Hai un’impresa in crisi e stai cercando di capire come i debiti fiscali attivano il sistema di allerta precoce previsto per il 2025? Ti chiedi quali siano i segnali da non sottovalutare e quali effetti possono produrre su impresa e gestione?
Il nuovo sistema di allerta, parte del Codice della Crisi, introduce obblighi di segnalazione immediata per gli organi di controllo e strumenti preventivi per l’impresa. Debiti fiscali significativi possono attivare allarmi e innescare procedure per salvare l’azienda in tempo.
Cosa prevede il sistema di allerta precoce nel 2025?
Gli organi di controllo (sindaci, revisori) devono monitorare continuamente l’azienda per rilevare segnali di crisi, tra cui:
– Debiti fiscali e contributivi scaduti e non pagati
– Cartelle esattoriali, avvisi di accertamento o ingiunzioni in corso
– Mancata regolarizzazione del DURC o insolvenze fiscali
Alla percezione di questi segnali, scatta l’obbligo di segnalazione all’assemblea degli amministratori, e in caso di inazione anche all’OCRI.
Quali sono le soglie da considerare?
Non esiste un importo fisso: conta l’entità del debito rispetto alla dimensione dell’azienda. Debiti ingenti che non vengono affrontati entro 90 giorni diventano campanello rosso. L’organo di controllo deve considerare:
– la ricorrenza dei debiti
– la durata dell’insoluto
– l’assenza di misure per sanare la situazione
Ritardo o inadempimento vuol dire crisi?
Non automaticamente, ma può significare insolvenza potenziale se non si interviene con:
– un piano di rientro (anche per via bonaria)
– una composizione negoziata o un accordo di ristrutturazione
– una dilazione fiscale o rateizzazione certificata
Cosa succede se scatta la segnalazione?
– L’assemblea deve decidere entro 30 giorni se avviare una procedura di gestione della crisi
– Se non interviene, l’organo di controllo invia segnalazione all’OCRI, che può attivare un percorso di composizione della crisi
– La mancata ottemperanza può comportare responsabilità civili e personali sia per amministratori che per i sindaci
Quali strumenti servono per gestire i debiti fiscali e rientrare?
– Composizione negoziata: accordo transattivo con il Fisco sotto tutela
– Accordo di ristrutturazione: piano sostenibile valido anche per gli enti pubblici
– Rateizzazione fiscale (ad es. art. 19 DL 119/2018) per diluire i versamenti
– Monitoraggio costante, aggiornamento del business plan e adesione formale agli obblighi di segnalazione
Cosa NON devi fare se hai debiti fiscali in crisi?
– Ignorare la situazione sperando che passi
– Aspettare che si accumulino multe, mora, interessi e segnalazioni negative
– Delegare completamente senza monitorare la regolarità dei pagamenti
– Far passare i 90 giorni senza avviare alcuna iniziativa
La segnalazione precoce può essere la tua salvezza, ma solo se la segui con azioni concrete.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità e crisi d’impresa – ti spiega come il sistema di allerta precoce del 2025 coinvolge i debiti fiscali, quali obblighi impone agli organi di controllo e quali strumenti puoi attivare per risolvere la situazione evitando conseguenze legali e aziendali gravi.
Hai debiti tributari o contributivi in scadenza? Vuoi sapere se il sistema di allerta può essere attivato e come puoi reagire per salvare l’impresa?
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Introduzione
Nel 2025 il quadro normativo italiano sulla crisi d’impresa ha raggiunto un assetto maturo, frutto delle riforme introdotte dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) e dei successivi correttivi. Questo Codice (D.Lgs. 14/2019, aggiornato con interventi fino al 2024) ha trasformato l’approccio alla gestione delle difficoltà aziendali, privilegiando la prevenzione e la soluzione anticipata delle crisi. In particolare, il legislatore ha previsto strumenti di allerta precoce (early warning) per far emergere tempestivamente i segnali di dissesto e incoraggiare l’imprenditore ad attivarsi prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. Parallelamente, sono stati introdotti nuovi istituti di regolazione concordata e stragiudiziale della crisi – come la composizione negoziata, i piani di risanamento attestati, gli accordi di ristrutturazione e innovazioni nelle procedure di concordato preventivo – volti a favorire il risanamento dell’impresa o, quando ciò non sia possibile, la liquidazione ordinata con il massimo soddisfacimento dei creditori.
In questo contesto, i debiti fiscali e contributivi assumono un ruolo cruciale. Tradizionalmente, le pretese del Fisco e degli enti previdenziali godono di privilegi e tutele speciali nelle procedure concorsuali, e spesso rappresentano una parte consistente dell’indebitamento delle aziende in crisi. La guida che segue – rivolta ad avvocati, imprenditori e consulenti, con linguaggio tecnico ma divulgativo – approfondisce il punto di vista del debitore rispetto a tali debiti: quali obblighi ha l’imprenditore in difficoltà verso il Fisco, come funzionano i meccanismi di allerta in caso di imposte o contributi non pagati, e quali strumenti ha a disposizione per ristrutturare o definire il proprio debito tributario ed evitare la crisi irreversibile. Verranno esaminate tutte le tipologie di debiti fiscali rilevanti (IVA, imposte sui redditi, ritenute, IRAP, tributi locali, contributi INPS/INAIL, cartelle esattoriali, sanzioni) e i relativi trattamenti nelle diverse procedure concorsuali. Il tutto è aggiornato a giugno 2025, con riferimento alle ultime novità normative (ad esempio il terzo correttivo del 2024) e ai più recenti orientamenti giurisprudenziali. Sono incluse tabelle riepilogative, esempi numerici concreti e una sezione di domande e risposte (FAQ) per chiarire i dubbi più frequenti. Le fonti normative e giurisprudenziali citate sono elencate al termine della guida.
Crisi d’impresa, insolvenza e obblighi di prevenzione
Per inquadrare il tema, occorre distinguere lo stato di crisi d’impresa dallo stato di insolvenza vero e proprio. Il CCII definisce la crisi come una situazione di difficoltà economico-finanziaria reversibile, caratterizzata da squilibri patrimoniali o di liquidità tali da far presumere l’insorgere dell’insolvenza se non si interviene. In altre parole, l’impresa in crisi sta ancora adempiendo regolarmente alle proprie obbligazioni, ma mostra segnali di sofferenza (perdite significative, patrimonio netto eroso, flussi di cassa negativi, ecc.) che preannunciano potenziali insolvenze future. L’insolvenza, invece, è la situazione conclamata in cui l’imprenditore non è più in grado di soddisfare regolarmente le obbligazioni con mezzi ordinari, manifestandosi con inadempimenti generalizzati, protesti, pignoramenti, ecc.. Questa distinzione è fondamentale perché gli strumenti introdotti dalla riforma sono orientati a gestire la crisi prima che evolva in insolvenza irreversibile.
A tal fine, il legislatore ha posto specifici obblighi di prevenzione a carico dell’imprenditore e degli organi societari. Già dal 2019, l’art. 2086, comma 2, c.c. impone all’imprenditore collettivo di dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi. Ciò significa implementare sistemi di controllo interno in grado di monitorare costantemente la salute finanziaria dell’azienda e di captare i primi segnali di squilibrio (ad es. indici di liquidità, sostenibilità dell’indebitamento, flussi di cassa prospettici). La legge, dunque, non consente più una gestione “a vista”: agli amministratori è richiesto un approccio proattivo e prudente, nell’ottica del “prevenire è meglio che curare”.
In parallelo, sono attribuiti doveri anche agli organi di controllo interni (collegio sindacale, sindaco unico, revisori). Se tali organi, nell’esercizio delle loro funzioni, rilevano segnali di crisi ignorati dagli amministratori (ad es. perdite reiterate, grave tensione di liquidità, indicatori di possibile insolvenza nei successivi 6-12 mesi), devono spronare gli amministratori ad intervenire. Il Codice, all’art. 24 CCII, prevedeva già nella disciplina dell’allerta (originariamente destinata a entrare in vigore nel 2020 ma poi posticipata) che i sindaci segnalassero per iscritto al board la necessità di attivarsi per prevenire il dissesto. Questa norma, pur temporaneamente sospesa nelle sue conseguenze formali, rimane un principio di buona gestione: i sindaci fungono da sentinelle interne e hanno l’onere di non voltarsi dall’altra parte di fronte a evidenti segnali di crisi. Nel 2024 il correttivo ter ha ulteriormente rafforzato questo aspetto, equiparando espressamente i revisori legali ai sindaci negli obblighi di monitoraggio e segnalazione tempestiva della crisi. In pratica, se né gli amministratori né gli organi di controllo adottano misure adeguate di fronte a indicatori di crisi conclamata, potranno andare incontro a responsabilità personali per omessa tempestiva reazione. Come evidenziato nelle linee guida 2025, gli amministratori saranno chiamati a rispondere in caso di mancato intervento tempestivo, con il rischio di sanzioni e azioni di responsabilità.
È quindi interesse primario del debitore imprenditore dotarsi per tempo degli strumenti organizzativi idonei e instaurare un dialogo costruttivo con consulenti, sindaci e revisori, al fine di diagnosticare precocemente eventuali criticità. La presenza di debiti fiscali arretrati è uno dei campanelli d’allarme più frequenti: un’impresa che inizia ad accumulare IVA non versata, ritenute non pagate o contributi previdenziali in ritardo, sta molto probabilmente attraversando tensioni di liquidità. Proprio su questi elementi oggettivi si basa il sistema di allerta esterna predisposto dal legislatore, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.
Allerta “esterna” dei creditori pubblici qualificati
Oltre all’allerta “interna” appena descritta (basata su assetti adeguati e sul controllo degli organi societari), il Codice ha introdotto un meccanismo di allerta esterna affidato a determinati enti pubblici creditori. L’idea di fondo è che Fisco ed enti previdenziali, avendo visibilità immediata sui mancati versamenti di imposte e contributi, possano inviare all’imprenditore un segnale formale di crisi quando i debiti verso tali enti superano certe soglie. Questi enti – definiti “creditori pubblici qualificati” – includono in particolare: l’Agenzia delle Entrate (per le imposte), l’INPS (per i contributi previdenziali) e l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex-Equitalia, per i carichi affidati in riscossione).
Le condizioni che fanno scattare l’obbligo di segnalazione, introdotte dal D.L. 152/2021 (conv. in L. 233/2021) ed operative dal 1° gennaio 2022, sono piuttosto specifiche. La seguente tabella riepiloga le soglie di esposizione debitoria oltre le quali scatta la segnalazione d’allerta da parte degli enti creditori:
Ente segnalante | Condizione di debito per l’allerta |
---|---|
INPS (contributi previdenziali) | Mancato versamento di contributi da oltre 90 giorni, per un importo > €15.000 (imprese con dipendenti, e tale importo rappresenta almeno il 30% dei contributi dovuti nell’anno precedente) oppure > €5.000 (imprese senza dipendenti). |
Agenzia delle Entrate (imposte dirette e IVA) | Esistenza di un debito IVA scaduto e non versato, risultante dalle comunicazioni periodiche IVA (LIPE), di importo > €5.000. In pratica basta un’omissione di versamento IVA trimestrale superiore a €5.000 perché scatti l’allerta. |
Agente della Riscossione (AdER) | Presenza di debiti iscritti a ruolo (affidati alla riscossione) scaduti da oltre 90 giorni, per importi superiori a €100.000 (imprenditori individuali), €200.000 (società di persone) o €500.000 (società di capitali). Si tratta dunque di cartelle esattoriali non pagate per importi rilevanti. |
Come si nota, alcune soglie non sono affatto elevate: ad esempio, un omesso versamento IVA di appena 5.000 € o contributi arretrati per 15.000 € possono capitare anche a piccole aziende e fanno comunque scattare l’allerta. L’intento è dichiaratamente preventivo: intercettare segnali di crisi nelle fasi iniziali, quando magari l’impresa può ancora salvarsi se interviene subito, anziché aspettare che i debiti diventino insostenibili.
Vediamo come funziona in concreto la procedura. Ciascun ente monitora automaticamente il verificarsi di queste condizioni nei confronti dei soggetti obbligati. Una volta superata la soglia di debito e decorso un breve periodo senza che il debitore abbia rimediato (ad esempio 60 giorni dal termine previsto per il versamento), l’ente invia una comunicazione formale via PEC all’imprenditore e, se esiste, all’organo di controllo della società. Nella PEC si segnala il superamento della soglia debitoria e si invita espressamente l’imprenditore ad attivare la procedura di composizione negoziata della crisi (o comunque a prendere provvedimenti per regolarizzare la posizione). È importante sottolineare che tale avviso non dichiara lo stato di crisi in senso giuridico, né avvia automaticamente alcuna procedura concorsuale. La lettera suona piuttosto come un “campanello d’allarme” ufficiale: “Hai accumulato debiti rilevanti con il fisco/la previdenza; valuta di rivolgerti a un esperto indipendente per trovare una soluzione prima che sia troppo tardi”. Si tratta dunque di una moral suasion normata, volta a pubblicizzare presso il debitore l’esistenza di strumenti di aiuto come la composizione negoziata (che approfondiremo a breve).
Dal punto di vista strettamente legale, la ricezione di questa segnalazione non obbliga l’imprenditore ad attivare una procedura (non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di una scelta imprenditoriale discrezionale). Tuttavia, ignorare l’allerta può avere conseguenze indirette molto serie. In primis, l’avviso inviato via PEC costituisce una formale “messa in mora informativa”: da quel momento gli amministratori non possono più invocare ignoranza della situazione, e ogni eventuale inerzia sarà valutata severamente. Se in seguito l’impresa fallisse per mancata adozione di misure, i creditori o il curatore potranno dimostrare con facilità che fin da quella data (PEC) gli amministratori erano a conoscenza dello stato di dissesto e non sono intervenuti, configurando una colpa grave nella gestione. Inoltre, la PEC viene inviata anche al collegio sindacale o revisore, il che mette in allerta pure i controllori: essi non possono ignorare il segnale e, se gli amministratori restano inerti, dovranno considerare azioni a loro tutela (in casi estremi, come suggerito da alcuni commentatori, anche segnalazioni al tribunale ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità). Infine, l’allerta esterna “fissa un confine temporale netto” nella cronologia della crisi: se dopo quell’avviso nulla viene fatto e la situazione degenera, sarà impossibile per il debitore sostenere di non essersi accorto della gravità del problema; viceversa, se reagisce attivando ad esempio la composizione negoziata, tale condotta potrà essergli riconosciuta come diligente e di buona fede, con possibili benefici (ad esempio ai fini dell’esdebitazione personale post-fallimento o per evitare contestazioni di bancarotta semplice dovuta a ritardata richiesta di procedure concorsuali).
Possiamo fare un esempio pratico di allerta esterna: Gamma S.p.A. opera nel settore edile; a causa di un rallentamento dei cantieri nel 2024 inizia ad accumulare debiti IVA e contributivi. In particolare, omette il versamento di IVA per oltre €200.000 e non riesce a pagare i contributi previdenziali per i suoi dipendenti, accumulando 4 mensilità arretrate per circa €20.000. Nell’ottobre 2024, Gamma S.p.A. riceve due PEC simultanee: una dall’Agenzia delle Entrate, che segnala il mancato versamento di IVA (ben superiore alla soglia di €5.000) invitando ad attivare la composizione negoziata; l’altra dall’INPS, relativa ai contributi non pagati da oltre 90 giorni. A seguito di ciò, il collegio sindacale di Gamma richiama immediatamente l’amministratore alle sue responsabilità. Se quest’ultimo ignora gli avvertimenti, i sindaci – preoccupati di non incorrere in corresponsabilità – potrebbero valutare una segnalazione al tribunale. Al contrario, se l’amministratore reagisce prontamente (ad es. depositando istanza per la composizione negoziata o cercando un accordo coi creditori), potrà non solo tentare di salvare l’azienda, ma anche dimostrare di aver agito diligentemente, con possibili ricadute favorevoli qualora poi la vicenda sfoci in una procedura giudiziale.
Va evidenziato che l’architettura originaria del CCII prevedeva, dopo la segnalazione d’allerta, l’attivazione di una procedura formale di composizione assistita dinanzi a speciali organi (gli OCRI, Organismi di Composizione della Crisi) istituiti presso le Camere di Commercio. Tuttavia, questa parte del Codice non è mai entrata effettivamente in vigore: le procedure di allerta “pubblica” e OCRI, inizialmente rinviate per l’emergenza pandemica, sono state di fatto superate dalla riforma del 2021, che ha introdotto una diversa soluzione stragiudiziale (la composizione negoziata) in luogo degli OCRI. Dunque, nel sistema attuale l’allerta esterna si esaurisce nell’invio della segnalazione PEC: non vi è un procedimento concorsuale automatico, ma solo un forte stimolo all’imprenditore perché prenda iniziative. A partire da luglio 2022 questi avvisi sono pienamente operativi e molte imprese ne hanno già fatto esperienza. Vediamo allora nel dettaglio lo strumento principale a cui le PEC di allerta rinviano: la composizione negoziata della crisi.
La composizione negoziata della crisi (CNC)
Introdotta in via emergenziale nel 2021 (D.L. 118/2021, conv. L. 147/2021) e poi recepita nel CCII, la composizione negoziata è un procedimento stragiudiziale di soluzione della crisi, basato sulla volontarietà e sulla riservatezza. L’obiettivo è offrire all’imprenditore in difficoltà uno strumento per cercare un accordo con i creditori prima di dover ricorrere a procedure concorsuali giudiziali. La composizione negoziata è disciplinata dall’art. 23 CCII e seguenti e può essere attivata da qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualunque dimensione, compresi i piccoli non fallibili (sono espressamente ammessi anche quelli sotto le soglie di fallibilità). La condizione per accedervi è la presenza di uno squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tale da rendere probabile la crisi o l’insolvenza dell’impresa, pur non ancora irreversibile. In sostanza, l’imprenditore può muoversi prima di diventare insolvente in senso stretto, non appena rilevi segnali di difficoltà che mettano a rischio la continuità aziendale: “the sooner, the better”, in linea con i principi UE.
Accesso e fasi della procedura
Per avviare la CNC, l’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale gestita dalle Camere di Commercio (https://composizionenegoziata.camcom.it). All’istanza vanno allegati una serie di documenti (art. 17 CCII), tra cui gli ultimi tre bilanci e dichiarazioni fiscali, una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata, l’elenco dei creditori e delle esposizioni debitorie, nonché una relazione sulle cause della crisi e sulle prospettive di risanamento. È prevista anche una checklist di autodiagnosi sulla piattaforma, per aiutare l’imprenditore a valutare la fattibilità del risanamento prima di procedere. Una volta completata la domanda, una commissione presso la Camera di Commercio nomina entro pochi giorni un Esperto indipendente (scelto da un apposito elenco di professionisti qualificati). L’Esperto guiderà le trattative tra l’imprenditore e i creditori, con il compito di facilitare la ricerca di una soluzione idonea al superamento della crisi. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore resta in carica e mantiene la gestione ordinaria e straordinaria dell’azienda (non vi è alcuno spossessamento), sebbene debba collaborare lealmente con l’Esperto e osservare eventuali limiti imposti dal tribunale.
Su richiesta dell’imprenditore, il tribunale può concedere misure protettive temporanee a salvaguardia del patrimonio e della continuità aziendale (art. 18 CCII). Tali misure tipicamente consistono nel blocco o nella sospensione di azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori durante le trattative (ad es. sospensione dei pignoramenti, congelamento delle ipoteche, divieto di iniziare o proseguire esecuzioni). Le misure protettive mirano a creare un “ambiente protetto” in cui negoziare, evitando che un singolo creditore aggressivo comprometta gli sforzi di risanamento. Di norma durano inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili, e richiedono la conferma del tribunale, che verifica la sussistenza dei presupposti e l’assenza di pregiudizio per i creditori.
La fase delle trattative, condotte con l’ausilio dell’Esperto, è riservata (non c’è pubblicità a terzi, salvo la pubblicazione dell’istanza iniziale nel registro delle imprese) e volontaria: nessun creditore è obbligato a partecipare o ad aderire alle proposte del debitore. L’Esperto tuttavia svolge una funzione di mediatore qualificato, analizzando la situazione aziendale e suggerendo possibili soluzioni. Se emerge una concreta possibilità di risanamento, la CNC può concludersi con la formalizzazione di un accordo tra l’imprenditore e uno o più creditori (che può assumere la forma di un contratto di ristrutturazione del debito, di un piano attestato o altro accordo stragiudiziale). In caso contrario, l’Esperto può dichiarare l’impraticabilità di una soluzione concordata; a quel punto l’imprenditore può valutare l’accesso a procedure concorsuali “classiche” (ad esempio un concordato preventivo, anche in forma semplificata) oppure, se ne ricorrono i presupposti, può optare per l’uscita dal mercato con la liquidazione.
È importante sottolineare come la composizione negoziata sia pensata per intervenire tempestivamente: la sua efficacia dipende molto dalla precocità dell’attivazione. Se la si avvia quando l’impresa ha ancora patrimonio e credibilità sufficienti, ci sono buone chance di trovare un accordo con i creditori; se invece si aspetta troppo e l’insolvenza è già conclamata, la CNC rischia di essere un passaggio inutile verso la liquidazione. Ecco perché il sistema di allerta precoce descritto prima incoraggia l’imprenditore a utilizzare la CNC già ai primi segnali di crisi.
Trattamento dei debiti fiscali e contributivi nella CNC
Una delle innovazioni più rilevanti per il debitore introdotte dal CCII riguarda proprio le misure di favore fiscali connesse alla composizione negoziata. L’idea del legislatore è di incentivare le imprese a utilizzare questo strumento, offrendo in cambio alcune agevolazioni sul fronte dei debiti tributari e previdenziali (le cosiddette “misure premiali”). In particolare, l’art. 25-bis CCII – inserito nel 2022 e potenziato dal correttivo 2024 – prevede che, se la CNC va a buon fine con un accordo, il debitore possa ottenere dilazioni straordinarie e riduzioni di sanzioni e interessi sui debiti fiscali. L’Agenzia delle Entrate, su istanza dell’impresa, può concedere un piano di rateizzazione fino a 72 rate mensili (6 anni) – e nei casi di maggiore difficoltà fino a 120 rate (10 anni) – per i tributi dovuti non ancora iscritti a ruolo. Tali piani possono prevedere rate di importo crescente nel tempo, per venire incontro alle esigenze di cassa immediate dell’impresa. Se il debitore dimostra, anche grazie alla relazione dell’Esperto, di trovarsi in una situazione di grave squilibrio finanziario, l’orizzonte del piano può quindi estendersi fino a 10 anni. Inoltre, sanzioni e interessi di mora su tali debiti possono essere significativamente ridotti o persino azzerati, purché il trattamento proposto al Fisco sia comunque non inferiore a quello realizzabile in caso di liquidazione giudiziale dell’impresa. In pratica, la composizione negoziata può tradursi per il contribuente in una sorta di “rottamazione su misura” dei debiti fiscali: le cartelle esattoriali e gli avvisi pendenti possono essere ristrutturati con dilazioni molto lunghe e abbuoni delle penalità.
Un esempio concreto: un’impresa in crisi con debiti IVA e IRPEF per 300.000 € riesce, tramite la CNC, a concordare con l’Agenzia Entrate di pagare 120.000 € in totale, dilazionati in 120 rate mensili (10 anni). In tal modo, sanzioni e interessi vengono condonati e l’azienda ottiene respiro finanziario. L’Esperto certifica che in caso di fallimento l’Erario avrebbe preso a malapena quell’importo (120.000 €), quindi la proposta è conveniente e l’accordo può essere formalizzato. L’impresa, grazie a questo alleggerimento, evita il default e prosegue l’attività (questo scenario è analogo all’Esempio 1 riportato in coda alla guida).
Ulteriore novità di rilievo, introdotta dal terzo correttivo (D.Lgs. 136/2024 in vigore dal marzo 2024), è l’estensione alla CNC della cosiddetta transazione fiscale. In origine, la transazione fiscale – ossia la possibilità di concordare il pagamento parziale o dilazionato dei debiti tributari e contributivi – era prevista solo nell’ambito di procedure omologate dal tribunale (concordati preventivi e accordi di ristrutturazione ex art. 182-ter L.F., oggi art. 63 CCII). Oggi invece anche durante una composizione negoziata l’imprenditore può proporre all’Agenzia delle Entrate, all’Agenzia della Riscossione e all’Agenzia delle Dogane un accordo transattivo sui debiti fiscali. Tale accordo, se accettato dall’ente e – attenzione – confermato dal tribunale, consente di definire in via negoziale qualsiasi debito d’imposta, incluso il possibile stralcio (riduzione) di una parte del tributo dovuto. Si tratta di una svolta significativa: in precedenza, un “taglio” dell’IVA o delle ritenute era ammissibile solo dentro un concordato preventivo o accordo omologato, mentre ora può avvenire anche stragiudizialmente in sede di CNC. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 23 CCII, inserito nel 2024, disciplina questa possibilità, stabilendo che il tribunale deve autorizzare e controllare l’accordo fiscale raggiunto (pur non trattandosi di omologazione di un concordato, il giudice verifica il rispetto delle condizioni). La condizione fondamentale è sempre la stessa: il trattamento concordato dei debiti fiscali deve assicurare all’Erario un risultato non inferiore a quello che otterrebbe in una liquidazione fallimentare del debitore. In altri termini, non è consentito un condono “gratuito”: ogni riduzione concessa deve essere economicamente giustificata dalla prospettiva che, senza accordo, il Fisco probabilmente recupererebbe ancora meno. Se tale condizione di convenienza è rispettata, l’accordo transattivo può essere autorizzato e diventa vincolante per l’Amministrazione finanziaria.
Dal punto di vista procedurale, va ricordato che la CNC in sé non prevede una votazione dei creditori né un’omologazione formale, essendo appunto uno strumento volontario stragiudiziale. Tuttavia, quando si effettua una transazione fiscale al suo interno, si introduce un elemento di tipo concorsuale che richiede l’intervento del tribunale. La prassi delineata nel 2024 prevede che l’accordo fiscale venga comunicato all’Agenzia delle Entrate con l’iscrizione nel registro delle imprese, facendolo in qualche modo assomigliare a un mini-accordo di ristrutturazione pubblicizzato. L’Agenzia ha facoltà di opporsi se ritiene che l’accordo violi le regole (ad esempio, offrisse al Fisco meno del dovuto in liquidazione). In mancanza di opposizioni, l’accordo transattivo è perfezionato e viene reso pubblico (iscrizione nel registro imprese) come atto nell’ambito della CNC.
Sul fronte pratico-operativo, l’attuazione di queste misure premiali è accompagnata da varie disposizioni di prassi emanate dagli enti. Ad esempio, l’INPS ha istituito un servizio online (denominato “VE.RA.”) per rilasciare in tempi rapidi il certificato dei debiti contributivi ex art. 363 CCII, documento che il debitore deve allegare alla domanda di nomina dell’Esperto. L’Agenzia delle Entrate e l’AdER hanno adeguato le procedure interne per gestire richieste di sospensione delle azioni esecutive e piani straordinari di rateazione nel contesto di una composizione negoziata. Degna di nota è la Risposta a interpello n. 443/2023 dell’Agenzia Entrate, che ha chiarito che tutti i debiti fiscali dell’impresa in composizione negoziata possono essere inclusi nel piano di ristrutturazione con le agevolazioni previste dall’art. 25-bis (dunque anche debiti non ancora a ruolo, oggetto magari di semplici avvisi bonari). Inoltre, con Provvedimento del 29 gennaio 2024, l’Agenzia Entrate ha dettato le procedure attuative interne per gestire le nuove transazioni fiscali in ambito CNC (a seguito appunto dell’introduzione dell’art. 23 comma 2-bis CCII). Dal lato dell’imprenditore, ottenere queste concessioni non è automatico: occorre presentare apposita istanza e fornire all’ente le informazioni necessarie (piano finanziario, attestazione dell’Esperto sulla convenienza etc.). La Circolare AE n. 34/E del 29 dicembre 2020, emanata in occasione dell’allora nuovo cram-down fiscale (di cui diremo a breve), fornisce utili linee guida su come l’ufficio finanziario debba valutare le proposte transattive: in particolare ribadisce che il professionista attestatore (o l’Esperto CNC) deve comparare il recupero promesso al Fisco con quello ipotizzabile in caso di fallimento, e che la temporanea sospensione dei pagamenti imposta dalla legge concorsuale non può dar luogo a sanzioni. Tale sospensione legale dei pagamenti (il “divieto di iniziare o proseguire azioni” tipico delle procedure concorsuali, esteso anche alla CNC in presenza di misure protettive) fa sì che, ad esempio, se l’impresa aveva in corso una rateizzazione fiscale ordinaria, la presentazione della domanda di composizione negoziata ne sospende gli effetti: il debitore non deve continuare a pagare le rate mentre è nella procedura, e l’Agenzia non può dichiararlo decaduto per quel motivo.
Riassumendo dal punto di vista del debitore, la composizione negoziata oggi offre vantaggi concreti: (a) uno spazio protetto e riservato in cui cercare accordi con i creditori senza perdere la gestione dell’azienda; (b) benefici fiscali sostanziosi in caso di accordo (lunghe dilazioni, riduzione/annullamento di sanzioni e interessi, possibilità persino di falcidiare parte del capitale di imposta con accordo transattivo); (c) un generale atteggiamento collaborativo da parte degli enti pubblici, i quali – se vedono un serio piano di risanamento – sono ora disponibili a concordare soluzioni invece di agire in via esecutiva. In caso di successo, l’impresa può evitare il fallimento, riequilibrare la propria situazione finanziaria e “ripartire” con un carico debitorio sostenibile. Di contro, la CNC richiede che l’imprenditore sia disposto a mettersi in gioco con trasparenza, presentando un piano credibile e magari apportando risorse fresche (spesso i creditori pubblici chiedono un impegno concreto, ad esempio il versamento regolare dei tributi correnti durante le trattative, pena la revoca delle misure protettive). Se l’accordo non si raggiunge, i mesi trascorsi in CNC comunque non sono inutili: l’Esperto redige una relazione finale che fotografa la situazione, utile poi nelle eventuali procedure successive, e l’imprenditore che ha tentato le soluzioni stragiudiziali potrà beneficiare di una considerazione più benevola (ad esempio in sede di valutazione di una successiva esdebitazione).
Va infine segnalato che, qualora la composizione negoziata si concluda senza esito positivo, il Codice prevede uno strumento ad hoc per evitare il fallimento immediato: il cosiddetto concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 18 D.L. 118/2021, confluito nell’art. 25-sexies CCII). Si tratta di una procedura concorsuale “snella”, che l’imprenditore può richiedere entro 60 giorni dal termine della CNC fallita, proponendo ai creditori una liquidazione dei propri beni sotto il controllo del tribunale, senza bisogno di votazione dei creditori. Torneremo sul concordato semplificato più avanti, ma è importante sottolineare che esso costituisce una via d’uscita ordinata qualora la composizione negoziata non riesca a risolvere la crisi.
Passiamo ora agli strumenti concorsuali giudiziali, in particolare il concordato preventivo, per vedere come essi interagiscono con i debiti fiscali.
Il concordato preventivo
Il concordato preventivo è la tradizionale procedura concorsuale prevista dall’ordinamento italiano per gestire la crisi o insolvenza dell’impresa evitando la liquidazione fallimentare. Nel concordato, l’imprenditore in crisi propone ai creditori un piano per il soddisfacimento parziale o dilazionato dei loro crediti, sotto controllo del tribunale e con necessaria approvazione a maggioranza da parte dei creditori stessi. Il CCII disciplina il concordato agli artt. 84 e ss., distinguendo principalmente tra concordato in continuità (quando l’azienda prosegue l’attività, sia pure eventualmente con ristrutturazioni) e concordato liquidatorio (quando invece si punta a liquidare il patrimonio dell’impresa in modo concordato).
Concordato in continuità aziendale
Nel concordato con continuità l’impresa prosegue la propria attività (direttamente o tramite un eventuale affittuario/acquirente) e utilizza i ricavi futuri per pagare i creditori secondo il piano. È tipicamente impiegato quando l’azienda è ancora economicamente valida ma ha un eccesso di debiti che ne compromette la sostenibilità. Uno dei nodi principali in questo tipo di concordato è il trattamento dei creditori privilegiati, tra cui rientrano le banche ipotecarie, i lavoratori (per TFR e stipendi) e il Fisco/enti previdenziali per tributi e contributi. In base ai principi generali, i crediti privilegiati dovrebbero essere soddisfatti integralmente nel concordato (nel rispetto delle cause legittime di prelazione) salvo consenso a una riduzione, oppure salvo il caso in cui il patrimonio disponibile non sia sufficiente a coprirli interamente (in tal caso la parte non coperta diventa chirografaria). Dato che spesso IVA, ritenute e contributi beneficiano di privilegi generali sui beni del debitore (artt. 2752 e 2777 c.c.), ne consegue che tali debiti fiscali devono di regola essere pagati per intero o comunque per la parte coperta da patrimonio. Ciò in passato costituiva un grosso ostacolo nei concordati, perché imponeva di reperire risorse per pagare completamente IVA e ritenute, pena l’inammissibilità del piano.
La riforma ha però introdotto una rilevante novità: la possibilità di inserire nel concordato una transazione fiscale e contributiva (art. 88 CCII, ex art. 182-ter L.F.) per il trattamento parziale o dilazionato anche di quei tributi che prima non potevano essere falcidiati. In sostanza, dal 2020 (decreto correttivo D.L. 125/2020, conv. L. 147/2020) e ora a regime col CCII, il debitore può proporre di pagare solo in parte e/o a rate i debiti tributari e previdenziali nell’ambito del concordato. Ciò include anche l’IVA e le ritenute, che in passato erano intoccabili: oggi è ammesso proporre uno sconto (falcidia) su tali imposte, a condizione che l’Amministrazione finanziaria aderisca alla proposta. Se il Fisco (e l’INPS per i contributi) accetta l’offerta concordataria votando a favore nella relativa classe, il debitore potrà dunque sanare la propria posizione fiscale pagando solo una quota dei tributi dovuti. Per garantire l’equità, la legge richiede che l’offerta al Fisco assicuri un soddisfacimento almeno pari a quello che il Fisco avrebbe ottenuto in una liquidazione fallimentare (principio del “non deteriore” o “pari trattamento minimo”). Ad esempio, se in caso di fallimento l’Erario avrebbe recuperato 30 su 100 di IVA (perché i beni su cui ha privilegio coprono solo il 30% del credito), nel concordato si potrà proporre di pagare un importo non inferiore a 30; qualsiasi riduzione ulteriore non sarebbe ammissibile senza consenso del Fisco. Questa regola è esplicitata dall’art. 88 CCII e mira a tutelare il creditore pubblico da proposte eccessivamente penalizzanti.
Ma cosa accade se il Fisco rifiuta la proposta di transazione fiscale, magari votando contro in assemblea dei creditori? Prima della riforma, un voto contrario dell’Erario (che spesso deteneva una quota significativa del passivo privilegiato) poteva bloccare l’intero concordato, facendolo naufragare. Oggi non più: è stato introdotto il cosiddetto cram-down fiscale, per cui il tribunale può ugualmente omologare il concordato anche senza il consenso del Fisco, se ritiene che il piano offra al Fisco un trattamento almeno pari alla liquidazione e la maggioranza degli altri creditori ha approvato. In pratica, la legge evita che un singolo creditore pubblico possa esercitare un potere di veto dannoso per la collettività dei creditori: se il concordato è vantaggioso per tutti e l’Erario rifiuta in modo ingiustificato, il giudice può comunque dare l’ok all’operazione. Questo meccanismo, già testato nel 2020 e ora codificato nell’art. 48 CCII, è di grande importanza pratica, perché risolve uno dei problemi storici delle ristrutturazioni in Italia (il diniego pregiudiziale dell’Amministrazione finanziaria). Ad esempio, se il piano concordatario prevede di pagare all’Erario il 40% del dovuto e il Fisco vota no ma la maggioranza degli altri creditori è favorevole, il tribunale – verificato che quel 40% è pari o superiore a quanto il Fisco otterrebbe in caso di fallimento – potrà omologare lo stesso il concordato (omologa forzata), rendendo vincolante anche per il Fisco la riduzione del debito. Naturalmente il Fisco, se ritiene la valutazione di convenienza errata, può proporre opposizione all’omologazione, ma spetterà a lui dimostrare che in realtà avrebbe diritto a di più.
Oltre alla transazione fiscale, il concordato in continuità consente anche di dilazionare i pagamenti dei creditori privilegiati senza il loro consenso, entro certi limiti temporali stabiliti dalla legge (ad esempio per gli istituti finanziari si può prevedere la soddisfazione integrale ma in più anni, purché la dilazione non pregiudichi la loro expectation di recupero). Questo strumento di flessibilità è utile per rendere sostenibile il piano: invece di reperire subito tutto il denaro per pagare il Fisco e le banche, l’azienda può ottenere respiro suddividendo il rimborso su un periodo (tipicamente entro 4-5 anni dall’omologa, per i tributi). Anche i debiti contributivi INPS/INAIL seguono regole analoghe: l’art. 88 CCII menziona espressamente che la transazione si applica anche a essi, e il soddisfacimento parziale dei contributi può essere previsto purché omologato dal giudice. In pratica, IVA e contributi vengono equiparati quanto a trattabilità nel concordato, mentre prima c’era una differenza (la vecchia legge fallimentare consentiva di falcidiare i contributi ma non l’IVA).
Vediamo un esempio pratico semplificato: Alfa S.p.A. ha 100 dipendenti e debiti totali per 10 milioni (8 milioni verso banche garantite da ipoteche sugli immobili aziendali; 2 milioni verso fornitori chirografari). L’azienda è in crisi ma potrebbe risanarsi. Propone un concordato in continuità con piano a 5 anni: vendere un immobile non strategico, far entrare un nuovo socio con capitale fresco, e con queste risorse pagare integralmente le banche ipotecarie entro 5 anni (rinegoziando i mutui) e pagare i fornitori chirografari al 40% in 4 anni. I dipendenti sono mantenuti al lavoro e i loro crediti (TFR, stipendi arretrati) saranno pagati entro 1 anno dall’omologa. Un professionista indipendente attesta che il piano è realistico: i flussi di cassa dell’attività, uniti alla vendita dell’immobile e ai fondi dell’investitore, consentono di soddisfare quelle percentuali. Si formano tre classi di voto: classe A (banche ipotecarie), classe B (fornitori chirografari), classe C (dipendenti, ma se pagati al 100% entro un anno potrebbero anche non votare perché integralmente soddisfatti). Al voto, le banche accettano (preferiscono recuperare in 5 anni che avviare esecuzioni e rischiare di perdere di più), i fornitori accettano (il 40% in continuità è meglio di un 5-10% stimato in caso di fallimento, e preferiscono che Alfa resti loro cliente). Il tribunale verifica che ogni classe riceva almeno quanto otterrebbe in liquidazione (dal valuation risulta che i fornitori, in caso di fallimento, avrebbero preso forse il 10%, quindi il 40% offerto è congruo). Accertata la fattibilità e la correttezza del procedimento, omologa il concordato. Alfa S.p.A. quindi prosegue l’attività, i posti di lavoro sono salvi, i fornitori incassano parte dei loro crediti e mantengono un cliente, le banche ottengono rimborso senza escutere garanzie. In questo esempio (ispirato a un caso reale), il concordato in continuità ha permesso di ristrutturare i debiti mantenendo in vita l’impresa – un risultato che va a beneficio di tutte le parti coinvolte.
Per completare il quadro fiscale: durante la procedura di concordato preventivo, a partire dal deposito del ricorso in tribunale, scatta l’effetto protettivo generalizzato previsto oggi dall’art. 54 CCII (corrispondente al vecchio art. 168 L.F.). Ciò comporta che il debitore non può più pagare i debiti anteriori alla domanda senza autorizzazione del giudice. Quindi, ad esempio, se l’azienda aveva un piano di rateizzazione con l’Erario o la Riscossione, dal momento in cui chiede il concordato smette di pagare le rate, in quanto quei debiti rimangono congelati fino all’esito della procedura. È importante chiarire che questa sospensione non comporta sanzioni né decadenze per il contribuente: non appena entra nel “ombrello” del concordato, la legge stessa gli vieta di pagare i debiti pregressi, per cui l’Agenzia non può considerarlo inadempiente al piano di rate e farlo decadere. La Corte di Cassazione (sez. tributaria) ha confermato tale principio con più pronunce: ad esempio la sentenza n. 12174 del 6 maggio 2024 ha statuito che, in pendenza di concordato preventivo, il piano di rateizzazione fiscale è sospeso ex lege e il debitore non decade dai benefici né subisce ulteriori sanzioni. Analogamente, l’ordinanza Cass. n. 4081/2023 ha ribadito che i pagamenti di debiti tributari pregressi costituiscono atti di straordinaria amministrazione vietati, e dunque la sospensione del pagamento in corso di procedura è lecita e non fa scattare penali. Questo è un elemento di tutela importante per il debitore: significa che, una volta attivato il concordato, l’imprenditore può conservare la liquidità per l’esercizio corrente senza dover continuare a onorare i vecchi piani di rientro, evitando al contempo di essere sanzionato per questo.
Concordato preventivo liquidatorio
Quando non vi sono prospettive di risanamento e si intende cessare l’attività, l’impresa può proporre un concordato liquidatorio, ossia un accordo con i creditori per liquidare tutto il patrimonio e distribuirne il ricavato. In pratica è una liquidazione concorsuale “negoziata”, in cui però il debitore mantiene l’iniziativa e può offrire ai creditori qualche incentivo rispetto al fallimento. Il CCII consente il concordato liquidatorio solo a certe condizioni (più stringenti rispetto al passato): è richiesto che ai creditori chirografari sia assicurato almeno il 20% di soddisfazione, pena l’inammissibilità, e che vi sia un apporto di risorse esterne (denaro nuovo, rinunce di crediti da parte di soci, ecc.) pari almeno al 10% dell’attivo liquidabile. Questi requisiti intendono garantire un “premio” ai creditori rispetto a quello che otterrebbero da una liquidazione fallimentare, e responsabilizzare il debitore a contribuire al risanamento. I creditori possono però rinunciare espressamente a tali soglie minime, e in tal caso il tribunale potrebbe ammettere comunque il concordato (ad esempio se vi è accordo tra tutti su percentuali inferiori).
Nel concordato liquidatorio il trattamento dei debiti fiscali è simile a quello in continuità quanto alla possibilità di transazione fiscale. Anche in un piano di pura liquidazione, infatti, il debitore può proporre di falcidiare tributi e contributi (purché nel rispetto del “non deteriore” e con eventuale cram-down in caso di dissenso del Fisco). La differenza è che, essendo l’azienda destinata a chiudere, manca la prospettiva di produrre nuovi flussi finanziari: dunque l’Erario tipicamente valuterà la convenienza confrontando la proposta con il ricavato stimato dalla liquidazione dei beni. Se, ad esempio, l’unico attivo è un immobile ipotecato che non copre interamente neppure i crediti garantiti, il Fisco dovrà realisticamente accontentarsi di zero; quindi anche una proposta concordataria di pagare zero (stralcio totale) potrebbe essere omologabile, perché equivalente alla prospettiva fallimentare. Viceversa, se ci sono beni liberi o liquidità che darebbero un certo ritorno all’Erario in caso di fallimento, il piano concordatario non potrà offrire meno di quell’ammontare. In generale, la transazione fiscale nel concordato liquidatorio segue i medesimi principi già illustrati per la continuità.
Novità recente (2024): per le piccole imprese in determinati casi di crisi diffusa, è stato introdotto il concordato preventivo “biennale” (D.Lgs. 13/2024). Si tratta di una variante semplificata di concordato, applicabile temporaneamente (nel biennio 2024-2025) in contesti di crisi economiche sistemiche, con procedure più snelle per le micro-imprese. Dal punto di vista fiscale, tuttavia, il concordato biennale non differisce da quello ordinario: si applicano integralmente le disposizioni sulla transazione fiscale dell’art. 88 CCII anche a questa versione “light”. Dunque, un piccolo imprenditore che accede al concordato biennale potrà comunque proporre falcidie di IVA/IRES, seguendo gli stessi paletti e con le stesse possibilità di cram-down. La dottrina ha segnalato qualche profilo tecnico da chiarire (ad es. coordinamento con norme civilistiche sulle esdebitazioni entro 6 mesi dall’omologa), ma ai fini pratici possiamo dire che il trattamento dei debiti tributari nel concordato biennale è allineato a quello del concordato in continuità tradizionale.
Concordato semplificato
Merita un breve cenno il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, introdotto dapprima dal D.L. 118/2021 e ora disciplinato (transitoriamente) dall’art. 25-sexies CCII. Questo strumento è riservato al caso in cui la composizione negoziata non abbia prodotto un accordo, ma l’imprenditore voglia evitare il fallimento offrendo ai creditori di liquidare tutto in modo controllato. La peculiarità del concordato semplificato è che non è previsto il voto dei creditori: il tribunale valuta il piano e, sentiti i creditori in camera di consiglio, decide se omologarlo. Siamo di fronte a una procedura molto snella (da qui il nome “semplificato”), pensata per ridurre i tempi e i costi quando la via del risanamento è preclusa e resta solo da liquidare. Per quanto concerne i debiti fiscali, la legge non dà indicazioni esplicite nel caso del concordato semplificato. Tuttavia, in assenza di norme speciali, si ritiene pacifico applicare per analogia le regole del concordato ordinario. Dunque, anche nel concordato semplificato il debitore può includere i debiti tributari nel piano, prevedendo il pagamento parziale/dilazionato e beneficiando del cram-down fiscale se necessario. Occorrerà ovviamente allegare il certificato dei debiti tributari e dimostrare la congruità dell’offerta al Fisco, come in un concordato normale. In sostanza, niente esclude che anche attraverso il concordato semplificato l’imprenditore ottenga la cancellazione parziale dei debiti d’imposta, purché il tribunale approvi e ritenga soddisfatto il principio del “non deteriore” rispetto alla liquidazione fallimentare. Questa interpretazione è confermata dagli orientamenti di prassi: il legislatore, nel disciplinare in fretta il semplificato, ha omesso dettagli ma non ha voluto negare a queste imprese i benefici fiscali eventualmente spettanti (ad esempio, l’Agenzia Entrate nelle sue istruzioni considera applicabili anche qui le agevolazioni del TUIR, come la detassazione delle sopravvenienze attive derivanti da falcidie di debiti).
Accordi di ristrutturazione dei debiti
Accanto al concordato preventivo, l’ordinamento prevede un altro strumento di regolazione negoziale della crisi con intervento del tribunale: gli accordi di ristrutturazione dei debiti, disciplinati oggi dall’art. 63 CCII (corrispondente all’ex art. 182-bis L.F.). Gli accordi di ristrutturazione (spesso abbreviati in “ARD”) sono sostanzialmente contratti tra il debitore e una parte rilevante dei suoi creditori, finalizzati a ristrutturare l’indebitamento. A differenza del concordato, non coinvolgono necessariamente tutti i creditori né prevedono classi e voto universale: è sufficiente il consenso espresso di almeno il 60% dei creditori (in termini di valore dei crediti), e i creditori non aderenti restano estranei all’accordo (se però l’accordo è omologato, godono di una protezione contro azioni individuali, e in alcuni casi subiscono ugualmente effetti se si applica l’“efficacia estesa” di cui diremo). Gli ARD sono spesso utilizzati quando l’impresa ha pochi creditori principali (es. solo le banche), cosicché è possibile raggiungere un’intesa con loro senza passare per la procedura di voto formale del concordato.
Anche negli accordi di ristrutturazione il trattamento dei debiti fiscali è un punto delicato. Inizialmente (prima della riforma) la legge non contemplava esplicitamente la falcidia di tributi negli ARD, ma in pratica si faceva ricorso all’istituto della transazione fiscale inserito nell’accordo: l’art. 182-ter L.F. prevedeva che, contestualmente all’accordo, si potesse presentare all’Amministrazione finanziaria una proposta di pagamento parziale/dilazionato delle imposte dovute. Oggi l’art. 63 CCII conferma questa possibilità: il debitore può includere nell’accordo un piano di transazione fiscale e contributiva, con logica analoga a quella del concordato. Ciò significa che si negozia con l’Erario (e con l’INPS) un accordo sul pagamento in misura ridotta dei tributi, confrontando sempre la percentuale offerta con quella teoricamente ricavabile dalla liquidazione dei beni.
Una differenza importante è che nell’ARD non tutti i creditori votano: idealmente, il debitore ottiene l’adesione del Fisco stesso all’accordo (firmando la transazione), nel qual caso non ci sono problemi: l’accordo omologato vincola il Fisco al trattamento concordato. Ma se il Fisco non aderisce? Fino al 2020, un mancato accordo col Fisco significava che l’ARD non poteva coinvolgerlo – restava un creditore estraneo che poteva agire per conto suo. Dal 2020, invece, è stato introdotto nell’ordinamento il meccanismo del cram-down fiscale anche negli accordi di ristrutturazione. Il D.L. 125/2020 (conv. L. 147/2020, cosiddetto “Decreto Ristori”) ha infatti previsto che, se l’accordo ottiene l’adesione della maggioranza dei creditori diversi dal Fisco, e la proposta al Fisco era conveniente (in termini di confronto con il fallimento), allora il tribunale può omologare l’accordo anche senza il consenso dell’Erario. Questa norma, ora trasfusa nell’art. 64 CCII, consente di rendere effettivo l’accordo di ristrutturazione “di maggioranza” estendendolo al Fisco contro la sua volontà, limitatamente però all’effetto esdebitativo verso il Fisco a conclusione dell’accordo. In altre parole, se l’accordo va in porto con gli altri creditori, il Fisco dissenziente – all’esito dell’omologazione – subisce comunque la riduzione del proprio credito secondo i termini offerti, purché tali termini rispettassero i suoi diritti minimi. Anche qui, ovviamente, l’Amministrazione può opporsi in sede di omologazione se ritiene che l’offerta non fosse realmente migliorativa rispetto alla liquidazione.
La Cassazione ha già avuto modo di pronunciarsi su aspetti procedurali di questi accordi con transazione fiscale. Con la sentenza n. 34377 del 24 dicembre 2024, ad esempio, la Suprema Corte ha chiarito che la richiesta di omologazione di un ARD contenente una transazione fiscale deve rispettare i termini di risposta concessi all’Amministrazione finanziaria, facendo decorrere tutti i termini (anche quelli di eventuale opposizione) dalla data di pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese. Ciò al fine di garantire il pieno contraddittorio con il Fisco, che dev’essere posto nelle condizioni di esaminare la proposta e reagire se necessario. Inoltre, la stessa sentenza ha confermato che, pendente una procedura di omologazione di un accordo di ristrutturazione, al pari di quanto avviene nel concordato, il debitore non può pagare i debiti tributari pregressi senza autorizzazione del giudice, e l’eventuale decadenza da precedenti rateazioni è sospesa. Questo significa che, una volta depositato un accordo di ristrutturazione con transazione fiscale, si applica un effetto protettivo simile a quello del concordato: i creditori (incluso il Fisco) non possono migliorare la propria posizione individualmente finché l’accordo è sub iudice, il che tutela l’impresa da azioni esecutive isolate durante la fase di omologazione.
Dal punto di vista del debitore, un accordo di ristrutturazione omologato offre alcuni vantaggi simili al concordato ma con minori formalità: c’è riservatezza (il procedimento non implica comunicazioni pubbliche ai creditori estranei, se non quelle strettamente previste), c’è flessibilità (si può modulare l’accordo coinvolgendo solo certi creditori strategici) e vi sono costi procedurali inferiori. Inoltre, la legge ha previsto vari “moduli” per rendere più efficaci gli ARD: ad esempio l’accordo ad efficacia estesa (art. 64-bis CCII) che consente di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari dissenzienti purché abbiano aderito almeno l’85% di quelli appartenenti alla medesima categoria; oppure l’accordo di ristrutturazione agevolato (art. 61 CCII) che consente di chiedere misure protettive anche prima di aver raccolto tutte le firme, a patto di aver già il 30% di adesioni, così da facilitare il raggiungimento del quorum del 60%. Questi istituti vanno oltre il nostro tema, ma denotano la volontà del legislatore di rendere gli ARD strumenti versatili e attraenti per i debitori. Sul piano fiscale, come detto, grazie alle modifiche intervenute oggi il debitore può ottenere nei fatti risultati analoghi a quelli del concordato: includere tutti i debiti tributari in un unico accordo, ottenere dilazioni e riduzioni (falcidie) anche su IVA e contributi previa transazione, e persino superare l’eventuale dissenso del Fisco tramite omologa forzata. È evidente che per negoziare con successo un accordo di ristrutturazione occorre partire da un buon livello di consenso tra i principali creditori: per aziende con molti creditori eterogenei lo strumento può essere meno adatto, in quanto il mancato coinvolgimento di creditori minori potrebbe comunque esporre il debitore a azioni legali.
In sintesi, l’ARD è particolarmente indicato per crisi prevalentemente finanziarie (ad esempio ristrutturazione di debiti bancari) o per imprese con pochi creditori di peso, dove la negoziazione è circoscritta. Dal punto di vista del debitore, la convenienza sta nel poter evitare il marchio di una procedura concorsuale visibile a tutti (nel concordato c’è la convocazione dei creditori, maggiore pubblicità) e nel poter costruire su misura l’intesa con i partner strategici (es. banche che convertono crediti in capitale, fornitori chiave che accettano piani di rientro). Tuttavia, va ricordato che l’accordo, pur essendo un contratto, riceve pur sempre un giudizio di omologazione dal tribunale, il che garantisce al debitore benefici come la protezione dalle azioni individuali (moratoria) e l’esdebitazione finale (liberazione dai debiti residui per chi è personalmente obbligato, tipicamente l’imprenditore individuale).
Altri strumenti stragiudiziali: piani attestati di risanamento
Il piano attestato di risanamento (art. 56 CCII, già art. 67 co.3 lett. d) L.Fall.) è lo strumento più informale e interamente privatistico per affrontare la crisi d’impresa. Si tratta di un piano redatto dall’imprenditore, con l’aiuto di consulenti, contenente le misure necessarie a riequilibrare la situazione economico-finanziaria, sul quale un professionista indipendente appone un’attestazione di verosimiglianza e idoneità a risanare. Il piano attestato non richiede alcun intervento del tribunale né percentuali predeterminate di consenso: è un accordo contrattuale che il debitore può stipulare con uno, alcuni o tutti i suoi creditori in totale libertà. La ragion d’essere di questo istituto è duplice: da un lato consentire una ristrutturazione discreta e flessibile, senza i riflettori e i formalismi delle procedure concorsuali; dall’altro offrire una protezione legale limitata a chi vi aderisce, in particolare sotto forma di esenzione da azioni revocatorie per gli atti compiuti in esecuzione del piano (art. 56 CCII). In pratica, se un creditore accorda una dilazione o una remissione del debito nell’ambito di un piano attestato, quel patto non potrà essergli contestato in seguito in caso di fallimento come atto in frode (sempre che il piano fosse idoneo e l’attestazione veritiera).
Per quanto riguarda i debiti fiscali, il piano attestato consente una soluzione solo consensuale. Significa che il debitore potrà includere i crediti tributari nel suo piano solo se trova un accordo diretto con l’Agenzia delle Entrate o con l’AdER. Non essendoci omologazione, infatti, manca un meccanismo di imposizione ai creditori dissenzienti: se il Fisco non ci sta, il piano attestato non potrà in alcun modo obbligarlo ad accettare un pagamento ridotto. Tuttavia, nulla vieta che l’imprenditore, all’interno di un piano attestato, sfrutti strumenti ordinari come la rateizzazione amministrativa dei debiti tributari (ex art. 19 DPR 602/1973) o le definizioni agevolate previste per legge (rottamazioni, saldo e stralcio, ecc.). Ad esempio, se è pendente una “rottamazione-ter” delle cartelle, l’imprenditore potrà includere nel piano attestato il rispetto di quel piano di pagamento agevolato. Oppure, se ha i requisiti, potrà presentare istanza di ulteriore dilazione delle cartelle fino a 6 anni (72 rate) con l’AdER – un beneficio che oggi, come visto, può spingersi fino a 10 anni se ottenuto in sede di composizione negoziata. In sintesi, nel piano attestato non esistono norme speciali come l’art. 88 CCII o l’art. 63 CCII perché non è una procedura concorsuale. Il debitore deve negoziare con ciascun creditore alle normali condizioni di mercato.
Dal punto di vista pratico, il piano attestato è utile se l’impresa ha relativamente pochi debiti e soprattutto se può contare su qualche supporto finanziario esterno (nuovi apporti dei soci, vendita di asset non strategici, ecc.) per pagare almeno parzialmente tutti. Il professionista attestatore dà credibilità al piano certificando che le misure previste sono adeguate a risanare l’impresa, ma chiaramente serve che fattivamente i creditori accettino di aderire al piano (ad esempio rinunciando a una percentuale di credito o accettando di essere pagati per ultimi). Per i debiti fiscali, spesso nel piano attestato ci si limita a prevedere il pagamento integrale in un certo arco temporale, eventualmente beneficiando di qualche legge di sanatoria. Se l’Erario ha già avviato riscossioni, l’imprenditore può chiedere la sospensione volontaria delle azioni esecutive accettando di presentare un piano di rientro approvato dall’attestatore. Non essendoci, ripetiamo, alcuna moratoria automatica o effetto protettivo, tutto dipende dalla disponibilità dei creditori. Dunque, laddove il Fisco rappresenti una fetta importante del debito, è probabile che un piano attestato risulti insufficiente: in tal caso sarà preferibile ricorrere alla composizione negoziata o ad un accordo ex art. 63, dove invece esistono strumenti per gestire il dissenso del Fisco.
In conclusione, il piano attestato può essere visto come una autonoma ristrutturazione privata, adatta soprattutto a imprese che vogliono evitare la pubblicità di una procedura e che confidano di convincere confidenzialmente i propri creditori (magari pochi e selezionati) a supportare il rilancio. È l’ideale quando, ad esempio, c’è una banca principale disposta a rinegoziare i prestiti e un paio di fornitori strategici disponibili a dilazionare i crediti, mentre tutti gli altri verranno pagati regolarmente: in tal caso l’impresa può evitare di coinvolgere il tribunale e formalizzare l’intesa in un piano attestato. Sul piano fiscale, uno scenario tipico è quello in cui l’imprenditore paga regolarmente i nuovi tributi e parallelamente esaurisce nei mesi/anni seguenti il pregresso tramite le rateazioni ordinarie con AdER. Non vi sono particolari agevolazioni normative in questo contesto (quelle le abbiamo solo nelle procedure concorsuali o nella CNC), ma perlomeno il debitore, presentando un piano asseverato di risanamento, può chiedere all’AdER di evitare misure aggressive (pignoramenti, ipoteche) acconsentendo a un piano di rateazione: l’AdER è spesso incline a farlo se vede che l’impresa sta seriamente risanandosi e c’è un attestatore che lo conferma.
Liquidazione giudiziale (fallimento) ed esdebitazione
Se nessuna delle soluzioni sopra descritte riesce a salvare l’impresa, si giunge all’insolvenza conclamata e all’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, quella che nel vecchio ordinamento era chiamata “fallimento”. La liquidazione giudiziale è regolata nel Titolo V del CCII: comporta la spossessione dell’imprenditore, la nomina di un curatore, la liquidazione di tutti i beni e la ripartizione del ricavato tra i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. È una procedura essenzialmente punitiva per il debitore (perde la gestione dell’azienda e, se persona fisica, può subire limitazioni nei diritti civili durante la procedura) e satisfattiva per i creditori. Per questo il CCII mira a evitarla quando possibile, preferendo strumenti che preservino valore; tuttavia, rimane il percorso obbligato quando lo stato d’insolvenza è irreversibile.
Per quanto concerne i debiti fiscali nel fallimento (liquidazione), essi vengono trattati interamente secondo le regole delle prelazioni. Non essendo possibile alcun accordo o ristrutturazione dopo la dichiarazione di apertura, tutti i crediti tributari vanno insinuati al passivo e soddisfatti se e in quanto il patrimonio lo consente. Alcuni di essi – come IVA, ritenute non versate, imposte sui redditi (IRES, IRPEF) e l’IRAP – godono di privilegio generale sui beni mobili del debitore e in parte anche immobiliare (ex art. 2777 c.c. e leggi speciali). Ciò significa che il ricavato della liquidazione andrà anzitutto a pagare queste imposte privilegiate, dopo aver pagato le spese della procedura e gli eventuali crediti prededucibili. In particolare, l’art. 2752 c.c. assegna privilegio generale all’IVA e alle ritenute non versate, e un privilegio mobiliare ad alcuni tributi locali; l’art. 9 D.Lgs. 123/1998 estende un privilegio generale anche ai crediti dello Stato per altre imposte e alle contribuzioni obbligatorie. Pertanto, in sede di riparto fallimentare, l’Erario e l’INPS vengono soddisfatti prima dei creditori chirografari, fino a concorrenza del valore realizzato sui beni. Se, ad esempio, il curatore ricava 100 dalla vendita dei beni liberi, quei 100 andranno in primo luogo (dopo le spese di giustizia) a pagare IVA, ritenute e contributi privilegiati; solo se avanza qualcosa si passerà ai chirografari. I tributi non privilegiati (tipicamente alcune sanzioni, interessi, imposte per cui non spetta privilegio perché oltre i limiti di legge) sono considerati crediti chirografari e verranno pagati pro quota insieme agli altri crediti di pari grado, generalmente con percentuali molto basse o nulle.
Un aspetto importante introdotto dal CCII è la procedura di certificazione dei debiti fiscali e contributivi (art. 363-364 CCII). Entro 30 giorni dalla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, l’AF e gli enti previdenziali devono rilasciare un certificato con l’indicazione di tutte le somme dovute dall’impresa (avvisi di accertamento emessi, ruoli esistenti, ecc.). Questo consente al curatore di avere un quadro completo dell’esposizione verso il Fisco e di iscrivere al passivo l’importo corretto. In linea generale, il Fisco partecipa al fallimento come qualsiasi altro creditore: presenta domanda di ammissione al passivo e attende i riparti. Non ha privilegi di sorta se non quelli previsti per legge in termini di rango di credito.
Per il debitore fallito, il fallimento è chiaramente la soluzione meno desiderabile, ma il CCII ha introdotto un’importante novità a suo favore: la esdebitazione di diritto (art. 278 CCII e seguenti). Trascorso un anno dalla chiusura della liquidazione, la persona fisica fallita (imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile) è automaticamente liberata dai debiti residui non soddisfatti, salvo alcune eccezioni. Ciò significa che anche i debiti fiscali residui vengono cancellati, a condizione che il fallito abbia cooperato durante la procedura e non vi siano stati comportamenti fraudolenti. Questa regola, coerente con la direttiva UE sul fresh start, consente al debitore persona fisica di ottenere un “perdono” sui debiti insoddisfatti, incluso il Fisco (che altrimenti avrebbe potuto perseguitarlo a vita). Sono esclusi dall’esdebitazione solo i debiti per sanzioni penali e pochi altri; le sanzioni tributarie amministrative invece dovrebbero rientrare nell’esdebitazione, essendo equiparate ai debiti concorsuali (questo punto potrebbe generare dibattito, ma tendenzialmente la risposta è sì: se la sanzione è stata insinuata ed è rimasta insoddisfatta, viene esdebitata). Va precisato che per avere l’esdebitazione il fallito deve essere meritevole, ossia non aver causato il dissesto con dolo o colpa grave, non aver violato i doveri di trasparenza verso gli organi, ecc. – requisiti che, se non sussistono, potrebbero portare a negare la liberazione dai debiti.
Riassumendo, nel fallimento l’Amministrazione finanziaria esercita il proprio ruolo di creditore privilegiato: nessuna riduzione ex ante è possibile sui tributi dovuti, e anzi eventuali definizioni agevolate in corso decadono (se il debitore non le ha completate) poiché non si possono proseguire sanatorie in pendenza di fallimento. Tutto viene “cristallizzato” alla data di apertura e poi risolto secondo le regole concorsuali. Tutte le misure premiali di cui abbiamo parlato (transazioni, dilazioni straordinarie, abbuoni) sono precluse: queste o si attivano prima (nelle procedure di concordato/ARD/CNC) oppure vanno perse. In compenso, il fallito meritevole ha la prospettiva di un fresh start grazie all’esdebitazione, potendo cancellare anche eventuali carichi fiscali che non è riuscito a pagare.
A scopo riepilogativo, la seguente tabella confronta sinteticamente il trattamento dei crediti tributari nelle varie procedure (composizione negoziata, concordato preventivo, accordo di ristrutturazione e liquidazione giudiziale):
Caratteristiche | Composizione negoziata (CNC) | Concordato preventivo | Accordo di ristrutturazione | Liquidazione giudiziale (fallimento) |
---|---|---|---|---|
Status processuale | Extra-giudiziale (trattativa assistita da Esperto) | Giudiziale (ricorso e omologa tribunale) | Giudiziale (omologa tribunale su contratto) | Giudiziale (procedura concorsuale liquidatoria) |
Certificazione debiti fiscali | Non obbligatoria, ma possibile (si può richiedere all’AE il certificato ex art.364 CCII) | Sì, obbligatoria: va allegata alla domanda (art. 367 CCII) | Sì, da allegare all’istanza di omologa (art. 366 CCII) | Sì, a cura del Curatore (art. 364 CCII) |
Pagamenti durante la procedura | Consentiti quelli di gestione corrente; possibilità di sospendere azioni esecutive (misure protettive) | Vietato pagare debiti anteriori (salvo autorizzazione); i piani di rate pregresse restano sospesi senza decadenza | Situazione analoga al concordato durante l’attesa di omologa (divieto pagamenti non autorizzati) | Sospensione definitiva di tutti i pagamenti pregressi (subentra il Curatore; i creditori concorrono al passivo) |
Ruolo del Fisco nella procedura | Non parte di una classe votante; partecipa alla trattativa come creditore non votante. Possibile accordo transattivo autorizzato dal tribunale. | Creditore votante (classe privilegiata). Se dissenziente, possibile cram-down fiscale in omologa. | Creditore aderente al contratto (se firma la transazione). Se non aderisce, può subire cram-down fiscale in omologa. | Creditore concorsuale (partecipa al passivo con grado privilegiato o chirografo). Non ha ruolo decisionale, subisce la procedura di legge. |
Trattamento del debito tributario | Agevolato: dilazione straordinaria 72/120 rate; sanzioni/interessi ridotti o azzerati (art. 25-bis CCII). Possibile riduzione del capitale con accordo transattivo (art. 23 co.2-bis CCII). | Ristrutturato: pagamento parziale e/o dilazionato ammesso (art. 88 CCII), incluso su IVA/ritenute, purché ≥ valore di liquidazione. Possibile cram-down se Fisco dissenziente. | Ristrutturato: pagamento parziale/dilazionato tramite transazione fiscale (art. 63 CCII). Richiede adesione dell’AE/INPS o in difetto omologa giudiziale (cram-down art. 64). | Liquidatorio: pagamento secondo prelazioni (privilegi) su realizzo. Tributi con privilegio pagati integralmente fino a capienza; tributi chirografari pagano pro-quota se avanza attivo. Nessuna falcidia volontaria possibile, salvo quella implicita dall’insufficienza dell’attivo. |
(Legenda: AE = Agenzia Entrate; CCII = Codice Crisi; art. tra parentesi si riferisce agli articoli CCII; privilegi ex art. 2777 c.c. indicano IVA, ritenute, ecc.)
Simulazioni pratiche
Di seguito proponiamo due casi esemplificativi per illustrare in pratica l’impatto dei debiti fiscali nelle diverse soluzioni.
Esempio 1 – Composizione negoziata con transazione fiscale. Beta S.r.l. è un’azienda manifatturiera che ha accumulato debiti tributari per €300.000 (di cui €200.000 di IVA non versata nell’ultimo anno, €50.000 di imposte dirette e €50.000 tra sanzioni e interessi). L’azienda è in crisi di liquidità ma potrebbe recuperare se ottenesse una significativa dilazione. Beta avvia la composizione negoziata e, con l’ausilio dell’Esperto, negozia con l’Agenzia delle Entrate un accordo transattivo: viene concordato che la società pagherà €120.000 a saldo di tutto il debito fiscale, dilazionati in 120 rate mensili (10 anni). In tal modo il 60% del debito fiscale viene di fatto stralciato, e sul restante 40% non maturano ulteriori interessi (si applica un interesse ridotto convenuto) e le sanzioni sono azzerate. L’Esperto attesta che, in caso di fallimento, il Fisco avrebbe recuperato forse €100.000 (stima di realizzo dei beni liberi); dunque l’accordo proposto (120k in 10 anni) è addirittura migliorativo per l’Erario. L’Agenzia aderisce formalmente all’accordo e il tribunale, verificata la convenienza, lo autorizza. Beta S.r.l. ottiene quindi un enorme respiro: le azioni esecutive restano bloccate, l’azienda può proseguire l’attività e generare i flussi con cui pagare le rate, e al termine dell’accordo sarà libera da ogni debito verso il Fisco. I creditori diversi dal Fisco (es. banche e fornitori) sono anch’essi favorevoli perché intravedono la continuità dell’impresa; alcuni di essi accettano di allungare le proprie scadenze per allinearsi al piano di risanamento. L’alternativa sarebbe stato il fallimento di Beta, con probabili esiti peggiori per tutti (chiusura immediata dello stabilimento e soddisfazione minima dei creditori).
Esempio 2 – Concordato preventivo in continuità con cram-down fiscale. Gamma S.p.A. opera nel commercio al dettaglio e ha subito perdite negli ultimi anni. Ha debiti per €1.000.000, di cui €300.000 con le banche (chirografari, senza garanzie), €500.000 con fornitori e €200.000 verso l’Erario (IVA e imposte dirette arretrate, tutte privilegiate). Gamma presenta un piano di concordato con continuità aziendale: un investitore è disposto a immettere nuovi fondi nella società e i costi operativi vengono ridotti. Il piano propone di pagare integralmente i 300k alle banche (in 5 anni, dato che sono essenziali per avere linee di credito future), di pagare i fornitori al 50% (sempre in 5 anni) e di pagare il Fisco anch’esso al 50% in 5 anni (ossia €100.000 su 200k). Le sanzioni tributarie verrebbero ridotte ai minimi di legge e gli interessi di mora non verrebbero conteggiati ulteriormente. Il professionista attestatore conferma che, in caso di fallimento, l’Erario probabilmente recupererebbe meno del 50% (poiché i beni liberi coprono solo in parte i crediti privilegiati). Al voto, banche e fornitori approvano il concordato; l’Erario invece esprime parere negativo, contestando di poter magari ricavare di più liquidando qualche bene. Si passa all’udienza di omologazione: il tribunale verifica che il piano rispetti l’art. 88 CCII (il Fisco ha comunque la sua percentuale pari o superiore al valore di realizzo dei beni) e rileva che la proposta è stata approvata dalla maggioranza delle altre classi di creditori. Applicando l’art. 48 CCII (cram-down), il tribunale omologa il concordato nonostante il dissenso dell’Erario. Viene concesso al Fisco un termine per proporre opposizione, ma nel frattempo il concordato si intende efficace. L’Agenzia Entrate, valutato che effettivamente la proposta è equa, decide di non opporsi formalmente. La sentenza di omologazione rende quindi definitivo il taglio del 50% sui debiti fiscali: Gamma S.p.A. pagherà €100.000 in 5 anni come stabilito e sarà libera del residuo. Questo caso dimostra il funzionamento del meccanismo di allerta precoce e gestione proattiva: Gamma, grazie anche ai consigli dei suoi consulenti, ha agito prima di precipitare in insolvenza irreversibile, ha sfruttato gli strumenti normativi a disposizione e, pur dovendo ristrutturare drasticamente i debiti, è riuscita a evitare la chiusura e a salvaguardare la continuità aziendale.
Domande frequenti (FAQ)
D: In un concordato preventivo posso ottenere uno sconto sui debiti IVA e altre imposte (es. IRES)?
R: Sì, è possibile, tramite la transazione fiscale. Il piano concordatario può prevedere una falcidia (riduzione) dei debiti IVA, imposte e contributi, purché sia rispettata la condizione di offrire al Fisco almeno quanto otterrebbe in caso di liquidazione fallimentare. Serve l’attestazione di un professionista che certifichi questa condizione. Se i creditori approvano il concordato ma il Fisco rifiuta ingiustificatamente, il tribunale può comunque omologare il concordato (cram-down fiscale), rendendo effettiva la riduzione del debito IVA/IRES anche senza il voto favorevole dell’Erario.
D: Se presento domanda di concordato, posso continuare a pagare le rate fiscali di un’eventuale dilazione in corso?
R: No, dal momento del deposito del ricorso di concordato scatta il divieto di pagare i debiti pregressi fuori dalle modalità concorsuali. Il pagamento delle rate di imposte già scadute è considerato atto di straordinaria amministrazione e non è consentito senza autorizzazione del tribunale. Tuttavia questo non danneggia il debitore: la sospensione delle rate in corso è effetto di legge, per cui l’Agenzia Entrate non può dichiararne la decadenza né applicare sanzioni per il mancato pagamento. In pratica le rate restano congelate durante la procedura e, se il concordato va a buon fine, saranno ridefinite nel piano; se invece si va al fallimento, il debito residuo concorrerà come credito concorsuale.
D: I debiti con l’INPS (contributi previdenziali) si possono trattare come quelli fiscali nel concordato?
R: Sì. Il CCII prevede espressamente che la transazione previdenziale segua le stesse regole di quella fiscale. Dunque anche i contributi INPS e i premi INAIL possono essere oggetto di falcidia o dilazione nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, alle medesime condizioni: garanzia di un pagamento non inferiore al ricavabile in liquidazione e eventuale omologa forzata se l’ente rifiuta ingiustificatamente. Inoltre, come per i tributi, l’INPS rilascia un certificato dei debiti contributivi (art. 363 CCII) da allegare alla domanda di concordato o accordo.
D: Cosa succede ai debiti tributari in un concordato semplificato?
R: Il concordato semplificato (quello post-composizione negoziata) non ha regole fiscali dettagliate proprie. In assenza di una disciplina ad hoc, si applicano per analogia le norme del concordato ordinario. Quindi il debitore può inserire i debiti fiscali nel piano del concordato semplificato e proporne la falcidia, con gli stessi criteri di congruità (non deteriore rispetto alla liquidazione) e necessaria approvazione del tribunale. Non vi è un divieto di falcidiare IVA/ritenute neanche nel concordato semplificato – del resto, sarebbe illogico incentivarne l’uso se poi quei debiti dovessero restare fuori. La prassi e la dottrina concordano sul fatto che l’Erario possa partecipare al concordato semplificato, eventualmente opponendosi se ritiene il trattamento non equo, ma senza un potere di veto assoluto. In definitiva, anche nel semplificato il debitore può puntare ad abbattere il carico fiscale come nelle altre procedure, sebbene manchi la formalità del voto dei creditori.
D: Posso beneficiare di una definizione agevolata fiscale (rottamazione, saldo e stralcio) mentre sono in concordato o in un’altra procedura concorsuale?
R: In linea di massima, le sanatorie fiscali (come la “rottamazione delle cartelle” o il “saldo e stralcio” previsto da provvedimenti legislativi) sono accessibili finché non inizia una procedura concorsuale. Una volta presentato ricorso per concordato o accordo di ristrutturazione e ottenuti gli effetti protettivi, prevalgono le norme concorsuali: quindi non è più possibile aderire a una rottamazione come se nulla fosse. Tuttavia, i benefici di tali definizioni agevolate (riduzione sanzioni, interessi, ecc.) possono essere integrati nel piano concordatario o dell’accordo. In pratica, se prima di depositare il concordato il debitore presenta domanda di rottamazione e ottiene, ad esempio, lo stralcio delle sanzioni, potrà poi inserire nel piano il debito già al netto delle sanzioni. Oppure, se una legge di definizione agevolata esce quando il concordato è in corso, l’imprenditore può chiedere di modificare la proposta includendo quell’agevolazione. Da notare che nulla impedisce di cumulare i vantaggi: ad esempio, se il debitore ha aderito a una rottamazione (che elimina sanzioni e interessi) e poi propone un concordato, potrà falcidiare ulteriormente il capitale entro i limiti del “non deteriore”. In sintesi: sì, le soluzioni di saldo e stralcio sono compatibili con le procedure, ma vanno temporizzate correttamente (prima di entrare in procedura, o integrando il piano). Una volta aperto il concorso formale, non ci si può avvalere dell’adesione ex novo a una rottamazione esterna, perché i debiti fiscali sono ormai soggetti alle regole concorsuali e agli eventuali provvedimenti del giudice.
D: Ho ricevuto una PEC di segnalazione dall’Agenzia delle Entrate (allerta esterna). Sono obbligato ad attivare la composizione negoziata?
R: No, giuridicamente non vige un obbligo coercitivo di attivare una procedura. La segnalazione costituisce un forte invito e moralmente impone di valutare la composizione negoziata, ma la scelta resta in capo all’imprenditore. Detto ciò, ignorare l’allerta è altamente rischioso: come spiegato, gli amministratori non hanno più scuse dopo l’avviso e potrebbero incorrere in responsabilità per inattività colposa. Inoltre, i sindaci vigilano e potrebbero arrivare a coinvolgere l’autorità giudiziaria (art. 2409 c.c.) se nulla viene fatto. Dunque, pur non essendoci un obbligo di legge di presentare un’istanza CNC, nella pratica il debitore dovrebbe attivarsi immediatamente: può avviare la CNC, oppure cercare alternative (un accordo stragiudiziale con il Fisco, la regolarizzazione spontanea dei debiti se possibile, o un piano di risanamento). L’importante è non restare inerti. Muoversi prontamente può anche servire a mitigare eventuali conseguenze negative: ad esempio, se più tardi l’azienda dovesse fallire, aver tentato la composizione negoziata dopo l’allerta potrebbe essere visto come elemento di buona fede, utile per ottenere l’esdebitazione e per evitare accuse di aver aggravato il dissesto. Al contrario, l’inerzia totale dopo l’allerta potrebbe precludere l’esdebitazione per dolo o colpa grave. In conclusione, la PEC di allerta va considerata un ultimatum: il debitore non è obbligato a uno strumento specifico, ma è vivamente “costretto” dagli eventi a prendere in mano la situazione, con l’aiuto di professionisti, e cercare la via migliore per affrontare la crisi.
D: Quali vantaggi ottengo se affronto tempestivamente la crisi anziché attendere il fallimento?
R: I vantaggi per un imprenditore che agisce precocemente sono molteplici. In primo luogo, la possibilità di accedere agli strumenti di composizione della crisi: come abbiamo visto, la composizione negoziata e il concordato permettono di ridurre l’ammontare dei debiti (anche fiscali) e di dilazionarne il pagamento in modo sostenibile, opzioni che in caso di fallimento non esistono (nel fallimento i debiti restano dell’importo originario e spesso sono pagati solo parzialmente o per nulla, senza accordo). Inoltre, affrontare la crisi per tempo consente di proteggere la continuità aziendale: si evita l’interruzione brusca dell’attività, salvaguardando il valore dell’impresa e spesso i posti di lavoro. Dal punto di vista personale dell’imprenditore, attivarsi tempestivamente riduce il rischio di incorrere in responsabilità civili o penali per aggravamento del dissesto: chi chiede tardi il fallimento rischia l’accusa di bancarotta semplice, mentre chi si muove per tempo dimostra diligenza. Ci sono poi benefici patrimoniali: ad esempio nelle procedure concordatarie sono previste esenzioni da azioni revocatorie e la possibilità di ottenere l’esdebitazione finale delle obbligazioni insoddisfatte; nella composizione negoziata, come visto, vi sono premialità fiscali che possono azzerare sanzioni e interessi. Infine, intervenire presto significa spesso avere ancora risorse da investire nel salvataggio (un nuovo finanziatore sarà più propenso ad aiutare un’azienda non del tutto compromessa) e poter contare sulla fiducia residua dei partner contrattuali. Aspettare il fallimento significa invece perdere il controllo: la soluzione sarà gestita da un curatore, l’impresa con ogni probabilità cesserà di esistere, e l’imprenditore dovrà affrontare anni di procedure senza alcuna garanzia di liberazione integrale dai debiti (pur con l’esdebitazione, che però non copre eventuali responsabilità personali). In sintesi: la via negoziata e preventiva offre una chance di salvezza o quantomeno di chiusura dignitosa della vicenda, mentre la via tardiva conduce a una chiusura traumatica e spesso più penalizzante.
Principali novità normative 2022-2025
Negli ultimi anni la disciplina crisi d’impresa è stata oggetto di continui aggiustamenti. Ecco un riepilogo delle novità normative di rilievo dal 2020 in poi e del loro impatto sui debiti fiscali del debitore:
- D.L. 125/2020, conv. L. 147/2020 (“Decreto Ristori”) – Ha introdotto per la prima volta il cram-down fiscale nelle procedure concordatarie. In caso di voto contrario del Fisco, se la proposta era migliorativa rispetto al fallimento, il tribunale può omologare comunque il piano. Questa innovazione, poi consolidata nel CCII (art. 48), ha aperto la strada a ristrutturazioni efficaci del debito tributario anche senza consenso dell’Erario.
- D.L. 152/2021, conv. L. 233/2021 (“Decreto Allerta”) – Ha reso operative dal 2022 le segnalazioni d’allerta esterne dei creditori pubblici qualificati, fissando le soglie per INPS, Agenzia Entrate e AdER come visto sopra. Inoltre, ha anticipato l’entrata in vigore della composizione negoziata, sospendendo contestualmente le vecchie procedure di allerta OCRI.
- D.Lgs. 83/2022 (“Correttivo bis” o Decreto Semplificazioni) – Ha integrato il CCII alla luce della Direttiva UE 2019/1023. Tra le novità: l’introduzione del concordato semplificato (art. 25-sexies CCII), accessibile post-CNC, e una riorganizzazione della composizione negoziata (chiarendo ad esempio che chi ha già in corso un fallimento o concordato non può accedervi). Sul piano fiscale questo decreto ha di fatto ampliato le possibilità di accesso agli strumenti per le piccole imprese e consolidato il principio che anche nelle nuove procedure (come il semplificato) valgono, seppur implicitamente, le tutele del Fisco (parità di trattamento relativa, transazione fiscale analoga).
- D.Lgs. 13/2024 (“Concordato biennale”) – Ha previsto una misura temporanea (per il biennio 2024-25, eventualmente prorogabile) rivolta alle piccole imprese colpite da crisi sistemiche. Consente un concordato preventivo semplificato con durata massima due anni di esecuzione. Rilevanza per i debiti fiscali: estende la platea di imprese che possono accedere al concordato con gli sconti tributari previsti dall’art. 88 CCII. In pratica, anche microimprese sotto soglia possono proporre falcidie di tributi nell’ambito di questo concordato “speciale”.
- D.Lgs. 136/2024 (“Correttivo ter” CCII) – È il più recente intervento correttivo, di grande importanza per i debiti fiscali. Ha esteso la transazione fiscale alla composizione negoziata (inserimento art. 23 co. 2-bis CCII), potenziato le misure premiali fiscali dell’art. 25-bis CCII (es. aumento da 72 a 120 rate massime), e introdotto varie norme di coordinamento. Ha anche confermato il principio della parità di trattamento relativa dei crediti tributari nelle procedure, sancendo che il Fisco non può ottenere meno degli altri creditori di pari grado senza motivo. Di fatto, con questo decreto, l’arsenale di strumenti del debitore per trattare i debiti fiscali è completo.
- Legge Delega 111/2023 – Ha delegato il Governo a emanare ulteriori disposizioni in materia di crisi, tra cui l’estensione degli accordi di ristrutturazione anche ai debiti fiscali locali (tributi comunali, regionali). Allo stato di giugno 2025, questa delega non è ancora attuata: si prevede però che in futuro anche i tributi locali possano essere inclusi nelle transazioni fiscali, ampliando ancor di più il perimetro di negoziabilità dei debiti tributari (oggi nelle transazioni rientrano soprattutto i tributi erariali statali e i contributi).
In conclusione, il periodo 2020-2024 ha visto un grande fermento normativo, sempre più orientato a offrire al debitore in crisi opportunità di risanamento anche sul fronte fiscale. Il sistema italiano, un tempo considerato troppo rigido per la parte di debiti tributari (che risultavano “inderogabili”), si è evoluto verso un modello flessibile dove – fatte salve le dovute garanzie – tutto il debito può essere rimesso in discussione e ristrutturato, includendo IVA e contributi, se ciò consente di superare la crisi d’impresa. Naturalmente questo potere negoziale si bilancia con l’attenzione a non svantaggiare indebitamente l’Erario: restano in piedi i principi di equità (il Fisco non deve ricevere meno di altri creditori dello stesso rango) e di convenienza rispetto alla liquidazione. Però l’aspetto forse più importante, dal punto di vista del debitore, è la crescente responsabilizzazione: oggi il titolare d’impresa non può più sperare di gestire il dissesto confidando magari in un condono futuro o nello scarico integrale dei debiti in fallimento; la legge lo vuole attivo e diligente nel prevenire la crisi e nel trovare soluzioni. Gli incentivi e i disincentivi introdotti (premialità in caso di azione tempestiva, sanzioni e responsabilità in caso di inerzia colpevole) vanno letti proprio in questa chiave. Nel 2025, l’imprenditore che agisce per tempo e in buona fede ha a disposizione strumenti efficaci per trattare anche con il Fisco, mentre chi lascia incancrenire la situazione rischia di subire passivamente le conseguenze peggiori.
Fonti
Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (CCII), vigente con modifiche e correttivi (in particolare artt. 23, 25-bis, 25-novies, 63, 84-88, 364 CCII).
Legge Fallimentare (previgente) – R. D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 168 e art. 182-ter, per i principi ancora rilevanti in materia di divieto di pagamenti e transazione fiscale.
D.L. 152/2021 (conv. L. 233/2021) – Introduzione delle soglie di allerta esterna dal 1º gennaio 2022 (art. 25-novies CCII). Definisce importi-soglia per debiti INPS, IVA e ruoli esattoriali ai fini delle segnalazioni d’allerta.
D.L. 125/2020 (conv. L. 147/2020) – Misure emergenziali “Ristori”: ha introdotto il cram-down fiscale (ora art. 48 CCII) consentendo l’omologazione di concordati e accordi anche senza adesione del Fisco, se la proposta è migliorativa rispetto alla liquidazione.
D.Lgs. 83/2022 – Decreto “Correttivo-bis”: ha introdotto il concordato semplificato (art. 25-sexies CCII) e ridefinito la composizione negoziata (art. 23 CCII), estendendo implicitamente alle nuove procedure la disciplina generale sui debiti tributari (transazione fiscale applicabile per analogia).
D.Lgs. 13/2024 – Ha previsto il concordato preventivo biennale per piccole imprese in crisi sistemica (norma transitoria): semplificazioni procedurali mantenendo l’applicazione di art. 88 CCII ai debiti fiscali.
D.Lgs. 136/2024 – Terzo correttivo CCII: ha esteso la transazione fiscale alla composizione negoziata (art. 23 co. 2-bis CCII) e rafforzato le misure premiali fiscali (art. 25-bis CCII). Ha inoltre confermato la parità di trattamento relativa per i crediti tributari nelle procedure.
Legge 21 ottobre 2021, n. 147 – Conversione D.L. 118/2021: istituzione della composizione negoziata della crisi (artt. 2-17 D.L. 118/2021, confluiti nel CCII) e del concordato semplificato (art. 18 D.L. 118/2021).
Legge Delega 21 aprile 2023, n. 111 – Delega al Governo per ulteriori riforme in materia di crisi d’impresa, tra cui l’inclusione dei tributi locali negli accordi di composizione della crisi (non ancora attuata al giugno 2025).
Cassazione Civile, sez. trib., 6 maggio 2024, n. 12174 – Sentenza che ha sancito la sospensione ex lege della riscossione delle imposte rateizzate durante il concordato preventivo, con impossibilità di decadenza dal beneficio. Conferma che il contribuente in concordato non può essere sanzionato per il mancato pagamento di debiti pregressi poiché legalmente impedito.
Cassazione Civile, 1ª sez., 9 febbraio 2023, n. 4081 (ord.) – Ribadisce il principio di sospensione dei pagamenti pregressi: il deposito del ricorso di concordato rende i pagamenti di debiti tributari atti di straordinaria amministrazione vietati, e la sospensione del pagamento non determina decadenza dalle dilazioni né applicazione di sanzioni.
Cassazione Civile, 1ª sez., 24 dicembre 2024, n. 34377 – Sentenza sul cram-down fiscale negli accordi di ristrutturazione: chiarisce la decorrenza dei termini di omologazione e opposizione nel caso di transazione fiscale inclusa in un accordo ex art. 63 CCII. Conferma inoltre che, fino all’omologazione, il debitore in attesa di ARD omologando non può effettuare pagamenti preferenziali ai creditori pubblici (sospensione analoga al concordato).
Agenzia Entrate – Circolare n. 34/E del 29.12.2020 – Linee guida sull’istituto della transazione fiscale, emanate dopo le novità del 2020 sul cram-down. Illustra i criteri con cui gli Uffici valutano le proposte di concordato/accordo (analisi del piano, verifica convenienza rispetto a fallimento) e conferma che durante un concordato il mancato pagamento di debiti tributari non è sanzionabile perché imposto dalla legge.
Agenzia Entrate – Risposta a interpello n. 443/2023 – Chiarimenti sul trattamento dei debiti fiscali nell’ambito della composizione negoziata. Conferma che tutte le tipologie di debiti tributari (anche non ancora in cartella) possono essere ricomprese nel piano di ristrutturazione ex art. 25-bis CCII, con possibilità di rate variabili crescenti.
Agenzia Entrate – Provvedimento 29 gennaio 2024 – Disposizioni attuative interne relative alla transazione fiscale nella composizione negoziata. Istituisce procedure e moduli per richiedere la rateazione straordinaria e regolamenta il coordinamento con le misure protettive (sospensione delle azioni esecutive e delle decadenze durante le trattative).
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Nel 2025 il Codice della Crisi d’Impresa rafforza il meccanismo di allerta precoce, uno strumento pensato per intercettare i segnali di difficoltà finanziaria delle imprese prima che sfocino in insolvenza.
In particolare, debiti fiscali e contributivi non gestiti possono attivare segnalazioni automatiche che portano l’impresa davanti all’Organismo di Composizione della Crisi.
Evitare di sottovalutare questi segnali è fondamentale per proteggere l’impresa e l’amministratore da responsabilità personali.
Cosa prevede il sistema di allerta nel 2025?
Il sistema di allerta 2025 si basa su due livelli:
- Indicatori interni: squilibri nei flussi di cassa, perdite, deterioramento del patrimonio, incapacità di onorare i debiti
- Segnalazioni esterne obbligatorie: partono da enti pubblici come:
- Agenzia delle Entrate (debiti IVA superiori a soglie di legge)
- INPS (omessi versamenti contributivi)
- Agente della Riscossione (cartelle non pagate oltre un certo importo)
Queste segnalazioni attivano una comunicazione formale all’imprenditore, che ha l’obbligo di reagire in tempi brevi, valutando l’accesso a strumenti di composizione assistita della crisi.
Cosa succede se ignori il sistema di allerta?
Ignorare la segnalazione comporta gravi rischi per l’impresa e per l’amministratore, tra cui:
- Azione di responsabilità per danni verso i creditori
- Perdita di accesso a strumenti premiali previsti dal Codice della Crisi
- Aggravamento del debito fiscale e contributivo
- Impossibilità di utilizzare il patrimonio residuo in modo protetto
- Apertura di procedure giudiziali invasive e costose
La prevenzione è la vera chiave per trasformare una crisi in una nuova opportunità di equilibrio e continuità.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
📂 Verifica se i tuoi debiti fiscali e contributivi rientrano nei parametri di rischio
📑 Ti guida nella risposta formale alla segnalazione di allerta
⚖️ Ti assiste nella composizione negoziata della crisi con esperti e creditori
✍️ Redige piani di risanamento, accordi di ristrutturazione o liquidazioni controllate
🔁 Ti tutela anche contro responsabilità personali e blocchi patrimoniali
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in crisi d’impresa e allerta precoce
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Difensore di PMI, imprese artigiane, ditte individuali e studi professionali
Conclusione
Il sistema di allerta 2025 non è una condanna, ma un’opportunità per salvare l’impresa prima del fallimento.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi intercettare per tempo i segnali critici, proteggerti legalmente e costruire un piano concreto di rilancio o uscita ordinata.
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