Contestazione Della Residenza Fiscale: Come Difendersi Bene?

Hai ricevuto una contestazione sulla tua residenza fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate e ti stai chiedendo cosa significa, cosa rischi e come puoi difenderti? Hai spostato la residenza all’estero, o sei iscritto all’AIRE, ma ora ti accusano di essere ancora fiscalmente residente in Italia?

Sempre più contribuenti ricevono accertamenti per residenza fittizia o trasferimento non effettivo, soprattutto se lavorano da remoto, vivono tra due Paesi o hanno legami familiari o patrimoniali in Italia. Ma la contestazione non è automatica: l’Agenzia deve dimostrare che il centro degli interessi vitali è rimasto in Italia, e tu hai il diritto di difenderti.

Quando scatta la contestazione della residenza fiscale?
– Quando, nonostante la residenza all’estero, mantieni in Italia una casa, una famiglia o attività economiche
– Se risulti presente sul territorio italiano per più di 183 giorni l’anno
– Se hai redditi prodotti in Italia non dichiarati, o se l’Agenzia sospetta che l’estero sia solo una copertura formale
– Quando la tua iscrizione AIRE non è supportata da prove concrete di un trasferimento reale

Cosa può contestare l’Agenzia delle Entrate?
– Che sei fiscalmente residente in Italia per legge, anche se anagraficamente risultavi all’estero
– Che hai omesso redditi esteri o italiani dalla dichiarazione
– Che il tuo trasferimento di residenza è solo formale, e l’effettivo domicilio è rimasto in Italia
– Il recupero delle imposte evase, con sanzioni elevate e rischio di accertamento penale nei casi più gravi

Come puoi difenderti da una contestazione sulla residenza fiscale?
– Dimostrando che il centro dei tuoi interessi personali e patrimoniali è davvero all’estero
– Esibendo documentazione chiara: contratto di affitto o acquisto casa, utenze, tessera sanitaria, conto bancario, lavoro, tessera trasporti locali, scuola dei figli
– Dimostrando che in Italia hai solo legami marginali o affettivi
– Contestando errori dell’Agenzia, presunzioni arbitrarie o calcoli errati dei giorni di presenza
– Presentando istanza in autotutela, memorie difensive o un ricorso entro 60 giorni dalla notifica

Cosa puoi ottenere con una difesa ben costruita?
– Il riconoscimento della tua residenza fiscale estera effettiva
– L’annullamento dell’accertamento e la salvaguardia della tua posizione fiscale
– L’evitamento di sanzioni e imposte indebite
– La tutela della tua libertà di movimento e la possibilità di vivere dove vuoi senza subire presunzioni

Cosa NON devi fare mai?
– Pensare che l’iscrizione AIRE basti da sola: è un requisito formale, ma non decisivo
– Ignorare l’avviso: dopo 60 giorni diventa definitivo
– Sottovalutare i legami con l’Italia: anche una semplice carta di credito o bolletta può diventare un indizio
– Difenderti senza un piano: la residenza fiscale è un tema complesso e va trattato con metodo

La contestazione della residenza fiscale si può vincere, ma serve una strategia documentale e giuridica solida.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario – ti spiega quando può essere contestata la residenza, come funziona l’accertamento e quali sono gli strumenti per difenderti nel modo più efficace.

Hai ricevuto un accertamento o un invito al contraddittorio per la residenza fiscale?

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Introduzione

La residenza fiscale di una persona o di una società è un concetto fondamentale nel diritto tributario, in quanto determina quale Stato ha il potere di tassare complessivamente i suoi redditi. In Italia, essere considerati residenti fiscalmente significa subire la tassazione su tutti i redditi ovunque prodotti nel mondo (principio del worldwide income), non solo su quelli di fonte italiana. Per questo motivo la scelta di trasferire la propria residenza all’estero, o di localizzare una società fuori dai confini nazionali, è spesso motivata da ragioni fiscali. Tuttavia, l’Amministrazione finanziaria italiana presta particolare attenzione a questi casi e dispone di poteri di controllo e accertamento specifici per contrastare i trasferimenti di residenza fittizi all’estero (c.d. esterovestizione). Quando l’Agenzia delle Entrate contesta la residenza fiscale di un contribuente – sostenendo che egli debba essere considerato ancora residente in Italia nonostante un dichiarato trasferimento all’estero – le conseguenze possono essere molto gravose: l’estensione della tassazione italiana ai redditi esteri, pesanti sanzioni e persino implicazioni penali nei casi più seri.

In questa guida approfondiremo, dal punto di vista del contribuente (debitore), come difendersi efficacemente da un’accertata contestazione della residenza fiscale in Italia. Verranno analizzati tutti i principali profili d’interesse: i criteri legali per la residenza fiscale delle persone fisiche e delle società (inclusi gli aggiornamenti normativi introdotti a partire dal 2024), gli aspetti internazionali (come la doppia residenza e le Convenzioni contro le doppie imposizioni), i poteri investigativi dell’Amministrazione finanziaria (accessi, indagini, accertamenti) e gli strumenti di tutela del contribuente (dall’autotutela al ricorso tributario). Saranno citate le più recenti sentenze della Corte di Cassazione e i chiarimenti ufficiali per evidenziare gli orientamenti attuali e le novità giurisprudenziali. Inoltre, la guida include tabelle riepilogative, sezioni di domande e risposte, e alcune simulazioni pratiche in ambito italiano, per aiutare professionisti (avvocati, consulenti) ma anche privati cittadini e imprenditori a comprendere in concreto come prevenire e affrontare al meglio un’eventuale contestazione della residenza fiscale. Il linguaggio utilizzato sarà giuridico ma anche divulgativo, al fine di combinare il rigore normativo con la chiarezza espositiva.

Cosa si intende per residenza fiscale e perché è importante

Dal punto di vista normativo italiano, la residenza fiscale di una persona fisica individua il legame sufficientemente forte con il territorio dello Stato tale da giustificare la tassazione universale dei suoi redditi da parte dell’Italia. L’art. 2 del D.P.R. 917/1986 (TUIR) definisce infatti i criteri in base ai quali una persona è considerata residente ai fini delle imposte sui redditi. È residente fiscale in Italia il soggetto che, per la maggior parte dell’anno (almeno 183 giorni, o 184 giorni in caso di anno bisestile), soddisfa anche uno solo dei seguenti requisiti alternativi:

  • Iscrizione nelle anagrafi comunali della popolazione residente: è un criterio formale, basato sulla risultanza ufficiale di residenza anagrafica in un Comune italiano. Essere iscritti all’Anagrafe della popolazione residente significa aver dichiarato il proprio domicilio abituale in Italia, adempiendo agli obblighi di legge in materia anagrafica (come ad esempio l’obbligo di iscrizione e di comunicazione del trasferimento di residenza).
  • Residenza civile in Italia ai sensi del Codice Civile: il concetto civilistico di residenza (art. 43, co. 2 c.c.) corrisponde al luogo in cui la persona ha la dimora abituale. In pratica, è il posto in cui la persona vive quotidianamente la sua vita personale.
  • Domicilio in Italia ai sensi del Codice Civile: il domicilio civilistico (art. 43, co. 1 c.c.) è definito come la sede principale degli affari e interessi della persona. Comprende non solo interessi economici, ma anche quelli personali, sociali e familiari secondo l’interpretazione tradizionale. Può differire dalla residenza anagrafica: ad esempio, una persona può risultare formalmente residente all’estero ma mantenere in Italia il centro effettivo dei propri affari e relazioni, e quindi avere qui il proprio domicilio.

Queste tre condizioni – anagrafica, residenza civile, domicilio – sono previste in alternativa: basta che una sola di esse si verifichi per oltre metà dell’anno perché la persona sia considerata fiscalmente residente in Italia. Ciò implica, ad esempio, che anche un soggetto formalmente iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) possa essere dichiarato residente ai fini fiscali se, di fatto, mantiene in Italia la propria dimora abituale o il centro dei propri interessi (domicilio) per un periodo sufficiente.

Perché è così importante la residenza fiscale? Perché, come anticipato, un residente fiscale italiano è tassato in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti (salvo evitare la doppia imposizione tramite crediti d’imposta esteri o convenzioni internazionali), mentre un non residente è tassato in Italia solo sui redditi di fonte italiana. Dunque, il cambio di residenza fiscale può spostare la potestà impositiva da uno Stato ad un altro e comportare differenze significative di tassazione. Non sorprende che l’Amministrazione finanziaria vigili attentamente sui trasferimenti di residenza all’estero dichiarati dai contribuenti, verificando se ad un cambio di residenza formale corrisponda anche un reale trasferimento della vita personale ed economica fuori dall’Italia. In mancanza di un effettivo trasferimento, il Fisco italiano può contestare la residenza fiscale all’estero e rivendicare le imposte sui redditi esteri non dichiarati in Italia.

Criteri legali di residenza fiscale: normativa previgente e novità dal 2024

Negli ultimi anni la disciplina italiana della residenza fiscale è stata interessata da una riforma significativa. Fino al 31 dicembre 2023 erano in vigore i criteri sopra descritti nella formulazione storica dell’art. 2 TUIR, i quali rimontavano sostanzialmente al 1986. Dal 1° gennaio 2024, per effetto del Decreto Legislativo n. 209/2023 (decreto sulla fiscalità internazionale), sono operative nuove regole sia per le persone fisiche sia per le società, con l’obiettivo dichiarato di modernizzare e rendere più chiari i criteri di collegamento rilevanti. È fondamentale comprendere le differenze tra vecchia e nuova disciplina, anche perché la Corte di Cassazione ha chiarito che le novità non hanno portata retroattiva ma valgono solo per il futuro. Di seguito esaminiamo i due regimi.

La residenza fiscale delle persone fisiche: ieri e oggi

Prima del 2024, la norma prevedeva tre criteri alternativi (anagrafe, domicilio, residenza – come già elencati) e demandava all’interprete la definizione precisa di domicilio e residenza secondo il Codice Civile. La giurisprudenza maggioritaria riteneva allora che il domicilio, ai fini fiscali, dovesse essere individuato nel luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei propri affari e interessi, con particolare enfasi sugli interessi economico-patrimoniali rispetto a quelli affettivi. In altre parole, per accertare il centro degli interessi vitali di un contribuente, i giudici guardavano principalmente a dove erano concentrati i suoi affari, patrimoni, incarichi lavorativi e disponibilità economiche, considerandoli indicatori più oggettivi e “terzi” rispetto ai legami familiari. Ad esempio, la Cassazione aveva più volte privilegiato – in casi di doppia appartenenza familiare o di legami affettivi divisi fra due Paesi – il luogo dove il contribuente gestiva attivamente imprese, ricopriva cariche sociali o deteneva beni di rilievo. I rapporti personali e familiari, nella visione previgente, rilevavano solo se corroborati da altri elementi univoci di collegamento territoriale, e non avevano di per sé carattere prioritario.

Dal 2024 in avanti, invece, è stato introdotto per legge un nuovo concetto di domicilio fiscale, maggiormente incentrato sulla sfera personale. L’art. 2 TUIR, come riformulato dall’art. 1 D.Lgs. 209/2023, stabilisce ora espressamente che, ai fini di individuare la residenza fiscale delle persone fisiche, occorre considerare quattro elementi: residenza anagrafica, domicilio, residenza (civile) e presenza fisica nel territorio dello Stato. Viene altresì chiarito che per domicilio si intende «il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona», non più solo la sede degli affari e interessi economici. Questa è una svolta importante: il legislatore ha allineato la nozione fiscale di domicilio a uno standard più vicino a quello delle Convenzioni internazionali (che guardano molto ai legami personali, come vedremo) e alla vita reale delle persone, dove i rapporti familiari spesso rappresentano il centro effettivo degli interessi.

Un’altra novità cruciale è l’esplicitazione del criterio della presenza fisica: se un individuo soggiorna in Italia per più di 183 giorni nell’anno (anche non consecutivi, contando pure le frazioni di giorno) ciò costituisce di per sé un elemento sufficiente a configurarne la residenza fiscale. In passato, la “presenza” per oltre metà anno era solo la condizione temporale per far scattare uno degli altri tre criteri, ma non veniva menzionata come criterio a sé stante. Ora invece si afferma chiaramente che il semplice fatto di trascorrere in Italia la maggior parte dell’anno, anche al di là delle risultanze anagrafiche, rende il soggetto residente fiscale (salvo ovviamente casi di forza maggiore da valutare caso per caso, come missioni diplomatiche o situazioni particolari disciplinate altrove). Questa disposizione mira a evitare facili elusioni: non basta più non essere iscritti in anagrafe o sostenere di avere domicilio altrove, se poi la persona in concreto vive in Italia per lunghi periodi. A tal proposito, la nuova Circolare 20/E del 4 novembre 2024 dell’Agenzia delle Entrate ha ribadito che la presenza sul territorio va considerata attentamente e che l’iscrizione anagrafica diviene ora una presunzione solo relativa, superabile con prova contraria.

Nella tabella seguente riassumiamo i principali cambiamenti nella definizione di residenza fiscale per le persone fisiche prima e dopo la riforma:

CriterioFino al 2023 (normativa previgente)Dal 2024 (D.Lgs. 209/2023)
Iscrizione anagraficaPresunzione assoluta di residenza fiscale in Italia (criterio formale). Bastava l’iscrizione all’APR per considerare il soggetto residente, anche se di fatto viveva altrove (orientamento Cassazione fino al 2023).Presunzione relativa di residenza. L’iscrizione all’Anagrafe conta, ma il contribuente può dimostrare con prove oggettive di non essere effettivamente residente in Italia, superando il dato formale.
Residenza (dimora abituale)Definizione civilistica (art.43 c.c.): luogo della dimora abituale. Considerata criterio sostanziale alternativo. Peso applicativo dipendente dalla valutazione probatoria dei fatti (frequenza di soggiorno, abitazione disponibile, ecc.).Inalterata nel concetto base, ma rientra tra i criteri da valutare congiuntamente agli altri. Deve sussistere per >183 giorni/anno per avere rilievo. Mantiene natura sostanziale.
Domicilio (centro interessi)Definizione civilistica (art.43 c.c.): sede principale di affari e interessi. Interpretato soprattutto come interessi economici e lavorativi; legami affettivi considerati secondari. Era un criterio sostanziale chiave su cui si concentravano le verifiche (centro di interessi patrimoniali).Ridefinito dal legislatore: luogo in cui si svolgono prevalentemente le relazioni personali e familiari. Si allinea agli standard internazionali enfatizzando il nucleo familiare e affettivo. Resta criterio sostanziale alternativo, ma con focus spostato dagli affari ai legami personali (pur senza trascurare del tutto quelli economici).
Presenza fisica (>183 giorni)Non menzionata espressamente come criterio. Si applicava comunque il requisito temporale della “maggior parte del periodo d’imposta” per far valere uno degli altri criteri (almeno 183 giorni/anno). La normativa non prevedeva split-year: se residente per >183 gg, considerato residente per tutto l’anno fiscale.Inserita come criterio autonomo: la presenza sul territorio italiano per più di metà anno è sufficiente a qualificare la residenza fiscale. Il calcolo considera giorni anche non continuativi e le frazioni di giorno. Confermata l’assenza di split-year: se superi 183 giorni, sei residente per l’intero anno (principio già affermato prima, ora rimarcato).
Altri aspetti– La legge prevedeva una presunzione relativa solo per i trasferimenti in Paesi black-list (art.2 c.2-bis TUIR, v. oltre).– L’iscrizione AIRE di per sé non esonerava dall’applicazione degli altri criteri (giurisprudenza: AIRE non decisiva se persistono domicilio o residenza in Italia). – Possibilità di “doppia residenza” risolta tramite convenzioni internazionali (tie-breaker) ma Cassazione talora privilegiava il criterio formale nazionale.– Ribadito che la presunzione legale relativa vale anche ora solo per Paesi a fiscalità privilegiata (resta in vigore art.2 c.2-bis, invariato).– Iscrizione anagrafica ora esplicitamente relativa e superabile con prove contrarie oggettive (es. dimostrazione residenza effettiva estera).– Confermato che le controversie di doppia residenza vanno risolte applicando le tie-breaker rules delle Convenzioni, che prevalgono sul diritto interno.

Come si nota, la riforma 2023/2024 ha enfatizzato l’aspetto personale e fattuale della residenza, cercando di limitare un approccio eccessivamente formalistico. L’Agenzia delle Entrate stessa, nella Circolare n. 20/E/2024, ha sottolineato che le modifiche mirano a garantire maggiore certezza e allinearsi alle migliori prassi internazionali in tema di residenza fiscale. Ciò non toglie che, per i periodi d’imposta fino al 2023, si continueranno ad applicare i criteri previgenti. La Cassazione (sent. n. 19843 del 18/07/2024) ha infatti confermato che le nuove norme valgono solo dal 1° gennaio 2024 in avanti, mancando qualunque intento retroattivo del legislatore. In quella pronuncia (che riguardava una controversia su presunta residenza in Italia di un contribuente formalmente residente a Monte Carlo negli anni 2006-2010), la Suprema Corte ha applicato la vecchia formulazione di domicilio, privilegiando – in presenza di legami affettivi misti tra Italia ed estero – il luogo in cui esistevano interessi patrimoniali ed economici gestiti visibilmente. Il contribuente in questione, pur avendo famiglia anche all’estero, manteneva numerose cariche societarie in Italia, e ciò è bastato a far ritenere che avesse qui il centro effettivo degli interessi: di conseguenza, è stata confermata la sua residenza fiscale italiana per quegli anni. Dal 2024 in poi, però, in un caso analogo si dovrebbe valutare con maggior peso dove si svolgeva la vita familiare e personale.

In sintesi, i nuovi criteri dal 2024 per le persone fisiche sono: presenza in Italia >183 giorni, domicilio inteso come prevalenza delle relazioni personali/familiari, residenza (dimora abituale) e iscrizione anagrafica (questa ultima divenuta prova relativa). Restano requisiti alternativi, per cui basta integrarne uno per oltre metà anno. Il contribuente ha però ora maggiori possibilità formali di difendersi facendo emergere la realtà fattuale qualora difforme dal dato anagrafico.

La residenza fiscale delle società e l’esterovestizione

La riforma ha interessato anche la residenza fiscale di società ed enti. In base alla disciplina tradizionale (art. 73 TUIR, ante 2024), una società era considerata residente in Italia se aveva per la maggior parte del periodo d’imposta la sede legale o la sede dell’amministrazione (direzione effettiva) o l’oggetto principale dell’attività in Italia. Erano tre criteri alternativi: il terzo (“oggetto principale”) fungeva da clausola residuale, nel senso di attribuire la residenza allo Stato in cui la società svolge in concreto la maggior parte dell’attività economica quando né la sede legale né quella amministrativa fornivano un risultato univoco. Dal 1° gennaio 2024, l’art. 2 del D.Lgs. 209/2023 ha modificato questi parametri: è stato eliminato il criterio dell’oggetto principale e si è precisato che contano i primi due elementi oppure la “gestione ordinaria in via principale” nel territorio italiano. In pratica, per le società oggi rileva se per la maggior parte dell’anno hanno in Italia (i) la sede legale, (ii) la sede di direzione effettiva, oppure (iii) il centro della gestione corrente (operativa) dell’impresa. Anche questi sono criteri alternativi e concreti: basta che uno sussista in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta perché la società sia considerata residente. L’abbandono del riferimento all’“oggetto sociale” formale evita che una società dichiari un oggetto di comodo in uno Stato per giustificare la residenza fuori Italia, quando poi la realtà delle operazioni e delle decisioni amministrative indica il contrario.

Questo adeguamento normativo mira a contrastare meglio il fenomeno dell’esterovestizione societaria, cioè la fittizia localizzazione all’estero di società che di fatto sono gestite dall’Italia, spesso al solo scopo di ridurre il carico fiscale. In passato, l’Agenzia delle Entrate ha dovuto far leva soprattutto sull’accertamento fattuale della sede di direzione effettiva, dimostrando che il “cervello” dell’azienda (il luogo dove si assumono decisioni strategiche e si amministrano gli affari) era in Italia, oppure che l’attività operativa principale si svolgeva qui, per riqualificare come residente una società formalmente estera. Ora questi elementi fattuali sono stati esplicitati come criteri primari di collegamento. In ogni caso, la legge mantiene fermo l’art. 73 comma 5-bis TUIR, per cui si considerano residenti in Italia (salvo prova contraria) anche le società formalmente estere ma controllate da soggetti residenti e con asset principalmente italiani: è una disposizione anti-elusiva specifica che consente di presumere l’esterovestizione in certi casi di controlli societari e localizzazioni in paradisi fiscali.

È interessante citare una recente pronuncia della Cassazione in tema di esterovestizione societaria: l’Ordinanza n. 1075/2025. In quel caso, una S.r.l. aveva trasferito la sede legale prima da Padova a Monfalcone, poi in Brasile, senza però che vi fosse traccia di un effettivo spostamento dell’attività. La compagine sociale e la gestione rimanevano sostanzialmente invariate: i soci (due persone fisiche residenti in Italia, titolari del 100% delle quote) continuavano ad amministrare di fatto la società, e non risultavano strutture operative reali in Brasile. Ne nacque una disputa sull’ufficio territorialmente competente a emettere l’accertamento: la società sosteneva che, essendosi trasferita all’estero, l’ufficio italiano che l’aveva accertata non fosse competente per territorio. Sia la Commissione Tributaria Provinciale sia quella Regionale diedero ragione alla società, annullando gli avvisi per incompetenza territoriale dell’ufficio italiano. La Cassazione però ha ribaltato la decisione: ha affermato che, in caso di trasferimento fittizio all’estero di una società, il domicilio fiscale va individuato nell’ultima sede legale risultante dal Registro delle Imprese italiano, e i criteri successivi (come la sede amministrativa, se diversa) hanno carattere residuale. Dunque, se la “fuga” all’estero è simulata, vale l’ultima sede nota in Italia ai fini della competenza e della residenza fiscale. Nel caso concreto, ciò ha comportato che l’Ufficio italiano inizialmente adito era in realtà competente, poiché la società – a dispetto del cambio formale – doveva ritenersi ancora domiciliata fiscalmente in Italia. Questa decisione evidenzia come la forma non possa prevalere sulla sostanza: per contestare l’esterovestizione, il Fisco utilizza ogni evidenza che la struttura estera è vuota o gestita dall’Italia (mancanza di personale e uffici reali all’estero, soci e amministratori residenti in Italia, conti economici che indicano attività in Italia, ecc.).

Dal lato del contribuente, per difendersi da contestazioni di esterovestizione societaria occorre dimostrare il “substance over form” opposto: cioè fornire evidenze che la società estera ha vita propria e autonoma fuori dall’Italia (sede operativa effettiva, management locale, dipendenti, clienti, etc.). Approfondiremo oltre le strategie difensive, ma già qui è chiaro come la materia sia divenuta molto tecnica e fact-intensive.

Presunzioni legali di residenza e onere della prova: iscrizione AIRE e trasferimenti in paradisi fiscali

Nel valutare le contestazioni sulla residenza fiscale, giocano un ruolo fondamentale le presunzioni legali previste dall’ordinamento e il conseguente onere della prova a carico di ciascuna parte. Due sono le situazioni di rilievo: (1) il caso del contribuente che non si cancella dall’anagrafe italiana (o non si iscrive all’AIRE) pur sostenendo di risiedere all’estero; (2) il caso del contribuente che si trasferisce in un Paese a fiscalità privilegiata (c.d. “black list”). In tali ipotesi la legge italiana predispone presunzioni che agevolano l’Amministrazione finanziaria, salvo possibilità di prova contraria in capo al contribuente.

Iscrizione anagrafica e AIRE: fino al 2023 la giurisprudenza di legittimità prevalente riteneva che l’iscrizione nelle anagrafi dei residenti in Italia costituisse una sorta di presunzione assoluta di residenza fiscale italiana. Ciò significava che se un cittadino italiano si trasferiva all’estero ma ometteva di iscriversi all’AIRE, continuando a risultare nell’anagrafe di un Comune italiano, veniva considerato senz’altro residente in Italia ai fini tributari, anche in presenza di elementi che indicavano una residenza effettiva all’estero. La Cassazione ha ripetutamente affermato questo principio in passato, ad esempio con le sentenze n. 16634/2018 e n. 1355/2022. Questa impostazione formalistica è stata criticata dalla dottrina e da alcune corti di merito, perché ignorava la realtà fattuale e perfino le regole convenzionali in caso di doppia residenza. Con la riforma, il legislatore è intervenuto proprio su tale aspetto: dall’1/1/2024 l’iscrizione anagrafica è presunzione relativa, come già evidenziato. Ciò vuol dire che l’Amministrazione può presumere residente chi risulta iscritto all’APR (Anagrafe della Popolazione Residente), ma se il contribuente fornisce prova documentale che la sua situazione di fatto era diversa (ad esempio che dimorava stabilmente all’estero), tale presunzione può essere vinta. La Circolare 20/E/2024 ha specificato che le prove devono essere “elementi oggettivamente riscontrabili” della residenza estera, rendendo la valutazione il più possibile concreta.

Va notato che anche prima del 2024 c’erano casi in cui la mancata iscrizione all’AIRE non veniva considerata decisiva. Se infatti un contribuente, pur non cancellato dall’anagrafe italiana, risultava contemporaneamente residente secondo le leggi di un altro Stato (magari avendo lì il domicilio, la famiglia, e magari anche un’iscrizione anagrafica locale), si configurava una doppia residenza. In tali frangenti, sia l’Agenzia delle Entrate (con varie Risposte a interpello, es. n. 25/2018, n. 203/2019, n. 370/2023) sia la giurisprudenza di vertice hanno riconosciuto che vanno applicati i criteri convenzionali per stabilire in quale Paese la persona debba essere considerata residente in via esclusiva. Ciò discende dal fatto che le Convenzioni contro le doppie imposizioni (stipulate dall’Italia con molti Stati) hanno valore di legge superiore a quella interna, per il principio del rispetto degli obblighi internazionali ex art. 117 Cost.. Pertanto, un soggetto che formalmente è rimasto residente in Italia, ma che di fatto vive e risulta residente anche in un Paese convenzionato, può far valere i tie-breaker della Convenzione per dimostrare che la sua residenza effettiva era all’estero (su questo torneremo nella sezione sui profili internazionali). Un esempio pratico: Tizio si trasferisce stabilmente in Francia ma dimentica di iscriversi all’AIRE; la Francia lo considera residente in base alle proprie leggi. Avremo allora Tizio residente per la legge italiana (dato anagrafico) e residente per la legge francese (dimora abituale in Francia). La Convenzione Italia-Francia prevede criteri come l’abitazione permanente, il centro degli interessi vitali, ecc.: se applicando tali criteri risulta prevalente la Francia (ad esempio Tizio ha lì la casa e la famiglia), Tizio sarà considerato residente francese ai fini convenzionali e l’Italia dovrà disapplicare la propria pretesa impositiva su redditi esteri. Insomma, la mancata iscrizione all’AIRE è certamente sconsigliabile perché espone il contribuente a contestazioni e inversioni dell’onere probatorio, ma non è sempre una condanna senza appello: c’è spazio per difendersi provando la realtà di un effettivo trasferimento. Oggi, con la novella del 2024, questo spazio è diventato anzi un diritto riconosciuto espressamente.

Trasferimenti in Stati a fiscalità privilegiata (Black list): un caso particolare è disciplinato dall’art. 2, comma 2-bis TUIR (introdotto nel 1990 e ritoccato nel 2008). Questa norma prevede che si considerano residenti in Italia, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe e trasferiti in Stati o territori aventi regime fiscale privilegiato. Si tratta di una presunzione legale relativa, concepita per contrastare le finte emigrazioni verso paradisi fiscali. La logica è: se ti sei trasferito in un paradiso fiscale, presumibilmente lo hai fatto per ragioni elusive, quindi l’onere di dimostrare che vivi davvero lì (e non in Italia) ricade totalmente su di te. In questi casi, a differenza di quanto avviene con i Paesi “white list”, è il contribuente che deve fornire la prova dell’effettivo trasferimento all’estero con tutte le evidenze del caso. Se non ci riesce, la legge permette di presumere che sia ancora residente in Italia, continuando quindi a tassare in Italia i suoi redditi mondiali. Questa inversione dell’onere probatorio rende molto insidioso trasferirsi in Paesi a tassazione nulla o molto bassa, perché il Fisco potrà legittimamente pretendere documentazione e riscontri puntuali su ogni aspetto della vita all’estero del contribuente (abitazione, lavoro, famiglia, conti bancari, ecc.). Il contribuente “emerso” in un paradiso fiscale è, agli occhi dell’Amministrazione, colpevole fino a prova contraria.

La lista degli Stati a fiscalità privilegiata a tali fini è indicata in appositi decreti ministeriali (originariamente DM 4 maggio 1999, periodicamente aggiornato). Ad esempio, fino a poco tempo fa figurava anche la Svizzera; tuttavia, con il DM 20 luglio 2023, in attuazione della Delega fiscale 2023, la Svizzera è stata rimossa dall’elenco dei Paesi black list rilevanti per l’IRPEF (effetto dal periodo d’imposta 2024). Questo perché la Svizzera ha siglato accordi e standard di cooperazione fiscale con l’UE e l’Italia, perdendo lo status di paradiso fiscale nel contesto odierno. Dunque dal 2024 un italiano trasferito in Svizzera non subisce più la presunzione di residenza ex art. 2 co.2-bis TUIR. Restano però in lista molti Paesi notoriamente a bassa tassazione (ad es. Monte Carlo, Emirati Arabi, alcune isole caraibiche, etc.). Conviene verificare di volta in volta l’elenco aggiornato dei Paesi black list per sapere se la meta di espatrio rientra tra essi.

Come si supera la presunzione black list? È un compito non semplice: occorre convincere il Fisco italiano che c’è stato un reale trasferimento di vita all’estero, fornendo quante più prove concrete possibile. Ne parleremo nel dettaglio nella parte dedicata alle strategie difensive e prove, ma in breve significa dimostrare di aver stabilito all’estero il proprio centro di vita (abitazione, famiglia, lavoro, attività sociali) e di non aver mantenuto in Italia legami significativi. La Cassazione ha specificato che servono “elementi gravi, precisi e concordanti” per contestare la residenza estera; ebbene, allo stesso modo elementi altrettanto solidi dovranno essere messi sul tavolo dal contribuente per ribaltare la presunzione nei Paesi black list. Ad esempio, contratti di acquisto o locazione di una casa all’estero, iscrizioni di figli a scuole estere, bollette e utenze che attestino la presenza in loco, contratti di lavoro o di impresa stipulati stabilmente oltreconfine, iscrizione al sistema sanitario estero, ecc. (tutto ciò lo approfondiremo tra poco). Se le prove prodotte sono sufficienti a far ritenere che il contribuente viveva stabilmente fuori d’Italia, l’Ufficio dovrà riconoscere la residenza estera nonostante la presunzione iniziale.

Per completezza, aggiungiamo che un’analoga presunzione esiste per le società ed enti: l’art. 73, comma 5-bis TUIR prevede che le società estere controllate da soggetti italiani o quotate in borsa possono essere considerate residenti in Italia se hanno asset prevalentemente in Italia o altre condizioni indicative. Anche qui comunque serve una verifica caso per caso e c’è possibilità di prova contraria, ma rientra nella trattazione dell’esterovestizione societaria più che delle persone fisiche.

In sintesi, iscrizione AIRE mancata = rischio presunzione (ora relativa) di residenza in Italia; trasferimento in paradiso fiscale = presunzione (relativa) con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. Tenere a mente queste regole è fondamentale per capire come modulare la strategia difensiva: chi parte per un Paese a bassa tassazione deve prepararsi a raccogliere ogni indizio utile a provare la genuinità del trasferimento, molto più di chi si trasferisce in un Paese “normale” dove l’onere iniziale di prova grava sul Fisco.

Come l’Agenzia delle Entrate individua i falsi non residenti: poteri di accesso, indagine e accertamento

L’Amministrazione finanziaria italiana dispone di ampi poteri per controllare la veridicità dei trasferimenti di residenza dichiarati dai contribuenti. Negli ultimi anni, grazie anche all’evoluzione tecnologica e alla cooperazione internazionale, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno intensificato la vigilanza sui soggetti che tentano di sottrarsi al Fisco italiano simulando un’espatrio. Vediamo quali sono gli strumenti tipici utilizzati e come si svolge, in pratica, un accertamento sulla residenza fiscale.

Selezione dei contribuenti a rischio e primo contatto (questionari)

Ogni anno l’Amministrazione effettua delle analisi incrociate di banche dati e segnala dei nominativi di contribuenti “a rischio esterovestizione” da sottoporre a controllo. I profili più a rischio sono tipicamente: cittadini italiani che hanno comunicato il trasferimento all’estero (cancellazione APR e iscrizione AIRE) ma continuano ad avere interessi economici o familiari significativi in Italia; oppure soggetti che, pur avendo trasferito formalmente la residenza all’estero, mantengono proprietà e relazioni nel territorio (come case, imprese, ecc.); o ancora casi di italiani migrati verso noti paradisi fiscali. L’Agenzia può attingere a numerose fonti informative per compilare queste liste di controllo:

  • Anagrafe tributaria e registri pubblici: incrocio dei dati anagrafici (cancellazione APR, iscrizione AIRE) con altre informazioni fiscali. Ad esempio, se un soggetto risulta AIRE ma continua a presentare dichiarazioni dei redditi in Italia per determinati redditi, o a possedere immobili registrati qui, scatta un alert.
  • Archivio dei rapporti finanziari: l’Agenzia ha accesso all’archivio che registra i conti correnti bancari, investimenti finanziari e movimenti rilevanti. Se una persona che dice di essersi trasferita continua ad avere conti e movimenti consistenti in Italia, è un indizio. Inoltre, tramite gli scambi internazionali automatici (Common Reporting Standard, CRS), l’Italia riceve informazioni sui conti bancari che i residenti fiscali italiani detengono all’estero. Questo meccanismo può far emergere situazioni incoerenti (es: Tizio si dichiara residente all’estero, ma un Paese estero segnala all’Italia conti esteri riconducibili a Tizio come residente italiano – segno che forse per quell’altro Paese Tizio non risulta residente locale).
  • Utenze, consumi e acquisti in Italia: l’Agenzia può ottenere dati sulle utenze domestiche (bollette di luce, gas, telefono), sugli abbonamenti (es. Telepass, pay-tv) e in generale su contratti intestati al contribuente in Italia. Ad esempio, se Caio risulta emigrato ma continua ad avere attive utenze elettriche con consumi elevati in un appartamento italiano a lui riferibile, è segno che quell’immobile è abitato (forse proprio da Caio).
  • Dati catastali e immobiliari: la proprietà o la disponibilità di immobili in Italia è uno dei fattori primari. Chi trasferisce la residenza ma mantiene una casa di proprietà in Italia, magari libera o a disposizione, viene monitorato. Se poi la casa è utilizzata (es. movimenti di utenze) sospettano che il soggetto la usi personalmente.
  • Legami familiari e sociali: le banche dati non registrano direttamente le relazioni affettive, ma ci sono segnali indiretti. Ad esempio, i registri scolastici: se i figli del contribuente sono ancora iscritti a scuole in Italia, è un ovvio indicatore. Oppure risultanze come cariche in associazioni, club, attività sportive in Italia.
  • Cariche societarie e imprese: un altro potente indicatore. L’Agenzia verifica se il contribuente espatriato mantiene cariche di amministratore, sindaco, socio rilevante in società italiane. Avere ruoli direttivi in aziende in Italia contrasta con l’idea di aver spostato il proprio centro vitale fuori. Idem per partecipazioni qualificate in società residenti o per la titolarità di partita IVA attiva in Italia.
  • Redditi e flussi finanziari: se l’individuo continua a percepire redditi dall’Italia (stipendi, compensi, redditi d’impresa, rendite finanziarie) mentre ufficialmente risiede altrove, questo elemento viene rilevato. Anche i flussi di denaro da/per l’estero sono monitorati grazie alla normativa antiriciclaggio e ai report bancari: trasferimenti ricorrenti di fondi dall’Italia al Paese estero di residenza (o viceversa) possono essere spie di una situazione di collegamento economico non cessato.
  • Social media e presenza mediatica: può sembrare curioso, ma ormai rientra tra le fonti ausiliarie. L’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza possono consultare profili social, notizie di stampa, siti web per raccogliere indizi sulla presenza fisica di una persona. Ad esempio, foto o post geolocalizzati che mostrano la persona frequentemente in Italia, o articoli di giornale che la riguardano in eventi sul territorio nazionale, ecc. Chiaramente queste non sono prove definitive, ma costituiscono tasselli in un mosaico probatorio.

Una volta selezionato un contribuente come sospetto “falso non residente”, il primo atto che l’Amministrazione tipicamente compie è l’invio di un questionario o invito a fornire informazioni. Si tratta di una lettera (ai sensi dell’art. 32 DPR 600/1973) con cui l’ufficio chiede al contribuente di spiegare la propria situazione di soggetto espatriato e di fornire determinati documenti. Ad esempio, viene chiesto di indicare da quando e dove si risiede all’estero, in che alloggio, con che attività lavorativa, se la famiglia si è trasferita, quali proprietà si hanno ancora in Italia, e di allegare copie di contratti di casa, bollette, certificati di iscrizione all’AIRE, certificati di residenza esteri, ecc. Questo passaggio è molto importante: il contribuente ha l’opportunità di rappresentare la sua versione e magari convincere l’ufficio sin da subito. Infatti, spesso l’avviso di accertamento formale scatta solo se le risposte al questionario sono giudicate insufficienti o se addirittura il contribuente non risponde affatto (il che è altamente sconsigliabile). Ignorare il questionario o rispondere in modo evasivo equivale a perdere un’occasione di difesa precoce: l’Amministrazione potrebbe procedere con l’accertamento basandosi sulle informazioni in suo possesso. Inoltre, la mancata risposta ai questionari può far scattare sanzioni amministrative per inosservanza di obblighi di collaborazione e, quel che è peggio, può consentire al Fisco di presumere come veri alcuni fatti (ad esempio, se chiedono “confermi di aver avuto dimora in Italia in tale periodo?” e non rispondi, potrebbero presumere la dimora).

Poteri di indagine e raccolta delle prove

Durante l’istruttoria sulla residenza, gli uffici delle Entrate e la Guardia di Finanza possono utilizzare una vasta gamma di poteri istruttori, tra cui:

  • Accessi, ispezioni e perquisizioni: in genere impiegati in ambito aziendale, ma in casi particolari possono riguardare anche abitazioni private (su autorizzazione) se vi è il fondato sospetto che il contribuente dichiarante residenza estera in realtà dimori in Italia. Ad esempio, se durante un’indagine risulta che Tizio è spesso presso un certo indirizzo in Italia, la GdF potrebbe effettuare un accesso domiciliare (nei limiti consentiti dallo Statuto del Contribuente e con autorizzazione della Procura se è un’abitazione privata) per verificare la presenza di effetti personali, di vita domestica, ecc. Tali riscontri “sul campo” sono però usati con cautela e più spesso nelle indagini penali.
  • Indagini finanziarie: l’art. 32 del DPR 600/1973 consente all’Agenzia di ottenere dagli istituti finanziari (banche, poste, ecc.) l’elenco dei rapporti bancari e i movimenti del contribuente. Questo è uno strumento potentissimo. Spulciando i conti, si può vedere dove il contribuente prelevava denaro con le carte (Italia o estero), dove spendeva (ad es. pagamenti POS geolocalizzati), se pagava bollette di case italiane, se riceveva bonifici per stipendio estero su conto italiano, ecc. Tutto ciò può fornire elementi temporali di presenza: utilizzo frequente di bancomat in Italia durante l’anno X è indice che la persona era fisicamente in Italia in quei giorni. Le indagini finanziarie, unite ai dati del CRS internazionale, fanno emergere anche l’esistenza di conti esteri non dichiarati (che se uno fosse non residente potrebbe anche non dichiarare, ma se contestano la residenza diventano attività estere non monitorate).
  • Cooperazione internazionale e scambio informazioni: grazie alle Convenzioni e agli accordi europei, l’Agenzia delle Entrate può richiedere informazioni specifiche al fisco di un altro Paese. Ad esempio, se Sempronio sostiene di vivere in Spagna, l’Italia può chiedere alla Spagna di fornire i dati di residenza anagrafica, eventuali dichiarazioni dei redditi presentate lì, proprietà immobiliari, ecc. Con molti Paesi c’è ormai uno scambio automatico di informazioni (soprattutto finanziarie, come detto) e comunque la cooperazione amministrativa UE consente audit congiunti o scambi su richiesta molto rapidi. Vi sono stati casi in cui l’Italia ha ottenuto dalle autorità estere copie di contratti di affitto, attestati di frequenza scolastica dei figli all’estero, e così via, forniti dallo Stato estero dietro domanda.
  • Interazioni con enti italiani: per legge, i Comuni devono verificare entro 6 mesi le domande di iscrizione all’AIRE dei loro cittadini. Ciò significa che, quando uno chiede l’AIRE, il Comune di ultima residenza italiana controlla effettivamente se la persona ha lasciato l’abitazione in Italia. Spesso i vigili urbani fanno un sopralluogo per certificare che l’abitazione è vuota o che i vicini confermano che Tizio è espatriato. Queste risultanze vengono trasmesse all’Agenzia delle Entrate eventualmente. Analogamente, l’Agenzia può coordinarsi con l’INPS (lo ha fatto in passato) per controlli sui pensionati all’estero o sui lavoratori in distacco: ad esempio confrontando i dati di chi prende pensione estera o chi ha contributi sospesi.
  • Monitoraggio media e internet: come accennato, non è raro che le Fiamme Gialle analizzino i social network, LinkedIn, Facebook, Instagram del soggetto per vedere foto di vacanze o permanenze prolungate in Italia, oppure che esaminino registri di circoli (un esempio: la persona continua ad essere socio di un golf club in Italia e a partecipare ad eventi sociali), o ancora che raccolgano informazioni open source su acquisti di auto, barche (il PRA per auto e nautica è consultabile). Tutti questi elementi di collegamento con l’Italia vengono accumulati.

Dall’indagine all’accertamento formale

Se dall’istruttoria emergono elementi sufficienti (in gergo, “gravi, precisi e concordanti”) per ritenere che il contribuente fosse in realtà residente in Italia nel periodo X, l’Agenzia procederà ad emettere un avviso di accertamento per quell’anno d’imposta, recuperando le imposte dovute sui redditi esteri non dichiarati (o su tutti i redditi, se il soggetto aveva omesso completamente la dichiarazione in Italia credendosi non residente). L’accertamento della residenza fiscale è spesso accompagnato da un accertamento dei redditi per via induttiva: se il contribuente non ha presentato la dichiarazione dei redditi in Italia (ritenendosi non residente), l’Ufficio calcolerà le imposte dovute su tutti i redditi che riesce a ricostruire, con metodi come il redditometro o basandosi sui dati raccolti (conto bancario, investimenti, acquisti di beni, ecc.). A volte viene notificato un avviso di accertamento sintetico ex art. 38 DPR 600/1973, fondato sulle spese sostenute compatibili con un certo reddito occulto, combinato con la contestazione della residenza.

La competenza territoriale all’emissione dell’atto di accertamento è normalmente quella dell’ultimo domicilio fiscale noto in Italia. Se una persona si era cancellata per l’estero, in teoria l’ufficio competente sarebbe quello degli “ex residenti all’estero” (esiste un ufficio centrale per gli AIRE). Tuttavia, nella prassi gli uffici locali dove la persona risiedeva prima spesso seguono la pratica. In caso di controversia sulla competenza, come abbiamo visto con Cass. 1075/2025, ciò può finire anch’esso oggetto di giudizio, ma in generale, se il trasferimento è ritenuto fittizio, l’ufficio del luogo dove la persona aveva domicilio in Italia viene considerato competente.

La notifica dell’avviso di accertamento viene fatta all’ultimo domicilio italiano noto del contribuente oppure al domiciliatario fiscale eventualmente designato. Se il contribuente è AIRE, la notifica può essere fatta anche all’estero (non di rado, però, viene nominato un rappresentante fiscale in Italia per le notifiche). In mancanza, la notifica all’estero segue canali diplomatici o raccomandate internazionali, con tutti i possibili intoppi del caso. In sede di difesa, è essenziale verificare la correttezza della notifica perché da essa decorrono termini perentori per impugnare l’atto (60 giorni per il ricorso).

Riassumendo, il processo tipico è: red flags su un soggetto espatriato ⇒ invio questionario ⇒ analisi risposta + raccolta info incrociate ⇒ se insoddisfacente, emissione avviso di accertamento (che contesta residenza e richiede imposte e sanzioni). È importante sapere che l’accertamento sulla residenza fiscale ha natura impugnabile come ogni altro accertamento tributario: quindi una volta ricevuto l’atto, il contribuente può presentare ricorso alla giustizia tributaria e far valere le proprie ragioni. Prima di arrivare a come difendersi legalmente, però, vediamo nel dettaglio quali sono gli elementi specifici che l’Agenzia considera per affermare che un soggetto, nonostante si proclami residente all’estero, sia rimasto di fatto residente in Italia.

Indici di collegamento con l’Italia utilizzati in sede di accertamento

La determinazione della residenza fiscale di fatto è basata su una valutazione complessiva di una serie di indici di collegamento del contribuente con il territorio italiano. Questi indici, come abbiamo visto, provengono da vari ambiti: familiare, economico, patrimoniale, sociale. La prassi e la giurisprudenza li hanno in parte elencati. L’Agenzia delle Entrate stessa, nella Circolare 20/E del 2024 e in documenti precedenti, ha fornito un elenco (non tassativo) di elementi che dimostrano un radicamento in Italia. Ecco i principali indicatori di residenza in Italia che vengono valutati:

  • Presenza di famiglia stretta in Italia: se il coniuge o i figli del contribuente rimangono a vivere in Italia, è un segnale molto forte. In particolare, la presenza di figli a carico o minori che frequentano scuole in Italia è considerata indicativa. La logica è che difficilmente un genitore può dirsi stabilito all’estero se i figli continuano la vita quotidiana qui (salvo ovviamente casi di separazione con affidamento).
  • Possesso di un’abitazione a disposizione in Italia: disporre di un immobile ad uso abitativo sul territorio nazionale, per più di 90 giorni l’anno, senza darlo in locazione a terzi, fa presumere che il contribuente abbia un luogo dove abitare in Italia e probabilmente lo utilizzi. Ancora peggio se possiede più immobili. La circostanza diventa ancor più probante se ci sono evidenze di utilizzo di tali immobili (utenze, arredamento mantenuto, ecc.).
  • Cariche sociali in entità italiane: ricoprire ruoli di amministratore, sindaco, consigliere in società con sede in Italia è un chiaro indice di interessi economici stabili nello Stato. Ad esempio, se un soggetto trasferito all’estero continua ad essere amministratore unico di una SRL italiana, il Fisco penserà che di fatto egli rientra spesso o gestisce affari italiani e che quindi il suo domicilio rimanga qui.
  • Partecipazioni in società italiane: analogamente, avere partecipazioni qualificate (ossia quote significative) in società residenti, pur senza magari ruoli amministrativi, indica legami patrimoniali importanti con l’Italia. Soprattutto se da tali partecipazioni derivano dividendi, compensi o altre utilità economiche regolari.
  • Attività lavorativa o d’impresa in Italia: se il contribuente continua a esercitare attività di lavoro dipendente, autonomo o imprenditoriale in Italia, ciò è evidentemente incompatibile con un trasferimento reale all’estero. Anche il lavoro in smart working può far scattare la residenza, se la prestazione da remoto viene svolta dal territorio italiano per la maggior parte del tempo.
  • Interessi economici in Italia: investimenti finanziari, proprietà di beni mobili registrati (auto, barche, aerei immatricolati in Italia), stipula di contratti assicurativi italiani, apertura di mutui presso banche italiane, ecc. Tutti questi sono elementi che segnalano la persistenza di un centro di interessi economici interno. Se ad esempio un soggetto sposta la residenza a Dubai ma lascia in Italia un grosso patrimonio immobiliare che amministra direttamente, affitta, ecc., l’Agenzia considererà questo un forte indizio di interessi patrimoniali in Italia.
  • Legami personali, sociali, politici in Italia: l’iscrizione e la partecipazione attiva a circoli, club, associazioni italiane (culturali, sportive, ecc.); ruoli politici o cariche pubbliche locali; o semplicemente una intensa vita sociale in Italia documentata. Ad esempio, se la persona appare spesso in eventi pubblici in Italia, mantiene ruoli di rappresentanza in ordini professionali italiani, ecc., ciò contraddice l’idea di un radicamento all’estero.
  • Movimenti e permanenza fisica sul territorio: qualora si riescano a documentare ingressi e uscite dal Paese (p.e. tramite timbri sul passaporto, biglietti di viaggio) o la presenza fisica prolungata. A volte l’Agenzia incrocia dati come: scontrini, utilizzo carte di credito, celle telefoniche agganciate dal cellulare (in indagini penali è lecito acquisire tabulati). La presenza frazionata ma ripetuta in Italia per un numero elevato di giorni è considerata alla stregua di una permanenza rilevante. La persona potrebbe dire “ma io tornavo solo ogni tanto a trovare i parenti”, tuttavia se questi “ogni tanto” sommati fanno magari 5-6 mesi all’anno, è residenza di fatto.
  • Casi di interposizione fittizia: il Fisco sta attento anche a eventuali schermi utilizzati dal contribuente per occultare i legami. Ad esempio, se la casa in Italia è stata intestata a un parente stretto poco prima del trasferimento, o se le auto sono intestate a una società di famiglia, l’Agenzia potrebbe parlare di intestazioni interposte. Se dimostrano che quei beni di fatto sono nella disponibilità dell’espatriato (usati da lui, pagati con i suoi fondi), li considerano comunque collegamenti attribuibili a lui. Quindi cercare di “schermare” i propri asset italiani intestandoli ad altri raramente inganna gli inquirenti, anzi può aggravare la posizione se interpretato come doloso.

Tutti questi elementi vengono valutati nel loro insieme. Non è necessario che siano presenti tutti per far presumere la residenza in Italia; spesso ne bastano alcuni, purché significativi. Una frase chiave letta in dottrina e ripresa anche dalla prassi è: “la presenza anche solo di tre elementi di collegamento rilevanti può portare alla contestazione” della residenza italiana. Ad esempio, se una persona ha moglie e figli in Italia, più una casa a disposizione, e magari delle cariche societarie, questi tre fattori congiunti probabilmente convinceranno il Fisco a procedere con l’accertamento, anche se il soggetto insiste di vivere a Londra.

Al contrario, per il contribuente la strategia difensiva consisterà nel dimostrare l’assenza (o l’esigua rilevanza) di tali legami con l’Italia, e parallelamente la presenza forte di legami con l’estero. Più avanti vedremo le prove da produrre a proprio favore (es. iscrizioni al sistema sanitario estero, contratto di lavoro straniero, ecc.), ma vale anticipare che in generale bisogna specularmente fornire indici di radicamento all’estero tali da controbilanciare o annullare quelli italiani.

Riassumiamo i due gruppi contrapposti in uno schema per chiarezza:

  • Famiglia (coniuge, figli) rimasta in Italia.
  • Abitazione disponibile in Italia (non affittata).
  • Cariche sociali o partecipazioni in società italiane.
  • Lavoro o impresa svolti in Italia.
  • Proprietà di beni in Italia: auto, barche, immobili, ecc..
  • Percezione di redditi italiani (stipendi, compensi, rendite).
  • Conti bancari in Italia con movimenti significativi.
  • Frequente presenza fisica in Italia (viaggi, soggiorni prolungati).
  • Iscrizione ad associazioni, attività sociali/politiche in Italia.
  • Intestazione di utenze e contratti in Italia (utenze domestiche, telefono, abbonamenti).
  • Residenza anagrafica estera (iscrizione all’AIRE effettuata).
  • Abitazione stabile all’estero (proprietà o contratto di affitto a lungo termine) e dimora abituale documentata.
  • Trasferimento dell’intero nucleo familiare all’estero (coniuge e figli residenti fuori Italia).
  • Attività lavorativa continuativa all’estero (contratto di lavoro o impresa estera).
  • Iscrizione dei figli a scuole/università all’estero.
  • Iscrizione al sistema sanitario nazionale estero, medico di base estero, ecc.
  • Conto bancario estero utilizzato per spese correnti; transazioni con carte prevalentemente all’estero.
  • Bollette e utenze di casa estera con consumi regolari; eventuale disdetta utenze in Italia.
  • Presenza di relazioni sociali all’estero: ad es. iscrizione ad associazioni locali, volontariato, attività sportive nel nuovo paese.
  • Eventuale iscrizione in liste elettorali all’estero (dove applicabile).
  • Registrazione come residente fiscale presso l’autorità fiscale estera (certificato di residenza fiscale estero).
  • Pagamento di imposte nel Paese estero (dichiarazioni dei redditi estere presentate).

(N.B.: Gli indizi a sinistra sono quelli che il Fisco italiano considera sintomatici di residenza in Italia; quelli a destra sono le prove che il contribuente dovrebbe raccogliere per dimostrare la residenza all’estero effettiva. L’ideale, per chi trasferisce la residenza, è minimizzare il più possibile i collegamenti della colonna di sinistra e massimizzare quelli di destra.)

Uno specifico scenario da considerare è quello, molto comune, del lavoratore espatriato con famiglia che resta in Italia. L’Agenzia delle Entrate vi ha dedicato attenzione: ad esempio nella Risposta a interpello n. 25/E/2018 e poi nella già citata Circolare 20/E/2024, si evidenzia che in tal caso il domicilio fiscale tende a rimanere in Italia perché gli interessi familiari prevalenti del contribuente restano qui. In pratica, se un marito si trasferisce a lavorare a Londra ma la moglie e i figli restano in Italia nella casa di famiglia, per la legge interna italiana egli è ancora residente (domicilio in Italia) in quanto il fulcro affettivo è rimasto nello Stato d’origine. Come può difendersi il contribuente in tale situazione? L’unica via è appellarsi alla Convenzione contro le doppie imposizioni: come riconosciuto anche dall’Agenzia, il soggetto può tentare di “superare la normativa interna” invocando l’art. 4 par. 2 del Modello OCSE (tie-breaker rule). Dovrà cioè dimostrare, alternativamente, di avere all’estero: una abitazione permanente a disposizione, oppure il centro degli interessi vitali, oppure la dimora abituale, o in ultima istanza la sola cittadinanza estera (se posseduta). Questi criteri vanno applicati in ordine: prima si guarda l’abitazione permanente. Se il contribuente ha una casa idonea sia in Italia che all’estero, allora si valuta dove sono i suoi interessi vitali (somma di relazioni personali ed economiche). Se ancora c’è dubbio, si passa a dove soggiorna abitualmente più tempo; se ancora non risolve, alla cittadinanza. E solo in estrema ipotesi si ricorre a un accordo amichevole fra Stati. Quindi, nel nostro esempio, se quel lavoratore può provare di aver allestito una dimora stabile per sé a Londra (es. casa in affitto per tutto l’anno) e che lì spende la maggior parte del tempo, potrebbe sostenere che il tie-breaker della dimora abituale gli assegna la residenza UK, nonostante la famiglia in Italia. Non è un caso semplice da vincere, perché la presenza della famiglia pesa molto: se il soggetto rientra appena può in Italia per stare con i cari, allora l’”interesse vitale” resta italiano. Comunque, questo scenario evidenzia la complessità di situazioni “ibride” e la necessità di un esame caso per caso.

Profili internazionali: la doppia residenza e le Convenzioni contro le doppie imposizioni

Come accennato, quando un contribuente è potenzialmente considerato residente in due Stati secondo le rispettive normative interne, si crea un conflitto di residenza fiscale. Questo avviene spesso per chi si trasferisce all’estero: da un lato l’Italia potrebbe continuare a ritenerlo residente (in base ai criteri visti), dall’altro il nuovo Paese di approdo potrebbe a sua volta considerarlo residente fiscale secondo le proprie regole (che magari sono diverse). Fortunatamente, esistono gli accordi internazionali bilaterali – le Convenzioni contro le doppie imposizioni – che contengono una clausola per dirimere queste situazioni, in modo che la persona non risulti fiscalmente residente in entrambi gli Stati (ciò non significherebbe doppia tassazione integrale, perché poi i crediti d’imposta attenuerebbero l’effetto, ma creerebbe comunque complicazioni enormi e incertezze di diritto). La stragrande maggioranza delle Convenzioni fiscali seguono l’articolo 4 del Modello OCSE in materia di residenza delle persone fisiche.

In particolare, l’art. 4(2) del Modello OCSE (richiamato dalle convenzioni) prevede una serie di tie-breaker rules applicate in ordine gerarchico per stabilire a quale Stato attribuire in via esclusiva la residenza fiscale del soggetto. I criteri, nell’ordine, sono:

  1. Abitazione permanente (permanent home) – Si verifica se la persona dispone di una abitazione permanente (cioè un’abitazione idonea, non occasionale, dove può stabilmente vivere) in uno solo dei due Stati. Se sì, residente di quello Stato. Se ha un’abitazione permanente in entrambi o in nessuno, si passa al punto 2.
  2. Centro degli interessi vitali – Si valutano i legami personali ed economici complessivi, per stabilire a quale Stato la persona è più strettamente legata. Questo è un criterio composito: include famiglia, lavoro, proprietà, attività sociali, affari, ecc. È in parte simile al concetto di domicilio ma più ampio. Se risulta chiaramente prevalente in uno Stato (ad esempio famiglia e lavoro entrambi lì), quello prevale. Se rimane dubbio (legami frammentati fra i due Paesi), si passa al punto 3.
  3. Soggiorno abituale – Si guarda dove la persona soggiorna abitualmente, cioè in quale dei due Paesi trascorre più tempo nell’arco dell’anno. Questo in pratica è un criterio quantitativo – giorni di presenza. Se uno dei due supera l’altro, quell’Stato vince. Se per ipotesi il soggetto vive metà anno di qua e metà di là (caso raro), si passa al punto 4.
  4. Nazionalità – Se i criteri precedenti non hanno deciso, si considera la cittadinanza. Se la persona ha la cittadinanza di un Paese e non dell’altro, viene considerata residente (ai fini convenzionali) del Paese di cui ha la cittadinanza. Se ha doppia cittadinanza o nessuna, ultimo step.
  5. Procedura amichevole tra autorità competenti – In mancanza di soluzione con i criteri automatici, le due amministrazioni fiscali devono consultarsi e accordarsi su dove attribuire la residenza. Questo è un criterio residuale, raramente utilizzato se non in situazioni eccezionali, perché di solito uno dei primi 4 criteri risolve.

In base a queste regole, nella maggior parte dei casi pratici la disputa si chiude al primo o secondo livello: o la persona ha solo una casa fissa in uno dei due Stati, o comunque i suoi interessi vitali pendono chiaramente da una parte. È interessante rilevare che la Convenzione prevale sulla legge interna: dunque, anche se la legge italiana direbbe che Tizio è residente, se la Convenzione (applicando i criteri) stabilisce che Tizio è da considerare residente esclusivamente in Francia, l’Italia deve trattarlo come non residente, limitandosi a tassare i suoi soli redditi italiani e cedendo il resto alla Francia. Questo principio di prevalenza è stato più volte ribadito anche dalla Cassazione (ad es. Cass. n. 14474/2016; Cass. n. 24246/2015, etc., che confermano come le norme convenzionali abbiano rango di diritto internazionale pattizio e sovraordinato rispetto al TUIR).

Nella pratica difensiva, ciò significa che un contribuente contestato come residente dall’Italia, se ha in mano elementi per far valere la Convenzione, dovrebbe prontamente invocarli. Ad esempio, presentando all’ufficio un certificato di residenza fiscale rilasciato dal Paese estero e argomentando in base ai tie-breaker. L’Agenzia delle Entrate, in alcune risposte a interpello, ha riconosciuto casi di prevalenza della residenza estera proprio grazie ai criteri convenzionali, pur in presenza di iscrizione anagrafica in Italia. Naturalmente, l’onere di provare i fatti su cui applicare i tie-breaker spetta al contribuente. Un esempio famoso fu un caso di un cantante lirico italiano che viveva tra l’Italia e Montecarlo: l’Italia lo considerava residente perché iscritto in anagrafe fino a una certa data, ma alla fine – in giudizio – si dimostrò che egli aveva la dimora abituale e il centro degli interessi a Montecarlo, risolvendo a suo favore in base alla Convenzione (per quanto Montecarlo non abbia convenzione completa con l’Italia, fu comunque un contenzioso noto per aver discusso i criteri di “interessi vitali”).

Vale la pena evidenziare che se il Paese estero NON ha una Convenzione con l’Italia, la situazione è più complicata: in tal caso, infatti, non c’è un meccanismo pattizio per risolvere la doppia residenza. Il contribuente potrebbe trovarsi formalmente residente per entrambe le legislazioni nazionali e dover sperare in un accordo di altro tipo o nella clemenza di uno dei due Stati nel riconoscere la residenza all’altro. Ad esempio, l’Italia non ha convenzioni contro le doppie imposizioni con alcuni paradisi fiscali (come Monaco fino a pochi anni fa, o Panama ecc. – con alcuni poi ha accordi limitati). In quei casi, la difesa del contribuente davanti al giudice italiano può comunque ispirarsi ai criteri OCSE come norme di esperienza internazionale, ma non c’è un obbligo legale per l’Italia di cedere sovranità. Spesso quindi, se un contribuente va a vivere in un Paese senza convenzione (e magari black list), l’unica via per convincere l’Italia a non tassarlo è fornire prove in abbondanza che non integrava i criteri di residenza interna (cioè difesa “domestica” pura).

Esempio pratico: Caio, cittadino italiano, si trasferisce in Canada (convenzionato con l’Italia). Non fa in tempo a iscriversi AIRE subito e rimane per qualche mese ancora anagraficamente in Italia nel primo anno. L’Italia lo considera residente per quell’anno (per iscrizione anagrafica e >183 gg in Italia). Il Canada pure, perché Caio ha ottenuto lo status di residente lì. Per quell’anno c’è doppia residenza: applicando il trattato Italia-Canada, si scopre che Caio aveva affittato casa in Canada e ci stava 9 mesi su 12, mentre in Italia aveva solo casa dei genitori e c’è stato 3 mesi. Quindi permanent home in entrambi (casa in Canada e camera in Italia dai genitori – diciamo permanente anche quella in teoria), si passa al centro interessi vitali: Caio ha la fidanzata italiana ma il lavoro in Canada, un po’ incerto; soggiorno abituale: 9 mesi Canada vs 3 Italia ⇒ prevale Canada. Quindi la Convenzione attribuisce residenza al Canada. L’Italia, se Caio glielo comunica e dimostra, dovrebbe acconsentire a trattarlo come non residente quell’anno, nonostante l’anagrafe. Caio dovrà comunque presentare dichiarazione in Italia come non residente per eventuali redditi italiani, ma non il worldwide.

Un’altra cosa: le Convenzioni spesso contengono anche clausole che conservano certi diritti impositivi a uno Stato anche sui non residenti (ad esempio, la tassazione in Italia di immobili situati in Italia rimane comunque, così come alcune pensioni pubbliche, ecc.). Ma questo attiene alla ripartizione delle basi imponibili, non allo status di residenza in sé, quindi esula un po’ dalla nostra trattazione focalizzata sullo status.

Infine, un cenno a particolari regimi: l’Italia negli ultimi anni ha introdotto incentivi come il regime impatriati (art. 16 D.Lgs. 147/2015) e la flat tax per neo-residenti (art. 24-bis TUIR) ecc. Spesso per accedere a questi benefici occorre dimostrare la residenza fiscale all’estero nei periodi precedenti. Ebbene, anche lì, la mancata iscrizione AIRE può essere superata tramite prova convenzionale: la Circolare 33/E/2020 ha chiarito che, per il regime impatriati, chi non era iscritto AIRE può comunque provare di essere stato residente all’estero ai sensi di una Convenzione nei due anni precedenti. Ciò conferma ulteriormente l’importanza delle regole internazionali, riconosciute come parametri oggettivi anche dal Fisco per definire situazioni di confine.

In conclusione, i profili internazionali della residenza fiscale consistono nel far valere i diritti derivanti dai trattati per evitare la doppia imposizione e risolvere i conflitti di residenza. È un asso nella manica del contribuente onesto che realmente vive all’estero: se la Convenzione gli dà ragione, l’Italia non può ignorarla. Naturalmente, bisogna essere pronti a documentare accuratamente le circostanze richieste dai tie-breaker (casa, famiglia, lavoro, ecc.), perché le autorità e i giudici le valuteranno con rigore.

Come difendersi da una contestazione di residenza fiscale: strategie e strumenti di tutela

Passiamo ora al punto di vista del contribuente che si vede recapitare (o teme di ricevere) una contestazione sulla propria residenza fiscale. Difendersi “bene” – come suggerisce il titolo – significa agire sia in via preventiva (quando possibile) sia in sede di accertamento e contenzioso, adottando tutte le misure utili per far valere la verità dei fatti e i propri diritti. Questa sezione è quindi dedicata ai rimedi a disposizione del contribuente, dalle azioni amministrative a quelle giudiziarie, nonché alle prove e argomentazioni da raccogliere per supportare la propria posizione.

Prepararsi al meglio prima e durante l’accertamento

L’ideale, per evitare problemi, è muoversi proattivamente fin dal momento in cui si decide di trasferirsi all’estero. Un contribuente ben consigliato, prima di lasciare l’Italia, dovrebbe fare una sorta di checklist fiscale:

  • Regolarizzare gli aspetti formali: comunicare la cancellazione all’Anagrafe italiana e iscriversi tempestivamente all’AIRE (obbligatorio per permanenze estero > 12 mesi). Questo è necessario e ora non più dannoso come un tempo (ricordiamo che dal 2024 non è più presunzione assoluta, ma è comunque meglio non trascurarlo).
  • Tagliare (per quanto possibile) i ponti con l’Italia: ciò significa, in concreto, ridurre al minimo gli elementi di collegamento con il territorio italiano: ad esempio, vendere o affittare a terzi l’abitazione di proprietà in Italia, invece di lasciarla libera a propria disposizione; chiudere utenze, conti bancari non necessari; rinunciare a cariche societarie non indispensabili o delegare effettivamente la gestione ad altri; trasferire eventuali attività imprenditoriali a management locale o cedere quote se compatibile. Ogni legame che resta è un potenziale elemento su cui il Fisco potrà far leva.
  • Raccogliere e conservare documentazione estera: fin dal primo giorno all’estero, accumulare “prove di vita” nel nuovo Paese. Conservare contratti di locazione, bollette, certificati di residenza locale, contratti di lavoro, iscrizioni a club o corsi, ricevute mediche, ecc. In prospettiva, questi documenti saranno preziosi se sorgerà una contestazione, perché mostrano in modo tangibile che la persona ha stabilito altrove il suo centro di vita.
  • Comunicare la residenza estera agli interlocutori finanziari e non: ad esempio, aggiornare l’indirizzo di residenza presso le banche, assicurazioni, datori di lavoro, ecc., in modo che eventualmente attestino (in caso di indagini) di considerare il soggetto come residente all’estero. Se un datore italiano sa che il dipendente s’è trasferito e magari gli applica la detassazione per non residenti, è un elemento a supporto.
  • Valutare un interpello internazionale (se applicabile): in passato, l’interpello ordinario non era ammesso per far dichiarare la propria residenza (perché questione di fatto, non di interpretazione). E tuttora, la Circolare 20/E/24 ribadisce che non si può chiedere un interpello per una verifica preventiva della residenza. Quindi su questo fronte c’è poco da fare. Tuttavia, se vi sono dubbi su aspetti collegati (es. applicazione di una convenzione, status di lavoratore transfrontaliero ecc.), si possono usare gli interpelli dedicati.
  • Richiedere il certificato di residenza fiscale nel nuovo Stato: dopo aver trascorso un po’ di tempo nel Paese estero, può essere utile farsi rilasciare dal fisco locale un attestato di residenza fiscale in quello Stato (tipicamente queste certificazioni si chiedono per avere i benefici convenzionali sulla fonte italiana, ma sono utili anche come prova generale). Tale certificato, emesso dall’autorità fiscale estera, attesta che l’individuo è considerato ivi residente ai sensi della Convenzione per l’anno X. In caso di contenzioso, presentare un documento ufficiale del genere è molto efficace.

Non sempre però il contribuente è così lungimirante. Spesso chi emigra trascura alcuni passaggi e si rende conto del problema solo quando riceve il famigerato questionario o, peggio, un avviso di accertamento. Vediamo quindi come muoversi in tali frangenti:

  • Rispondere al questionario con cura: se arriva la richiesta di informazioni da parte dell’Agenzia, bisogna assolutamente rispondere nei termini indicati (di solito 30 giorni, prorogabili). La risposta deve essere dettagliata, fornendo i chiarimenti richiesti e allegando tutta la documentazione possibile a supporto. È consigliabile allegare copie di: contratto di lavoro estero, contratto di affitto o rogito dell’immobile estero, certificato di iscrizione all’AIRE, eventuale documentazione scolastica dei figli all’estero, iscrizione al sistema sanitario estero, bollette estere (che mostrino consumi in loco), conti bancari esteri (estratti) e qualsiasi altra prova fattuale. Nella risposta, conviene anche spiegare narrativamente la propria situazione, ad esempio: “Mi sono trasferito per lavorare presso XYZ a decorrere dal…, mia moglie mi ha raggiunto/oppure è rimasta in Italia per motivi di cura di un familiare ma viene spesso in …” etc. L’ufficio leggerà questa relazione e, se convincente, potrebbe anche archiviare il caso o comunque ridurre l’ostilità. È bene evitare contraddizioni o omissioni: se ad esempio si ha ancora una casa in Italia inutilizzata, dirlo chiaramente e magari motivare perché non è stata affittata (es. era in vendita ma non si è trovato acquirente, ecc.), sottolineando però che non è stata usata. Una collaborazione trasparente a questo stadio può fare la differenza.
  • Valutare un eventuale ravvedimento operoso/adesione: se dalle domande dell’ufficio ci si rende conto che effettivamente si poteva essere ancora considerati residenti (ad esempio, perché oggettivamente si è stati troppe giornate in Italia o la famiglia è rimasta e non si ha difese forti), potrebbe essere opportuno considerare un approccio transattivo. Prima che esca l’avviso di accertamento, il ravvedimento operoso è di solito precluso, perché se non si è presentata dichiarazione si tratta di omessa dichiarazione e non c’è più modo di ravvederla dopo i termini ordinari. Tuttavia, dopo la notifica dell’avviso, la strada è quella dell’accertamento con adesione. Questo strumento (D.Lgs. 218/1997) consente di concordare col Fisco un esito dell’accertamento, con riduzione delle sanzioni e evitando la causa. Nel caso di contestazione di residenza, aderire significherebbe ammettere la residenza italiana per quell’anno e pagare le imposte sul reddito estero, ma magari si potrebbe spuntare una riduzione sulle sanzioni (che in adesione vengono dimezzate). È una scelta difficile: se si è convinti di avere ragione, meglio procedere con la difesa integrale; ma se le prove sono deboli, aderire può limitare i danni economici (sanzioni ridotte a 1/3 del minimo edittale).
  • Raccolta delle prove difensive: parallelamente, se la situazione si incanala verso la lite, occorre mettere insieme in modo organico tutto il fascicolo probatorio del contribuente. Questo includerà molti dei documenti già citati, possibilmente tradotti se in lingua straniera, e magari corredati da dichiarazioni testimoniali. Nel processo tributario italiano non è ammessa la testimonianza orale, ma nulla vieta di produrre dichiarazioni sostitutive di atto notorio di terze persone. Ad esempio, il datore di lavoro estero potrebbe firmare una dichiarazione in cui attesta che il contribuente ha lavorato fisicamente presso di loro dall’AA/BB/CCCC, osservando orari regolari, ecc. Oppure i vicini di casa esteri possono firmare che vedevano il contribuente abitare lì stabilmente. Queste dichiarazioni non hanno il peso di una testimonianza in tribunale, ma costituiscono indizi di riscontro.
  • Coinvolgere esperti e consulenti locali: se la questione è complessa, può essere utile avere una lettera o perizia da parte di un fiscalista del Paese estero che certifichi lo status di residente locale del contribuente e spieghi eventualmente le differenze normative (ad esempio: “Secondo la legge del Paese X, il Sig. … è qui residente dal … ed è tassato su questi redditi…”). Anche documenti come la copia delle dichiarazioni dei redditi presentate all’estero, con relativa traduzione, aiutano a dimostrare la buona fede e l’adempimento nel Paese di destinazione (cioè: “vedete, io le tasse le ho pagate di là, non stavo evadendo in assoluto”).
  • Attenzione alle comunicazioni con l’ufficio: dal momento in cui l’accertamento è avviato, è spesso possibile avere un dialogo col funzionario incaricato. Anche dopo l’eventuale avviso, prima di fare ricorso c’è la possibilità di presentare istanza di adesione (sospendendo i termini) e discutere il caso in sede di contraddittorio. È importante mantenere un atteggiamento collaborativo ma fermo sulle proprie ragioni se si ritiene di aver ragione. A volte gli uffici possono convincersi a rivedere l’atto in autotutela (annullandolo parzialmente o totalmente) se emergono errori evidenti o nuovi elementi decisivi a favore del contribuente. Ad esempio, se dopo la notifica dell’accertamento il contribuente presenta un certificato di residenza fiscale estera chiarissimo e l’ufficio si rende conto di non averlo considerato, potrebbe (non è garantito, ma possibile) annullare in autotutela l’atto. L’autotutela, infatti, è il potere/dovere dell’amministrazione di correggere i propri atti senza bisogno di causa quando riconosce un errore. Dal 2023, con il D.Lgs. 219/2023, l’autotutela tributaria è stata rafforzata e resa obbligatoria in alcune ipotesi (ad es. doppia imposizione per stesso presupposto, errore grave su fatto, ecc.). Non rientra esattamente nel nostro caso se l’ufficio è convinto di aver ragione, ma se invece emergesse che la contestazione era basata su un presupposto manifestamente errato (mettiamo che l’ufficio non sapeva della convenzione e tu gliela fai notare con evidenza incontrovertibile), allora sì, potrebbe annullare l’avviso. In ogni caso, l’istanza di autotutela va tentata se si ritiene l’accertamento infondato, poiché non costa nulla: va indirizzata all’ufficio che ha emesso l’atto, spiegando i motivi e allegando prove. L’ufficio non è obbligato ad annullare (salvo casi di autotutela obbligatoria espressi), ma deve almeno valutare. Se rigetta (o ignora), pazienza: si andrà avanti col ricorso.

Il ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria)

Se l’accertamento non viene ritirato e non si trova accordo, l’ultimo baluardo è la giustizia tributaria. Il contribuente ha 60 giorni dalla notifica dell’atto (accertamento) per presentare ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale competente (oggi rinominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado dopo la riforma 2022). Nel caso di contestazione di residenza, la competenza territoriale è spesso dibattuta: in linea di massima, dovrebbe essere quella del luogo di ultima residenza/domicilio noto in Italia del contribuente (perché l’atto viene emesso da quell’ufficio) – come nel caso della S.r.l. di cui sopra, la competenza era di Gorizia perché l’ufficio di Gorizia aveva emesso l’accertamento. Una volta individuata la corte competente, va predisposto un ricorso scritto contenente i motivi di fatto e di diritto.

Nel ricorso si contesterà l’accertamento di residenza portando tutte le argomentazioni: ad esempio, violazione dell’art. 2 TUIR perché il contribuente non soddisfaceva i requisiti; erronea applicazione della presunzione ex art.2 co.2-bis perché il contribuente ha fornito prova contraria che non è stata adeguatamente considerata; violazione della Convenzione contro le doppie imposizioni (se applicabile), ecc. Si allegheranno tutti i documenti raccolti a supporto. È molto utile richiamare eventuali precedenti giurisprudenziali favorevoli: ce ne sono molti che si possono citare per casi analoghi. Ad esempio: Cass. n. 24246/2015 che ha dato prevalenza alla Convenzione in caso di doppia residenza; Cass. n. 21694/2020 la quale ha ribadito che la cancellazione AIRE non è di per sé sufficiente a escludere la residenza se permangono domicilio o residenza ex art.43 c.c. in Italia (questo può servire anche al Fisco in verità, ma insomma); Cass. n. 16634/2018 che rappresenta invece l’orientamento opposto (presunzione assoluta da iscrizione, che ora però è superato normativamente); Cass. n. 32975/2018 (se esiste, vado a memoria) su un caso di imprenditore a Montecarlo dove vinse il Fisco per interessi economici; Cass. n. 11253/2019 (se ricordo bene) su valore di iscrizione AIRE; oppure pronunce di merito, come Commissione Regionale Lombardia 2019 che annullò un accertamento su un calciatore estero perché la famiglia era con lui all’estero (es. caso Victor Ibarbo, se si vuole dettagliare). Insomma, citare sentenze aiuta a dare peso alla tesi, specie se di legittimità.

Durante il processo, si può chiedere la sospensione dell’atto se l’esecuzione (la riscossione delle somme) può causare danni gravi. Infatti, in linea di massima l’accertamento diventa esecutivo trascorsi i 60 giorni: l’Agenzia potrebbe iscrivere a ruolo un terzo delle imposte accertate (se non pagate) anche in pendenza di giudizio di primo grado. Chiedendo la sospensione al giudice, e dimostrando fumus boni iuris (cioè che il ricorso non è infondato) e periculum (grave danno patrimoniale dalla riscossione immediata), la Corte può sospendere la riscossione fino alla sentenza di primo grado. Nel contesto di residenza, le somme contestate possono essere ingenti (tasse su redditi esteri di più anni sommati), per cui spesso viene richiesta la sospensiva e spesso concessa, specialmente se si fornisce qualche garanzia o almeno si versa la parte non controversa (a volte c’è parte di redditi dichiarati in altro Stato su cui c’è credito d’imposta, ecc.).

Il giudizio tributario verte essenzialmente sulla valutazione delle prove: spetterà al Fisco convincere il giudice che aveva ragione (specialmente se il contribuente era un non-black list, l’onere era loro) portando i loro elementi; e al contribuente controbattere e portare i suoi. È un contenzioso di merito, dove la figura del giudice tributario (ora professionale, dalla recente riforma, e non più onorario) sarà determinante nella sua sensibilità. Alcuni giudici aderiscono a visioni più formaliste, altri guardano molto la sostanza. Molto dipenderà dalla bontà della documentazione prodotta. Se il contribuente è ben supportato (avvocati o commercialisti esperti in fiscalità internazionale) le sue chance aumentano.

La sentenza di primo grado può dare ragione all’uno o all’altro, o anche parzialmente (in teoria potrebbe dichiarare residente per alcuni anni e non per altri, se erano in gioco più anni, o accogliere alcune eccezioni e non altre). Chi perde può appellare in secondo grado presso la Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale). Infine c’è il ricorso per Cassazione per motivi di diritto. È un percorso lungo: ad oggi un contenzioso tributario complesso può durare anche 2-3 anni in primo grado, 2 in secondo e altri 2-3 in Cassazione.

Nel frattempo, se il contribuente non ottiene sospensioni, l’Agenzia Entrate Riscossione potrebbe procedere ad esigere le somme (ad esempio chiedendo un versamento di 1/3 dopo primo grado se ancora in causa, ecc.). Per fortuna dal 2023 la riforma del processo tributario ha introdotto la regola che se il contribuente vince in primo grado, non deve versare le somme in attesa dell’appello (sospensione automatica), e se vince anche in secondo grado, l’amministrazione deve rimborsare quanto eventualmente riscosso, anche se fa ricorso in Cassazione. Ciò tutela un po’ i contribuenti vittoriosi in primo grado. Viceversa, se il contribuente perde in primo grado, deve pagare in acconto parte delle somme per proseguire (in genere 1/3 subito dopo la sentenza di primo grado sfavorevole, e il resto dopo la sentenza di secondo grado se ancora sfavorevole, salvo eventuali ulteriori sospensioni).

Difendersi nel penale: cenni

Abbiamo visto come in caso di omessa dichiarazione o dichiarazione infedele possano scattare reati tributari (omessa dichiarazione se imposta evasa > €50.000; infedele se redditi non dichiarati > 10% del totale e > €2 milioni o imposta evasa > €100.000). La contestazione di residenza fiscale, quando implica tanti redditi esteri non dichiarati, può facilmente portare a soglie penal-tributarie. Ad esempio, se un alto reddito ha spostato residenza a Dubai e non ha dichiarato €500.000 di redditi esteri in Italia, l’imposta evasa potrebbe essere sui €200.000 (ipotizzando aliquote alte), il che integra il reato di omessa dichiarazione (pena 2-5 anni). È importante sapere che il procedimento penale è separato da quello tributario: tuttavia spesso nasce come conseguenza dell’accertamento. La Guardia di Finanza, durante l’indagine fiscale, se ravvisa la soglia di reato, informerà la Procura.

La difesa penale in questi casi si basa sul dimostrare l’assenza di dolo di evasione, ad esempio sostenendo la buona fede di ritenersi non residente. La giurisprudenza penale ha affrontato casi di esterovestizione: talvolta l’assoluzione penale (perché il fatto non costituisce reato, mancando il dolo) non evita comunque la pretesa tributaria. C’è indipendenza dei giudizi, anche se qualche comunicazione c’è. Non entriamo qui nel dettaglio penale, ma basti dire che chi si difende nel merito tributario di solito porta gli stessi argomenti nel penale (residenza era effettivamente estera, ergo non era tenuto a dichiarare). Una assoluzione penale potrebbe rafforzare poi la posizione nel contenzioso tributario, ma non è automatica la trasfusione. Il consiglio è di prevenire: qualora il Fisco contesti somme elevate, valutare di presentare dichiarazione integrativa per ridurre l’evasione sotto soglia o di sanare con adesione, per arginare il rischio penale. Difendersi bene significa considerare tutte le implicazioni.

Autotutela e altre tutele amministrative

Abbiamo accennato all’autotutela come strumento di annullamento in via di amministrazione. Vale la pena ribadire che la Circolare 21/E del 7/11/2024 ha fornito istruzioni agli uffici proprio incoraggiando un uso più sistematico dell’autotutela in casi di evidente errore, anche per evitare inutili contenziosi. Nel contesto della residenza fiscale, l’autotutela potrebbe intervenire se, ad esempio, dopo un giudizio favorevole al contribuente in primo grado, l’ufficio decidesse di non appellare e di annullare l’atto (capita raramente, ma con le nuove regole di responsabilità dei funzionari è possibile che preferiscano non proseguire cause perse). Oppure in caso di chiarimenti sopravvenuti: immaginiamo una nuova Circolare che chiarisca una situazione dubbia in senso favorevole al contribuente (non è fantascienza: successe anni fa con i lavoratori frontali in smart working durante Covid, dove inizialmente erano tartassati, poi intervennero accordi). L’autotutela facoltativa è sempre a discrezione dell’ente; quella obbligatoria si applica in ipotesi precise previste dalla legge (es. doppia imposizione per lo stesso periodo, errore di persona, ecc., v. art. 2-quater e 2-quinquies L. 212/2000 come modificati). Nel nostro tema, non ci sono casi tipici di autotutela obbligatoria, se non magari la situazione in cui il contribuente vince in Cassazione e l’ufficio deve adeguarsi (ma lì più che autotutela è esecuzione di sentenza).

Un altro strumento da menzionare è la mediazione tributaria, obbligatoria per controversie di valore fino a 50.000 euro (importo del tributo al netto sanzioni). Nel contesto di residenza, spesso le imposte contestate superano tale soglia. Ma se così non fosse (es. piccolo contribuente), prima di andare in giudizio bisogna presentare istanza di mediazione: l’ufficio potrebbe proporre una riduzione delle sanzioni del 35% in caso di accordo. Anche qui, applicabile raramente visto che in genere importi sono alti.

In sintesi: consigli operativi per difendersi efficacemente

  • Non sottovalutare le apparenze formali: se hai intenzione di trasferirti, cura sia la sostanza (trasferirti davvero) sia la forma (iscrizione AIRE, comunicazioni varie). Una trascuratezza burocratica può costare caro.
  • Minimizza le connessioni con l’Italia: fai un esame onesto: ho ancora interessi qui? Se sì, come li posso legittimamente recidere o congelare mentre sono via? Questo è utile anche al di là del Fisco (ad es. evitare incombenze amministrative in patria).
  • Tieni traccia di tutto: mantieni un archivio di documenti su vita estera. Quando arriverà un questionario magari anni dopo, ringrazierai te stesso per aver conservato quel contratto d’affitto o quelle bollette del 2022!
  • Rispondi e dialoga con il Fisco: ignorare le comunicazioni ti mette subito in posizione perdente. Mostrati collaborativo ma assertivo nelle tue ragioni.
  • Prova contraria concreta: non bastano affermazioni vaghe tipo “io mi sentivo residente altrove” – servono evidenze solide. Ad esempio, se sostieni di non aver vissuto nella casa in Italia, porta magari testimonianze dei vicini che confermino che era chiusa, o mostra che era data in affitto breve (così da provare che non ci stavi tu). Se dici di aver passato 250 giorni all’estero, cerca di ricostruirlo con timbri passaporto, biglietti aerei, registro ingressi.
  • Conosci i tuoi diritti convenzionali: se c’è di mezzo una Convenzione, studiala bene (art. 4 e magari art. 15 se si tratta di lavoro dipendente, art. 23 su crediti d’imposta, etc.) e fallo presente all’ufficio. A volte non tutti i funzionari tengono a mente i dettagli internazionali e potresti tu indirizzarli.
  • Sfrutta le riduzioni sanzioni se possibile: in adesione o mediazione le sanzioni vengono ridotte. Se sai di essere in torto marcio sul merito, almeno risparmia sulle penalità utilizzando questi istituti. Se invece sei nel giusto, punta ad annullamento completo, certo.
  • Assistenza professionale: non è autopromozione di categoria, ma farsi seguire da un esperto di fiscalità internazionale e contenzioso tributario è pressoché indispensabile nei casi complessi. Le normative cambiano, e come visto dal 2024 ci sono novità: un professionista aggiornato (commercialista o avvocato tributarista) saprà utilizzare al meglio le carte a tuo favore, e anche evitare passi falsi procedurali.

Dopo aver esaminato tutto l’iter difensivo in generale, potrebbe essere utile consolidare la comprensione tramite alcune domande frequenti e casi concreti, che affronteremo nelle prossime sezioni.

Domande frequenti (FAQ) sulla residenza fiscale e le contestazioni

  • Domanda: Quali sono i criteri per essere considerato residente fiscale in Italia?
    Risposta: Ai fini delle imposte sui redditi, una persona fisica è residente fiscale in Italia se, per più di metà anno (183 giorni), alternativamente: è iscritta all’anagrafe dei residenti in Italia, oppure ha in Italia la residenza civile (dimora abituale), oppure ha in Italia il domicilio (cioè il centro principale dei propri interessi e affari). Dal 2024, si considera anche la presenza fisica: trascorrere >183 giorni sul suolo italiano fa scattare la residenza fiscale. Per le società, contano la sede legale, la sede di direzione effettiva o il centro di gestione amministrativa in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta.
  • Domanda: Se mi trasferisco all’estero, è sufficiente iscrivermi all’AIRE per non essere più tassato in Italia?
    Risposta: L’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) è un passaggio obbligatorio per legge se ti trasferisci oltre 12 mesi e certamente aiuta a dimostrare il cambio di residenza, ma da sola non basta. Fino al 2023, risultare ancora iscritti all’anagrafe italiana significava quasi automaticamente essere considerati residenti in Italia. Con l’iscrizione all’AIRE correggi questo aspetto formale, tuttavia l’Agenzia delle Entrate guarderà anche alla tua situazione di fatto: se, nonostante l’AIRE, continui a mantenere in Italia casa, famiglia o interessi economici predominanti, potresti essere considerato residente italiano lo stesso. L’iscrizione all’AIRE dal 2024 costituisce solo presunzione relativa di non residenza: il Fisco può contro-provare che eri ancora qui. Dunque iscriviti all’AIRE, ma accompagnalo con un trasferimento effettivo di vita all’estero. In caso di contestazione, dovrai comunque dimostrare con fatti concreti di aver lasciato l’Italia (lavoro, dimora, ecc.).
  • Domanda: Che cos’è la “presunzione per i trasferimenti in paradisi fiscali” di cui sento parlare?
    Risposta: È una regola anti-evasione prevista dall’art. 2 comma 2-bis del TUIR. Stabilisce che se un cittadino italiano si cancella dall’anagrafe e trasferisce la residenza in uno Stato a fiscalità privilegiata (cioè un “paradiso fiscale” inserito in apposita lista), allora lo Stato italiano lo presume ancora residente in Italia, salvo che sia il contribuente a provare il contrario. In pratica, in questi casi l’onere della prova si inverte: dovrai tu dimostrare di vivere davvero in quel Paese estero e non in Italia. Questa presunzione è relativa (ammette prova contraria) ma è una posizione di partenza sfavorevole per il contribuente. Ad esempio, se ti trasferisci a Montecarlo o a Dubai, preparati a fornire molte evidenze del tuo effettivo radicamento lì. Nota: la lista dei Paesi privilegiati viene aggiornata; dal 2024, ad esempio, la Svizzera non è più considerata paradiso fiscale ai fini di questa norma.
  • Domanda: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire che in realtà vivo ancora in Italia?
    Risposta: Utilizza molte fonti di informazione e incroci di dati. Alcuni esempi: verifica se hai proprietà immobiliari in Italia e se vengono usate (utenze attive con consumi); controlla se la tua famiglia (coniuge/figli) è rimasta qui (ad es. figli iscritti a scuola in Italia); controlla se percepisci redditi da fonti italiane (stipendi, compensi di amministratore, pensioni, ecc.); vede se hai cariche sociali o partecipazioni in aziende italiane; attraverso l’Archivio dei rapporti finanziari può vedere i tuoi conti correnti in Italia e i movimenti (es. prelievi bancomat, bonifici); grazie al sistema CRS ottiene dati su conti che hai aperto all’estero (se risultavi fiscale italiano); può ottenere dati su targhe di auto intestate a te in Italia o su tuoi eventuali transiti doganali; può persino guardare il tuo profilo social per vedere se posti foto in Italia frequentemente. In genere, quando notano più indizi (casa + famiglia + movimenti bancari, ecc.), ti inviano un questionario chiedendo spiegazioni. Se non li convinci, partono con l’accertamento.
  • Domanda: Cosa rischio se l’Agenzia delle Entrate mi contesta la residenza fiscale in Italia per un certo periodo?
    Risposta: In caso di esito sfavorevole della contestazione, rischi tassazione integrale in Italia dei redditi ovunque prodotti per gli anni contestati, più sanzioni e interessi. Significa che dovresti pagare le imposte italiane su tutti i redditi esteri che avevi (salvo credito per eventuali imposte pagate all’estero). Le sanzioni amministrative per omessa dichiarazione di redditi esteri sono molto alte: tipicamente dal 120% fino a 240% dell’imposta evasa, oltre a eventuali sanzioni fisse per quadro RW (monitoraggio attività estere, se applicabile). Se invece avevi presentato dichiarazione in Italia ma incompleta (dichiarazione infedele), la sanzione è dal 90% al 180% della maggior imposta dovuta. Inoltre, se le somme evase superano certe soglie, ci sono conseguenze penali: omessa dichiarazione è reato oltre €50.000 di imposte evase (pena reclusione 2–5 anni); dichiarazione infedele è reato oltre €100.000 di imposta evasa e più del 10% del reddito non dichiarato (pena reclusione max 3 anni). In parole povere, potresti trovarti non solo con un grosso debito fiscale, ma anche con un processo penale per evasione fiscale esterovestizione. Senza contare che l’Agenzia Entrate Riscossione può attivare misure cautelari su beni (fermo auto, ipoteca su casa) se le somme sono elevate e c’è pericolo di mancato pagamento. Insomma, il rischio finanziario e legale è molto serio.
  • Domanda: Mi sono trasferito all’estero ma ho lasciato la famiglia (moglie e figli) in Italia. Possono considerarmi residente comunque?
    Risposta: Sì, è possibile. Dal punto di vista italiano, la presenza della famiglia in Italia è un indicatore forte che il tuo “domicilio” (inteso come sede degli interessi familiari) sia rimasto qui. In diversi casi l’Agenzia ha contestato la residenza proprio a lavoratori expat le cui famiglie non li avevano seguiti. Tuttavia, hai uno strumento di difesa: se esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e il Paese dove lavori, puoi invocare i tie-breaker. In particolare, potresti sostenere che il tuo centro degli interessi vitali è all’estero (ma se la famiglia è qui è dura da argomentare), oppure puntare sul soggiorno abituale (se passi, ad esempio, 10 mesi l’anno fuori e solo 2 in Italia con la famiglia). Secondo i criteri convenzionali, se dimostri che hai abitazione permanente all’estero e ci vivi la maggior parte del tempo, e magari hai anche la cittadinanza o altri legami con l’altro Stato, potresti spostare la residenza fiscale lì malgrado la famiglia in Italia. È una difesa complessa che richiede prove, perché per l’Italia tendenzialmente “famiglia in Italia = domicilio in Italia”. Una soluzione pragmatica, se possibile, è far sì che almeno il coniuge ti segua, o limitare molto la permanenza della famiglia in Italia (es. farli venire con te per buona parte dell’anno scolastico in modalità homeschooling o simili). Se proprio la famiglia deve restare (es. per non sradicare i figli da scuola), sappi che sei in una zona grigia rischiosa e devi essere pronto a contenzioso.
  • Domanda: Ho una società aperta all’estero, ma vivo in Italia: l’Agenzia può considerare italiana anche la società (esterovestizione)?
    Risposta: Sì, può farlo. L’esterovestizione societaria è la situazione in cui una società formalmente estera viene ritenuta fiscalmente residente in Italia perché qui ha il luogo di direzione effettiva o l’attività principale. Se tu amministri di fatto dalla tua casa in Italia una società con sede in un paradiso fiscale, il Fisco potrà contestare la residenza di quella società in Italia. Ci sono specifiche norme antiabuso (ad es. art. 73 TUIR e il già citato 73(5-bis) TUIR per società controllate) che facilitano questa contestazione. In concreto, se sei socio/amministratore di una Ltd in Belize ma risiedi in Italia, senza una struttura reale in Belize, l’Agenzia potrà sostenere che la sede di amministrazione è la tua abitazione in Italia (dove prendi decisioni, fai riunioni via Zoom, ecc.), dunque la società è residente qui. Conseguenze: la società dovrebbe pagare tasse in Italia sui redditi globali (con eventuali sanzioni) e tu magari risponderai anche di eventuale omessa dichiarazione (perché la società non ha presentato i modelli Redditi SC). Come difesa, l’unica è dare sostanza estera alla società: sede uffici effettiva all’estero, personale locale che prende decisioni, tu magari con un ruolo solo marginale o con deleghe limitate e mostrando di non gestire quotidianamente. In altre parole, devi poter dimostrare che la società vive di vita propria fuori dall’Italia. Se non ci riesci, è probabile che l’esterovestizione venga contestata. La Cassazione ha detto chiaramente che non basta spostare la sede legale su carta, se tutto il resto resta in Italia.
  • Domanda: Ho dimenticato di fare la dichiarazione dei redditi in Italia credendo di essere non residente, ma ora mi contestano il contrario. Posso regolarizzare per evitare guai?
    Risposta: Dipende dai tempi. Se l’Agenzia ti ha già notificato un avviso di accertamento, non puoi più fare un ravvedimento spontaneo su quegli anni (il ravvedimento va fatto prima che l’Amministrazione contesti). Potresti tuttavia valutare l’accertamento con adesione: presentando istanza entro 60 giorni dall’avviso, hai la chance di discutere con l’ufficio e trovare un accordo. In adesione, le sanzioni vengono dimezzate e puoi concordare l’importo (magari riconoscendo la residenza ma chiedendo di dedurre alcune spese o di applicare il credito d’imposta per le tasse pagate all’estero). Se invece il controllo ancora non c’è, ma ti rendi conto di aver sbagliato, puoi tentare un ravvedimento operoso presentando dichiarazioni integrative per gli anni ancora emendabili (entro i termini di decadenza, di norma il quinto anno successivo). Questo potrebbe ridurre di molto le sanzioni (pagheresti imposte dovute più interessi e piccole sanzioni ridotte). Chiaramente ravvedersi significa ammettere la residenza italiana per quei periodi: se tu invece sei convinto che non eri residente e vuoi difenderlo, allora non ha senso ravvedersi (sarebbe come arrendersi). Bisogna fare un bilancio rischi/benefici. Se i rischi di cause lunghe e penali sono alti e le prove a tuo favore scarse, ravvedersi o aderire conviene. Se invece hai buone argomentazioni, allora combatti il rilievo.
  • Domanda: Quanto tempo ha l’Agenzia delle Entrate per contestarmi la residenza fiscale di anni passati?
    Risposta: I termini di accertamento in questi casi, se non hai presentato dichiarazione in Italia (perché ti consideravi non residente), sono quelli per omessa dichiarazione: entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui avresti dovuto dichiarare. Ad esempio, per il periodo d’imposta 2019 (dichiarazione che avresti dovuto fare nel 2020), possono accertarti fino al 31/12/2025. In caso di dichiarazione presentata ma infedele, il termine è il 31 dicembre del quarto anno successivo. Attenzione però: se c’è un reato (omessa o infedele), i termini raddoppiano (diventano dieci anni per omessa), ma attualmente il raddoppio è applicabile solo se l’azione penale è iniziata entro i termini ordinari (cosa che di solito succede contestualmente all’accertamento). Diciamo che in situazioni standard, l’Agenzia può guardare agli ultimi 5-6 anni (nel dubbio, spesso fanno accertamenti su più anni insieme, ad es. 2016-2017-2018 notificati tutti nel 2022). Oltre quei termini scatta la decadenza e non possono pretendere nulla (salvo casi di investimenti esteri non dichiarati su cui c’è un termine lungo per sanzioni monitoraggio). Quindi, se ti sei trasferito moltissimi anni fa e mai nulla è successo, probabilmente i primi anni ormai sono “prescritti” fiscalmente – ma attenzione: se anche uno solo degli ultimi cinque anni è contestabile, possono aprire l’indagine e spesso allargano lo sguardo retrospettivamente, benché non possano formalmente accertare anni prescritti, potrebbero usarli come indizio di continuità di residenza.
  • Domanda: In caso di controversia, come decidono i giudici? Ci sono precedenti favorevoli ai contribuenti?
    Risposta: Ci sono stati sia esiti favorevoli sia contrari nelle aule di tribunale. Dipende tutto dalle prove. Ad esempio, la Cassazione n. 14434/2010 (un caso noto) stabilì che l’iscrizione all’AIRE non bastava da sola: in quella vicenda, nonostante l’AIRE, trovarono che il contribuente aveva mantenuto affari e famiglia in Italia, e quindi confermarono la residenza italiana (sfavorevole al contribuente). Viceversa, Cassazione n. 24246/2015 diede ragione a un contribuente proprio applicando i criteri convenzionali: il soggetto, formalmente residente in Italia, fu considerato residente estero perché la Convenzione (tie-breaker) lo attribuiva all’estero, e la Cassazione riconobbe la prevalenza del trattato. Un’altra pronuncia, Cass. 16634/2018, come detto, era rigida pro-Fisco sull’anagrafe. Recentemente, alcune Commissioni Tributarie Regionali hanno annullato accertamenti se il Fisco non portava abbastanza prove “forti” e c’erano invece riscontri della vita all’estero. Ad esempio, CTR Lombardia 2017 su un calciatore che aveva trasferito residenza nel principato di Monaco: la CTR annullò l’accertamento poiché risultava che il calciatore, pur se iscritto in anagrafe italiana fino a un certo anno, aveva tenuto la famiglia con sé a Monaco e lì viveva stabilmente (il Fisco si era basato solo su presunzioni labili come qualche visita in Italia). In generale, i giudici chiedono al Fisco prove solide: Cassazione ha detto “gravi, precise e concordanti”. Se le prove sono solo formali (es. “risultavi residente in Comune X, quindi sei residente”), oggi non regge più perché quella è presunzione superabile. Se però il Fisco porta bollette, spese e quant’altro, e il contribuente non ha controprove, i giudici tendono a dare ragione al Fisco. Dunque, più che precedenti (che pur contano come orientamento), inciderà come presenti il tuo caso. Dal 2024 avremo probabilmente sentenze più favorevoli ai contribuenti su questioni di anagrafe (perché la legge ora dice che va guardata la sostanza). Il mio consiglio è: se hai un caso forte (es. sei medico emigrato in UK, famiglia con te, casa venduta in Italia), non temere ad andare in causa perché i tribunali tributari spesso riconoscono la realtà effettiva se ben documentata.

Esempi pratici di contestazione della residenza fiscale (casi simulati)

Per rendere più concreto tutto quanto esposto, analizziamo alcuni casi pratici simulati – basati su situazioni ricorrenti nella realtà italiana – illustrando come si presentano e come potrebbero essere risolti, considerando il punto di vista del contribuente (debitore) e dell’Amministrazione.

Esempio 1: “Lavoratore espatriato, famiglia in Italia”
Scenario: Mario, cittadino italiano, nel 2022 si trasferisce a lavorare in Germania presso una multinazionale, con regolare contratto. Mantiene però la sua casa di proprietà in Italia, dove restano la moglie e due figli (che continuano scuola lì). Si iscrive all’AIRE a fine 2022. Nel 2023 e 2024 percepisce solo redditi da lavoro dipendente in Germania, che dichiara al fisco tedesco. Non presenta dichiarazioni in Italia (ritenendo di essere non residente).
Contestazione: Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate avvia un controllo: nota che Mario risulta iscritto AIRE da fine 2022 ma la moglie risulta ancora residente in Italia con i figli, inoltre Mario possiede ancora l’immobile. Manda un questionario chiedendo dove viveva esattamente nel 2023, e perché la famiglia è in Italia. Mario risponde che lui vive a Monaco di Baviera, che tornava in Italia solo per qualche vacanza estiva e per il Natale (sommando circa 40 giorni l’anno). Allega contratto di locazione in Germania e certificato di residenza rilasciato dal Comune tedesco. L’Agenzia però, vedendo famiglia e casa in Italia, contesta comunque la residenza per il 2023, sostenendo che il domicilio di Mario (interessi familiari) era rimasto in Italia e che Mario non ha provato il contrario (in fondo la moglie era qui). Notifica un avviso chiedendo le imposte italiane sul reddito 2023 (tassato in Germania al 42%).
Difesa: Mario presenta ricorso, invocando la Convenzione Italia-Germania. Sottolinea che l’art. 4 del trattato va applicato: Mario dispone di una abitazione permanente in Germania (contratto affitto 4 anni), mentre in Italia aveva solo casa della famiglia ma lui non vi dimorava abitualmente. Porta prove che nel 2023 ha passato ~320 giorni in Germania (allega registro ingressi azienda, biglietti aerei evidenziando pochi rientri). Arguisce che il soggiorno abituale era chiaramente in Germania e il centro dei suoi interessi economici pure (unico reddito in Germania; conti bancari in Germania). Riconosce che i legami familiari erano in Italia, ma sostiene che quelli economici e personali (nuova comunità di vita, colleghi, ecc.) prevalevano in Germania. Fornisce anche certificato fiscale tedesco attestante residenza 2023 e tasse pagate.
Esito possibile: In base ai tie-breaker, potrebbe risultare che abitazione permanente: entrambe (Italia e Germania) – non risolutivo; centro interessi vitali: dubbio (famiglia vs lavoro); soggiorno abituale: Germania (320 gg vs 45 gg); dunque la residenza prevalente va attribuita alla Germania. La Commissione Tributaria, constatata l’effettiva permanenza di Mario in Germania per la maggior parte dell’anno e il possesso di idonea casa lì, potrebbe accogliere il ricorso applicando la Convenzione (quindi Mario non residente per il 2023 in virtù del trattato). L’Agenzia a quel punto deve rinunciare alla tassazione (Mario rimane tassato in Germania e in Italia eventualmente solo su redditi di fonte italiana, che non ne aveva).
Considerazioni: Questo caso è border-line perché la famiglia in Italia è un elemento forte pro-Fisco. Se Mario avesse passato meno tempo in Germania (es. solo 200 giorni), avrebbe perso. Ma avendo evidenziato un soggiorno quasi totale all’estero, ha potuto spuntarla grazie al tie-breaker “soggiorno abituale”. Va sottolineato che se il Paese fosse stato uno senza convenzione, Mario avrebbe perso (perché la legge interna italiana l’avrebbe considerato residente per il domicilio familiare). Quindi, per chi non può trasferire la famiglia, è cruciale stare in Paesi con convenzione e tenere traccia dei giorni.

Esempio 2: “Trasferimento in Paese black list con interessi in Italia”
Scenario: Elisa, imprenditrice digitale, nel 2021 sposta la residenza a Dubai (Emirati Arabi, notoriamente a tassazione zero) per beneficiare della mancanza di imposte. Si cancella dall’anagrafe italiana (iscrizione AIRE) nell’ottobre 2021. Tuttavia, Elisa mantiene in Italia le seguenti cose: una villa a Porto Cervo (che usa d’estate), la partecipazione al 100% in una start-up innovativa italiana di cui è stata amministratore fino al giorno prima di trasferirsi (poi ha messo un prestanome come amministratore, ma lei di fatto continua a dare indicazioni via Zoom), e un conto bancario italiano su cui continua a ricevere dividendi dalla start-up e pagamenti da clienti esteri che comprano i suoi servizi online. In sostanza, ha spostato fisicamente la sua base a Dubai, ma il business ha ancora basi in Italia.
Contestazione: Caso da manuale: italiana emigrata in black list. L’Agenzia delle Entrate già nel 2022 la seleziona per controllo. Nel 2023 la GdF conduce accertamenti finanziari: vede che dal conto italiano di Elisa partono bonifici periodici per pagare spese in Italia (mutuo sulla villa, bollette, spese condominiali). Inoltre ottiene dati che Elisa è tornata in Italia 4 volte nel 2022 (2 mesi estate, 1 mese Natale, altri 15 gg per Pasqua e un evento di lavoro – totale ~4 mesi). Manda questionario chiedendo dettagli. Elisa risponde in modo generico che risiede a Dubai, allega il visto di residenza a Dubai e contratto di affitto di un appartamento lì. Non entra nel merito delle permanenze in Italia né delle sue società. L’Ufficio, insoddisfatto, emette avviso di accertamento per 2022: considera Elisa residente italiana (presunzione art.2 co.2-bis, onere su di lei non assolto), e le calcola imposte su tutti i redditi (compresi i guadagni della sua società estera che lei aveva incassato a Dubai, più i dividendi dalla start-up italiana, ecc.). Tasse elevate + sanzioni per omessa dichiarazione.
Difesa: Elisa presenta ricorso sapendo però di essere in posizione sfavorevole. Cerca di provare l’“effettività” del trasferimento a Dubai: produce attestazioni di avere trascorso almeno 8 mesi lì nel 2022 (mostra timbri passaporto, contratti con clienti firmati a Dubai, foto geolocalizzate – persino uno screenshot del suo Instagram con geotag Emirati). Porta testimonianze giurate di amici/emiri che confermano la sua presenza. Sostiene di essere tornata in Italia solo per vacanze e che comunque lavorava da remoto da Dubai anche quando si collegava con la sua azienda italiana. Il Fisco in controparte evidenzia che: la villa è rimasta a disposizione (e usata da lei d’estate), la società italiana ha continuato a prosperare sotto la sua guida di fatto (presentano verbali societari che mostrano decisioni prese compatibili con i rientri di Elisa), i flussi finanziari indicano vita economica in Italia (prelievi bancomat a Porto Cervo).
Esito possibile: Questo caso è difficile per il contribuente. La presunzione black list la inchioda a dover provare tanto, e i collegamenti con l’Italia sono numerosi. Un giudice potrebbe ragionare così: Elisa ha certamente stabilito una base a Dubai (nessuno nega che stia lì la maggior parte del tempo), ma non ha reciso i legami economici con l’Italia. La start-up è italiana e lei la controlla e ne trae reddito; la villa di lusso in Italia la usa; la presenza fisica in Italia per 4 mesi l’anno non è trascurabile. Anche senza Convenzione (Dubai non ha convenzione), il giudice applica la norma interna e dice: domicili e interessi economici ancora in Italia = residenza fiscale in Italia confermata. Il ricorso di Elisa viene respinto. Lei dovrà pagare le imposte italiane su tutto il 2022 (con probabile credito d’imposta zero, visto che a Dubai non pagava nulla). Le conviene forse a questo punto transare con adesione riducendo sanzioni.
Considerazioni: Esempio tipico di come spostare la residenza solo “sulla carta” verso paradisi fiscali non funziona, se non si porta anche la sostanza. Dal punto di vista difensivo, Elisa avrebbe dovuto almeno: vendere o affittare la villa (per non usarla personalmente); magari costituire la nuova azienda a Dubai e non mantenere quella italiana (o comunque non dirigerla più attivamente). Il consiglio generale: non basta trasferire se mantieni asset e ruoli importanti in Italia, in black list sei praticamente certo di perdere la disputa a meno di stravolgere la tua vita davvero.

Esempio 3: “Doppia residenza formale risolta con Convenzione”
Scenario: Luca vive a cavallo tra Italia e Regno Unito da anni. Fino al 2020 era residente in Italia, poi nel 2021 si trasferisce a Londra per lavoro presso una banca. Purtroppo non si è iscritto all’AIRE tempestivamente e risulta ancora residente a Milano fino a tutto il 2021. Nel 2021 però Luca ha pagato le tasse nel Regno Unito come residente UK (è rimasto lì 200 giorni) e non ha presentato dichiarazione in Italia (riteneva non servisse). Nel 2022 si mette in regola e si iscrive AIRE.
Contestazione: L’Agenzia vede che Luca, benché iscritto AIRE dal 2022, per il 2021 risulta residente APR. In più, nota che Luca nel 2021 ha percepito redditi esteri (stipendio UK, segnalato tramite scambio info) e non li ha dichiarati in Italia. Manda accertamento per il 2021 considerando Luca residente e recuperando imposte su quello stipendio (circa €100k).
Difesa: Luca impugna l’accertamento invocando la Convenzione Italia-UK. Sostiene: è vero, ero iscritto in Italia nel 2021, ma avevo già la doppia residenza perché il Regno Unito mi considerava tax resident (ho certificato HMRC). Applichiamo i tie-breaker: abitazione permanente – avevo un appartamento in affitto a Londra tutto l’anno, in Italia vivevo in casa dei miei genitori (ancora a disposizione). Quindi due abitazioni. Centro interessi vitali – la fidanzata è rimasta in Italia e avevo conticino bancario in Italia, però lavoro e guadagni erano in UK; un criterio incerto. Soggiorno abituale – ho passato circa 210 giorni in UK e 155 in Italia (Londra vs Milano, perché venivo spesso per stare con fidanzata). Quindi leggermente più UK. Questo potrebbe bastare: prevale UK per soggiorno. Porta anche quell’attestato di residenza fiscale UK.
Esito possibile: Dato che tra Italia e UK c’è convenzione, il giudice applicherebbe i criteri. Forse nel caso specifico non è nettissimo (210 vs 155 gg, non un abisso), ma se Luca dimostra che aveva anche più interessi economici in UK (es. conti, iniziato investimenti lì), potrebbe convincere. Probabilmente la Commissione tributaria annulla l’accertamento riconoscendo la residenza UK di Luca per il 2021 grazie al criterio del soggiorno abituale. L’Agenzia si allinea (tanto Luca poi dal 2022 è AIRE e anche formalmente out).
Considerazioni: Questo scenario mostra un caso dove l’iscrizione AIRE mancata ha fatto scattare l’accertamento, ma grazie alla convenzione (soprattutto se UK era più di metà anno) il contribuente riesce a spuntarla. Chiaramente, Luca avrebbe dovuto iscriversi AIRE subito e/o passare meno tempo in Italia per maggiore sicurezza.

Esempio 4: “Società estera gestita dall’Italia (esterovestizione societaria)”
Scenario: ABC Ltd è una società con sede a Malta, amministrata formalmente da un fiduciario locale. Tuttavia, i soci della ABC sono italiani (due fratelli) residenti a Roma, che tramite deleghe bancarie e procure gestiscono in realtà tutte le operazioni: la ABC ha come scopo il commercio online e i server, i clienti e gran parte del personale sono in Italia, solo la sede legale e la contabilità sono a Malta (sfruttando aliquota IRES ridotta). Nel 2020 e 2021 ABC Ltd non dichiara nulla in Italia, dichiarando tutto a Malta (dove paga poche imposte grazie a rimborsi).
Contestazione: L’Agenzia delle Entrate, in collaborazione con la Guardia di Finanza, individua che ABC Ltd di maltese ha in realtà depositi in banche italiane e i due soci prelevano denaro in Italia. Nel 2022 parte un accertamento: l’Agenzia contesta che ABC Ltd era di fatto residente in Italia, poiché la sede di direzione effettiva era a Roma dove i fratelli prendevano decisioni (riunioni, gestione dipendenti in Italia, ecc.). Quindi emette avvisi di accertamento IRES per 2020-2021 come se ABC fosse italiana, tassandone tutti i profitti (sottraendo quanto eventualmente pagato a Malta in credito). Inoltre, contesta ai fratelli una sanzione per omessa dichiarazione quadro RW (perché controllavano una società estera non dichiarata) e ipotizza addirittura il reato di omessa dichiarazione per la società (rappresentanti legali di fatto).
Difesa: La società ABC (tramite i soci) ricorre sostenendo che invece la direzione era effettivamente a Malta perché c’era il fiduciario maltese che firmava i contratti. Tentano di mostrare che i consigli di amministrazione (fittizi) si tenevano a Malta (esibiscono verbali di CDA in inglese tenuti via conference call). Tuttavia, l’Agenzia porta evidenze forti: email dove i fratelli danno istruzioni operative allo staff in Italia, testimonianze di dipendenti italiani che dicono di riferire sempre ai due fratelli, documenti che mostrano che la maggioranza delle spese e dei ricavi della società erano in Italia.
Esito possibile: La Commissione molto probabilmente confermerà l’esterovestizione: l’ABC Ltd verrà considerata residente in Italia perché la sua attività era qui centrata e le decisioni prese dagli italiani. I fratelli si troveranno a dover pagare le imposte arretrate della società come condebitori (in quanto amministratori di fatto), con sanzioni. Inoltre, parallelamente, è probabile un procedimento penale per dichiarazione fraudolenta (aver occultato l’azienda estera per evadere). A quel punto conviene loro aderire magari per ridurre sanzioni e cercare un patteggiamento penale.
Considerazioni: Questo esempio evidenzia che non serve aprire società estere se poi la si gestisce dall’Italia. La difesa in questi casi quasi mai vince, perché i fatti parlano. Dalla prospettiva contribuente, se si vuole davvero un’azienda estera, ci vuole management sul posto e operatività lì. Altrimenti, meglio utilizzare strumenti leciti in Italia (piani di tassazione agevolata, regimi speciali) e non rischiare l’accertamento.

Esempio 5: “Contestazione infondata per errore di target”
Scenario: Roberta si trasferisce in Spagna nel 2019, iscritta AIRE. Lavora lì e vive con famiglia lì, nessun bene in Italia tranne una piccola casa ereditata chiusa. L’Agenzia Entrate però, a seguito di un incrocio errato, la scambia per un’omonima che invece stava in Italia. Nel 2024 le notifica un avviso sostenendo che era residente in Italia nel 2020 perché risultava proprietaria di casa in Italia e con marito italiano. In realtà, quell’informazione era imprecisa: la casa era sì sua ma non utilizzata; il marito è italiano ma si è spostato con lei in Spagna e pure iscritto AIRE; i dati di presenza erano confusi.
Contestazione e difesa: Roberta presenta istanza di autotutela subito, allegando certificati di residenza spagnoli suoi e del marito, iscrizione figli a scuola a Madrid, bollette spagnole e biglietti aerei che mostrano che nel 2020 è tornata in Italia solo 10 giorni per ferie. Chiede all’ufficio di riesaminare. Fortunatamente, l’ufficio riconosce l’errore di persona e annulla in autotutela l’accertamento prima ancora del ricorso.
Considerazioni: Questo caso mostra che a volte gli errori succedono, e l’autotutela può rimediare se la situazione è chiara ed evidente. Naturalmente casi così lampanti non sono frequentissimi, ma se capita, non esitare a far istanza di autotutela con prove dettagliate.

Conclusioni

La contestazione della residenza fiscale è uno degli ambiti più delicati e complessi nel rapporto tra contribuenti e Amministrazione finanziaria. Abbiamo visto come la definizione di residenza si basi su un mix di criteri formali e sostanziali, e come la legge italiana – specie dopo la riforma del 2024 – richieda un’analisi approfondita delle circostanze di fatto per stabilire dove un individuo (o una società) abbia il proprio centro di interessi. Dal punto di vista del contribuente (che potremmo definire “debitore potenziale” in caso di accertamento), difendersi bene significa conoscere le regole (nazionali e internazionali), prevenire le situazioni di rischio e, se la contestazione arriva, agire tempestivamente con tutti gli strumenti disponibili.

Ricordiamo i punti chiave emersi:

  • Verificare sempre i criteri legali: domicilio, residenza, presenza fisica, iscrizione anagrafica – e dal 2024 tener conto che la residenza fiscale è incentrata sul luogo delle relazioni personali/familiari e della permanenza fisica.
  • Non dare per scontato che un adempimento formale (come l’AIRE) vi metta al sicuro: conta la sostanza. Allo stesso tempo, non ignorare gli aspetti formali: una dimenticanza può dare un assist al Fisco.
  • Se state pianificando un trasferimento all’estero, fatevi consigliare su come strutturarlo adeguatamente (magari tramite un accordo di ruling o comunque consultando esperti di fiscalità internazionale). Ogni situazione è unica: lavoratore dipendente, pensionato, imprenditore – ognuno ha accorgimenti diversi (ad es. per un pensionato occorre valutare convenzioni che prevedono tassazione solo nel Paese di residenza, etc.).
  • In caso di avvio di controllo, non fate gli struzzi: rispondete ai questionari, fornite spiegazioni. Spesso, chiarendo bene agli ispettori la vostra posizione (magari con quella ricevuta d’affitto o quel certificato che non avevano visto), potete fermare l’accertamento sul nascere.
  • Tenete un archivio ordinato di tutta la vostra vita fiscale: soprattutto se fate avanti-indietro tra Paesi, conservate contratti, bollette, biglietti, tutto. Nella peggiore ipotesi, saranno le armi del vostro avvocato in tribunale.
  • Conoscere i propri diritti: lo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) vi garantisce il diritto al contraddittorio (potete far valere le vostre ragioni), il diritto di accesso agli atti (per sapere su cosa si basa l’accertamento), il diritto a non subire comportamenti vessatori. Le Convenzioni internazionali vi danno tutele ulteriori: non dimenticate di farle valere (anche solo far presente all’ufficio che esiste una Convenzione può orientare diversamente il controllo).
  • Se ricevete un atto, rivolgetevi immediatamente a un professionista e valutate tutti i rimedi: dall’autotutela (sempre provare) alla definizione agevolata (adesione) se conviene, fino al ricorso. Non abbiate timore del contenzioso tributario: è meglio farsi valere in Commissione che pagare ingiustamente decine di migliaia di euro. Peraltro, la recente professionalizzazione dei giudici tributari e alcune riforme procedurali offrono più garanzie di terzietà e tempi più certi di una volta.
  • Mantenete un approccio cooperativo ma fermo: cooperare significa fornire dati e non nascondersi; fermi significa difendere i propri diritti senza cedere a interpretazioni errate del Fisco. Ad esempio, se il funzionario locale non considera la Convenzione, insisti (cortesemente) citando la Cassazione su ciò; se ti chiede documenti già forniti, rimandaglieli evidenziandoli; se ritieni l’atto illegittimo, spiega perché magari anche al suo superiore.

In conclusione, “difendersi bene” da una contestazione di residenza fiscale richiede preparazione, organizzazione e talvolta una certa combattività. Il panorama normativo in evoluzione – tra riforme interne e accordi internazionali – tende a dare ragione a chi realmente si trasferisce all’estero in buona fede e a colpire chi invece cerca semplici escamotage. Mettetevi quindi nell’ottica che una difesa efficace coincide spesso con un comportamento fiscale coerente e trasparente: più sarete in grado di dimostrare la vostra coerenza (nei fatti e nelle intenzioni), più possibilità avrete di uscire vittoriosi da eventuali contenziosi. E se qualcosa non va, ricordate che esistono rimedi e gradi di giudizio: non tutto è perduto alla ricezione dell’atto.

Il punto di vista del contribuente (debitore) deve essere sempre quello di far emergere la verità sostanziale – “io lì non c’ero davvero” oppure “la mia vita era altrove” – supportandola con evidenze. Così facendo, e con l’aiuto di consulenti preparati, potrete far valere le vostre ragioni anche di fronte al Fisco più ostinato, forti della normativa e della giurisprudenza che abbiamo esaminato in questa guida.

Guida redatta: Giugno 2025.

Fonti e riferimenti normativi (Italia, aggiornate a giugno 2025)

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) – Art. 2, commi 2 e 2-bis (definizione di residenza fiscale persone fisiche e presunzione per trasferimenti in Stati a fiscalità privilegiata); Art. 3 (worldwide taxation principio); Art. 73, commi 3 e 5-bis (criteri residenza società ed esterovestizione).
  • D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 147, Art. 16 – Regime speciale per impatriati (menzionato per tie-breaker in caso di mancata iscrizione AIRE nei due anni precedenti il rientro).
  • D.Lgs. 29 novembre 2018, n. 142, Art. 4 – Norme CFC e collegamenti con esterovestizione (non trattato direttamente, ma parte del contesto anti-abuso sulle residenze fittizie).
  • Legge 23 luglio 2021, n. 106, Art. 5 – Delega fiscale 2021 (base del D.Lgs. 209/2023).
  • D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 192 – Riforma giustizia tributaria 2022 (giudici professionali, sospensione riscossione).
  • D.Lgs. 29 dicembre 2022, n. 209 (“Decreto fiscalità internazionale”) – Art. 1 (riformulazione Art.2 TUIR persone fisiche: nuova definizione domicilio, criterio presenza fisica, presunzione relativa iscrizione anagrafica); Art. 2 (modifiche criteri residenza società: eliminazione oggetto principale, focus sede effettiva e gestione operativa).
  • D.Lgs. 29 dicembre 2022, n. 218, Art. 5 e 6 – Modifiche a Statuto contribuente: artt. 10-quater e 10-quinquies L.212/2000 (autotutela tributaria obbligatoria e facoltativa).
  • Codice Civile italiano, Art. 43 – Definizione di residenza e domicilio civile.
  • Codice di Procedura Civile, Art. 360 – Ricorso per Cassazione (richiamato per motivi di legittimità negli esempi).
  • Codice Penale, Art. 4 D.Lgs. 74/2000 – Omessa dichiarazione; Art. 2 – Dichiarazione infedele (riferimenti alle soglie penali).

Documenti di prassi ufficiale:

  • Circolare Agenzia Entrate 25/E del 18 agosto 2023, §1 – chiarimenti su residenza fiscale e smart working (ribadiva criteri art.2 TUIR invariati per chi lavora da remoto all’estero).
  • Circolare Agenzia Entrate 20/E del 4 novembre 2024 – “Nuova disciplina della residenza fiscale di persone fisiche, società ed enti” (espone novità D.Lgs. 209/2023 con esempi pratici). Chiarisce: definizione domicilio come relazioni personali/familiari, iscrizione anagrafe divenuta presunzione relativa, calcolo 183 giorni includendo frazioni di giorno, estensione criteri a smart working. Conferma non ammissibilità interpello su residenza.
  • Circolare Agenzia Entrate 21/E del 7 novembre 2024 – “Autotutela tributaria” (linee guida su esercizio autotutela alla luce D.Lgs. 218/2022).
  • Risoluzione Agenzia Entrate n. 25/E del 2 marzo 2018 – Risposta a interpello su lavoratore all’estero con famiglia in Italia: afferma domicilio resta in Italia e occorre tie-breaker convenzione per escludere residenza italiana.
  • Risoluzioni AE n. 203/E/2019 e 370/E/2023 – confermano uso convenzioni per definire residenza in caso di doppia residenza formale.
  • Circolare Ministeriale 140/E del 1999 – Istruzioni su art. 2 co.2-bis TUIR: onere della prova a carico contribuente per trasferimenti in paradisi fiscali.
  • Circolare AE 33/E del 28 dicembre 2020, §4.2 – Regime impatriati: consente di dimostrare residenza estera pre-rientro tramite elementi sostanziali convenzionali (superando mancata iscrizione AIRE).

Giurisprudenza (sentenze, ordinanze):

  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 11620 del 4 maggio 2021 – Ribadisce che l’imposizione reddituale si collega a un “collegamento fisico” del contribuente col territorio, che non si esaurisce nella residenza anagrafica ma richiede la prova del domicilio inteso come sede principale di affari/interessi. Domicilio rilevante solo se riconoscibile a terzi nella gestione degli interessi.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 21694 dell’8 ottobre 2020 – Sancisce che cancellazione APR e iscrizione AIRE non sono sufficienti da sole a escludere residenza fiscale se persistono residenza o domicilio in Italia.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 1355 del 18 gennaio 2022 – Esempio di orientamento formalista previgente: considera iscrizione anagrafica in Italia presunzione assoluta di residenza (cita Cass. 16634/2018), superato poi dalla norma 2024.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 19843 del 18 luglio 2024 – Caso contribuente a Monte Carlo 2006-2010: chiarisce che nuove norme residenza (post 2024) non retroagiscono; per anni pre-riforma privilegia centro interessi economici (cariche sociali in Italia) rispetto ai legami affettivi transnazionali. Definisce domicilio civilistico come luogo di preminenza legami economico-patrimoniali riconoscibili da terzi.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 1075 del 16 gennaio 2025 (ord.) – Caso esterovestizione societaria: trasferimento fittizio sede all’estero. La Corte stabilisce che in caso di trasferimento fittizio all’estero, il domicilio fiscale della società va individuato nell’ultima sede legale in Italia; gli altri criteri di art. 58 DPR 600/73 sono residuali. Cassata decisione CTR Friuli e affermata competenza ufficio italiano originario.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 6598 del 15 marzo 2013 – Pronuncia che afferma: l’iscrizione AIRE non basta, occorre che il soggetto non abbia né residenza né domicilio in Italia per escluderne la residenza fiscale.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 4303 del 26 febbraio 2007 – Simile al sopra, valorizza la permanenza di legami in Italia nonostante AIRE.
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 14240 del 25 maggio 2021 – Conferma prevalenza delle convenzioni su norme interne (citata in Blastonline tra giurisprudenza di vertice).
  • Cassazione Civile, Sez. V, n. 24246 del 30/11/2015 – Riconosce efficacia tie-breaker convenzionali: contribuente iscritto anagrafe italiana ma residente anche in altro Stato viene considerato estero applicando criteri convenzione (sentenza citata da Cass. in vari casi, rappresenta giurisprudenza pro-contribuente convenzionale).
  • Cassazione SS.UU. 26965/2009 – (non citata sopra, ma fondamentale) sulle convenzioni come norme internazionali prevalenti su diritto interno ex art.117 Cost.
  • CTR Lombardia, sent. 3204/2017 – (es.) contribuente calciatore trasferito a Monaco: CTR dà ragione a contribuente ritenendo prova di residenza estera effettiva nonostante tardiva iscrizione AIRE (valorizza convenzione Italia-Monaco sui redditi di lavoro).
  • Corte Costituzionale 242/2017 – (indirettamente pertinente) sancisce illegittimità di certe presunzioni assolute irragionevoli in ambito tributario; supporta l’idea che presunzione anagrafica assoluta poteva essere dubbia costituzionalmente, spingendo verso la riforma

Ti contestano la residenza fiscale in Italia? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Se hai trasferito la tua residenza all’estero ma l’Agenzia delle Entrate ti considera ancora residente in Italia, potresti ricevere un accertamento per residenza fiscale fittizia.
In questi casi il Fisco può chiederti di pagare le imposte su tutti i redditi mondiali, anche se prodotti all’estero. Una situazione che va gestita con massima attenzione, per evitare danni economici e sanzioni pesanti.


Quando scatta la contestazione della residenza fiscale?

L’Agenzia delle Entrate può contestarti la residenza in Italia se:

  • 🏠 Sei iscritto all’AIRE ma mantieni legami abitativi e familiari sul territorio italiano
  • 💼 I tuoi interessi economici principali risultano ancora in Italia (conti, immobili, società)
  • 📞 Hai utenze attive, auto, spese o abitudini di vita italiane
  • 👨‍👩‍👧‍👦 La tua famiglia risiede stabilmente in Italia
  • 📉 Non riesci a dimostrare una presenza effettiva, continuativa e prevalente all’estero

⚠️ In questi casi, il Fisco può disconoscere il trasferimento all’estero e considerarti fiscalmente residente in Italia per l’intero anno.


Cosa comporta essere considerato residente in Italia?

La contestazione della residenza fiscale comporta:

  • 💰 Tassazione in Italia di tutti i tuoi redditi mondiali
  • 🔍 Accertamento retroattivo con imposte, interessi e sanzioni fino al 240%
  • 🧾 Possibili cartelle esattoriali, pignoramenti e blocchi sui conti
  • ❌ Perdita dei benefici fiscali del Paese estero
  • ⚖️ Potenziale contestazione per esterovestizione se gestisci società da fuori

Come difendersi da una contestazione della residenza fiscale?

La difesa è possibile, ma richiede prontezza e precisione:

  1. 📂 Raccogli prove concrete della tua presenza stabile all’estero: contratto d’affitto, utenze, tessera sanitaria, movimenti bancari
  2. 🧾 Dimostra che il tuo centro di interessi vitali (famiglia, lavoro, beni) è all’estero
  3. ✍️ Prepara una memoria difensiva dettagliata da presentare al Fisco
  4. ⚖️ Impugna l’accertamento davanti al giudice tributario entro i termini
  5. 🔁 Se possibile, valuta strumenti di definizione agevolata o rateizzazione del debito

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📑 Verifica la fondatezza dell’accertamento sulla residenza
📂 Analizza i tuoi legami economici, patrimoniali e familiari
⚖️ Redige il ricorso tributario per annullare la pretesa fiscale
✍️ Predispone istanze in autotutela e memorie difensive complete
🔁 Ti tutela da ogni conseguenza esecutiva: cartelle, pignoramenti, iscrizioni a ruolo


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e residenza fiscale estera
✔️ Consulente per procedimenti per contestazioni di residenza
✔️ Autore di ricorsi accolti con riconoscimento della residenza effettiva estera
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per expat, pensionati esteri, nomadi digitali e imprenditori italiani all’estero


Conclusione

La contestazione della residenza fiscale non va ignorata.
Può comportare conseguenze gravi, ma con l’Avvocato Giuseppe Monardo puoi difenderti in modo efficace, dimostrare la tua posizione estera e proteggere il tuo patrimonio da imposte non dovute.

📞 Richiedi ora una consulenza riservata per valutare il tuo caso e costruire una strategia difensiva solida.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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