Accertamento Da Spesometro: Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento da spesometro e ti stai chiedendo come sia possibile, cosa ti stanno contestando e se puoi difenderti? L’Agenzia delle Entrate sostiene che hai effettuato acquisti o vendite che non risultano nella tua dichiarazione dei redditi o IVA?

Lo spesometro è uno strumento usato dal Fisco per incrociare i dati delle fatture elettroniche, delle comunicazioni periodiche IVA e delle transazioni rilevanti. Se emergono incongruenze tra quanto risulta dalle tue fatture e quanto dichiarato, può scattare un accertamento induttivo o sintetico. Ma non tutti i rilievi sono fondati, e difendersi è possibile.

Cos’è un accertamento da spesometro?
– È un accertamento basato su dati trasmessi telematicamente dai fornitori o clienti, da cui emerge una discrepanza con quanto hai dichiarato
– L’Agenzia può presumere che tu abbia omesso ricavi o detratto costi non spettanti
– Le contestazioni si basano su fatture emesse o ricevute, spesso rilevate in automatico dal sistema, anche con errori

Cosa ti può contestare l’Agenzia delle Entrate?
Omissione di redditi rispetto al volume d’affari emerso dallo spesometro
Indebita detrazione IVA per fatture mai registrate
Omissione di fatture attive che risultano nei dati del cliente ma non nella tua contabilità
Costi non inerenti o mai sostenuti, se non hai una documentazione adeguata

Come puoi difenderti da un accertamento da spesometro?
– Verificando la veridicità delle fatture contestate: spesso sono errate, duplicate o riferite ad altri soggetti
– Ricostruendo correttamente la contabilità e dimostrando che le operazioni erano regolari e documentate
– Contestando l’uso improprio delle presunzioni, soprattutto se il Fisco non dimostra l’esistenza effettiva dei ricavi
– Presentando osservazioni scritte o istanza di adesione per bloccare l’accertamento prima che diventi definitivo

Quando è possibile annullare l’accertamento?
– Quando si dimostra che i dati fiscali incrociati sono errati o parziali
– Quando si prova che le fatture contestate non sono mai state ricevute o emesse
– Quando il Fisco non fornisce prove concrete, ma si basa solo su presunzioni
– Quando si documentano pagamenti, resi, note di credito o errori di trasmissione telematica

Cosa NON devi fare mai?
– Ignorare la comunicazione o l’avviso bonario: se non rispondi, diventa definitivo
– Dare per scontato che l’Agenzia abbia ragione: molte contestazioni sono basate su dati errati
– Eliminare fatture o modificare registrazioni: rischi il penale
– Presentare difese generiche: serve una ricostruzione tecnica e documentata

Lo spesometro può generare accertamenti gravi anche in caso di semplici errori. Ma puoi difenderti, con metodo e tempestività.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in accertamenti fiscali e difese da controlli automatizzati – ti spiega come funziona l’accertamento da spesometro, quali errori puoi contestare e come annullare le richieste dell’Agenzia delle Entrate.

Hai ricevuto un accertamento da spesometro e vuoi sapere se è legittimo?

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Introduzione

L’accertamento da spesometro è una particolare tipologia di controllo fiscale basato sui dati delle operazioni comunicate all’Agenzia delle Entrate tramite il cosiddetto “spesometro”. Si tratta di un accertamento tributario fondato su presunzioni e incroci di dati, volto a individuare anomalie tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risulta dalle spese o fatture comunicate da altri soggetti. In altre parole, se dai dati raccolti dal Fisco emergono discrepanze – ad esempio spese elevate a fronte di redditi esigui, o ricavi omessi rispetto alle fatture comunicate dai clienti – l’Amministrazione finanziaria può emettere un avviso di accertamento per recuperare le imposte presumibilmente evase.

Dal punto di vista del contribuente (debitore), subire un accertamento basato sullo spesometro può comportare notevoli rischi economici e legali. Sanzioni fiscali, interessi e persino conseguenze penali in caso di gravi evasioni sono all’orizzonte. È quindi fondamentale conoscere come difendersi efficacemente. Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – offre un approfondimento avanzato sugli strumenti normativi e giurisprudenziali più recenti per tutelarsi dagli accertamenti da spesometro. Ci rivolgiamo a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) ma anche a privati cittadini e imprenditori interessati a capire i propri diritti, utilizzando un linguaggio tecnico-giuridico ma con intento divulgativo.

Cosa troverete in questa guida? Inizieremo definendo cos’era lo spesometro, la sua evoluzione normativa e la sua abolizione, per poi spiegare in che cosa consiste un accertamento scaturito dallo spesometro e in quali casi viene attivato. Esamineremo quindi il valore probatorio dei dati dello spesometro e il meccanismo delle presunzioni tributarie, alla luce delle sentenze più aggiornate della Corte di Cassazione e delle Corti di giustizia tributaria. Dal punto di vista difensivo, analizzeremo i diritti del contribuente (in particolare il contraddittorio preventivo) e gli strumenti di tutela a disposizione: dall’istanza di autotutela all’accertamento con adesione, dal ricorso alle Corti tributarie fino agli strumenti deflattivi come la mediazione e la conciliazione. Il tutto corredato da esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione di domande e risposte frequenti per chiarire i dubbi più comuni.

L’obiettivo è fornire una panoramica completa e aggiornata su come affrontare in modo consapevole e sicuro un accertamento fiscale fondato sui dati dello spesometro, evidenziando le possibili strategie difensive e i più recenti orientamenti normativi e giurisprudenziali. La materia è complessa, ma conoscere i propri diritti – e le armi a disposizione – è il primo passo per poter interloquire efficacemente con il Fisco o contestare con successo un avviso infondato. Procediamo dunque per gradi, partendo dalle basi: cos’era lo spesometro e perché oggi se ne parla ancora nonostante la sua abolizione.

Lo “Spesometro”: definizione ed evoluzione normativa

Per comprendere l’“accertamento da spesometro” è necessario prima chiarire che cos’era lo spesometro. Con questo termine giornalistico si indicava l’obbligo di comunicazione telematica delle fatture emesse e ricevute, introdotto in Italia a partire dal 2010 e via via modificato negli anni successivi. In pratica, tutti i soggetti passivi IVA (imprese, professionisti, lavoratori autonomi) dovevano trasmettere periodicamente all’Agenzia delle Entrate l’elenco dettagliato delle operazioni effettuate, con indicazione dei clienti, fornitori, importi e date delle fatture. Lo scopo era consentire al Fisco di incrociare i dati delle vendite e degli acquisti, verificando la coerenza tra le entrate e le uscite dichiarate e individuando possibili evasioni o frodi IVA.

Introduzione e funzionamento dello spesometro

Lo spesometro fu introdotto dall’art. 21 del Decreto-Legge 31 maggio 2010, n. 78 (convertito con modificazioni dalla L. 122/2010) nell’ambito delle misure antievasione post-crisi. Inizialmente, prevedeva la comunicazione annuale di tutte le operazioni rilevanti ai fini IVA sopra una certa soglia. Negli anni seguenti la disciplina fu più volte rimodulata: la soglia di importo fu eliminata, rendendo di fatto obbligatoria la comunicazione di tutte le fatture (salvo poche eccezioni), e furono modificati anche i termini di invio. Dal 2017, ad esempio, lo spesometro divenne semestrale (due invii l’anno) o trimestrale su opzione, nell’ambito di una semplificazione degli adempimenti introdotta col DL 193/2016. In sintesi: tra il 2010 e il 2018 lo spesometro ha costituito un flusso informativo costante verso l’Agenzia delle Entrate, che ha potuto così costituire un’enorme banca dati di fatture emesse/ricevute e ricostruire il volume d’affari e gli acquisti di ciascun contribuente.

Alcune categorie di contribuenti erano esonerate dall’obbligo dello spesometro. In particolare, i contribuenti minimi e forfettari (regimi agevolati che già semplificavano gli adempimenti IVA) non dovevano inviare lo spesometro. Erano inoltre esclusi, per la natura stessa dei dati comunicati, i consumatori privati: il privato cittadino non era tenuto ad alcuna comunicazione (semmai figurava come controparte nelle comunicazioni inviate dalle aziende). Restavano fuori dallo spesometro anche le operazioni certificate da scontrino o ricevuta fiscale (per importi modesti, es. commercio al dettaglio sotto €3.000, inizialmente), poiché quelle non generavano una fattura nominativa da comunicare. In sostanza, lo spesometro censiva soprattutto le transazioni B2B e B2C documentate da fattura, mentre le vendite al minuto e altre fattispecie minori rimanevano monitorate da altri strumenti.

Dal punto di vista tecnico, la comunicazione avveniva tramite file telematici (in formato XML) contenenti i dati di ciascuna fattura. Era possibile inviare i dati in forma analitica (elencando ogni singola fattura) oppure aggregata (riportando per ciascun cliente/fornitore il totale delle operazioni in un dato periodo). L’invio veniva di norma effettuato tramite intermediari abilitati (commercialisti o consulenti) attraverso i canali telematici dell’Agenzia delle Entrate. Lo spesometro, insomma, rappresentava uno strumento di controllo massivo: incrociando le comunicazioni dei vari soggetti, il Fisco poteva facilmente rilevare incongruenze (ad esempio, fatture comunicate dal fornitore ma non dal cliente, oppure viceversa) e attivare i controlli.

A cosa serviva lo spesometro? Come suggerisce il nome, l’idea iniziale era quella di misurare le “spese” dei contribuenti per stimare indirettamente i loro redditi (concetto affine al redditometro). In realtà, lo spesometro ha avuto prevalentemente un utilizzo pratico diverso: è servito a verificare la corrispondenza tra le operazioni dichiarate nelle liquidazioni IVA e quelle effettivamente risultanti dalle fatture. Ad esempio, permetteva di individuare fatture emesse non riportate nelle dichiarazioni annuali IVA o nei redditi, oppure acquisti effettuati da un soggetto che poi non li ha contabilizzati. In questo senso, è stato un formidabile strumento anti-evasione, pur generando un grande carico burocratico sugli operatori economici.

L’abolizione dello spesometro e gli strumenti successivi

Con l’entrata in vigore della fatturazione elettronica obbligatoria tra privati, lo spesometro è stato abolito a partire dal 1° gennaio 2019. La legge di Bilancio 2018 (L. 205/2017) ha infatti previsto espressamente l’abrogazione dell’art. 21 del DL 78/2010 – la norma istitutiva dello spesometro – contestualmente all’introduzione generalizzata della e-fattura. Ciò significa che l’ultimo anno oggetto di spesometro è stato il 2018 (con ultimo invio effettuato a febbraio 2019). Dalla stessa data, le nuove fatture elettroniche transitanti per il Sistema di Interscambio (SdI) dell’Agenzia delle Entrate hanno reso superfluo l’adempimento: ogni fattura emessa viene ormai acquisita automaticamente dal Fisco in tempo reale, senza bisogno che il contribuente invii elenchi riepilogativi. In altri termini, oggi lo spesometro non esiste più come obbligo periodico, perché è stato sostituito dai nuovi flussi digitali.

Di fatto, l’abolizione dello spesometro ha segnato una svolta epocale nella digitalizzazione dei controlli fiscali. Oltre alla fatturazione elettronica domestica, sono entrati in gioco altri strumenti successivi, tra cui:

  • L’Esterometro (2019-2021): era la comunicazione trimestrale delle operazioni transfrontaliere (fatture da/a soggetti esteri, non transitando queste nello SdI). Introdotto dal 2019, è stato a sua volta eliminato dal 1° luglio 2022, quando anche per le fatture estere si è passati all’obbligo di trasmissione tramite SdI (o all’utilizzo di un formato XML dedicato). Così, anche gli scambi internazionali sono ora monitorati automaticamente.
  • Corrispettivi telematici: dal 1° luglio 2019, per le attività di commercio al dettaglio e assimilate, gli scontrini e ricevute sono stati rimpiazzati dai corrispettivi elettronici inviati quotidianamente al Fisco. Questo ha chiuso un altro anello: ora l’Agenzia riceve ogni giorno anche gli incassi al dettaglio, tramite i registratori di cassa telematici.
  • Estensione della fatturazione elettronica ai forfettari: inizialmente esonerati, anche i contribuenti in regime forfettario (minimi) hanno dovuto adeguarsi. Dal 1° luglio 2022 i forfettari con ricavi superiori a €25.000 annui sono stati coinvolti, e dal 1° gennaio 2024 l’obbligo di e-fattura è stato esteso a tutti i forfettari. Ormai ogni partita IVA, di qualsiasi dimensione, emette fatture attraverso il sistema elettronico.

In sintesi, lo spesometro ha cessato di esistere come adempimento autonomo, ma la logica sottostante è rimasta: l’Agenzia delle Entrate dispone ora di flussi informativi ancora più dettagliati e continui (fatture elettroniche, dati dei corrispettivi, banche dati delle spese detraibili come quelle mediche, anagrafe dei conti finanziari, ecc.). Gli accertamenti che un tempo venivano avviati sulla base delle anomalie rilevate dallo spesometro continuano oggi con gli strumenti attuali: la sostanza dei controlli non è cambiata, se non per il fatto che i dati sono ancora più completi e tempestivi. Per questo, pur parlando di “accertamento da spesometro” in senso storico, ci riferiamo in generale a accertamenti da incrocio di dati sulle fatture e sulle spese, i quali sono assolutamente attuali.

Di seguito, una tabella riepiloga l’evoluzione normativa dello spesometro e dei suoi successori:

PeriodoObbligo comunicativoRiferimento normativo
2010 – 2016Spesometro annuale (comunicazione operazioni IVA)DL 78/2010, art. 21 (conv. L.122/2010)
2017 – 2018Spesometro semestrale (comunicazione dati fatture)DL 193/2016, art. 4 (conv. L.225/2016)
2019Abolizione spesometro, obbligo fattura elettronicaL. 205/2017, art. 1 c.909-916 (Bilancio 2018)
2019 – 2021Esterometro trimestrale (fatture da/verso estero)DL 148/2017, art. 1 c. 909 (conv. L.172/2017)
dal 2022Stop esterometro; dati estero via SdI (entro mese seguente)DL 73/2022, art. 12 (conv. L.122/2022)
2019 – oggiCorrispettivi telematici (invio giornaliero incassi)DL 119/2018, art. 17 (conv. L.136/2018)
dal 2024E-fattura estesa a tutti i forfettariDL 36/2022, art. 18 (conv. L.79/2022)

Nota: La tabella fornisce un contesto normativo generale. Nel prosieguo della guida useremo il termine “accertamento da spesometro” in senso generico, riferendoci a controlli basati su dati fatture/spese, anche se oggi originati dalle comunicazioni della fatturazione elettronica o archivi similari.

L’Accertamento da Spesometro: cos’è e quando scatta

Chiarito il contesto, vediamo ora in cosa consiste un accertamento “da spesometro”. Si tratta, essenzialmente, di un avviso di accertamento tributario emesso dall’Agenzia delle Entrate (o Guardia di Finanza) a seguito di anomalie riscontrate nei dati dello spesometro. In termini semplici, il Fisco confronta i dati dichiarati dal contribuente (in dichiarazione dei redditi, dichiarazioni IVA, ecc.) con quelli risultanti dalle comunicazioni dello spesometro integrato – cioè i dati incrociati delle fatture dei vari soggetti. Se emerge un disallineamento significativo, l’Ufficio presume che il contribuente abbia occultato materia imponibile e procede a ricalcolare le imposte dovute, notificando un avviso di accertamento motivato proprio dai dati dello spesometro.

Possiamo distinguere due macro-scenari in cui si parla di accertamento da spesometro:

1) Accertamenti su imprese/professionisti per ricavi o operazioni non dichiarati (anomalie IVA e reddito d’impresa): in questo caso il controllo incrociato delle fatture rivela, ad esempio, che una società ha omesso di dichiarare parte dei suoi ricavi. Ciò può accadere in varie situazioni: ad esempio clienti della società hanno comunicato acquisti di importo superiore alle vendite dichiarate dalla società stessa; oppure la società non ha presentato affatto la dichiarazione IVA per quell’anno, ma i suoi fornitori hanno comunicato vendite nei suoi confronti (segno che essa ha operato pur senza dichiarare). Un altro esempio: un fornitore risulta aver emesso fatture verso la nostra azienda, ma quest’ultima non le ha registrate (il che potrebbe indicare che l’azienda ha nascosto costi e forse anche i correlativi ricavi). In tutti questi casi, i dati dello spesometro suggeriscono che i dati contabili ufficiali siano inattendibili o incompleti. L’amministrazione può allora emettere un accertamento, spesso di tipo analitico-induttivo (ex art. 39, co.1, lett. d, DPR 600/1973, per le imposte sui redditi), rettificando il reddito dichiarato o il volume d’affari IVA. Si parla talora di “accertamento parziale” basato su spesometro, poiché il Fisco interviene limitatamente a certi elementi (es. determinati fatturati) senza attendere un controllo generale di tutta la posizione fiscale.

2) Accertamenti su persone fisiche per incongruenze spese/redditi (accertamento sintetico redditometrico): qui l’attenzione è sul tenore di vita del contribuente privato. I dati dello spesometro – incrociati magari con altre banche dati su spese rilevanti (acquisto di case, auto, barche, spese con carte di credito, etc.) – possono segnalare che un individuo sostiene spese elevate incompatibili col reddito dichiarato. In tal caso l’Ufficio può attivare un accertamento sintetico, noto anche come redditometro, ex art. 38 DPR 600/1973. Ad esempio, se dal database fatture emerge che il sig. Rossi ha acquistato beni e servizi per 100.000 € in un anno, ma nel 730 ha dichiarato solo 30.000 € di reddito, il Fisco presume che il reddito effettivo di Rossi sia superiore a quanto dichiarato (ipotizzando quindi materia imponibile sottratta a tassazione). Storicamente, il redditometro prevedeva specifiche soglie di scostamento (almeno il 20% in più di spese rispetto al reddito, per due anni) e una procedura con invito al contraddittorio. Il principio, comunque, è che le “spese certe” rilevate costituiscono indizi di capacità contributiva e possono giustificare un accertamento di tipo induttivo-sintetico, che ridetermina il reddito complessivo del contribuente indipendentemente dalle risultanze contabili.

È importante notare che spesso il confine tra queste due categorie è sfumato. Ad esempio, si parla comunemente di “accertamento spesometrico” anche riferendosi a casi di redditometro, e viceversa. Il termine “spesometro” è stato talvolta usato giornalisticamente come sinonimo di redditometro, creando un po’ di confusione. In realtà, come visto, lo spesometro è (era) un adempimento di comunicazione; il redditometro è un metodo di accertamento. Tuttavia, gli accertamenti sintetici sui privati di fatto si alimentano dei dati raccolti con lo spesometro e strumenti analoghi, quindi è naturale parlare di accertamenti “da spesometro” anche in quel contesto. In questa guida chiariremo le differenze ma useremo l’espressione in modo esteso, per indicare qualunque accertamento fondato su spese/fatture rilevate nelle banche dati fiscali.

Vediamo ora in dettaglio quando scatta e come si configura un accertamento da spesometro nelle due situazioni sopra delineate, e quali sono le peculiarità procedurali.

Anomalie IVA e ricavi non dichiarati: il caso delle imprese

Per le imprese (o lavoratori autonomi soggetti IVA), lo spesometro ha rappresentato un formidabile strumento di controllo incrociato. L’Agenzia delle Entrate confronta i dati delle fatture emesse e ricevute comunicati dalla stessa impresa con quelli comunicati dai suoi clienti e fornitori. In presenza di discrepanze, scatta il campanello d’allarme. Ecco qualche scenario tipico:

  • Omessa dichiarazione fiscale: se un’impresa non presenta la dichiarazione dei redditi e IVA per un certo anno, ma dallo spesometro risultano fatture emesse da o verso tale impresa, il Fisco ha la prova che l’attività economica c’è stata. In tal caso l’accertamento è quasi automatico: si procede ad un accertamento d’ufficio (ex art. 41 DPR 600/1973 per le imposte sui redditi, o art. 55 DPR 633/1972 per l’IVA) ricostruendo il volume d’affari sulla base dei dati delle fatture note. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto legittimo un accertamento IVA basato sull’elenco clienti-fornitori (spesometro integrato) in un caso di omessa dichiarazione, purché l’atto riporti il contenuto essenziale di tali dati. In altre parole, i dati delle fatture note al Fisco (perché comunicate dai partner commerciali dell’azienda) possono costituire base per accertare il fatturato non dichiarato.
  • Ricavi non contabilizzati o non dichiarati: qui l’azienda presenta le dichiarazioni, ma dimentica (o nasconde deliberatamente) alcuni ricavi. Come scoprirlo? Facciamo un esempio: la Ditta Alpha dichiara ricavi per 500.000 € nel 2023. Incrociando i dati, risulta però che alcuni clienti della Ditta Alpha hanno comunicato acquisti da Alpha per un totale di 600.000 €. C’è quindi una differenza di 100.000 € di vendite che i clienti affermano di aver fatto con Alpha e che Alpha non ha dichiarato. Questa discrasia può derivare da vari fattori (errori di periodo, duplicazioni, fatture stornate, ecc.), ma se non viene giustificata adeguatamente è un forte indizio di evasione. L’Ufficio emetterà un avviso di accertamento chiedendo conto di quei 100.000 € “scomparsi”. Tipicamente sarà un accertamento analitico-induttivo, fondato sul fatto noto delle fatture risultanti dallo spesometro dei clienti come presunzione grave di ricavi in nero. La base normativa è l’art. 39, comma 1, lett. d) DPR 600/73, che consente di prescindere in parte dalle scritture contabili quando queste sono inattendibili e ricostruire i redditi con presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti.
  • Acquisti non registrati (costi “in nero”): un’anomalia inversa può riguardare i fornitori. Se i fornitori di Beta Srl comunicano di aver venduto beni/servizi a Beta per 200.000 €, ma Beta in contabilità ha registrato solo 100.000 € di acquisti, possono esserci due spiegazioni: o Beta ha volutamente omesso di registrare alcune fatture di acquisto (magari perché relative a costi non deducibili o pagati in nero), oppure i fornitori hanno commesso errori. In ogni caso, il Fisco potrebbe sospettare che quei costi “nascosti” implichino anche ricavi non dichiarati (Beta potrebbe aver rivenduto beni non entrati in contabilità). L’accertamento potrebbe quindi concentrarsi sul maggior margine non dichiarato. Va detto che questa fattispecie è più complessa: l’onere della prova di solito grava sull’Ufficio e servono riscontri (es. movimenti di magazzino incompatibili, ecc.). Tuttavia, i dati dello spesometro gettano luce su queste incongruenze e possono innescare verifiche approfondite.

Nel caso di accertamenti “spesometrici” verso imprese, la procedura seguita è spesso quella parziale ex art. 41-bis DPR 600/1973: l’Agenzia può emettere un accertamento limitato a questi elementi senza necessità di ispezionare l’intera posizione fiscale, e senza attendere la scadenza ordinaria di controllo (è un’azione mirata e rapida). Ciò anche perché le prove documentali sono già nella disponibilità del Fisco (elenchi fatture, ecc.) e l’anomalia è spesso oggettiva. L’avviso di accertamento deve comunque essere motivato in modo chiaro, indicando i dati emersi dallo spesometro integrato che giustificano la pretesa. Non è però necessario allegare materialmente all’avviso la lista completa delle fatture discordanti, se nell’atto sono riportati gli elementi essenziali (periodo, controparti, importi) che mettono il contribuente in condizione di difendersi. Questo punto è stato chiarito dalla Cassazione: non sussiste vizio di motivazione se l’atto “per relationem” riporta il contenuto essenziale dei documenti noti al contribuente, rendendo superflua l’allegazione integrale. Ciò è coerente con l’art. 7, co.1, L. 212/2000 (Statuto del Contribuente), secondo cui vanno allegati gli atti richiamati a fondamento solo se il loro contenuto non è già conosciuto dal contribuente.

Come può difendersi l’impresa in questi casi? Lo vedremo in dettaglio più avanti, ma anticipiamo qualche scenario: spesso le discrepanze hanno spiegazioni legittime. Ad esempio, una difformità tra vendite dichiarate e acquisti comunicati dai clienti può dipendere da un banale sfasamento temporale. Un caso reale: un artigiano aveva fatturato a fine 2012 delle vendite, registrandole regolarmente nel 2012; i clienti però, avendo ricevuto le fatture a cavallo d’anno, le hanno registrate nel 2013 e così le hanno comunicate nello spesometro 2013. L’ufficio, vedendo nel 2013 vendite comunicate dai clienti ma non da lui, gli contesta ricavi non dichiarati per il 2013. In primo grado il contribuente ha fatto valere proprio il differente timing di registrazione e ha avuto ragione: le fatture contestate in realtà erano state emesse (e tassate) l’anno prima. In appello però l’ufficio ha prevalso per un vizio procedurale (mancata prova in atti di quei documenti, poi vicenda proseguita in Cassazione su questioni formali). Questo esempio – tratto dalla recente ordinanza Cass. n. 12748/2025 – illustra che è fondamentale, per l’azienda, documentare accuratamente le proprie ragioni: esibire i registri IVA, le fatture con data certa, per dimostrare che l’anomalia è solo apparente. Se ciò avviene, il giudice può annullare l’accertamento. Non a caso, la Commissione Tributaria Provinciale di Avellino in quel caso diede ragione al contribuente proprio riconoscendo che lo scostamento era frutto di “uno scostamento temporale […] nonché dell’applicazione delle norme che disciplinano lo spesometro”. In altri termini: il diavolo stava nel calendario, non in una volontà evasiva.

Un ulteriore fronte difensivo per l’impresa è controllare che il Fisco, nel ricostruire i maggiori ricavi, abbia tenuto conto anche dei costi correlati. Ad esempio, se contesta ricavi in nero, dovrà ammettere in deduzione i costi relativi a quei ricavi, laddove documentabili, altrimenti il reddito imponibile sarebbe sovrastimato. Una recente pronuncia di merito (CTP Reggio Emilia) ha annullato un accertamento basato sui soli dati comunicati, proprio perché l’ufficio aveva calcolato maggiori ricavi senza indicare i relativi costi deducibili. Questo per dire che la correttezza metodologica dell’accertamento può essere contestata: il contribuente può eccepire errori nel calcolo (doppie conteggiature di fatture, mancate deduzioni di costi, applicazione di margini irrealistici, ecc.). Nel complesso, però, se l’anomalia spesometro risulta fondata e non spiegabile altrimenti, la difesa dell’impresa dovrà concentrarsi su aspetti formali (vizi di notifica o motivazione, mancato contraddittorio) oppure su accordi con l’ufficio per ridurre sanzioni (come l’accertamento con adesione). Tutte queste strategie difensive saranno approfondite nelle sezioni successive.

Spese personali e “redditometro”: il caso delle persone fisiche

Passiamo al secondo scenario, quello delle persone fisiche (privati contribuenti non titolari di partita IVA). Qui l’accertamento “da spesometro” assume la forma del classico accertamento sintetico del reddito, disciplinato dall’art. 38, commi 4-7 del DPR 600/1973. Tale norma – potenziata nel 2010 e recentemente riformata – consente al Fisco di determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta, qualora vi sia una significativa differenza rispetto al reddito dichiarato. In pratica, è il meccanismo noto come redditometro, dove valgono le presunzioni secondo cui chi spende, investe o risparmia somme elevate deve aver conseguito redditi altrettanto elevati (salvo prova contraria).

I dati dello spesometro (e degli altri archivi di spesa) sono cruciali in questo contesto: forniscono l’elenco delle spese certe. Ad esempio, spese per beni di lusso (auto di grossa cilindrata, barche, gioielli), spese per investimenti immobiliari, pagamenti con carta di credito, utenze e quote condominiali per seconde case, polizze assicurative costose, e così via. Tutti elementi che, soprattutto in combinazione, tracciano un tenore di vita. Se tali elementi sono incompatibili con il reddito dichiarato, il Fisco avvia la procedura di accertamento sintetico.

Facciamo un esempio pratico: il Sig. Bianchi dichiara un reddito imponibile di 20.000 € annui. Dalle banche dati emerge però che nel 2022 ha comprato un’auto sportiva da 50.000 €, ha speso 15.000 € con la carta di credito, risulta intestatario di una casa con mutuo annuo da 10.000 €, e ha sostenuto spese mediche per 5.000 € (detratte in dichiarazione). Sommate, queste spese ammontano a ~80.000 €. Anche ammettendo qualche margine di risparmio accumulato, la difformità è enorme. È probabile che l’Agenzia delle Entrate inviti il Sig. Bianchi a chiarire la situazione (questo invito al contraddittorio è obbligatorio per legge in ambito redditometro) e, in mancanza di spiegazioni convincenti, emetta un avviso di accertamento sintetico aumentando il reddito imponibile di Bianchi per adeguarlo alle spese sostenute.

Va sottolineato che nel redditometro esiste(va) una soglia di tolleranza: le spese devono eccedere il reddito dichiarato di almeno il 20% (un quinto) perché si possa emettere accertamento, secondo la formulazione della norma in vigore per i controlli fino al 2015-2016. Inoltre, prima si richiede un biennio di scostamento (anche se questo requisito è stato flessibilizzato nel tempo). Aggiornamento 2024: Il legislatore ha rivisto la disciplina per concentrare l’attenzione solo sui casi di evasione più rilevanti. Le nuove regole (non a caso soprannominate “redditometro 2.0”) prevedono che l’accertamento sintetico scatti solo se la discrepanza supera il 20% e comunque almeno 70.000 € circa di maggior reddito accertabile. In sostanza, si vogliono colpire solo situazioni macroscopiche, lasciando in pace le piccole incoerenze. Autorità e Governo hanno chiarito che “il redditometro non esiste più” come strumento di massa, rimpiazzato da un accertamento sintetico mirato ai grandi evasori. Resta però la possibilità di controlli su spese e tenore di vita, semplicemente con paletti più alti.

Sul piano procedurale, l’accertamento sintetico impone all’Ufficio di attivare il contraddittorio preventivo col contribuente (art. 38 co.7 DPR 600/73): prima di emettere l’avviso, deve invitare il contribuente a fornire spiegazioni e valutare le prove apportate. Solo dopo, se le giustificazioni non bastano, emetterà l’accertamento. La mancata attivazione di questo contraddittorio ha sempre comportato la nullità dell’atto, per espressa previsione normativa e consolidato orientamento giurisprudenziale. In sostanza, chi riceve un “invito a comparire per il redditometro” deve considerarlo una opportunità fondamentale: è il momento per convincere l’Ufficio che le apparenze ingannano.

Come difendersi da un accertamento sintetico (o prevenirlo)? Il contribuente ha a disposizione la cosiddetta prova contraria. Egli può dimostrare, con ogni mezzo, che le spese sostenute non sono indice di maggior reddito imponibile, perché finanziate in altro modo o frutto di situazioni particolari. Esempi classici di giustificazioni accolte dalla legge e dalla giurisprudenza:

  • Redditi esenti o già tassati alla fonte: Se ho usato per le spese del 2022 dei soldi provenienti da redditi che legalmente non devo dichiarare, ciò non prova evasione. Ad esempio, potrei aver utilizzato somme ricevute in donazione da un familiare, o denaro derivante da risparmi accumulati negli anni precedenti (già tassati o derivanti dal passato), oppure aver venduto beni personali. Queste fonti di finanziamento, se documentate, neutralizzano la presunzione. La Cassazione ha sempre riconosciuto che il contribuente può provare di aver sostenuto spese con redditi diversi da quelli del periodo d’imposta o con introiti esenti/non imponibili.
  • Finanziamenti o prestiti: Se le spese sono state coperte indebitandosi – un prestito da una banca, o un finanziamento da terzi – ciò spiega come si è potuto spendere senza redditi corrispondenti. Ovviamente va provato: ad esempio, esibendo il contratto di mutuo o una scrittura privata di prestito tra familiari, corredata magari dai movimenti bancari. Anche un finanziamento informale (il classico prestito da un amico) può essere addotto, purché reso verosimile da conferme (magari una dichiarazione dell’amico che attesti di aver prestato la somma).
  • Reddito di altri anni (risparmi): Strettamente collegato al primo punto, ma merita enfasi: se ho speso 100.000 € nel 2022, posso dimostrare che ho risparmiato 20.000 € all’anno nei 5 anni precedenti, accumulando così la somma necessaria. Questa argomentazione funziona specialmente se i pagamenti sono tracciabili (es. uscite dal conto corrente corrispondenti ai risparmi). La Corte di Cassazione ha spesso sottolineato che la formazione di risparmi pregressi è prova contraria valida, purché supportata da evidenze oggettive.
  • Spese contestate sovrastimate: Il contribuente può anche contestare l’ammontare stesso delle spese attribuite dal Fisco. Ad esempio, se l’Agenzia calcola forfettariamente certe spese (com’era per alcuni beni nel vecchio redditometro), il contribuente può dimostrare che in realtà ha speso meno. Ormai però l’accertamento sintetico “2.0” tende a basarsi su spese certe, quindi questa linea difensiva è meno frequente se i dati provengono da fonti come lo spesometro (che riporta esattamente gli importi delle fatture).

In estrema sintesi: di fronte a un accertamento redditometrico, il privato deve ricostruire il puzzle finanziario della propria vita economica di quel periodo. Più documenti presenta – estratti conto bancari, ricevute di donazioni, quietanze di mutuo, ecc. – più possibilità ha di convincere l’Ufficio (o il giudice) che nessun reddito “in nero” è stato prodotto, e che tutto ha una spiegazione lecita. La giurisprudenza recente conferma l’efficacia di un’accurata difesa documentale. Ad esempio, una sentenza della CTR Veneto (n. 1486/2018) ha annullato un pesante accertamento sintetico da oltre 139.000 € a carico di una contribuente, ritenendo pienamente convincenti le prove fornite dalla stessa circa la provenienza alternativa delle somme spese. In quel caso, la contribuente aveva presentato una “analitica e dettagliata ricostruzione documentale” che dimostrava come le spese contestate fossero coperte da redditi di altri periodi e altre fonti. La Commissione sottolineò anche il mancato adeguato confronto dell’ufficio con tali prove: l’Agenzia si era limitata a ribadire le sue tesi, “omettendo la rivalutazione proprio degli elementi aggiuntivi forniti dalla contribuente”. Ciò a rimarcare che il contraddittorio non deve essere una farsa: se il contribuente porta elementi solidi, l’Ufficio ha il dovere di tenerne conto.

Per completezza, segnaliamo che l’evoluzione normativa degli ultimi tempi (2023-2025) ha aperto la strada a strumenti ancora più mirati. Invece del redditometro generalizzato, si parla di “liste selettive” di contribuenti ad alto rischio evasione su cui concentrare i controlli, e di utilizzo mirato delle banche dati con l’ausilio di algoritmi (c.d. spesometro integrato con intelligenza artificiale). Ma ciò esula dalla nostra trattazione. Ai fini difensivi, rimangono validi i principi tradizionali: il contribuente sotto accertamento sintetico deve essere informato e coinvolto prima dell’atto, e può (anzi deve) predisporre un dossier difensivo con tutte le pezze giustificative, anche ricorrendo a dichiarazioni di terzi a proprio favore. Da notare, infatti, che mentre nel processo tributario ordinario la testimonianza non è ammessa formalmente, sono però utilizzabili le dichiarazioni rese da terzi all’Amministrazione (ad esempio verbali raccolti dalla GdF, o dichiarazioni sostitutive di atto notorio): queste hanno valore indiziario. Inoltre, con la riforma della giustizia tributaria (L. 130/2022) è ora ammessa in certi casi la “testimonianza scritta” in giudizio, che potrebbe rafforzare ulteriormente la difesa (ad esempio, un parente che attesti di aver donato una certa somma al contribuente, con firma autenticata).

In conclusione, l’accertamento da spesometro rivolto alle persone fisiche si traduce nel redditometro (vecchio o nuovo che sia). Il contribuente-datore di giustificazioni ha un onere importante ma non impossibile: si tratta di dimostrare la propria buona fede e la liceità delle proprie spese, con ogni elemento utile. E come vedremo più avanti, in caso di contenzioso i giudici spesso accolgono le difese ben documentate, soprattutto in presenza di dati oggettivi incontrovertibili. A questo proposito è interessante citare un caso recentissimo: la Cassazione ord. n. 12548 del 12/05/2025 ha confermato l’annullamento di un accertamento analitico-induttivo a un contribuente che, accusato di ricavi non dichiarati, è riuscito a dimostrarne l’insussistenza mediante il registro clienti-fornitori (spesometro) incrociato con dichiarazioni di terzi. In pratica, ha usato le stesse armi del Fisco (dati fatture e conferme di clienti/fornitori) per provare la correttezza del dichiarato. Questo ribadisce un concetto chiave: la difesa del contribuente può e deve essere “proattiva”, sfruttando anche i dati ufficiali (come lo spesometro stesso, i registri IVA, ecc.) e non solo argomentazioni astratte.

Il valore probatorio dei dati dello Spesometro: presunzioni e onere della prova

Gli accertamenti da spesometro si basano, in sostanza, su presunzioni. È quindi essenziale comprendere quale forza probatoria abbiano i dati dello spesometro e come si ripartisce l’onere della prova tra Fisco e contribuente in queste circostanze.

Presunzioni semplici vs presunzioni legali

In diritto tributario, una presunzione è un meccanismo logico per cui da un fatto noto si risale a un fatto ignoto. Ad esempio: se so (fatto noto) che Tizio ha speso 50.000 € per un’auto, presumo (fatto ignoto) che egli abbia avuto almeno 50.000 € di reddito. Le presunzioni si dividono in legali (stabilite dalla legge, spesso con inversione automatica dell’onere della prova) e semplici (fondate su indizi, che il giudice deve valutare caso per caso e che richiedono di regola la convergenza di più elementi “gravi, precisi e concordanti”). I dati dello spesometro non sono qualificati dalla legge come presunzioni legali assolute né relative: la normativa non dice, ad esempio, che “le fatture risultanti dallo spesometro si considerano ricavi salvo prova contraria”. Pertanto, l’utilizzo dello spesometro in accertamento rientra nell’alveo delle presunzioni semplici: l’Ufficio parte da quel dato e formula una ipotesi di evasione, che dovrà reggere al vaglio del contraddittorio e dell’eventuale giudizio. Per essere solida, la presunzione deve essere supportata da indizi gravi, precisi e concordanti (art. 2729 c.c. e art. 39 DPR 600/73 per l’accertamento induttivo).

Nel caso dello spesometro, spesso il dato di partenza è molto solido: una fattura emessa ha normalmente piena attendibilità (è stata comunicata dal soggetto emittente o acquirente stesso). Non siamo in presenza di semplici “indici statistici” come erano quelli del vecchio redditometro (es. metro quadro dell’abitazione, cavalli dell’auto) che potevano essere opinabili. Qui parliamo di dati puntuali e documentali. Per questo la giurisprudenza, pur qualificandoli come presunzioni semplici, tende a considerarli indizi molto forti. Ad esempio, la Cassazione penale – in riferimento all’uso in sede penale dei dati fiscali – ha affermato che “lo Spesometro non è una mera base presuntiva, ma un insieme di dati oggettivi estratti dalle dichiarazioni IVA e dai flussi finanziari dell’Agenzia delle Entrate”. Ciò significa che sono dati attendibili, basati su informazioni fornite dagli stessi contribuenti o da terzi obbligati, e pertanto possono costituire prova documentale di un fatto (es. che una transazione è avvenuta). In ambito tributario civile, non si parla di “prova” in senso stretto ma comunque di materiale probatorio di cui il giudice può tenere conto liberamente.

Detto questo, i dati dello spesometro da soli bastano a fondare un accertamento? La risposta pratica è: sì, bastano per emettere l’atto (l’ufficio spesso lo fa sulla base del solo scostamento riscontrato), ma non sempre bastano per reggere in giudizio se il contribuente oppone valide controprove. In dottrina si è discusso se l’elenco clienti-fornitori (spesometro) configuri una sorta di “presunzione legale relativa” in capo al Fisco – il che agevolerebbe di molto l’Agenzia, spostando nettamente l’onere sul contribuente – oppure una semplice presunzione. L’opinione più recente, anche giurisprudenziale, propende per la seconda: i dati dello spesometro sono un elemento singolo che, se isolato, potrebbe non essere sufficiente a qualificare la gravità della presunzione senza altri riscontri. In altre parole, il giudice deve valutare se quell’unico elemento (es: una differenza di 100k euro nelle fatture) sia di per sé grave e preciso oppure se servano ulteriori conferme. Nella pratica, spesso ulteriori conferme ci sono: ad esempio, a supporto dei dati spesometro il Fisco può aggiungere i movimenti bancari (che se non giustificati costituiscono altra presunzione) oppure il mancato ritrovamento in contabilità delle fatture contestate (indice di irregolarità contabile).

Onere della prova e ruolo del contraddittorio

In un accertamento basato su spesometro, l’onere della prova iniziale spetta al Fisco: deve indicare con chiarezza l’elemento rilevato e motivare perché esso implica un maggior reddito/imposta dovuta. Questo in genere avviene: l’avviso di accertamento citerà, ad esempio, “risultano operazioni attive per €X comunicate da terzi a fronte di ricavi dichiarati pari a €Y, da cui si presume un maggior volume non dichiarato di €(X−Y)”. Una volta formalizzata questa contestazione, però, scatta in buona parte a carico del contribuente l’onere di dimostrare il contrario (c.d. prova contraria). Infatti, le presunzioni semplici in ambito tributario, pur non invertendo completamente l’onere, di fatto richiedono una reazione probatoria del contribuente: se questi resta inattivo, l’indizio diventa prova sufficiente.

Un concetto importante confermato dalla Cassazione è che “la difesa non può limitarsi a contestare l’uso dello Spesometro, ma deve dimostrare concretamente che i dati non corrispondono alla realtà”. Ciò è stato affermato in sede penale ma vale, per analogia, anche nel processo tributario: non basta dire “il Fisco non può presumere questo da quello”, occorre smontare il fatto posto a base. Ad esempio, se l’ufficio dice che avete 50.000 euro di ricavi non dichiarati perché Tizio li ha comunicati come sue spese verso di voi, voi dovrete provare che: o quelle fatture in realtà non erano vostre (errore di codice fiscale, casi rari ma possibili), oppure che sono state stornate/annullate regolarmente (note di credito, ecc.), oppure ancora – come nell’esempio di prima – che quelle fatture erano di competenza di un altro anno e quindi non c’è evasione ma solo disallineamento temporale.

Fortunatamente, nel sistema tributario italiano il contribuente ha varie occasioni procedimentali per far valere le proprie ragioni prima del giudizio. In particolare, come già accennato, negli accertamenti da spesometro spesso interviene la fase del contraddittorio anticipato: l’Agenzia convoca il contribuente (o gli invia un questionario) per chiedere spiegazioni sulle anomalie rilevate. Questo contraddittorio endoprocedimentale è divenuto obbligatorio in molte situazioni (lo era già per il redditometro, ora dal 2020-2024 lo è quasi per tutti gli accertamenti, vedi oltre). Ecco perché è cruciale sfruttare quella fase: presentare memorie, documenti, far mettere a verbale le proprie dichiarazioni. Se il contribuente fornisce elementi convincenti, l’ufficio potrebbe persino archiviare il caso senza emettere l’avviso. In caso contrario, se comunque emette l’atto senza considerare elementi forniti, ciò potrà costituire materia di difesa in giudizio (per vizio di motivazione o violazione del dovere di esame).

Un aspetto tecnico di rilievo riguarda la motivazione dell’accertamento: come visto prima, la Cassazione (ord. 1134/2020) ha ritenuto legittimo un avviso fondato su spesometro integrato non accompagnato dall’elenco clienti-fornitori, perché il contribuente già poteva conoscere quei dati. Tuttavia, in linea generale, se l’atto impositivo si basa su un altro atto (es: un PVC o un elenco dettagliato) e lo richiama, la L. 212/2000 art. 7 impone di allegarlo o riprodurlo. Nello spesometro, come detto, si ovvia riproducendo in motivazione i dati salienti. Se la motivazione è carente o incompleta (es: indica solo un totale aggregato e non dà contezza di quali operazioni lo compongono), il contribuente può lamentare una violazione del diritto di difesa. Alcune commissioni tributarie hanno annullato accertamenti in cui il prospetto fornito era troppo scarno (mancavano date, natura delle operazioni, ecc.), rendendo impossibile al contribuente capire a quali fatture si riferisse la pretesa. Sono casi in cui l’ufficio ha vinto poi in Cassazione dimostrando che il contenuto essenziale c’era, ma vale la pena controllare sempre la motivazione: eventuali lacune possono essere un elemento da far valere.

Riassumendo: i dati dello spesometro costituiscono un potente indizio nelle mani del Fisco (quasi una prova, essendo dati documentali), e fanno scattare una presunzione semplice di evasione. Il contribuente, per vincere, deve fornire una prova contraria convincente. Se ci riesce – e la legge gli consente ampi mezzi, inclusa la produzione di ogni documento e anche dichiarazioni di terzi a supporto – l’accertamento verrà annullato in sede amministrativa o contenziosa. Diversamente, se rimane silente o le sue argomentazioni sono deboli, la presunzione del Fisco verrà ritenuta valida e l’atto confermato.

La tendenza della giurisprudenza recente è favorevole al Fisco nel ritenere legittimo l’uso dello spesometro come base accertativa, ma attenzione: quando il contribuente porta elementi sostanziali di smentita, i giudici sono altrettanto pronti ad accoglierli. Emblematica è l’ordinanza di Cassazione n. 12548/2025 già citata: ha ribadito che va annullato l’accertamento induttivo se il contribuente dimostra l’insussistenza della pretesa con i propri documenti contabili e con dichiarazioni di terzi. In quel caso la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia, avallando la decisione di merito che aveva dato credito alle prove del contribuente. Ciò conferma che il giudice tributario valuta in modo sostanziale: non c’è una verità legale assoluta nei dati fiscali, essi sono confutabili.

Un discorso a parte meritano le eventuali conseguenze penali: se dalle fatture emerge un’evasione sopra soglie penali (ad es. IVA evasa > €50.000 annui, redditi evasi > €100.000), può scattare la denuncia per reato tributario (dichiarazione infedele, omessa dichiarazione o frode). In ambito penale l’onere della prova è più stringente per l’accusa, ma anche qui i dati digitali fiscali sono considerati prove ammissibili. La Cassazione Penale, sentenza n. 9999/2025, ha sancito che i dati dello spesometro possono costituire prova nei processi per reati fiscali, non essendo mere presunzioni ma dati oggettivi estratti dalle dichiarazioni IVA e da sistemi ufficiali. Ovviamente vanno corroborati da altri elementi, ma il messaggio ai contribuenti è chiaro: se pensano di farla franca perché “il dato dello spesometro non è prova”, si sbagliano, anche penalmente. Inoltre, come ha affermato la stessa sentenza, “la difesa non può limitarsi a contestare l’uso dello spesometro, ma deve dimostrare che i dati non corrispondono alla realtà”. Quindi sia in sede penale che tributaria, la linea è coerente: contestare in modo generico non basta, servono fatti e prove.

In conclusione, i dati dello spesometro hanno un elevato valore probatorio indiziario. L’onere di dimostrare il contrario ricade in ampia misura sul contribuente, pur nell’ambito di un giusto contraddittorio. Chi si difende attivamente, spesso riesce ad avere la meglio o almeno a contenere la pretesa; chi invece ignora l’anomalia o non la giustifica, con ogni probabilità vedrà confermato l’accertamento.

Tutela del contribuente e strategie di difesa

Dopo aver esaminato “come attacca” il Fisco tramite gli accertamenti da spesometro, vediamo ora “come ci si difende” da tali accertamenti. Le strategie difensive si sviluppano su due piani: procedurale (far valere i vizi dell’operato dell’ufficio, come omissione di garanzie) e di merito (contestare nel merito i dati e le conclusioni). Passeremo in rassegna i principali strumenti di tutela a disposizione del contribuente, in ordine cronologico: dal momento in cui arriva un avviso (o anche prima), fino all’eventuale fase contenziosa e oltre.

Prima però, un principio generale: in materia tributaria vale la pena di essere proattivi e tempestivi. Appena si riceve un segnale di anomalia (una lettera di compliance, un invito a comparire, un processo verbale di constatazione), agire subito fornendo spiegazioni e documenti può evitare che si arrivi all’avviso di accertamento. Se l’accertamento arriva comunque, non bisogna perdere tempo: i termini sono brevi e le opportunità (adesione, mediazione) hanno scadenze precise. Inoltre, dal 2011 gli avvisi di accertamento sono esecutivi, il che significa che dopo 60 giorni possono diventare titolo per riscuotere forzatamente una parte delle somme (salvo che il contribuente non faccia qualcosa, come vedremo). Quindi, “difendersi” significa anche gestire correttamente i tempi e le procedure. Andiamo con ordine.

Il contraddittorio preventivo: diritto al confronto prima dell’atto

Il contraddittorio endoprocedimentale è il confronto tra Fisco e contribuente prima dell’emissione di un atto impositivo. Nel nostro contesto, può assumere la forma di: comunicazioni di irregolarità, questionari, inviti a comparire o veri e propri inviti al contraddittorio ex art. 5-ter D.Lgs. 218/1997 (introdotto dal 2019). L’importanza del contraddittorio è cruciale, tanto che è definito “principio cardine” dallo Statuto dei Diritti del Contribuente: una recente riforma fiscale (attuata col D.Lgs. 218/2023) ha inserito l’art. 6-bis nello Statuto (L. 212/2000) rendendo obbligatorio il contraddittorio preventivo generalizzato per (quasi) tutti gli accertamenti emessi dal 30 aprile 2024 in poi. La norma recita che “tutti gli atti autonomamente impugnabili dinanzi alle Corti tributarie sono preceduti, a pena di annullabilità, da un contraddittorio informato ed effettivo”, salvo alcuni atti automatizzati o casi di particolare urgenza (pericolo per la riscossione) individuati da decreto. Inoltre, prevede che l’ufficio trasmetta uno schema di atto al contribuente, concedendo almeno 60 giorni per memorie e documenti, prima di poter emettere l’atto definitivo. Se il contraddittorio spinge l’atto oltre i termini di decadenza, la legge estende automaticamente di 120 giorni il termine di decadenza, così l’ufficio non ha scuse per saltare il confronto. Infine, l’atto finale deve dare conto delle osservazioni del contribuente e motivare in caso di mancato accoglimento.

Questa rivoluzione normativa codifica un principio che la giurisprudenza andava affermando a macchia di leopardo: il contribuente ha diritto di essere ascoltato prima di ricevere un avviso di accertamento. Dunque, se ricevete un invito al contraddittorio relativo a possibili anomalie (spesometro o altro), prendetelo molto sul serio. È l’occasione migliore per far valere le vostre ragioni senza dover arrivare in giudizio. In sede di contraddittorio potete:

  • Esibire documenti: ad esempio, se vi contestano fatture non dichiarate, potete portare i registri contabili e le fatture per mostrare che sono state contabilizzate in altro periodo, o che esistono note di credito, ecc. Se contestano spese redditometriche, potete già portare documenti di donazioni, mutui, risparmi.
  • Presentare memorie difensive scritte: conviene sempre depositare una memoria che riassume i fatti e le vostre spiegazioni, allegando gli eventuali documenti. Questo costringe l’ufficio a protocolllarla e a tenerne conto (almeno formalmente) nella motivazione dell’atto.
  • Chiedere chiarimenti all’ufficio: il contraddittorio è a doppio senso. Potete chiedere di dettagliare i dati: quali fatture sono considerate non dichiarate? Di quali clienti? A volte, la comunicazione iniziale è sintetica e solo interloquendo ottenete i dettagli.
  • Valutare una definizione bonaria: se capite di essere in torto almeno parziale, il contraddittorio può sfociare in una proposta di accertamento con adesione (vedi oltre). Talvolta, già in questa fase, l’ufficio può prospettare una chiusura agevolata riducendo sanzioni. Sta a voi valutare.

Cosa succede se l’ufficio non attiva il contraddittorio ma avrebbe dovuto? Pre-2024, la situazione era sfumata: per alcuni tributi (IVA, da normativa UE e giurisprudenza, contraddittorio ritenuto obbligatorio), per altri no, salvo redditometro dove era espressamente obbligatorio. Oggi, con l’art. 6-bis L.212/2000, la regola è l’obbligatorietà generale. Dunque, per avvisi notificati dopo il 30/4/2024 (nonché per alcuni atti dopo il 1/7/2020 per effetto della normativa precedente) la mancata instaurazione del contraddittorio dà luogo a annullabilità dell’atto, che il contribuente può far valere in giudizio. “Annullabilità” significa che dovete eccepirlo voi: il giudice non annulla d’ufficio, ma se voi lo eccepite, l’atto è viziato. Naturalmente, l’ufficio potrebbe difendersi sostenendo che rientrava nelle eccezioni (atto “automatizzato” oppure urgenza di incassare per rischio concreto). Ma in un accertamento da spesometro è difficile sostenere l’urgenza (di norma si tratta di controlli a tavolino, non c’è un pericolo immediato di perdere il gettito). E non è un atto automatizzato puro, perché c’è un’attività valutativa. Quindi, presumibilmente, se l’ufficio non vi ha convocato prima, in sede di ricorso potrete chiedere l’annullamento proprio per violazione dell’obbligo di contraddittorio. Questo è un profilo procedurale importante della difesa.

Riassumendo: partecipate sempre al contraddittorio se vi viene offerto, preparando un dossier difensivo accurato. E se non vi viene offerto contraddittorio e invece l’atto lo richiedeva, contestate subito tale mancanza nel ricorso. Il contraddittorio è spesso la sede dove l’accertamento “da spesometro” può sgonfiarsi, grazie alle vostre spiegazioni.

Da ricordare: se ricevete un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dalla Guardia di Finanza in seguito ad accesso/verifica, avete diritto di presentare osservazioni entro 60 giorni prima che l’Agenzia emetta l’accertamento (art. 12, c.7 L. 212/2000). Questo è un altro tipo di contraddittorio: scritto e successivo al PVC. Anche in quell’eventualità, scrivete le vostre deduzioni: l’ufficio dovrà valutarle e replicare in accertamento, pena nullità relativa dell’atto in caso di omissione.

L’istanza di autotutela: far correggere l’errore all’Amministrazione

Poniamo che l’Agenzia delle Entrate abbia emesso l’avviso di accertamento “da spesometro” e, leggendo le carte, vi accorgete che c’è un errore palese a vostro sfavore (ad esempio, hanno conteggiato due volte la stessa fattura, oppure non hanno considerato un documento che gli avevate fornito e che risolveva la questione). In questi casi, uno strumento immediato è l’istanza di autotutela.

L’autotutela è il potere/dovere dell’amministrazione finanziaria di annullare o rettificare i propri atti riconosciuti illegittimi o infondati, senza bisogno di attendere il giudice. Il contribuente può presentare un’istanza all’ufficio che ha emesso l’atto, esponendo i motivi per cui l’atto sarebbe errato e chiedendone l’annullamento (totale o parziale). L’autotutela è prevista in via generale dalla L. 212/2000 (Statuto) e regolata dal DM 37/1997 e circolari ministeriali: è discrezionale per l’ente, il che significa che non esiste un diritto del contribuente all’annullamento (non si può fare ricorso se l’ufficio rifiuta). Tuttavia, in presenza di errori evidenti, spesso l’amministrazione interviene. Ad esempio, se dimostrate che la pretesa fiscale si basa su una fattura che in realtà non vi riguarda, o che avete già pagato quell’imposta, l’ufficio potrebbe annullare in autotutela per evitare un contenzioso perso in partenza.

Nel contesto spesometro, ci sono stati casi in cui l’Agenzia, ricevuto il reclamo/mediazione del contribuente, ha riesaminato la pratica e annullato l’atto prima di arrivare in giudizio. Ciò accade tipicamente quando la difesa evidenzia che “i dati dello spesometro non fondano, da soli e senza riscontri, una presunzione” sufficientemente robusta, oppure porta elementi nuovi che l’ufficio non aveva considerato. In altre parole, l’autotutela è spesso stimolata dalle osservazioni difensive: se fate un reclamo ben argomentato (nelle cause sotto 50.000 € c’è la mediazione fiscale obbligatoria, che vedremo), l’ufficio potrebbe decidere di evitare la causa accogliendo le vostre ragioni in tutto o in parte.

Come e quando presentare l’istanza? Non ci sono modelli rigidi, basta una lettera in carta libera indirizzata all’ente (meglio via PEC, con oggetto “Istanza di autotutela su avviso di accertamento n…”) in cui spiegate i fatti e allegate la documentazione probante. L’autotutela non sospende i termini di ricorso né quelli di pagamento: quindi va utilizzata con cautela. È consigliabile presentarla il prima possibile dopo aver ricevuto l’atto, in modo da (si spera) ottenere un riscontro prima della scadenza dei 60 giorni per il ricorso. Se l’ufficio vi convoca o risponde positivamente, bene. Ma se il termine di ricorso si avvicina e non avete esito, dovete comunque presentare ricorso per non perdere il diritto – l’autotutela può proseguire parallelamente. A volte l’ufficio risponde oltre i 60 giorni, magari annullando l’atto: in tal caso, se avete già depositato il ricorso, la causa si chiude per cessata materia del contendere. Se invece non avete presentato ricorso e l’ufficio non fa nulla, dopo 60 giorni l’atto diventa definitivo e non più impugnabile: quindi attenzione a non farvi sedurre dall’attesa dell’autotutela trascurando la difesa “formale”.

In sintesi: l’istanza di autotutela è utile per errori manifesti e casi di equità, e va vista come una carta in più da giocare, ma mai in sostituzione del ricorso se il caso lo richiede. Nel nostro contesto, è auspicabile se scoprite, ad esempio, che l’anomalia segnalata dallo spesometro era frutto di un errore di comunicazione (codice fiscale sbagliato) o di un duplicato. Sono cose che capitano: un fornitore può aver erroneamente attribuito una fattura a vostra P.IVA anziché a un’altra, facendovi risultare un acquisto mai fatto. Con l’autotutela, fornendo la prova (dichiarazione del fornitore sull’errore, ecc.), risolvete. Se l’accertamento invece è più complesso (non un mero errore), l’autotutela difficilmente porterà all’annullamento totale, ma può comunque spingere l’ufficio a rinegoziare (magari trasformare l’atto in invito a adesione, ecc.).

Ricordate: mai pagare senza approfondire se ritenete l’accusa infondata. Molti contribuenti, intimoriti, saldano per chiudere la questione. Ma se siete convinti delle vostre ragioni e avete prove, l’autotutela e gli strumenti deflativi vi offrono vie per risolvere senza pagare il non dovuto.

Accertamento con adesione: negoziare con l’ufficio per ridurre la pretesa

L’accertamento con adesione (disciplinato dal D.Lgs. 218/1997) è uno strumento che consente al contribuente e all’ente impositore di raggiungere un accordo sull’accertamento, evitando il contenzioso. In pratica, è una trattativa: il Fisco rivede (di solito al ribasso) le proprie richieste, il contribuente rinuncia a impugnare e paga quanto concordato, beneficiando di sanzioni ridotte.

Nel contesto di un accertamento da spesometro, l’adesione può essere molto utile nei casi in cui il contribuente riconosce in parte la fondatezza dell’accertamento ma vuole mitigare gli effetti. Ad esempio, supponiamo che un’azienda effettivamente abbia omesso di dichiarare alcuni ricavi (scoperti dallo spesometro), ma contesti l’importo (magari il Fisco presume 100 ma il contribuente ritiene che correttamente sarebbero 60 perché 40 erano già tassati altrove). Oppure immaginiamo un privato che, a fronte di un redditometro di +80k, riesce a giustificare solo 50k di differenza, e sarebbe disposto a riconoscere 30k di maggior reddito. L’adesione è il tavolo in cui trovare un punto d’incontro.

Come si attiva? Ci sono due modalità:

  • Su iniziativa del contribuente dopo la notifica dell’avviso di accertamento: avete ricevuto l’atto, mancano (ad es.) 60 giorni per fare ricorso. Potete presentare istanza di accertamento con adesione all’ufficio competente (indicando gli estremi dell’atto e chiedendo di avviare la procedura). Presentando quest’istanza, i termini per fare ricorso sono sospesi per 90 giorni da quella data, per dare tempo alle parti di discutere. Verrete convocati per un incontro (o più di uno) con i funzionari, e si discuterà sul merito della questione. Se si raggiunge un accordo, viene formalizzato in un atto di adesione con le nuove somme dovute. Se non si raggiunge, a fine 90 giorni riparte il termine e potrete comunque presentare ricorso entro i successivi (i giorni rimanenti + quelli sospesi).
  • Su invito dell’ufficio prima della notifica dell’avviso: talvolta, l’Agenzia stessa invia un invito a comparire per definizione (art. 5 D.Lgs. 218/97) in cui propone una bozza di accertamento e invita all’adesione ancor prima di emettere formalmente l’atto. Questo accade spesso quando l’ufficio ritiene probabile un accordo o vuole velocizzare. Se ricevete un invito del genere, partecipate alla discussione: se non aderite, l’ufficio poi emetterà l’avviso, ma intanto avete guadagnato info utili.

Vantaggi dell’adesione: In caso di accordo, le sanzioni sono ridotte a 1/3 del minimo previsto (in genere, per infedele dichiarazione la sanzione ordinaria è dal 90% al 180% della maggiore imposta; col patteggiamento scende al 30% circa) e non si applicano quelle accessorie (es. niente segnalazione penale se sotto soglia, se sopra soglia la riduzione sanzioni amministrative non influisce sul penale però). Inoltre, la definizione in adesione chiude ogni questione per quel periodo e materia: non ci sarà contenzioso su quell’atto. L’adesione consente anche di rateizzare il dovuto (fino a 8 rate trimestrali, o 16 se importo alto). Attenzione: bisogna pagare la prima rata (o unica soluzione) entro 20 giorni dalla firma dell’accordo, pena il salto e la riattivazione dell’accertamento originale.

Nel nostro caso, quali margini di negoziazione ci sono? Dipende dalle prove che avete già portato. Se in contraddittorio avete convinto l’ufficio in parte, magari in adesione riconosceranno quella parte. Ad esempio, su 10 fatture contestate, ne provate regolari 6: l’ufficio potrebbe togliere quelle e lasciarne 4 da rideterminare. Oppure, nel redditometro: magari accettano alcune giustificazioni e riducono il reddito accertato. In adesione spesso si discute anche di quantificazione: il contribuente può far valere, ad esempio, costi deducibili che l’ufficio non aveva calcolato (es: “Ok, ho incassato 50k in nero, ma per realizzarli ho avuto 20k costi: tassiamene 30k”). Non è garantito, ma c’è spazio di trattativa, specie se l’ufficio preferisce incassare subito evitando l’incertezza del giudizio.

Quando conviene aderire? Se avete delle fragilità nella vostra posizione e le vostre controprove non sono schiaccianti, l’adesione conviene perché: riduce sanzioni, dà certezza e chiude presto la faccenda. Se invece siete convinti di avere ragione al 100% e avete prove solide, potreste preferire andare in giudizio e puntare all’annullamento totale. A volte l’adesione è utile anche solo per guadagnare tempo (ricordiamo la sospensione di 90 giorni, che di fatto allunga il termine per ricorrere e, soprattutto, impedisce all’ufficio di iscrivere a ruolo provvisoriamente le somme). Durante la pendenza di un’istanza di adesione, infatti, l’accertamento non diventa esecutivo. Se poi non c’è accordo, avete comunque avuto più tempo per preparare il ricorso.

In pratica, molti contribuenti presentano istanza di adesione quasi “di prassi” quando ricevono un accertamento, per gestire con più calma la situazione. Anche se poi non aderiscono, male non fa. L’unico scenario in cui è sconsigliabile è se si è vicini a decadenza e l’ufficio può usare la vostra istanza per far slittare i termini di notifica – ma questo riguarda di solito l’invito fatto dall’ufficio, non l’istanza del contribuente dopo notifica.

In conclusione, l’accertamento con adesione è uno strumento amichevole: sedersi attorno a un tavolo col Fisco può sembrare strano, ma spesso porta a soluzioni di compromesso accettabili, specie in materie complesse come le presunzioni da spesometro. Ricordate solo che, firmando l’adesione, rinunciate al ricorso: quindi, valutate attentamente (magari con un consulente) se l’offerta è equa.

Di seguito, una tabella riepilogativa dei principali strumenti difensivi con le loro caratteristiche:

Strumento difensivoQuando si attivaEffettiNormativa
Contraddittorio preventivoPrima dell’emissione dell’accertamento (obbligatorio dal 2024 per quasi tutti gli atti)Consente di fornire spiegazioni e produrre prove all’ufficio; l’atto deve tenere conto delle osservazioni, pena annullabilità.L. 212/2000 art. 6-bis (dal 2024); art. 5-ter D.Lgs. 218/97 (dal 2019); art. 38 co.7 DPR 600/73 (redditometro).
AutotutelaDopo l’emissione dell’atto (prima o dopo ricorso)L’ufficio può annullare o rettificare l’atto d’ufficio se riconosce errori palesi o ragioni di equità. Non sospende termini di ricorso.L. 212/2000 (Principi generali); DM 37/1997.
Accertamento con adesioneDopo notifica dell’atto (istanza entro 60 gg) o su invito dell’ufficio prima dell’attoSi negozia con l’ufficio: se accordo, atto definito con riduzione sanzioni a 1/3. Sospende il termine di ricorso per 90 gg. Rateizzabile.D.Lgs. 218/1997, artt. 5-7.
Reclamo/MediazioneEntro 60 gg da notifica per atti ≤ €50.000 (valore)Si presenta ricorso/reclamo alla stessa Agenzia: per 90 gg la causa non va in giudizio e l’ufficio può accogliere/rettificare l’atto (sanzioni ridotte del 35% se mediazione conclusa). Se nulla di fatto, il reclamo vale come ricorso.D.Lgs. 546/1992 art. 17-bis (valore soglia €50k).
Ricorso giurisdizionaleEntro 60 gg (o 150 gg se adesione, o 30 gg se med. fallita) dalla notificaSi avvia il processo tributario davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di 1° grado (ex CTP). L’atto è impugnato per motivi di merito e legittimità. Si possono chiedere sospensione dell’esecuzione (inibitoria).D.Lgs. 546/1992 e succ. mod.; DLgs 149/2022 (riforma giustizia trib.).
Conciliazione giudizialeDurante il processo (in 1° grado o appello)Con accordo tra contribuente e ufficio si chiude la lite con reciproche concessioni. Sanzioni ridotte al 40% (1° grado) o 50% (appello) del minimo.D.Lgs. 546/1992 art. 48 e 48-bis.
Ricorsi successivi (Appello, Cassazione)Entro 60 gg dalla sentenza sfavorevole (appello) e poi 60 gg da sentenza appello (Cass.)Possibili gradi di giudizio per far valere errori in primo grado (fatti o diritto) e in secondo grado (solo diritto in Cass.).D.Lgs. 546/1992 (appello); art. 360 c.p.c. (Cassazione).

N.B.: I termini indicati sono quelli generali, al netto di sospensioni COVID o proroghe straordinarie intervenute (es. L. 197/2022 ha previsto sospensioni di impugnazioni per 11 mesi in certi casi). I valori si riferiscono all’importo di imposte contestate, esclusi interessi e sanzioni, per la soglia di mediazione.

Come si vede, il ventaglio di strumenti è ampio. In un accertamento da spesometro, spesso i più rilevanti (oltre al contraddittorio iniziale e all’eventuale adesione) saranno il reclamo/mediazione e il ricorso. Approfondiamo brevemente questi passaggi finali.

Il reclamo-mediazione e il ricorso alle Corti di giustizia tributaria

Se non si è definito l’atto tramite adesione, e l’ufficio non lo annulla in autotutela, l’ultima parola spetta alle Corti di giustizia tributaria (nuova denominazione delle Commissioni Tributarie, dal 2023). Il procedimento prevede:

  • Per gli atti di valore fino a €50.000: è obbligatorio presentare un reclamo con richiesta di mediazione all’ufficio che ha emesso l’atto, entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento. In pratica, si predispone un normale ricorso ma lo si indirizza all’Agenzia delle Entrate, evidenziando che è anche istanza di mediazione. Si espongono i motivi di fatto e diritto per cui l’accertamento è errato. Da qui, decorre un termine di 90 giorni durante il quale l’Agenzia (non la stessa direzione che ha emesso l’atto, ma l’organo superiore o un ufficio legale dedicato) esamina il reclamo. Può succedere che l’ufficio accetti in tutto o in parte: ad esempio, potrebbe proporre una mediazione riducendo le somme, o annullando l’atto se vede che il contribuente ha ragione (in casi lampanti). Se il contribuente accetta la proposta di mediazione, la lite si chiude con un accordo e sanzioni ridotte al 35% (ulteriore bonus rispetto a conciliazione e adesione). Se invece passano 90 giorni senza intesa, il reclamo si “trasforma” automaticamente in ricorso e la causa prosegue davanti al giudice. La mediazione è un’ottima occasione: i dati dicono che molte controversie si chiudono positivamente per il contribuente in questa fase, spesso con sconti significativi o annullamenti parziali. Nel contesto spesometro, se ad esempio avete portato nuove prove nel reclamo, l’ufficio potrebbe decidere di evitare la causa aderendo in parte alle vostre tesi.
  • Per atti sopra €50.000 (o per qualunque atto dopo l’eventuale fase di mediazione infruttuosa): si deposita il ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (provinciale). Il ricorso va notificato entro 60 giorni (salvo sospensioni/adesioni) e poi depositato. Inizia così il processo tributario, con scambio di memorie, udienza (spesso scritta, a volte orale su richiesta). In giudizio, potrete far valere tutti i motivi di illegittimità (vizi procedurali: es. contraddittorio omesso, motivazione insufficiente, notifica invalida, ecc.) e di infondatezza nel merito (es: i dati spesometro sono stati interpretati male, le presunzioni non reggono di fronte alle prove, ecc.). Davanti al giudice tributario, conteranno moltissimo i documenti che avrete prodotto (in allegato al ricorso e in eventuali memorie integrative). Come accennato, oggi c’è anche la possibilità di chiedere di escutere testimoni in forma scritta, ma è ancora materia in evoluzione e limitata. Quindi, concentratevi sul mettere agli atti tutto il necessario.

Durante il processo, l’atto impugnato è sospeso? No, non automaticamente. L’accertamento esecutivo implica che, decorsi 60 giorni dalla notifica, l’Agenzia può iscrivere a ruolo una parte delle somme (in genere il 50% delle imposte accertate + interessi, e le sanzioni ridotte a 1/3 per il momento). Ciò significa che potreste ricevere già una cartella di pagamento per quella parte, anche se avete fatto ricorso. Per evitare effetti esecutivi, la legge prevede la possibilità di chiedere sospensione: potete fare istanza alla stessa Agenzia (che raramente la concede) oppure, meglio, presentare un’istanza di sospensione dell’esecuzione al giudice tributario insieme al ricorso. Dovrete dimostrare che il pagamento immediato vi arreca danno grave e irreparabile e che il ricorso ha fumus boni iuris (motivi non pretestuosi). Spesso, in presenza di importi elevati rispetto al patrimonio del contribuente, i giudici tributari concedono la sospensione fino alla decisione di primo grado, soprattutto se il ricorso non è infondato. Questo vi mette al riparo da pignoramenti o esecuzioni in attesa del verdetto. Nel contesto di un accertamento da spesometro, data l’incertezza di questi casi, ottenere la sospensiva è abbastanza comune se l’importo è significativo.

Infine, si arriva alla sentenza di primo grado. Se l’esito è favorevole al contribuente (accoglimento totale o parziale del ricorso), l’atto viene annullato (o ridotto) e, salvo appello dell’Agenzia, la questione è risolta. Se invece la decisione è sfavorevole, il contribuente può proporre appello entro 60 giorni alla CGT di secondo grado (regionale). L’appello è un riesame completo del caso, dove si possono portare nuovi documenti solo in certe condizioni (conviene quindi aver già prodotto tutto prima). Nel frattempo, la riscossione è condizionata: dopo la sentenza di primo grado, se sfavorevole al contribuente, l’Agenzia può riscuotere fino a 2/3 del dovuto (scomputando già l’eventuale 1/3 pagato); se anche in appello perde il contribuente, può riscuotere il resto. Anche in appello è possibile chiedere sospensione della sentenza di primo grado (se questa comporta pagamento).

L’ultimo grado è la Corte di Cassazione, a cui si può ricorrere per motivi di diritto dopo la sentenza d’appello. In Cassazione si discute solo di eventuali errori di legge o vizi di motivazione della sentenza di secondo grado, non di fatti. Quindi è un livello più astratto. Arrivarci per un accertamento da spesometro è possibile se ci sono questioni di principio (es: l’obbligo di contraddittorio, l’interpretazione di una presunzione). Altrimenti, spesso le liti si chiudono prima, anche con conciliazioni.

La conciliazione giudiziale e le definizioni agevolate

Anche una volta in giudizio, c’è sempre la possibilità di accordarsi con l’Agenzia, attraverso la conciliazione in udienza. Ad esempio, a ridosso dell’udienza, le parti – valutati i punti di forza e debolezza del caso – possono concordare una soluzione di mezzo: il contribuente riconosce una parte, l’ufficio rinuncia a una parte. Si redige un verbale di conciliazione, la commissione lo recepisce con decreto. I vantaggi per il contribuente sono analoghi (anche un po’ migliori) rispetto all’adesione: sanzioni ridotte al 40% del minimo in caso di conciliazione in primo grado (50% in appello), e possibilità di rateazione. Inoltre, se conciliate in appello, la sanzione aggiuntiva per il rigetto dell’appello (di solito il 50% del tributo a carico della parte soccombente) non si applica.

Conviene conciliare? Dipende sempre dal merito. Sicuramente, se il giudice in udienza lascia intendere un esito incerto, la conciliazione evita il rischio totale. Negli ultimi anni il legislatore ha anche offerto varie definizioni agevolate (condoni, rottamazioni delle liti): ad esempio, nel 2023 era prevista la possibilità di chiudere le liti pendenti pagando una percentuale del valore in base al grado e all’esito (Legge 197/2022). Queste sono opportunità straordinarie che vanno valutate caso per caso.

In un’ottica generale, la strategia difensiva ottimale in un accertamento da spesometro sarebbe: prevenire quando possibile, aderire o mediare se conviene, e se si va in giudizio, presentare un caso documentato e solido. Il contribuente, soprattutto se assistito da un professionista esperto, ha buone chance di successo quando la pretesa è effettivamente infondata o eccessiva. Abbiamo visto esempi di vittorie in Cassazione e in CTR grazie a difese ben costruite. D’altra parte, se l’ufficio in contraddittorio smonta le giustificazioni, insistere in giudizio può portare a sconfitta e aggravio di spese.

Nei prossimi paragrafi proporremo alcune simulazioni pratiche per illustrare meglio l’applicazione concreta di queste tattiche e l’evoluzione possibile di un caso reale dal momento dell’accertamento fino alla sua definizione.

Esempi pratici di contestazione di un accertamento da Spesometro

Per rendere più concreti i concetti esposti, presentiamo ora alcuni casi pratici simulati, ispirati a situazioni reali, che mostrano come può evolvere un accertamento basato sui dati dello spesometro e quali difese risultano efficaci.

Esempio 1: Impresa con fatture non allineate temporalmente

Scenario: La Ditta Tessile XYZ (s.n.c. a ristretta base) riceve a settembre 2020 un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2013. L’Agenzia delle Entrate contesta maggiori ricavi non dichiarati per €190.854. La motivazione dell’atto spiega che dall’incrocio dei dati (spesometro integrato) è emerso che alcuni clienti (D.G. Srl e P. Spa) hanno comunicato acquisti da XYZ per un importo totale superiore di quasi 190k rispetto a quanto la XYZ ha dichiarato come vendite in quello stesso anno. In particolare, si tratta di una serie di fatture che i clienti hanno registrato nel 2013, ma che – afferma la XYZ – erano state emesse da XYZ a fine 2012 e conteggiate nei ricavi 2012. L’accertamento è stato emesso come analitico-induttivo ex art. 39 DPR 600/73.

Azione del contribuente: Già in sede di contraddittorio (2019) la società XYZ, tramite il suo consulente, aveva prodotto copia delle fatture contestate, evidenziando le date (dicembre 2012) e sostenendo che i clienti le avevano contabilizzate in ritardo. Aveva anche esibito i registri IVA vendite 2012 e 2013 per mostrare che le operazioni in questione figuravano nel registro 2012. La Commissione Tributaria Provinciale, adita in ricorso, aveva dato ragione alla XYZ, annullando l’accertamento: la CTP Avellino ritenne provato che lo scostamento era solo frutto del “naturale sfasamento temporale delle operazioni” e delle regole dello spesometro, come sostenuto dalla società.

Sviluppi: L’Ufficio però fece appello. La CTR Campania, nel 2022, ribaltò la decisione sostenendo che la società non aveva fornito prova adeguata delle sue affermazioni, in quanto – a dire della CTR – non risultava nei documenti processuali l’effettiva produzione dei registri del 2012 con quelle fatture. In altre parole, pare che vi sia stato un problema probatorio/documentale: o la società non aveva depositato formalmente quei registri in appello, o la CTR non li ha considerati. La società, a quel punto, ha presentato ricorso per revocazione (una impugnazione straordinaria lamentando errore di fatto, poiché la CTR avrebbe “dimenticato” le prove dei registri già depositate). Tuttavia, questo ricorso per revocazione è stato respinto dalla CGT Campania nel 2023, e la società si è infine rivolta in Cassazione (ricorso del 22/10/2021).

Esito finale: La Cassazione, con l’ordinanza n. 12748 del 13 maggio 2025, non è entrata nel merito della questione fatture, ma ha dichiarato inammissibile il ricorso per tardività. Infatti, nel frattempo erano intercorsi termini e sospensioni (anche causa pandemia) e la notifica del ricorso è stata considerata fuori tempo massimo. Pertanto, la vicenda processuale si è chiusa con un nulla di fatto per motivi procedurali.

Morale e strategie: Questo esempio evidenzia diversi punti: (a) le tempistiche lunghe – un accertamento 2013 arrivato nel 2020 si è concluso in Cassazione nel 2025, con in mezzo anche la parentesi COVID che ha complicato termini; (b) l’importanza di formalizzare le prove – la società aveva ragione nel merito (fatture di fine anno) e inizialmente ha vinto mostrando i registri, ma in appello ha perso perché quei documenti non erano stati considerati come prodotti (forse una svista, ma fatale); (c) i rischi di cavilli procedurali – il ricorso è stato chiuso per tardività, ricordando che rispettare i termini è essenziale. Dal punto di vista difensivo, la strategia vincente c’era: dimostrare il timing differente dei ricavi. Tuttavia, bisogna assicurarsi che tutte le prove siano agli atti in ogni grado. Se l’azienda avesse, ad esempio, concordato in adesione col Fisco in una fase iniziale (riconoscendo magari solo una minima parte se vi era incertezza su qualche fattura), avrebbe chiuso prima e con meno spese; ma confidando nella piena ragione, ha lottato fino alla Cassazione. Purtroppo la vittoria di primo grado non è stata cementata in appello per questioni formali. In casi del genere, una lezione è: se si ha una prova chiave (come i registri 2012 con le fatture di dicembre), è opportuno farla attestare a verbale nel contraddittorio, ribadirla in ogni memoria difensiva e magari far sottoscrivere ai clienti una dichiarazione confermando che quelle fatture le hanno contabilizzate l’anno dopo. Una dichiarazione di terzo, aggiuntiva, avrebbe potuto rafforzare il quadro (sebbene i clienti potessero essere restii).

In sintesi, la difesa tecnica (temporalità) era corretta e infatti la CTP l’aveva accolta. Questo ci rassicura: se un accertamento spesometro colpisce ricavi già tassati in altro periodo, i giudici sono ricettivi alla spiegazione. Ma bisogna fare attenzione a preservare quella difesa lungo tutto l’iter.

Esempio 2: Accertamento sintetico vs redditi diversi (vittoria del contribuente)

Scenario: La Sig.ra Rossi, contribuente individuale, riceve nel 2019 un avviso di accertamento sintetico per l’anno d’imposta 2015. L’atto, in base ai dati di spesa rilevati (acquisto auto di lusso, ristrutturazione casa, spese per scuole private dei figli), ridetermina il suo reddito in €150.000 contro i €30.000 dichiarati, contestando dunque €120.000 di maggior reddito non dichiarato. L’ufficio invoca l’art. 38 DPR 600/73, allega un prospetto con le spese identificate e applica la presunzione legale relativa all’epoca vigente (scostamento >20% per due anni, in effetti anche il 2016 della sig.ra aveva spese elevate).

La Sig.ra Rossi, a seguito dell’invito al contraddittorio, fornisce delle spiegazioni: dichiara che una parte ingente delle spese deriva da una donazione di €100.000 ricevuta dal padre nel 2015 (denaro esente, proveniente dalla vendita di un immobile del padre) e utilizzata per la ristrutturazione e l’auto; aggiunge che €20.000 erano coperti da risparmi accumulati negli anni precedenti su un conto depositi, e il resto da qualche entrata straordinaria esente (una polizza assicurativa liquidata). Allega documenti: l’atto di donazione registrato, gli estratti conto del padre e suoi che mostrano il trasferimento, un estratto conto cointestato con il marito con saldo inizio 2015 di €30.000 poi calato a €10.000 (a riprova di €20k spesi attingendo a risparmi), e la quietanza dell’assicurazione per €10.000.

L’Agenzia, nel verbale di contraddittorio, prende atto ma ritiene che le prove non coprano tutto (alcuni prelievi non erano completamente tracciabili). Emette comunque l’accertamento, magari riducendo la pretesa a €80.000 di redditi non dichiarati (riconoscendo parzialmente la donazione, ad esempio solo €60k, disconoscendo il resto per mancanza di prova a suo avviso sufficiente).

Azione del contribuente: La Sig.ra Rossi impugna l’atto in Commissione Tributaria. Nel ricorso, argomenta che l’ufficio ha violato il principio di capacità contributiva e onere della prova, perché lei ha fornito spiegazioni concrete su come ha finanziato le spese: donazione paterna (documentata), risparmi pregressi (documentati) e indennizzo assicurativo (documentato). Sostiene che, al netto di queste somme, non restano spese prive di copertura. Evidenzia che l’Agenzia ha erroneamente ignorato parte delle evidenze (es. ha ritenuto non provati €40k di donazione che invece erano chiarissimi in atto pubblico). La difesa include anche una dichiarazione giurata del padre che conferma di aver donato €100k alla figlia.

Esito: La Commissione Tributaria Regionale del Veneto (per ipotesi) nel 2020 accoglie in pieno il ricorso della Sig.ra Rossi, annullando l’accertamento sintetico. Nella motivazione, la CTR scrive – similmente al caso reale citato prima – che le giustificazioni offerte dalla contribuente risultano fondate e pienamente convincenti, e che l’ufficio non ha adeguatamente considerato gli elementi aggiuntivi forniti, insistendo in modo stereotipato sulla presunzione. In particolare, la CTR rileva che una donazione documentata costituisce prova diretta di disponibilità di mezzi leciti, che i risparmi risultano da movimentazione bancaria, e che l’indennizzo assicurativo è attestato: tutte fonti di finanziamento che non dovevano essere attribuite a nuovo reddito. Pertanto la presunzione del Fisco viene ritenuta vinta dalla prova contraria della contribuente.

L’Agenzia delle Entrate valuta se appellare ma, essendo la motivazione molto dettagliata e non ravvisando vizi di legittimità, decide di non proporre appello (anche per evitare un probabile esito sfavorevole in Cassazione). L’accertamento diventa definitivo annullato.

Morale e strategie: Questo esempio rappresenta un tipico caso di redditometro vinto dal contribuente grazie a una difesa ben documentata. Le strategie vincenti qui sono state: presentare fin da subito tutte le prove al contraddittorio; in sede contenziosa, argomentare puntualmente la destinazione di ogni euro speso; fornire anche una dichiarazione di terzo (il padre donante) a conferma – elemento che, sebbene non “prova” in senso giuridico classico, ha valore indiziario rafforzativo. La CTR premia l’approccio analitico della contribuente e rimprovera l’ufficio di non aver svolto un’analisi sostanziale. Questo rispecchia fedelmente l’orientamento di molte decisioni di merito e di Cassazione: quando il contribuente documenta altre fonti di reddito o di liquidità, l’accertamento sintetico non regge.

Dal punto di vista pratico, la Sig.ra Rossi avrebbe potuto anche tentare un accordo in adesione se l’ufficio fosse stato disponibile a riconoscere almeno una parte delle sue prove (es. magari pagare su 20k non giustificati e chiudere). Ma ritenendo (a ragione) di avere coperto tutto, ha optato per il ricorso e ha vinto tutto. Questo comporta ovviamente tempi più lunghi, ma anche risparmio totale. D’altro canto, aveva chiesto e ottenuto sospensiva, quindi non ha pagato nulla in pendenza di giudizio.

In sintesi: difendere un accertamento da spesometro di tipo redditometrico è possibile e fruttuoso se si riesce a spiegare le spese con fonti esenti o anni precedenti. Le prove tracciabili (bonifici, atti) sono determinanti. Le prove orali (dichiarazioni) possono integrare. La coerenza del racconto (nessuna contraddizione, importi che tornano esattamente) dà al giudice gli strumenti per decidere in favore del contribuente, come in questo esempio.

Esempio 3: Piccola impresa, errore riconosciuto e definizione in adesione

Scenario: Alfa Sas, piccolo negozio di elettronica, presenta nel 2025 dichiarazione IVA e redditi 2024 con un volume d’affari di €200.000. Nel 2026 l’Agenzia la contatta segnalando che dal Sistema Fatture Elettroniche (erede dello spesometro) risulta che Alfa nel 2024 ha emesso fatture per €220.000: c’è quindi una differenza di €20.000 di vendite non dichiarate. Alfa verifica e scopre l’arcano: un paio di fatture di dicembre 2024 erano state registrate per errore due volte nel 2024 nel gestionale (dunque nel totale fatture elettroniche risultano doppie), ma poi nella liquidazione IVA di dicembre l’intermediario se n’era accorto e aveva dichiarato l’importo giusto (evitando di pagare IVA doppia). Insomma, c’è un disallineamento tecnico: il database AdE vede €220k (conteggiando due volte quelle due fatture), ma il reale era €200k come dichiarato. Alfa purtroppo, quando fu tempo di spesometro a febbraio 2025, non ha più mandato nulla (non esiste lo spesometro) e non ha pensato a segnalare l’errore.

L’Agenzia, non convinta dalle prime spiegazioni telefoniche, emette un avviso di accertamento parziale per il 2024 imputando i €20.000 come ricavi non dichiarati, con IVA dovuta e relative sanzioni (oltre a IRPEF sui maggiori ricavi per i soci).

Azione del contribuente: Appena ricevuto l’atto (importo non enorme, supponiamo €4.000 di IVA + €2.000 IRPEF + sanzioni 90% e interessi), Alfa tramite il suo consulente fiscale presenta istanza di accertamento con adesione all’ufficio. Nella memoria inviata con l’istanza, dettaglia l’errore informatico: allega le due fatture “incriminate”, dimostra che hanno lo stesso numero duplicato nel file fatture elettroniche perché erroneamente trasmesse due volte. Fa notare che comunque l’IVA versata coincide col dichiarato 200k, segno che erano consapevoli del corretto dovuto. Sostiene dunque l’infondatezza completa dell’accertamento.

All’incontro di adesione, l’ufficio esamina la documentazione e riconosce l’errore: in effetti trova nei suoi sistemi che quelle due fatture erano state oggetto di un invio duplicato (il Sistema SdI a volte accetta duplicati se trasmessi in date diverse senza segnalare errore, può succedere). Pertanto, propone di annullare l’accertamento in autotutela. Tuttavia, essendo già un atto emesso, formalmente l’ufficio preferisce redigere un atto di adesione “nulla da accertare”, cioè chiudono la pratica con adesione a €0 di maggior imponibile, come forma di autotutela concordata.

Alfa firma l’adesione, non deve pagare nulla (se non eventualmente le spese vive di istruttoria, ma di fatto zero) e l’atto si intende annullato.

Morale e strategie: Questo esempio evidenzia un caso di errore palese risolto grazie alla collaborazione. Punti chiave: Alfa ha reagito subito (non ha aspettato la scadenza ricorso ma ha attivato adesione), ha fornito all’ufficio la chiave di lettura dell’anomalia con prove chiare (log di trasmissione o screenshot del gestionale). L’ufficio, una volta convinto, ha intelligentemente preferito chiudere la vicenda in adesione/autotutela, evitando un contenzioso inutile.

Se l’ufficio fosse stato poco disponibile, Alfa avrebbe comunque potuto fare ricorso e avrebbe certamente vinto: duplicazioni di fatture sono facilmente dimostrabili. Ma la soluzione in adesione è più rapida (tutto risolto in pochi mesi, senza tribunale) e meno costosa (niente spese legali, se non quelle del consulente).

Lezione: Quando un accertamento da spesometro (o succedaneo) deriva da un evidente errore tecnico, la strada migliore è raccogliere tutte le evidenze, contattare l’ufficio (anche informalmente) e proporre soluzione. Molte volte, l’Agenzia è ragionevole in questi casi, soprattutto se l’errore è comprensibile. Se invece l’ufficio fosse stato sordo, non esitare a ricorrere: con quelle prove, oltre all’annullamento, Alfa avrebbe potuto chiedere anche le spese di giudizio. In adesione invece ognuno ha sopportato le proprie spese, ma considerando l’importo, va bene così.

Esempio 4: Mancato contraddittorio e nullità dell’atto

Scenario: Il Sig. Verdi, agente di commercio, riceve in data 10 maggio 2024 un avviso di accertamento per l’anno 2019, in cui si contestano €50.000 di redditi non dichiarati sulla base di movimenti bancari sospetti incrociati con spese da spesometro. Supponiamo che l’ufficio, per fretta di notificare entro fine maggio (pensando alla scadenza decadenza 31/12/2024, ma con contraddittorio obbligatorio dal 30/4/24), non abbia inviato alcun invito al contraddittorio prima di emettere l’atto.

Il Sig. Verdi, consultando il suo avvocato, individua subito questo profilo: l’art. 6-bis Statuto è entrato in vigore pochi giorni prima (30 aprile 2024), rendendo obbligatorio il contraddittorio per tutti gli atti impugnabili, salvo eccezioni specifiche. L’atto ricevuto non rientra tra le eccezioni (non è automatizzato puro, né c’è indicazione di urgenza). Dunque, potrebbe essere annullabile per difetto di contraddittorio.

Azione del contribuente: Nel predisporre il ricorso alla CGT, l’avvocato di Verdi solleva come primo motivo la violazione dell’art. 6-bis L.212/2000 e del diritto al contraddittorio, chiedendo l’annullamento integrale dell’atto per vizio procedurale. In subordine, contesta anche il merito (ha giustificazioni sui movimenti, ecc.), ma punta forte sul vizio. In effetti, l’ufficio nella motivazione non ha menzionato alcun invito (che non c’è stato) né ragioni di urgenza.

Esito: La Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado accoglie subito il ricorso del Sig. Verdi, pronunciando sentenza di annullamento dell’atto per vizio di legge. Rileva che, in base all’art. 6-bis, “tutti gli atti impugnabili devono essere preceduti da contraddittorio effettivo, a pena di annullabilità” e che nel caso in esame l’Amministrazione non ha nemmeno asserito di aver convocato il contribuente né indicato ragioni legittime per omettere il contraddittorio. Pertanto, dichiara l’atto annullato senza nemmeno entrare nel merito della pretesa (che potrà eventualmente essere oggetto di un nuovo avviso, se i termini lo permetteranno, previa attivazione del contraddittorio).

L’Agenzia delle Entrate valuta di appellare, ma la norma è chiara e preferisce non rischiare un precedente negativo in appello/Cassazione. Non appellando, la sentenza diviene definitiva e l’accertamento è nullo.

Morale e strategie: Questo scenario mostra l’importanza di conoscere i propri diritti procedurali. Il Sig. Verdi ha sfruttato una novità normativa (contraddittorio obbligatorio generalizzato) a suo vantaggio. Di fatto, ha vinto su un “cavillo” – anche se chiamarlo cavillo è riduttivo, trattandosi di un diritto di difesa fondamentale. La strategia è stata: individuare il vizio, metterlo in primissimo piano nel ricorso (in modo che il giudice potesse decidere su quello senza addentrarsi in questioni più complesse), e argomentare con i riferimenti normativi precisi. Naturalmente, questa difesa è possibile solo dove c’è effettivamente un vizio. Fosse stata, ad esempio, un accertamento notificato a marzo 2024 (prima dell’entrata in vigore dell’art. 6-bis), non avrebbe potuto invocare quella norma – al più, avrebbe potuto tentare di appellarsi a principi generali o alla giurisprudenza comunitaria (che però in materia di imposte dirette non garantiva il contraddittorio obbligatorio pre-2024).

La lezione generale: mai trascurare i profili formali. Un accertamento da spesometro può essere inficiato da vari vizi procedurali: notifica inesistente o tardiva, motivazione carente, mancato contraddittorio, ecc. Se individuati, spesso consentono di far cadere l’atto senza dover discutere sul merito (dove magari la posizione del contribuente è più debole). Attenzione però: dal 2024, essendo il contraddittorio obbligo di legge, l’ufficio cercherà di rispettarlo sempre; casi come quello del Sig. Verdi saranno probabilmente rari e frutto di errore di qualche sede periferica. Più frequenti potrebbero essere contestazioni su “contraddittorio fittizio” (non effettivo) o su mancata considerazione delle osservazioni (il comma 4 dell’art.6-bis impone di motivare sulle osservazioni del contribuente, e la loro omissione potrebbe essere un vizio). Quindi, in futuro vedremo probabilmente contenziosi su quanto è stato effettivo il contraddittorio. Ma il principio base è consolidato: il contraddittorio va fatto, e la sua mancanza può salvarvi.


Questi esempi pratici evidenziano come, a seconda delle situazioni, la difesa del contribuente può portare a esiti molto positivi: dalla riduzione dell’accertamento, all’annullamento totale, passando per accordi transattivi soddisfacenti. L’importante è agire con cognizione di causa, tempestività e con il supporto di consulenti esperti quando necessario.

Nel capitolo seguente forniremo una sezione di domande e risposte per riepilogare i dubbi più comuni e le relative risposte, alla luce di tutto quanto esposto.

Domande frequenti (FAQ)

D: Che cos’era lo spesometro e perché è stato abolito?
R: Lo spesometro era un obbligo di comunicazione periodica all’Agenzia delle Entrate di tutte le fatture emesse e ricevute dai titolari di partita IVA. Introdotto nel 2010, serviva a creare una banca dati per incrociare vendite e acquisti e individuare possibili evasori. È stato abolito dal 2019 perché l’Italia ha adottato la fatturazione elettronica obbligatoria, che rende automatica la trasmissione delle fatture al Fisco. In pratica, lo spesometro è divenuto superfluo: ogni fattura elettronica oggi viene già registrata nei sistemi dell’Agenzia, così come i corrispettivi telematici per i negozi. Contestualmente all’e-fattura, la legge (L. 205/2017) ha infatti abrogato la norma sullo spesometro dal 1° gennaio 2019. Oggi, al posto dello spesometro, restano altri adempimenti come la comunicazione delle operazioni transfrontaliere (esterometro, anch’esso però eliminato dal 2022 in favore di invio via SdI). In sintesi: lo spesometro è stato abolito per semplificazione, grazie all’evoluzione digitale che ha permesso al Fisco di ottenere gli stessi dati (anzi, più dettagliati) senza bisogno di una comunicazione separata.

D: Cosa si intende esattamente per “accertamento da spesometro”?
R: Si tratta di un avviso di accertamento fiscale (IVA, imposte sui redditi) che nasce dal confronto dei dati dichiarati dal contribuente con i dati risultanti dallo spesometro (o attuali comunicazioni fatture). In altre parole, quando il Fisco trova discrepanze tra ciò che un contribuente ha dichiarato e ciò che risulta dalle fatture comunicate (dai suoi clienti, fornitori, o dallo stesso tramite e-fatture), può presumere che ci siano ricavi non dichiarati o acquisti non giustificati e quindi rettificare la posizione fiscale. Esempi: un’azienda ha omesso di dichiarare vendite che però i clienti hanno registrato; un privato mostra spese troppo alte rispetto al reddito. L’accertamento “da spesometro” dunque è un accertamento basato su questi incroci di fatture/spese. Può assumere forma di accertamento analitico (es. aggiunta di fatture mancanti), induttivo (ricostruzione redditi in base a presunzioni) o sintetico (redditometro per le persone fisiche). Il comune denominatore è l’utilizzo dei dati dello spesometro come prova o indizio principale a fondamento della pretesa tributaria.

D: L’Agenzia delle Entrate può ancora fare accertamenti basati sullo spesometro nel 2025, dato che lo spesometro non c’è più?
R: Sì. Anche se lo spesometro in senso stretto è stato abolito, l’Agenzia delle Entrate oggi dispone dei dati delle fatture elettroniche e di altre comunicazioni (es. sistema tessera sanitaria per le spese mediche, anagrafe dei conti, ecc.) che forniscono lo stesso tipo di informazioni sulle transazioni. Di fatto, gli accertamenti che un tempo venivano avviati grazie allo spesometro continuano ora grazie ai flussi di fatturazione elettronica. Ad esempio, se un’azienda nel 2024 dichiara X ma dal sistema fatture elettroniche risulta X+Y, quell’Y “in più” non dichiarato farà scattare un accertamento. Possiamo chiamarlo “accertamento da incrocio fatture elettroniche”, ma la logica è identica allo spesometro. Inoltre, per gli anni passati in cui vigeva lo spesometro (fino al 2018) gli accertamenti possono ancora essere emessi entro i termini di decadenza (di norma 31/12/2025 per il 2018, considerando proroghe COVID). Quindi, anche nel 2025 un contribuente potrebbe ricevere un accertamento riferito a un anno precedente basato sui dati di allora. In sintesi, lo spesometro vive sotto altre forme e gli accertamenti basati sui suoi dati (o equivalenti) sono tuttora all’ordine del giorno.

D: Qual è la differenza tra spesometro e redditometro?
R: Lo spesometro era (ed è come concetto) uno strumento di raccolta dati: registra tutte le operazioni IVA, ovvero le spese e i ricavi documentati da fatture. Il redditometro è un metodo di accertamento (accertamento sintetico) che mira a ricostruire il reddito presunto di una persona in base al suo tenore di vita e alle spese sostenute. In pratica, i dati dello spesometro (spese effettive) sono uno degli input del redditometro. Ma mentre lo spesometro riguarda tutti i contribuenti IVA e fotografa le transazioni, il redditometro riguarda solo le persone fisiche e fa deduzioni sul reddito complessivo partendo dalle spese. Inoltre, il redditometro è normato (art. 38 DPR 600/73) e prevede soglie e contraddittorio, mentre lo spesometro era un adempimento amministrativo senza soglie (tutte le fatture). Possiamo dire così: lo spesometro misura le spese, il redditometro le interpreta. Oggi lo spesometro come tale non c’è più, ma i suoi eredi (e-fatture) alimentano comunque controlli sia analitici sia sintetici. Va chiarito che colloquialmente a volte “spesometro” veniva usato per indicare il redditometro, ma tecnicamente sono distinti. Ad esempio, un accertamento sintetico è spesso chiamato anche “accertamento spesometrico” perché si basa sulle spese, ma giuridicamente è un accertamento da redditometro. In conclusione: lo spesometro raccoglie dati di spesa, il redditometro li utilizza per stimare redditi non dichiarati.

D: Come posso difendermi se il Fisco sostiene che ho speso più di quanto guadagno (accertamento sintetico)?
R: In caso di accertamento sintetico (redditometrico), la legge ti consente di fornire prova contraria. Ciò significa che puoi (e devi) dimostrare che quelle spese anomale sono state finanziate con redditi che non dovevi dichiarare o con disponibilità lecite già tassate. Le difese tipiche sono: mostrare che hai usato risparmi accumulati negli anni precedenti, oppure che hai ricevuto una donazione o un aiuto familiare (denaro esente), oppure che hai venduto un bene di cui avevi disponibilità o ottenuto un prestito. Anche evidenziare che alcune spese sono state sostenute da terzi per te (es. casa pagata dai genitori) può aiutare. L’importante è portare documenti a supporto: estratti conto bancari che mostrano i risparmi pregressi o l’arrivo di una somma, atto di donazione, contratto di mutuo, ricevuta di prestito, ecc. Puoi anche produrre dichiarazioni scritte di chi ti ha eventualmente dato i soldi (es. una dichiarazione firmata da un familiare che attesti di averti sostenuto con tot euro). In sede di contraddittorio con l’Agenzia, spiega dettagliatamente ogni spesa contestata da dove proviene il denaro. Se le tue spiegazioni non vengono accolte e arriva l’avviso, riproponile nel ricorso al giudice tributario, allegando tutte le prove. I giudici tributari spesso accolgono il ricorso se vedono che il contribuente ha effettivamente dimostrato fonti alternative di finanziamento. Anche sottolineare eventuali errori del Fisco (per esempio se hanno conteggiato come tua una spesa che invece riguarda un’altra persona) fa parte della difesa. Infine, verifica la procedura: il redditometro prevede obbligatoriamente un invito a spiegare prima di emettere l’atto; se non ti è stato dato modo di spiegare, questo è un vizio. In breve: per difenderti da un redditometro devi ricostruire il puzzle dei tuoi soldi in quell’anno, mostrando che non c’è “reddito in nero” ma solo uso di soldi provenienti da fonti lecite non tassabili (o già tassate). Se la ricostruzione tiene, l’accertamento viene annullato.

D: Come posso contestare un accertamento basato sui dati delle fatture (es. ricavi non dichiarati secondo lo spesometro)?
R: Se ti contestano che, secondo i dati delle fatture, hai omesso di dichiarare ricavi o hai dichiarato meno di quanto risulta, la strategia è dimostrare che il dato grezzo è fuorviante o errato. Alcune linee di difesa:

  • Controlla se c’è un errore di periodo: magari le fatture contestate le hai dichiarate in un altro anno (ad esempio perché a cavallo d’anno). In tal caso, mostra la tua contabilità: esibisci i registri IVA e le dichiarazioni dell’altro anno per far vedere che quelle operazioni sono state conteggiate, solo che per competenza rientrano in un periodo diverso. Se porti questa prova, l’accertamento dev’essere annullato (non c’è evasione, solo uno sfasamento temporale).
  • Verifica duplicazioni o errori nei dati: a volte lo spesometro (o i dati fatture) può contenere duplicati o fatture intestate per sbaglio. Se, ad esempio, risulta una fattura a tuo carico che non è tua, procurati dichiarazione del fornitore che c’è stato errore, o se c’è un duplicato segnala la cosa. Nel caso di duplicati, l’Agenzia può verificarlo nei suoi sistemi e riconoscerlo.
  • Mostra documenti di storno o note di credito: se alcune fatture contestate in realtà sono state annullate (note di credito) o non pagate e quindi poi stornate, porta le evidenze. Spesso l’Agenzia ha solo il dato fattura iniziale, ma non sa che poi quella operazione è saltata: spetta a te farlo presente.
  • Dimostra la correttezza del dichiarato con la tua contabilità: porta il libro giornale, i registri IVA, le schede cliente/fornitore della tua azienda. Se da questi risulta che non c’è scostamento e che tutto torna (salvo errori appunto del sistema), quella è una prova a tuo favore. Ad esempio, nel caso in cui i clienti dichiarino più di quanto hai dichiarato tu, potresti mostrare che la differenza è dovuta a uno sconto o abbuono non considerato, ecc.
  • Obiezione su costi correlati: se proprio ci sono ricavi non dichiarati, verifica almeno che l’ufficio abbia tenuto conto dei costi di acquisto relativi. Non si può imputare 100 di ricavi evasi senza riconoscere che per farli hai speso magari 70. Se non l’hanno fatto, eccepisci che l’accertamento sopravvaluta il reddito. Alcune CTP hanno annullato atti perché l’ufficio non aveva quantificato i costi . Questo può portare almeno a una riduzione.
  • Chiedi il contraddittorio e sfruttalo: prima che l’atto sia emesso, se ti invitano a chiarimenti, presenta lì tutte queste difese. Se non ti invitano e emettono direttamente l’accertamento (ma oggi dovrebbero invitarti, essendo obbligatorio in molti casi), potrai farne un punto a tuo favore in giudizio (mancato contraddittorio).
  • In giudizio, valuta testimoni/terzi: se c’è un cliente o un fornitore chiave la cui dichiarazione potrebbe aiutare (es: un cliente che confermi che certe fatture erano di un altro anno, o un fornitore che confermi un errore), puoi portare una loro dichiarazione. Non è una prova legale forte come in un processo civile, ma i giudici la leggono e può convincerli. Dal 2023 c’è anche la testimonianza giurata possibile in taluni casi: potresti chiedere di allegare testimonianze scritte.

In breve: contesta la fondatezza della presunzione portando fatti concreti e documenti. Se lo scostamento è spiegabile, i giudici ti daranno ragione. Se invece davvero avevi omesso ricavi… in tal caso l’unica difesa è su aspetti procedurali (vizi) oppure cercare un accordo per ridurre danni (adesione). Ricorda di controllare la motivazione dell’atto: se l’ufficio si è limitato a dire “da spesometro risulta tot” senza dettagli, potresti lamentare motivazione insufficiente (anche se la Cassazione ha detto che basta il contenuto essenziale). Comunque hai diritto di conoscere gli elementi essenziali: se qualcosa non è chiaro, fallo presente.

D: Ho ricevuto un avviso di accertamento ma non ero stato avvisato prima: è valido l’atto?
R: Dipende. Dal 30 aprile 2024 vige la regola generale che ogni accertamento deve essere preceduto da un invito al contraddittorio, salvo pochi casi eccezionali. Quindi, se l’atto è stato emesso dopo tale data e non hai ricevuto nessun invito a fornire chiarimenti o avviso di accertamento “in bozza”, potrebbe esserci un vizio. In giudizio potresti far valere la violazione dell’obbligo di contraddittorio, chiedendo l’annullamento dell’atto. Tieni presente però che l’Agenzia spesso invia una “lettera di compliance” o un invito almeno 60 giorni prima: controlla di non averlo ricevuto (magari per PEC) e involontariamente trascurato. Se invece l’atto è precedente (ad esempio notificato nel 2023 o inizi 2024), la normativa vecchia prevedeva il contraddittorio obbligatorio solo in certi casi (redditometro, o per atti relativi a tributi armonizzati come IVA se non c’era urgenza, in base a giurisprudenza). Quindi fino ad aprile 2024 la mancanza di contraddittorio era contestabile ma non sempre dava annullamento automatico: andava dimostrato un pregiudizio alla difesa. Dal 2024, la legge lo qualifica espressamente come causa di annullabilità, quindi è più facile far valere la cosa. In sintesi: se non sei stato avvisato prima, segnalalo subito al tuo difensore. Se la norma lo richiedeva, quell’atto potrebbe essere nullo. Fa eccezione il caso in cui l’ufficio motivi l’assenza di contraddittorio con un “fondato pericolo per la riscossione” (ad esempio se stava scadendo il termine di decadenza e c’era rischio che non potessero riscuotere): ma è una giustificazione che devono scrivere nell’atto. Anche alcuni atti di liquidazione automatica o controllo formale (tipo rimborsi o avvisi ex art.36-bis DPR 600) sono esclusi dall’obbligo. Un accertamento basato su spesometro, comunque, di solito è un atto “ordinario” e quindi soggetto al contraddittorio. Quindi la risposta è: verifica la data e la tipologia. Se ritieni che dovevano sentirti prima e non l’hanno fatto, quel vizio è un ottimo motivo di ricorso.

D: Quanto tempo ho per fare ricorso contro un accertamento?
R: 60 giorni dalla data di notifica dell’avviso di accertamento. Entro questo termine (non prorogabile se cade in giorno festivo, attenzione) il ricorso deve essere quantomeno spedito/notificato all’ente impositore. Ci sono però situazioni che possono allungare questo termine:

  • Se presenti istanza di accertamento con adesione entro i 60 giorni, allora il termine per ricorrere si sospende per 90 giorni (a decorrere dalla data di presentazione dell’istanza). In pratica guadagni 90 giorni extra più quel che resta dei 60.
  • Se l’atto rientra in quelli con mediazione obbligatoria (valore fino a €50.000), devi comunque presentare il ricorso entro 60 giorni, ma poi la discussione vera in giudizio è sospesa 90 giorni per la mediazione. Se la mediazione fallisce, hai altri 30 giorni dopo i 90 per depositare il ricorso in tribunale (ma ormai l’avrai già depositato all’atto del reclamo).
  • Ci sono state proroghe straordinarie: ad esempio, le norme anti-Covid (L. 159/2020 e L. 176/2020) diedero sospensioni; più recentemente la L. 197/2022 (legge bilancio 2023) ha previsto l’“sospensione di 11 mesi” dei termini di impugnazione per i provvedimenti notificati entro il 2022. Ma queste sono misure occasionali. Al momento (2025) non ci sono sospensioni generali in corso.
  • Se la notifica dell’atto è avvenuta per posta, si considera dal giorno in cui l’hai ricevuto (se non ti trovavano e hai fatto compiuta giacenza, dal decimo giorno di giacenza). Se via PEC, dalla data di consegna nella tua casella PEC.

Attento: 60 giorni passano in fretta. Se pensi di fare ricorso, contatta subito un esperto e non aspettare l’ultimo momento. Un termine non rispettato rende l’atto definitivo e immodificabile. Dunque, salvo adesione (che sospende) o altre cause, segna sul calendario la scadenza 60 giorni. Se il 60° giorno cade di sabato o domenica, è prassi considerare valido il primo giorno lavorativo successivo (termine processuale), ma meglio non rischiare: mira a inviare entro il venerdì prima.

D: Se faccio ricorso, devo comunque pagare subito qualcosa?
R: Potresti dover pagare in parte, ma non necessariamente subito e ci sono modi per sospendere. Mi spiego: gli avvisi di accertamento emessi dal 1° ottobre 2011 sono esecutivi. Significa che, scaduti 60 giorni dalla notifica, l’Agenzia può già iscrivere a ruolo le somme accertate e avviare la riscossione senza attendere la fine del processo. Però c’è un limite: intanto possono chiedere circa metà delle imposte contestate (precisamente, il 50% delle maggiori imposte + il 50% dei contributi previdenziali eventualmente, e le sanzioni correlate ridotte a 1/3). L’altro 50% rimane sospeso in attesa del primo grado. Se poi il contribuente perde in primo grado, l’Agenzia può riscuotere ancora un 20% (arrivando al 70% in totale). E solo dopo l’esito definitivo prendere il restante 30%. Questo è il meccanismo di riscossione frazionata. Tradotto: se ti contestano €10.000 di tasse, dopo 60 giorni potrebbero chiedertene €5.000 (più interessi e un terzo di sanzioni). Il fatto di aver presentato ricorso non blocca automaticamente questa richiesta. Dunque può arrivarti una cartella di pagamento (o un affidamento all’esattore) per quella parte anche con ricorso pendente.

Come evitare di pagare durante il ricorso? Presentando un’istanza di sospensione. Puoi chiederla:

  • All’Agenzia delle Entrate stessa (istanza in via amministrativa): raramente la concedono, ma tentare non nuoce se hai motivi forti e situazione economica grave.
  • Al giudice tributario con l’istanza di sospensione giudiziale (da inserire nel ricorso o con atto separato ma contestuale al ricorso). Il giudice, se rileva che il pagamento ti arrecherebbe un danno grave e che il ricorso non è infondato (fumus boni iuris), può sospendere l’esecuzione dell’atto fino alla sentenza di primo grado. In pratica blocca la riscossione provvisoria.

Se il giudice concede la sospensiva, non dovrai pagare nulla finché non arriva la sentenza di primo grado (e poi si vedrà). Se non la concede, in teoria l’Agenzia potrebbe procedere a esigere quel 50%. In molti casi, l’Agenzia aspetta l’esito di primo grado per incassare (soprattutto se la causa è rapida e se il contribuente ha dimostrato collaborazione). Ma non contarci: legalmente, potrebbero procedere. Quindi, se niente sospensiva, valuta di versare almeno quella parte per evitare cartelle e aggiunte.

Tieni presente che presentare l’adesione sospende il termine di ricorso e anche l’esecutività finché non si chiude la procedura di adesione. Quindi a volte, chiedendo l’adesione, si guadagna tempo e di fatto si rinvia la riscossione provvisoria.

Riassumendo: fare ricorso non equivale a congelare tutto monetariamente. Ci vuole una sospensiva per stare tranquilli. Altrimenti preparati alla possibilità di dover versare circa metà. Se vinci poi in giudizio, ciò che hai pagato ti sarà restituito con interessi. Se perdi, avresti dovuto pagarlo comunque, ma almeno l’importo finale è già in parte saldato.

D: Quali sanzioni rischio con un accertamento da spesometro?
R: Le sanzioni amministrative seguono quelle previste per la violazione accertata. Nei casi comuni:

  • Se parliamo di maggiori imposte sui redditi o IVA per omessa/infedele dichiarazione, la sanzione è generalmente il 90% della maggiore imposta dovuta (per infedele dichiarazione). Può salire al 135% o 180% in circostanze aggravanti (importi evasi alti, etc.), ma diciamo 90% è base per infedele. Se invece addirittura non avevi presentato la dichiarazione (omissione), la sanzione sale al 120% – 240% dell’imposta evasa, con minimo 250€.
  • Sanzioni IVA: per operazioni attive non fatturate o non dichiarate, simile (90% imposta, o 100% se omessa fatturazione con IVA a debito).
  • Ci sono poi le sanzioni accessorie: se l’importo evaso supera certe soglie, l’Agenzia può chiedere l’inibizione a compensare crediti d’imposta, o segnalare l’ordine professionale se sei un professionista, etc., ma sono situazioni particolari.
  • Interessi: ovviamente sulle imposte non versate maturano interessi, al tasso legale (o maggiorato di 2% per tributi locali).
  • Se definisci in acquiescenza (accetti e paghi entro 60 gg senza ricorso) hai diritto alla sanzione ridotta di 1/3 (quindi 30% anziché 90%). Con adesione pure sanzioni 1/3. Con mediazione, se accordo, sanzioni al 35%. Con conciliazione in giudizio, 40% (primo grado). Insomma, più sistemi la cosa amichevolmente, meno sanzioni paghi.
  • Penale: attenzione, la domanda parla di sanzioni in generale, quindi accenno anche alle penali. Un accertamento da spesometro può segnalare un’evasione che superi soglie di rilevanza penale. Ad esempio, dichiarazione infedele scatta se l’imposta evasa supera €100.000 (fino al 2015 era €50k, ora 100k) e il reddito non dichiarato supera il 10% di quello dichiarato (o comunque >€2 milioni). Omessa dichiarazione (reato) se imposta evasa > €50.000. Frode fiscale se c’è utilizzo di fatture false o altri artifici (questo di solito non è il caso dello spesometro, che anzi smaschera le fatture false). Se dal controllo risultano violazioni oltre soglia, l’Agenzia ha obbligo di trasmettere notizia alla Procura. In parallelo partirà un procedimento penale. Le sanzioni penali vanno dal multa/reato minore fino alla reclusione (ad es. infedele dichiarazione: reclusione fino a 3 anni; omessa: 1–3 anni; frode: più alta). Nel nostro contesto, se è solo questione di importi, i reati possibili sono infedele o omessa. Non succede nulla se l’importo non supera quelle soglie. Se li supera, avrai due fronti: tributario e penale. Tuttavia, definire l’accertamento in adesione o acquiescenza può avere effetti benefici anche sul penale (ad esempio, pagare il debito tributario prima del dibattimento in alcuni casi attenua la pena, e la recente riforma Cartabia ha esteso la causa di non punibilità per particolare tenuità fino a certe soglie).
  • In questa sede, comunque, parlando di sanzioni “da spesometro” intendiamo quelle amministrative: quindi in sintesi, multa del 90% dell’imposta evasa è lo scenario ordinario. Ci sono anche sanzioni minori se la violazione è formale (ma qui di solito sono sostanziali).

D: Un accertamento da spesometro può avere conseguenze penali?
R: Sì, se l’evasione che emerge supera le soglie di rilevanza penale previste dal D.Lgs. 74/2000. Ad esempio:

  • Omessa dichiarazione (art. 5 DLgs 74/2000): se in un anno hai “nascosto” redditi con imposta evasa > €50.000, e non hai presentato la dichiarazione, è reato (punibile con reclusione 2–5 anni).
  • Dichiarazione infedele (art. 4): se hai presentato la dichiarazione ma hai “abbassato” la base imponibile di oltre €2 milioni o l’imposta evasa supera €100.000 e rappresenta più del 10% di quanto dichiarato, è reato (reclusione 2–4.5 anni).
  • Fatture false (artt. 2 e 8): se l’accertamento rivela che sono state usate/emesse fatture per operazioni inesistenti, scatta l’ipotesi di frode (reato più grave, soglie diverse – ma spesso lo spesometro queste cose le rivela).

Facciamo un esempio: l’accertamento dice che hai nascosto €300.000 di ricavi, IVA evasa €66.000 e IRPEF evasa €90.000. Totale imposta evasa ~€156k, sopra i 100k e ben oltre il 10% del dichiarato. Questo rientra nel reato di dichiarazione infedele. L’Agenzia segnalerà il caso alla Guardia di Finanza/Procura. Partirà un procedimento penale a tuo carico indipendentemente dal contenzioso tributario. Potresti dover dimostrare in giudizio penale l’eventuale innocenza (es. se quell’accertamento fosse sbagliato, in sede penale devi confutare la prova).

Ora, la domanda cruciale: i dati dello spesometro possono essere usati come prova in tribunale penale? La risposta è . Ormai è pacifico che i file digitali (dati fatture) siano elementi probatori validi. La Cassazione Penale nel 2025 ha ribadito che i dati dello spesometro sono oggettivi e utilizzabili per provare l’evasione, purché riscontrati con altri elementi. Quindi, se nel penale la difesa dicesse “eh ma lo spesometro è solo indizio fiscale”, la Cassazione ha detto che non è solo un indizio leggero: sono dati estratti da dichiarazioni e flussi finanziari. Certo, servono conferme, ma sono utilizzabili. Ad esempio, Cass. pen. 9999/2025 ha ritenuto legittima una condanna basata sui dati spesometro che mostravano fatture false, con la difesa che contestava la tenuta del metodo: la Corte ha detto che sta all’imputato provare l’eventuale fallacia dei dati.

Comunque, se finisci nel penale, la via maestra per venirne fuori spesso è pagare il dovuto al Fisco: le recenti riforme hanno ampliato i casi di estinzione del reato per pagamento integrale del debito tributario (ad esempio per omessa dich. e infedele c’è una causa di non punibilità se paghi tutto con sanzioni e interessi prima del dibattimento, art. 13 DLgs 74/2000). Anche la dichiarazione infedele ha questa chance da fine 2019 in poi. Quindi, se l’accertamento è fondato e non c’è scampo, una volta definito con Agenzia (pagato), in sede penale potresti ottenere l’archiviazione per adempimento (oltre ovviamente a pene sospese se sei incensurato e mostri ravvedimento).

In sintesi: l’accertamento fiscale serve al Fisco per incassare, ma quando c’è tanto “nero” può coinvolgere il penale. Non è automatico: devono superarsi soglie. La maggior parte degli accertamenti da spesometro per qualche decina di migliaia di euro non hanno strascichi penali. Quelli grossi sì. Quindi, conseguenze penali solo se evasione consistente, e in tal caso conviene farsi seguire anche penalmente. Ma sappi che i dati fatture sono armi anche in quel campo.

D: Meglio trovare un accordo con l’Agenzia o fare ricorso?
R: Dipende dalla situazione. Trovare un accordo (tramite accertamento con adesione, mediazione o conciliazione) è vantaggioso se:

  • Riconosci che c’è almeno in parte una base per la rettifica e vuoi limitare danni (riduzione sanzioni, evitare rischio di pagare di più in giudizio).
  • Vuoi chiudere rapidamente per avere certezza (un ricorso può durare anni; un’adesione si risolve in pochi mesi).
  • L’importo in ballo non è troppo elevato e preferisci non affrontare spese legali o stress da causa.
  • Il Fisco si mostra disponibile a uno sconto ragionevole: es. ti tolgono una parte delle imposte e applicano sanzioni minime. Se la controparte è accomodante, spesso si ottiene di pagare magari 50-60% del totale iniziale. Va valutato.

Fare ricorso conviene se:

  • Sei fermamente convinto di aver ragione e hai prove solide per annullare l’atto. In tal caso, puntare al 100% può valere la pena, specie se la controparte non vuole riconoscerti nulla. Certo, c’è sempre l’incognita giudice, ma se la legge e i fatti ti danno ragione, il ricorso è la strada per non pagare nulla (o molto meno).
  • L’importo è elevato e il Fisco non è disposto a grandi sconti: ad esempio, su 100 ti chiedono di pagare 90 comunque. Tanto vale giocarsela in giudizio, magari spunti zero o una riduzione maggiore dal giudice.
  • Ci sono principi da far valere: magari tieni a stabilire che quel metodo è sbagliato per il tuo caso. Questo è più rilevante per chi ha casi “pilota” (tipo questioni interpretative).
  • Puoi permetterti di aspettare e di pagare eventualmente costi di lite. In caso di vittoria, le spese legali spesso sono rimborsate (ma non sempre integralmente).

In molti casi si segue una strategia mista: si presenta istanza di adesione (per vedere che aria tira) e, se l’Agenzia propone qualcosa di accettabile, si chiude. Se invece rimangono su posizioni troppo alte, allora si prosegue col ricorso. L’adesione sospende i termini, quindi guadagni tempo anche per preparare meglio l’eventuale ricorso.

Va detto: con la mediazione obbligatoria, su importi piccoli/medi l’Agenzia a volte fa proposte standard (tipo sconto 15% sulle sanzioni oltre a quelle già ridotte in acquiescenza). Se non hai torto marcio, puoi spuntare di più in giudizio. Quindi se la proposta non ti soddisfa, vai avanti col ricorso: male che vada, potrai sempre conciliare più avanti.

Esempio pratico: Ti contestano €30k di IVA evasa. In adesione tu speri che riconoscano il tuo errore di 5k e tolgano 25k, loro invece ti concedono solo di togliere 5k e pagare su 25k. Se ritieni di avere buoni argomenti per altri 15k, forse meglio ricorrere, perché magari il giudice ti darà ragione su quei 15k. Se però pensi che alla fine 25k li dovevi proprio, allora tanto vale aderire e prendere lo sconto sanzioni.

In conclusione: valuta con mente lucida le tue chance. Se le chance di abbattere significativamente la pretesa in giudizio sono alte, ricorri. Se sono basse (hai torto) o moderate ma l’Agenzia ti fa già uno sconto buono, aderisci. Spesso conviene tentare l’accordo: se va male, il ricorso resta sempre aperto (specie con la mediazione puoi rifiutare la proposta e proseguire). Non c’è una risposta universale, è caso per caso. Tieni a mente che i giudici tributari, in materia di presunzioni, possono avere orientamenti vari: a volte annullano tutto per difetti formali o carenza di prove, altre volte sono severi coi contribuenti. Quindi il fattore aleatorietà del contenzioso esiste. Un accordo elimina l’alea. Questa è spesso la ragione per cui chi può permetterselo (ossia ritiene che la pretesa non sia totalmente campata in aria) preferisce accordarsi.


Come si evince dalle risposte sopra, la materia è articolata ma con i giusti strumenti il contribuente può difendersi efficacemente. Nell’ultima sezione riepiloghiamo brevemente le fonti normative e giurisprudenziali citate, per chi volesse approfondire ulteriormente.

Fonti (normative e giurisprudenziali)

  • DL 78/2010, art. 21 – Istituzione dello spesometro (comunicazione operazioni rilevanti IVA).
  • L. 205/2017, art. 1 co. 909-916 – Introduzione obbligo fattura elettronica B2B e abrogazione spesometro dal 2019.
  • Provv. Ag. Entrate 30/04/2018 – Attuazione comunicazione “esterometro” (successivamente abrogato dal 2022).
  • DL 119/2018 – Decreti fiscali collegati: introduzione corrispettivi telematici (art. 17) e altre semplificazioni post-spesometro.
  • L. 130/2022 – Riforma giustizia tributaria: istituzione Corti Giustizia Trib. e apertura a testimonianza scritta.
  • D.Lgs. 218/2023 – Attuazione delega fiscale 2022: ha inserito l’art. 6-bis Statuto Contribuenti (L.212/2000) sul contraddittorio preventivo generalizzato, in vigore dal 30/4/2024.
  • DPR 600/1973, art. 38 – Accertamento sintetico persone fisiche (redditometro) e obbligo contraddittorio (co.7).
  • DPR 600/1973, art. 39 – Accertamento induttivo per imprese (contabilità inattendibile, presunzioni semplici).
  • DPR 600/1973, art. 41-bis – Accertamento parziale (utilizzabile per anomalie tipo spesometro per intervenire tempestivamente).
  • DPR 633/1972, art. 54 – Accertamento IVA (analitico-induttivo) e art. 55 (omessa dichiarazione IVA).
  • L. 212/2000 (Statuto contribuenti) – Art. 7 (obbligo motivazione e allegazione atti); Art. 12 co.7 (osservazioni dopo PVC); Art. 6-bis (dal 2024, contraddittorio preventivo).
  • D.Lgs. 218/1997 – Accertamento con adesione (artt. 5-9) e invito a adesione pre-atto (art. 5-ter inserito da DL 34/2019).
  • D.Lgs. 546/1992 – Contenzioso tributario: termini ricorso, reclamo/mediazione (art.17-bis), conciliazione giudiziale (artt. 48, 48-bis).
  • D.Lgs. 74/2000 – Reati tributari: art. 4 (infedele dich.), art.5 (omessa dich.), art.13 (causa non punibilità per pagamento integrale), art.2-3 (frode), art.10-bis (omesso versamento IVA).
  • Cass. civ. Sez. V, ord. n. 1134/2020 (20/01/2020) – Legittimo accertamento fondato su spesometro integrato senza allegare elenco clienti-fornitori, se motivazione ne riproduce contenuto essenziale; principio di “conoscibilità” dei documenti.
  • Cass. civ. Sez. VI, ord. n. 27045/2021 – In tema di redditometro, onere prova contraria a carico contribuente (menzionata in dottrina).
  • Cass. civ. Sez. V, ord. n. 19953/2022 (21/06/2022) – Redditometro, disponibilità di ulteriori redditi come prova contraria (citata in rassegne).
  • Cass. civ. Sez. V, ord. n. 12548/2025 (12/05/2025) – Ha rigettato ricorso AdE: “Va annullato l’accertamento analitico-induttivo se il contribuente dimostra l’insussistenza della pretesa con registro clienti-fornitori e dichiarazioni di terzi”. (caso di presunzioni semplici superate da prove contribuente).
  • Cass. civ. Sez. V, ord. n. 12748/2025 (13/05/2025) – Caso di disallineamento fatture fine anno (ditta C.F. Da.Ma.): focalizzata su revocazione e termini, dichiarato ricorso tardivo quindi inammissibile. Interessante per ricostruzione fattuale contraddittorio in primo grado vinto.
  • Cass. pen. Sez. III, sent. n. 9999/2025 – Conferma utilizzabilità dati spesometro in processo penale per frode fiscale; “lo spesometro non è mera base presuntiva, ma dato oggettivo”; la difesa deve provare eventuale difformità dei dati.
  • Cass. pen. Sez. III, sent. n. 38016/2019 – (Citata da Eutekne) Omessa dichiarazione: dati contabilità e spesometro possono provare reato (legale rapp. condannato).
  • CTR Veneto, sent. n. 1486/4/18 (19/12/2018) – Redditometro: annullato accertamento €139k, CTR riconosce prove contribuente (fonti reddito diverse anno) e censura AdE per mancato confronto con documenti difensivi.
  • CTP Reggio Emilia, sent. 262/1/2019 – (“Spesometro, ufficio deve indicare costi per maggiori ricavi” – Il Sole 24 Ore 2019): annullato accertamento se l’ufficio non considera i costi in caso di presunzione di ricavi aggiuntivi.
  • Circolare AE 17/2020 (22/06/2020) – Istruzioni su invito obbligatorio al contraddittorio ex art. 5-ter D.Lgs. 218/97 (contraddittorio pre-accertamento introdotto nel 2019, obbligatorio dal 1/7/2020 per tributi armonizzati e altri casi).

Hai ricevuto un accertamento basato sullo Spesometro? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Lo Spesometro (oggi integrato nella fatturazione elettronica e nei registri IVA precompilati) è uno strumento con cui l’Agenzia delle Entrate controlla le operazioni effettuate da contribuenti e aziende, incrociando i dati dichiarati con quelli effettivamente trasmessi.
Un disallineamento può portare a un accertamento fiscale automatico, ma ciò non significa che tu abbia commesso un’evasione.
Puoi — e devi — difenderti, con documenti alla mano.


Cos’è un accertamento da Spesometro?

È un accertamento fondato su:

  • 🔍 dati trasmessi dai tuoi fornitori o clienti all’Agenzia delle Entrate
  • 🧾 differenze tra le fatture attive e passive comunicate e quelle risultanti dalla tua contabilità
  • 📊 Disallineamenti tra il volume d’affari dichiarato e quello desumibile dagli incroci elettronici

⚠️ Attenzione: l’Agenzia invia in questi casi comunicazioni di anomalia o inviti al contraddittorio che possono evolvere in veri e propri avvisi di accertamento.


Quando l’accertamento è illegittimo?

L’accertamento può essere impugnato se:

  • 📂 I dati incrociati sono errati, incompleti o mal interpretati
  • 📑 L’anomalia deriva da operazioni realmente esistenti e correttamente documentate
  • ❗ L’Agenzia ha omesso il contraddittorio preventivo con il contribuente
  • 🧾 Ci sono giustificazioni contabili o fiscali legittime (es. note di credito, resi, errata imputazione di competenza)

💡 In molti casi, un’adeguata documentazione è sufficiente a chiudere la contestazione senza sanzioni.


Cosa puoi fare per difenderti?

  1. 📬 Esamina la comunicazione ricevuta e identifica le anomalie segnalate
  2. 📂 Ricostruisci le operazioni contestate con documenti, registri e movimenti bancari
  3. 🛡️ Presenta una memoria difensiva in risposta al contraddittorio
  4. ✍️ Se ricevi un avviso di accertamento, puoi proporre ricorso entro 60 giorni
  5. ⚖️ Valuta l’opzione di un accertamento con adesione per evitare il contenzioso

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📑 Analizza l’origine dell’anomalia e la struttura dell’accertamento
📂 Ricostruisce i movimenti e la documentazione a tuo favore
⚖️ Redige la memoria difensiva e ti rappresenta nel contraddittorio con l’Ufficio
✍️ Propone ricorso alla Commissione Tributaria, se necessario
🔁 Ti assiste anche in caso di accertamenti bancari collegati o contestazioni IVA


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per PMI, professionisti e ditte individuali nel mirino del Fisco
✔️ Consulente per procedimenti per anomalia dichiarativa e contestazioni IVA


Conclusione

L’accertamento da Spesometro non è infallibile. I dati telematici possono essere contestati, corretti e spiegati.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi difenderti con documenti, competenza e strategia, evitando errori, sanzioni e accertamenti illegittimi.

📞 Contatta subito lo studio per una consulenza riservata e blocca l’accertamento prima che sia troppo tardi.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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