Strumenti E Strategie Per La Gestione Della Crisi D’impresa

Hai un’azienda in difficoltà e ti stai chiedendo quali strumenti esistono per gestire la crisi d’impresa senza arrivare al fallimento? Vuoi capire quali strategie legali puoi attivare per salvare l’attività, bloccare i creditori e rilanciare l’impresa?

Oggi la crisi d’impresa non è più solo una situazione da subire: il Codice della Crisi ha introdotto strumenti precisi per intervenire in tempo, gestire i debiti e recuperare la continuità aziendale. Ma servono scelte rapide, consapevoli e supportate da un piano concreto.

Cosa si intende per gestione della crisi d’impresa?
È l’insieme di azioni, strumenti giuridici e strategie economiche per affrontare squilibri finanziari e patrimoniali, evitando l’insolvenza irreversibile. L’obiettivo è preservare l’attività, salvaguardare i posti di lavoro e tutelare il patrimonio dell’imprenditore.

Quali strumenti prevede la legge per gestire la crisi?
Composizione negoziata della crisi: percorso volontario con l’ausilio di un esperto terzo per trattare con i creditori e trovare un accordo
Concordato semplificato: per chi non riesce a trovare un’intesa e ha bisogno di una soluzione giudiziale rapida
Accordi di ristrutturazione dei debiti: contratto omologato con i creditori per pagare in modo sostenibile
Piano attestato di risanamento: piano extragiudiziale, utile per conservare affidamenti e credibilità
Concordato preventivo (solo per soggetti fallibili): per ristrutturare o liquidare in modo controllato

Quali strategie possono affiancare questi strumenti legali?
Riduzione dei costi fissi e rinegoziazione dei contratti
Cessione di rami d’azienda non redditizi
Recupero dei crediti e dismissione di beni non strategici
Piani di rilancio commerciale o riorganizzazione interna
Coinvolgimento di nuovi investitori o soci finanziatori

Quando bisogna intervenire?
Il prima possibile. La legge impone all’imprenditore di attivarsi subito al primo segnale di crisi, come:
– Incapacità di pagare fornitori nei termini
– Rifiuto di nuove linee di credito da parte delle banche
– Accumulo di cartelle esattoriali o decreti ingiuntivi
– Flussi di cassa negativi per più trimestri consecutivi

Cosa NON devi fare se sospetti una crisi?
– Fare nuovi debiti per coprire quelli vecchi
– Aspettare che partano pignoramenti o fermi amministrativi
– Tralasciare gli obblighi di segnalazione agli organi di controllo
– Continuare un’attività non più sostenibile solo per “resistere”

La gestione della crisi non è solo sopravvivenza: è l’occasione per ripartire.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa e ristrutturazione del debito – ti spiega quali strumenti e strategie puoi attivare per affrontare la crisi, proteggere l’azienda e ricostruire la tua posizione in modo legale, ordinato e mirato.

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Introduzione

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII, D.Lgs. 14/2019 e successive modifiche) ha rivoluzionato la gestione delle situazioni di crisi o insolvenza in Italia, introducendo una gamma completa di strumenti giuridici. Questi strumenti mirano, da un lato, a favorire il risanamento dell’impresa quando possibile e, dall’altro, a regolare in modo ordinato la liquidazione del patrimonio se il salvataggio non è praticabile. Il Codice, entrato definitivamente in vigore il 15 luglio 2022 dopo vari rinvii per l’emergenza pandemica, si allinea anche alle più recenti norme europee (Direttiva UE 2019/1023) in materia di ristrutturazioni preventive e insolvenza.

Dal punto di vista del debitore (imprenditore o privato indebitato), è essenziale comprendere quale strumento adottare in base alla propria situazione. Il CCII prevede un procedimento unitario di accesso: in pratica, il debitore presenta un unico ricorso iniziale e indica lo strumento (o la combinazione di strumenti) che intende utilizzare. Ogni procedura conserva però una disciplina autonoma e separata. La scelta dello strumento dipende principalmente da: gravità dello stato di difficoltà, natura e dimensione del debitore, obiettivo perseguito (continuare l’attività, ristrutturare il debito o liquidare i beni) e grado di consenso dei creditori che il debitore può realisticamente ottenere.

In generale, il Codice distingue tra situazioni progressive di difficoltà e offre soluzioni appropriate per ciascuna fase:

  • Se l’impresa è solo in difficoltà incipiente (crisi probabile, non ancora insolvenza conclamata), è incoraggiata ad attivare strumenti di allerta precoce e negoziazione assistita per evitare l’aggravarsi della crisi. In particolare, può avviare la composizione negoziata della crisi, purché esistano ragionevoli prospettive di risanamento.
  • Se l’impresa è in stato di crisi conclamata (difficoltà seria ma attività ancora recuperabile) o anche di prima insolvenza non irreversibile, può accedere agli strumenti di regolazione della crisi formali (accordi, piani o concordati) per ristrutturare i debiti ed evitare la liquidazione.
  • Se l’impresa è in stato di insolvenza conclamata e irreversibile, resta come ultima ratio la procedura liquidatoria (la liquidazione giudiziale, erede del fallimento) per tutelare i creditori.
  • Se il debitore è un soggetto non fallibile (consumatore, professionista, piccola impresa sotto le soglie di fallibilità, imprenditore agricolo, start-up innovativa), dispone di apposite procedure di sovraindebitamento (piani o concordati minori, liquidazione controllata) per regolare la crisi.

Il Codice della crisi privilegia fortemente gli interventi tempestivi. Gli amministratori di società hanno il dovere (art. 2086 c.c. novellato) di istituire assetti adeguati per rilevare tempestivamente la crisi ed attivarsi senza indugio. Inoltre, esistono meccanismi di segnalazione obbligatoria da parte di alcuni creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, INPS, ecc.): se l’impresa supera certi ritardi e soglie di debito tributario/previdenziale, questi enti devono avvisare l’organo di controllo della società e lo stesso imprenditore, sollecitando l’adozione di misure per la composizione della crisi (art. 25-novies CCII). Queste “lettere di allerta” sono operative dal 2023 (ad esempio, INAIL con circ. n.28/2023 ha disciplinato le modalità di invio delle segnalazioni ai debitori inadempienti). In parallelo, l’organo di controllo interno (collegio sindacale) ha l’obbligo di attivarsi quando rileva indizi di crisi, invitando gli amministratori a reagire e, nei casi gravi, informando il tribunale.

In sintesi, l’approccio normativo attuale spinge il debitore a giocare d’anticipo: utilizzare gli strumenti negoziali appena si profilano squilibri, e solo in seconda battuta ricorrere alle procedure giudiziali se necessario. I paragrafi che seguono illustrano in dettaglio tutti gli strumenti di gestione della crisi d’impresa previsti dal Codice, con un taglio pratico ma di livello avanzato, corredando l’esposizione con le ultime novità normative (aggiornate a giugno 2025), gli orientamenti della giurisprudenza più autorevole, esempi applicativi e analisi degli effetti fiscali e patrimoniali di ciascun istituto. L’attenzione è focalizzata sul punto di vista del debitore: come ciascun strumento può aiutarlo a superare la crisi o, quantomeno, a liquidare l’attività in modo ordinato e beneficiare di un fresh start.

Panoramica degli strumenti di regolazione della crisi

Prima di entrare nel merito dei singoli istituti, è utile uno sguardo d’insieme. Il CCII definisce “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” tutte le misure, accordi e procedure volti o al risanamento dell’impresa (mediante modifica della composizione di attività e passività o del capitale) oppure alla liquidazione del patrimonio, eventualmente preceduti dalla fase di composizione negoziata. Si possono classificare tali strumenti in tre categorie principali:

  • Strumenti di allerta e prevenzione (extragiudiziali): mirano a far emergere e gestire la crisi prima che diventi insolvenza conclamata. Comprendono gli obblighi di segnalazione interna ed esterna e, soprattutto, la composizione negoziata della crisi, procedura volontaria di negoziazione assistita da un esperto.
  • Strumenti di ristrutturazione (concorsuali o ibridi): mirano a ristrutturare i debiti e riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa, evitando la cessazione dell’attività. In questa categoria rientrano il piano attestato di risanamento (strumento stragiudiziale), gli accordi di ristrutturazione dei debiti (di natura mista, volontaria ma con omologazione giudiziale) – inclusi i nuovi accordi “agevolati” e “ad efficacia estesa” – il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO), nonché il classico concordato preventivo (nelle sue varianti in continuità o liquidatorio) e il concordato minore per i debitori minori.
  • Strumenti liquidatori: mirano a liquidare il patrimonio insolvente distribuendolo ai creditori in modo ordinato e con effetti esdebitativi per il debitore. Vi appartengono la liquidazione giudiziale (ex fallimento) per le imprese assoggettabili e la liquidazione controllata per i debitori non fallibili. Anche il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio rientra in questa categoria, pur avendo natura concorsuale anomala, così come la procedura di liquidazione coatta amministrativa per alcuni enti regolamentati (banche, assicurazioni) prevista da leggi speciali.

La tabella seguente riepiloga le caratteristiche salienti dei principali strumenti dal punto di vista del debitore.

StrumentoNatura (sede e controllo)Consenso dei creditoriEsito per l’impresaGestione del patrimonio (debitore)
Composizione negoziataVolontario, riservato (extragiudiziale con nomina esperto)Nessun vincolo di voto formale (accordi su base volontaria)Variabile: risanamento o preparazione di altra proceduraInteramente in capo all’imprenditore (esperto assiste, nessuno spossessamento)
Piano attestato di risanamentoVolontario, stragiudiziale (unilaterale con attestazione)Nessun voto; efficacia basata sull’adesione volontaria dei creditori chiaveRisanamento dell’impresa (continuazione attività)Imprenditore mantiene piena gestione (atto unilaterale)
Accordo di ristrutturazione dei debitiIbrido: negoziale con omologazione giudiziale (tribunale)Adesione di creditori ≥ 60% (ordinario) o ≥ 30% (agevolato) del debito; vincola dissenzienti omologato. Possibile estensione a non aderenti (settore finanziario)Risanamento (continuità, eventualmente riduzione debiti)Debitore rimane in gestione dell’impresa; nessun organo di controllo (salvo eventuale commissario in casi particolari)
PRO (Piano di ristrutturazione omologato)Concorsuale giudiziale nuovo tipo (art. 64-bis CCII)Approvazione a maggioranza nelle classi di creditori (almeno una classe voti favorevole, altrimenti niente cram-down)Risanamento dell’impresa in continuità (eventuale ristrutturazione profonda debiti e capitale)Debitore mantiene gestione (nessuno spossessamento), ma c’è un commissario nominato a vigilare
Concordato preventivo (continuità o liquidatorio)Concorsuale giudiziale classico (tribunale)Voto di tutti i creditori su proposta di concordato; approvazione se maggioranza di crediti ammessi (e rispetto regole di classi/priorità). Omologazione anche con cram-down fiscale o interclassi in certi casiIn continuità: prosecuzione attività con ristrutturazione debiti; Liquidatorio: cessione beni e cessazione attivitàDebitore in possessory stay: mantiene amministrazione ordinaria, ma sotto sorveglianza del commissario giudiziale; atti straordinari soggetti ad autorizzazione del tribunale
Concordato semplificato (liquidatorio post-composizione)Concorsuale giudiziale atipico (senza voto creditori)Nessun voto; creditori possono solo fare osservazioni in udienza, decisione rimessa al giudiceLiquidazione di tutti i beni sotto controllo giudiziario, evitata procedura fallimentareDebitore propone il piano liquidatorio ma perde gestione in favore di un liquidatore nominato per attuare la liquidazione
Concordato minore (debitori non fallibili)Concorsuale giudiziale semplificato (OCC e tribunale)Voto dei creditori chirografari con maggioranza del 60% dei crediti chirografari; privilegiati fuori dal voto se soddisfatti integralmente o consensualmente falcidiatiContinuazione eventuale dell’attività dell’imprenditore minore (se in continuità) oppure liquidazione beni, con esdebitazione finaleDebitore mantiene gestione sotto controllo di un gestore della crisi nominato dall’OCC/tribunale (figura simile al commissario)
Piano di ristrutturazione del consumatore (ex “piano del consumatore”)Procedura giudiziale di sovraindebitamento (tribunale con ausilio OCC)Nessun voto dei creditori (decide solo il giudice sull’omologazione, sentite le eventuali opposizioni)Ristrutturazione dei debiti personali del consumatore, che conserva i beni essenziali (es. prima casa se sostenibile)Il consumatore segue il piano di pagamento sotto supervisione dell’OCC; mantiene la disponibilità dei beni non liquidati (non c’è spossessamento completo)
Liquidazione giudiziale (ex fallimento)Procedura concorsuale giudiziale liquidatoria (tribunale)Nessun consenso richiesto (procedura avviata d’ufficio o su istanza creditori/debitore)Liquidazione totale dell’impresa; cessazione attività; società estinta a fine proceduraSpossessamento totale: il debitore perde gestione e disponibilità dei beni, amministrati dal curatore
Liquidazione controllata (sovraindebitamento)Procedura giudiziale liquidatoria per soggetti non fallibiliNessun consenso (apertura su istanza debitore o creditori); nomina di un liquidatoreLiquidazione del patrimonio del debitore sovraindebitato; cancellazione debiti residui (esdebitazione a fine procedura)Spossessamento: il patrimonio è affidato a un liquidatore nominato dal tribunale; il debitore persona fisica collabora per la liquidazione

(Legenda: OCC = Organismo di Composizione della Crisi, organismo nominato per gestire le procedure di sovraindebitamento.)

Nel prosieguo, esamineremo ciascuno di questi strumenti in dettaglio, evidenziandone presupposti, funzionamento, vantaggi e rischi per il debitore, oltre agli aspetti fiscali e patrimoniali rilevanti, e richiamando ove opportuno i più recenti orientamenti giurisprudenziali.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

La composizione negoziata per la soluzione della crisi è uno strumento introdotto nel 2021 (dal D.L. 118/2021, confluito nel Codice agli artt. 12-25 CCII) con l’obiettivo di anticipare e gestire la crisi in modo confidenziale e collaborativo, prima che degeneri in insolvenza irreversibile. Si tratta di una procedura volontaria e riservata, attivata dall’imprenditore in difficoltà, nella quale un esperto indipendente viene nominato per agevolare le trattative con i creditori e ricercare soluzioni di risanamento. Importante sottolineare che non è una procedura concorsuale: non c’è giudice delegato né spossessamento, e l’esito dipende dagli accordi effettivamente raggiunti con i creditori, senza imposizioni unilaterali.

Presupposti e accesso

Può accedere alla composizione negoziata qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione, che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far prevedere la crisi o l’insolvenza, ma che abbia prospettive di risanamento (art. 12 CCII). Non è necessario essere già insolventi; anzi, lo strumento serve proprio ad affrontare le difficoltà prima che si arrivi all’insolvenza conclamata. L’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio) con informazioni su azienda, debiti e cause della crisi. Se la domanda è completa, una commissione nomina un esperto negoziatore (tipicamente un commercialista o avvocato esperto in ristrutturazioni, scelto da un apposito elenco di professionisti indipendenti).

La nomina dell’esperto dà il via a una fase di negoziazione assistita e riservata. L’esperto studia la situazione aziendale, convoca l’imprenditore e i principali creditori, e li assiste nel tentativo di individuare una soluzione concordata. Tutto avviene in via confidenziale: l’apertura della composizione negoziata non è pubblica (salvo che il debitore richieda misure protettive al tribunale, come vedremo). La durata base è di 3 mesi, prorogabile fino a 6 mesi su richiesta motivata. Durante questo periodo, l’imprenditore rimane alla guida della sua impresa e continua l’attività ordinaria. L’esperto non ha poteri gestori: è un facilitatore che media tra le parti e verifica la fattibilità delle proposte.

Importante è che l’apertura della composizione negoziata non costituisce di per sé default: la legge prevede espressamente che il semplice avvio delle trattative non può essere considerato causa di revoca di fidi bancari o di recesso dai contratti in corso (una tutela per evitare che l’iniziativa di risanamento precipiti la crisi). Inoltre, su richiesta dell’imprenditore, il tribunale può concedere misure protettive temporanee: in pratica un blocco delle azioni esecutive e delle istanze di fallimento da parte dei creditori durante la negoziazione (analoghe all’automatic stay del concordato preventivo). Tali misure proteggono il patrimonio mentre si cerca l’accordo, e sono pubblicate nel Registro delle Imprese per informare tutti i creditori. I tribunali hanno interpretato questo potere in modo estensivo: ad esempio, il Tribunale di Milano ha concesso misure protettive in composizione negoziata anche in assenza di esecuzioni pendenti, riconoscendo la funzione preventiva dello strumento (evitare che i creditori inizino azioni individuali durante le trattative).

Esito e soluzioni possibili

La composizione negoziata non garantisce un esito prestabilito, ma offre un ventaglio di soluzioni flessibili se le parti trovano un accordo. Possibili esiti virtuosi sono:

  • Un accordo stragiudiziale con alcuni o tutti i creditori (ad esempio una moratoria sui debiti, una dilazione dei pagamenti, tagli consensuali del credito). Tale accordo non richiede omologazione del tribunale e rimane riservato; tuttavia, se coinvolge tutti i creditori rilevanti, può risolvere la crisi senza altre procedure.
  • La conclusione di un accordo di ristrutturazione dei debiti formale (ex art. 57 CCII) o la presentazione di un concordato preventivo: la composizione negoziata può costituire una fase preparatoria informale, cui segue poi l’accesso a uno strumento concorsuale con il consenso già sondato dei creditori.
  • L’eventuale ricorso a un piano attestato di risanamento o altre misure unilaterali da formalizzare in seguito (ad esempio, ottenimento di nuova finanza).
  • In alcuni casi, la cessione dell’azienda o l’ingresso di un investitore di minoranza/maggioranza come parte delle trattative, per ricapitalizzare l’impresa e soddisfare i creditori.

Se invece non si raggiunge alcun accordo con i creditori entro la fine del periodo, la procedura di composizione negoziata si chiude con un nulla di fatto. In tal caso, il debitore dovrà valutare l’accesso a una procedura concorsuale tradizionale (concordato o liquidazione). Proprio per gestire l’eventuale insuccesso, il legislatore ha introdotto l’opportunità del concordato semplificato (di cui diremo a breve) utilizzabile solo dopo una composizione negoziata andata a vuoto, per liquidare l’azienda evitando il fallimento.

Da notare che l’esperto, alla chiusura della negoziazione, redige una relazione finale sulle attività svolte e sull’esito: questa relazione può essere utilizzata dal debitore se passa a una procedura successiva (ad esempio, allegandola a un ricorso per concordato semplificato, come “prova” della buona fede e degli sforzi compiuti).

Vantaggi per il debitore

Per l’imprenditore in difficoltà, la composizione negoziata offre molteplici benefici:

  • Tempestività e riservatezza: consente di affrontare la crisi agli albori, senza clamore pubblico, proteggendo la reputazione dell’azienda. È un ambiente di negoziazione confidenziale, lontano dai riflettori delle procedure concorsuali.
  • Flessibilità: non ci sono schemi rigidi né interventi autoritativi. Il debitore mantiene il pieno controllo della sua impresa durante le trattative e può esplorare soluzioni su misura con ogni creditore (ad esempio, proporre percentuali diverse a seconda delle disponibilità di ciascuno), cosa non possibile in un concordato che richiede trattamenti omogenei per classi.
  • Assenza di pregiudizio legale immediato: l’azienda non è “in procedura concorsuale”, quindi evita gli effetti negativi tipici (come il decadimento di contratti in corso, perdita di fiducia di clienti/fornitori, etc.). Inoltre, se si torna in bonis, la crisi trattata rimane un fatto interno e non lascia strascichi ufficiali.
  • Misure protettive mirate: su richiesta, il debitore può ottenere dal tribunale la sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori, guadagnando respiro finanziario (nessun pignoramento durante la negoziazione) e tempo per strutturare un piano.
  • Supporto di un esperto qualificato: l’imprenditore può beneficiare della guida di un professionista terzo e imparziale, che aiuta a fare diagnosi della crisi, valutare la fattibilità delle proposte e convincere i creditori della serietà del piano di risanamento. L’esperto può anche suggerire aggiustamenti al piano e facilitare la comunicazione (spesso tesa) tra debitore e creditori.
  • Misure premiali fiscali e creditizie: il Codice prevede incentivi se il debitore utilizza con successo la composizione negoziata. Ad esempio, l’art. 25-bis CCII prevede che quando, all’esito della composizione negoziata, vengono concluse certi accordi (come transazioni su debiti fiscali) o ottenute dilazioni, possano applicarsi riduzioni di sanzioni e interessi e piani di rateazione più favorevoli sui debiti tributari. Inoltre, i finanziamenti nuovi erogati all’impresa durante la composizione (c.d. finanziamenti prededucibili autorizzati) godono di preferenza in caso di successivo fallimento.

In breve, la composizione negoziata dà all’imprenditore una chance di risolvere la crisi “in famiglia” con i propri creditori, evitando se possibile il trauma di un fallimento o di un concordato pubblico. Statisticamente, sta diventando uno strumento sempre più centrale: nel triennio 2021-2023 le domande di composizione negoziata sono cresciute al punto da superare, nel 2023, il numero di nuovi concordati preventivi. Questo indica che molte imprese preferiscono tentare il percorso negoziale e solo se fallisce ricorrere alle vie concorsuali.

Rischi e limiti

Di contro, il debitore deve essere consapevole anche di alcuni limiti e rischi della composizione negoziata:

  • Nessuna certezza di esito: non essendo una procedura in cui il tribunale può imporre soluzioni, tutto dipende dal consenso volontario dei creditori. Se i creditori (o quelli principali) restano fermi sulle loro pretese e non accettano sacrifici, la negoziazione può fallire. Non vi è garanzia di successo e il tempo speso potrebbe semplicemente posticipare l’inevitabile.
  • Possibile aggravamento della situazione: trascorrere mesi in trattative infruttuose potrebbe peggiorare la condizione aziendale (ad es. perdendo la fiducia di fornitori che nel frattempo sospendono le forniture, o accumulando ulteriori perdite). Per questo l’esperto deve costantemente valutare se ci sono prospettive concrete di risanamento; se capisce che la situazione è senza uscita, può invitare il debitore a interrompere e non perdere altro tempo. Una composizione negoziata prolungata e inutile rischia di erodere quel poco di risorse rimaste.
  • Necessaria collaborazione e trasparenza: il buon esito richiede che il debitore sia completamente trasparente verso l’esperto e i creditori sulla propria situazione, e che negozi in buona fede. Eventuali atti in frode (es. nascondere beni, preferire occultamente qualche creditore) comprometterebbero la fiducia e potrebbero far naufragare le trattative. La legge anzi prevede che comportamenti in frode durante la composizione negoziata possano condurre il tribunale a revocare le misure protettive e, nei casi gravi, ad aprire direttamente la liquidazione giudiziale.
  • Costo dell’esperto e consulenze: sebbene non ci siano le spese elevate di una procedura concorsuale, la composizione negoziata comporta dei costi (il compenso dell’esperto, determinato a fine procedura, e gli eventuali consulenti che l’azienda dovrà coinvolgere per piani industriali, perizie ecc.). Sono costi più contenuti rispetto a un concordato, ma da considerare.
  • Possibile emersione pubblica in caso di esito negativo: la procedura in sé è riservata, tuttavia se fallisce è probabile che si debba poi accedere a un concordato o fallimento. In tal caso, alcuni atti della fase negoziale possono emergere (ad esempio, la relazione finale dell’esperto depositata nel ricorso per concordato semplificato). Inoltre, se il debitore ha chiesto misure protettive, quella richiesta è pubblicata, rivelando ai terzi l’esistenza di una crisi. Dunque la riservatezza non è totale se si vuole beneficiare dello stay.
  • Impatto sui rapporti contrattuali: pur essendoci tutele normative, nella pratica alcuni partner contrattuali (banche, fornitori) possono irrigidirsi sapendo che l’impresa è in crisi e in composizione negoziata, ad esempio riducendo fidi o chiedendo pagamenti anticipati per forniture. Il timing è delicato: far sapere a tutti di essere in crisi può generare sfiducia. Per questo spesso l’azienda coinvolge solo i principali creditori all’inizio, in riservatezza, per poi allargare se c’è un principio d’accordo.

In conclusione, la composizione negoziata è uno strumento prezioso per il debitore, ma va usata con giudizio e tempestività. Se vi sono segnali di crisi e un nucleo di creditori ragionevolmente collaborativo, tentare la via negoziale è consigliabile. Se invece il dissesto è già troppo avanzato o i creditori sono ostili, può essere preferibile saltare direttamente a uno strumento concorsuale che blocchi subito le azioni (come il concordato). L’importante, come più volte ribadito anche dalla Cassazione, è non aspettare oltre il punto di non ritorno: l’abuso di ritardare l’accesso alle soluzioni di crisi è fonte di responsabilità per gli amministratori e può comportare conseguenze negative (una pronuncia di riferimento enfatizza che protrarre l’agonia fino all’insolvenza irreversibile costituisce mala gestio).

Passiamo ora agli strumenti di regolazione formale della crisi, iniziando da quelli di natura negoziale/stragiudiziale per poi trattare quelli giudiziali.

Piano attestato di risanamento

Il piano attestato di risanamento è uno strumento di origine previgente (già previsto dalla Legge Fallimentare art. 67, co. 3, lett. d) e ora disciplinato dall’art. 56 CCII) che consente al debitore di attuare un risanamento dell’impresa senza procedure concorsuali, attraverso un piano redatto unilateralmente e “attestato” da un professionista indipendente. In sostanza, è un accordo privato che il debitore elabora per superare la crisi, ottenendo l’adesione volontaria di alcuni creditori, e che viene corredato da una relazione di un esperto che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.

Il piano attestato è concepito principalmente per tutelare il debitore e i creditori aderenti sotto il profilo delle revocatorie fallimentari: gli atti, pagamenti e garanzie effettuati in esecuzione di un piano attestato idoneo al risanamento e pubblicato nel Registro delle Imprese non sono soggetti a revocatoria in caso di successivo fallimento (art. 56, co.3, CCII). Inoltre, l’attuazione di un simile piano, se va a buon fine, riduce il rischio penale di incorrere in reati di bancarotta preferenziale per aver soddisfatto taluni creditori invece di altri. È dunque uno strumento protettivo per chi tenta un risanamento in buona fede al di fuori del tribunale.

Che cos’è e come funziona

Un piano attestato è essenzialmente un documento di piano industriale e finanziario che illustra come l’impresa intende superare la crisi, ripianare l’esposizione debitoria ed eventualmente riequilibrare la struttura patrimoniale. Non vi sono forme vincolate: il piano è redatto dal debitore (di solito con l’ausilio di advisor finanziari) e può prevedere qualsiasi operazione utile (ristrutturazione del debito, cessione di asset non strategici, iniezione di nuovi capitali, modifica dell’organizzazione aziendale, ecc.). La caratteristica chiave è che deve mostrare la ragionevole capacità dell’impresa di risanarsi entro l’orizzonte temporale considerato.

Il piano deve essere asseverato da un attestatore indipendente (un professionista, revisore o esperto in crisi, che non abbia conflitti di interesse col debitore) il quale rilascia una relazione finale nella quale dichiara:

  • che i dati aziendali e di bilancio utilizzati nel piano sono veritieri e completi;
  • che l’impresa, seguendo le azioni previste dal piano, ha una concreta possibilità di risanamento e di riequilibrio finanziario, evitando l’insolvenza.

Questa attestazione è cruciale perché conferisce credibilità al piano verso i creditori e, come detto, attiva le protezioni di legge contro le revocatorie. Il piano attestato, insieme all’attestazione, viene poi pubblicato nel Registro delle Imprese affinché vi sia data pubblicità (questo passaggio – introdotto dal CCII – è necessario per ottenere la non assoggettabilità a revocatoria degli atti esecutivi).

È importante evidenziare che il piano attestato di per sé non vincola i creditori dissenzienti. Non essendo omologato da un tribunale, ha efficacia contrattuale solo tra l’impresa e quei creditori che decidono di aderirvi. In pratica, spesso funziona così: il debitore predispone il piano e lo propone ai propri creditori principali (es. banche); se questi lo ritengono convincente, stipulano degli accordi bilaterali (ad esempio accordi di moratoria, rifinanziamenti o rinunce parziali al credito) attuativi del piano. I creditori che non aderiscono restano estranei: il loro diritto di credito rimane invariato e potranno agire per il pagamento integrale se lo ritengono. Tuttavia, se il piano ha successo, anche i creditori non aderenti verranno in pratica soddisfatti (perché l’impresa diventa di nuovo solvibile e li paga normalmente). Il limite è che un creditore dissenziente, volendo, può comunque agire autonomamente (es. iniziare un pignoramento) mettendo a rischio la riuscita del risanamento.

In sintesi, il campo di applicazione ideale del piano attestato è quando il numero di creditori rilevanti è limitato (tipicamente le banche finanziatrici) e si riesce a ottenere il loro assenso informale, mentre i piccoli creditori vengono comunque pagati secondo il piano senza bisogno di coinvolgerli formalmente. Ad esempio, un’azienda manifatturiera con debiti verso 3 banche principali potrebbe usare un piano attestato per rinegoziare quei debiti, con l’ok delle banche, evitando di passare per il tribunale, continuando a pagare regolarmente i fornitori minori.

Quando utilizzarlo: vantaggi per il debitore

Il piano attestato di risanamento è utile soprattutto in situazioni di crisi non ancora irreversibile, dove l’impresa ha ancora credibilità presso i suoi finanziatori e fornitori principali, i quali sono disponibili a collaborare. I vantaggi specifici per il debitore sono:

  • Rapidità e semplicità: non c’è una procedura giudiziaria da aprire, né voti, né udienze. Il debitore, una volta ottenuta l’attestazione e firmati gli accordi con i creditori, può immediatamente iniziare a eseguire il piano. Questo consente di guadagnare tempo prezioso rispetto a un concordato (che richiederebbe mesi per l’omologa).
  • Costi contenuti: si evitano i costi di un commissario giudiziale, del tribunale, ecc. Rimangono solo i costi professionali per predisporre il piano e l’attestazione (che comunque sarebbero necessari in qualunque ristrutturazione).
  • Riservatezza e minima pubblicità: a parte la pubblicazione del piano attestato nel Registro Imprese (che però non è di per sé percepita come una “procedura concorsuale” aperta), non c’è clamore. Ai più, l’operazione può restare invisibile (spesso il piano attestato viene pubblicato contestualmente a un verbale di aumento di capitale o altri atti, quindi non salta all’occhio dei concorrenti o della stampa).
  • Mantenimento integrale dei poteri di gestione: l’imprenditore resta pienamente al timone della sua azienda, senza dover rendere conto a organi esterni. Può così operare con maggiore scioltezza e mantenere i rapporti fiduciari con clienti e dipendenti.
  • Protezione legale dagli effetti negativi del fallimento: come accennato, se poi qualcosa va storto e l’impresa fallisce comunque, gli atti compiuti in esecuzione del piano attestato restano protetti. Ad esempio, se ho pagato anticipatamente un fornitore strategico secondo il piano attestato, quel pagamento non potrà essermi contestato come preferenziale in un successivo fallimento. Ciò offre una tranquillità sia al debitore che ai creditori aderenti nel compiere gli atti necessari al risanamento, senza la paura di doverli restituire più avanti.
  • Flessibilità nel contenuto: il piano attestato non ha vincoli di legge rigidi sul contenuto (a differenza, ad esempio, del concordato liquidatorio che impone almeno il 20% ai chirografari, etc.). Il debitore può proporre soluzioni creative: ad esempio, pagare integralmente alcuni fornitori critici e falcidiare solo i crediti delle banche (se queste accettano) senza dover rispettare par condicio tra le varie categorie di creditori – poiché fuori da una procedura concorsuale, non c’è l’obbligo di parità di trattamento.

Rischi e limiti

D’altra parte, il piano attestato presenta alcuni limiti che il debitore deve valutare attentamente:

  • Adesione volontaria dei creditori chiave: la riuscita richiede tipicamente il consenso delle banche o dei maggiori creditori. Se anche uno solo tra questi assume una posizione intransigente (ad es. una banca che rifiuta di rinegoziare e minaccia di escutere le garanzie), il piano rischia di saltare. Non c’è modo di forzare legalmente un creditore dissenziente a piegarsi alla proposta, diversamente da concordato o accordo omologato. Quindi il piano attestato è adatto se c’è coesione fra i creditori principali; in presenza di creditori ostili o “cram-down” necessari, sarà inadeguato.
  • Mancata vincolatività verso estranei: come detto, chi non firma accordi esecutivi del piano resta libero. Ciò significa che un creditore minore – magari trascurato nel piano – potrebbe agire giudizialmente e far precipitare la situazione (es. pignorare un conto, creando panico). In un concordato, invece, anche i piccoli creditori sarebbero bloccati e vincolati dal piano omologato. Nel piano attestato c’è sempre questa spada di Damocle: basta un dissidente per rompere le uova nel paniere.
  • Nessuna immediata protezione dalle azioni esecutive (salvo accordi individuali): non essendo una procedura concorsuale, l’imprenditore non beneficia automaticamente di uno stay. Se ha bisogno di congelare tutto mentre tratta, dovrebbe piuttosto valutare la composizione negoziata o un pre-concordato. Il piano attestato funziona meglio quando i creditori non hanno ancora avviato aggressioni e sono disposti ad attendere (magari in forza di accordi di standstill presi in autonomia).
  • Richiede basi industriali solide: l’attestatore indipendente, per legge, non può “chiudere un occhio”. Deve verificare attentamente la fattibilità del piano e la veridicità dei dati. Se la situazione è troppo compromessa o il piano è aleatorio, un professionista serio non lo attesterà. Quindi il debitore può usare questo strumento solo se ha effettivamente una prospettiva concreta di risanamento (nuovi contratti, taglio costi, aumento capitale promesso ecc.). In casi di crisi irreversibile, non otterrà l’attestazione.
  • Possibile responsabilità in caso di false informazioni: se il debitore fornisce dati falsi o incompleti all’attestatore o ai creditori, vi possono essere conseguenze. L’attestatore potrebbe rifiutare l’attestazione o, se ingannato, potrebbe esserci perfino spazio per ipotesi di reato (ad es. false comunicazioni). Anche civilisticamente, un creditore che aderisce basandosi su dati attestati mendaci potrebbe rivalersi. Dunque la credibilità e la trasparenza sono fondamentali.

In conclusione, il piano attestato di risanamento è uno strumento snello e potente quando usato nelle condizioni giuste (crisi moderata, pochi creditori con cui si può trovare un accordo, piano realistico di rilancio). Dal punto di vista del debitore, conviene tentare questa via se c’è sufficiente coesione dei creditori chiave e se l’azienda ha ancora energie e valore da esprimere. In caso contrario, forzare un piano attestato quando la situazione è troppo compromessa rischia solo di far perdere tempo prezioso: meglio optare per soluzioni concorsuali che coinvolgano tutti i creditori in modo vincolante.

Accordi di ristrutturazione dei debiti

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviati in ADR in italiano, o anche Restructuring Agreements) rappresentano uno strumento intermedio tra il piano attestato e il concordato preventivo. Introdotti originariamente nell’art. 182-bis l.f. e ora disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, sono accordi privatistici stipulati tra il debitore e una parte sostanziale dei creditori, che però vengono sottoposti all’omologazione del tribunale per acquisire efficacia vincolante anche verso eventuali creditori dissenzienti o estranei. In altre parole, l’accordo di ristrutturazione nasce da una negoziazione volontaria (non è imposto autoritativamente), ma una volta raggiunto con una maggioranza qualificata di creditori, viene presentato al giudice per ottenere un decreto di omologazione che gli conferisce efficacia legale generale.

Tipologie di accordi e novità del Codice

Il Codice della crisi ha innovato significativamente la disciplina, prevedendo diverse tipologie di accordi di ristrutturazione:

  • Accordo di ristrutturazione “ordinario”: richiede l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali (art. 60 CCII). I creditori firmatari accettano un determinato trattamento (es: pagamento parziale, dilazioni, conversione del credito in strumenti finanziari, ecc.) e il tribunale, verificati i presupposti, omologa l’accordo rendendolo efficace verso tutti i creditori aderenti e anche verso eventuali creditori non aderenti purché questi ultimi siano pagati regolarmente.
  • Accordo di ristrutturazione “agevolato”: introdotto dal D.Lgs. 83/2022, consente l’omologazione di un accordo con una soglia di adesioni ridotta al 30% dei crediti totali (art. 61 CCII). Questa versione “agevolata” è però subordinata a condizioni stringenti a tutela dei creditori estranei: in particolare, i creditori non aderenti devono essere pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologazione (se già scaduti) o dalla scadenza (se non ancora scaduti), senza modifiche né dilazioni. In pratica, l’accordo agevolato permette di ristrutturare consensualmente una parte consistente del debito con pochi creditori consenzienti (30%), a patto che tutti gli altri creditori siano “tirati fuori” dall’accordo pagando loro il dovuto integralmente (o garantendo il pagamento). Se tali creditori estranei non vengono tutelati così, l’accordo agevolato non può essere omologato (un esempio: il Tribunale di Bergamo nel 2022 ha negato l’omologa di un accordo 30% proprio perché il piano prevedeva di pagare i creditori estranei solo in modo dilazionato e non immediato, in violazione dell’art. 60 CCII).
  • Accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa: disciplinati dall’art. 61 CCII, recepiscono e ampliano l’istituto del vecchio “accordo esteso” ex art. 182-septies l.f. Si tratta di accordi che coinvolgono determinate categorie di creditori finanziari (banche, intermediari finanziari, obbligazionisti) in cui, se aderisce una certa percentuale qualificata di crediti di quella categoria (di regola almeno il 75%), l’accordo può essere esteso anche ai creditori della medesima categoria che non hanno aderito. Ad esempio, se il 75% delle banche sottoscrive un accordo, il tribunale può omologarlo rendendolo vincolante anche per il 25% di banche dissenzienti, purché queste non ricevano un trattamento più sfavorevole di quello proposto alle altre e siano soddisfatte certe cautele. Questo strumento è pensato per evitare che poche banche dissenzienti facciano saltare un’intesa approvata dalla maggioranza dei finanziatori.
  • Convenzione di moratoria: prevista anch’essa dall’art. 62 CCII, è un particolare tipo di accordo limitato a una moratoria dei creditori finanziari sui pagamenti dovuti. Se una maggioranza di banche concorda di moratoriare i crediti, la moratoria può essere resa efficace anche sui finanziatori di minoranza dissenzienti, per un breve periodo, così da congelare la situazione finanziaria e dare respiro all’impresa.

Inoltre, negli accordi di ristrutturazione possono essere inserite clausole di “transazione fiscale e contributiva” (art. 63 CCII) per regolare i debiti verso Erario ed enti previdenziali. Tradizionalmente, il voto (o meglio, l’adesione) del Fisco era un collo di bottiglia: bastava il diniego dell’Agenzia Entrate per far fallire un accordo. Oggi, invece, il debitore può chiedere all’Erario un trattamento dilazionato o falcidiato dei tributi (IVA compresa) come parte dell’accordo; se il Fisco rifiuta ma l’accordo è conveniente in confronto alla liquidazione, il tribunale può omologare ugualmente superando il dissenso dell’Erario. Questo è un cram-down fiscale: in sostanza, la legge consente al giudice di dare efficacia all’accordo anche senza il consenso del Fisco, purché sia dimostrato che al Fisco viene offerto almeno quanto otterrebbe in un fallimento. Si tratta di un importante passo avanti, sancito già in passato dalla Cassazione e ora codificato.

Riassumendo, il panorama degli ADR nel Codice è molto articolato. L’imprenditore può perseguire un accordo tailor-made: può ad esempio combinare un accordo ordinario col 60% dei crediti e includere una transazione fiscale per i debiti tributari; oppure, se ha poche banche esposte, tentare un accordo agevolato al 30% pagando tutti gli altri fornitori integralmente fuori accordo. Questa flessibilità è bilanciata dal controllo del tribunale, che verifica il rispetto dei requisiti di legge e l’equilibrio complessivo.

Procedimento: deposito, omologazione ed effetti

Iter procedurale: il debitore, dopo aver negoziato l’accordo con i creditori necessari (ad es. ottenendo le firme di almeno il 60% dei crediti), deposita in tribunale la domanda di omologazione dell’accordo. Deve allegare il testo dell’accordo firmato, una relazione di un professionista indipendente che attesta la sostenibilità del piano e la regolarità del trattamento dei creditori non aderenti (confermando che questi riceveranno quanto dovuto secondo legge), e le eventuali attestazioni sulla veridicità dei dati (spesso coincide col medesimo professionista). Può anche chiedere misure protettive analoghe a quelle del concordato (sospensione delle azioni esecutive durante l’attesa dell’omologa).

Il tribunale, verificata la documentazione, fissa un termine entro cui eventuali creditori non aderenti o terzi interessati possono fare opposizione all’omologazione. Se non vi sono opposizioni, l’omologazione può avvenire in tempi brevi e in camera di consiglio; se vi sono opposizioni, il giudice le discute in udienza. I motivi di opposizione tipici potrebbero essere: contestare che l’accordo non tutela adeguatamente i creditori estranei, o che le attestazioni sono errate, o che ci siano stati vizi nella procedura.

Se il tribunale ritiene che tutti i requisiti legali siano soddisfatti – in particolare che i creditori estranei siano pagati nei modi e tempi richiesti e che il piano appaia fattibile – emette il decreto di omologazione. Da quel momento, l’accordo diviene vincolante per tutti i creditori coinvolti secondo i suoi termini: quelli che hanno firmato ovviamente sono obbligati all’accordo, ma anche eventuali creditori della stessa categoria che non hanno firmato restano vincolati dall’effetto dell’omologa (es: banche dissenzienti in un accordo ad efficacia estesa, o il Fisco dissenziente superato col cram-down).

Effetti principali dell’accordo omologato:

  • I creditori che partecipano all’accordo non possono agire al di fuori di esso: le loro pretese sono modificate secondo quanto concordato (ad es., prendono il 40% in 5 anni invece dell’intero subito). L’omologazione funge da “titolo” che cristallizza le nuove condizioni di credito.
  • I creditori non aderenti rimangono titolari dei loro diritti per intero, però – come condizione perché l’accordo passi – devono ricevere il pagamento integrale entro i termini previsti dalla legge (generalmente 120 giorni). Dunque, all’omologa spesso segue subito il pagamento di questi estranei. Se l’imprenditore non li paga come promesso, potrebbero in teoria riprendere le azioni (e ciò costituirebbe anche inadempimento dell’accordo).
  • L’accordo omologato non è una procedura esecutiva collettiva come il concordato, ma produce comunque un effetto esdebitativo parziale: le porzioni di credito stralciate per i creditori aderenti sono definitivamente cancellate (una volta eseguite le prestazioni promesse). I creditori aderenti, se poi il debitore fallisse dopo aver eseguito l’accordo, non potrebbero pretendere di più di quanto pattuito.
  • I creditori rimasti estranei al perimetro dell’accordo invece conservano diritti di azione: se il debitore non li soddisfa come garantito, possono comunque agire e persino chiederne il fallimento. Quindi l’imprenditore deve assicurarsi di adempiere alla lettera verso costoro.

Un effetto ulteriore previsto dalla legge è che dalla data di deposito dell’accordo per omologazione, e per un periodo limitato, il debitore può ottenere la sospensione o il non avvio di procedure esecutive (simile al concordato). Tali misure protettive decadono se l’accordo non viene omologato.

Infine, la legge prevede un limite: non si possono omologare più di due accordi di ristrutturazione nei 5 anni. Questo per evitare un uso eccessivamente seriale dello strumento. In pratica, se un’impresa conclude un accordo e poi dopo 2 anni ricade in crisi, non potrà farne un altro immediatamente (dovrebbe semmai ricorrere a un concordato). Ciò spinge a usare l’accordo in maniera risolutiva e responsabile, e non come toppa temporanea reiterabile.

Vantaggi per il debitore

Gli accordi di ristrutturazione offrono al debitore un equilibrio tra la flessibilità della negoziazione privata e la stabilità di un provvedimento giudiziale. I principali vantaggi dal punto di vista del debitore sono:

  • Maggiore flessibilità rispetto al concordato: l’accordo non coinvolge tutti i creditori, ma solo una parte (quelli che aderiscono più la tutela dei pochi estranei). Questo permette di modellare soluzioni personalizzate. Ad esempio, posso ristrutturare il debito bancario (se ho l’assenso del 60% delle banche), e lasciare intatti i debiti verso fornitori strategici per non danneggiare le relazioni commerciali. Nel concordato, invece, sarei costretto a includere tutti e ripartire il pagamento in modo paritario per classi di creditori.
  • Consenso richiesto più basso di un concordato (in alcuni casi): nell’accordo ordinario serve il 60% di adesione (in valore di crediti). Nel concordato preventivo servirebbe la maggioranza assoluta dei crediti votanti e comunque almeno il 50% circa sul totale per approvare. Inoltre, con l’accordo agevolato basta addirittura il 30% di creditori consenzienti (ma pagando gli altri per intero). Ciò rende l’ADR percorribile anche se il consenso è limitato, a patto di poter “soddisfare fuori” i non aderenti.
  • Meno pubblicità negativa: sebbene ci sia l’omologa, l’accordo di ristrutturazione spesso viene percepito come un accordo volontario e non come un “quasi-fallimento” come a volte viene percepito il concordato. Anche le notizie di stampa lo presentano in modo meno stigmatizzante, il che aiuta l’immagine aziendale. Inoltre, la fase negoziale pre-omologa è riservata, diversamente da un concordato dove appena depositi la domanda spesso la notizia diventa pubblica.
  • Durata tendenzialmente più breve: un accordo può essere negoziato in pochi mesi e, se non vi sono opposizioni, omologato dal tribunale in tempi rapidi (anche 30-60 giorni). Un concordato invece, tra ammissione, voto e omologa, difficilmente richiede meno di 6-12 mesi. Per un’azienda in crisi di liquidità, il tempo è cruciale: un accordo può concludersi prima, riducendo il periodo di incertezza.
  • Mantenimento di rapporti commerciali: spesso l’accordo coinvolge soggetti finanziari (banche) mentre lasciando indenni i fornitori commerciali. Ciò consente di preservare il capitale commerciale dell’impresa (fornitori, clienti) che non vengono coinvolti in falcidie e quindi continuano la collaborazione senza il trauma di un taglio del credito subito.
  • Possibilità di cram-down mirato: come detto, l’ADR consente di ottenere un effetto vincolante anche sui dissenzienti di certe categorie (banche minoritarie, Fisco). Questo è prezioso: il debitore può aggirare l’unanimità necessaria in operazioni fuori concorso. Ad esempio, se 7 banche su 10 sono d’accordo ma 3 no, un accordo ad efficacia estesa può comunque procedere, mentre un piano attestato rimarrebbe bloccato dal veto delle 3 banche. Quindi l’ADR è un rimedio contro le minoranze ostruzioniste.
  • Benefici fiscali: come per il concordato, l’omologazione dell’accordo comporta che le eventuali sopravvenienze attive da riduzione dei debiti non sono imponibili ai fini delle imposte sul reddito (art. 88, comma 4-ter TUIR). Il debitore, quindi, non deve pagare tasse sul “guadagno” derivante dai debiti perdonati, cosa fondamentale per non vanificare il risanamento. Inoltre, l’accordo può includere la transazione fiscale, ottenendo in sede di omologa lo stralcio di sanzioni e interessi e la dilazione dei tributi come concordato con l’Erario.
  • Nessun organo di controllo invasivo: durante la trattativa e perfino dopo il deposito, il debitore resta in possesso dei beni e senza commissari giudiziali. Solo dopo l’omologa, se previsto dall’accordo, potrà esservi un eventuale monitoraggio dell’esecuzione (talvolta si nomina un esperto indipendente per vigilare sull’attuazione del piano, ma non è obbligatorio per legge). Ciò significa minori costrizioni rispetto a un concordato in cui c’è un commissario sin dall’inizio.

Rischi e considerazioni per il debitore

Accanto ai vantaggi, vanno valutati alcuni rischi e aspetti critici per il debitore che sceglie gli accordi di ristrutturazione:

  • Coinvolgimento parziale dei creditori: lasciare fuori dall’accordo alcuni creditori (quelli non aderenti) significa che costoro mantengono intatti i loro diritti. Il debitore deve avere la capacità finanziaria di pagarli integralmente nei tempi previsti, altrimenti l’accordo salta. Ciò può porre un onere elevato: ad esempio, in un accordo agevolato al 30%, il debitore deve trovare le risorse per saldare il 70% dei crediti estranei al più entro 120 giorni dall’omologa. Se non ci riesce, rischia l’insolvenza post-omologa.
  • Opposizioni e ritardi: se qualche creditore (aderente o estraneo) fa opposizione, la procedura di omologa può complicarsi e allungarsi. Un creditore estraneo potrebbe obiettare di essere trattato male (anche solo perché preferiva essere coinvolto); un aderente dissenziente all’ultimo potrebbe contestare la convenienza. Queste dispute vanno risolte in tribunale e possono richiedere mesi, dilatando i tempi e generando incertezza. Nel frattempo, il debitore è esposto a possibili peggioramenti della situazione.
  • Necessità di accordo preventivo con i creditori chiave: l’ADR presuppone che il debitore abbia già fatto un buon lavoro di negoziazione privata. Se deposita un accordo con 60% adesioni senza prima sondare e convincere i creditori, rischia di vedere un flop. Dunque c’è un lavoro preparatorio complesso: incontri, proposte, controproposte, due diligence dei creditori per valutare il piano, ecc. Serve abilità negoziale e magari il supporto di advisor.
  • Esposizione a istanze di fallimento pre-deposito: prima di depositare l’accordo, se la notizia trapela o se alcuni creditori non coinvolti perdono la pazienza, potrebbero presentare istanza di fallimento. Il debitore può difendersi chiedendo le misure protettive, ma quelle scattano solo col deposito della domanda di omologa. Quindi vi è un periodo scoperto in cui l’impresa è vulnerabile. Anche per questo spesso il deposito dell’accordo avviene solo quando si ha già almeno un 60% in mano e magari contestualmente si chiede subito lo stay.
  • Esecuzione complessa post-omologa: una volta omologato, l’accordo va eseguito pedissequamente. Se esso prevede, ad esempio, pagamenti in 5 anni ai creditori aderenti, il debitore deve generare cassa per rispettare quelle scadenze. Altrimenti, i creditori potranno agire esecutivamente (l’accordo omologato è titolo esecutivo) e chiedere anche la risoluzione dell’accordo e l’eventuale fallimento del debitore. Quindi l’azienda deve essere disciplinata nell’attuare il piano. Spesso si nomina un professionista terzo che monitora trimestralmente l’andamento e informa i creditori, ma se il piano sgarra, l’accordo può decadere.
  • Limite temporale di reiterazione: come detto, c’è un limite normativo: uno stesso debitore non può usare di continuo gli ADR. Se ne ha già fatto uno pochi anni prima, il tribunale non ammetterà un secondo accordo se non trascorsi 5 anni. Questo spinge il debitore a considerare che l’accordo di ristrutturazione è una chance unica a breve termine: se fallisce, la volta successiva dovrà per forza optare per un concordato o un fallimento. Quindi, non c’è margine di errore: conviene presentare un accordo solo quando c’è la quasi certezza di poterlo portare a buon fine.

In conclusione, dal punto di vista del debitore gli accordi di ristrutturazione rappresentano uno strumento estremamente utile per imprese in crisi che possono contare sul sostegno di una parte importante dei creditori (in genere le banche) e vogliono evitare la pubblicità e la rigidità di un concordato. Se negoziati bene, permettono di risolvere la crisi in modo consensuale e relativamente rapido, con la “benedizione” finale del tribunale che dà certezza all’operazione. D’altra parte, richiedono una situazione sotto controllo: non funzionano se la crisi è così grave da non poter pagare una parte di creditori integralmente, né se manca il dialogo con i finanziatori. L’azienda debitrice deve quindi valutare realisticamente la praticabilità: ha il 60% di creditori disposti a firmare? Ha risorse (o ne avrà, col piano) per pagare gli altri? Se sì, l’ADR conviene perché risolve in modo mirato con costi minori. Se invece la risposta è no, allora sarà necessario un approccio più collettivo (concordato) che imponga i sacrifici anche ai dissenzienti in modo più ampio.

Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO)

Una novità di rilievo introdotta in attuazione della Direttiva UE 2019/1023 (Insolvency) è il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, spesso indicato con l’acronimo PRO. Questo istituto, non previsto nella versione originaria del Codice della crisi, è stato inserito dal D.Lgs. 83/2022 (cosiddetto “correttivo Insolvenza”) e recentemente modificato dal D.Lgs. 136/2024. Esso costituisce una sorta di procedura concorsuale semplificata e flessibile, mirata a risolvere situazioni di crisi o insolvenza mediante un piano di risanamento negoziato con i creditori che viene però omologato dal tribunale anche in presenza di dissenso di talune classi.

In parole semplici, il PRO è un meccanismo innovativo che consente al debitore di superare tre principi cardine tradizionali del diritto concorsuale:

  1. La responsabilità patrimoniale generale (art. 2740 c.c.) – nel PRO si possono limitare le pretese dei creditori sul patrimonio del debitore secondo il piano concordato, derogando al principio che il debitore risponde con tutti i suoi beni.
  2. L’eguaglianza tra creditori (par condicio) – nel PRO i creditori vengono suddivisi in classi e possono ricevere trattamenti differenziati, purché omogenei all’interno della classe, rompendo l’idea di parità assoluta.
  3. Le priorità legali dei privilegi – il PRO consente di distribuire il valore generato dal piano non secondo le regole ordinarie di prelazione, ma secondo criteri diversi stabiliti nel piano, salvo alcune tutele (ad esempio, i crediti di lavoro privilegiati devono comunque essere soddisfatti integralmente entro 30 giorni dall’omologazione).

Il PRO si inserisce nel contesto di favor legislativo per la continuità aziendale: è pensato per privilegiare soluzioni di risanamento e prosecuzione dell’attività rispetto alla liquidazione giudiziale, coerentemente con l’orientamento europeo volto a dare agli imprenditori in crisi un’opportunità di ristrutturazione tempestiva e profonda.

Caratteristiche e presupposti del PRO

  • Soggetti ammessi: il PRO è riservato a imprese di dimensioni non oltre certe soglie (imprese PMI). In particolare, possono accedervi gli imprenditori commerciali in stato di crisi o insolvenza reversibile, purché non superino i limiti dimensionali indicati dall’art. 2, co.1, lett. d) CCII (ad es. attivo ≤ 20 milioni, debiti ≤ 15 milioni, ecc. – soglie in parte aggiornate dal D.Lgs. 136/2024). Ciò significa che le grandi imprese dovranno ricorrere ai concordati tradizionali, mentre le PMI possono usare questo strumento più snello.
  • Accesso: il debitore presenta al tribunale un ricorso con la proposta di piano di ristrutturazione e la suddivisione dei creditori in classi (obbligatoria). Può anche presentare una domanda “con riserva” (ricorso in bianco) e depositare il piano entro un termine. Già al momento del deposito (anche con riserva) viene nominato dal tribunale un commissario giudiziale dedicato al PRO.
  • Ruolo del commissario: a differenza del concordato preventivo dove il commissario è nominato solo dopo l’ammissione, nel PRO il commissario entra in scena subito, appena presentata la domanda (anche prenotativa). Questo perché, dato che il debitore mantiene totalmente la gestione (non c’è spossessamento neanche parziale), il legislatore ha previsto un controllo più intenso tramite il commissario. Egli vigila fin da subito che il debitore non compia atti pregiudizievoli per i creditori e che conduca correttamente le trattative. Durante la procedura, il commissario verifica la regolarità della gestione e la coerenza del piano, riferendo al giudice eventuali irregolarità o atti in frode (che potrebbero portare alla revoca della procedura e all’apertura del fallimento). Redige inoltre una relazione finale per i creditori, con una simulazione degli esiti di una liquidazione giudiziale, utile ai fini del voto informato.
  • Gestione dell’impresa: l’imprenditore in PRO rimane in possesso al 100% dell’azienda. Non vi è alcun interim management imposto. Gli atti di gestione straordinaria però, analogamente al concordato, possono richiedere autorizzazione del tribunale su parere del commissario (questo per evitare esodi di beni senza controllo).
  • Formazione delle classi di creditori: è obbligatorio raggruppare i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei. La corretta formazione delle classi è condizione di ammissibilità del piano. Il commissario controlla l’omogeneità e può segnalare al giudice difformità. La prassi vede spesso il commissario esprimersi proprio sulla tenuta delle classi perché è fondamentale per il voto.
  • Voto dei creditori: diversamente dal concordato preventivo – dove tutti i creditori votano in una unica adunanza salvo divisione in classi per omogeneità – nel PRO la votazione avviene per classi. Il meccanismo è ispirato ai piani di ristrutturazione transfrontalieri: almeno una classe (di creditori non correlati al debitore) deve approvare il piano a maggioranza, altrimenti non si può omologare. Se, ad esempio, tutte le classi votano contro, il piano non potrà essere imposto. Ma se almeno una classe rilevante approva, il giudice può valutare di omologare anche con classi dissenzienti (il cosiddetto cram-down interclassi).
  • Cram-down interclassi: è la vera novità. Il tribunale può omologare il piano anche se una o più classi votano no, purché siano rispettate certe condizioni di tutela per i dissenzienti. Tipicamente: che nessun dissenziente riceva meno di quanto otterrebbe nella liquidazione giudiziale (principio di migliore soddisfazione) e che il piano non attribuisca a nessuna classe di grado inferiore più di quanto riceva una classe di grado superiore (“no verticale absolute priority rule”, salvo eccezioni giustificate). Se queste condizioni sono rispettate e c’è almeno una classe consenziente, la volontà delle classi contrarie può essere superata dal giudice.
  • Tutele speciali: nonostante la flessibilità, il PRO impone alcune tutele inderogabili. Una già citata riguarda i lavoratori: i crediti di lavoro con privilegio ex art. 2751-bis n.1 c.c. devono essere soddisfatti integralmente entro 30 giorni dall’omologazione. Inoltre, i creditori muniti di garanzie reali (ipoteche, pegni) non possono essere trattati peggio del valore di mercato del bene su cui hanno prelazione, a meno che acconsentano.
  • Esito: se omologato, il piano diventa vincolante erga omnes come un concordato. L’impresa prosegue l’attività secondo il piano di risanamento proposto. Se invece l’omologa viene negata (perché non c’è il quorum minimo o non sono rispettate le condizioni di legge), il tribunale può aprire contestualmente la liquidazione giudiziale. Ad esempio, una Corte d’Appello nel 2024 ha chiarito che senza alcuna classe favorevole non si può procedere in PRO e si dovrà dichiarare il fallimento.

Vantaggi per il debitore

Il PRO offre alcuni vantaggi specifici al debitore, che lo rendono uno strumento interessante:

  • Mantenimento totale della guida aziendale: a differenza del concordato preventivo dove vi è comunque il fiato sul collo del commissario e alcuni poteri limitati, nel PRO l’imprenditore ha maggiore autonomia gestionale. Pur con la vigilanza del commissario, non c’è spossessamento e neppure un regime di amministrazione controllata come nel concordato (dove il commissario può intervenire di più). Ciò incoraggia il debitore in crisi a restare proattivo.
  • Possibilità di ristrutturazione profonda: grazie al cram-down interclassi, il debitore può proporre soluzioni audaci che in un concordato sarebbero rischiose per l’esito del voto. Ad esempio, può prevedere di ridurre drasticamente i debiti finanziari, convertire parte di essi in equity (eventualmente creando una classe di azionisti-creditori), degradare parzialmente certi privilegi se economicamente giustificato, il tutto confidando nella possibilità di omologare anche senza consenso unanime. Ciò aumenta la leverage negoziale del debitore verso i creditori: questi sanno che il giudice potrebbe ugualmente far passare il piano se è equo, quindi sono più incentivati a sedersi al tavolo e trattare seriamente.
  • Maggiore tutela dalle opposizioni del Fisco: nel PRO si applicano in sostanza gli stessi principi del concordato per la transazione fiscale, ma con il vantaggio che, essendo in classi, il Fisco è un creditore come altri: se la sua classe vota contro ma l’offerta è pari o superiore al ricavato da fallimento, il giudice può omologare comunque (cram-down fiscale integrato).
  • Rapidità rispetto a un concordato complesso: il PRO, pur avendo fasi simili (deposito, eventuale prenotativa, voto, omologa), dovrebbe favorire un iter più snello perché orientato al minor coinvolgimento del tribunale sul merito (il giudice verifica legalità e fairness, non entra nelle scelte imprenditoriali). In teoria, potrebbe ridurre contenziosi sul “valore di liquidazione” perché c’è la relazione del commissario che simula la liquidazione e fornisce parametri chiari per valutare la convenienza per i creditori.
  • Premi e incentivi: il legislatore ha equiparato il PRO al concordato su vari benefici. Ad esempio, anche nel PRO i nuovi finanziamenti autorizzati dal tribunale sono prededucibili, e le sopravvenienze attive da riduzione debiti non sono tassate (art. 88 TUIR). Inoltre, l’uso del PRO entro certi tempi potrebbe dare accesso alle misure premiali ex art. 25-bis CCII analoghe a quelle della composizione negoziata (riduzione interessi e sanzioni fiscali) se l’imprenditore vi accede tempestivamente.
  • Focus sulla continuità aziendale: è lo strumento per eccellenza orientato a salvare l’impresa e non a liquidarla. Il concordato preventivo permette anche la versione liquidatoria, il PRO invece è pensato essenzialmente per la ristrutturazione in continuità (sebbene nulla vieti che il piano preveda qualche cessione di asset). Il vantaggio per il debitore è che il tribunale valuterà il piano proprio nell’ottica di salvare l’azienda come priorità, il che crea un clima normativo favorevole alle sue proposte di conservazione del business.

Rischi e limiti

Come contraltare, i rischi/limiti del PRO includono:

  • Procedura relativamente nuova e complessa: essendo un istituto nuovo, l’interpretazione di alcune regole (es. criteri di formazione classi, condizioni esatte per cram-down) è ancora oggetto di dibattito. Il debitore si muove in territorio non completamente collaudato. Inoltre, deve predisporre un piano molto ben congegnato per soddisfare tutte le condizioni di legge ed evitare possibili bocciature in omologa.
  • Costi non trascurabili: il PRO comporta comunque costi simili a un concordato: c’è il commissario giudiziale (da remunerare), i professionisti per redigere piano e attestazioni, le eventuali spese di classe (ad esempio, trattare con creditori e convincerli può implicare perizie, incontri, ecc.). Quindi non è “gratis” rispetto a un concordato; semmai è giustificato se c’è margine di recuperare l’impresa, ma se la situazione è compromessa i costi potrebbero aggravare il dissesto.
  • Vincoli all’accesso (soglie PMI): le imprese grandi non possono usarlo; quelle piccolissime forse non ne hanno bisogno perché magari risolvono con un concordato minore. Quindi è tagliato su misura per le PMI medio-grandi. Un’impresa che eccede di poco le soglie potrebbe trovarsi esclusa e costretta al concordato preventivo standard.
  • Esigenza di almeno una classe di voto favorevole: nonostante il cram-down, il debitore non può ottenere l’omologa se nessuna classe lo supporta. In pratica, deve comunque convincere almeno un gruppo significativo di creditori. Se propone un piano troppo sbilanciato contro tutti, rischia di non avere alcun sì e allora nemmeno il giudice potrà salvarlo. Dunque la logica negoziale rimane: serve costruire almeno il consenso di una classe (idealmente quella dei fornitori o delle banche che credono nella continuità).
  • Controlli e poteri del tribunale: sebbene l’idea sia di ridurre l’ingerenza, in realtà il tribunale ha un compito delicatissimo di valutare la fattibilità giuridica ed economica del piano, la correttezza delle classi e la convenienza comparativa. Potrebbe quindi anche assumere un approccio restrittivo. C’è un margine di incertezza: piani audaci potrebbero non convincere il giudice sul requisito di “non irragionevole sacrificio” dei dissenzienti. Inoltre, la presenza del commissario fin dall’inizio significa che eventuali passi falsi del debitore saranno subito segnalati e puniti (ad esempio, se durante la procedura il debitore paga di nascosto un vecchio debito a un fornitore – atto in frode – il commissario lo riferirà e si rischia la revoca immediata).
  • Possibile conversione in liquidazione giudiziale: se il PRO fallisce – ad esempio, il piano non ottiene voti sufficienti o il giudice nega l’omologa perché ritiene non rispettato il best interest test per i creditori dissenzienti – la conseguenza pressoché automatica è il fallimento (liquidazione giudiziale). Quindi il debitore gioca una carta importante: in caso di insuccesso non c’è semplicemente rigetto, ma di solito precipita al fallimento come “ultima ratio”. Ciò è comune al concordato, ma va ricordato.

In definitiva, il PRO appare un strumento molto potente per i debitori, soprattutto PMI, che vogliono ristrutturare mantenendo le redini dell’impresa e che necessitano di rimuovere ostacoli di minoranze dissenzienti. Dà attuazione in Italia a quel “second chance” e “fresh start” auspicato dall’Europa, offrendo un modo per ristrutturare il debito con maggiore libertà (ma anche sotto stretta sorveglianza). Il suo successo dipende molto da come sarà applicato: i primi dati mostrano che è stato utilizzato, ma non massicciamente, e qualche tribunale ne ha delineato i confini (richiedendo almeno una classe consenziente). Dal punto di vista del debitore, se c’è fiducia in un risanamento reale e un gruppo di creditori disposto a supportarlo, il PRO può essere la strada migliore; se invece l’insolvenza è irreversibile o la maggioranza dei creditori è ostile, allora anche il PRO non può compiere miracoli e tanto vale prepararsi a un concordato liquidatorio o alla liquidazione giudiziale.

Concordato preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale “classica” per la regolazione della crisi d’impresa, e rimane anche nel Codice della crisi lo strumento centrale a disposizione dei debitori per evitare la bancarotta mediante un accordo collettivo con i creditori. Disciplinato dagli artt. 40-64 CCII, il concordato preventivo consente all’imprenditore insolvente (o in stato di crisi) di proporre ai creditori un piano – che può prevedere la continuità aziendale oppure la liquidazione dei beni – e di ottenere, in caso di approvazione e omologazione, l’esdebitazione dalle obbligazioni pregresse. Si chiama “preventivo” perché si colloca prima di una eventuale dichiarazione di fallimento, appunto per prevenirla.

Forme di concordato: in continuità e liquidatorio

Il Codice della crisi distingue principalmente due forme di concordato:

  • Concordato in continuità aziendale: quando nel piano è previsto che l’attività dell’impresa prosegua, in mano allo stesso debitore o tramite la cessione/affitto a un altro soggetto (continuità diretta o indiretta). L’obiettivo qui è la ristrutturazione del debito mantenendo in vita l’azienda come entità operativa, preservando valore e posti di lavoro. In continuità, il piano di norma promette ai creditori il pagamento parziale dei loro crediti col ricavato generato dalla prosecuzione dell’attività negli anni (utili futuri) e/o con apporti di finanza esterna.
  • Concordato liquidatorio: quando il piano prevede solo la liquidazione del patrimonio del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza proseguire l’attività (se non per stretta funzionalità alla vendita). Questo concordato è sostanzialmente una liquidazione concordata in cui il debitore evita il fallimento assumendo il ruolo di liquidatore, magari con la supervisione di un assuntore o la predisposizione di vendite pilotate.

La distinzione è importante perché la legge impone requisiti diversi. Nel concordato liquidatorio puro, il Codice prevede che i creditori chirografari ricevano almeno il 20% del loro credito (soglia non richiesta nel concordato in continuità). Inoltre, nel concordato liquidatorio non è ammessa la falcidia dei creditori privilegiati se non rinunciano spontaneamente: i privilegiati vanno soddisfatti per intero (salvo la parte eventualmente degradata a chirografo se il bene sottostante vale meno del credito). Nel concordato in continuità, invece, sono possibili moratorie e falcidie dei privilegiati, purché un esperto attesti che riceveranno comunque almeno il valore di realizzo dei beni su cui insistono le garanzie e purché la loro classe approvi. Per esempio, se c’è un creditore ipotecario su immobile, in continuità posso proporgli di pagarlo all’80% in 2 anni invece che 100% subito, purché dimostro che vendendo l’immobile all’asta prenderebbe forse il 70% e che la classe ipotecari approva ciò.

In sintesi, il concordato liquidatorio è più rigido a tutela dei creditori, mentre il concordato in continuità è più flessibile e incentivato dalla legge (meno soglie, possibilità di trattamento più variegato). Esiste anche una forma mista: concordati che prevedono la cessione di alcuni beni e la continuazione di altri rami, ecc., in tal caso si applicano le regole prevalenti della continuità se l’attività caratteristica prosegue in misura significativa.

Procedura: dalla domanda all’omologazione

La procedura di concordato si avvia con un ricorso al tribunale presentato dal debitore. Può essere:

  • Ricorso “con riserva” (cd. concordato in bianco): il debitore deposita la sola domanda di ammissione, priva di piano dettagliato, chiedendo un termine (da 60 a 120 giorni, prorogabili a 180) per presentare la proposta, il piano e i documenti. Questo serve a bloccare subito le azioni dei creditori (appena depositata la domanda di concordato, scatta lo stay ex art. 54 CCII) e guadagnare tempo per finalizzare il piano.
  • Ricorso completo fin dall’inizio: contiene già tutta la proposta concordataria, il piano dettagliato e la documentazione (bilanci, elenco creditori, attestazione di un professionista circa la fattibilità e veridicità del piano).

Ricevuta la domanda (in qualunque forma), il tribunale verifica innanzitutto la competenza e l’assenza di cause di inammissibilità palese (ad es. mancanza dei requisiti soggettivi, domanda presentata in malafede, ecc.). In caso di domanda con riserva, nomina subito un commissario giudiziale provvisorio e assegna il termine per il deposito del piano definitivo. In caso di domanda completa, invece, procede a valutare l’ammissione.

Se il piano è completo, il tribunale convoca il debitore per chiarimenti e, se tutto è in ordine, emette un decreto di apertura del concordato (admission), nominando il Giudice Delegato e il Commissario Giudiziale e fissando l’udienza di discussione dell’omologazione (che in realtà avverrà dopo il voto). Da questo momento:

  • Il debitore entra in regime di protezione: i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né cautelari. I debiti anteriori restano congelati (non maturano interessi per chirografari). I contratti pendenti possono, con autorizzazione del GD, essere sciolti o sospesi se non utili, oppure mantenuti se funzionali.
  • Il commissario giudiziale inizia a vigilare sulla gestione e a esaminare la proposta. Egli raccoglie le osservazioni dei creditori, verifica l’elenco crediti, redige alla fine una relazione per i creditori prima del voto, contenente un giudizio sulla fattibilità del piano e la convenienza per i creditori (comprese simulazioni di esito comparativo con il fallimento, chiamato “test di convenienza”).
  • Si procede alla votazione: i creditori vengono chiamati a esprimersi sulla proposta in adunanza (o per scritto). Nel concordato con classi, il voto è per classi ma comunque serve anche la maggioranza dei crediti complessivi favorevoli. Il quorum è: >50% dei crediti ammessi al voto, calcolando i voti positivi (i non votanti contano come negativi di fatto). Se ci sono classi e qualcuna vota contro, il tribunale può imporre l’omologa se ritiene comunque soddisfatto il requisito del best interest e almeno una classe ha votato sì (principio simile al PRO).
  • Omologazione: se i creditori approvano, il tribunale omologa il concordato con sentenza, dopo aver risolto eventuali opposizioni (ad esempio creditori dissenzienti che contestano la regolarità). Da notare, come già accennato, che il tribunale può omologare anche in caso di voto contrario del Fisco se la proposta verso l’Erario è conveniente (cram-down fiscale, art. 48 CCII).

Una volta omologato, il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori (dissenzienti compresi). Il debitore – o l’eventuale assuntore o liquidatore designato – deve eseguire il piano. A esecuzione completata, il tribunale dichiara chiuso il concordato e il debitore è definitivamente liberato dai debiti residui conformemente a quanto previsto (esdebitazione di diritto per le società estinte; per le persone fisiche restano i debiti esclusi dalla falcidia come sanzioni penali, alimenti, ecc.).

Se invece la proposta non viene approvata dai creditori o l’omologa è negata dal tribunale (magari per frodi o inattuabilità), il concordato fallisce e tipicamente si apre la strada alla dichiarazione di liquidazione giudiziale (fallimento) su istanza del PM o d’ufficio. Questo è il terribile rischio del concordato: se va male, spesso il fallimento è immediato. Inoltre, anche dopo omologato, se il debitore non esegue il piano, il concordato può essere risolto su richiesta dei creditori e il fallimento dichiarato in quella fase.

Effetti del concordato e posizione del debitore

Durante il concordato preventivo, il debitore conserva l’amministrazione dei beni, ma è soggetto a un regime di sorveglianza e limitazioni:

  • Atti di ordinaria amministrazione: può compierli liberamente (continuare la normale attività di impresa: produrre, vendere, incassare crediti correnti, pagare forniture correnti in prededuzione, etc.). Deve però sempre conservare il patrimonio e gestirlo con diligenza.
  • Atti di straordinaria amministrazione: sono vietati senza autorizzazione del tribunale (sentito il commissario). Ciò include vendite di immobili, ipoteche su beni, finanziamenti non previsti, transazioni importanti, ecc. L’obiettivo è evitare che il debitore dilapidi l’attivo in concordato. Se fa atti non autorizzati, sono nulli.
  • Pagamenti ai creditori anteriori: vietati, salvo eccezioni autorizzate (ad esempio, si possono pagare fornitori essenziali con autorizzazione per garantire la prosecuzione dell’attività, o pagare i dipendenti maturati durante la procedura). In generale però vige lo standstill sui debiti concorsuali.
  • Azioni esecutive individuali: come detto, sono sospese e poi estinte al momento dell’omologa. Ciò protegge il patrimonio dal frazionamento e dà respiro all’impresa.
  • Contratti pendenti: il debitore, con autorizzazione, può sciogliere contratti in corso che siano onerosi o non necessari (il contraente avrà un indennizzo come credito concorsuale). Può anche chiederne la sospensione per un po’. Ad esempio, un contratto di leasing troppo costoso può essere sciolto.
  • Rapporti di lavoro: nel concordato in continuità, i dipendenti rimangono in carico all’azienda. Eventuali piani di esubero devono seguire le regole giuslavoristiche ordinarie (non c’è un potere speciale del concordato se non nell’ambito del piano di risanamento approvato).

Il commissario giudiziale non gestisce direttamente, ma supervisiona ogni mossa importante. Redige relazioni periodiche allo scadere di determinati termini, segnalando al giudice se l’impresa peggiora, se il debitore non rispetta le regole, etc. Il giudice delegato può impartire direttive e, in casi estremi (atti di frode, dissesto aggravato), revocare il concordato e far istanza di fallimento.

Per il debitore, ciò significa operare sotto “amministrazione controllata”: mantiene l’operatività quotidiana ma deve far approvare le scelte strategiche. Spesso gli stessi amministratori dell’azienda restano in carica durante il concordato, salvo poi poter cambiare se l’esecuzione passa a un assuntore post-omologa.

Un effetto importante per il debitore è che l’apertura del concordato fissa la situazione cristallizzata: i crediti rimangono congelati a quella data, i chirografari non maturano più interessi, le ipoteche iscritte poco prima (90 giorni) possono essere revocate, etc. E in caso di successivo fallimento, la legge prevede che la decorrenza degli interessi sia retrodatata alla data di domanda di concordato, non alla sentenza di fallimento, proprio per non penalizzare i creditori per il tempo speso nel tentativo concordatario (principio sancito da Cass., Sez. I, 2023 n. 6508).

Inoltre, dalla presentazione della domanda di concordato discende per il debitore (persona fisica) un effetto positivo in caso di successivo fallimento: i 3 anni in cui dovrà attendere per ottenere l’esdebitazione decorrono dalla chiusura del fallimento, ma il calcolo del periodo di comportamento diligente parte dalla domanda di concordato, cioè non viene considerato “tempo perso” (consolidato da Cass. 2021 n. 13661, principio di neutralità del periodo di concordato ai fini dell’esdebitazione).

Vantaggi del concordato preventivo per il debitore

Nonostante sia una procedura complessa, il concordato preventivo rimane uno strumento fondamentale e talora vantaggioso per il debitore, per vari motivi:

  • È onnicomprensivo e vincolante per tutti i creditori: a differenza di piani attestati o ADR, con il concordato il debitore può affrontare tutta la massa debitoria in modo unitario. Anche situazioni con migliaia di creditori diversi possono trovare soluzione in un’unica procedura, con un unico voto collettivo. Ciò dà la certezza che, se il concordato passa, nessuno potrà più agire individualmente: c’è una vera protezione universale.
  • Stop immediato alle aggressioni: il solo deposito del ricorso attiva lo stay che blocca pignoramenti e sequestri. Questo è cruciale per stabilizzare la situazione finanziaria e evitare la disgregazione del patrimonio. Per un imprenditore sommerso dai decreti ingiuntivi, il concordato è come tirare il freno d’emergenza: tempo per respirare e pensare al da farsi.
  • Possibilità di tagliare drasticamente il debito e ristrutturarlo: nel concordato, specie in continuità, il debitore può proporre forti falcidie sui crediti chirografari (non c’è un minimo percentuale se è in continuità; se è liquidatorio c’è il vincolo del 20% ai chirografari). Può anche proporre falcidie ai privilegiati con i dovuti attestazioni e consensi. Ciò consente un alleggerimento notevole dell’indebitamento che nessuno strumento extra-concorsuale può ottenere in modo unilaterale. Inoltre, può dilazionare i pagamenti su più anni, persino 4-5 o oltre se i creditori accettano. In sintesi, consente di rimodellare il profilo debitorio su misura delle capacità future dell’impresa.
  • Scudo da azioni esecutive e cautelari per tutta la durata: i creditori devono sottostare alla procedura e alle sue tempistiche. Questo evita la corsa disordinata al patrimonio, garantendo ordine e pari trattamento. Per il debitore, significa poter continuare a operare senza l’incubo di pignoramenti su conti e beni, almeno fino all’esito della procedura. Se il concordato va a buon fine, poi, quelle azioni saranno definitivamente precluse (i creditori si soddisferanno solo secondo il piano).
  • Esdebitazione finale: se il concordato è adempiuto, il debitore persona fisica viene liberato dai debiti residui automaticamente (per le società, l’omologa chiusa con integrale esecuzione comporta l’estinzione dei debiti residui per effetto dell’adempimento e la società può anche proseguire se rimane attiva). Quindi rappresenta una via di uscita definitiva dal tunnel dei debiti, a differenza di accordi privati che potrebbero lasciare strascichi con creditori estranei.
  • Gestione sotto tutela giudiziaria ma con possibilità di continuare l’attività: soprattutto in continuità, l’impresa può continuare a produrre e vendere durante il concordato, magari grazie a nuova finanza autorizzata (che è prededucibile). Questo consente di preservare valore – es: portare a termine commesse, mantenere avviamento – cosa impossibile in fallimento dove l’attività di regola cessa (salvo esercizio provvisorio eccezionale). Molte aziende che hanno speranza di rilancio preferiscono il concordato proprio per tentare la ristrutturazione “sotto protezione”: operano protette dai creditori mentre implementano misure di turnaround.
  • Cram-down fiscale e dei privilegiati: come già accennato, la legge e la giurisprudenza consentono di superare l’eventuale no del Fisco se l’offerta è congrua, e di includere IVA e contributi (un tempo intoccabili) in falcidia. Questo è un enorme vantaggio rispetto al passato: oggi col concordato il debitore può ridurre anche debiti fiscali e previdenziali – soggetti a condizioni e voto – mentre prima doveva garantirli al 100%. Ad esempio, un debito IVA può essere pagato parzialmente se la classe di creditori chirografari approva e c’è attestazione che il Fisco prende almeno quanto in fallimento. La Corte Costituzionale ha legittimato ciò (sent. n.245/2019) e la Cassazione pure.
  • Possibilità di intervento di terzi (assuntore): il concordato consente a un terzo di presentarsi e “assumere” l’onere di esecuzione del piano (art. 90 CCII). L’assuntore può apportare risorse fresche e magari rilevare l’azienda. Dal lato del debitore originale, ciò può essere un vantaggio perché consente di risolvere la crisi cedendo l’azienda a qualcuno che la salva (utile se l’imprenditore non è geloso della proprietà ma vuole massimizzare il ritorno ai creditori e magari evitare responsabilità). L’assuntore post-omologa è come un compratore in blocco dell’azienda con patto che paga i creditori secondo il concordato.

Svantaggi e rischi del concordato preventivo

Doverosamente, il concordato porta con sé anche svantaggi e rischi per il debitore:

  • Procedura complessa e onerosa: è, fra gli strumenti, il più articolato. Richiede di produrre un piano dettagliato, spesso con l’ausilio di advisor finanziari, legali, periti per stime di beni, ecc. Prevede la nomina di organi (commissario, giudice delegato) e il pagamento dei loro compensi. Vi sono spese di giustizia, contributi unificati. Insomma, costa parecchio sia in termini monetari che di energie manageriali. Un’azienda già in crisi deve accollarsi questi oneri e potrebbe aggravarsi se la procedura si prolunga.
  • Tempi lunghi e incertezza dell’esito: come detto, passano molti mesi prima di sapere se effettivamente il concordato andrà in porto (voto e omologa). Durante quel periodo, l’impresa è in una sorta di limbo: protetta ma anche “congelata” nelle sue capacità di iniziativa (non può fare investimenti significativi, non può contrarre nuovi debiti se non autorizzati, spesso ha difficoltà con i fornitori se questi sanno del concordato). C’è il rischio che al termine di questo lungo percorso i creditori boccino il piano o il giudice non omologhi per qualche ragione. In tal caso, il danno è fatto: la reputazione dell’impresa è compromessa e il fallimento incombe. Quindi è un salto che il debitore deve fare sperando di arrivare dall’altra parte. L’incertezza può far scappare clienti, innescare diffidenze di mercato (contratti di fornitura disdetti, ecc.). Non a caso, molte imprese in concordato non sopravvivono se il piano non è credibile: la procedura in sé le logora se si protrae troppo.
  • Perdita (anche se parziale) di autonomia: la presenza del commissario e del giudice implica che l’imprenditore non è più libero di agire come preferisce. Ogni spesa straordinaria, ogni decisione strategica deve essere vagliata. Questo può ridurre l’agilità aziendale proprio in un momento in cui servirebbero interventi rapidi. Alcuni imprenditori vivono male questa supervisione e possono commettere errori per orgoglio o incomprensioni con il commissario. Inoltre, l’azienda subisce l’ingresso di “soggetti estranei” nei suoi affari, il che per alcuni può essere umiliante (ma inevitabile in procedure pubbliche).
  • Esposizione a revocatorie fallimentari se poi fallisce: se il concordato non funziona e si finisce in fallimento, alcuni atti compiuti durante il concordato potrebbero essere attaccati. Ad esempio, pagamenti autorizzati dal GD comunque potrebbero essere soggetti a sindacato (anche se in teoria ciò non dovrebbe accadere perché sono prededucibili). Tuttavia, il rischio principale è che il fallimento segua subito e con esso possibili azioni di responsabilità verso gli amministratori se si dimostra che hanno ritardato troppo o gestito male la crisi (l’abuso dello strumento concordatario per ritardare il fallimento può esporre a censure).
  • Impatto reputazionale: la notizia di un concordato preventivo è di dominio pubblico. Fornitori, clienti, banche – tutti vengono a sapere che l’azienda è in insolvenza. Questo spesso lede irreparabilmente la reputazione e la fiducia. Alcuni clienti rescindono contratti per timore di inadempienze; i fornitori chiedono pagamento anticipato; i dipendenti perdono motivazione o se ne vanno. È vero che anche accordi stragiudiziali possono farsi notare, ma il concordato suona alle orecchie del mercato come “l’azienda è praticamente fallita” (anche se non è tecnicamente così). Ciò può provocare danni economici collaterali difficili da arginare.
  • Rigidità in alcuni requisiti: se per salvare l’impresa servirebbe un trattamento completamente diseguale dei creditori (es. salvarne alcuni e sacrificare altri), nel concordato non è possibile farlo liberamente. Bisogna rispettare priorità e omogeneità per classi. Ad esempio, non posso pagare un fornitore chirografo al 100% e gli altri al 10% senza classificarli diversamente e avere basi oggettive. Questa non flessibilità può far fallire sul nascere idee di salvataggio che invece privatamente sarebbero fattibili (ad es. un investitore vuole pagare integralmente certi fornitori strategici ma non altri – in concordato deve comunque classificarli e giustificare perché alcuni sì e altri no).

Nonostante ciò, va ribadito: per molte situazioni, il concordato preventivo è l’unica via percorribile. Ad esempio, aziende con centinaia di piccoli creditori o con contenziosi multi-soggetto non possono realisticamente negoziare privatamente con tutti: serve un contenitore unico, che è appunto il concordato. Dal punto di vista del debitore onesto e propositivo, il concordato è uno strumento che – se ben utilizzato – può salvare l’azienda e dare sollievo dai debiti, contando anche sul fatto che la legge e i giudici tendono a favorire soluzioni concordate piuttosto che la distruzione di valore del fallimento. Lo dimostrano pronunce come Cass. SU 8500/2021, che ha anticipato logiche di cram-down interclassi sostenendo che il giudice può omologare un concordato in continuità anche con classi dissenzienti se comunque il piano conviene ai creditori dissenzienti rispetto al fallimento. Ciò indica un orientamento pro-concordato: in caso di dubbi, se c’è convenienza economica generale, meglio approvare il concordato che mandare tutti a picco col fallimento. Questa mentalità gioca a favore del debitore serio che presenta un buon piano.

Giurisprudenza rilevante in materia di concordato

La materia del concordato preventivo ha generato vastissima giurisprudenza negli anni, data la sua complessità. Alcuni spunti giurisprudenziali fino al 2025 utili da segnalare:

  • Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2020 n. 34447: ha stabilito il principio per cui il tribunale, nel valutare l’ammissibilità del concordato, deve sindacare d’ufficio la fattibilità giuridica del piano e la non manifesta inidoneità sul piano economico, ma non può entrare nel merito delle scelte imprenditoriali o della fattibilità economica dettagliata. Questo ha definito i confini del controllo giudiziale: legalità sì, ma niente eccesso di intrusioni nel merito economico, lasciato al giudizio dei creditori. Principio ora recepito nell’art. 47 CCII.
  • Cass., Sez. I, 10 marzo 2022 n. 8236: in tema di transazione fiscale nel concordato, ha confermato che il tribunale può omologare il concordato anche senza adesione del Fisco, applicando l’art. 180, co.4 l.f. (ora art. 48 CCII) – quindi confermando la possibilità di cram-down fiscale già prima del recepimento normativo.
  • Cass., Sez. Un., 13 maggio 2021 n. 8500: (già citata) ha risolto un contrasto sulla continuità con classi dissenzienti, affermando che il giudice può omologare se i creditori dissenzienti hanno comunque un’utilità specifica e meglio del fallimento. Questo anticipa i concetti di ristrutturazione preventiva poi formalizzati e rappresenta un forte incoraggiamento alla preservazione dell’attività.
  • Cass., Sez. I, 3 marzo 2023 n. 6508: ha chiarito che, in caso di fallimento successivo a un concordato preventivo non andato a buon fine, la sospensione degli interessi decorre dalla data della domanda di concordato (non dalla sentenza di fallimento), per proteggere i chirografari durante il tempo del concordato. Ciò tutela il debitore da interessi esplosivi dovuti al ritardo.
  • Cass., Sez. I, 12 aprile 2023 n. 9730: (Sez. I, ord. 9730/2023) ha affrontato il concordato semplificato confermando che esso rientra nelle procedure concorsuali e soggiace alle regole generali, ad esempio in tema di competenza territoriale: il trasferimento sede nell’anno prima della domanda non rileva per spostare la competenza. Questa pronuncia dà legittimazione alla natura concorsuale a tutti gli effetti del concordato semplificato ex art. 25-sexies.
  • Tribunale di Roma, decr. 30 marzo 2023: in un caso pratico, ha omologato un concordato semplificato nonostante l’opposizione di alcuni creditori, rilevando che la proposta liquidatoria assicurava a questi una percentuale superiore al presumibile in fallimento (applicando quindi i criteri di equità ex art. 25-sexies CCII). Ha anche confermato che la competenza territoriale restava al tribunale che aveva gestito la composizione negoziata precedente. Questo conferma la fattibilità pratica del concordato semplificato come strumento di chiusura post-negoziazione.
  • Cass., Sez. I, 13 ottobre 2021 n. 27928: in materia di sovraindebitamento, ha ritenuto ammissibile anche lì la falcidia dei creditori privilegiati con il loro consenso scritto, anche se formalmente dissenzienti nel voto (anticipando il disposto dell’art. 75 CCII per il concordato minore).
  • Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2018 n. 23225: ha definitivamente chiarito che i professionisti (avvocati, commercialisti, ecc. non piccoli imprenditori) possono accedere al sovraindebitamento come “imprenditori non fallibili”, principio poi esplicitato nell’art. 65 co.2 CCII. Questo è rilevante perché ha esteso la platea di soggetti che possono evitare il fallimento e usare le procedure minori.

Liquidazione giudiziale (ex fallimento)

La liquidazione giudiziale è l’equivalente nel nuovo Codice di ciò che in passato era denominato procedura fallimentare. Rappresenta lo strumento di regolazione dell’insolvenza per eccellenza quando non vi sono prospettive di risanamento. Disciplina: artt. 121 e seguenti CCII. In parole semplici, la liquidazione giudiziale è la procedura in cui il tribunale accerta lo stato di insolvenza del debitore e, tolta all’imprenditore la disponibilità dei beni, nomina un curatore che liquida tutto il patrimonio per distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole della par condicio.

Presupposti e apertura

Il presupposto oggettivo per l’apertura della liquidazione giudiziale è lo stato di insolvenza del debitore (art. 121 CCII), inteso come incapacità definitiva di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. La liquidazione giudiziale può essere dichiarata:

  • Su ricorso di uno o più creditori (anche diversi dall’imprenditore).
  • Su ricorso dello stesso debitore insolvente (è la vecchia istanza di fallimento in proprio; il debitore “si denuncia” insolvente).
  • Su richiesta del Pubblico Ministero, nei casi previsti (es: segnalazione da parte del giudice penale che ha ravvisato insolvenza, o autorità di vigilanza per banche, ecc.).
  • D’ufficio dal tribunale in casi particolari: ad esempio, conversione di altra procedura concorsuale non riuscita. Caso tipico: se un concordato preventivo viene revocato o non omologato, il tribunale può dichiarare la liquidazione giudiziale d’ufficio senza attendere altri ricorsi.

Sono esclusi dalla liquidazione giudiziale i soggetti “non fallibili” (imprenditori sotto soglia di legge, imprenditori agricoli, enti pubblici). Per questi, come visto, c’è la liquidazione controllata o altre procedure speciali.

Il procedimento di apertura prevede che il tribunale accerti lo stato di insolvenza in contraddittorio con il debitore: viene fissata un’udienza in cui il debitore può difendersi (ad es. contestare l’insolvenza o proporre un concordato in extremis). Se l’insolvenza risulta sussistente e il debitore è soggetto fallibile, il tribunale pronuncia la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale (ex sentenza dichiarativa di fallimento).

Da quel momento, scattano gli effetti immediati e dirompenti per il debitore:

  • Spossessamento: il debitore perde la gestione e la disponibilità di tutti i suoi beni presenti e futuri. Si crea una massa attiva separata amministrata dal curatore per conto dei creditori. Gli atti compiuti dal debitore dopo l’apertura sono nulli. Se è una società, gli amministratori decadono e la rappresentanza passa al curatore.
  • Sospensione delle azioni individuali: tutti i creditori devono concentrarsi nella procedura. Le azioni esecutive pendenti sono sospese e poi estinte. I creditori devono insinuare i loro crediti al passivo entro termini stabiliti dal GD.
  • Cristallizzazione dei debiti: i debiti pecuniari si considerano cristallizzati alla data di apertura. I chirografari cessano di maturare interessi (i privilegiati li maturano solo nei limiti della capienza sul bene su cui hanno privilegio). Questo ferma la crescita del debito. Le ipoteche o pegni costituiti nei 90 giorni pre-fallimento sono inefficaci (salvo esenzioni).
  • Risoluzione dei contratti pendenti: il curatore, con autorizzazione del GD, può scegliere di sciogliere o continuare i contratti in corso, a seconda di cosa sia utile alla massa. Ad esempio, se c’è un leasing, può valutare se continuarlo perché c’è interesse a usare il bene fino a vendita, oppure scioglierlo. Questa disciplina è analoga a quella vista per il concordato ma in fallimento è il curatore (non il debitore) a decidere in base all’utilità per i creditori.
  • Formazione delle masse attivo/passivo: il curatore entro 60 giorni redige l’inventario di tutti i beni del fallito e uno stato passivo dei debiti. Ci sono udienze di verifica in cui il giudice delegato esamina le domande di insinuazione e forma lo stato passivo definitivo ammettendo o escludendo i crediti.
  • Liquidazione dei beni: una volta individuato l’attivo, il curatore procede a vendere i beni. Tipicamente tramite aste pubbliche, ma può anche ricorrere a trattative private se autorizzato e conveniente. Le vendite avvengono spesso in blocco per azienda, o per lotti di beni, con l’obiettivo di massimizzare il ricavato.
  • Riparto ai creditori: il ricavato, dedotte le spese di procedura (prededucibili), è distribuito secondo l’ordine delle cause di prelazione. L’ordine è: prima i creditori prededucibili (compensi, spese, crediti sorti in procedura ecc.), poi i privilegiati speciali sul ricavato dei beni su cui insiste il privilegio, poi gli eventuali privilegiati generali e garantiti residui (ad es. lavoratori, fisco, fino a capienza), infine i chirografari in proporzione. Se i beni non bastano per tutti, le parti non soddisfatte restano insolute (salvo esdebitazione persone fisiche).

La procedura termina quando tutto l’attivo è liquidato e ripartito, con un decreto di chiusura del tribunale. Per le società, questo porta all’estinzione; per le persone fisiche, come vedremo, apre la porta all’esdebitazione.

Vantaggi (o meglio, finalità) per il debitore

Parlare di “vantaggi” della liquidazione giudiziale per il debitore è improprio, poiché è una procedura invasiva e generalmente subita. Tuttavia, in ottica di fresh start, vi sono alcuni aspetti positivi che il legislatore ha introdotto per rendere meno drammatico il fallimento per il debitore onesto:

  • Liberazione dai debiti residui (esdebitazione): per il debitore persona fisica (imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile), la chiusura della liquidazione giudiziale dà accesso al beneficio dell’esdebitazione. Con il CCII questo beneficio è diventato più facile e rapido: trascorsi 3 anni dalla chiusura del fallimento, il debitore persona fisica ottiene di diritto la cancellazione di tutti i debiti non soddisfatti (salvo revoca se emergono frodi). In passato erano 5 anni e su richiesta; ora è automatico e con attesa ridotta. Ciò significa che l’imprenditore sfortunato ma onesto può ripartire dopo un triennio senza più il peso dei debiti pregressi. Questo è un miglioramento notevole e attua la Direttiva UE sul “second chance”. (Resta escluso ovviamente che l’esdebitazione cancelli debiti come alimenti, risarcimenti da illecito penale, multe: quelli non si estinguono).
  • Procedura ordinata e trasparente: dal punto di vista del debitore, se l’alternativa era una corsa caotica dei creditori sul patrimonio (pignoramenti multipli, esecuzioni frammentate), la liquidazione concorsuale centralizza le operazioni. Paradossalmente, questo può preservare del valore residuo e portare a una chiusura più razionale. Ad esempio, se il debitore possiede un complesso aziendale, il curatore potrà venderlo unitariamente, magari salvaguardando la continuità e i dipendenti (una vendita di ramo d’azienda in fallimento), ottenendo più di quanto una serie di pignoramenti disordinati avrebbe fruttato. Dal lato del debitore, anche se ha perso la proprietà, vede almeno che i suoi beni vengono liquidati con criteri di efficienza e sotto controllo giudiziario, evitando svendite dettate dalla fretta di singoli creditori.
  • Chiusura definitiva delle pendenze: una volta chiuso il fallimento ed ottenuta l’esdebitazione, il debitore persona fisica ha pace totale: i creditori non possono più disturbarlo per quei debiti. Anche se hanno preso poco, devono accettarlo e non potranno aggredire futuri redditi del debitore esdebitato. Questo consente al debitore di tornare a intraprendere o lavorare senza l’angoscia dei vecchi debiti (salvo obblighi particolari). Per le società, la chiusura e cancellazione segna l’estinzione dell’ente e dei debiti ad esso riferibili. Insomma, la liquidazione giudiziale, pur dolorosa, mette la parola fine alla vicenda debitoria.
  • Riduzione dello stigma legale: negli ultimi anni si è lavorato per ridurre le conseguenze afflittive del fallimento sul piano personale. Ad esempio, la Corte Costituzionale nel 2018 (sent. n.18/2018) ha abolito l’automatica incapacità del fallito a partecipare a gare pubbliche per 5 anni. Il CCII ha eliminato il termine “fallito” in favore di “debitore in liquidazione” e ha cercato di ridurre la durata delle pene accessorie (tipo l’interdizione da attività commerciali). Questi aspetti attenuano un po’ l’onta del fallimento. Resta comunque per l’imprenditore il dispiacere morale, ma sul piano normativo oggi il fallito onesto non è più marchiato a vita come accadeva un tempo.

Rischi e conseguenze per il debitore

I risvolti negativi per il debitore sono quelli noti del vecchio fallimento, in larga parte rimasti:

  • Perdita di tutto il patrimonio: il debitore vede i propri beni espropriati e liquidati. Se è una società, i soci (limitamente responsabili) perdono l’azienda e il capitale investito. Se è un imprenditore individuale, perde le proprietà personali salvo quelle impignorabili per legge (es. beni di stretta necessità). Questa è ovviamente la conseguenza più grave e diretta.
  • Limitazioni personali: il debitore persona fisica subisce temporaneamente alcune incapacità: non può ricoprire cariche in altre società, non può agire senza il curatore per certi atti, ecc. Anche se il CCII ha attenuato alcune restrizioni, ci sono comunque degli impatti sulla sua vita (ad esempio, i beni futuri acquisiti prima della chiusura potrebbero andare ai creditori).
  • Responsabilità e azioni giudiziarie: l’apertura della liquidazione può far emergere responsabilità civili e penali. Il curatore ha il dovere di esaminare gli atti compiuti prima del fallimento ed eventualmente promuovere azioni revocatorie (per recuperare pagamenti preferenziali o atti di distrazione) e azioni di responsabilità contro amministratori o soci se hanno aggravato il dissesto. Inoltre, il fallimento viene segnalato al PM: se vi sono state condotte distrattive o falsi, il debitore può subire un procedimento penale per bancarotta. Quindi il fallimento spesso porta con sé strascichi giudiziari che tormentano il debitore, ben oltre l’aspetto economico.
  • Durata della procedura: benché l’obiettivo sia chiudere in tempi ragionevoli, alcuni fallimenti possono durare anni, specie se ci sono contenziosi su crediti, revocatorie, ecc. Il debitore rimane in questa condizione di “insolvente sotto procedura” a lungo, prima di potersi dire libero. Durante questo tempo, i suoi eventuali nuovi redditi (sopravvenienze) in parte potrebbero essere catturati (oggi meno di prima, ma ad esempio se ereditasse un bene di valore durante il fallimento, quello andrebbe ai creditori).
  • Impossibilità di svolgere attività economica significativa: il debitore fallito (persona fisica) incontra difficoltà a ottenere credito, a iniziare nuove attività – formalmente non è interdetto dall’impresa come un tempo (se meritevole può continuare, tranne i casi di bancarotta fraudolenta che lo interdicono), ma praticamente la sua reputazione è compromessa e i partner commerciali diffidano. Inoltre, qualsiasi guadagno importante che facesse prima dell’esdebitazione potrebbe andare ai creditori. Questo di fatto lo paralizza economicamente per qualche anno.

In sostanza, la liquidazione giudiziale è l’ultima spiaggia sia per i creditori (che cercano di recuperare quel che possono) sia per il debitore (che subisce la spoliazione ma potrà almeno poi ripartire). Dal punto di vista del debitore, va considerata come la soluzione inevitabile quando qualunque altro tentativo di risanamento o accordo è fallito o impossibile. Il Codice la concepisce come extrema ratio: ecco perché ha introdotto tanti strumenti prima, per evitarla. Tuttavia, rimane necessaria in un sistema economico perché alcune imprese non sono salvabili – e allora la liquidazione ordinata tutela l’equilibrio del mercato e garantisce quell’uscita con fresh start che, dopo aver pagato il prezzo del fallimento, consente all’ex imprenditore di provare di nuovo senza i debiti passati.

Procedure di sovraindebitamento per soggetti non fallibili

Accanto agli strumenti dedicati alle imprese commerciali “fallibili”, il Codice della crisi prevede un intero capo (Capo II, Titolo IV CCII) dedicato alle procedure di composizione della crisi per i soggetti sovraindebitati, ossia quei debitori (persone fisiche o enti) che non possono essere assoggettati a liquidazione giudiziale né a liquidazione coatta. Rientrano in questa categoria: i consumatori (persone fisiche che hanno debiti prevalentemente personali, non d’impresa), i professionisti e le imprese minori sotto soglia, gli imprenditori agricoli, le start-up innovative, e in generale ogni debitore non fallibile ex art. 1 CCII. Per costoro, la legge ha approntato strumenti ad hoc, derivati dalla vecchia “Legge sul sovraindebitamento” n.3/2012 (ora abrogata e confluita nel Codice).

Gli strumenti principali a disposizione del debitore sovraindebitato sono:

  • Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (artt. 67-73 CCII), evoluzione del “piano del consumatore” ex L.3/2012.
  • Concordato minore (artt. 74-83 CCII), che riprende l’accordo di composizione per debitori civili o imprese minori della legge previgente.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII), corrispondente alla vecchia liquidazione del patrimonio ex L.3/2012.
  • Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII), una novità assoluta che consente al debitore persona fisica nullatenente e meritevole di ottenere la cancellazione dei debiti senza alcun pagamento, sottostando a un quadriennio di controllo su eventuali sopravvenienze attive.

Vediamoli sinteticamente dal punto di vista del debitore.

Piano di ristrutturazione del consumatore

Il piano del consumatore è destinato a persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività di impresa (mutui, bollette, finanziamenti personali, spese mediche, ecc.). Si tratta di una procedura giudiziale in cui il consumatore propone un piano di pagamento parziale e/o dilazionato dei propri debiti, sulla base delle sue effettive possibilità economiche, mantenendo per sé il minimo vitale necessario al sostentamento proprio e della famiglia.

Caratteristiche principali:

  • Il piano viene predisposto con l’ausilio di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) o di un professionista gestore nominato dal tribunale. Questo soggetto aiuta a raccogliere l’elenco completo dei debiti, analizza il bilancio familiare del debitore, verifica l’assenza di comportamenti fraudolenti o gravemente colposi (requisito di meritevolezza).
  • Il piano può prevedere qualsiasi forma di soluzione: pagamento parziale proporzionale di tutti i crediti, oppure pagamento integrale di alcuni e falcidia di altri se giustificato, dilazioni nel tempo (tipicamente 4-5 anni di rate compatibili col reddito).
  • Non è necessario il consenso dei creditori! Questa è una particolarità: il piano del consumatore non viene posto a votazione. I creditori sono solo informati e possono fare opposizione. La decisione è rimessa al giudice, che omologa il piano se ritiene rispettati i criteri di legge (in primis, che il consumatore sia meritevole, cioè non abbia colposamente causato il sovraindebitamento, e che il piano offra ai creditori almeno quanto otterrebbero da una liquidazione).
  • Una volta presentato il ricorso con il piano e la relazione dell’OCC, il tribunale può adottare misure protettive immediate: sospensione di pignoramenti, blocco delle trattenute stipendiali in corso. Ciò dà sollievo immediato al debitore (ad esempio, nel caso tipico, blocca il pignoramento di un quinto stipendiale).
  • Se il giudice omologa, il piano diventa vincolante per tutti i creditori inclusi. Il debitore inizia a eseguire i pagamenti previsti, di solito versando somme periodiche all’OCC che poi le ripartisce pro quota ai creditori.
  • Compiuta l’esecuzione (che richiede tipicamente alcuni anni di sforzo), il tribunale dichiara eseguito il piano e dispone la liberazione del debitore da ogni debito residuo non pagato. Il debitore ottiene quindi l’esdebitazione piena (salvo debiti esclusi per legge, come alimenti, risarcimenti da dolo, ecc., che comunque non erano falcidiabili già nel piano).

Dal punto di vista del debitore-consumatore, i vantaggi del piano sono enormi: può ridurre i suoi debiti in base alla reale capacità di rimborso (spesso pochi centesimi per euro di debito) e soprattutto non necessita del voto dei creditori, il che è decisivo perché spesso la massa dei creditori (banche, finanziarie) non sarebbe d’accordo a perdere soldi, ma il giudice può imporlo se vede che meglio poco che niente. Inoltre, il debitore conserva i suoi beni essenziali. Ad esempio, se ha una casa con mutuo e riesce a continuare a pagare il mutuo, di solito può tenerla fuori dal piano (pagando i creditori chirografari con il reddito disponibile). Il piano dunque è orientato a salvaguardare la dignità del debitore: l’idea è fargli pagare ciò che può senza togliergli il necessario.

I requisiti fondamentali sono la meritevolezza (il sovraindebitamento non deve derivare da colpa grave o frode: ad esempio, se ha sperperato in gioco d’azzardo e lusso, il giudice può negarlo; se invece ha contratto debiti per ragioni normali o anche per rifinanziamenti di altri debiti, di solito è considerato meritevole) e l’utilità specifica per i creditori (devono ricevere qualcosa di concreto e non insignificante rispetto a zero).

La giurisprudenza recente ha mostrato tendenza a interpretare in modo non punitivo la meritevolezza del consumatore. Ad esempio, il Tribunale di Oristano nel 2023 ha omologato un piano nonostante le opposizioni delle finanziarie, ritenendo non “inescusabile” la condotta di un debitore che si era indebitato confidando nel credito facile offertogli, e anzi imputando parte della colpa alle società finanziarie che avevano concesso prestiti a chi era già indebitato oltre misura. In linea con Cass. 21525/2021, si tende a considerare meritevole il debitore se i debiti sono stati contratti per necessità o anche per pagare altri debiti (roba di sopravvivenza finanziaria), e a guardare anche alla responsabilità del finanziatore nel concedere credito sconsiderato. Questo orientamento pro-debitore è ormai consolidato, sostenuto pure dalla Corte Costituzionale (sent. n. 65/2022, che ha dichiarato legittimo falcidiare l’IVA nei piani del consumatore).

Concordato minore

Il concordato minore è l’omologo per i piccoli imprenditori/professionisti di ciò che il concordato preventivo è per i grandi. Infatti è destinato a debitori non fallibili con debiti di natura anche imprenditoriale o professionale, oppure a imprenditori sotto soglia che preferiscono coinvolgere i creditori in un voto (a differenza del piano del consumatore, il concordato minore ha il voto dei creditori).

Caratteristiche:

  • Necessita dell’intervento di un OCC e di un gestore della crisi nominato (figura analoga al commissario). Il debitore formula una proposta di concordato e un piano, allega i documenti e una relazione del gestore attestante fattibilità e convenienza per i creditori.
  • Si svolge davanti al tribunale (o al giudice di pace se previsto per piccole cause), ma con procedure più snelle. Ad esempio, spesso non c’è un giudice delegato distinto, è tutto il tribunale collegiale o monocratico a seguire.
  • I creditori chirografari votano sulla proposta. Serve il 60% di assenso in valore dei crediti chirografari votanti. Quindi quorum più alto che nel concordato preventivo (che richiede >50%). In assenza di classi, conta la maggioranza semplice; se ci sono classi (non obbligatorie), bisogna rispettare regole simili al concordato maggiore.
  • I creditori privilegiati normalmente vanno pagati integralmente, ma la legge consente la loro falcidia col consenso (se scrivono di accettare un pagamento inferiore). Inoltre, sono ammesse moratorie di 6 mesi per i privilegiati se funzionali alla continuità (Trib. Bari 8/11/2022 ha ritenuto legittimo in un concordato minore concedere una moratoria semestrale ai privilegiati, analogamente al concordato preventivo).
  • Il concordato minore può essere in continuità o liquidatorio; in quest’ultimo caso vale la regola del 20% minimo ai chirografari, salvo eccezioni se motivato.
  • Effetti: simili al concordato preventivo, su scala ridotta. C’è sospensione delle azioni esecutive, cristallizzazione dei debiti, spossessamento attenuato (il debitore mantiene gestione sotto vigilanza del gestore).
  • Omologazione: se i creditori approvano col quorum richiesto, il tribunale omologa (anche qui, possibile cram-down fiscale come nel concordato preventivo – il giudice può omologare se il Fisco dice no ma ottiene almeno il 30% ed è migliorativo rispetto alla liquidazione). In caso di dissenso di qualche classe (se classi costituite), credo si applichino in parte i principi generali (non espressamente normato, ma ci si rifà all’equità e convenienza).
  • Una particolarità: per accedere al concordato minore non serve lo stato di insolvenza piena, basta lo stato di crisi (quindi difficoltà, come in concordato preventivo).

Dal punto di vista del debitore minore, il concordato minore offre la possibilità di un accordo giudiziale vincolante con i creditori, simile al concordato preventivo, ma calibrato su realtà di ridotte dimensioni. Pro: può ridurre i debiti, proteggere il patrimonio durante la procedura, e portare all’esdebitazione. Contro: bisogna convincere il 60% dei crediti, il che non è banale. Di solito si usa quando c’è un gruppo di creditori principali ben disposto (es. qualche banca locale) e si vogliono includere anche i restanti creditori per avere pieno effetto liberatorio.

Una differenza notevole è che un imprenditore minore non può accedere al concordato preventivo ordinario. Quindi il concordato minore è il suo strumento equivalente. Ad esempio, un artigiano sotto soglia o un agricoltore non possono fare ricorso al tribunale fallimentare per un concordato preventivo; dovranno presentare un concordato minore (di competenza dello stesso tribunale ma in veste di giudice del sovraindebitamento). La Cassazione a Sezioni Unite nel 2021 (n.19597) ha confermato che anche i professionisti possono accedere a queste procedure, quindi un avvocato pieno di debiti potrà fare un concordato minore se i creditori glielo votano.

Liquidazione controllata del sovraindebitato

La liquidazione controllata è l’analogo del fallimento per i debitori non fallibili. Viene avviata su richiesta del debitore stesso, dei creditori o su “conversione” di un piano/concordato minore fallito. Il tribunale nomina un liquidatore e dispone la liquidazione di tutti i beni del debitore, con modalità semplificate. La procedura ricalca la liquidazione giudiziale ma con meno formalità: ad esempio, può essere affidata direttamente all’OCC; i termini per le domande di credito sono più brevi, etc.

Per il debitore, la liquidazione controllata è dolorosa (perde il patrimonio) ma ha il vantaggio di condurre, come nel fallimento, alla esdebitazione automatica a fine procedura. Infatti, l’art. 282 CCII prevede che il debitore persona fisica è esdebitato di diritto dopo la chiusura della liquidazione controllata, salvo opposizione di creditori se ha tenuto comportamenti scorretti. Ciò significa che un consumatore o piccolo imprenditore che subisce la liquidazione vedrà cancellati tutti i debiti residui appena il liquidatore ha venduto tutto e chiuso i conti. È un miglioramento rispetto alla vecchia legge, dove l’esdebitazione doveva essere richiesta.

La liquidazione controllata è spesso l’ultima risorsa: vi si accede quando il debitore non ha reddito sufficiente per un piano e magari ha qualche bene da liquidare, oppure quando creditori stufi la richiedono per chiudere la questione. Ad esempio, un piccolo imprenditore con casa di proprietà pesantemente ipotecata e debiti ovunque, che non riesce a proporre un piano fattibile, può farsi liquidare la casa e liberarsi dei debiti residui.

Durante la liquidazione controllata, il debitore collabora col liquidatore, ma perde l’amministrazione dei beni. Tutte le regole su atti in frode, revocatorie, etc., si applicano in modo simile. Al termine, come detto, c’è l’esdebitazione (con gli stessi limiti: non copre debiti alimentari, risarcitori da illecito, etc. e i soci garanti restano obbligati).

Un esempio concreto: Tizio, ex piccolo imprenditore, viene liquidato; i creditori ottengono 10% di soddisfo; Tizio perde la casa e i risparmi. Però, a procedura chiusa, il restante 90% di debiti è cancellato e Tizio può ricominciare da zero. Questo è fondamentale per dare un senso alla procedura: il debitore onesto esce pulito.

Esdebitazione del debitore incapiente

Infine, il Codice prevede una misura innovativa e inusuale: la possibilità di esdebitazione “a zero” per il debitore persona fisica incapiente, ossia che non ha alcun patrimonio né reddito aggredibile. Questa procedura (art. 283 CCII) consente al debitore di ottenere la cancellazione di tutti i debiti senza pagare nulla ai creditori. Ovviamente è sottoposta a condizioni stringenti:

  • Il debitore non deve avere prospettive economiche di poter pagare anche parzialmente i crediti.
  • Deve essere meritevole, cioè non aver colpe gravi o atti in frode nei 5 anni precedenti.
  • Deve dimostrare di non aver già beneficiato di altra esdebitazione nei precedenti 5 anni (non si può azzerare i debiti più volte in breve).
  • L’esdebitazione non copre i soliti debiti esclusi (mantenimento, multe per reati, etc.).

Il tribunale concede l’esdebitazione subordinata a un periodo di 4 anni durante i quali se il debitore dovesse migliorare la propria situazione economica (es. vincita alla lotteria, eredità, aumento reddito), dovrà pagarne parte ai vecchi creditori, pena la revoca del beneficio. Se trascorsi i 4 anni non vi sono sopravvenienze di rilievo, l’esdebitazione diventa definitiva.

Questa misura è stata pensata come “uscita umanitaria” per chi è completamente sopraffatto dai debiti ma non ha nulla da offrire (tipico caso: soggetto indebitato per fideiussioni o vecchi fallimenti, rimasto senza soldi né beni). In passato costoro restavano a vita debitori senza soluzione, ora possono avere questa chance.

Dal punto di vista del debitore, è come un “perdono giudiziale” dei debiti: ottenerlo è ovviamente fantastico per lui (si libera di tutto senza pagare), ma c’è il contrappeso del quadriennio di sorveglianza, in cui se ottiene entrate extra deve farne partecipi i creditori. I tribunali hanno già cominciato ad applicarla: es. Trib. Torino 22/3/2021 e Trib. Udine 15/4/2021 hanno concesso esdebitazioni a sessantenni nullatenenti, ammonendoli a comunicare eventuali migliorie economiche entro 4 anni.

Impatto fiscale e patrimoniale degli strumenti di crisi

Un aspetto di grande rilievo per il debitore (e i suoi consulenti) nell’affrontare una procedura di crisi è capire gli effetti fiscali e patrimoniali delle soluzioni scelte. Spesso, infatti, ridurre un debito con un accordo o un concordato può generare implicazioni sul piano fiscale e sul capitale aziendale.

Effetti fiscali: tassazione delle sopravvenienze e incentivi

Sopravvenienze attive da riduzione di debiti: in via ordinaria, se un debitore ottiene uno sconto sui propri debiti, contabilmente registra un provento (la differenza tra valore nominale del debito e quanto effettivamente paga). Questo provento sarebbe una sopravvenienza attiva tassabile come reddito. Ciò, paradossalmente, creerebbe un grosso problema: ad esempio, se una società ottiene da una banca lo stralcio di €1 milione di debito, rischia di dover pagare imposte su €1 milione di “utile” straordinario, il che è assurdo perché l’azienda magari è ancora in crisi di liquidità. Il legislatore ha risolto questo problema prevedendo (già da anni, oggi confermato dall’art. 88, comma 4-ter TUIR) che non costituiscono sopravvenienze attive tassabili le riduzioni di debiti ottenute nell’ambito di piani attestati pubblicati, di accordi di ristrutturazione omologati e di concordati preventivi omologati. Dunque, se il debitore utilizza uno di questi strumenti formali, il “guadagno” derivante dai debiti perdonati non viene tassato ai fini IRES/IRPEF. Questo è cruciale: rende conveniente e fattibile la ristrutturazione. Se invece il debitore ottenesse la stessa riduzione di debiti con un accordo informale non rientrante in quelle fattispecie (es. un accordo privato con singoli creditori non pubblicato né omologato), in teoria la sopravvenienza sarebbe imponibile.

Transazione fiscale e contributiva: quando nel piano concordatario o nell’accordo si falcidiano debiti fiscali, non c’è una penalizzazione fiscale ulteriore (sarebbe un controsenso). Anzi, con le normative recenti, IVA e ritenute – che un tempo non potevano essere falcidiate – oggi possono essere ridotte nelle procedure, come visto. L’Agenzia delle Entrate accetta uno stralcio oppure il giudice lo impone se conviene. Dal punto di vista fiscale, la parte di imposte non pagate viene considerata chiusa per definizione dalla sentenza di omologa (non rimangono come carichi pendenti). Inoltre, il Codice prevede (art. 63 CCII) che nella transazione fiscale possano essere stralciati integralmente interessi e sanzioni tributari. Quindi il debitore ottiene un alleggerimento: se deve qualcosa al Fisco, perlomeno interessi e sanzioni di mora può proporre di azzerarli.

Misure premiali (riduzione sanzioni e interessi): nell’ambito della composizione negoziata, l’art. 25-bis CCII prevede che se l’imprenditore conclude certi accordi che risolvono la crisi, può ottenere la riduzione al minimo di sanzioni e interessi sui debiti fiscali e contributivi. Ad esempio, se nel quadro della composizione negoziata paga i debiti tributari, potrebbero essergli condonati gli interessi di mora e sanzioni oppure rateizzati i tributi fino a 72 rate. Queste misure premiali fiscali sono un incentivo a muoversi per tempo.

Trattamento IVA: un tema fiscale da considerare è l’IVA sugli atti di liquidazione. In un concordato o fallimento, le vendite di beni aziendali sono soggette a IVA ma l’incasso va alla massa, con regole particolari (il curatore/commissario può emettere fatture esenti in certi casi). Comunque, per il debitore, l’IVA riscossa dal curatore su vendite in fallimento non è un suo debito, quindi non è un problema suo (è della massa). Se però vendesse beni extra-procedura, dovrebbe versare l’IVA. Quindi le procedure concorsuali offrono spesso regimi IVA facilitati. Ad esempio, la cessione di beni ai creditori in un concordato preventivo in conto pagamento non genera ricavi tassabili (art. 86 co.5 TUIR) né IVA aggiuntiva, secondo interpretazioni uniformi.

Deduzione delle perdite su crediti per i creditori: notiamo di sfuggita che, specularmente, per i creditori le somme non incassate in un concordato/fallimento sono deducibili come perdite (art. 101, co.5 TUIR lo consente espressamente per i crediti insoddisfatti in procedure concorsuali). Questo favorisce anche l’adesione dei creditori a piani/accordi: sanno che ciò che perdonano è fiscalmente deducibile.

In sintesi, il quadro fiscale è stato calibrato per non ostacolare le soluzioni concordate: il debitore che si avvale degli strumenti di crisi non viene punito dal fisco per i debiti tagliati, anzi può trovare agevolazioni su sanzioni e interessi. È però importante rispettare le forme: per ottenere l’esenzione delle sopravvenienze, ad esempio, un piano attestato va pubblicato al Registro Imprese. Se l’azienda si limitasse a fare accordi privati senza formalizzarli, rischierebbe di dover contabilizzare utili tassabili.

Impatto patrimoniale e sul capitale

Dal punto di vista patrimoniale, le procedure di crisi hanno varie implicazioni:

  • Impatto sul capitale sociale: per le società, una crisi spesso comporta perdite che erodono il capitale netto. Durante le trattative o procedure, le norme societarie (artt. 2446-2447 c.c. per le S.p.A., 2482-bis e ter per le S.r.l.) potrebbero imporre la ricapitalizzazione o lo scioglimento per perdita oltre il terzo o sotto zero. Il CCII prevede una sorta di esonero temporaneo da queste norme per le società in concordato o accordo omologato: se c’è un piano di risanamento in corso, la società può essere autorizzata a non sciogliersi malgrado il capitale azzerato, in vista della ricostituzione a esito positivo. Tuttavia, spesso nei piani si prevede comunque un “recapitalize or liquidate”: ad esempio, un concordato in continuità potrebbe includere un aumento di capitale da parte di nuovi investitori (dilavando i vecchi soci).
  • Assetti proprietari: alcune procedure possono comportare la perdita dell’azienda da parte degli attuali proprietari. Esempi: in un concordato con assuntore, un terzo rileva l’azienda in cambio di pagamenti ai creditori – i vecchi soci escono di scena. Nel concordato semplificato, l’azienda può essere venduta dal debitore col placet del giudice a un nuovo soggetto, sempre con i soci originari che perdono la titolarità. Anche nel PRO, pur mantenendo la gestione, il piano potrebbe prevedere operazioni sul capitale: la direttiva EU incoraggia possibilità di imporre aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione per far entrare nuovi soci (anche se in Italia, su PMI, questo sarà raro se non con consenso dei soci, data la compagine ristretta).
  • Perdita del patrimonio personale: nelle liquidazioni (giudiziale o controllata) il debitore persona fisica vede il proprio patrimonio aggredito. Tuttavia, certi beni sono protetti: ad esempio, strumenti di lavoro indispensabili e beni di uso quotidiano sono impignorabili ex lege. Nelle procedure concorsuali, di solito si rispettano queste esenzioni. Inoltre, spesso i creditori ipotecari assorbono tutto il valore dei beni principali (casa), e al debitore rimane ben poco. Il CCII cerca di contemperare: in alcune situazioni di liquidazione del patrimonio personale, se vendere la casa non darebbe nulla ai chirografari (perché magari c’è un mutuo pari al valore dell’immobile), il giudice può valutare soluzioni alternative (ad esempio, lasciare la casa al debitore e chiudere lo stesso la procedura, come si era discusso nelle riforme – ma qui entriamo in dettagli oltre scopo).
  • Continuità dell’attività economica: sul piano patrimoniale, una grande differenza è tra soluzioni che mantengono l’azienda in vita e soluzioni che la liquidano. Per il debitore imprenditore questo è fondamentale: conservare l’impresa significa conservare la fonte di reddito e il valore avviamento. Un concordato in continuità magari sacrifica parte del patrimonio (cedendo asset non core, dando equity ai creditori) ma salva la parte produttiva. Ciò può permettere alla società di ricostituire valore nel tempo. Una liquidazione, invece, dispone di tutto e l’impresa cessa: i dipendenti perdono il lavoro, i soci perdono il loro investimento, il nome aziendale può sparire. Quindi, l’impatto patrimoniale di un concordato in continuità ben riuscito può essere addirittura positivo sul medio termine (l’azienda risanata torna a produrre utili, valorizzando il capitale rimasto), mentre una liquidazione è un realizzo istantaneo del patrimonio a valori tipicamente depressi (aste, vendite forzate).
  • Debitore persona fisica e famiglia: bisogna considerare che per un imprenditore individuale o un consumatore sovraindebitato, il patrimonio spesso coincide con i beni di famiglia (casa, auto, piccoli risparmi). Gli strumenti come il piano del consumatore hanno proprio l’obiettivo di preservare quanto possibile la stabilità familiare: ad esempio, Mario Rossi nel nostro Caso 2 ha potuto mantenere la casa in affitto e non rovinare la famiglia, pagando ciò che poteva senza intaccare le spese essenziali. Al contrario, la liquidazione porterebbe all’esproprio di eventuali beni (se Mario avesse avuto una casa di proprietà, gliela avrebbero venduta). Il codice privilegia soluzioni che mantengano un minimo vitale: così, nel piano del consumatore il giudice valuta che le rate proposte lascino alla famiglia del debitore i mezzi di sostentamento dignitosi.
  • Rapporti di garanzia: un dettaglio patrimoniale: l’esdebitazione (post-fallimento o nel sovraindebitamento) è personale. Cioè libera il debitore principale, ma non i coobbligati o garanti. Ciò significa che se un socio ha garantito con fideiussione un debito sociale, e la società fa concordato e stralcia il debito, la banca può comunque escutere il fideiussore per la parte non pagata. Lo stesso per i coobbligati solidali: ad esempio, nel sovraindebitamento familiare, se solo uno dei coniugi ottiene esdebitazione, l’altro resta obbligato per intero (a meno che facciano procedura familiare congiunta). Questo è un aspetto patrimoniale importante: le procedure liberano il debitore dalla propria obbligazione, ma non toccano le garanzie di terzi. Dunque il debitore deve essere consapevole che, se qualcuno ha garantito i suoi debiti, quel qualcuno potrebbe trovarsi a pagare (e poi eventualmente rivalersi). Cass. SU 8508/2022 ha ribadito che un socio illimitatamente responsabile può essere dichiarato fallito a seguito del fallimento della società, a conferma che le procedure possono “allargarsi” ai responsabili in solido.

Capitale sociale e soci: negli strumenti di regolazione di società, spesso i soci devono mettere mano al portafoglio. Ad esempio, in un accordo di ristrutturazione, i creditori possono pretendere che i soci apportino nuovo capitale come condizione. Nel concordato in continuità, spesso i soci perdono parte del capitale (diluiti da nuovi investitori). In concordati liquidatori, i soci non ricevono nulla dall’eventuale eccedenza: per legge, ai soci si può dare qualcosa solo se i creditori sono pagati al 100%. Quindi praticamente in tutte queste procedure i soci azzerano il valore della propria partecipazione. Questo è un impatto patrimoniale per loro, benché non per il debitore-società (che invece riduce i debiti). Tuttavia, per i soci ciò è spesso comunque preferibile a continuare con una società insolvente: almeno si chiude la partita e si evita di dover ripianare le perdite.

In conclusione, la scelta dello strumento deve tener conto sia dei suoi effetti fiscali (per evitare che la cura fiscale uccida il paziente risanato) sia degli effetti patrimoniali sul debitore e sui terzi coinvolti. Fortunatamente, la normativa attuale è abbastanza favorevole:

  • fiscalmente, chi segue le regole del Codice non subisce tassazioni inique sulle riduzioni di debiti, e può anzi negoziare meglio col Fisco;
  • patrimonialmente, le procedure offrono meccanismi di salvaguardia (minimo vitale al debitore persona, possibili continuità aziendale per preservare valore, esdebitazione finale per togliere il peso dei debiti insoddisfatti).

Ogni strumento va valutato nelle sue specificità: ad esempio, un piano attestato ben fatto può sistemare il bilancio di una società e riportare il patrimonio netto positivo (grazie alla deconsolidazione dei debiti e all’esenzione fiscale), mentre un concordato potrebbe richiedere di ridurre formalmente il capitale a zero e poi aumentarlo (con i soci che perdono tutto). Dal lato pratico, il consiglio per il debitore è di coinvolgere anche consulenti contabili/fiscali nelle scelte: a volte, una struttura tecnica leggermente diversa (es. preferire un accordo ex art.57 piuttosto che scrittura privata) fa la differenza su quante tasse pagherà e su come risulteranno i bilanci post-crisi.

Domande frequenti (FAQ)

Domanda: Qual è la differenza tra composizione negoziata e concordato preventivo?
Risposta: La composizione negoziata è una procedura volontaria, confidenziale e stragiudiziale, in cui l’imprenditore cerca un accordo con i creditori con l’aiuto di un esperto, senza coinvolgere il tribunale nell’approvazione (salvo chiedere misure protettive al giudice). Non c’è voto dei creditori né un piano imposto: tutto dipende dal consenso volontario raggiunto. Il concordato preventivo, invece, è una procedura concorsuale giudiziaria: prevede la redazione di un piano formale, il voto di tutti i creditori in una procedura davanti al tribunale e l’omologazione finale da parte di un giudice. In sintesi, la composizione negoziata è più informale e flessibile (non vincola i dissenzienti, e si svolge in riservatezza), mentre il concordato è più strutturato e vincolante erga omnes una volta omologato. Spesso la composizione negoziata serve per evitare o preparare un eventuale concordato: ad esempio, si tenta la via negoziale e, se non funziona, si passa al concordato. Un’altra differenza pratica è che nella composizione negoziata l’imprenditore mantiene il pieno controllo dell’azienda (l’esperto è solo un facilitatore), mentre nel concordato l’impresa opera sotto la vigilanza di un commissario nominato dal tribunale e con gli atti di straordinaria amministrazione soggetti ad autorizzazione.

Domanda: Il piano attestato di risanamento ha valore legale verso i creditori?
Risposta: Il piano attestato di risanamento, di per sé, non vincola i creditori dissenzienti perché è un atto unilaterale del debitore. La sua efficacia deriva dal fatto che i creditori rilevanti aderiscono volontariamente agli accordi esecutivi del piano (es. firme su moratorie, rifinanziamenti, ecc.). Un creditore che non abbia sottoscritto nulla rimane libero di agire per il pagamento integrale. Tuttavia, se il piano riesce, tutti i creditori verranno di fatto soddisfatti secondo quanto previsto, quindi anche i dissenzienti alla fine vengono pagati (integralmente o in parte, secondo il piano). Il vantaggio legale del piano attestato sta nel fatto che gli atti e pagamenti compiuti in esecuzione di esso non possono essere revocati in un futuro fallimento, e certi reati fallimentari (es. bancarotta preferenziale) non si applicano. In altri termini, il piano attestato protegge il debitore: se più tardi interviene una procedura concorsuale, le transazioni fatte secondo il piano restano valide e l’amministratore non incorre in responsabilità per aver pagato alcuni creditori in luogo di altri. Ma attenzione: per obbligare i creditori dissenzienti a una riduzione del credito serve comunque uno strumento con forza erga omnes, come un accordo omologato o un concordato preventivo. Il piano attestato funziona quando c’è adesione spontanea dei creditori principali; se serve imporre a tutti un taglio, allora bisogna passare dal tribunale.

Domanda: Che succede se l’accordo di ristrutturazione dei debiti non viene omologato dal tribunale?
Risposta: Se il tribunale rifiuta l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione (ad esempio perché un creditore ha fatto opposizione e il giudice ritiene che l’accordo non assicuri il pagamento integrale ai creditori estranei nei termini di legge, oppure ravvisa atti in frode), l’accordo non produce effetti vincolanti. A quel punto, di solito si aprono due scenari: (1) il debitore può tentare di modificare l’accordo e presentarlo nuovamente, se c’è tempo e i creditori principali sono disponibili a rinegoziare i punti contestati; oppure (2) i creditori – soprattutto se ormai l’insolvenza è conclamata – potrebbero chiedere la liquidazione giudiziale (fallimento) del debitore. Spesso il tribunale, nel negare l’omologa, indica i motivi di rigetto: se sono correggibili (es. “il piano non garantisce abbastanza i creditori estranei, occorre pagarli entro tot giorni”), il debitore ha margine per riprovarci adeguando quei punti. Se invece il piano è giudicato proprio irrealistico o c’è un dissenso forte e insormontabile di creditori chiave, è probabile che segua un’insolvenza conclamata e quindi il fallimento. In ogni caso, arrivare a un diniego di omologa è una situazione da evitare con un’adeguata preparazione: per questo la legge richiede l’attestazione di un professionista sulla fattibilità e regolarità del trattamento dei creditori estranei, proprio per prevenire rigetti. Un caso tipico in passato era il diniego per mancata adesione del Fisco: ora con il cram-down fiscale il giudice può comunque omologare se il Fisco ottiene almeno quanto otterrebbe dal fallimento, riducendo i rischi di rigetto per questo motivo. Dunque, se l’accordo non viene omologato, o si rettifica e si ripresenta (se possibile) o bisogna prepararsi a una procedura concorsuale più invasiva.

Domanda: Nel concordato preventivo, i creditori privilegiati devono essere pagati per intero?
Risposta: Di regola sì, i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegi generali come dipendenti) hanno diritto ad essere soddisfatti integralmente nel concordato – a meno che accettino di ricevere di meno. Più precisamente: se il piano di concordato vuole falcidiare un creditore privilegiato (cioè non pagarlo al 100% del suo credito o pagarlo in forma dilazionata oltre il termine di legge), è necessario che un esperto indipendente attesti che quel creditore riceverà almeno quanto otterrebbe in un fallimento (cioè il valore di liquidazione del bene su cui ha prelazione), e inoltre è necessario che la classe di appartenenza di quel creditore approvi la proposta. In altre parole, non è automatico che prendano il 100%, ma per pagarli meno servono condizioni stringenti e consensi. Nel concordato in continuità aziendale, la legge ammette anche la moratoria fino a 6 mesi (estendibile a 12 per crediti ipotecari) per i privilegiati e persino la falcidia, purché sia tutto attestato come conveniente e la classe di quei privilegiati approvi. Nel concordato liquidatorio, invece, i privilegiati devono essere pagati integralmente salvo loro rinuncia esplicita. Un esempio: se un immobile aziendale, su cui c’è ipoteca della banca, vale meno del credito residuo (diciamo la banca ha credito €100 e l’immobile ne vale €70), il piano può prevedere di pagare la banca fino a €70 (il valore stimato di realizzo dell’immobile) e considerare il resto €30 come chirografo falcidiato. Così la banca ipotecaria verrebbe soddisfatta “per intero” in termini di valore reale. Questa operazione richiede l’attestazione sul valore di liquidazione e il voto favorevole della classe di quella banca ipotecaria. D’altro canto, va ricordato che i creditori chirografari non hanno diritto per legge a una percentuale minima (nel concordato in continuità può essere anche molto bassa, in quello liquidatorio c’è la soglia 20% salvo deroghe). Quindi la tutela forte è per i privilegiati (che hanno garanzie reali o speciali) e c’è un requisito di soglia minima per i chirografi solo nei concordati liquidatori (20%, salvo eccezioni autorizzate).

Domanda: Cos’è in concreto il “concordato semplificato” e quando si può usare?
Risposta: Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII) è una speciale forma di concordato senza voto dei creditori, utilizzabile solo dall’imprenditore che abbia tentato senza successo la composizione negoziata della crisi. In pratica, se dopo la fase di negoziazione assistita l’imprenditore non è riuscito a trovare un accordo con i creditori, entro 60 giorni dalla chiusura di quella procedura può proporre questo concordato semplificato al tribunale. È detto “semplificato” perché presenta alcune differenze dal concordato ordinario:

  • Nessuna votazione dei creditori: il piano viene presentato direttamente al giudice. I creditori non votano sull’accordo.
  • Oggetto solo liquidatorio: deve essere un piano che prevede la liquidazione del patrimonio del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori (quindi niente continuità aziendale in questo caso, se c’è continuità allora semmai si andava verso concordato preventivo).
  • Controllo del tribunale: il tribunale valuta la regolarità della precedente composizione negoziata (che dev’essere stata condotta correttamente e conclusa con esito negativo certificato dall’esperto) e la fattibilità ed equità del piano liquidatorio proposto. Serve comunque una relazione di un esperto che attesti che il piano è fattibile e che i creditori non vengano danneggiati rispetto all’alternativa fallimentare.
  • Intervento dei creditori limitato: i creditori possono solo presentare osservazioni o opposizioni all’omologa in udienza, ma non hanno potere di blocco con un voto. La decisione ultima spetta al giudice, che omologa d’ufficio se ritiene il piano equo e nel migliore interesse dei creditori.

Di fatto è un “concordato liquidatorio imposto” dal debitore sotto controllo giudiziario. A cosa serve? Serve a evitare il fallimento e consentire una liquidazione più rapida e gestita dal debitore stesso (pur vigilata) dopo che la via negoziata è fallita. Quando usarlo: quando l’imprenditore, dopo aver esplorato la negoziazione assistita, si rende conto che non c’è accordo possibile e l’unica soluzione rimane liquidare i beni, ma vuole farlo in modo ordinato, senza aspettare che i creditori lo portino in fallimento. Presentando il concordato semplificato, il debitore mantiene un ruolo attivo come proponente del piano liquidatorio e può condurre trattative per vendere beni a valori migliori prima del tracollo. Ad esempio, può aver individuato un acquirente per l’intera azienda e propone di vendere a quello, distribuendo poi il prezzo ai creditori (cosa che in fallimento sarebbe più incerta e lenta). I creditori, se il giudice omologa, sono vincolati e ricevono quanto stabilito, anche se magari avrebbero voluto di più.

Da sottolineare: il concordato semplificato non è libero per chiunque – bisogna necessariamente aver svolto la composizione negoziata e ottenuto la relazione finale negativa dell’esperto. Non è quindi una scorciatoia accessibile senza prima tentare la negoziazione. La Cassazione (Sez. I, ord. 9730/2023) ha confermato che, pur con queste peculiarità, il concordato semplificato è a tutti gli effetti una procedura concorsuale, quindi soggetta alle regole generali (es: competenza territoriale, come da art. 161 l.f. analogicamente applicato). In sintesi, il vantaggio per il debitore è la velocità e l’assenza di quorum di voto – può far omologare un piano liquidatorio anche contro il parere di alcuni creditori, se il giudice lo giudica equo (quindi se i creditori ottengono grosso modo il valore di liquidazione dei beni). Il rischio per il debitore è relativo: se il piano fosse ingiusto verso i creditori, questi potrebbero opporsi e convincere il giudice a non omologare, facendolo finire comunque in fallimento. Quindi deve presentare un piano serio. Inoltre, i creditori insoddisfatti potrebbero alzare contestazioni, ma in definitiva il tribunale decide in autonomia tenendo conto dell’interesse di tutti i creditori.

Domanda: Un imprenditore sovraindebitato (non fallibile) può accedere al concordato preventivo?
Risposta: No, se un imprenditore non supera le soglie di fallibilità (art. 2 CCII) o è un soggetto escluso (come l’imprenditore agricolo), non può utilizzare il concordato preventivo previsto per le imprese maggiori. Deve invece ricorrere alle procedure di sovraindebitamento predisposte ad hoc. In particolare, l’equivalente del concordato per un imprenditore minore è il concordato minore. Ad esempio, un artigiano sotto soglia o un agricoltore non possono presentare ricorso per concordato preventivo al tribunale fallimentare; dovranno presentare una proposta di concordato minore presso la sezione competente per il sovraindebitamento (spesso è la stessa sezione fallimentare ma con un iter distinto). Il concordato minore, come detto, richiede l’adesione del 60% dei crediti chirografari e segue un iter semplificato. Allo stesso modo, un consumatore (persona fisica non imprenditore) non può accedere né al concordato preventivo né al concordato minore: per lui c’è il piano di ristrutturazione del consumatore. Quindi la regola è: debitori non fallibili usano gli strumenti di sovraindebitamento del Capo II, debitori fallibili usano concordato preventivo, accordi, ecc.. Un’eccezione interessante: l’imprenditore agricolo, pur non fallibile, può utilizzare gli accordi di ristrutturazione dei debiti ordinari (art. 57 CCII lo consente). Quindi un grande agricoltore insolvente potrebbe fare un accordo ex art.182-bis, ma non un concordato preventivo. Se quell’accordo fallisce, comunque, non può essere dichiarato fallito ma andrà in liquidazione controllata, non in liquidazione giudiziale.

Domanda: Quali debiti si possono falcidiare (ridurre) nelle procedure di sovraindebitamento? Ad esempio, si possono ridurre i debiti verso Agenzia delle Entrate?
Risposta: , nelle procedure di sovraindebitamento (piano del consumatore e concordato minore) è possibile ristrutturare praticamente tutti i tipi di debito, incluse le cartelle esattoriali per tasse e contributi, con poche eccezioni. In passato, c’erano divieti di falcidia su alcuni tributi, in particolare IVA e ritenute fiscali (ritenute d’acconto) – non potevano essere toccati. Ma tali limiti sono stati superati dalle riforme e dalla giurisprudenza: oggi il debitore può proporre il pagamento parziale di IVA e altre imposte sia nel piano del consumatore che nel concordato minore, attraverso la cosiddetta transazione fiscale. Ovviamente, l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali partecipano come creditori: nel concordato minore hanno diritto di voto (e spesso esprimono parere tramite l’Avvocatura dello Stato); nel piano del consumatore non votano ma possono opporsi. Il giudice può omologare anche in caso di loro dissenso, a condizione che la proposta verso il Fisco sia almeno pari a quella ottenibile in una liquidazione e che comunque i creditori ottengano un beneficio rispetto al nulla. Ad esempio, un debito IVA di €50.000 può essere proposto pagato al 20% (€10.000) se in caso di liquidazione il Fisco non prenderebbe nulla – il giudice può approvare tale falcidia. Le eccezioni rimaste: non si possono falcidiare obblighi di mantenimento, alimenti, debiti da risarcimenti per danni causati da illecito extracontrattuale con dolo o colpa grave (es. multe penali) – questi rimangono dovuti per intero anche dopo la procedura, non vengono esdebitati. Ma i debiti tributari e contributivi sì, rientrano e possono essere ridotti o diluiti. La Corte Costituzionale (sent. n.245/2019) e la Cassazione hanno consolidato la legittimità di falcidiare l’IVA nelle procedure di sovraindebitamento, rimuovendo i dubbi iniziali. Oggi, dunque, anche i debiti verso Agenzia Entrate, INPS, ecc., possono essere ristrutturati: se ne paga una quota e il resto viene stralciato con l’omologa. Naturalmente, occorre includerli correttamente nella proposta e seguire le regole (nel concordato minore, serve il voto favorevole della classe fiscale se li si paga meno del 100% o se si chiedono stralci di sanzioni/interessi; nel piano del consumatore serve dimostrare che il Fisco non viene trattato peggio degli altri e che il debitore non ha colpe gravi nel debito tributario). In sintesi: oggi anche i debiti fiscali possono essere oggetto di “taglio” nelle procedure minori, cosa che fino a qualche anno fa non era possibile.

Domanda: Dopo una liquidazione giudiziale o controllata, il debitore è libero dai debiti?
Risposta: Sì, potenzialmente sì. Tanto la liquidazione giudiziale (fallimento) quanto la liquidazione controllata del sovraindebitato prevedono la possibilità di ottenere l’esdebitazione, ossia la cancellazione dei debiti rimasti insoddisfatti, per il debitore persona fisica. Nel fallimento, dal 2012 in poi esiste questo beneficio (inizialmente su istanza); il Codice l’ha reso ancora più agevole: trascorsi 3 anni dalla chiusura della procedura, il debitore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione dei debiti residui (salvo revoca se emergono frodi). Nella liquidazione controllata, l’art. 282 CCII prevede analogamente che il debitore persona fisica è esdebitato di diritto dopo la chiusura, salvo opposizione di creditori in caso di comportamento non collaborativo o di frode. In pratica, se il debitore ha agito lealmente e ha messo a disposizione tutto il suo patrimonio, alla fine della procedura viene liberato dai debiti. Ad esempio: un piccolo imprenditore subisce una liquidazione controllata, i creditori ottengono il 10% di soddisfo, lui perde i suoi beni. A procedura chiusa, i restanti debiti 90% vengono cancellati – non possono più essere richiesti – e lui può ricominciare da capo senza pendenze. Attenzione: l’esdebitazione non si applica alle società (che una volta liquidate si estinguono, e i debiti non soddisfatti restano estinti con la società stessa) né ad alcuni debiti di natura personale come gli obblighi di mantenimento, le multe per reati, ecc., che restano (sono esclusi per legge dall’esdebitazione). Ma i debiti civili, commerciali, bancari, fiscali, ecc., sì: vengono spazzati via, salvo il caso di revoca se si scopre che il debitore ha nascosto attivo o commesso frodi. C’è poi la particolare esdebitazione dell’incapiente, di cui abbiamo parlato: addirittura il debitore nullatenente può essere esdebitato senza aver pagato nulla, purché superi 4 anni di “buona condotta” successiva. Quindi, la risposta è: dopo la procedura concorsuale il debitore onesto è libero, può beneficiare del fresh start (nuovo inizio). Viceversa, se il debitore ha agito con dolo o ha nascosto attivo, il giudice può escludere o revocare l’esdebitazione – non si premiano i disonesti. Da notare infine: l’esdebitazione vale solo per il debitore in questione; per i garanti e coobbligati dei debiti ciò non vale. Ad esempio, se Caio era socio fideiussore della ditta di Tizio, i creditori potranno ancora agire contro Caio anche se Tizio è esdebitato. E se il debitore è una società, non si parla di esdebitazione perché la società, una volta liquidata e cancellata, sparisce e con essa i crediti insoddisfatti (salvo eventualmente aggredire i soci se avevano responsabilità illimitata o fideiussioni personali).

Domanda: Quale procedura conviene di più a un imprenditore in crisi?
Risposta: Non c’è una risposta univoca, dipende dal caso concreto: ogni situazione di crisi è diversa e va tailorizzata. Tuttavia, si può delineare una sorta di gerarchia di convenienza dal punto di vista del debitore, tenendo conto di quanto emerso:

  • Se l’azienda ha prospettive di recupero e il debitore vuole assolutamente conservarla, conviene iniziare con gli strumenti meno invasivi: composizione negoziata e piani attestati, tentando un accordo stragiudiziale. Questi strumenti lasciano il controllo al debitore, non attivano procedure pubbliche e quindi non intaccano subito la reputazione. Si tiene come “asso nella manica” le procedure pesanti (concordato) solo se la via morbida fallisce.
  • Se l’azienda è in crisi ma risanabile a patto di tagliare il debito e magari con l’apporto di nuove risorse, allora il concordato preventivo in continuità può essere lo strumento più potente, perché consente di ristrutturare il debito mantenendo l’impresa in vita e vincolando anche i creditori dissenzienti. Però è costoso e lungo, quindi va scelto se ne vale la pena – tipicamente per aziende di dimensioni significative, con molti creditori. Se l’impresa è piccola e non fallibile, l’analogo è il concordato minore.
  • Se il problema principale è il debito finanziario e serve rinegoziarlo con banche, un accordo di ristrutturazione può essere preferibile: meno pubblicità, più velocità, e costi più contenuti di un concordato. Ad esempio, se ho poche banche e posso pagarle al 40%, preferisco fare un accordo ex art. 57 con il 60% di consenso piuttosto che un concordato, raggiungendo l’intesa in modo più snello.
  • Se la crisi è troppo avanzata e l’unica via è liquidare, allora paradossalmente conviene farlo prima possibile e in modo ordinato: o tramite un concordato liquidatorio (se l’impresa è grande, per gestire la liquidazione con il debitore proponente) o tramite la liquidazione controllata (se è piccola impresa non fallibile). L’importante è evitare di accumulare ulteriori danni. Ad esempio, se l’imprenditore vede che non potrà salvare l’azienda, può essere meglio richiedere egli stesso la liquidazione giudiziale o controllata e vendere i beni in modo ordinato, per poi chiedere l’esdebitazione; piuttosto che lasciar aggravare il dissesto e arrivare a un fallimento su istanza di terzi in condizioni peggiori.
  • Per un consumatore privato, di solito conviene provare prima il piano del consumatore, perché non necessita del consenso dei creditori e permette di conservare i beni essenziali se il reddito lo consente. La liquidazione del patrimonio personale (perdere casa, auto, etc.) è l’ultima spiaggia. Quindi per le famiglie la sequenza consigliata è: prima il piano, se non fattibile (perché il reddito è zero) allora liquidazione o direttamente esdebitazione dell’incapiente.

In termini di beneficio netto per il debitore: le procedure concorsuali (concordati, liquidazioni) portano all’esdebitazione, cioè alla pace totale dai debiti, ma a costo di sacrifici maggiori (perdita di controllo, di patrimonio, costi procedura). Le procedure negoziali (piani, accordi) mantengono più controllo e flessibilità, ma se falliscono fanno perdere tempo e potenzialmente erodono la fiducia di creditori e mercato. Quindi un imprenditore dovrebbe farsi assistere da esperti e valutare: ho il tempo e la possibilità di negoziare privatamente? ho il consenso di alcuni creditori chiave? – allora provi con comp. negoziata, accordo o piano attestato. Se invece il tempo stringe, i creditori aggrediscono e serve congelare subito la situazione, meglio il concordato (o il nuovo PRO) perché offre protezione immediata e un risultato vincolante erga omnes.

Una regola d’oro enunciata anche dal Codice: prima si usa l’allerta e la negoziazione, poi, se necessario, si passa al giudiziale. E mai aspettare troppo: la tempestività è fondamentale. Molte sentenze (ad es. Cass. Sez. Un. 5605/2020) condannano l’abuso del ritardo fino all’insolvenza irreversibile. In pratica, conviene la procedura che massimizza la soddisfazione ai creditori compatibilmente con il salvataggio dell’impresa, perché così sarà più facile da approvare e meno traumatica per il debitore. Se l’impresa non si salva, conviene quella che chiude prima la vicenda (liquidazione concorsuale ed esdebitazione) così il debitore può voltare pagina più in fretta.

In conclusione, ogni crisi fa storia a sé. Un buon advisor guarderà la situazione e magari suggerirà un percorso graduale: ad esempio, iniziare con composizione negoziata; se va male, passare a un concordato semplificato (come visto nel Caso 3 Alfa Tech). Oppure tentare un accordo 182-bis; se salta per un creditore ostile, convertire la domanda in un concordato preventivo. Il Codice della crisi offre tante frecce nell’arco: sta al debitore, coadiuvato da professionisti, scegliere quelle giuste al momento giusto, sempre con la massima trasparenza e correttezza (per non perdere i benefici).

Simulazioni pratiche

Per comprendere meglio il funzionamento concreto degli strumenti trattati, presentiamo di seguito tre casi pratici ipotetici che illustrano come un debitore può affrontare la crisi applicando le varie soluzioni a disposizione. Si tratta di scenari semplificati ma realistici – basati su situazioni tipiche – con l’indicazione del percorso seguito e dell’esito finale, dal punto di vista del debitore.

Caso 1: PMI industriale ristruttura il debito con accordo di ristrutturazione

Scenario: La Alfa Meccanica S.r.l. è un’azienda manifatturiera (fatturato €4 milioni, 20 dipendenti) che ha accumulato debiti per circa €800.000. In particolare: €500.000 verso la banca principale (fidi e mutuo residuo), €200.000 verso fornitori vari e €100.000 verso il Fisco (IVA non versata e IRAP). L’azienda è in stato di crisi ma non insolvenza irreversibile: ha tuttora commesse in corso e margini operativi, però il peso del debito le impedisce di investire e la banca minaccia di revocare gli affidamenti. La società e i soci vogliono evitare la cessazione dell’attività e credono che, alleggerendo il debito e dilazionandolo, l’impresa possa tornare redditizia.

Soluzione scelta: Accordo di ristrutturazione dei debiti ex art.57 CCII (accordo omologato). Alfa Meccanica decide di negoziare con i principali creditori (banca, alcuni fornitori maggiori) un taglio e una dilazione dei debiti, formalizzando poi il tutto in un accordo omologato dal tribunale per blindarlo. Si opta per un accordo di ristrutturazione “ordinario” col 60% dei crediti, includendo una transazione fiscale per l’Agenzia Entrate.

Azioni intraprese:

  • La società incarica un advisor finanziario e un professionista indipendente per l’attestazione. Prepara un piano di risanamento a 5 anni che prevede: pagamento al 50% dei debiti verso la banca e i fornitori, con dilazione quinquennale; pagamento parziale del debito IVA (30%) tramite transazione fiscale, con stralcio di sanzioni e interessi. I soci si impegnano anche a versare €50.000 di nuova finanza per facilitare l’accordo (somma che sarà usata in prededuzione per iniziare a pagare i creditori).
  • Trattativa: Alfa convoca informalmente la banca (creditore al 62% circa del totale debiti) e i fornitori principali (che assieme rappresentano un altro 20%). La banca, di fronte ai bilanci e al piano prospettato, è disponibile a uno stralcio del 50% se ciò permette all’azienda di sopravvivere e continuare a pagare interessi sul residuo (preferisce incassare 50% su 5 anni piuttosto che rischiare un fallimento e recuperare magari 20% dopo anni). I fornitori, pur malvolentieri, accettano un taglio del 50% diluito in 2 anni, capendo che in caso di fallimento probabilmente non vedrebbero quasi nulla e che mantenere Alfa come cliente (anche se pagando il vecchio al 50%) è meglio che perderla. L’Agenzia delle Entrate inizialmente è rigida (non può informalmente “accettare” prima della procedura), ma la società presenta un’istanza formale di transazione fiscale indicando che in un fallimento il Fisco prenderebbe zero (perché la banca ha ipoteca sui macchinari). Questo argomento predispone l’Erario a non opporsi più avanti.
  • Raggiunto un accordo di massima, l’azienda raccoglie le adesioni scritte: la banca firma l’accordo per il 62% dei crediti; fornitori rappresentanti il 15% dei crediti firmano. Totale adesioni: circa il 77% del passivo. Deposita quindi in tribunale la domanda di omologa dell’accordo di ristrutturazione con tutte le firme e la relazione dell’attestatore che conferma la fattibilità del piano e che i creditori estranei saranno pagati regolarmente. Contesta anche misure protettive: il tribunale emette un decreto che sospende eventuali azioni esecutive per 60 giorni mentre si perfeziona l’omologa.
  • Omologazione: trascorsi i termini di legge, nessun creditore ha fatto opposizione (il Fisco non si oppone perché ha visto la convenienza; i fornitori piccoli che non hanno aderito saranno pagati integralmente come da piano entro 120 giorni, quindi non hanno motivo di opporsi). Il tribunale verifica che l’accordo rispetta le norme – in particolare nota che i creditori estranei (quel 8% di piccoli fornitori non aderenti) verranno pagati integralmente entro 3 mesi come promesso, quindi nessuno resta pregiudicato. Dichiara quindi l’omologazione dell’accordo ex art. 48 CCII. L’accordo omologato vincola tutti i firmatari e conferma i termini proposti.
  • Esecuzione: Alfa Meccanica continua regolarmente l’attività. Con l’alleggerimento del servizio del debito (meno rate e interessi grazie al taglio concesso), torna presto in utile. Paga puntualmente le nuove rate concordate. In due anni salda i fornitori aderenti al 50% (e il restante 50% è stralciato definitivamente). In cinque anni paga alla banca €250.000 (il 50%) e al Fisco €30.000, dopodiché i residui €250.000 di banca e €70.000 di Fisco vengono cancellati per effetto dell’accordo omologato.
  • Follow-up: L’azienda, liberata da metà del debito, può investire i flussi generati in nuovi macchinari. I rapporti con la banca, normalizzati, consentono anche nuovi piccoli fidi per la crescita (la banca preferisce un cliente risanato e fidelizzato con cui proseguire). Dal punto di vista legale, l’accordo di ristrutturazione evitato qualsiasi procedura concorsuale: Alfa Meccanica non è mai “fallita” né entrata in concordato, quindi verso l’esterno la vicenda è apparsa come una normale ristrutturazione aziendale. I creditori hanno ricevuto di più di quanto avrebbero preso se l’azienda fosse collassata: la banca, ad esempio, forse avrebbe incassato il 30-40% vendendo i beni all’asta in fallimento (meno il costo procedure), mentre col piano ha ottenuto il 50% e ha mantenuto un cliente in bonis.

Commento: Questo caso illustra come una PMI possa utilizzare efficacemente lo strumento dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Ha beneficiato della flessibilità di poter trattare diversamente con vari creditori (nessuna par condicio rigida fuori procedura: ha tagliato del 50% alcuni, ma pagato integralmente i piccoli fornitori per tenerli buoni) e della rapidità relativa (in pochi mesi era omologato). Il tutto con la “benedizione” finale del tribunale che ha reso l’accordo vincolante e inattaccabile. Dal punto di vista del debitore, la società Alfa ha potuto evitare il fallimento, preservare la continuità aziendale e uscirne con un debito dimezzato e sostenibile, senza perdere la proprietà dell’azienda. Questo era possibile perché aveva dalla sua la banca principale consenziente: quel 60% è stato decisivo. Non a caso, la chiave degli ADR è avere una quota importante di creditori dalla propria parte. Se la banca fosse stata contraria, Alfa avrebbe dovuto probabilmente ripiegare su un concordato preventivo (più costoso) oppure sarebbe fallita. In questo scenario, la scelta è stata azzeccata: accordo stragiudiziale assistito da omologa per blindarlo, e crisi superata.

Caso 2: Famiglia sovraindebitata risolve con un piano del consumatore

Scenario: Il signor Mario Rossi, 45 anni, impiegato, e sua moglie hanno due figli. Negli anni scorsi Mario ha contratto vari prestiti personali e usato carte di credito revolving per far fronte a spese mediche impreviste e a un periodo di disoccupazione. Attualmente ha debiti per circa €80.000 complessivi: €50.000 con due banche (prestiti personali), €20.000 con finanziarie (carte di credito) e €10.000 di debiti vari (bollette arretrate, piccoli prestiti da conoscenti). Ha uno stipendio netto di €1.600/mese; la moglie guadagna poco part-time. Con due figli e affitto da pagare, le loro spese essenziali assorbono quasi tutto il reddito. Non riescono a sostenere le rate cumulate di tutti questi debiti (che supererebbero €1.000/mese). Mario è dunque in sovraindebitamento: non è formalmente fallibile (è un consumatore) e non riesce più a pagare regolarmente. Alcuni creditori hanno già avviato un pignoramento del quinto dello stipendio. Il patrimonio di Mario consiste in pochi risparmi (quasi nulli) e un’auto vecchia di modesto valore; non hanno casa di proprietà (vivono in affitto).

Soluzione scelta: Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (ex “piano del consumatore”). Mario si rivolge all’OCC istituito presso la sua città (Organismo di Composizione della Crisi). L’OCC nomina un gestore della crisi (un commercialista) che analizza la situazione. Constatano che Mario, in base al bilancio familiare, può destinare circa €300 al mese ai creditori, non di più, se vuole mantenere un tenore di vita minimo dignitoso (affitto, cibo, bollette, spese scolastiche). Su 5 anni, fanno €18.000 totali (300 × 60 mesi). Questo importo rappresenta circa il 22% dell’esposizione totale di 80k. Il gestore propone di utilizzare proprio quell’importo come base: offrire ai creditori il pagamento del 22% dei loro crediti, suddiviso proporzionalmente tra tutti, in 5 anni, lasciando fuori solo il mutuo casa che però Mario sta già pagando regolarmente e vuole continuare a pagare (il mutuo sulla casa, se fosse in arretrato, avrebbe un trattamento a parte, ma in questo caso è in pari e la casa, peraltro, è la residenza familiare protetta).

Azioni intraprese:

  • L’OCC predispone l’elenco completo dei creditori di Mario con importi e causali dei debiti. Redige una relazione particolareggiata che evidenzia la meritevolezza di Mario: si è indebitato per necessità (spese mediche, periodo senza lavoro), non per lusso o gioco; ha sempre cercato di pagare finché ha potuto; non ha tenuto comportamenti maliziosi (non ha nascosto beni, né contratto debiti sapendo di non pagarli se non per necessità).
  • Raccolte le prove (buste paga, estratti conto, lettere di finanziarie), il gestore assevera che i dati sono veritieri e che effettivamente i creditori, in caso di liquidazione del patrimonio di Mario, non avrebbero nulla: Mario infatti non possiede beni pignorabili di valore (vive in affitto, l’auto vale €2.000). Quindi il piano appare chiaramente conveniente per loro: se tutti pignorano lo stipendio, ognuno prenderebbe briciole e dopo anni; con il piano invece c’è un ordine e tutti prendono una parte proporzionata subito e con certezza.
  • L’OCC aiuta Mario a depositare in tribunale il ricorso per l’omologazione del piano del consumatore, chiedendo contestualmente la sospensione di tutte le azioni esecutive in corso. Il giudice, appena ricevuto il ricorso, emette decreto di cessazione dei pignoramenti sullo stipendio – bloccando la trattenuta del quinto in corso – in attesa della decisione finale. Questo già dà respiro immediato a Mario (ora può disporre di 300 in più al mese).
  • I creditori vengono informati del piano proposto: trattandosi di un piano del consumatore, non votano, ma possono inviare osservazioni o presentarsi all’udienza per opporsi. Alcune finanziarie inviano lettere di opposizione molto generiche, sostenendo che il 22% è poco e rivorrebbero più soldi. Le banche invece non fanno opposizione formale (hanno capito che il piano offre il massimo realisticamente ottenibile).
  • All’udienza in tribunale: Mario, col suo gestore OCC, spiega la situazione al giudice. Viene evidenziato come nessun creditore ha contestato la veridicità dei dati o portato elementi di malafede. Le finanziarie presenti insistono che vorrebbero di più, ma il giudice verifica che in una ipotetica liquidazione controllata quei crediti sarebbero probabilmente insinuati al passivo e soddisfatti a zero (perché Mario non ha beni). Nota anche che alcune finanziarie hanno continuato a prestare a Mario nonostante fosse già indebitato (cattiva valutazione del merito creditizio da parte loro), cosa evidenziata dall’OCC nella relazione.

Esito:

  • Omologazione del piano del consumatore: il giudice, ritenendo rispettate le condizioni di legge, omologa il piano. In particolare, dichiara che Mario è meritevole (si è indebitato per bisogni primari e non per colpa grave), che i creditori ricevono un’utilità maggiore rispetto all’alternativa (22% anziché nulla in caso di fallimento/liquidazione) e che il piano è fattibile (300€/mese sono sostenibili con quello stipendio, come attestato dall’OCC). Inoltre, nessun creditore viene ingiustamente pregiudicato perché tutti i chirografari sono trattati proporzionalmente con la stessa percentuale.
  • Esecuzione: Mario inizia a versare all’OCC €300 ogni mese. L’OCC funge da “gestore” e, ad intervalli regolari (ad esempio ogni 6 mesi), ripartisce le somme raccolte tra i creditori in proporzione ai crediti iniziali. I creditori ottengono piccoli acconti regolari senza dover inseguire Mario con azioni legali. Mario vive con uno stipendio decurtato di €300 (simile a prima, quando aveva il pignoramento del quinto), ma con la tranquillità che dopo 5 anni sarà libero da tutti i debiti. La famiglia riesce a mantenere l’appartamento in affitto e a coprire le spese essenziali grazie al bilancio familiare riorganizzato (il gestore ha lasciato loro abbastanza per vivere).
  • Durante l’esecuzione, uno dei creditori (una finanziaria) cede il suo credito a una società di recupero crediti aggressiva, che inizia a tempestare Mario di chiamate intimidatorie. Mario, consigliato dall’OCC, notifica che esiste un piano omologato e che qualsiasi azione fuori da esso violerebbe il provvedimento del tribunale e sarebbe inutile. La società di recupero allora desiste. In effetti, l’omologa del piano protegge Mario da ulteriori molestie creditorie.
  • Conclusione dopo 5 anni: Mario ha versato puntualmente tutti i €18.000 previsti (300 × 60). Il tribunale, su attestazione dell’OCC che il piano è stato eseguito, emette decreto che dichiara eseguito il piano e dispone l’esdebitazione di Mario. Ciò significa che tutti i debiti oggetto del piano – ovvero l’ammontare residuo (circa €62.000 non pagati) – sono definitivamente cancellati. I creditori hanno incassato quel ~22% complessivo e non possono più pretendere il resto. Mario rimane con zero debiti (a parte il mutuo casa che però era fuori dal piano e continua a pagare normalmente, ma quello è un debito “sano” coperto dall’immobile).

Commento: Questo caso evidenzia come un consumatore onesto e sovraindebitato possa sfruttare il piano del consumatore per rimettere in sesto la propria vita finanziaria. Notiamo alcuni punti: (a) Mario non ha dovuto convincere i creditori, è bastato convincere il giudice sulla sua meritevolezza e sulla convenienza del piano. (b) Ha potuto preservare i beni essenziali: non ha dovuto vendere l’auto (di modesto valore e necessaria) né rinunciare alla casa in affitto, perché il piano è stato calibrato sulle sue reali possibilità. (c) I creditori, pur non contenti di prendere solo il 22%, non sono stati danneggiati rispetto alla situazione alternativa (anzi, probabilmente con pignoramenti sporadici molti non avrebbero recuperato neanche quello). Questo è fondamentale: la legge vuole assicurarsi che nessuno sia ingiustamente penalizzato. (d) Mario e famiglia hanno avuto un periodo di “quarantena” di 5 anni con un budget stretto ma sostenibile, al termine del quale sono ripartiti puliti. Con l’esdebitazione in tasca, Mario potrà in futuro (con prudenza) anche accedere di nuovo a credito se necessario, senza lo stigma dei cattivi pagatori (il provvedimento di esdebitazione è titolo per cancellare le segnalazioni negative in Centrale Rischi etc., a certe condizioni).

Si può dire che per situazioni di sovraindebitamento familiare, il piano del consumatore è altamente risolutivo e preferibile ad altre soluzioni (ad esempio, se Mario avesse dovuto liquidare il patrimonio, non avendo casa propria i creditori non avrebbero comunque cavato molto, e Mario avrebbe dovuto attendere 4 anni per l’esdebitazione incapiente, sempre col rischio di non farcela). Col piano, invece, tutti hanno una parte e la famiglia Rossi è salva finanziariamente.

Caso 3: Azienda utilizza composizione negoziata e, fallita la trattativa, concordato semplificato

Scenario: La Beta Tech S.r.l. è una PMI tecnologica (fatturato €6 milioni, 25 dipendenti). Negli ultimi mesi ha iniziato ad accumulare forti ritardi nei pagamenti ai fornitori e alle banche: è in crisi incipiente ma non ancora insolvente in senso stretto (sta ancora operando, ma iniziano i decreti ingiuntivi e l’esposizione scaduta è alta). Il passivo scaduto è ~€1,5 milioni tra banche e fornitori. Beta Tech vorrebbe provare a salvarsi perché ha un portafoglio ordini promettente, però avrebbe bisogno di tempo (moratorie) e di riduzione del debito per tornare in equilibrio, magari con l’ingresso di investitori.

L’amministratore avverte che, se non ristruttura i debiti, entro pochi mesi sarà insolvente. Decide quindi di seguire il percorso delineato dal nuovo Codice: prima tentare una soluzione negoziata in continuità, e se non dovesse funzionare, avere un paracadute per una liquidazione ordinata evitando il fallimento.

Soluzione scelta: Composizione negoziata della crisi come primo passo, seguita – in caso di fallimento delle trattative – dal concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. In pratica, Beta Tech attiva la composizione negoziata per vedere se può trovare un accordo stragiudiziale con i creditori (magari ottenere una moratoria sui debiti e nuovi finanziamenti per completare gli ordini). Se le trattative non vanno a buon fine, userà la via di uscita predisposta dal Codice: il concordato semplificato, con cui chiudere la vicenda liquidando l’azienda in modo rapido ma sotto il controllo del tribunale, evitando l’iter fallimentare.

Azioni intraprese nella composizione negoziata:

  • Beta Tech presenta istanza sulla piattaforma online di composizione negoziata, caricando ultimi bilanci, situazione debitoria dettagliata e un abbozzo di piano di risanamento. Dichiara di trovarsi in “stato di crisi” (difficoltà finanziaria seria) ma di avere prospettive di recupero se i creditori concedono tempo e se entra liquidità fresca. La commissione nomina un esperto indipendente, il dott. Gamma (commercialista esperto in ristrutturazioni).
  • L’esperto Gamma studia l’azienda e concorda che c’è margine di risanamento: se i creditori concedono una moratoria di 6-12 mesi sui pagamenti e se entra finanza nuova (un socio o investitore disposto a mettere capitali), Beta Tech può evitare il fallimento e continuare. Convoca quindi i principali creditori: 2 banche (che detengono l’80% dell’esposizione finanziaria) e i 5 fornitori principali (che rappresentano un altro 15% circa). Propone di negoziare una moratoria di 6 mesi su tutti i pagamenti e uno stralcio parziale del debito contestuale a un piano di rientro pluriennale.
  • Si svolgono varie riunioni. Le banche sono titubanti: chiedono garanzie o un piano più robusto. L’esperto propone uno scenario: un investitore esterno (un fondo locale) potrebbe entrare nel capitale con €500.000 di equity fresco se i creditori accettano di tagliare del 30% i loro crediti e dilazionare il restante in 5 anni. I fornitori sono abbastanza aperti (preferiscono mantenere il cliente in vita piuttosto che vederlo fallire). Una banca, però, rifiuta categoricamente di rinunciare ad alcuna parte di credito: è già esposta e vuole azioni immediate (magari spingerebbe per incasso coattivo).
  • Dopo 3 mesi di negoziazioni intense, appare chiaro all’esperto che non si raggiungerà un accordo totale: una delle banche e alcuni fornitori minori restano contrari a qualunque concessione (preferiscono provare a pignorare o spingere l’azienda fuori mercato). L’esperto redige quindi una relazione finale attestando che la composizione negoziata non ha portato a un accordo, non per mancanza di impegno dell’imprenditore ma per l’intransigenza di alcuni creditori, e che comunque Beta Tech ha tentato in buona fede ogni strada.

A questo punto la trattativa viene dichiarata conclusa senza esito positivo.

Svolta verso concordato semplificato:

  • Appena chiusa formalmente la composizione negoziata con esito negativo (l’esperto invia la relazione finale al registro delle imprese e alle parti), l’amministratore di Beta Tech si attiva per usare la chance del concordato semplificato. Entro 60 giorni, deposita al tribunale una proposta di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio.
  • Il piano proposto è il seguente: vendere l’intera azienda Beta Tech ad un competitor (l’impresa Gamma S.p.A.) per €1,5 milioni, e distribuire il ricavato ai creditori chirografari, stimando di soddisfarli circa al 50% dei loro crediti. La scelta di vendere in blocco l’azienda deriva dal fatto che, durante la negoziazione, uno dei fornitori maggiori – interessato a continuare a lavorare con Beta o col suo acquirente – aveva contattato un competitor segnalando l’occasione: questo competitor (Gamma S.p.A.) si è detto disposto ad acquistare Beta Tech come acquisizione strategica. L’offerta vincolante di Gamma è di €1,5 milioni, a condizione di poterne assumere anche la maggior parte dei dipendenti. Beta Tech inserisce questo nel piano: cessione dell’intera azienda a Gamma per 1,5M, da cui ricavare un dividendodel ~50% ai creditori (dopo costi).
  • Nel concordato semplificato non c’è voto dei creditori, ma essi vengono convocati a un’udienza per discutere la proposta. Alcuni creditori che durante la comp. negoziata erano stati collaborativi (i fornitori principali) sostengono la proposta davanti al giudice, dicendo: “meglio prendere 50% subito da questa vendita, che attendere un fallimento con esito incerto”. Una delle banche, però, si oppone formalmente, sostenendo che l’azienda vale più di 1,5 milioni e che il piano li penalizza (questa è la banca che non voleva accordarsi prima).
  • Il tribunale esamina la proposta: c’è la relazione dettagliata dell’esperto della comp. negoziata che attesta la situazione di Beta Tech e documenta il tentativo fallito di risanamento; c’è un’offerta vincolante e concreta di acquisto dell’azienda per 1,5M. Il giudice valuta anche la convenienza per i creditori dissenzienti: considera che in un fallimento la vendita forse avrebbe fruttato meno, perché col fallimento si sarebbero persi clienti, know-how e il valore di avviamento (mentre qui Gamma S.p.A. è pronta a pagare un buon prezzo proprio per mantenere la continuità dei servizi ai clienti e i tecnici di Beta).
  • Tenuto conto che la maggioranza dei creditori (per valore) non è contraria e che la procedura negoziata è stata condotta regolarmente (l’esperto lo conferma nella relazione finale), il tribunale decide di omologare il concordato semplificato. Emana quindi la sentenza di omologa, che rende efficace il trasferimento dell’azienda a Gamma S.p.A. e fissa le percentuali di riparto ai creditori secondo il piano.

Esito:

  • L’azienda Beta Tech viene trasferita integralmente a Gamma S.p.A. per €1,5 milioni, come da contratto incluso nel piano. Gamma paga quella somma sul conto della procedura concordataria.
  • Il tribunale, nell’omologa, nomina un liquidatore (spesso scelto tra i gestori OCC o professionisti locali) per sovraintendere alla distribuzione del ricavato. Questo liquidatore stila il piano di riparto e procede a pagare i creditori: tutti ricevono circa il 50% del loro credito (qualche punto percentuale in più o in meno a seconda delle spese e delle eventuali priorità minori).
  • Beta Tech S.r.l., avendo ceduto tutti i suoi beni (l’azienda intera), di fatto cessa di esistere come operativa. Dopo il riparto e il completamento del concordato, verrà verosimilmente posta in liquidazione e cancellata.
  • I creditori, anche quelli inizialmente recalcitranti (la banca contraria, ad esempio), ricevono metà dei loro crediti in tempi brevi. Non è il 100%, ma è forse più di quanto avrebbero preso in un fallimento dopo anni, secondo la valutazione del giudice (che è il motivo per cui ha omologato nonostante l’opposizione).
  • Importante: I dipendenti di Beta Tech non perdono il lavoro: Gamma S.p.A., come da accordi e condizioni poste dall’acquirente, li assume quasi tutti come parte dell’operazione (questo non era obbligatorio per il concordato, ma era condizione posta dall’acquirente ed è stata ovviamente ben vista dal giudice come salvaguardia di una continuità “indiretta”).
  • L’imprenditore di Beta Tech perde la società, ma evita un fallimento personale. Non essendoci stati atti distrattivi o irregolarità segnalate, non dovrebbe subire azioni di responsabilità o bancarotta – tra l’altro la sentenza di omologa chiude la vicenda concorsuale in modo “pulito”. Potrà dunque dedicarsi ad altre attività in futuro senza il marchio di un fallimento (infatti Beta Tech non è fallita, ha risolto col concordato semplificato).

Commento: Questo caso mostra un’applicazione integrata di due strumenti: prima la composizione negoziata per provare a salvare l’impresa, poi – fallita la trattativa – il concordato semplificato per liquidare evitando il fallimento. Dal punto di vista del debitore (Beta Tech e il suo amministratore), la sequenza ha permesso di:

  • Guadagnare tempo ed esplorare soluzioni grazie alla comp. negoziata: durante quei 3 mesi, l’azienda ha ottenuto misure protettive (Beta Tech infatti aveva chiesto al tribunale, tramite l’esperto, di sospendere le esecuzioni e le ingiunzioni, e il giudice gliele aveva concesse per 3 mesi), riuscendo così a evitare il tracollo immediato. Inoltre, la presenza dell’esperto e il dialogo hanno fatto emergere un possibile acquirente e salvato temporaneamente l’azienda dal tracollo (le banche hanno atteso l’esito, vedendo che c’era un esperto nominato, e non hanno subito chiesto fallimento).
  • Catturare un’offerta di mercato: la comp. negoziata, sebbene non abbia generato un accordo con i creditori, ha prodotto un effetto positivo inatteso – la segnalazione di un acquirente interessato. Questo è un valore enorme: senza quella fase, forse Beta Tech sarebbe fallita e quell’acquirente avrebbe comprato i pezzi a sconto dopo anni; con la soluzione concordataria, l’acquirente ha pagato di più pur di mantenere continuità.
  • Concordato semplificato decisivo per finalizzare la soluzione: se Beta Tech avesse dovuto passare per un concordato preventivo ordinario con voto, probabilmente la banca ostile avrebbe impedito di raggiungere la maggioranza, o comunque i tempi sarebbero stati lunghi e l’offerta di Gamma S.p.A. magari sarebbe sfumata. Invece, con la procedura semplificata, il giudice ha potuto decidere di omologare valutando l’interesse generale dei creditori e la bontà dell’offerta. Fondamentale è stata la trasparenza: c’era un’offerta concreta e una stima comparativa convincente (l’esperto e il liquidatore hanno mostrato che 1,5M era un buon prezzo in confronto a un’ipotetica liquidazione fallimentare).
  • Dal lato dei creditori, in poco tempo hanno ottenuto il 50%, che spesso è meglio di lunghe attese fallimentari. La banca contraria stessa, incassato il 50% subito, probabilmente a posteriori riconoscerà che ha evitato rischi peggiori (il giudice lo ha in fondo fatto per il suo stesso interesse).
  • Dal lato dell’imprenditore, certo, ha perso l’azienda; ma ciò sarebbe successo comunque in fallimento. In più, ha evitato lo stigma del fallimento e responsabilità personali. Il concordato semplificato è concorsuale ma non porta, ad esempio, all’interdizione quinquennale che un fallimento avrebbe implicato, e i creditori soddisfatti al 50% difficilmente lo perseguiteranno o agiranno per il resto perché il debito è stralciato dalla procedura. Ha anche potuto negoziare condizioni, come salvaguardare i dipendenti tramite l’accordo con Gamma S.p.A., cosa che in un fallimento sarebbe stata fuori dal suo controllo.

Questo scenario evidenzia l’utilità del collegamento tra composizione negoziata e concordato semplificato: la legge ha previsto questo percorso proprio per dare un’uscita ordinata se la negoziazione fallisce. In pratica, Beta Tech ha sfruttato un approccio graduale: prima negoziare (per salvare se possibile), se no liquidare (ma col semplificato invece che col fallimento). Il risultato è stato ottimizzato: l’attività produttiva di Beta Tech è proseguita all’interno di Gamma Industry (salvando valore e posti di lavoro), i creditori hanno avuto subito una discreta soddisfazione, l’imprenditore ha chiuso la vicenda senza infamia – il tutto con minima dispersione di valore, grazie a strumenti concorsuali moderni pensati per questo.

Fonti normative e giurisprudenziali

Di seguito si riportano le principali fonti normative e pronunce giurisprudenziali citate o richiamate nella guida, ordinate per tipologia:

Normativa (Italia):

  • D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), emanato in attuazione della L. 155/2017, entrato in vigore il 15 luglio 2022 dopo vari rinvii, come successivamente modificato dai decreti correttivi (D.lgs. 147/2020, D.lgs. 83/2022, D.lgs. 169/2022) e integrative (da ultimo D.lgs. 13 ottobre 2022 n. 173 e D.lgs. 13 settembre 2024 n. 136). Il CCII disciplina in modo organico: strumenti di allerta e composizione negoziata, procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, liquidazione giudiziale, insolvenza dei gruppi), nonché le procedure da sovraindebitamento (artt. 65-83, 268-283 CCII).
  • Legge 27 gennaio 2012, n. 3 – “Legge sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento”, oggi abrogata (dal 15/7/2022) e sostituita integralmente dal CCII. Rilevante per i principi introdotti: composizione della crisi di consumatori e piccole imprese, piano del consumatore, accordo con i creditori, liquidazione del patrimonio. Alcune pronunce citate si riferiscono a questa legge (applicate fino all’entrata in vigore del Codice).
  • D.L. 24 agosto 2021, n. 118, conv. in L. 147/2021 – Decreto che ha introdotto anticipatamente la Composizione negoziata della crisi (poi confluita nel Codice come artt. 12-25 CCII) e, in via transitoria, il Concordato semplificato (art. 2 DL 118/21, confluito in art. 25-sexies CCII). Questo provvedimento ha anticipato alcuni strumenti del Codice in risposta alla crisi pandemica.
  • Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio (20 giugno 2019) – Direttiva sui quadri di ristrutturazione preventiva, insolvenza e esdebitazione. Recepite in Italia con D.lgs. 83/2022 e D.lgs. 83/2022. Ha ispirato molte novità del Codice: il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) con cram-down interclassi, le misure protettive uniformi, la riduzione dei tempi di esdebitazione (3 anni).
  • Codice Civile (artt. 2086, 2446-2447 c.c.) – L’art. 2086, comma 2 c.c., introdotto dal D.lgs. 14/2019, impone all’imprenditore collettivo il dovere di adottare assetti adeguati a rilevare tempestivamente la crisi e attivarsi (c.d. obbligo di allerta interna). Gli artt. 2446-2447 c.c. (S.p.A.) e 2482-bis/ter c.c. (S.r.l.) sulla riduzione del capitale per perdite rilevano perché in crisi spesso il capitale va sotto il minimo legale e la società deve operare in deroga se c’è piano di risanamento in corso.
  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) – In particolare:
    • art. 88, comma 4-ter TUIR: prevede la esenzione fiscale per le sopravvenienze attive derivanti da riduzione di debiti ottenuta in esecuzione di piani attestati pubblicati, accordi di ristrutturazione omologati e concordati preventivi omologati (c.d. “bonus esdebitazione”). Norme analoghe esistevano per L.3/2012.
    • art. 101, comma 5 TUIR: riguarda la deducibilità fiscale delle perdite su crediti per i creditori, stabilendo che i crediti rimasti insoddisfatti in procedure concorsuali sono deducibili (norma rilevante per i creditori che aderiscono a piani/accordi: il Fisco così non li tassa su crediti stralciati).
    • art. 86, comma 5 TUIR: stabilisce che le cessioni di beni ai creditori nell’ambito di concordati preventivi o accordi ex 182-bis non generano plusvalenze tassabili (norma per evitare tassazione di realizzi concorsuali).
  • Art. 25-bis CCII (“Misure premiali”) – Previsto dal D.lgs. 83/2022, offre incentivi fiscali al debitore che ricorre tempestivamente alla composizione negoziata: ad esempio, riduzione di interessi e sanzioni e possibilità di ottenere dilazioni straordinarie per i debiti tributari se rispetta certi termini e condizioni.
  • Art. 25-novies CCII (“Segnalazioni dei creditori pubblici qualificati”) – Introdotto dal D.lgs. 83/2022, obbliga Agenzia Entrate, INPS, Agenzia Riscossione, etc., a segnalare al debitore e all’organo di controllo il superamento di soglie di esposizioni debitorie e a “invitarlo” a prendere provvedimenti. Ad esempio, l’INAIL con circ. n.28/2023 ha attuato tale articolo. Questo per favorire l’emersione tempestiva della crisi (allerta esterna).
  • Art. 2, comma 1, lett. d) CCII – Nozione di “imprenditore minore” (c.d. soglie di fallibilità) – definisce i parametri per distinguere imprenditori assoggettabili o meno a liquidazione giudiziale. Le soglie attuali: attivo annuo ≤ €300.000 negli ultimi 3 esercizi, ricavi ≤ €200.000, debiti ≤ €500.000 (possono variare per correttivi futuri).
  • Art. 25-sexies CCII – introdotto dal D.L.118/21, disciplina il Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: presupposti (esito negativo composizione negoziata), modalità (no voto creditori), competenza ecc..

Giurisprudenza (Corte Costituzionale):

  • C. Cost. 10 marzo 2022, n. 65 – Ha dichiarato infondata la questione di illegittimità sull’art. 7 L.3/2012 (piano consumatore) che vietava di falcidiare l’IVA, ritenendo la normativa conforme alla direttiva UE e sottolineando che il giudice può autorizzare il pagamento parziale IVA purché siano rispettate determinate condizioni.
  • C. Cost. 13 dicembre 2019, n. 245 – Ha dichiarato incostituzionale, nella L.3/2012, il divieto assoluto di includere l’IVA tra i crediti falcidiabili nei piani del consumatore, aprendo la strada alla transazione fiscale nel sovraindebitamento.
  • C. Cost. 22 ottobre 2020, n. 195 – Ha dichiarato illegittime alcune preclusioni che nella L.3/2012 impedivano al consumatore non meritevole di ripresentare domanda entro certi termini, affermando un principio di maggiore accessibilità al fresh start. Il legislatore poi nel CCII richiede un intervallo di 5 anni ma con margini discrezionali (il giudice valuta la meritevolezza caso per caso).
  • C. Cost. 24 gennaio 2018, n. 18 – In tema di fallimento, ha dichiarato incostituzionale l’automatica incapacità quinquennale del fallito a partecipare a procedure di appalto pubblico, rimuovendo uno stigma eccessivo e anticipando la tendenza a ridurre le pene accessorie.
  • C. Cost. 5 dicembre 2019, n. 284 – Riguardo all’esdebitazione post-fallimentare, ha evidenziato la necessità di favorire il debitore meritevole e ha sollecitato il legislatore a semplificare l’accesso al beneficio. Ciò è stato attuato nel CCII riducendo il periodo a 3 anni e rendendo l’esdebitazione automatica (salvo eccezioni).

Giurisprudenza (Corte di Cassazione):

  • Cass., Sez. Un., 12 aprile 2023, n. 9730 – Principio di diritto: il concordato semplificato ex art. 25-sexies CCII (derivato da DL 118/2021), pur avendo peculiarità (assenza voto creditori), rientra tra le procedure concorsuali e soggiace alle regole generali, incluse quelle sulla competenza territoriale (centro principali interessi, irrilevanza trasferimento sede nell’anno precedente).
  • Cass., Sez. I, 3 marzo 2023, n. 6508 – In caso di successivo fallimento dichiarato per inammissibilità di un concordato preventivo, la sospensione del decorso degli interessi (ex art. 55 l.fall., ora art. 153 CCII) retroagisce alla data di presentazione della domanda di concordato, non alla sentenza di fallimento. Ciò tutela i creditori chirografari dall’aggravio di interessi per il tempo passato in concordato poi fallito.
  • Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2020, n. 34447 – Sulla fattibilità del concordato preventivo: ha stabilito che il giudice deve valutare d’ufficio la fattibilità giuridica del piano e la non manifesta inidoneità sul piano economico, ma non può sindacare nel merito le scelte imprenditoriali (fattibilità economica). Principio recepito ora nell’art. 47 CCII.
  • Cass., Sez. Un., 13 maggio 2021, n. 8500 – Ha risolto un contrasto sul concordato in continuità, affermando che il giudice può omologare anche in caso di classe dissenziente se i creditori dissenzienti ottengono un’utilità specifica e la proposta è comunque più vantaggiosa del fallimento. Questo anticipa in parte le logiche di cram-down interclassi poi formalizzate.
  • Cass., Sez. I, 10 marzo 2022, n. 8236 – In tema di transazione fiscale nel concordato: ha sancito che il tribunale può omologare un concordato preventivo anche senza adesione del Fisco alla transazione fiscale, applicando l’art. 180, co.4 l.fall. (ora art. 48 CCII) se ritiene la proposta fiscale conveniente (in pratica un cram-down fiscale ante litteram).
  • Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2018, n. 23225 – Sovraindebitamento: ha stabilito che i professionisti (es. avvocati, medici) possono accedere al sovraindebitamento come “imprenditori non fallibili”, superando dubbi interpretativi sulla loro esclusione. Principio poi esplicitato nell’art. 65 c.2 CCII e confermato da Cass. SU 19597/2021.
  • Cass., Sez. Un., 31 marzo 2022, n. 8508 – Ha chiarito che il socio illimitatamente responsabile di una società può essere dichiarato fallito unitamente alla società in concordato preventivo poi risolto, affermando la continuità tra procedure e l’estensione del fallimento al socio in casi di insolvenza persistente (rilevante per i gruppi e le società di persone).
  • Cass., Sez. I, 11 maggio 2022, n. 14808 – Ha legittimato la procedura familiare di sovraindebitamento: riguardo alla L.3/2012, ha confermato la possibilità di un unico piano per coniugi con debiti comuni, valutando unitariamente meritevolezza e convenienza (anticipando l’art. 66 CCII che formalizza la procedura di composizione negoziata familiare).
  • Cass., Sez. I, 23 luglio 2021, n. 21525Meritevolezza nel piano del consumatore: ha cassato un diniego di omologa affermando che indebitarsi per far fronte a bisogni primari o per pagare altri debiti (rifinanziamenti) non costituisce di per sé colpa grave. Ha invitato i giudici di merito a valutare la meritevolezza con criteri oggettivi e a considerare anche la responsabilità del finanziatore nel concedere credito (merito creditizio), gettando le basi per un approccio più favorevole al debitore.
  • Cass., Sez. I, 13 ottobre 2021, n. 27928 – Ha ritenuto ammissibile, nel concordato minore (ex accordo L.3/2012), la falcidia dei creditori privilegiati con il loro consenso scritto, anche se formalmente dissenzienti nel voto, purché il piano ne preveda soddisfacimento non inferiore alla liquidazione (coerente col disposto attuale art. 75 CCII).
  • Cass., Sez. I, 27 gennaio 2021, n. 1785 – Ha affermato che la presenza di atti in frode ai creditori (es. trasferimenti patrimoniali ingiustificati prima del ricorso) è causa ostativa all’omologa sia del piano del consumatore che dell’accordo (ora art. 69 CCII), potendo il giudice desumere la malafede del debitore e quindi negare l’omologazione.

Giurisprudenza (Tribunali di merito):

Tribunale di Oristano, decr. 19 maggio 2023 (segnalato in dottrina) – Piano del consumatore: ha giudicato non inescusabile la condotta del debitore che aveva fatto affidamento sul credito facile offerto dalle finanziarie, ritenendo che la “colpa” del sovraindebitamento vada in parte imputata alla concessione irresponsabile di credito. Ha dunque omologato il piano nonostante le opposizioni delle finanziarie, aderendo a una nozione di meritevolezza non punitiva verso il consumatore sovraindebitato. Conferma l’orientamento di Cass. 21525/21 sulla valutazione benevola del debitore che si è indebitato per necessità e sulla corresponsabilità di chi ha concesso prestiti avventati.

Tribunale di Milano, ord. 17 gennaio 2022Composizione negoziata: ha concesso misure protettive anche in assenza di procedure esecutive pendenti, riconoscendo la funzione preventiva dello strumento e la necessità di protezione immediata (concorda con l’idea che lo stay può servire a evitare che i creditori precipitino la crisi appena saputo dell’istanza). Ha inoltre chiarito la competenza del tribunale di Milano per gruppi d’imprese in composizione negoziata (questioni organizzative).

Tribunale di Bergamo, decr. 21 settembre 2022Accordi di ristrutturazione agevolati: ha rigettato l’omologa di un accordo “agevolato” (30% di adesioni) perché il debitore non assicurava il pagamento integrale e pronto dei creditori estranei, ma prevedeva per loro una dilazione, violando l’art. 60 CCII. Conferma che negli accordi con soglia ridotta al 30% i creditori non aderenti devono essere soddisfatti integralmente nei termini di legge (120 giorni).

Tribunale di Bari, decr. 8 novembre 2022 – Primo caso di omologazione di concordato minore col nuovo Codice: ha omologato un concordato minore con moratoria di 6 mesi sui creditori privilegiati, ritenendola ammissibile in analogia al concordato preventivo in continuità. Ciò indica che anche nel concordato minore i privilegiati possono non essere pagati subito al 100% se c’è una giustificazione funzionale e approvano il piano.

Tribunale di Roma, decr. 30 marzo 2023Concordato semplificato: ha omologato un concordato semplificato ex art. 25-sexies CCII nonostante l’opposizione di alcuni creditori, rilevando che la proposta liquidatoria assicurava loro una percentuale (~40%) verosimilmente superiore a quella ricavabile dal fallimento – applicando i principi dell’art. 25-sexies sulla convenienza e confermando la competenza del medesimo tribunale che aveva seguito la comp. negoziata (il foro rimane lo stesso).

Tribunale di Torino, decr. 22 marzo 2021Esdebitazione incapiente: uno dei primi provvedimenti ex art. 14-quaterdecies L.3/2012 (ora art.283 CCII) ha concesso l’esdebitazione “a zero” a un debitore ultrasessantenne senza redditi né beni, ritenuto meritevole, imponendo il monitoraggio quadriennale di eventuali sopravvenienze (prima applicazione pratica dell’istituto).

Tribunale di Udine, decr. 15 aprile 2021 – Altro provvedimento di esdebitazione del debitore incapiente: ha sottolineato come la novella consenta una “esdebitazione umanitaria” e ha ammonito il debitore che eventuali miglioramenti economici entro 4 anni dovranno essere comunicati per evitare la revoca del beneficio.

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