesa tecnica sono fondamentali, dato che molto ruota attorno a valutazioni presuntive e alla capacità di dimostrare il contrario.

Nei prossimi paragrafi vedremo come il contribuente (società o socio) può difendersi e cosa fare concretamente quando si trova di fronte a un simile accertamento.

Presunzione di distribuzione ai soci nelle società a ristretta base

Approfondiamo ora la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci, fulcro della questione. Analizzeremo gli orientamenti giurisprudenziali, le eccezioni e come il socio può fornire la prova contraria.

Fondamento e ambito della presunzione pro-soci

Come anticipato, la Corte di Cassazione da tempo ritiene che, in tema di imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, se sono accertati utili extra-contabili, opera la presunzione della loro distribuzione pro quota ai soci. Questa frase – tratta testualmente da Cass. ord. 21593/2024 – sintetizza il principio cardine. La ratio è chiara: in una piccola compagine non vi sono estranei o azionisti di larga scala, ma pochi soci spesso gestori stessi dell’impresa; pertanto, se l’impresa produce utili occulti, è naturale inferire che tali utili siano finiti nelle loro tasche.

La presunzione si applica a tutte le forme di società di capitali (Srl, S.p.a.) e anche alle cooperative “spurie” qualora la compagine sia di fatto limitata a poche persone e non ci sia reale mutualità. Non rileva che i soci siano persone fisiche direttamente o altre società intermedie: la Cassazione ha esplicitamente escluso che lo “schermo” di società fiduciarie o sub-holding possa impedire la presunzione. Anche se i soci immediati della società accertata sono altre società, occorre guardare ai soci ultimi di queste: se in definitiva il controllo è concentrato in un piccolo gruppo di persone fisiche, la base è ristretta e la presunzione vale. È stato affermato, ad esempio, che non conta la forma di società a sua volta socia, ciò che rileva è la sostanza economica e il numero effettivo di interessati. Nel caso affrontato dall’ordinanza Cass. 15274/2025, la società accertata aveva come soci due altre società, ma entrambe facevano capo ai membri di una stessa famiglia: la Suprema Corte ha confermato che “la ristretta base partecipativa si valutava in modo sostanziale, poiché ciò che conta è la concentrazione del controllo in pochissime mani”. Dunque anche in tale assetto la presunzione ha operato.

Viceversa, non si applica la presunzione se la base sociale non è ristretta. Ciò significa che per società con azionariato diffuso (es. una S.p.A. quotata in borsa, o comunque con decine/centinaia di soci non collegati tra loro) la massima di esperienza non regge, perché in contesti del genere non è affatto scontato che tutti i soci sappiano di eventuali utili in nero né che possano spartirseli agevolmente. In tali casi, se il Fisco scopre utili occulti, non ha una scorciatoia presuntiva per tassarli ai soci (potrà tutt’al più imputarli a eventuali amministratori come compensi non dichiarati se emergono elementi in tal senso, ma non come dividendi presunti a centinaia di azionisti ignari).

Bisogna sottolineare che la presunzione in oggetto riguarda i soci delle società di capitali, non le società di persone. Queste ultime (S.n.c., S.a.s.) per loro natura fiscale sono “trasparenti” (art. 5 TUIR): il reddito sociale, anche se occulto, è imputato ai soci per legge, a prescindere da distribuzioni. Quindi se una S.n.c. nasconde ricavi, l’accertamento colpirà direttamente i soci in base alla quota di partecipazione, senza bisogno di presunzioni speciali (gli avvisi di accertamento vanno comunque ai soci ex art. 5 TUIR). La differenza con le società di capitali è che queste pagano l’IRES sul proprio reddito e solo gli utili deliberati vengono tassati in capo ai soci. Da qui, l’espediente di alcuni: lasciare gli utili occulti in società formalmente, per evitare la tassazione al secondo livello. Ma la giurisprudenza antidoto afferma che nelle piccole società ciò non accade: quei soldi escono verso i soci sotto banco, salvo prova contraria.

Importante: la Cassazione considera questa presunzione una regola di esperienza qualificata e consolidata. Sentenze e ordinanze susseguitesi negli anni hanno ribadito il principio: tra le tante, Cass. n. 8487/1997 (storica), Cass. n. 18032/2013, Cass. n. 15824/2016, Cass. n. 1947/2019, Cass. n. 4861/2024, fino alle recentissime Cass. n. 15274/2025 e 16467/2025. Ad esempio, Cass. 4861/2024 (Sez. Trib.) ha affermato che il velo della personalità giuridica non impedisce la presunzione, estendendosi questa a qualunque forma societaria con compagine ridotta. Inoltre, è stato chiarito che la presunzione di distribuzione non dipende dal tipo di accertamento: anche se l’utile extra è calcolato con adesione o con metodi indiretti, ciò non rileva, conta solo che vi sia il maggior reddito accertato e la base ristretta.

In definitiva, possiamo considerare la presunzione come una sorta di presunzione legale relativa “di giurisprudenza”: benché non scritta in una norma, è applicata in modo quasi automatico dal Fisco in presenza delle condizioni, e i giudici tributari di merito tendono a confermarla salvo specifiche prove contrarie fornite dal contribuente.

Cosa rientra negli “utili extracontabili” presunti distribuiti

Un punto dibattuto era se la presunzione valesse solo per ricavi non contabilizzati (componenti positive occulte) o anche per risparmi d’imposta derivanti da costi indebiti (componenti negative fittizie). La Cassazione ha ormai risolto la questione in senso estensivo: qualsiasi maggior capacità patrimoniale realizzata dalla società e non dichiarata, indipendentemente da come emerga, può essere considerata utile extracontabile da presumere distribuito.

In pratica:

  • Se l’azienda non dichiara ricavi per 100, quel 100 è un utile occulto (al netto dei costi correlati) a disposizione;
  • Se l’azienda deduce fittiziamente un costo di 100 (che in realtà non ha sostenuto), quel 100 resta nelle casse sociali (o non ne è mai uscito davvero) e quindi equivale a un utile in più.

La Suprema Corte, nell’ordinanza n. 15274/2025, ha esplicitamente affermato che la nozione di “utili extracontabili” ai fini della presunzione include sia le maggiori componenti positive di reddito accertate sia le componenti negative disconosciute. Un costo indebito che viene eliminato aumenta l’utile fiscale e rappresenta “maggiori risorse non dichiarate” di cui la società ha goduto e che vanno considerate distribuite tra i soci, salvo prova contraria. Non vale sostenere (come fecero i ricorrenti in quella causa) che se un’operazione è contabilizzata (quindi il costo fittizio risulta in contabilità) non vi sia un utile “extra-bilancio”: logicamente, dice la Corte, un costo non effettivo significa che la società non ha speso quelle somme, che quindi restano disponibili come utile in più. È una manifestazione di capacità contributiva ex art.53 Cost., per cui opera la presunzione di distribuzione anche in tal caso.

Questa interpretazione amplia l’ambito della presunzione. Esempio: Società Beta dichiara €50.000 di utile dopo aver dedotto €200.000 di costi. Se €50.000 di quei costi sono fittizi, l’accertamento rettificherà l’utile portandolo a €100.000. Quei €50.000 “aggiuntivi” – benché risultanti da un costo non riconosciuto e non da un ricavo in più – sono comunque utili extracontabili che si presumono distribuiti ai soci. Dunque i soci dovrebbero aver beneficiato di €50.000 in nero complessivi (pro quota in base alle partecipazioni).

Chiarito questo, emerge un corollario importante: la presunzione di distribuzione opera indipendentemente dal fatto che la società abbia formalmente deliberato o meno la distribuzione di utili. Anzi, per definizione si tratta di utili non risultanti in bilancio, quindi non vi è alcuna delibera. Il prelievo avviene verosimilmente in modo occulto (es.: utilizzo di casse parallele, di contanti non dichiarati, ecc.). L’Amministrazione non deve dimostrare come sia avvenuta la distribuzione né quando, lo presume semplicemente avvenuta una volta constatato che in società c’erano risorse extra. Non è necessario nemmeno provare che i soci abbiano mostrato segni di arricchimento personale (come acquisti di beni di lusso, incrementi patrimoniali): questo tipo di riscontro non è richiesto ai fini dell’accertamento. Cassazione lo ha detto chiaramente: non occorre, per presumere la distribuzione, che l’ufficio esibisca prove ulteriori come l’analisi dei conti bancari dei soci o l’acquisto di beni di valore da parte loro. Questi elementi potrebbero al limite emergere e confermare la presunzione (se ad esempio un socio con redditi modesti ha comprato casa subito dopo l’anno incriminato, ciò corroborerebbe l’ipotesi che ha incassato utili in nero), ma non sono condizioni necessarie. La citazione da Cass. 21593/2024 è eloquente: “non occorre che l’accertamento verso i soci risulti fondato anche su elementi di riscontro come l’analisi delle movimentazioni bancarie, l’acquisto di beni di particolare valore non giustificabili coi redditi dichiarati”. Questo perché la prova logica ritenuta sufficiente è appunto il connubio “utili extra + pochi soci”.

Prova contraria del contribuente: evoluzione giurisprudenziale

La presunzione di distribuzione è, ribadiamo, relativa (iuris tantum): i contribuenti hanno diritto di dimostrare il contrario. La domanda cruciale diventa: cosa deve provare il socio (o la società) per vincere la presunzione?

In passato, la posizione prevalente della Cassazione era piuttosto restrittiva: l’unica prova liberatoria considerata valida era dimostrare che i maggiori utili accertati sono rimasti in seno alla società, cioè non sono stati distribuiti ma accantonati o reinvestiti. Questo implica che il socio, per salvarsi, doveva sostanzialmente mostrare che l’utile occulto è stato utilizzato dall’azienda stessa (ad esempio, impiegato per acquistare cespiti, materie prime, ripianare perdite, depositato in una riserva occulta poi emersa). Non è una prova facile, ma possibile in teoria: ad esempio, se la Guardia di Finanza avesse trovato in sede di verifica un fondo in nero nella cassaforte aziendale, ancora disponibile e non distribuito, ciò proverebbe l’accantonamento. In genere, però, questo scenario è raro poiché le società a ristretta base difficilmente “parcheggiano” gli utili extrabilancio senza utilizzarli a favore dei soci. Comunque, la giurisprudenza riteneva che il socio – avendo facoltà di consultare i libri sociali e la documentazione aziendale – potesse procurarsi elementi per dimostrare questa circostanza (magari producendo bilanci interni, movimenti di cassa, ecc.). Cass. n. 24534/2017 e altre decisioni ribadivano questa linea: onere sul socio di provare accantonamento/reinvestimento in azienda.

Novità recente – la “tesi minoritaria”: Negli ultimi anni, una serie di pronunce ha aperto uno spiraglio ulteriore: si è affermato che il socio possa vincere la presunzione anche dimostrando la propria assoluta estraneità alla gestione societaria. In altre parole, se un socio prova di essere stato un socio puramente formale, senza alcun coinvolgimento nella conduzione dell’impresa, la base logica della presunzione (complicità e controllo reciproco tra soci) viene meno. Questa tesi, inizialmente minoritaria, ha preso piede: Cass. n. 7170/2022, Cass. n. 15991/2024 e soprattutto Cass. n. 18674/2024 la supportano. Si tratta di casi in cui magari un socio possedeva quote per ragioni familiari o fiduciarie ma non partecipava attivamente (ad es. un genitore anziano co-intestatario di quote per successione, un prestanome, o un investitore di pura capitalizzazione senza poteri di amministrazione).

Questa evoluzione ha avuto una conferma significativa con Cass. ord. 2464 del 2 febbraio 2025: la Suprema Corte in tale pronuncia ha espressamente aderito alla tesi più favorevole al contribuente, ritenendo ammissibile la prova contraria consistente nel dimostrare l’estraneità totale del socio alla gestione. Ha affermato che “una volta dimostrata l’assoluta estraneità del socio alla gestione della società, la massima di comune esperienza su cui si fonda la presunzione perde rilievo probatorio”. In pratica, se un socio era socio solo pro forma e può provarlo in maniera precisa e rigorosa, non è giusto presumere che abbia ricevuto utili occulti. In tal caso, la presunzione deve cedere.

Va evidenziato che nel caso concreto di Cass. 2464/2025 i soci (due fratelli ciascuno al 50%) avevano portato una serie di elementi: nessuna anomalia nei loro conti personali, anzi risultavano in difficoltà economiche (pignoramenti immobiliari subiti per garantire la società), avevano prestato fideiussioni in favore della società – tutti elementi ritenuti “incompatibili con la percezione di utili in nero” dalla CTR che li aveva accolti. La Cassazione ha poi cassato la sentenza di merito sul punto perché la CTR, secondo l’Avvocatura dello Stato, avrebbe accettato troppo facilmente queste prove difensive, che invece dovevano essere valutate con rigore. Tuttavia, la Suprema Corte non ha negato validità agli elementi in sé: ha sancito il principio che in linea di diritto la prova di estraneità è ammissibile, demandando a un nuovo giudizio la verifica se nel caso specifico tale prova fosse stata davvero convincente e completa.

Quindi, allo stato attuale (2025), il quadro è: due tipi di prova contraria sono riconosciuti legittimi per il socio:
a) Provare che i maggiori utili sono rimasti in azienda (accantonati/reinvestiti);
b) Provare di non aver avuto alcun ruolo nella gestione e conduzione sociale (socio “silente” totale).

Quest’ultima è una via particolarmente importante per i soci di minoranza o comunque non amministratori. Si pensi ad un socio al 5-10% non coinvolto nel CDA di una Srl familiare: prima era molto arduo per lui difendersi (“come facevi a non sapere?” era la tesi fiscale); ora può cercare di dimostrare che era tenuto all’oscuro e non partecipava agli utili. Naturalmente, l’onere probatorio è gravoso: occorre documentare la propria estraneità in modo preciso e rigoroso, sottolinea la Cassazione. Non basta una semplice dichiarazione di disinteresse; servono riscontri oggettivi: per esempio verbali assembleari da cui risulti dissenso o non partecipazione, evidenze che l’amministrazione era nelle mani esclusive di altri, situazione personale del socio incompatibile con l’aver percepito extra (come stato di bisogno economico, nessun incremento di patrimonio, ecc.).

È bene evidenziare che la prova contraria deve riguardare il fatto specifico: dire genericamente “non c’è prova che io abbia ricevuto i soldi” non funziona, perché la presunzione colma proprio quella lacuna. Il socio deve piuttosto dimostrare o che i soldi non ci sono proprio stati (utile mai conseguito dalla società, quindi contestare l’accertamento di base) oppure dove sono andati a finire se non li ha presi lui.

A questo proposito, un’altra situazione particolare: utili occultati ma utilizzati per coprire perdite. Se un’azienda presenta perdite di bilancio ma in realtà ha realizzato utili in nero, potrebbe avere semplicemente “pareggiato i conti” non dichiarando ricavi a fronte di costi reali. Se il Fisco riesce comunque a determinare un utile occulto, il contribuente potrebbe eccepire che quell’utile è servito a ridurre perdite cumulate e non è stato affatto distribuito. Ad esempio: la società era decotta, i soci hanno lasciato dentro i ricavi in nero per tamponare debiti o evitare un risultato peggiore. In tali frangenti si potrebbe sostenere che l’utile occulto è stato reinvestito nell’attività (in forma di minori perdite, appunto). La giurisprudenza non ha affrontato diffusamente questa ipotesi, ma per analogia rientrerebbe nella prova contraria di tipo (a) – utile non prelevato ma rimasto nell’impresa, sebbene sotto forma di mancato dissesto.

Ricordiamo infine che la presunzione di distribuzione è rivolta ai soci, non agli amministratori in quanto tali. Se però un amministratore non socio avesse in realtà intascato lui personalmente l’utile occulto (caso teorico: manager ladro), i soci potrebbero contestare che l’utile non fu distribuito a loro ma “distratto” dall’amministratore. Ciò configurerebbe una vicenda diversa (appropriazione indebita, utile occulto non distribuito ai soci). In sede fiscale questo potrebbe emergere se, ad esempio, un amministratore persona fisica viene contestualmente colpito da accertamento per redditi diversi non dichiarati: vorrebbe dire che il Fisco presume che quell’utile occulto se lo sia preso lui. Non è però una fattispecie standard: di solito la presunzione è applicata ai soci perché si presume che l’amministratore coincida con loro o agisca per loro conto.

Imputazione ai soci: lordo vs netto delle imposte

Un dettaglio tecnico su cui c’è stato dibattito: quando si imputa al socio l’utile extracontabile, si deve considerare l’importo al lordo o al netto delle imposte dovute dalla società su quell’utile? In altri termini, se la società ha evaso 100 di imponibile, su cui avrebbe dovuto pagare (poniamo) 24 di IRES, al socio vanno attribuiti 100 (utile lordo non tassato) o 76 (utile netto ipotetico se fosse stata pagata l’IRES)? La Cassazione ha chiarito che va attribuito il lordo. Questo perché, ragionando ex post, su quei 100 di utile occulto non sono state pagate affatto imposte; quindi non si può considerare detratto un importo che non è mai stato versato. La quota attribuita al socio non può essere ridotta ipotizzando le imposte societarie, proprio perché, essendo utili in nero, la società non ha versato nulla su di essi.

La logica è: se i soci si sono spartiti clandestinamente €100, se ne sono spartiti €100 interi, non €76 (non hanno versato il 24% allo Stato). Perciò, il Fisco giustamente tassa tutti e 100 in capo ai soci (oltre a richiedere separatamente alla società i suoi 24). Questo evita che qualche somma resti non colpita. La pronuncia Cass. 15274/2025 conferma questa impostazione, stigmatizzando l’argomento dei ricorrenti che avrebbero voluto l’attribuzione al netto delle imposte societarie ipotetiche. Dunque, in sede di calcolo, l’Agenzia imputando 100 al socio e tassandolo pienamente, di fatto recupera due volte l’imposta, ma in base a due titoli diversi (IRES evasa a carico società, IRPEF evasa a carico socio).

Per fare un esempio numerico semplificato: utile occulto €100, IRES 24% = €24. L’accertamento società chiede €24 + sanzioni a lei; l’accertamento socio tassa €100 al, ad esempio, 43% IRPEF = €43 + sanzioni. Il totale incassato dal Fisco può superare il 67% di quell’utile. Ciò può sembrare afflittivo, ma riflette la combinazione dei due livelli di tassazione e delle sanzioni per evasione. In ogni caso, non c’è “credito” per imposte virtualmente dovute dalla società.

Presunzione post-estinzione della società

Merita un cenno la particolare situazione in cui la società viene dissolta prima che avvenga l’accertamento. Come detto, la legge consente di accertare entro 5 anni dalla cancellazione. In tal caso, il Fisco non può più colpire la società in quanto soggetto estinto (sebbene per finzione giuridica le notifichi un atto, è un passaggio tecnico), ma si rivale direttamente sui soci. Gli utili extracontabili accertati, quindi, vengono imputati ai soci – di fatto con una presunzione “duplice”: (1) quei redditi occultati erano stati percepiti dalla società prima dello scioglimento, e (2) all’atto dello scioglimento o prima i soci li hanno incamerati. Su ciò la Cassazione è molto ferma: la cancellazione della società non salva i soci dall’accertamento di utili in nero. Anzi, proprio Cass. 21593/2024 cit. riguardava soci di società cessata, riaffermando il principio pro quota anche dopo la fine della società. Ovviamente, in simili casi i soci hanno qualche difficoltà aggiuntiva a difendersi, perché l’interlocutore societario non esiste più (non c’è più un ente che faccia ricorso autonomo): spetterà a ciascun socio impugnare il proprio avviso e contestare anche la pretesa originaria sottostante. La legge prevede che i soci rispondano dei debiti non soddisfatti fino alla concorrenza di quanto ricevuto in liquidazione (art. 2495 c.c.); l’Agenzia nelle presunzioni di utili si spinge a dire che i soci hanno di fatto ricevuto in “liquidazione occulta” gli utili stessi.

In queste vicende, la prova contraria potrebbe assumere la forma di dimostrare che i soci non hanno percepito nulla in sede di liquidazione o che addirittura la società si è sciolta in perdita. Tuttavia, se l’ufficio ha trovato utili in nero, sosterrà che quelli sono stati prelevati prima. Il socio può solo cercare di dimostrare che ciò non è avvenuto (ad esempio, provare che quell’utile occulto è stato perso in un buco finanziario, o portato via da terzi fraudolenti, etc., ma sono ipotesi difficili). La protezione del socio, come notava un autore, resta piuttosto debole in questi casi.

Con questo quadro, appare evidente che la difesa del contribuente in ipotesi di utili extracontabili richiede un approccio su più livelli: contestare l’an dell’accertamento (cioè negare proprio l’esistenza di utili extra), e in subordine contestare la presunzione di distribuzione presentando quante più evidenze liberatorie possibile. Nei prossimi capitoli ci concentreremo proprio sulle strategie difensive e sugli strumenti che il contribuente ha a disposizione per reagire.

Difesa del contribuente: strategie e strumenti

Dal punto di vista del debitore d’imposta (sia esso la società accertata, sia il socio destinatario di avviso), fronteggiare un accertamento fondato su presunzioni di utili extracontabili significa muoversi su un terreno complesso. Bisogna contestare fatti presunti e far valere i propri diritti procedurali. In questa sezione esamineremo cosa fare concretamente: quali passi compiere appena ricevuto l’avviso, quali argomentazioni utilizzare nel merito, e quali strumenti procedurali attivare per giungere a una soluzione favorevole o almeno mitigare le conseguenze.

Valutare la situazione iniziale e i possibili errori dell’accertamento

Il primo passo è un’analisi accurata dell’avviso di accertamento (o degli avvisi, se multipli). Appena notificato l’atto, il contribuente (assieme al suo consulente fiscale/legale di fiducia) dovrebbe verificare:

  • Motivazione dell’atto: L’avviso spiega sufficientemente le ragioni della rettifica? Richiama un PVC o altri atti? Se sì, sono allegati o erano già stati comunicati? Ad esempio, se il socio riceve avviso basato su quello societario, assicurarsi che quest’ultimo sia stato notificato o allegato, altrimenti eccepire la violazione dell’art.7 L.212/2000. Ogni omissione in motivazione può essere motivo di ricorso (ad es.: “l’atto impugnato è nullo perché non indica gli elementi su cui si fonda la presunta distribuzione e non allega l’atto presupposto”).
  • Notifica e termini: Controllare la data di notifica e se il termine di decadenza era rispettato (p.es., atto notificato oltre i termini? Emettere ricorso su decadenza in tal caso). Verificare se la notifica ha seguito le forme di legge: errori palesi (notifica a indirizzo sbagliato, consegna a persona non qualificata) possono costituire vizi radicali. Ad esempio, se un avviso alla società fu consegnato al portiere di uno stabile dove l’azienda non aveva sede, si può far valere la nullità della notifica. La Cassazione però è abbastanza tollerante su notifiche in sede sociale, come visto, dunque solo vizi seri reggono.
  • Quantificazione: Verificare se l’ufficio ha calcolato correttamente le imposte e sanzioni. Ad esempio, controllare che non abbia applicato due volte la stessa sanzione o che abbia considerato eventuali versamenti già effettuati. Soprattutto, vedere se c’è spazio per contestare il metodo di calcolo dell’utile extracontabile. Questo è un punto centrale del merito: l’importo accertato è convincente? Era proprio così? Spesso l’ufficio fa ricostruzioni che il contribuente può cercare di smontare in parte (ad esempio contestando alcuni indizi, riducendo il quantum).

Dopo questo screening, si potrà impostare la strategia difensiva migliore. In alcuni casi, potrebbe addirittura emergere che l’accertamento è palesemente errato o illegittimo (caso ideale: errore di persona, o doppia tassazione evidente, etc.): allora una strada è richiedere immediatamente l’autotutela all’Agenzia (istanza di annullamento/revoca in via di autotutela). Tuttavia, in materia di accertamenti complessi con presunzioni, l’Agenzia difficilmente ammette errori, a meno di evidenze clamorose. L’autotutela resta perciò ipotesi residuale.

Scelta: adesione o ricorso?

Il contribuente deve presto decidere se aderire al procedimento di accertamento con adesione (o ad altro istituto deflattivo) oppure procedere direttamente col ricorso in Commissione (ora Corte Giustizia Trib.). È una valutazione da fare col proprio consulente, considerando pro e contro:

  • Accertamento con adesione: Questo istituto consente di incontrare l’ufficio, discutere la pretesa e magari ottenere un abbattimento sia dell’imponibile accertato sia soprattutto delle sanzioni (ridotte ad 1/3 del minimo). Il contribuente può presentare istanza entro 60 gg dal ricevimento dell’avviso. Se la presenta, i termini per ricorrere si sospendono per 90 giorni. Durante l’adesione, il contribuente può portare le sue ragioni in maniera informale, esibire documenti, spiegare il suo punto di vista. Vantaggi: possibilità di spuntare un accordo più favorevole, evitare i costi e i tempi del contenzioso, sanzioni ridotte. Svantaggi: bisogna riconoscere almeno in parte il debito, l’adesione comporta rinuncia al ricorso per ciò su cui si concorda, e occorre pagare (o iniziare a pagare) entro 20 giorni dall’accordo le somme concordate. Inoltre, se l’ufficio è poco flessibile su principi consolidati (come la presunzione ai soci), potrebbe offrire sconti minimi. Nel contesto “utili extracontabili”, l’adesione potrebbe essere utile per negoziare il quantum dell’utile accertato, soprattutto se l’importo deriva da stime. Ad esempio, convincere l’ufficio a riconoscere alcuni costi in più, o ridurre i ricavi presunti. Talora si può concordare di non applicare la presunzione ai soci se questi accettano di far tassare tutto in capo alla società (ci sono stati casi di transazione in cui i soci – magari persone senza molta capacità economica – hanno ottenuto che il carico fiscale restasse sulla società). Formalmente questo non è previsto, ma nella pratica negoziale tutto è possibile se porta a chiudere la vicenda: l’ufficio potrebbe rinunciare agli avvisi ai soci se la società paga il dovuto con sanzioni. Dato che con adesione la sanzione societaria scende a 1/3 del 90% (ossia 30%), l’esborso totale per l’impresa potrebbe essere accettabile. È consigliabile percorrere l’adesione quando: il quadro probatorio a sfavore è piuttosto robusto (quindi in causa le chance di totale vittoria sono scarse), e l’ufficio manifesta apertura a rivedere un po’ l’importo. Se invece il contribuente ritiene di avere buone chance di annullare l’atto in giudizio (per vizio formale o carenza di prove) forse è meglio ricorrere direttamente.
  • Ricorso tributario: Se si opta per il ricorso, occorre presentarlo entro 60 giorni dalla notifica (estesi di 90 se si è fatta l’adesione senza accordo). Il ricorso apre la strada al giudizio davanti al giudice tributario indipendente. Vantaggi: possibilità di ottenere un annullamento integrale se si vince, o comunque di giocarsi tutte le carte difensive in un giudizio imparziale; tempi che possono anche dilatarsi (guadagnando tempo per eventuali definizioni successive, prescrizioni ecc.); eventuale transazione (conciliazione giudiziale) in corso di causa con ulteriori sconti sanzioni del 40%. Svantaggi: costi di giustizia (contributo unificato, spese legali), tempi lunghi (primo grado 1-2 anni medi, poi appello, Cassazione), rischio di soccombenza con condanna a pagare anche spese di giudizio. Inoltre, dal 2020 gli avvisi di accertamento sono esecutivi: ciò significa che, indipendentemente dal ricorso, l’Agenzia può iniziare la riscossione di 1/3 delle imposte dopo 60 giorni dalla notifica (se non c’è adesione) salvo che il contribuente ottenga una sospensione dal giudice. E dopo la sentenza di primo grado (se sfavorevole), può riscuotere un altro 50% dell’importo residuo, e così via. Quindi il contribuente che ricorre rischia di dover pagare una parte subito o di dover richiedere apposita sospensiva. Nel nostro caso, importi elevati spesso inducono a chiedere sospensione dell’esecutività: occorre presentare un’istanza motivata di sospensione cautelare, evidenziando il fumus boni iuris (i motivi del ricorso sembrano fondati) e il periculum (pagare subito creerebbe danno grave, es. azienda fallirebbe, persona rovinata). Le Corti sono abbastanza ricettive verso sospensioni se l’importo è ingente e il ricorrente mostra almeno un motivo serio. Con la sospensione, la riscossione è congelata fino alla sentenza di merito. Nel ricorso, come vedremo, bisognerà articolare sia motivi formali (se ce ne sono) che motivi sostanziali, tra cui la contestazione stessa dell’applicabilità della presunzione. Pur sapendo che la Cassazione la legittima, in primo e secondo grado alcuni giudici potrebbero essere convinti da eccezioni come il doppia presunzione, la non definitività dell’accertamento societario, ecc. (qualche CTR in passato le ha accolte, pur essendo orientamento minoritario). Specialmente, se si è nel solco della tesi minoritaria, si farà leva su estraneità del socio etc.

In molti casi, la soluzione mista è: presentare istanza di adesione (per guadagnare tempo e magari capire la posizione dell’ufficio) e intanto preparare il ricorso. Se l’adesione fallisce o non soddisfa, depositare il ricorso (tenendo conto della sospensione di 90 gg del termine). Questo consente di non perdere opportunità.

Argomentazioni difensive di merito

Nel ricorso (o in sede di adesione come argomenti negoziali) il contribuente dovrà sviluppare le proprie difese nel merito. Elenchiamo le principali strategie:

1. Negare l’esistenza stessa di utili extracontabili (contestare l’accertamento a carico società) – È la difesa più radicale: dimostrare che l’ufficio ha sbagliato nel ricostruire il maggior reddito. Se riesce, cade tutto a monte (nessun utile occulto = nulla da distribuire). A seconda del caso, si tratterà di smontare gli indizi dell’ufficio: ad esempio, provare che i versamenti bancari erano giustificati (fornendo documenti, spiegazioni alternative), che le fatture contestate erano invece reali (esibendo documentazione a supporto dell’operazione ritenuta fittizia), che gli studi di settore non erano applicabili, ecc. Si può anche contestare errori di calcolo (l’ufficio ha sovrastimato le percentuali, non ha dedotto costi correlati ai ricavi in nero). Esempio: se l’ufficio ha presunto €500.000 di vendite in nero basandosi su un consumo di materia prima e margini standard, il contribuente può portare dati che riducono quella stima (sprechi di produzione non considerati, margini effettivi inferiori, errori nei conteggi GdF, ecc.). Più il contesto è complesso, più margine c’è di attaccare la quantificazione.

Nota: Una giurisprudenza ormai uniforme dice che in giudizio non vale come difesa dire “l’ufficio non ha prove sufficienti, quindi annullate” se l’ufficio ha presentato un quadro presuntivo coerente: spetta al contribuente, per evitare la tassazione, fornire elementi contrari. Quindi non ci si può limitare a dire “mancano prove gravissime”, meglio portare proprio controprove.

2. Eccepire l’inapplicabilità della presunzione in quello specifico caso – Se vi sono elementi per sostenere che la base sociale non era davvero ristretta o che comunque la situazione è atipica. Ad esempio, se formalmente i soci erano pochi ma in realtà alcuni agivano per conto terzi numerosi (situazioni borderline), oppure se i soci non si conoscevano tra loro (caso raro in una Srl, ma ipoteticamente). Questo argomento raramente prospera, però potrebbe essere tentato: mostrare che non c’era quel vincolo di solidarietà gestionale. Ad esempio citando Cass. 2464/2025 (tesi minoritaria) si può sostenere che almeno per uno dei soci la presunzione non dovrebbe valere perché era estraneo. Oppure che la società non era a base familiare ma aveva due soci totalmente indipendenti e litigiosi, tali da rendere inverosimile un accordo occulto per dividere utili.

3. Provare la non distribuzione degli utili (accantonamento) – Se il contribuente ha elementi per provare che l’utile occulto è rimasto nella società, deve portarli. Ad esempio: bilanci successivi con riserve inesplicate, disponibilità finanziarie non allocate. A volte si può sostenere che l’utile occulto è stato reinvestito in azienda in forma non ufficiale: magari la società lo ha utilizzato per pagare dipendenti in nero, o per fare acquisti anch’essi non fatturati. Paradossalmente, ammettere un’irregolarità per evitarne un’altra: se si dicesse “è vero, la società aveva vendite non dichiarate per 100, ma con quei 100 ha pagato lavoro nero ai dipendenti e non sono finiti ai soci”, si scambia una presunzione con un’altra. Non è facile, ma se adducessi prove di uscite in nero coincide con altre violazioni. Comunque, se dovesse emergere (es: libretto con paghe occulte a operai), potrebbe dimostrare che i soci non hanno incassato.

4. Provare l’estraneità del socio – Questa difesa come visto è oggi presa in considerazione. Un socio deve presentare tutto ciò che testimonia il suo non coinvolgimento: ad es. documentare che risiede lontano e non partecipava, che era socio solo perché parente ma senza deleghe; portare in giudizio eventuali dichiarazioni dell’altro socio o di amministratori che confermino che quel socio non percepiva nulla. Attenzione: eventuali testimonianze dirette in tributario non sono ammesse (art. 7 D.Lgs.546/92 vieta la prova testimoniale), ma si possono produrre dichiarazioni scritte rese in altre sedi o nell’accertamento con adesione. Oppure si può chiedere CTU contabile per esaminare flussi finanziari del socio (per vedere che non ha introiti inspiegabili). Un argomento può essere: “il socio Alfa era solo un prestanome (o socio di capitale) e gli utili occulti furono trattenuti dal socio Beta che gestiva: dunque Alfa non li ha percepiti e non li può subire a tassazione”. Suonerà come scaricabarile, ma se Beta è colui che di fatto incassò, l’ufficio potrebbe replicare tassando Beta per l’intero (cosa che a quel punto Beta contesterebbe). Non è semplice, serve convincere giudice che nel caso concreto la massima di esperienza non si attaglia.

5. Vizi procedurali – Contestazioni come: mancato contraddittorio anticipato quando era obbligatorio. Ad esempio, per accertamenti sui redditi dal 2016 in poi è divenuto obbligatorio invitare il contribuente a comparire prima di emettere l’avviso in alcune situazioni (in ottemperanza a pronunce UE e a normative interne). Se l’ufficio non lo ha fatto e doveva, è nullità. Oppure: omessa risposta a questionari ex art.32 e decadenza dalle prove (questioni tecniche). Ogni vizio procedurale dev’essere valutato: se c’è, va fatto valere in ricorso, può portare ad annullamento indipendentemente dal merito.

6. Questione penale pendente – Se c’è un procedimento penale parallelo, la difesa tributaria potrebbe chiedere una sospensione del processo tributario in attesa dell’esito penale (art. 295 c.p.c. per pregiudizialità). Tuttavia, nella maggior parte dei casi la giurisprudenza esclude che il processo penale abbia effetto pregiudicante su quello tributario, data l’autonomia. Solo se nel penale si discute di un fatto la cui esistenza è condizione perché esista l’obbligazione tributaria, allora forse (es: se penalmente si stabilisse che le fatture non erano false ma vere, cadrebbe la base dell’accertamento). Ma richiedere sospensione per aspettare il penale raramente viene accolto dal giudice tributario, se non in casi molto particolari.

7. Contestare le sanzioni e la loro entità – Anche se l’an delle imposte fosse confermato, il contribuente può ottenere almeno la riduzione o annullamento delle sanzioni amministrative invocando ad esempio la non colpevolezza (art. 6 D.Lgs.472/97 prevede che se l’errore è giustificabile, le sanzioni possono essere escluse; difficile in questi casi di evasione volontaria, ma non impossibile se ad es. il socio prova di essere stato ignaro, può dire che soggettivamente non ha colpa per l’omessa dichiarazione di quei redditi). Oppure far valere la continuazione fra violazioni per farsi applicare la sanzione unica più favorevole. O chiedere la sanzione minima se non già data.

8. Solidarietà e doppi adempimenti – Un socio potrebbe anche eccepire che l’aver già tassato la società e riscosso (o iscrittone a ruolo) da questa, esclude di esigere di nuovo dagli stessi soggetti. Però questo non ha base legale: il sistema volutamente crea due obblighi distinti. Non c’è una norma che dica “se paga la società, i soci non pagano”, a differenza dell’IVA (dove c’è divieto di doppia imposizione su stesso presupposto, ma qui sono imposte diverse). Al più, in equità, se la società ha poi distribuito utili ufficiali su cui i soci hanno pagato imposta sostitutiva, si potrebbe evitare di ritassare la stessa somma, ma di solito utili occulti per definizione non risultano distribuiti ufficialmente.

In sintesi, la difesa deve essere calibrata sul caso specifico: se il socio è effettivamente colui che ha orchestrato l’evasione ed incassato il nero, le sue chance sono minime (potrà solo sperare in vizi formali o riduzioni sanzioni). Se invece ci sono zone d’ombra, errori o soci di minoranza non coinvolti, su questi aspetti bisogna puntare.

Strumenti procedurali durante il contenzioso

Oltre al ricorso e all’eventuale appello, ricordiamo alcuni strumenti che possono essere impiegati:

  • Istanza di sospensione dell’atto impugnato: da proporre alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado, normalmente contestualmente al ricorso (o anche dopo se emergono condizioni). Come detto, bisogna dimostrare un danno grave dal pagamento immediato e una fondatezza almeno apparente del ricorso. Nel caso di utili extracontabili, se gli importi sono molto alti e magari il socio ha un patrimonio modesto, è plausibile ottenere la sospensione (il danno grave c’è). Ciò evita che Equitalia (Agenzia Entrate Riscossione) avvii fermi, ipoteche, pignoramenti nel frattempo.
  • Mediazione/conciliazione giudiziale: per atti di valore fino a €50.000 (calcolato come imposte senza interessi) – anche se in riforma è cambiato – era obbligatorio il reclamo-mediazione prima del processo, con presentazione reclamo all’ufficio. Oggi, con la riforma, per ricorsi dal 2023 la mediazione non è più obbligatoria ma comunque possibile la conciliazione in udienza. Tenete conto se rientrate nella vecchia disciplina (atti ante 2023). Nel nostro caso, spesso gli importi superano 50k, quindi niente reclamo; ma se fosse sotto, occorre depositare reclamo (che funge anche da ricorso) e attendere 90 giorni. In ogni caso, anche durante il giudizio, fino all’udienza di trattazione in primo e secondo grado, si può tentare una conciliazione con l’ente impositore: è come un mini-accordo transattivo, con sanzioni ridotte al 40%. Ad esempio, se in giudizio gli elementi portati dal contribuente appaiono solidi, l’ufficio potrebbe proporre di chiudere al, diciamo, 50% dell’imponibile con sanzioni ridotte. Conviene tenere aperta questa porta se l’esito è incerto.
  • Documentazione e perizie: Il contribuente può produrre in giudizio tutta la documentazione utile, anche quella non esibita in fase amministrativa (salvo non l’abbiano specificamente richiesta prima, in quel caso se fu omessa potrebbe esserne precluso l’uso per via dell’art. 32 cit. – attenzione a questo: se l’ufficio in verifica o via questionario chiese certi documenti e il contribuente non li fornì senza giustificazione, poi non può tirarli fuori in giudizio). Si può anche chiedere CTU contabile se c’è da ricostruire conti complessi, oppure far testimoniare un perito della GdF (in teoria testimonianze dirette non ammesse, ma i verbalizzanti possono essere sentiti come chiarimenti). Comunque, predisporre un fascicolo probatorio robusto è essenziale data la natura indiziaria. Ad esempio, allegare gli estratti conto dei soci per provare che non vi furono entrate extra, allegare bilanci e visure, allegare eventuali corrispondenze o email interne che mostrano il ruolo di ciascuno, ecc.
  • Separazione dei giudizi: se sono pendenti paralleli il giudizio della società e quelli dei soci, conviene chiedere la riunione dei ricorsi (se in stessa CTR) oppure quantomeno segnalare al giudice l’esistenza degli altri. Questo per evitare decisioni contrastanti (es. che la società vinca annullando l’utile, ma il socio perda e si veda tassato su utile che poi non c’è). In linea di principio, se la società ottiene l’annullamento dell’accertamento, i soci dovrebbero di riflesso vincere perché cade la base (anche se formalmente occorre fare un ricalcolo). L’ordinamento prevede che i giudizi connessi possano essere sospesi in attesa l’uno dell’altro per uniformità. Strategicamente, se la società ha una difesa più forte (perché magari c’erano vizi procedurali nell’accertamento societario), si potrebbe puntare prima a far annullare quello, e poi far valere l’effetto per i soci. Viceversa, se la società era inattiva o irreperibile e non ricorre, i soci dovranno sostenere anche la difesa indiretta (dimostrare che l’accertamento societario era infondato: lo possono fare, essendo il presupposto logico, sebbene formalmente non fosse parte del loro atto, in giudizio si potrà discutere anche di quello).
  • Prescrizione e riscossione: se il contenzioso va per le lunghe, ricordare che le sanzioni amministrative tributarie si prescrivono in 5 anni dal momento in cui l’atto impositivo è divenuto definitivo. Nel caso di giudizio, se uno perde e non paga, poi l’ente deve iscrivere a ruolo e iniziare esecuzione entro certi termini. E i crediti erariali si prescrivono in 10 anni (come le imposte in genere). Dunque, monitorare anche quell’aspetto a lungo termine può tornare utile (ma di solito dopo il giudizio l’ente riscuote rapidamente o con piani rateali).

In conclusione, il contribuente-debitore di fronte a un accertamento da utili extracontabili ha alcuni margini di manovra ma deve agire in modo tempestivo e strutturato. Nella prossima sezione, affronteremo specificamente gli aspetti penali correlati e come questi interagiscono con la strategia complessiva.

Aspetti penali correlati agli utili extracontabili

L’emersione di utili extracontabili spesso comporta non solo conseguenze fiscali, ma anche possibili responsabilità penali tributarie. Esaminiamo quali reati possono configurarsi, quali sono le soglie rilevanti (in vigore nel 2024-2025) e come la presenza del procedimento penale influenza (o non influenza) la posizione del contribuente.

Reati configurabili e soglie di punibilità

I principali reati tributari che entrano in gioco quando si occultano utili sono:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs.74/2000): scatta quando nella dichiarazione annuale delle imposte sui redditi o IVA si indicano elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, e questo genera un’evasione d’imposta superiore a determinate soglie. Per la dichiarazione infedele le soglie attualmente vigenti (modificate dal D.Lgs.158/2015 e D.L.124/2019) sono: imposta evasa > €100.000 e contemporaneamente somme non dichiarate > 10% del reddito dichiarato o comunque > €2 milioni. Entrambi i requisiti devono sussistere (ad esempio, se uno occulta €1 milione su €10 milioni dichiarati – 10% esatto e €? di imposta evasa – dipende dall’aliquota, ma se <100k evasa niente reato; se occulta €3 milioni su €30 milioni – 10% = €3m e poniamo €900k di imposte evase, allora reato c’è). La pena è la reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi (dopo aggravamento 2019). Dunque, se in una società l’occultamento di utili ha portato a evadere più di 100mila € di IRES, l’amministratore o chi ha firmato la dichiarazione può essere imputato per questo reato. Nota: dal 2015 la dichiarazione infedele copre anche l’aver indicato crediti/detrazioni non spettanti oltre soglie, ma per gli utili in nero tipicamente parliamo di ricavi non dichiarati o costi fittizi.
  • Omessa dichiarazione (art. 5): punisce chi omette del tutto di presentare la dichiarazione annuale quando dovuta, se l’imposta evasa supera €50.000. Pena da 2 a 5 anni. Nel nostro contesto, se la società non avesse proprio presentato la dichiarazione dei redditi per quell’anno (ipotesi estrema) e poi emergono utili, sarebbe questo reato. Più spesso, però, le società presentano dichiarazione ma falsa (infedele).
  • Dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3): più grave, riguarda l’uso di mezzi fraudolenti per evadere. Art. 2 copre l’uso di fatture o documenti falsi, art. 3 altri artifici (contabilità doppia, falsi in bilancio rilevanti fiscalmente). Se l’occultamento di utili passa per fatture false, allora c’è dichiarazione fraudolenta art.2, soglia imposta evasa > €100.000 (per art.2 non c’è soglia sugli importi come 10% come per infedele). La pena è da 4 a 8 anni (anche aumentata nel 2019). Ad esempio, la S.r.l. che ha utilizzato fatture per operazioni inesistenti (caso Cass.15274/2025) vede configurarsi art.2 D.Lgs.74/2000 a carico di chi ha emesso la dichiarazione con quelle fatture in deduzione.
  • Emesso false fatture (art. 8): se un soggetto ha emesso fatture false per creare costi fittizi, c’è reato distinto (ma magari non riguarda direttamente la società utilizzatrice, bensì chi gliele ha fornite, spesso società cartiera).
  • Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10): punisce con reclusione 3-7 anni chi occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili, al fine di evadere le imposte. Se per nascondere i redditi in nero l’amministratore ha tenuto una contabilità parallela e nascosto quella ufficiale, oppure ha bruciato documenti, questo reato è configurabile. Non richiede soglie di imposta; è un reato di pericolo, basta l’intenzione. Nel contesto utili extracontabili, ad esempio, se la GdF scopre che manca il registro dei corrispettivi di un certo periodo, o che sono stati alterati, potrebbe contestare l’art.10.
  • Omesso versamento IVA (art. 10-ter): se l’occultamento di ricavi ha portato anche a non versare l’IVA incassata sui ricavi, potrebbe emergere così: normalmente chi occulta ricavi non li fattura, quindi l’IVA non l’ha nemmeno dichiarata (quindi è più dichiarazione infedele). Ma se li ha fatturati e non pagati, allora art.10-ter (sopra €250k IVA omessa annua). Più attinente potrebbe essere Omesso versamento ritenute (art. 10-bis) se i soci avrebbero dovuto subire ritenuta su utili (20-26%) e non è stata versata. Tuttavia, la ritenuta sui dividendi formalmente non si applica perché non c’è distribuzione deliberata. Quindi direi non direttamente rilevante.

In pratica, chi rischia penalmente? In primis l’amministratore o legale rappresentante che ha sottoscritto le dichiarazioni infedeli della società. Il socio in quanto tale generalmente no, a meno che coincida con l’amministratore (tipico nelle piccole società). Se un socio è puro e non gestore, difficilmente sarà imputato penalmente solo per aver (presuntivamente) ricevuto utili in nero – a meno che la Procura non provi che abbia partecipato attivamente all’evasione, ma allora lo inquadra come concorso nei reati del dichiarante. Il beneficio economico da solo non basta per un’indagine penale: serve la condotta di falsità nella dichiarazione. Però bisogna stare attenti: se i soci sono, poniamo due fratelli che di fatto insieme decidevano di occultare vendite, entrambi potrebbero essere considerati istigatori o complici della frode fiscale, pur se solo uno firmava la dichiarazione.

Quanto alle soglie, abbiamo visto quella cruciale di €100.000 imposta evasa per infedele e dichiarazione fraudolenta. Oltre c’è reato, sotto no. Ad esempio, se la società occultava utili ma l’evasione IRES annua era €80k, non c’è reato di infedele (resta violazione amministrativa). Questo può influire anche sui termini raddoppiati: se l’importo è sotto soglia, l’ufficio non può invocare il raddoppio dei termini per reato (perché non c’è reato configurabile). Sovente però, occultamenti significativi in società implicano imposte alte.

Attenzione: per i reati dichiarativi (infedele/fraudolenta) contano i singoli periodi d’imposta e relative dichiarazioni. Quindi se l’azienda ha occultato 50k imposta evasa per 2 anni consecutivi, ogni anno singolarmente è sotto soglia, non c’è reato (non si sommano). Invece per omesso versamento IVA la soglia riguarda l’anno e non frazionabile.

Iter del procedimento penale e interazione con il tributario

Una volta che la Guardia di Finanza o l’Agenzia riscontra l’evasione penalmente rilevante, scatta la segnalazione alla Procura. Da lì:

  • Indagini penali, eventualmente con acquisizioni documentali (spesso gli stessi PVC di verifica fanno prova), interrogatori, ecc. Se c’è flagranza di reato (es. scritture distrutte colti sul fatto) persino misure cautelari. Ma di solito si procede con calma.
  • In parallelo, come detto, il procedimento tributario va avanti. L’esito penale non è vincolante per il Fisco (autonomia). Una condanna penale definitiva per frode fiscale chiaramente rende difficilissimo difendersi in Commissione, perché avrà accertato gli stessi fatti oltre ogni dubbio; viceversa un’assoluzione penale perché “il fatto non sussiste” (es. il giudice penale ha ritenuto che non vi fossero in realtà vendite occulte) dovrebbe riflettersi nel tributario (il contribuente la userà per farsi assolvere fiscale). In generale però, come già evidenziato, gli standard probatori differiscono e il penale può anche finire con esiti diversi.

Un punto nodale: il pagamento del debito tributario. L’art. 13 D.Lgs.74/2000 prevede che per i reati di cui agli artt. 4 e 5 (infedele, omessa) il pagamento integrale del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento di primo grado causa la non punibilità del reo. Ciò significa che se l’imprenditore paga tutte le imposte evase, gli interessi e le sanzioni amministrative, entro la fase iniziale del processo (indicativamente entro la prima udienza dibattimentale), il reato si estingue. Questo incentiva molto a regolarizzare: se uno riesce a pagare, evita la condanna. Anche per i reati più gravi (dich. fraudolenta) l’art. 13 prevede almeno una circostanza attenuante se si paga, e condiziona l’accesso al patteggiamento al pagamento (in realtà una norma del 2019 aveva reso obbligatorio il pagamento per patteggiare, ma la Consulta l’ha dichiarata incostituzionale per i reati diversi da infedele/omessa, tuttavia in prassi i giudici gradiscono comunque la sistemazione del debito).

Quindi, dal punto di vista del debitore intelligente, se vede un rischio penale e ha risorse o può procurarsele, converrà valutare seriamente di pagare il dovuto (magari anche con le sanzioni ridotte se fa adesione o conciliazione) in tempo utile. Questo non solo lo salva dal penale, ma risolve ovviamente anche la pretesa fiscale. In alcuni casi in cui l’importo è enorme e non pagabile, si può tentare strade di dilazione: il D.Lgs.74/2000 permette di ottenere la sospensione del processo fino a 2 anni se c’è un piano di rateizzazione in corso (come da modifica 2019, art.13-bis). Ciò per dare modo di completare i pagamenti e fruire della non punibilità o attenuante. Esempio: un imprenditore incriminato per €1 milione di imposte evase chiede e ottiene un piano di rate in 5 anni dall’Agente di riscossione; il giudice può sospendere il processo, e se tra 5 anni è tutto pagato, dichiarare non doversi procedere (per infedele/omessa) o mitigare la pena (per frode).

Dal lato della difesa nel merito penale, rilevano concetti come il dolo: per la dichiarazione infedele occorre il dolo specifico di evadere (cioè l’intenzione), che normalmente c’è quando volutamente nascondi ricavi o inserisci costi finti. Nel caso di amministratori non coinvolti o soci estranei, potrà capitare che penalmente vengano prosciolti per mancanza di dolo (se dimostrano di non aver saputo), mentre fiscalmente il tributo era dovuto lo stesso.

Un altro aspetto: i sequestri. Se c’è un procedimento penale, la Procura spesso richiede un sequestro preventivo per equivalente del profitto del reato (che coincide con le imposte evase). Dunque, i beni dell’indagato (conti, immobili) possono venire bloccati sino a concorrenza dell’imposta evasa + eventuali sanzioni penali pecuniarie. Questo può colpire duramente il patrimonio personale degli amministratori (e eventualmente dei soci ritenuti concorrenti). Il sequestro preventivo penale può essere poi convertito in confisca a condanna definitiva. L’unico modo per liberare quei beni è pagare il debito tributario, che porta alla revoca del sequestro per cessazione delle esigenze (in quanto non punibile). Anche in ottica di protezione del patrimonio, quindi, conviene risolvere la questione fiscale.

In sintesi:

  • Il socio non amministratore generalmente non è destinatario principale del penale, salvo situazioni di complicità attiva. Il debitore principale in sede penale è chi ha amministrato e presentato dichiarazioni.
  • Un’accusa penale è un grosso elemento di pressione: può spingere il contribuente a trovare risorse per sanare.
  • Dal punto di vista difensivo, la miglior tutela penale è anticipare: regolarizzare prima di essere scoperti (es. col ravvedimento operoso totale, che se fatto prima di notizie di reato esclude reato; dopo la notifica di PVC non più, ma prima sì). Se state leggendo questa guida e siete in epoca antecedente a un’accertamento ma consapevoli di avere utili occulti, valutate il ravvedimento: pagando spontaneamente prima che vi contestino, i reati non si configurano affatto (il ravvedimento come “scudo” penale funziona per infedele/omessa se completato prima che l’Amministrazione abbia formale conoscenza dell’illecito).

In conclusione su penal: il debitore deve affrontare su due fronti e coordinare le mosse. Spesso la scelta ottimale – se ne ha la possibilità – è risolvere la partita fiscale per togliersi di dosso anche la spada di Damocle penale. Se ciò non è praticabile, occorre comunque difendersi in entrambi i processi con argomentazioni appropriate, tenendo conto delle differenze di foro (ad esempio, come detto, la presunzione pura non basta per condannare penalmente: serviranno prove concrete che l’amministratore fosse consapevole e attivo nell’occultamento).

Nel capitolo seguente, metteremo a fuoco alcuni casi pratici ed esempi concreti, e una sezione di Domande & Risposte ricapitolerà i dubbi più frequenti in maniera diretta.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito proponiamo una serie di domande comuni sul tema “accertamento da presunzione di utili extracontabili”, con risposte concise che riassumono quanto visto finora e forniscono indicazioni pratiche.

D: Cosa significa esattamente “utili extracontabili”?
R: È sinonimo di utili “in nero”, ossia profitti effettivamente realizzati da un’attività economica ma non registrati nelle scritture contabili e non dichiarati al Fisco. Possono derivare da vendite non fatturate, ricavi occultati o anche risparmi d’imposta ottenuti mediante costi fittizi. In pratica, la parte di utile aziendale nascosta al Fisco.

D: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire utili non contabilizzati?
R: Utilizza vari strumenti di controllo e analisi. Ad esempio: incrocio di dati da fornitori e clienti (se un fornitore dichiara vendite al soggetto e questi non le registra, emerge uno scostamento), indagini finanziarie sui conti bancari (versamenti sospetti non giustificati da fatture attive possono indicare ricavi in nero), controlli del tenore di vita dei soci (acquisti di lusso non compatibili col reddito dichiarato), accessi e verifiche presso l’azienda (esame fisico delle scorte di magazzino, riscontro di doppi documenti o appunti extracontabili). Inoltre confronta margini e indicatori economici con quelli di settore: incongruenze marcate possono far scattare approfondimenti. La Guardia di Finanza in particolare ha reparti specializzati in verifiche tributarie che scovano anomalie contabili e seguono flussi di denaro non ufficiali.

D: In cosa consiste l’“accertamento induttivo basato su presunzioni”?
R: È un tipo di accertamento in cui l’Amministrazione ricostruisce il reddito imponibile del contribuente non (o non solo) in base alle scritture contabili, ma tramite indizi e presunzioni. Analitico-induttivo quando i libri contabili esistono ma sono in parte inattendibili, induttivo puro quando manca del tutto una contabilità affidabile. Si fonda su presunzioni che devono essere gravi, precise e concordanti: ossia su un insieme di elementi presuntivi sufficientemente robusti (ad es. movimenti finanziari non spiegati, ricarichi anomali, consumi di materie prime incoerenti con le vendite dichiarate, ecc.). Se tali presunzioni reggono, l’ufficio può quantificare maggiori ricavi o minori costi e determinare un nuovo reddito su cui applicare le imposte. È quindi un accertamento “per deduzione logica”, contrapposto all’accertamento analitico classico che si basa solo su prove dirette (come ricevute mancanti, errori contabili specifici). Nel nostro caso, l’accertamento di utili extracontabili è per definizione induttivo, perché si deduce l’esistenza di utili nascosti da segni indiretti.

D: Quando scatta la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili?
R: Questa presunzione scatta automaticamente (salvo prova contraria) in presenza di due condizioni:

  1. La società accertata è una società di capitali a ristretta base partecipativa (pochi soci, spesso familiari o comunque collegati).
  2. Viene accertato un maggior reddito imponibile non dichiarato (utili extracontabili) in capo alla società.

Se c’è questo scenario, si presume che i maggiori utili siano stati distribuiti “pro quota” ai soci nell’anno stesso in cui la società li ha conseguiti. Ad esempio, una S.r.l. con 2 soci al 50% ha occultato utili per €100.000 nel 2022: il Fisco presuppone che €50.000 siano andati a ciascun socio nel 2022 come utili in nero. A quel punto, notifica ai soci avvisi per tassare quei €50.000 a testa come redditi di capitale non dichiarati.

D: La presunzione vale anche se i soci non sono persone fisiche ma altre società?
R: Sì, vale comunque. La Cassazione ha chiarito nel 2025 che anche se la compagine sociale è fatta da altre società (ad esempio holding, fiduciarie), l’importante è vedere se dietro di esse il controllo è in poche mani. Se la sostanza è che c’è un piccolo gruppo familiare o di soci di riferimento che, tramite le varie scatole societarie, detiene l’azienda, la presunzione si applica ugualmente. In altre parole, le società intermedie sono considerate un “mero schermo” non opponibile al Fisco. Occorrerà poi imputare gli utili ai soci finali effettivi. Quindi, se Alfa Srl (base ristretta) ha come unico socio Beta Srl, e questa a sua volta è posseduta da due fratelli, l’utile occulto di Alfa sarà considerato distribuito pro quota ai due fratelli (tramite Beta).

D: Sono socio al 10% di una S.r.l. familiare, ma non sono parente né coinvolto nella gestione. Rischio di dover pagare tasse su utili che non ho mai ricevuto?
R: Potenzialmente , secondo la presunzione generale. Tuttavia, hai la possibilità di difenderti dimostrando la tua estraneità ai fatti di gestione. La Cassazione di recente (orientamento minoritario ma accolto) ha riconosciuto che se il socio prova di essere stato totalmente estraneo alla conduzione societaria (un socio solo di nome, senza poteri né ruolo attivo), la presunzione di distribuzione non deve applicarsi a lui. Quindi nel tuo caso dovresti, in caso di accertamento, presentare in giudizio tutti gli elementi che provano che tu non partecipavi agli utili e non avevi voce in capitolo (es. non eri amministratore, vivevi altrove, nessun bonifico o beneficio a tuo favore dalla società, magari i soci di maggioranza possono testimoniare che reinvestivano tutto e tu non percepivi nulla). Se riesci a convincere i giudici, potresti essere escluso dalla tassazione degli utili in nero (o quanto meno far annullare l’avviso verso di te). Attenzione però: è una difesa non facile, serve estraneità “assoluta” dimostrata. Se semplicemente eri socio minoritario ma comunque sapevi e lasciavi fare, la presunzione tenderà a colpire anche te.

D: Come posso provare che i soci non si sono divisi gli utili in nero?
R: La prova classica è mostrare che gli utili extra sono rimasti nell’azienda, cioè sono stati reinvestiti o accantonati. Ad esempio, se il denaro in nero è confluito in una riserva occulta e usato per comprare macchinari poi registrati ufficialmente (magari come apporto soci), potresti documentare questo flusso. Un’altra prova, come detto, può essere la totale estraneità di uno o più soci. Inoltre, qualsiasi elemento che contraddica la percezione di utili in nero: ad esempio, nessun aumento di ricchezza personale dei soci in quegli anni (case, auto, investimenti assenti); addirittura, se vi sono tracce che i soci hanno dovuto immettere denaro proprio per sostenere la società (es. versamenti soci, fideiussioni escusse), ciò mal si concilia con l’idea che abbiano anche prelevato utili occulti. Nel caso esaminato dalla CTR in Cass.2464/2025, p.es., i soci provarono: zero movimenti bancari anomali, anzi conti in rosso; case pignorate per debiti sociali; insomma, profittabilità nulla per loro. Questi indizi hanno convinto il giudice d’appello (anche se poi Cassazione ha chiesto di riesaminarli con attenzione). In sintesi: puoi utilizzare estratti conto, bilanci, documenti aziendali e qualsiasi fatto (anche testimoni in sede penale, o dichiarazioni rese in adesione) che faccia capire che quei soldi non sono finiti ai soci ma sono stati destinati altrove o non sono proprio mai esistiti come utili liquidi.

D: La società ha già pagato le imposte evase su quei utili; devono pagarle di nuovo i soci? Non è una doppia tassazione?
R: In realtà, sì e no. È doppia imposizione economica ma non illegittima. Il sistema fiscale sulle società di capitali prevede di base due livelli di tassazione: società (IRES) e soci (IRPEF su dividendi). Se si froda il Fisco occultando utili, quando vieni scoperto recuperano entrambi i livelli: la società paga l’IRES evasa, e i soci pagano l’IRPEF sul dividendo in nero. Non c’è una norma che eviti al socio di essere tassato se la società ha pagato, perché sono due soggetti diversi e due presupposti distinti. Inoltre, come abbiamo chiarito, i soci vengono tassati sull’importo lordo degli utili occulti, senza scomputo dell’IRES teorica. Dunque succede spesso che sommando il prelievo su società e soci si superi anche il 60-70% dell’utile. È duro, ma è la conseguenza di aver cercato di eludere entrambi i livelli. Possiamo dire che il sistema punisce così la doppia evasione (societaria e personale). In altre parole, la legge considera che il socio ricevendo utili in nero non abbia sopportato il prelievo societario, quindi glielo fa pagare per intero come se fosse reddito ordinario suo. Quindi, purtroppo, sì, anche se la società paga, i soci devono comunque pagare la loro parte e viceversa – non c’è compensazione. L’unico caso in cui il socio potrebbe ottenere qualcosa è se l’ufficio ha erroneamente imputato al socio più del dovuto (ad esempio conteggi duplicati); allora va corretta la determinazione. Ma se tutto è fatto secondo le regole attuali, il socio non può eccepire doppia tassazione giuridica, perché il reddito di capitale del socio è un’altra categoria rispetto al reddito d’impresa della società.

D: Cosa succede se la società viene sciolta prima che il Fisco scopra gli utili occulti? I soci sono responsabili?
R: Sì, i soci rimangono responsabili. La chiusura della società non è un escamotage per sfuggire: la legge (art. 28 co.4 D.Lgs 175/2014) consente di notificare accertamenti entro 5 anni dalla cancellazione. L’Agenzia, in tali casi, di fatto accerta il reddito evaso come se la società vivesse ancora e lo attribuisce direttamente ai soci. In pratica, arriva al socio un avviso di accertamento per il reddito di partecipazione relativo agli anni passati in cui la società era attiva, con la presunzione che eventuali utili non dichiarati siano finiti a lui in sede di liquidazione o prima. I soci rispondono entro il limite di quanto hanno ricevuto dal patrimonio sociale in liquidazione, ma attenzione: se parliamo di utili in nero, per definizione non comparivano nel bilancio finale, quindi il Fisco assume che se li sono presi fuori bilancio. In sostanza, i soci non sono al riparo; anzi, come evidenziato in dottrina, la loro posizione è più debole perché non c’è più la società come entità interposta a fare da “scudo”. Avranno comunque diritto di difesa e di provare che magari la società si era sciolta senza attivo (quindi se c’erano utili in nero sono andati persi o spesi per debiti). Ma non possono opporre la cessazione come motivo di non tassabilità. Anche la Cassazione ha detto che, cancellata la società, “i soci rischiano di rimanere soggetti all’insidia degli utili extracontabili”. Dunque, sciogliere l’azienda non immunizza dal fisco sugli utili nascosti di prima.

D: Quali sanzioni fiscali si applicano in caso di accertamento di utili in nero?
R: Dal lato società, la violazione tipica è dichiarazione infedele sui redditi (imposta evasa > 5% del dichiarato o >€2m, e comunque c’è evasione di regola), quindi la sanzione amministrativa è il 90% della maggiore imposta (aliquota ordinaria per infedele). Può salire fino al 180% in caso di condotte aggravate o recidiva, ma di solito l’ufficio applica il 90% (il minimo). Se c’è anche IVA evasa, sanzione 90%-180% dell’IVA non versata. Dal lato socio, l’omessa indicazione di redditi di capitale nella sua dichiarazione IRPEF è anch’essa dichiarazione infedele (o omessa), sanzionata al 90%-180% dell’imposta corrispondente. Quindi, ad esempio, se ad un socio si imputano €50.000 in più di reddito (con imposta poniamo €20.000), la sanzione sarà €18.000 (90% di 20k) più interessi. Tali sanzioni possono essere ridotte: 1/3 in adesione, 1/3 in acquiescenza (se non si fa ricorso), riduzioni per conciliazione (40% in caso di conciliazione giudiziale). Se invece il contribuente fa ricorso e perde, pagherà il 100% o la % che il giudice ritiene equa. Oltre a questo, ci sono gli interessi moratori (circa il 4% annuo) dal momento in cui le imposte erano dovute (tipicamente dal giorno successivo al termine di pagamento del saldo dell’anno d’imposta, quindi un bel po’ addietro). Non ci sono, in casi di evasione, sconti sulle imposte: quelle vengono riscosse integralmente. Le sanzioni invece possono essere persino annullate se il contribuente prova che c’era obiettiva incertezza normativa (difficile qui) o altre esimenti di non punibilità, ma è raro. Quindi in soldoni, il carico fiscale totale consisterà in: imposta evasa + sanzione + interessi per ciascun tributo e per ciascun soggetto, società e socio.

D: Posso rateizzare il pagamento se vengo accertato?
R: Sì. Ci sono varie possibilità:
In adesione: l’accordo di adesione ti consente fino a 8 rate trimestrali (o 16 se l’importo supera €50.000). La prima rata va pagata entro 20 giorni dalla firma, le successive ogni 3 mesi con interessi legali. Basta rispettare le scadenze e l’accordo resta valido.
Dopo avviso definitivo: se non aderisci e l’accertamento diventa definitivo (perché scaduti termini o perché hai perso il ricorso), l’importo viene affidato all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia) che emetterà una cartella o comunque un’intimazione di pagamento. A quel punto, puoi chiedere a loro la dilazione: tipicamente fino a 72 rate mensili (6 anni) standard se riesci a dimostrare difficoltà finanziaria (è abbastanza automatico sotto certe soglie), oppure fino a 120 rate (10 anni) in casi di grave e comprovata difficoltà (serve istruttoria con prova che la rata > 1/5 del reddito mensile). Con la rateizzazione della riscossione, si evitano azioni esecutive finché si paga regolarmente.
In pendenza di giudizio: se hai un ricorso in corso e non ottieni sospensione, potresti comunque richiedere la dilazione del famoso 1/3 che ti chiedono dopo 60 giorni. In passato Equitalia la concedeva, oggi con l’avviso esecutivo è una fattispecie un po’ nuova (di solito la regola è che se fai ricorso, per i ruoli provvisori da accertamento esecutivo puoi rateizzare comunque). Diciamo: una volta che un importo è passato a riscossione, vale quanto detto sopra.

In generale il Fisco tende a facilitare il pagamento dilazionato se uno collabora. Attenzione però: la rateizzazione non ferma gli interessi di mora, che continuano a maturare sulle somme dilazionate, e decade se salti più di 5 rate. Inoltre, dal punto di vista penale, la rateizzazione non blocca il procedimento, a meno che il giudice conceda la sospensione ex art.13-bis D.Lgs.74 (come accennato). Quindi se interessano i benefici penali occorre poi completare i pagamenti.

D: Ho ricevuto un PVC (Processo Verbale di Constatazione) della Guardia di Finanza che contesta utili extracontabili; cosa devo fare prima che arrivi l’accertamento?
R: In base allo Statuto Contribuente, hai 60 giorni dal rilascio del PVC per presentare osservazioni e richieste all’ufficio (Agenzia Entrate) prima che emetta l’avviso (salvo casi di particolare urgenza fiscale). È molto utile sfruttare questo periodo per preparare una memoria difensiva scritta: in essa puoi controbattere punto per punto i rilievi del PVC, portare documenti integrativi, spiegazioni e quant’altro possa convincere l’ufficio a non emettere (o moderare) l’accertamento. Ad esempio, se la GdF ti ha imputato vendite in nero stimate da certi dati, tu in quei 60 gg produci ulteriori pezze giustificative che ridimensionano l’accertamento. L’ufficio è tenuto a valutare tali osservazioni. Se emergono elementi validi, a volte l’ufficio in autotutela archivia o riduce l’importo (capita di rado, ma è possibile). Inoltre, presentare una memoria ti tornerà utile nel successivo contenzioso, per dimostrare la tua collaborazione e mettere a verbale le tue ragioni. Quindi, da fare assolutamente: raccogliere tutto il materiale difensivo e inviarlo con raccomandata o pec all’ufficio impositivo competente, entro 60 giorni dal PVC. Questo è particolarmente importante perché, se poi vai in giudizio, il giudice apprezzerà che avevi già sollevato quei punti prima (e potrà valutare negativamente se l’ufficio li ha ignorati del tutto). Nel frattempo, puoi cominciare a pensare alla strategia successiva (adesione o meno). Ricorda che, se credi di avere elementi risolutivi, potresti anche presentare un’istanza di accertamento con adesione prima ancora dell’avviso (è ammesso per legge, art.6 c.1-bis D.Lgs.218/97). Questo obbligherà l’ufficio a invitarti per discutere prima di emettere l’atto. Non tutti lo sanno, ma è una possibilità: “adesione pre-accertamento”. Valuta col tuo consulente se conviene nel tuo caso.

D: Potrei cavarmela col penale patteggiando la pena anche se non riesco a pagare il debito?
R: In teoria il patteggiamento (applicazione pena su richiesta) è possibile per i reati tributari. Tuttavia, la legge aveva introdotto una condizione (nel 2019) per cui per i reati di dichiarazione fraudolenta, infedele, omessa, bisognava pagare tutti i debiti tributari per poter patteggiare. Questa condizione è stata in parte dichiarata incostituzionale (Corte Cost. sent. 2021 n. 247) nella parte in cui riguardava i reati più gravi, ma rimane per infedele e omessa se non erro. Quindi per dichiarazione infedele (che è il reato tipicamente connesso agli utili in nero) occorre aver estinto il debito per poter accedere al patteggiamento (art.13-bis D.Lgs.74). In caso contrario, dovresti affrontare il processo ordinario, con tutti i rischi del caso. Anche qualora il patteggiamento fosse concesso senza pagamento (poniamo reato non coperto dall’obbligo di pagamento), sappi che senza pagamento c’è altissima probabilità che il giudice disponga la confisca dei beni equivalenti all’imposta evasa. Quindi cambia poco: o paghi tu spontaneamente e ottieni magari non punibilità, o ti confiscano coattivamente beni di quel valore dopo condanna. In conclusione, pagare il dovuto è la via maestra per uscire pulito penalmente. Se proprio non puoi pagare tutto, cerca almeno di ridurre il debito con definizioni agevolate (talvolta compaiono “rottamazioni” delle sanzioni, ecc.) o pagare a rate chiedendo la sospensione del processo.

D: Una mia assoluzione nel processo penale (ad es. perché il fatto non sussiste) mi solleva automaticamente dal dover pagare le imposte?
R: No, non automaticamente. Il giudicato penale non ha effetto vincolante nel tributario (a parte casi di sentenze di assoluzione per insussistenza del fatto che potrebbero far venir meno l’oggetto della pretesa fiscale, ma comunque bisogna attivarsi). Se venissi assolto perché si stabilisce che non c’era volontà di evasione o che non ci sono prove oltre dubbio, ciò non significa che fiscalmente non devi nulla: magari il fatto c’è stato ma non provato penalmente. In pratica potresti essere assolto in dubbio, ma l’evasione sul piano civilistico può essere ritenuta comunque avvenuta in base alle presunzioni. Dovrai comunque portare la sentenza assolutoria all’attenzione del giudice tributario se il contenzioso è ancora pendente, sperando che lo convinca. Ma non c’è un automatismo. Viceversa, una condanna penale (soprattutto se definitiva) di solito aggrava la posizione nel tributario: se è accertato penalmente che hai occultato tot ricavi, in Commissione difficilmente ti daranno ragione nel negare la pretesa fiscale. Però formalmente ognuno decide in autonomia. Quindi riassumendo: assolto penalmente non vuol dire non tassato, purtroppo. C’è chi ha vinto il penale e poi ha dovuto pagare lo stesso le imposte. La Cassazione ha proprio detto che le presunzioni tributarie possono essere insufficienti per condannare penalmente ma bastare per l’accertamento fiscale. È ingiusto a vedersi, ma dipende dallo standard di prova differente.

D: Quali modelli o documenti dovrei predisporre subito dopo aver ricevuto un avviso di accertamento per utili extracontabili?
R: Consigliamo di attivarti con due documenti chiave:

  1. Un’istanza di accertamento con adesione (se vuoi guadagnare tempo e tentare una negoziazione). Va fatta in carta libera e inviata all’ufficio competente. Puoi usare un modello come quello che mettiamo a disposizione più avanti, indicando i tuoi dati, gli estremi dell’avviso e chiedendo espressamente di essere convocato per definire in contraddittorio. Nell’istanza puoi anche anticipare sinteticamente le tue contestazioni (“in riferimento a quanto riportato nell’avviso preciso sin d’ora che… ad es. che i ricavi presunti sono sovrastimati, ecc.”). L’importante è spedirla entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (o 30 gg se è un provvedimento d’ingiunzione doganale, ma qui parliamo di imposte dirette, quindi 60 gg).
  2. In parallelo, prepara il ricorso tributario da presentare in Corte di Giustizia Tributaria se l’adesione non produce risultati. Il ricorso deve contenere: intestazione al giudice competente, i tuoi dati e quelli del tuo difensore (se assistito, ricordati che per valore oltre €3.000 il difensore tecnico è obbligatorio), gli estremi dell’atto impugnato, i motivi di ricorso in fatto e diritto (cioè le tue argomentazioni), le conclusioni (es. chiedi annullamento integrale dell’avviso, con vittoria di spese). Va sottoscritto e notificato all’ente impositore (via PEC se possibile) entro i termini. Nella sezione successiva di questa guida forniamo un fac-simile di ricorso tributario con uno schema generale adattabile al caso di utili extracontabili.

D: Se vinco il ricorso in primo grado e l’avviso viene annullato, i soci ottengono automaticamente rimborso di quanto eventualmente pagato?
R: Sì, se l’atto viene annullato con sentenza passata in giudicato e tu (o i soci) avevate versato somme, queste sono da rimborsare. Spesso però succede che in corso di giudizio i contribuenti, per evitare misure, paghino spontaneamente un po’ (ad es. 1/3). In caso di vittoria finale, vanno presentate istanze di rimborso all’Agenzia oppure la restituzione avviene d’ufficio dopo un po’. Consigliamo di monitorare e sollecitare il rimborso, allegando copia della sentenza. Se la sentenza di primo grado non è definitiva (perché l’ufficio appella) normalmente non rimborsano ancora: bisogna attendere esito finale o eventualmente chiedere esecuzione provvisoria se possibile (non sempre immediato nel tributario). Comunque, a conclusione positiva, quello che hai pagato in più ti spetta di ritorno, con interessi.

Esempi pratici e casi di studio

Per chiarire ulteriormente come si applicano nella realtà i principi e le regole esposte, presentiamo una serie di casi pratici simulati, basati su situazioni tipiche riscontrabili in Italia. Gli esempi illustrano il meccanismo dell’accertamento e le possibili difese dal punto di vista del contribuente.

Caso 1: Società familiare e costi fittizi (Cass. reale 15274/2025)

Situazione: Alfa S.r.l., società a responsabilità limitata composta da 2 soci (fratello e sorella, 50% ciascuno), gestisce un’attività di commercio all’ingrosso di materie plastiche. Nel 2021 la Guardia di Finanza scopre che Alfa S.r.l. ha acquistato fatture false da una “cartiera” per 100.000 € relative a operazioni mai avvenute, con lo scopo di detrarre IVA e abbattere il reddito. In particolare, Alfa ha registrato nel 2019 un acquisto di materie plastiche da Beta S.r.l. (società fasulla creata per evadere IVA) per 100.000 €, che però non corrisponde a merce reale fornita.

Accertamento: L’ufficio emette nel 2022 un avviso di accertamento verso Alfa S.r.l. disconoscendo quel costo di 100.000 €. Conseguenze:
– Aumenta il reddito imponibile 2019 di Alfa di 100.000 € (prima Alfa aveva dichiarato utile quasi zero).
– Recupera IVA relativa (€22.000 circa, supponendo 22% applicato) perché l’acquisto era inesistente quindi l’IVA detratta è indebita.
– Calcola maggiori IRES (24% su 100k = €24.000) e IRAP (3.9% su 100k = €3.900).
– Applica sanzione 90% su IRES (€21.600) e analoghe su IVA (€19.800, 90% di 22k) e IRAP (€3.510).

Contestualmente, considerata la ristretta base familiare, l’Agenzia emette anche un avviso di accertamento per redditi 2019 a ciascuno dei due soci, presumendo che quell’utile extra (€100k) sia stato distribuito metà a testa:
– Ogni socio vede imputarsi €50.000 di “utile extracontabile distribuito”.
– Ciò genera per ciascuno una maggior IRPEF (aliquote progressive: supponiamo che con 50k in più, ciascun socio vada al 38% medio): circa €19.000 di IRPEF in più a socio.
– Sanzione 90% su ciascun €19k ≈ €17.100.

In aggiunta, parte una segnalazione penale: l’amministratore (il fratello, che gestiva) è indagato per dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art.2 D.Lgs.74) e frode IVA.

Difesa: Alfa S.r.l. e i soci decidono di impugnare gli atti. Vediamo alcuni scenari:
Adesione: in fase di adesione, l’azienda ammette l’errore ma chiede di evitare la tassazione ai soci spiegando che l’utile non fu affatto distribuito ma usato per coprire buchi di liquidità. L’ufficio è rigido: accetta di ridurre le sanzioni al 1/3 (come da legge) ma mantiene la pretesa su soci. Non si raggiunge accordo completo. Si va in giudizio.
Ricorso della società: Alfa S.r.l. contesta la validità del metodo accertativo. In realtà c’è una prova diretta della frode (fattura falsa scoperta), quindi sul merito la società ha poco da fare – infatti in Cass. 15274/2025 il ricorso societario fu rigettato. Forse l’unico punto è che Alfa sostiene che quell’acquisto era comunque registrato in contabilità, dunque l’utile extra non è “extrabilancio” ma “intra-bilancio”, e quindi non automaticamente distribuibile. La Cassazione però ha rigettato questa tesi dicendo che non cambia nulla: è un costo fittizio, genera capacità contributiva e utili in nero. Quindi la società perde su tutta la linea.
Ricorso dei soci: I due soci ricorrono sostenendo che: (a) la presunzione di distribuzione non dovrebbe applicarsi perché i soci in realtà nel 2019 non hanno ricevuto nulla (anzi, hanno dovuto immettere denaro quell’anno per far fronte a pagamenti); (b) comunque l’ufficio non ha provato che loro abbiano speso o incassato soldi; (c) in subordine, se tassazione ci dev’essere, andrebbe fatto sul netto (50k – imposte societarie). Tutti questi argomenti vengono respinti. La CTR conferma che i presupposti per la presunzione c’erano e la motivazione dell’avviso era congrua. Inoltre specifica che l’importo va considerato al lordo perché non risultano imposte pagate su quei utili.
Cassazione: I soci ricorrono in Cassazione. Uno dei motivi è proprio: “non c’erano utili extra-bilancio accertati formalmente, solo costi disconosciuti, quindi la presunzione non è invocabile”. La Cassazione respinge, chiarendo che anche i costi indebiti generano utili occulti. Un altro motivo: “ma la società non aveva soci persone fisiche dirette, erano società, quindi presunzione non operava”. Cassazione risponde che il piccolo numero vale a prescindere dalla forma, come visto. Altro motivo: “si doveva imputare ai soci l’utile al netto delle imposte teoriche”. Cassazione ribatte come detto che no, al lordo. Risultato: i soci perdono anche in Cassazione.

Epílogo: Alfa S.r.l. paga le imposte dovute più sanzioni ridotte (magari nel frattempo aveva definito le sanzioni con adesione). I due soci, con la sentenza definitiva sfavorevole, si vedono costretti a pagare l’IRPEF e sanzioni. Nel frattempo, l’amministratore – avendo versato tutto il dovuto prima del dibattimento – ha potuto beneficiare della causa di non punibilità penale ex art.13, evitando la condanna. Morale: qui i soci (che coincidevano con i colpevoli) hanno subito una dura doppia imposizione e sono stati salvati dal penale solo pagando interamente. La lezione è che costi fittizi e frodi IVA, se scoperti, portano quasi inevitabilmente all’applicazione rigida della presunzione pro-soci.

Caso 2: Finanziamenti soci e ricavi in nero (Cass. 7739/2025)

Situazione: Gamma S.r.l. (3 soci: A 40%, B 40%, C 20%, base familiare) attraversa difficoltà di liquidità. Nel 2020 riceve dai soci finanziamenti in contanti e bonifico per un totale di €300.000, dichiarati formalmente come “finanziamento soci infruttifero”. Tuttavia, la capacità reddituale personale di A, B, C è molto modesta (ognuno dichiara redditi annui intorno a €20.000). Da dove provengono questi €300.000?

Accertamento: L’Agenzia, analizzando i conti e le dichiarazioni dei soci, ritiene ingiustificata quella provvista: i soci non avevano entrate lecite compatibili con aver accumulato tali somme. Ciò costituisce un indizio forte che quei soldi versati in realtà provenissero dall’attività stessa di Gamma S.r.l., cioè fossero ricavi in nero precedentemente sottratti all’azienda e poi reimmessi come falsi prestiti. In altri termini, ipotizza che Gamma avesse vendite non fatturate, accumulate “in nero” magari su conti esteri o cash, e le abbia fatte rientrare facendole passare come soldi messi dai soci. Quindi avvia un accertamento analitico-induttivo: contesta a Gamma ricavi non dichiarati per €300.000 nell’anno 2020. Emette avviso con recupero di IRES (~72.000€), IRAP (~11.700€) e IVA se applicabile (qui potrebbe non esserci prova specifica di IVA se vendite occulte, ma volendo potrebbero presumerla inclusa). Sanzioni come al solito 90%.

Nota: L’ordinanza Cass. 7739/2025 da cui traiamo spunto conferma la legittimità di un tale accertamento, definendolo un classico caso di accertamento analitico-induttivo basato su presunzioni gravi e concordanti. I giudici sottolineano che l’ufficio ha adeguatamente motivato, evidenziando la sproporzione tra redditi dei soci e entità dei finanziamenti. Inoltre citano esplicitamente che “la mancata disponibilità, da parte dei soci, di redditi atti a giustificare l’ammontare dei dedotti finanziamenti ben può costituire idonea presunzione della sussistenza di utili extracontabili”. Dunque il principio applicato è: socio povero + grandi somme versate = utili occulti.

Contestualmente all’avviso società, l’ufficio potrebbe – trattandosi di base ristretta – emettere avvisi ai soci per utili extracontabili. Ma riflettiamo: se i €300k erano in realtà ricavi societari nascosti, e poi entrati formalmente in azienda come prestito, quei €300k non è detto che siano stati “distribuiti” ai soci: anzi, in questo schema i soci li rimettono in società. Quindi paradossalmente, in questo caso, la presunzione di distribuzione ai soci non viene invocata. Perché? Perché l’utile occulto è già stato ripreso dall’azienda stessa come finanziamento. L’ufficio quindi probabilmente si limita a tassare Gamma sui €300k di ricavi non dichiarati. Non tasserà i soci su 2020 perché, anzi, i soci hanno tirato fuori soldi (ufficialmente). Semmai potrebbe tassarli su anni precedenti, ipotizzando che quell’importo provenisse da utili in nero distribuiti prima del 2020. Ma senza tracce, di solito no.

Difesa: Gamma S.r.l. propone ricorso contro l’accertamento sostenendo che i €300k provenivano da risparmi personali di A, B, C (magari fondi neri familiari accumulati, eredità non dichiarate, o finanziamenti da terzi). Tuttavia, non riesce a fornire alcuna documentazione convincente sull’origine lecita di quei fondi. Nessun estratto conto passato mostra disponibilità adeguate dei soci, né vi sono dichiarazioni di terzi che li abbiano prestati. L’ufficio invece in giudizio presenta i dati reddituali dei soci, le date e gli importi dei versamenti, sottolineando come sarebbero altrimenti spuntati dal nulla. La Commissione Tributaria, convinta dall’argomentazione dell’ufficio, conferma l’accertamento, ritenendo legittima la presunzione di ricavi in nero fondata sulla sproporzione finanziaria dei soci.

Gamma S.r.l. soccombe anche in appello. A questo punto valuta se insistere in Cassazione o cercare un accordo. Data la natura ormai accertata dei fatti e la solida giurisprudenza a favore del Fisco su questi casi, opta per un accordo transattivo (conciliazione) in appello: ottiene una riduzione del 20% dell’imponibile (riconoscendo che forse 50k provenivano dalla cessione di un terreno di famiglia) e sanzioni ridotte al 40%. Paga il tutto rateizzato.

Lezione appresa: I versamenti dei soci non giustificati rappresentano un’arma a doppio taglio. Spesso imprenditori credono che formalizzare i finanziamenti soci sia neutro. Ma se i soci non hanno mezzi, quell’operazione è molto rischiosa: il Fisco può ribaltarla in un’accertamento di ricavi occulti. La difesa per evitare ciò dovrebbe consistere nel preparare in anticipo prove dell’origine (ad es. contratto di mutuo con banca, vendita di un immobile dei soci i cui proventi poi affluiti in società, etc.). In assenza, come dice la Cassazione: “Legittimo presumere ricavi in nero in capo alla società dal finanziamento dei soci con redditi esigui”. Questo case study evidenzia come l’accertamento induttivo possa colpire schemi di sotto-capitalizzazione e re-immissione di capitali occulti.

Caso 3: Socio inconsapevole vs socio amministratore (orientamento minoritario)

Situazione: Delta S.p.A. è una piccola società di capitali (forma di S.p.A. ma 5 soci totali). I soci principali sono il Sig. X (40%, amministratore delegato) e la Sig.ra Y (35%), con altri tre soci minori (10%, 10%, 5%) non attivi. Nel triennio 2018-2020 Delta S.p.A. occulta ricavi per circa €500.000 complessivamente, che X gestiva fuori bilancio per costituire un “tesoretto”. Nel 2021, X sottrae gran parte di quei fondi per sé (diciamo 300k) e una parte li reinveste in Delta per coprire perdite. La Sig.ra Y, pur essendo socia rilevante, non era coinvolta nella gestione: vive all’estero, non partecipava ai consigli, riceveva solo i bilanci ufficiali (che risultavano sempre in leggera perdita, quindi niente dividendi). Y non sospetta nulla di utili occulti; anzi ha prestato garanzie per la società ed è convinta che non produca utili.

Accertamento: Nel 2022 la Guardia di Finanza scopre le irregolarità (grazie a un dipendente pentito che rivela l’esistenza di vendite in nero documentate in appunti segreti di X). Accertano per gli anni 2018, 2019, 2020 un totale di €500.000 di ricavi non dichiarati. L’Agenzia notifica avvisi a Delta S.p.A. (ormai liquidata nel 2021) e, trattandosi di base ristretta, avvisi ai soci (per utili extracontabili distribuiti). Imputa pro quota quell’importo su 5 soci. Per Y la quota del 35% su €500k = €175.000 di utili occulti da tassare (circa €75k di IRPEF evasa). Y cade dalle nuvole: non ha mai ricevuto un soldo, anzi ha perso soldi con Delta.

Difesa della Sig.ra Y: Y presenta ricorso avverso l’avviso sostenendo: “Io ero completamente estranea alla gestione, non ho percepito utili, la prova è che non ho un euro in più, anzi ci ho rimesso. La presunzione non deve applicarsi a me”. A supporto: produce i suoi estratti conto 2018-2021 che mostrano saldo costante e nessun afflusso anomalo; dimostra di aver subito l’escussione di una fideiussione a favore di Delta nel 2020 (ha dovuto pagare €50k a una banca per un debito societario); allega i verbali assembleari che mostrano come X fosse accentratore e lei spesso assente (delibere prese con maggioranza X e altri, lei talvolta dissenziente su operazioni). Inoltre, ottiene una dichiarazione giurata di X (ormai in cattivi rapporti con lei, ma costretto dai fatti) in cui X ammette “la Sig.ra Y non ha mai saputo né ricevuto nulla degli utili extra-contabili, che sono stati da me trattenuti o reinvestiti per Delta”. Questa dichiarazione viene depositata nel procedimento penale a carico di X, e Y la produce in sede tributaria come elemento (anche se non testimonianza diretta, è un atto del penale).

In primo grado, la Commissione Tributaria respinge comunque il ricorso di Y, applicando il principio tradizionale: base ristretta = presunzione valida, e dicendo che la prova contraria ammessa è solo accantonamento in società (che qui non risulta documentato), non l’estraneità del singolo socio. Y fa appello. La Corte di Giustizia Tributaria di II grado (CTR) invece le dà ragione: ritiene credibile e provata la sua estraneità: nessun movimento patrimoniale a suo favore, anzi perdite personali, la confessione di X, tutto suggerisce che Y non partecipò al disegno evasivo né trasse beneficio. Dunque la CTR annulla l’avviso verso Y. L’ufficio ricorre in Cassazione, lamentando che la CTR ha violato i principi di riparto onere della prova (secondo loro Y non avrebbe comunque provato che i utili furono accantonati, unica prova valida).

Cassazione: Questo scenario ricalca l’Ordinanza Cass. 2464/2025. La Cassazione, come visto, accoglie in parte il ricorso dell’ufficio, affermando però il nuovo principio: sì, è ammissibile la prova di estraneità del socio; tuttavia va valutata con rigore e nel caso specifico occorre riesaminare se davvero fosse sufficiente quella portata. In pratica, la Cassazione non dice che Y deve pagare, ma chiede a CTR di motivare meglio sul perché quelle prove bastano. Nel frattempo, però, la Cass. legittima l’orientamento minoritario a favore del socio estraneo. Il caso viene rinviato alla CTR per nuovo giudizio. Presumibilmente, con le evidenze forti a favore di Y (specie la confessione di X), Y vincerà di nuovo e l’avviso sarà annullato. L’Agenzia potrà allora rifarsi magari su X in misura maggiore (tassandogli magari il 75% o 100% degli utili occulti come reddito a lui imputabile, se nei termini, oppure confidando che tanto X se li è presi e li ha già spesi).

Lezione: Questo caso illustra l’eccezione alla regola. Un socio minoritario o non operativo può, con difficoltà, salvarsi se dimostra di non aver ricevuto i proventi. Serve però costruire un quadro di fatti coerenti: vita modesta, nessun arricchimento, semmai sacrifici per l’azienda, e idealmente qualche riscontro oggettivo (qui la confessione di X ha peso enorme). Non sempre si avrà la “smoking gun” come la confessione; però, questa giurisprudenza emergente dà speranza ai soci innocenti di non pagare colpe altrui.

Caso 4: Accertamento post-liquidazione e soci liquidatori

Situazione: Omega S.r.l., 3 soci (ognuno 1/3), viene posta in liquidazione nel 2023 e chiusa nel 2024. Nel 2025, una verifica a posteriori su anni 2022-2023 scopre che Omega non aveva dichiarato ricavi per €150.000 e sopravvalutato costi per €50.000, totalizzando utili occulti di €200.000. La società però è estinta, e nel bilancio finale di liquidazione figurava un patrimonio quasi nullo (ogni socio ha avuto indietro solo €5.000 di capitale). Dove sono finiti quei €200k? Probabilmente prelevati in nero dai soci prima di chiudere.

Accertamento: Nel 2025 l’Agenzia utilizza la norma sull’estinzione: notifica un unico avviso di accertamento riferito a Omega S.r.l. (anni d’imposta 2022-23) indicando utili extracontabili per €200k e intestandolo, per conoscenza e obbligazione, ai tre ex soci in solido (specificando le rispettive quote di partecipazione 33,3%). Chiede le imposte evase (IRES su 200k, etc.) e contestualmente attribuisce pro quota ai soci il reddito di partecipazione non dichiarato. In pratica, un atto che vale sia per la società (ai soli fini di accertare il quantum) sia per i soci (per la riscossione).

Difesa: I soci – che hanno chiuso la società proprio per far perdere le tracce dei movimenti – impugnano l’atto sostenendo vari profili:

  • uno formale: “non si può accertare una società estinta” (tesi però superata dalla norma del 2014);
  • uno di merito: “non c’è prova che la società abbia conseguito quell’utile occulto, le vendite erano stime… etc.”. Provano a contestare i presupposti come farebbe la società.
  • e soprattutto dicono: “in ogni caso, noi soci non abbiamo percepito nulla, la società si è chiusa senza attivo e anzi con debiti”. Producono il bilancio finale di liquidazione che attesta zero utili distribuiti. Sostengono che i 200k si sono dissipati in spese (non risultate a bilancio perché in nero pure quelle, dicono).

La Commissione, però, constatando che i soci non forniscono prove concrete di come sarebbero spariti 200k (non possono dire “li abbiamo rubati ma li abbiamo persi”), applica la presunzione: utili extracontabili = distribuiti ai soci prima della chiusura. Non basta la formale assenza di attivo finale per svincolarsi, altrimenti sarebbe troppo facile – ragiona la Commissione. Dunque conferma l’accertamento: ciascun socio dovrà rispondere per la propria quota (33%) di imposte e sanzioni su quei 200k. L’obbligazione è pure solidale fino a concorrenza delle somme percepite in liquidazione (5k a testa ufficiali), ma qui l’Ufficio dice che i 200k furono percepiti ante liquidazione, quindi quell’art.2495 c.c. sul limite in base al bilancio finale non si applica: li tratta come redditi di capitale incassati in esercizi precedenti.

I soci perdono appello e Cassazione (che richiama art.28 D.Lgs.175/2014 e la consolidata giurisprudenza: i soci non la fanno franca nascondendosi dietro la cessazione). Morale: essi restano con un debito fiscale notevole, magari insolvibile, e possibili guai penali se rilevanti.

Lezione: Sciogliere la società non cancella i peccati fiscali. L’Erario, entro i termini, potrà colpire i soci. L’unica vera tutela del socio in questi casi è se non ha davvero preso nulla – ma se emergono utili in nero, è difficile sostenere che nessuno li abbia presi. Se proprio uno socio si sente leso (es. uno dei tre soci in realtà non ha visto un euro perché gli altri due l’hanno fregato), può in teoria dopo aver pagato rivalersi civilmente sugli altri per la parte eccedente quella di sua spettanza. Ma è una grana interna. Dal punto di vista fiscale, comunque, l’Agenzia non fa sconti.


Questi esempi dimostrano diversi scenari e soluzioni. Ogni caso reale può presentare peculiarità, ma la sostanza è: il Fisco dispone di armi efficaci per recuperare il non dichiarato e il contribuente deve muoversi con competenza e tempestività per difendere i propri interessi.

Modelli e fac-simili utili

In questa sezione finale, presentiamo alcuni schemi di atti che possono rivelarsi utili per un contribuente (o il suo difensore) alle prese con un accertamento da utili extracontabili. Si raccomanda di adattarli al caso concreto con l’assistenza di un professionista.

Fac-simile di Istanza di accertamento con adesione (dopo avviso di accertamento)

(Ai sensi dell’art. 6, co.2, D.Lgs. 218/1997)

Destinatario:
All’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di _________________
Ufficio Accertamento / Settore Controlli
Via ____________, C.A.P. _____, [Città] – PEC: _________________

Oggetto: Istanza di accertamento con adesione – Avviso di accertamento n. ____ notificato il ______ ai sensi dell’art. 6 D.Lgs.218/97.

Istante:
Il/La sottoscritto/a ____________, nato a _______ il //, C.F. __________, residente in _____________, Via _________ n.,
(in qualità di [rappresentante legale / socio] della [Società] ______________, P.IVA ______________, con sede in _____________ ),

PREMESSO CHE:
– In data //____ mi è stato notificato dall’Agenzia delle Entrate l’avviso di accertamento n. __________, anno d’imposta , intestato a [me medesimo / alla società ________];
– Tale avviso non è stato preceduto da invito al contraddittorio ex art.5 D.Lgs.218/97 (ovvero: è stato preceduto da PVC del //, ecc.);
– L’avviso reca la ripresa a tassazione di maggiori utili extracontabili per €
con relative imposte e sanzioni, motivando in sintesi che [riassumere brevemente la contestazione: es. “sono stati accertati ricavi non dichiarati basati su presunzione di distribuzione ai soci…”];

CONSIDERATO CHE:
– Il sottoscritto ritiene che gli importi accertati siano eccessivi/infondati per le seguenti circostanze: _________________________________________________________ (esporre sinteticamente le ragioni, es. “i ricavi presunti in realtà erano già stati dichiarati in parte in altra annualità…”, oppure “i soci non hanno percepito tali utili come risulta da…”);
– Si intende comunque definire la controversia in via conciliativa, evitando un lungo contenzioso e fornendo ogni chiarimento in spirito collaborativo;

TUTTO CIÒ PREMESSO,
CHIEDO
che codesto Ufficio voglia attivare la procedura di accertamento con adesione in relazione all’avviso di accertamento sopraindicato, formulando apposito invito a comparire per discutere i rilievi fiscali in esso contenuti ed eventualmente addivenire a una definizione concordata.

Resto a disposizione sin d’ora per concordare data e luogo dell’incontro (recapiti: tel ________, email __________).

Luogo, data: _______________

Firmato: _______________________

(Allegare copia dell’avviso impugnato e documenti rilevanti, se opportuno.)

Note: La presentazione di questa istanza sospende per 90 giorni i termini per ricorrere e per il pagamento. L’ufficio, ricevuta l’istanza, è tenuto a formulare invito a comparire entro 15 giorni (se l’istanza è post-avviso). Preparatevi con argomentazioni e documenti per l’incontro.

Schema di Ricorso tributario (Commissione/Corte di Giustizia Tributaria di primo grado)

(artt.18 e 19 D.Lgs. 546/1992 – Fac-simile da adattare al caso di utili extracontabili)

Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di [provincia]

Ricorrente: Sig./Soc. XYZ (C.F./P.IVA _________), residente/sede in _____________, via ______________ n., rappresentato/a e difeso/a da (se assistito: Avv./Dott.) ____________ (C.F. _________) con studio in __________, via _____________ n., come da procura in calce, elegge domicilio presso lo studio del difensore (ovvero: intende ricevere le comunicazioni al fax ___/ alla PEC ____) – RICORRENTE;

contro

Resistente: Agenzia delle Entrate – DP di _________ (C.F. ________), in persona del direttore pro tempore, con sede in ________, via __________ n.RESISTENTE.

Fatto e svolgimento:
– Il ____ (data) l’Agenzia delle Entrate DP di ____ notificava al ricorrente l’avviso di accertamento n./__ relativo all’anno d’imposta ______ (al Sig. XYZ in qualità di socio della Alpha Srl / alla Alpha Srl / etc.). Con tale atto l’Ufficio accertava utili non dichiarati per €____, presumendo la loro distribuzione ai soci (oppure: recuperando imposte IRES/IRPEF su utili extracontabili) e liquidava maggiori imposte per €__ oltre sanzioni ed interessi. [Si allega doc.1 copia dell’avviso notificato].
– L’avviso trae origine da ______ (es: verifica della Guardia di Finanza sfociata in PVC, oppure controllo formale, etc.) e motiva, in sintesi, che: ________________ (riportare i punti salienti della motivazione dell’atto impugnato, p.es. “nel caso di specie, essendo la società Beta Srl a base familiare, i maggiori utili accertati pari a €100.000 si presumono distribuiti ai soci….” citazione principale).
– Il ricorrente ritiene l’avviso in toto illegittimo e infondato, per i motivi di seguito illustrati, e propone pertanto ricorso nei termini di legge.

Motivi di ricorso:

  1. Violazione di legge – Inesistenza/illegittimità della presunzione applicata (artt. 2727-2729 c.c.; art.39 DPR 600/73).
    L’atto impugnato si basa esclusivamente su una presunzione semplice di distribuzione di utili extracontabili, senza adeguati riscontri fattuali e in assenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti. In particolare, l’Ufficio assume come “fatto noto” la ristretta base societaria e un preteso maggior reddito (peraltro non definitivamente accertato in capo alla società, su cui pende ricorso) per dedurne il fatto ignoto della distribuzione ai soci. Ciò configura una praesumptio de praesumpto inammissibile: si sta inferendo un evento (distribuzione) da un altro evento (utile extra) che a sua volta è stato accertato induttivamente e non costituisce certezza. La Suprema Corte ha statuito il divieto di presunzioni di secondo grado, laddove manchi un fatto noto concreto. Nel caso di specie, il “fatto noto” addotto – la ristretta compagine – è una circostanza di carattere generale e astratto, non un elemento specifico che provi un’elargizione di utili. Manca qualsiasi evidenza di esborsi di utili verso i soci (movimenti finanziari, incrementi patrimoniali, ecc.), come ammesso dallo stesso Ufficio (che non ha svolto alcuna indagine bancaria sui soci né individuato beni acquistati). La presunzione risulta quindi priva di concreto supporto e utilizzata in modo automatico, in violazione dei principi probatori.
  2. Travisamento dei fatti – Insussistenza di utili extra-bilancio.
    Si contesta nel merito che la società abbia realizzato utili extracontabili per l’importo preteso. L’Ufficio ha erroneamente calcolato maggiori ricavi per €____ sulla base di ______ (es.: mere percentuali di ricarico, oppure depositi bancari che però erano da riferire a finanziamenti soci già tassati…). In realtà, tali elementi sono stati male interpretati: ________________ (spiegare perché i presunti ricavi in nero non esistono o sono minori). Ad esempio, i versamenti su conto corrente ritenuti ricavi erano originati da un rimborso di finanziamento (doc. __ allegato) e quindi non rappresentano fatturato occulto. Depurando queste poste, l’utile extracontabile si azzera o comunque risulta drasticamente ridotto. Quindi “il fatto noto” di un utile extra nemmeno sussiste in misura significativa. L’accertamento è dunque infondato anche riguardo al maggior reddito societario contestato (sul quale peraltro pende giudizio separato, che qui si richiama).
  3. Illegittimità per difetto di motivazione e mancata allegazione di atto presupposto (art.7 L.212/2000).
    L’avviso al socio richiama come fondamento l’accertamento emesso verso la società Beta Srl, ma non lo allega né ne riproduce adeguatamente il contenuto. Ciò ha impedito al ricorrente di conoscere compiutamente i presupposti dell’imputazione (quali ricavi in nero, quali annualità, ecc.), violando l’obbligo di motivazione per relationem ex art.7 Statuto Contribuente. In base a giurisprudenza consolidata, l’omessa allegazione di un atto presupposto non noto al destinatario comporta la nullità dell’atto consequenziale. Nel caso di specie, il socio non ha ricevuto contestualmente l’avviso societario né un estratto del PVC su cui si basa: l’Ufficio si è limitato a dedurre l’utile extra senza dettagli. Questa carenza motivazionale lede il diritto di difesa del contribuente e rende l’atto nullo.
  4. Insussistenza dell’effettiva percezione di utili da parte del ricorrente – Prova contraria alla presunzione (estraneità alla gestione).
    In via gradata, qualora si ritenesse applicabile la presunzione di distribuzione, si evidenzia che il ricorrente ha fornito prova contraria puntuale: egli non ha mai percepito i pretesi utili. Come risulta dai documenti allegati (cfr. estratti conto bancari doc. __, attestanti saldi costanti; dichiarazione dell’amministratore unico doc. __), tali somme non furono affatto distribuite a lui ma restarono in azienda o furono utilizzate da altri soci senza sua partecipazione. Il ricorrente era socio di puro capitale, estraneo alla gestione quotidiana (non rivestiva cariche operative, come da visura camerale doc. __). La Cassazione più recente riconosce che la dimostrazione dell’estraneità totale del socio alla conduzione sociale costituisce prova contraria idonea a vincere la presunzione. Nella fattispecie, il ricorrente non partecipava alle decisioni (assenza ai verbali, doc. ) e, anzi, ha subito pregiudizio dalla mala gestio altrui (ha dovuto coprire perdite per €____, cfr. doc.). Questi elementi provano in modo “preciso e rigoroso” che non vi fu per lui alcuna attribuzione di utili occulti. Pertanto, la pretesa impositiva nei suoi confronti è priva di base fattuale e va annullata.

(Altri eventuali motivi: es. Errori di calcolo, sanzioni sproporzionate, non applicazione cause di non punibilità, ecc.)

Conclusioni:
Alla luce di tutto quanto esposto, il ricorrente chiede che la Corte di Giustizia Tributaria adita voglia:

  • In via principale, annullare integralmente l’avviso di accertamento impugnato, per i motivi di illegittimità e infondatezza sopra illustrati;
  • In via subordinata, ridurre la pretesa tributaria nell’esercizio del potere di cui all’art. 7 co.5 D.Lgs.546/92, in misura pari al solo importo eventualmente percepito dal ricorrente (nel caso, pari a zero), con corrispondente rideterminazione di imposte e sanzioni;
  • Con vittoria di spese di giudizio a carico dell’Ente resistente.

Si formula sin d’ora istanza di sospensione dell’atto impugnato, evidenziando il grave e irreparabile danno che deriverebbe dall’esecuzione: il ricorrente non dispone delle somme (trattandosi di utili mai incassati) e subirebbe l’esproprio dei beni personali primari (casa di abitazione) per far fronte a un debito contestato. Si allega a tal fine dichiarazione redditi e situazione patrimoniale (doc.__).

In via istruttoria, si chiede di ordinare all’Ufficio di esibire il fascicolo relativo all’accertamento della società Beta Srl (atto presupposto) e si deposita sin d’ora documentazione di parte (all. da 1 a __).

(Luogo, Data)

Firma del ricorrente: ________________

Firma del difensore: ________________

Procura alle liti: (se non già conferita)

Io sottoscritto ____ delego a rappresentarmi e difendermi l’Avv./Dott. _____, conferendogli ogni facoltà di legge, ivi compresa quella di conciliare e transigere. Eleggo domicilio presso il suo studio.

(Luogo, Data) Firma ____________


Note finali: Il ricorso va notificato all’Ufficio (a mezzo PEC o raccomandata A/R) e poi depositato con copia della ricevuta di avvenuta notifica presso la segreteria della Corte, unitamente ai documenti e all’Attestato di Conformità (se via PEC), pagando il contributo unificato se dovuto. Lo schema sopra contiene più motivi ipotetici; vanno inseriti quelli pertinenti al caso concreto. È importante articolare almeno un motivo formale (se esistente) e uno sostanziale.


Questi modelli forniscono una traccia da seguire. Ogni caso concreto richiederà modifiche specifiche e l’aggiunta di dettagli fattuali. È sempre consigliabile farsi assistere da un professionista qualificato in queste procedure, data la complessità delle norme e della strategia difensiva da adottare.

Fonti e riferimenti

(Si riportano di seguito le fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali citate o consultate nella presente guida, con indicazione degli estremi essenziali. Tutte le informazioni sono riferite a documenti ufficiali o pubblicazioni aggiornate al 2025.)

  1. Corte di Cassazione – ordinanza n. 15274/2025 (Sez. Trib.), depositata il 9 giugno 2025. Principio: presunzione di distribuzione utili extracontabili operante anche se i soci della società a ristretta base sono altre società; no contrasto con divieto presunzione di secondo grado; utili extra comprendono costi fittizi disconosciuti, da imputare ai soci al lordo imposte.
  2. Corte di Cassazione – ordinanza n. 2464/2025 (Sez. Trib.), depositata il 2 febbraio 2025. Caso di società a ristretta base: la Cassazione aderisce all’orientamento “minoritario” ammettendo come prova contraria la dimostrazione della totale estraneità del socio alla gestione sociale. Rinvia per valutare se nel caso concreto tale prova (mancati incrementi conti, garanzie prestate, ecc.) sia sufficiente.
  3. Corte di Cassazione – ordinanza n. 21593/2024, depositata il 31 luglio 2024. Ribadisce la legittimità della presunzione di distribuzione pro quota ai soci di società a base ristretta in presenza di redditi extrabilancio accertati, “salva prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti”. Non occorre che l’accertamento al socio sia fondato su ulteriori riscontri (come movimenti bancari personali).
  4. Corte di Cassazione – ordinanza n. 7739/2025, depositata il 17 marzo 2025 (richiamata da Taxbi.it). Conferma accertamento analitico-induttivo di ricavi in nero in presenza di finanziamenti ai soci non giustificati dalla loro capacità reddituale. Principio: versamenti dei soci di importo significativo, a fronte di soci con redditi esigui, sono idonea presunzione di utili extracontabili non dichiarati.
  5. Corte di Cassazione – ordinanza n. 16467/2025, depositata il 18 giugno 2025. Riafferma che per la presunzione di utili extra ai soci non è necessario attendere la definitività dell’accertamento societario. Inoltre, conferma che l’imposizione ai soci avviene sull’intero utile occulto (non limitata al 40% ex art.59 TUIR) in quanto non tassato in capo alla società.
  6. Corte di Cassazione – sentenza n. 18032/2013 e n. 15824/2016 (Sez. Trib.) – precursori del principio di presunzione pro soci a base ristretta; Cass. n. 1947/2019 – applicazione recente. (Citati nelle ordinanze successive).
  7. D.P.R. 29/09/1973 n. 600, art. 39 – Norme sugli accertamenti delle imposte sui redditi. Comma 1 lett. d) autorizza accertamento induttivo su base di presunzioni semplici (gravi, precise, concordanti) se scritture inattendibili. Comma 2 disciplina accertamento extracontabile puro per omessa dichiarazione o scritture inesistenti.
  8. D.P.R. 917/1986 (TUIR) – Art. 47 (definizione redditi di capitale, dividendi); art. 59 (vigente fino al 2017) prevedeva imponibilità parziale (40%-49.72%) di utili da partecipazioni qualificate. Cassazione ha escluso l’applicazione di tale aliquota ridotta agli utili extracontabili distribuiti, imponendoli per intero.
  9. Legge 27/07/2000 n. 212 (Statuto del Contribuente) – Art. 7: obbligo di motivazione degli atti tributari e di allegazione degli atti richiamati. Art. 12: diritto al contraddittorio dopo PVC, ecc.
  10. D.Lgs. 19/06/1997 n. 218 – Accertamento con adesione: art. 6 (istanza del contribuente entro 60 gg; sospensione termini 90 gg); art. 8 (sanzioni ridotte a 1/3).
  11. D.Lgs. 31/12/1992 n. 546 – Processo tributario: art. 18 (contenuto ricorso), art. 19 (atti impugnabili), art. 17-bis (reclamo/mediazione), art. 52 (sospensione provvisoria). Nota: dal 2023, come da L.130/2022, Commissioni Tributarie rinominate in Corti Giustizia Trib.; introdotta conciliazione rafforzata e giudice monocratico per cause < €3.000.
  12. D.Lgs. 21/11/2014 n. 175, art. 28 co.4 – Società estinte: per 5 anni dalla cancellazione, agli effetti fiscali, la società si considera esistente. Consente accertamenti post-chiusura, con notifica ai soci aventi efficacia nei loro confronti.
  13. D.Lgs. 10/03/2000 n. 74 (Reati tributari) – Art. 2: dichiarazione fraudolenta con fatture false (soglia imposta evasa €100k); art. 3: dichiarazione fraudolenta con altri artifici; art. 4: dichiarazione infedele (soglia €100k imposta, >10% ricavi o >€2M); art. 5: omessa dichiarazione (soglia €50k); art. 10: occultamento documenti contabili; art. 10-bis: omesso versamento ritenute >€150k; art. 10-ter: omesso versamento IVA >€250k. Art. 13: causa di non punibilità se pagamento integrale debito tributario (per infedele e omessa); attenuante per pagamento per frodi; sospensione termini processuali con rateazione (art.13-bis).
  14. Circolare GdF n.1/2018 – “Manuale operativo contrasto evasione e frodi” – Sottolinea che le presunzioni tributarie non valgono come prova piena nel processo penale, ma hanno valore di indizio se gravi, precise, concordanti. Richiama art. 192 cpp sugli indizi. Cass. pen. n.23489/2014: giudice penale può considerare presunzioni tributarie come elementi su cui basare il convincimento, ma con valutazione autonoma e senza automatismi.

Hai ricevuto un accertamento per utili extracontabili presunti? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Quando l’Agenzia delle Entrate presume che tu abbia percepito utili non contabilizzati, può avviare un accertamento induttivo o analitico-induttivo basato su elementi presuntivi.
Tuttavia, non sempre queste presunzioni sono legittime o fondate.
Con un’azione difensiva corretta, è possibile contestare l’accertamento e ridurre o annullare la pretesa fiscale.


Cosa sono gli “utili extracontabili”?

Gli utili extracontabili sono redditi che non risultano dalle scritture ufficiali, ma che secondo il Fisco sarebbero stati effettivamente conseguiti.
L’Agenzia delle Entrate può presumere l’esistenza di tali utili se:

  • 📂 Trova scritture contabili incomplete, inattendibili o omesse
  • 💬 Acquisisce dichiarazioni da clienti, fornitori o dipendenti
  • 🔍 Scopre movimenti bancari non giustificati o contanti non tracciati
  • 🧾 Emerge un disallineamento tra costi, ricavi e margini attesi di settore
  • 🏠 Individua investimenti patrimoniali non compatibili con i redditi dichiarati

Quando le presunzioni fiscali non sono valide?

L’Agenzia delle Entrate può basarsi su presunzioni solo se sono:

  • 🔗 Gravi: devono far ritenere probabile l’esistenza di redditi non dichiarati
  • 🧠 Precise: devono derivare da dati oggettivi e non generici
  • 🔄 Concordanti: devono essere coerenti tra loro

Se le presunzioni sono deboli, contraddittorie o non supportate da elementi concreti, l’accertamento può essere annullato in sede contenziosa.


Come difendersi da un accertamento per utili extracontabili?

Per opporsi in modo efficace:

  1. 📑 Analizza in dettaglio l’atto di accertamento e le basi presuntive usate
  2. 📂 Raccogli documentazione contabile, contrattuale, bancaria e gestionale a supporto
  3. ✍️ Presenta una memoria difensiva all’Agenzia prima dell’emissione dell’avviso definitivo
  4. ⚖️ Impugna l’atto con ricorso alla Commissione Tributaria entro i termini di legge
  5. 🔁 Valuta una possibile adesione o conciliazione per ridurre l’impatto fiscale

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Esamina il fondamento giuridico dell’accertamento presuntivo
📑 Ricostruisce i fatti e ti assiste nel reperire prove documentali e contabili
✍️ Redige il ricorso tributario o la richiesta di adesione, con perizia e competenza
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio con l’Ufficio o nel processo tributario
🔍 Ti affianca nella gestione di eventuali indagini bancarie o segnalazioni penali


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Esperto in accertamenti induttivi, extracontabili e presuntivi
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per imprese, professionisti e società in verifica fiscale


Conclusione

Le presunzioni fiscali non bastano da sole a giustificare una pretesa tributaria. Con documenti, perizie e difese tecniche, puoi contrastare l’accertamento per utili extracontabili.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi far valere i tuoi diritti, contestare le irregolarità e proteggere il tuo patrimonio.

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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