Cos’è L’Autofinanziamento Aziendale E I Vari Tipi In Caso Di Problemi Finanziari

Hai un’impresa in difficoltà e ti stai chiedendo come reperire liquidità senza ricorrere subito a prestiti o nuovi finanziamenti bancari? Vuoi sapere cos’è l’autofinanziamento aziendale, quando può salvarti e quali sono le sue forme più efficaci in caso di crisi?

L’autofinanziamento aziendale è la prima risorsa interna per resistere a una crisi di liquidità. È spesso sottovalutato, ma può fare la differenza tra sopravvivere o dover chiudere. Sapere come sfruttarlo ti permette di guadagnare tempo, evitare debiti inutili e recuperare equilibrio finanziario.

Cos’è l’autofinanziamento aziendale?
È la capacità dell’impresa di generare risorse finanziarie al proprio interno, senza dover ricorrere a capitale esterno. Significa, in pratica, sostenere le proprie attività con ciò che si produce, risparmia o recupera, anche in momenti di forte tensione economica.

Quando serve l’autofinanziamento?
– Quando le banche non concedono credito o lo fanno a condizioni troppo pesanti
– Quando vuoi ridurre l’indebitamento complessivo dell’azienda
– Quando sei in crisi ma ancora operativo e vuoi evitare procedure concorsuali
– Quando cerchi di ricostruire una base solida per il rilancio

Quali sono le principali forme di autofinanziamento aziendale in caso di crisi?

1. Utili non distribuiti
Se l’impresa ha generato utili in passato, puoi decidere di non distribuirli ai soci e reinvestirli per sostenere i costi operativi. È la forma più classica e diretta di autofinanziamento.

2. Risparmio di costi
Ridurre spese fisse e variabili, rinegoziare forniture, tagliare ciò che non è essenziale: ogni euro risparmiato è autofinanziamento, e aiuta a respirare nel breve periodo.

3. Recupero crediti
Accelerare l’incasso dei crediti commerciali, vendere o cedere posizioni a rischio: il recupero tempestivo del fatturato bloccato genera liquidità reale, che spesso basta per pagare fornitori e dipendenti.

4. Disinvestimenti mirati
Vendere cespiti, rami d’azienda non strategici, immobili inutilizzati: trasformare attivi fermi in cassa liquida è una forma potente di autofinanziamento, se fatta con criterio.

5. Gestione efficiente del magazzino
Ridurre le scorte inutilizzate, ottimizzare le giacenze: significa ridurre capitale immobilizzato e liberare risorse da destinare ad attività produttive.

6. Ricapitalizzazione interna
I soci possono decidere di rinunciare temporaneamente ai rimborsi o agli utili, oppure versare nuove somme a titolo di finanziamento soci per sostenere la continuità aziendale.

7. Compensazione fiscale e previdenziale
Utilizzare crediti fiscali maturati per compensare debiti verso l’Erario o l’INPS consente di liberare liquidità senza esborsi, utile soprattutto nelle fasi critiche.

Quali sono i vantaggi dell’autofinanziamento in crisi?
Non genera debiti verso terzi
Rende l’impresa più solida agli occhi dei creditori e delle banche
– Permette maggiore autonomia e velocità nelle decisioni
– Spesso è l’unica via praticabile nei primi mesi di difficoltà

Cosa NON devi fare mai in fase di autofinanziamento?
– Confondere il taglio dei costi con il blocco totale delle spese: devi mantenere l’operatività
– Fare disinvestimenti affrettati e svendere beni strategici
– Intaccare liquidità già destinata a imposte, stipendi o contributi
– Pensare che l’autofinanziamento basti sempre da solo: è una base, non la soluzione definitiva

L’autofinanziamento è il primo passo per rimettere in piedi l’azienda. Ma deve essere gestito con metodo e visione.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa e risanamento aziendale – ti spiega cos’è l’autofinanziamento, quali sono le forme più utili in caso di problemi finanziari e come utilizzarle per evitare indebitamenti ulteriori e preparare un piano di rilancio.

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Introduzione

Quando un’azienda italiana si trova in difficoltà finanziaria, uno degli obiettivi primari dal punto di vista del debitore è mantenere viva l’impresa trovando risorse dall’interno o mediante accordi con i creditori. In altre parole, evitare di ricorrere esclusivamente a nuovi prestiti esterni e invece fare leva su meccanismi di autofinanziamento aziendale e strumenti di ristrutturazione. L’autofinanziamento consiste nel finanziare l’impresa con mezzi propri o soluzioni negoziali che diluiscono gli esborsi, senza dipendere unicamente da nuovo credito bancario. Ciò può rivelarsi decisivo per guadagnare tempo e riorganizzare i conti quando la liquidità scarseggia. Un uso efficace dell’autofinanziamento, unito ai nuovi strumenti legali introdotti dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022), può consentire all’imprenditore di evitare il fallimento e gestire la crisi in modo controllato e negoziale.

Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – fornisce un’analisi avanzata dei vari tipi di autofinanziamento aziendale attivabili in caso di problemi finanziari, concentrandosi sul contesto normativo italiano e sul punto di vista del debitore. Esamineremo dapprima il concetto di autofinanziamento e le sue forme (dirette e indirette); quindi approfondiremo gli strumenti giuridici oggi disponibili per fronteggiare la crisi di impresa (dalla moratoria dei debiti ai piani attestati di risanamento, dagli accordi di ristrutturazione al concordato preventivo, fino alle procedure introdotte dal nuovo Codice della crisi come la composizione negoziata e il piano di ristrutturazione omologato). Verranno riportati riferimenti normativi (Codice Civile, D.Lgs. 14/2019 e successive modifiche, D.L. 118/2021 convertito L. 147/2021, D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 136/2024, ecc.), pronunce giurisprudenziali recenti e casi pratici di applicazione. Troverete inoltre tabelle riepilogative delle caratteristiche di ciascun strumento, domande e risposte chiarificatrici e simulazioni pratiche tratte da contesti reali (PMI italiane alle prese con la crisi), per comprendere come un debitore possa operare concretamente. Al termine, una sezione di fonti normative e bibliografiche vi permetterà di approfondire ulteriormente gli argomenti trattati.

Il contesto attuale vede un significativo rafforzamento degli strumenti di allerta precoce e di risanamento. Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) ha sostituito la vecchia legge fallimentare del 1942, segnando il passaggio a un approccio in cui la crisi viene affrontata per tempo e, ove possibile, risolta preservando la continuità aziendale. La riforma, allineata alle direttive europee in materia (direttiva UE 2019/1023), ha ampliato il ventaglio di opzioni a disposizione del debitore in crisi: accanto agli strumenti tradizionali (piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo), sono state introdotte soluzioni innovative come la convenzione di moratoria (art. 62 CCII), gli accordi di ristrutturazione “agevolati” e “ad efficacia estesa” (artt. 61 e 63 CCII) e il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) ex art. 64-bis CCII. Inoltre, con i decreti correttivi più recenti (da ultimo il D.Lgs. 136/2024), si è rafforzata la composizione negoziata rendendola più accessibile e si è introdotto il cosiddetto “cram-down” fiscale: oggi un tribunale può omologare un accordo di ristrutturazione o un concordato preventivo anche senza il voto favorevole del Fisco, se la proposta al creditore pubblico è equa (non inferiore a quanto otterrebbe in liquidazione) e la maggioranza degli altri creditori è favorevole. Questo importante correttivo consente al debitore di superare il tradizionale potere di veto dell’Erario, purché siano rispettate le condizioni di legge a tutela del creditore dissenziente.

In sintesi, l’ordinamento italiano nel 2025 offre all’imprenditore in difficoltà un’ampia gamma di strumenti per finanziarsi dall’interno e ristrutturare il debito, combinando misure di autofinanziamento (dirette e indirette) con procedure negoziali innovative. Nei capitoli che seguono vedremo cos’è l’autofinanziamento aziendale, quali sono le sue forme “proprie” e “improprie”, e come integrarlo con i vari istituti giuridici (piani di risanamento, accordi, moratorie, concordati, ecc.) per gestire una crisi. L’obiettivo è fornire una guida esaustiva – rivolta ad avvocati, consulenti, imprenditori e privati – su come il debitore possa sfruttare le leve interne e le tutele normative vigenti per superare le difficoltà finanziarie, salvaguardando la continuità aziendale ove possibile.

Cos’è l’autofinanziamento aziendale?

In ambito aziendale, per autofinanziamento si intende la capacità dell’impresa di generare internamente le risorse finanziarie necessarie al proprio fabbisogno, senza fare ricorso a nuovi capitali di terzi. È una forma di finanziamento interno basato sugli utili trattenuti e sulle poste di bilancio non monetarie (come gli ammortamenti e gli accantonamenti) che incrementano la liquidità aziendale. In termini semplici, un’azienda si autofinanzia quando riesce a sostenere i propri investimenti e oneri attingendo ai flussi di cassa operativi e alle riserve accumulate, invece di richiedere prestiti bancari o emissioni obbligazionarie.

Si distinguono comunemente due forme di autofinanziamento:

  • Autofinanziamento “proprio” (o diretto): è dato dagli utili netti prodotti dalla gestione che non vengono distribuiti ai soci ma reinvestiti nell’azienda. L’esempio tipico è l’utile accantonato a riserva: la scelta di non distribuire dividendi e di mantenere l’utile in azienda aumenta il patrimonio netto e la liquidità disponibile per futuri impieghi. Rientrano nell’autofinanziamento proprio anche le componenti non monetarie del reddito d’esercizio, come gli ammortamenti dei cespiti: pur essendo costi contabilizzati che riducono l’utile, non corrispondono a uscite di cassa, quindi “liberano” liquidità (in altre parole, l’EBITDA e gli accantonamenti a fondi rischi rappresentano risorse finanziarie interne). L’autofinanziamento proprio aumenta tipicamente anno dopo anno, poiché ogni esercizio in utile che si chiude con accantonamenti alimenta le riserve disponibili. Queste risorse possono essere usate dall’impresa per autofinanziare nuovi investimenti, coprire perdite future o ridurre l’indebitamento senza attingere a finanziamenti esterni.
  • Autofinanziamento “improprio” (o indiretto): con questo termine ci si riferisce a forme indirette di reperimento di liquidità ottenute non attraverso nuovi apporti di capitale o utili non distribuiti, ma tramite operazioni che riducono o differiscono il fabbisogno finanziario. Ne sono esempi la dilazione dei debiti (ottenere più tempo per pagare fornitori, banche o Fisco) e la riduzione del circolante netto (ad es. negoziando condizioni migliori con clienti e fornitori, accelerando l’incasso dei crediti e ritardando il pagamento dei debiti di fornitura). In pratica, l’azienda si finanzia “a costo zero” sfruttando la leva temporale: posticipare i pagamenti dovuti equivale a ottenere un finanziamento dai propri creditori, senza che entrino effettivamente nuovi fondi in azienda. Anche la vendita di cespiti non essenziali rientra in questa categoria: alienare un immobile o un macchinario inutilizzato genera liquidità straordinaria da impiegare nella gestione corrente, evitando di dover chiedere un prestito. L’autofinanziamento improprio, dunque, consiste nel reperire risorse attraverso l’ottimizzazione della gestione finanziaria e negoziale, più che tramite i profitti accumulati.

Va precisato che in fase di crisi d’impresa l’autofinanziamento assume un ruolo vitale ma anche dei limiti. In situazioni di difficoltà, spesso l’azienda non genera utili – anzi può registrare perdite – quindi l’autofinanziamento “proprio” è scarso o nullo. Diventa allora cruciale l’autofinanziamento “improprio”, ossia il reperimento di liquidità tramite misure straordinarie o accordi con i creditori. Ad esempio, un’azienda in crisi può ridurre drasticamente i costi operativi (taglio di spese non essenziali, sospensione di investimenti, rinegoziazione di contratti), liberando risorse per pagare i debiti prioritari. Può inoltre attuare una gestione attiva del capitale circolante: accelerare la conversione in cassa delle scorte e dei crediti, e al contempo ottenere dilazioni di pagamento dai fornitori. Queste azioni migliorano temporaneamente la cassa dell’impresa (cash flow), fungendo da “autofinanziamento di emergenza”. In aggiunta, l’imprenditore può valutare apporti dai soci: immissioni di denaro da parte dei proprietari, sotto forma di versamenti a capitale o finanziamenti soci. Sebbene tecnicamente i nuovi conferimenti di soci siano fonti esterne, rientrano nella sfera proprietaria e in una logica di patrimonializzazione interna. Spesso i soci sono disposti a intervenire finanziariamente in una crisi se confidano nel risanamento, anche perché la legge italiana prevede meccanismi di postergazione dei finanziamenti soci in certe condizioni (art. 2467 c.c. per le S.r.l., art. 2497-quinquies c.c. per le S.p.A. del gruppo), che li subordinano ai crediti di terzi: per questo può essere preferibile un apporto a capitale. In ogni caso, l’apporto dei soci denota autofinanziamento volontario da parte della proprietà.

Esempio pratico: Alfa S.r.l., PMI manifatturiera, registra una crisi di liquidità nel 2025: il fatturato è calato e fatica a pagare fornitori e banche. Non potendo contare su nuovi prestiti immediati, Alfa adotta misure di autofinanziamento: (a) sospende per 12 mesi un piano di investimenti non urgente, liberando €200.000 che avrebbe speso in nuovi macchinari; (b) riduce il personale con un accordo di cassa integrazione straordinaria, risparmiando €50.000 al mese di costi; (c) cede un magazzino inutilizzato incassando €300.000; (d) negozia con i principali fornitori una dilazione: invece di pagare a 60 giorni, ottiene 120 giorni su €500.000 di forniture (ciò equivale a €500.000 di liquidità differita); (e) chiede ai soci un versamento in conto capitale di €100.000. Queste azioni combinate forniscono ad Alfa circa €1 milione di risorse tra nuove entrate e mancati esborsi, permettendo di affrontare i debiti più urgenti e stabilizzare la cassa nel breve termine, senza ricorrere a nuovo debito bancario. Naturalmente, tali misure da sole potrebbero non risolvere la crisi strutturale, ma danno all’impresa il “tempo di respiro” necessario per predisporre un piano di risanamento più ampio.

In sintesi, autofinanziarsi significa fare fronte alle esigenze finanziarie con le proprie forze. In condizioni normali implica reinvestire gli utili e gestire oculatamente i flussi di cassa; in condizioni di crisi implica attuare strategie straordinarie di conservazione della liquidità e accordi con i creditori. Vediamo ora quali strumenti offre la legge italiana per realizzare queste forme di autofinanziamento indiretto in modo strutturato e legalmente tutelato, soprattutto quando l’impresa è già in uno stato di squilibrio finanziario.

Moratorie e dilazioni: autofinanziamento indiretto attraverso il tempo

Una delle prime leve che un debitore in difficoltà può azionare è guadagnare tempo sui pagamenti dovuti. Ottenere una moratoria o una dilazione dai creditori significa, di fatto, finanziarsi indirettamente: il sollievo temporaneo dai pagamenti consente di utilizzare le (poche) risorse disponibili per la continuità aziendale e magari per rimettere in sesto la gestione, sfruttando i creditori stessi come “finanziatori involontari” per un certo periodo. La legge italiana, specialmente col nuovo Codice della crisi, riconosce e disciplina queste situazioni mediante istituti ad hoc.

Dilazione dei pagamenti e accordi di rinvio

Per dilazione si intende un accordo individuale col singolo creditore per posticipare le scadenze di pagamento o rateizzare un debito. È uno strumento informale, basato sulla trattativa privata: ad esempio, un’azienda può chiedere a un fornitore di essere pagato in 120 giorni anziché 60, oppure chiedere alla banca di prorogare di alcuni mesi le rate di mutuo in scadenza. Molte volte i creditori, se hanno interesse a non perdere il cliente o a massimizzare il recupero, concedono piani di rientro dilazionati. Dal punto di vista del debitore, ottenere dilazioni equivale a ridurre l’uscita di cassa immediata, migliorando il circolante. Attenzione però: una dilazione consensuale non tocca formalmente gli interessi o i diritti dei creditori dissenzienti – vale solo con chi la concede. Inoltre, spesso è accompagnata da costi aggiuntivi (ad es. interessi di mora, commissioni) e non sospende eventuali azioni esecutive se non concordato esplicitamente.

Un caso particolare di dilazione è la rateizzazione dei debiti fiscali e contributivi prevista dalle norme tributarie: il debitore, se in temporanea difficoltà, può chiedere all’Agenzia delle Entrate-Riscossione un piano di rate fino a 6 anni (72 rate mensili) o, per importi rilevanti, fino a 10 anni (120 rate) in presenza dei requisiti di legge. Ciò rappresenta una forma di autofinanziamento indiretto “legale”, poiché l’Erario consente di pagare gradualmente le somme dovute. Anche gli enti previdenziali (es. INPS) prevedono piani di dilazione contributiva. Queste rateizzazioni sono unilaterali (devono essere approvate dall’ente pubblico) ma, una volta concesse, impegnano il creditore pubblico a non avviare azioni esecutive purché il debitore rispetti le rate.

Dal punto di vista del debitore, accordarsi per dilazioni ha il grande vantaggio di comprare tempo e spesso evitare default immediati. Tuttavia occorre valutare l’impatto sulla propria affidabilità creditizia: le banche e gli intermediari finanziari segnalano in Centrale Rischi le esposizioni “ristrutturate” o oggetto di moratoria. Ad esempio, se una banca concede una modifica alle condizioni di un prestito (allungamento dei termini, sospensione temporanea delle rate), classificherà probabilmente quell’esposizione come forborne (oggetto di tolleranza) secondo le regole di vigilanza prudenziale. Ciò può ridurre temporaneamente l’accesso a nuovo credito perché l’azienda viene etichettata come in difficoltà. Proprio per mitigare questo effetto stigma, il Codice della crisi ha previsto garanzie: l’avvio di una composizione negoziata della crisi non è di per sé causa di revoca o sospensione degli affidamenti bancari né di declassamento automatico a “sofferenza”. In altre parole, le banche non possono ridurre unilateralmente i fidi solo perché l’azienda ha attivato un percorso di risanamento assistito; devono valutare il merito creditizio sulla base del piano presentato. Questa disposizione (art. 16 CCII) tutela il debitore durante le trattative, evitando che la semplice notizia della crisi provochi il collasso per ritiro degli affidamenti.

Moratorie convenzionali tra privati

Con moratoria in senso lato si intende un accordo con cui uno o più creditori concedono una sospensione o proroga collettiva dei pagamenti dovuti. Diversamente dalla semplice dilazione bilaterale, la moratoria spesso coinvolge un pool di creditori e mira a creare una “tregua” generale, il cosiddetto standstill (pattuito come pactum de non petendo). In Italia, prima ancora delle norme del Codice, si sono diffuse prassi di moratorie bancarie: ad esempio, durante la crisi del 2008-2009 e poi in occasione della pandemia Covid-19, grazie anche a protocolli dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), molte banche hanno offerto alle PMI la possibilità di sospendere per 6-12 mesi il pagamento delle quote capitale dei mutui. Tali moratorie “di sistema” avevano natura volontaria ma supportata da indirizzi governativi. Durante il Covid, addirittura, moratorie su mutui e leasing sono state introdotte per legge (ad es. D.L. 18/2020 “Cura Italia”), bloccando fino a 18 mesi le rate per le imprese colpite dall’emergenza.

Al di fuori di interventi normativi straordinari, una moratoria può essere pattuita privatamente con i principali creditori. Tipicamente, un’impresa in crisi convoca le sue banche finanziatrici e propone un accordo: tutte le scadenze di capitale vengono sospese (ad es. per 6 mesi o 1 anno), gli affidamenti in conto corrente non vengono revocati, e i creditori si impegnano a non intraprendere azioni esecutive nel frattempo. In cambio, l’imprenditore fornisce informazioni sulla situazione e si impegna a elaborare un piano di ristrutturazione credibile entro la fine della moratoria. Tali accordi di moratoria “in attesa di piano” sono molto comuni nella prassi perché convenienti per entrambe le parti: il debitore ottiene respiro e evita il tracollo immediato, i creditori (soprattutto le banche) evitano di precipitare l’azienda nel fallimento e sperano che in qualche mese si costruisca una soluzione che permetta di recuperare meglio i loro crediti. Storicamente, i pool di banche concedevano moratorie tramite accordi denominati standstill agreements. Questi impegni hanno natura contrattuale e vincolano solo chi li sottoscrive.

Una moratoria convenzionale può includere vari tipi di misure temporanee: la dilazione delle scadenze (posticipo dei termini di pagamento), la sospensione delle azioni esecutive già minacciate o avviate, la rinuncia temporanea a far valere garanzie o covenant contrattuali, e in generale ogni altra misura che comporti un differimento senza però rinunciare al credito. È importante notare che la moratoria non implica mai una rinuncia definitiva al credito (nessuno “stralcio” o riduzione dell’importo dovuto), ma solo un’attesa. Proprio per questo, i creditori finanziari spesso la accettano se vedono prospettive di recuperare di più lasciando all’impresa il tempo di risanarsi, rispetto a quanto otterrebbero forzandone la liquidazione immediata.

Un aspetto delicato è il coordinamento con gli altri creditori non partecipanti. Se alcuni creditori chiave (es. banche) accettano la moratoria ma altri no (es. un fornitore o l’Erario), questi ultimi potrebbero approfittare della passività dei primi per agire aggressivamente (ad esempio pignorando beni prima che la situazione si risolva). Dunque, in una moratoria volontaria non omogenea, il debitore deve cercare di “tenere buoni” i creditori estranei, magari pagando almeno parzialmente i più piccoli o negoziando individualmente con ciascuno. In pratica, l’azienda selezionerà i creditori la cui adesione è fondamentale per evitare azioni dannose: di solito le banche e i leasing (che se revocano i fidi o escutono le garanzie paralizzano l’attività). I fornitori commerciali minori, se agiscono individualmente, creano meno danno sistemico, anche se possono comunque presentare istanza di fallimento. Il debitore dovrà valutare caso per caso: se ha pochi fornitori ma molto esposti, dovrà coinvolgerli nella moratoria; se ha decine di piccoli fornitori, è improbabile ottenere il consenso unanime, quindi potrebbe pagarne alcuni per tenerli tranquilli e concentrare la moratoria sui grandi creditori finanziari.

La convenzione di moratoria ex art. 62 CCII

Con l’entrata in vigore piena del Codice della crisi (luglio 2022), l’ordinamento italiano ha tipizzato la “convenzione di moratoria” all’art. 62 CCII. Si tratta di uno strumento negoziale (non una procedura concorsuale) che consente di estendere gli effetti della moratoria anche ai creditori dissenzienti, a certe condizioni di maggioranza e omogeneità. La convenzione di moratoria si pone “a metà strada” tra un accordo puramente privato e una procedura giudiziale: è un accordo contrattuale che non richiede omologazione dal tribunale, ma che in caso di contestazioni può essere sottoposto al giudice per verificarne la legittimità. Inoltre, soddisfatte le condizioni di legge, vincola anche i creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria degli aderenti, derogando al principio generale per cui il contratto ha effetto solo tra le parti.

Chi può utilizzarla: la convenzione di moratoria può essere stipulata da qualsiasi imprenditore in crisi, anche non commerciale, purché soggetto al Codice della crisi. Sono quindi inclusi gli imprenditori agricoli e – secondo un orientamento estensivo – anche le piccole imprese “sotto soglia” che non sarebbero fallibili (le quali altrimenti rientrerebbero nelle procedure di sovraindebitamento). In pratica nulla vieta a una micro-impresa di accordarsi in moratoria con i suoi pochi creditori; se poi il risanamento fallisce, quell’imprenditore potrà sempre ripiegare su composizione negoziata o concordato minore. Sono invece esclusi i soggetti non imprenditori: un professionista o un consumatore persona fisica non può usare l’art. 62, ma dovrà ricorrere agli strumenti di sovraindebitamento (piano del consumatore o accordo del debitore).

Creditori coinvolti: teoricamente tutti i creditori dell’impresa possono partecipare alla convenzione di moratoria (banche, intermediari finanziari, obbligazionisti, fornitori, locatori, ecc.). In pratica, l’azienda in crisi individuerà delle categorie omogenee di crediti da sottoporre a moratoria. Ad esempio: categoria banche (mutui, linee di credito); categoria leasing; categoria fornitori strategici; ecc. Per formare una categoria, i crediti devono avere posizione giuridica e interessi economici omogenei. La convenzione potrà essere diversa da categoria a categoria (magari si negozia uno standstill con le banche e separatamente con alcuni grandi fornitori). Attenzione: i debiti verso il Fisco e gli enti previdenziali tecnicamente potrebbero essere inclusi (sono crediti come gli altri), ma nella pratica l’Erario difficilmente aderisce a moratorie stragiudiziali senza una procedura formale di transazione fiscale. Fuori da ipotesi eccezionali o norme speciali, l’Agenzia delle Entrate non “sospende” la riscossione spontaneamente: al più, come detto, può concedere una dilazione ex lege, ma quella è una procedura unilaterale distinta. Quindi nelle moratorie convenzionali raramente si includono i debiti fiscali, a meno che parallelamente il debitore non attivi anche una transazione fiscale ex art. 63 CCII (di cui diremo oltre). Parimenti, i lavoratori dipendenti – se l’impresa ha stipendi arretrati – non sono soggetti su cui si possa fare moratoria: difficilmente accetterebbero formalmente di posticipare i loro crediti retributivi (che godono peraltro di privilegio di primo grado) e non si possono imporre sospensioni delle retribuzioni se non con complesse intese sindacali. In sostanza, la moratoria convenzionale si applica soprattutto ai creditori finanziari e commerciali, mentre debiti verso Stato e lavoratori seguono altre logiche.

Condizioni di efficacia verso i dissenzienti: l’art. 62 CCII richiede alcune condizioni stringenti per poter estendere la moratoria ai creditori non aderenti della stessa categoria. In particolare:

  • Devono aderire alla convenzione almeno i 3/4 (75%) in valore dei crediti di quella categoria. Questa è la stessa super-maggioranza prevista per gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa: l’idea è che se la stragrande maggioranza dei creditori di una classe è d’accordo, allora la minoranza dissenziente può essere “trascinata” negli effetti.
  • Tutti i creditori della categoria devono essere stati informati adeguatamente dell’avvio delle trattative e messi in condizione di partecipare in buona fede. Ciò per evitare che alcuni vengano tenuti all’oscuro e poi si vedano imporre un differimento a loro insaputa.
  • I creditori non aderenti non devono subire un pregiudizio eccessivo. In particolare, il correttivo 2024 ha precisato che i dissenzienti non devono risultare pregiudicati rispetto all’alternativa liquidatoria al momento dell’accordo. Questo introduce il criterio del “best interest of creditors” o non worse-off: posticipare il pagamento non deve mettere il dissenziente in condizione peggiore di quella che avrebbe se l’impresa fosse liquidata subito. Ad esempio, non lo si può far aspettare oltre un certo limite se ciò comporta perdere garanzie o valori. Inoltre, la legge vieta espressamente che ai creditori non aderenti vengano imposti oneri aggiuntivi: la moratoria può al massimo obbligare a non fare (non chiedere il pagamento per un po’), ma non può imporre ai dissenzienti di fare qualcosa di più (ad es. erogare nuovi prestiti, concedere ulteriori dilazioni oltre quanto previsto, ecc.). In pratica, nessun “obbligo positivo” può gravare sui non aderenti per effetto della moratoria.
  • Un professionista indipendente deve redigere una relazione di attestazione che accompagna la convenzione, attestando sia la veridicità dei dati aziendali messi a disposizione dei creditori, sia l’idoneità della convenzione a disciplinare temporaneamente gli effetti della crisi senza ledere indebitamente i dissenzienti. L’attestatore deve in particolare confermare che l’eventuale pregiudizio per i non aderenti è coerente e proporzionato alle prospettive di soluzione della crisi perseguite.
  • La convenzione, una volta stipulata, va comunicata formalmente ai creditori non aderenti appartenenti alla categoria, allegando la relazione attestativa, così che abbiano la possibilità di fare opposizione in tribunale. Infatti, se un creditore dissenziente ritiene che le condizioni di legge non siano rispettate (ad es. contesta di essere “non pregiudicato” o dice di non essere stato informato per tempo), può ricorrere al tribunale perché annulli l’estensione nei suoi confronti. Il giudice in camera di consiglio valuterà il merito dell’opposizione e potrà eventualmente dichiarare inefficace la convenzione verso quel creditore. Se invece nessuno si oppone entro 30 giorni dalla comunicazione, la convenzione diviene efficace erga omnes nei confronti di tutti i membri di quella categoria.

La convenzione di moratoria così disciplinata è uno strumento molto utile per il debitore, perché consente di mettere in sicurezza la situazione finanziaria per un periodo negoziato – tipicamente qualche mese fino a un anno – senza dover attivare subito una procedura concorsuale. Durante la moratoria, l’imprenditore rimane in bonis (non vi è dichiarazione di insolvenza né intervento del tribunale, se non eventuale ex post su contestazioni). Questo preserva la riservatezza: la crisi non diviene di dominio pubblico e la reputazione aziendale è protetta, a differenza di quanto accadrebbe con un concordato preventivo pubblicato sui registri. L’azienda può continuare ad operare, pagando quei fornitori o creditori esclusi dalla moratoria e concentrando la liquidità sugli impegni correnti, mentre per i crediti in moratoria ha una tregua.

Dal punto di vista pratico, per un corretto utilizzo della convenzione ex art. 62 CCII, l’imprenditore deve:

  1. Identificare le categorie di creditori con cui intende pattuirla (es.: banche e leasing; principali fornitori; ecc.).
  2. Condividere con tutti i creditori potenzialmente interessati una informativa completa sulla situazione di crisi e sugli obiettivi della moratoria (trasparenza e pari opportunità di adesione).
  3. Raggiungere l’accordo scritto con almeno il 75% del credito in ciascuna categoria, definendo esattamente l’oggetto: es. “tutti i pagamenti in scadenza tra data X e data Y sono sospesi; i creditori si impegnano a non iniziare o proseguire azioni esecutive fino a Y; in tale periodo il debitore pagherà solo interessi ridotti del tot%; ecc.”.
  4. Far predisporre al professionista indipendente la relazione di attestazione a corredo.
  5. Comunicare formalmente l’accordo e la relazione ai creditori non aderenti delle medesime categorie, avvertendoli che, salvo opposizione entro 30 giorni, la convenzione sarà estesa nei loro confronti.
  6. Se non vi sono opposizioni (o se le opposizioni vengono rigettate dal giudice), attuare la moratoria nei confronti di tutti i creditori di quella categoria, aderenti e non, secondo i termini pattuiti.

Durante la moratoria, il debitore dovrà verosimilmente predisporre un piano di risanamento o un accordo più strutturato, perché la moratoria di per sé è solo un congelamento provvisorio. Essa “compra tempo” ma non risolve la crisi: serve da ponte verso una soluzione più definitiva (come un accordo di ristrutturazione omologato o un concordato preventivo).

Vantaggi per il debitore: la convenzione di moratoria offre tempo prezioso senza l’onere di un procedimento giudiziario, mantenendo il controllo dell’impresa e la riservatezza. Inoltre, evita che pochi dissenzienti possano far fallire l’iniziativa se c’è un ampio consenso (la soglia 75% tutela il debitore attivo e i creditori collaborativi). Limiti: non fornisce automaticamente protezione erga omnes se non nelle categorie dove si raggiunge la maggioranza qualificata; inoltre, non consente di imporre sacrifici economici ai creditori (nessun taglio di credito, solo attesa). È uno strumento da utilizzare se si è in crisi temporanea o reversibile, dove effettivamente qualche mese di respiro può bastare per elaborare una strategia di rilancio. Se invece l’impresa è già insolvente conclamata, la moratoria rischia solo di rinviare l’inevitabile, a meno che non sia propedeutica a un concordato.

Caso pratico: Beta S.p.A., impresa meccanica con squilibrio finanziario (forte debito a breve con banche e leasing) ma ordini in crescita, nel 2024 attiva una convenzione di moratoria con banche e società di leasing (categoria creditori finanziari). Ottenuta l’adesione di banche detentrici dell’80% del debito finanziario, Beta comunica ai restanti istituti (che rappresentano il 20%) l’accordo ex art. 62. Nessuno si oppone in tribunale. Per i 12 mesi successivi, Beta sospende il pagamento delle quote capitale dei mutui e leasing (paga solo interessi ridotti al tasso legale) e le banche mantengono aperte le linee di credito. Nel frattempo Beta elabora un piano di risanamento e, assistita da un esperto, trova un investitore disposto a ricapitalizzare la società. Alla scadenza della moratoria, Beta ha predisposto un accordo di ristrutturazione del debito che include la conversione di metà dei crediti bancari in strumenti partecipativi (equity) e la riscadenzazione della restante metà su 5 anni. Le banche, confortate dal buon esito della moratoria (Beta ha rispettato l’impegno di non aggravare la posizione e l’azienda ha ripreso ordini), omologano l’accordo. In questo modo, grazie alla moratoria Beta ha evitato azioni immediate, ha continuato l’attività e ha costruito la soluzione definitiva. Se invece Beta non fosse riuscita in tali 12 mesi a trovare soluzioni, avrebbe comunque potuto accedere a un concordato preventivo di lì a poco, ma almeno mantenendo l’integrità aziendale nel frattempo.

Piani attestati di risanamento (art. 56 CCII)

Un altro pilastro delle strategie di autofinanziamento in caso di crisi è il piano attestato di risanamento, previsto dall’art. 56 del Codice della crisi (già noto come piano ex art. 67 L.F. nella legge fallimentare previgente). Si tratta di un piano aziendale di risanamento elaborato dall’imprenditore in stato di crisi o insolvenza reversibile, finalizzato a ristrutturare l’indebitamento e riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa. La caratteristica distintiva è che il piano deve essere “attestato” da un professionista indipendente, il quale verifica la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità economica-finanziaria del piano, certificando che le prospettive di risanamento sono concrete. In altri termini, il legislatore offre al debitore la possibilità di negoziare privatamente con i creditori un percorso di risanamento credibile e certificato, che – se predisposto correttamente – gode di benefici legali importanti (prima fra tutte l’esenzione da azioni revocatorie fallimentari per gli atti eseguiti in sua esecuzione).

Natura e funzionamento: il piano attestato è completamente stragiudiziale: non richiede alcun intervento o approvazione da parte del tribunale. Viene negoziato nell’ambito dell’autonomia privata: il debitore propone uno schema di ristrutturazione (che può includere nuovi finanziamenti, dilazioni, rinegoziazioni, conversione di debiti in capitale, dismissioni di asset, ecc.) e lo condivide con i creditori per ottenerne l’adesione volontaria. Non c’è un voto a maggioranza né una omologazione che vincola tutti: ogni creditore è libero di aderire o meno. Ciò comporta che l’efficacia del piano dipende interamente dal consenso individuale dei creditori coinvolti. È dunque uno strumento flessibile e riservato (non essendo pubblicato da nessuna parte, tranne eventuali comunicazioni riservate ai creditori). La controparte di questa flessibilità è che il piano attestato non offre protezione automatica dalle azioni esecutive: se un creditore non è d’accordo, può comunque agire per il recupero del suo credito mentre il piano è in gestazione. Pertanto, il piano attestato va di regola attuato in tempi rapidi, cercando di coinvolgere preventivamente i creditori più critici così da evitare iniziative ostili durante la trattativa.

Presupposti: il piano attestato può essere utilizzato sia in situazione di “crisi” sia addirittura di insolvenza (purché reversibile) – la norma parla di imprenditore in stato di crisi o insolvenza che intende risanare. In pratica, anche un’impresa formalmente insolvente può tentare questa via fuori dal tribunale, confidando che i creditori preferiscano un workout privato alla procedura concorsuale. Ovviamente, se la situazione è troppo compromessa e i creditori non collaborano, sarà necessario virare verso procedure concorsuali. Il piano attestato non richiede soglie di adesione predefinite: può teoricamente riguardare anche solo parte dei creditori, purché i non aderenti vengano regolarmente pagati secondo le scadenze originarie (altrimenti avvierebbero azioni). Spesso, però, si tende a ottenere l’accordo dei creditori principali che rappresentano magari l’80-90% del debito, ignorando i micro-creditori che verranno soddisfatti regolarmente. Il professionista attestatore dovrà certificare che il piano è idoneo a assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei (cioè di quelli che non vi aderiscono).

Contenuto tipico: un buon piano di risanamento deve contenere:

  • Analisi approfondita delle cause della crisi: identificare perché l’impresa è in difficoltà (es. calo di ricavi, struttura di costi fissa eccessiva, eccessivo indebitamento a breve, insoluti da clienti, contenziosi, ecc.).
  • Stato patrimoniale, economico e finanziario aggiornato: fotografare i debiti, i crediti, le disponibilità liquide, il capitale circolante, gli eventuali covenant violati, ecc., in modo trasparente.
  • Misure concrete di risanamento: l’insieme delle azioni che l’imprenditore intraprenderà per superare la crisi. Ad esempio: ristrutturazione organizzativa, taglio dei costi, dismissione di rami d’azienda o asset non strategici, accordi con i creditori per ridurre o dilazionare il debito, rinegoziazione di mutui, ricerca di investitori o soci nuovi, ecc..
  • Proiezioni finanziarie e cronoprogramma: un piano pluriennale (di solito 3-5 anni) con conto economico, stato patrimoniale e soprattutto cash flow previsionali, che mostri come l’azienda tornerà in equilibrio e con quali tempi pagherà i debiti. Un cronoprogramma puntuale dei pagamenti proposti ai creditori è essenziale.
  • Attestazione di un professionista indipendente: il piano deve essere accompagnato dalla relazione di un esperto (di norma un commercialista o revisore esperto in crisi) che, dopo aver analizzato i dati e le ipotesi, dichiari che il piano è fattibile e attendibile e che i dati di partenza sono veritieri. Senza attestazione, il piano non gode dei benefici di legge.

Benefici legali: la legge premia l’utilizzo dei piani attestati prevedendo importanti esenzioni. La principale è l’esonero dall’azione revocatoria fallimentare per gli atti, i pagamenti e le garanzie compiuti in esecuzione del piano stesso. Ciò significa che se poi, malauguratamente, l’impresa dovesse comunque fallire (o meglio, finire in liquidazione giudiziale col nuovo lessico), il curatore non potrà far revocare i pagamenti fatti ai creditori secondo il piano o le garanzie concesse come da piano, a condizione che il piano fosse idoneo e regolarmente attestato. Questo scudo è cruciale per incentivare i creditori a partecipare: ad esempio, una banca che concede nuova finanza sotto forma di prestito post piano attestato o rinuncia a far valere immediatamente un pegno in cambio di un pagamento dilazionato, non rischia che se poi la società fallisce il curatore le revochi quei pagamenti o impugni la dilazione come atto in frode (salvo il caso in cui il piano fosse falsato da dolo). La Cassazione ha però chiarito che la mera presenza di un piano non basta: occorre che il piano sia realistico e idoneo al risanamento ex ante, altrimenti l’atto resta revocabile. In una celebre sentenza del 2016 (Cass. civ. 13719/2016) la Suprema Corte ha affermato che il giudice può valutare la idoneità sostanziale del piano e, se la reputa inesistente, disapplicare la protezione: in quel caso venne revocato un pagamento nonostante fosse avvenuto in esecuzione di un piano attestato, perché il piano era del tutto irrealistico. Questo serve da monito: i piani di risanamento improvvisati solo per schermare atti pregiudizievoli non funzionano; devono essere seri e credibili.

Un altro beneficio risiede nel fatto che i finanziamenti effettuati in esecuzione di un piano attestato sono prededucibili in caso di successivo fallimento. Ciò deriva dall’art. 99 e 101 CCII (già art. 182-quater L.F.): il creditore che eroga nuova finanza all’impresa nell’ambito del piano avrà diritto di essere soddisfatto con priorità (prima di chirografari e creditori concorsuali) se poi la procedura concorsuale comunque interviene. Questo ovviamente a patto di buona fede: se emergesse che il finanziatore sapeva che i dati del piano erano falsi, perderebbe la prededuzione. In pratica però, per chi finanzia in buona fede, c’è sia l’esenzione da revocatoria sia la prededuzione, rendendo il rischio di credito molto minore. Queste previsioni, già presenti nella vecchia legge, sono state confermate e irrobustite nel Codice della crisi.

Procedura di formazione ed esecuzione: non esiste una “procedura” formale, ma per prassi si segue uno schema:

  • L’impresa individua un professionista indipendente (spesso un commercialista) come attestatore e gli fornisce tutti i dati per analizzare la situazione.
  • Si stende una bozza di piano con la manovra di risanamento e la proposta di trattativa ai creditori (ad es. “la banca X rinuncia a interessi di mora e allunga il mutuo di 5 anni”, “il fornitore Y accetta il 60% del credito in 12 mesi a saldo” etc.).
  • Si instaurano le trattative informali con i creditori principali per verificare la disponibilità e magari siglare accordi bilaterali vincolati all’attestazione (spesso con lettere d’intenti).
  • Quando il piano è definitivo, l’attestatore rilascia la sua relazione di attestazione (da non confondere con la relazione del professionista di cui all’art. 14 c.3 L.3/2012 per sovraindebitati; qui parliamo di attestazione ex art. 56 CCII).
  • Il piano attestato viene formalizzato e sottoscritto dall’imprenditore. Non serve depositarlo da nessuna parte, ma è buona norma conservarne una data certa (ad esempio tramite PEC o registrazione).
  • Esecuzione: l’imprenditore dà corso al piano. Ciò può implicare la conclusione di atti giuridici: contratti di finanziamento con banche (per nuova finanza), patti transattivi con i creditori che accettano riduzioni o dilazioni, cessioni di beni, aumenti di capitale, ecc. Ciascun atto eseguito in attuazione del piano sarà poi “coperto” dall’art. 56 se il piano era valido.

È importante sottolineare che non v’è automatismo che blocchi i creditori dissenzienti. Se un creditore non aderisce al piano e non viene pagato alle scadenze originarie, può legittimamente notificare decreti ingiuntivi o pignoramenti. Perciò, spesso il piano attestato va combinato con misure protettive: ad esempio, il debitore può contestualmente presentare un ricorso per misure cautelari o protettive (ex art. 54 CCII) per sospendere le azioni esecutive mentre implementa il piano. Oppure può intraprendere una composizione negoziata per ottenere uno scudo temporaneo (come vedremo più avanti). In assenza di queste, vi è un rischio: un singolo creditore estraneo impaziente può far saltare il banco avviando il fallimento prima che il piano spieghi effetti. La Cassazione penale ha affermato che l’attuazione di un piano attestato non esclude il reato di bancarotta distrattiva se il piano era inidoneo e l’insolvenza conclamata poi sopravviene. Ciò significa che gli amministratori devono agire con prudenza: non si può abusare del piano per fare pagamenti preferenziali sotto copertura; se il piano fallisce, si verranno sindacate le scelte compiute.

Utilizzo pratico e ambito di convenienza: il piano attestato è indicato quando l’impresa pensa di poter risolvere la crisi senza passare dal tribunale, ottenendo la collaborazione quasi unanime dei creditori. È lo strumento più discreto e veloce, adatto a crisi di media gravità dove c’è fiducia reciproca: ad esempio, in PMI con poche banche finanziatrici e qualche fornitore critico, tutte parti con cui l’imprenditore ha rapporti di lungo periodo e interesse a continuare. Anche gruppi industriali lo usano quando vogliono evitare la pubblicità di un concordato (specie se quotati o con brand da tutelare). Naturalmente, se ci sono molti creditori eterogenei o qualcuno minaccia di fare azioni legali, il piano attestato può risultare fragile perché basta un “franco tiratore” a innescare un default. In tali casi conviene passare a strumenti come gli accordi di ristrutturazione omologati, che hanno efficacia anche sui dissenzienti in certe condizioni.

Esempio pratico: Gamma S.r.l., piccola azienda commerciale, nel 2023 accumula €500.000 di debiti verso banche (scoperti di c/c e mutuo arretrato) e €200.000 verso fornitori, a fronte di un fatturato annuo di €1,5 milioni. La crisi è dovuta al calo vendite e a un eccesso di magazzino invenduto. Gamma però ha ancora un buon mercato potenziale. Decide di tentare un risanamento: elabora con un advisor un piano a 3 anni in cui prevede di:

  • liquidare il 30% delle scorte obsolete per fare cassa,
  • chiudere uno dei due negozi in perdita per tagliare costi,
  • ottenere dalle banche una moratoria di 6 mesi e poi la dilazione del rimborso dei fidi su 3 anni,
  • ottenere dai fornitori uno sconto del 20% sui crediti in cambio di pagamento in 12 mesi,
  • i soci apportano €100.000 freschi a capitale.

Un commercialista indipendente analizza il piano, vede che con queste misure Gamma tornerebbe all’equilibrio (DSCR >1 entro 12 mesi) e attesta che i numeri sono attendibili e il piano sostenibile. Le banche, che rappresentano 70% dei crediti totali, aderiscono formalmente alla proposta, anche perché in caso di fallimento vedrebbero forse il 40%. L’80% dei fornitori (in valore) accetta la transazione al 80%. Gamma thus formalizza il piano attestato di risanamento con tali adesioni. Nei 3 anni seguenti, esegue fedelmente il piano: paga i fornitori transatti, riduce il debito bancario secondo il calendario concordato, utilizza l’apporto soci per liquidare alcune posizioni. Se tutto va bene, esce dalla crisi senza alcuna procedura concorsuale. Tutti i pagamenti eseguiti (compresi quelli preferenziali ai fornitori che hanno accettato uno stralcio, o alle banche per interessi concordati) non potranno essere revocati se mai in futuro vi fosse un fallimento, perché avvenuti in un piano attestato valido. Inoltre le banche che hanno concesso nuova linea di credito a supporto (ad es. una linea cassa di €50.000 per ripartenza) sanno di essere in prededuzione ex art. 56/101 CCII. Questo scenario virtuoso mostra la funzione del piano: risanare sotto traccia, con accordo quasi totale e tutela legale minima necessaria.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII)

Quando la situazione richiede un intervento più strutturato e garantito rispetto a un semplice piano privato, il debitore può ricorrere agli accordi di ristrutturazione del debito omologati dal tribunale. Questi accordi, derivati dall’art. 182-bis della vecchia legge fallimentare e ora disciplinati dagli artt. 57 e seguenti del Codice della crisi, costituiscono un compromesso tra negoziazione privata e procedure concorsuali: sono accordi volontari con i creditori, ma acquistano efficacia generale tramite un decreto di omologazione del tribunale. Dal punto di vista del debitore, gli accordi di ristrutturazione offrono un quadro più sicuro perché:

  • se raggiunge l’adesione di una determinata maggioranza di creditori, può chiedere al tribunale di omologare l’accordo rendendolo vincolante secondo i termini pattuiti;
  • durante il procedimento può ottenere misure protettive (stay delle azioni esecutive) simili a quelle del concordato;
  • risolvono la crisi con un procedimento più snello del concordato e in parte confidenziale (l’accordo depositato in registro imprese è meno “infamante” rispetto a una procedura aperta a tutti i creditori).

Requisiti generali: l’accordo di ristrutturazione standard richiede che il debitore abbia raggiunto un’intesa con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. Questa soglia, identica a quella storica dell’art. 182-bis L.F., garantisce che vi sia un consenso qualificato. I creditori che aderiscono sottoscrivono l’accordo (un documento contrattuale) in cui si impegnano a rinunce o dilazioni secondo il piano allegato, mentre i creditori estranei restano tali (dovranno essere pagati integralmente nei modi originari). Il tribunale, su ricorso del debitore, omologa l’accordo purché:

  • sia stata depositata tutta la documentazione (situazione di bilancio, elenco creditori, piano dettagliato);
  • vi sia la relazione di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati e la fattibilità dell’accordo, nonché l’idoneità ad assicurare il pagamento regolare dei creditori estranei;
  • sia rispettato il principio di miglior soddisfacimento dei creditori: l’accordo deve offrire ai creditori, aderenti ed estranei, non meno di quanto otterrebbero in caso di liquidazione fallimentare (principio del best interest).

Se tali condizioni sono soddisfatte e non emergono opposizioni fondate da eventuali creditori pregiudicati, il tribunale emette decreto di omologazione, che viene pubblicato e rende efficace l’accordo verso i partecipanti. Da notare, però, che vincola soltanto i creditori aderenti (a differenza del concordato che vincola tutti). Quindi i creditori estranei restano fuori: l’accordo omologato non può ridurre o modificare i loro diritti, ma di solito prevede che vengano pagati integralmente alle scadenze o immediatamente. L’utilità principale dell’omologazione è dunque quella di cristallizzare gli impegni presi con i creditori aderenti, proteggendoli da eventuali azioni revocatorie e dando certezza giuridica.

Varianti introdotte dal CCII: il nuovo Codice ha arricchito l’istituto con due varianti:

  • Accordo di ristrutturazione “agevolato”: previsto dall’art. 61 CCII, consente al debitore di presentare un accordo anche solo con il 30% dei crediti (quindi maggioranza molto inferiore), ma a patto di non chiedere misure protettive né prevedere moratorie verso estranei. In pratica, è una versione semplificata per favorire accordi parziali, utile quando magari pochi creditori rilevanti sono disponibili a trattare. L’effetto legale è lo stesso di un accordo ordinario: vincola solo i sottoscrittori, e richiede attestazione e omologazione. La limitazione è che il debitore non può nel frattempo congelare i creditori esterni con lo stay, quindi è rischioso se ce ne sono di aggressivi. L’accordo agevolato è pensato per situazioni di squilibrio limitato o dove l’imprenditore ha già pagato/definito i creditori minori e vuole un titolo omologato su accordi con pochi grandi creditori.
  • Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa: disciplinato dall’art. 63 CCII, consente – in certi casi – di estendere gli effetti dell’accordo anche a determinati creditori non aderenti, similmente a quanto visto per la convenzione di moratoria. Si applica solo a creditori omogenei per posizione giuridica e interessi (es. un gruppo di banche) e richiede condizioni analoghe: che tutti siano stati informati delle trattative, che l’accordo preveda la continuazione dell’attività con soddisfazione dei crediti in prevalenza da continuità, che i creditori aderenti di quella categoria siano almeno il 75%, e che i dissenzienti non ricevano meno che in caso di liquidazione. In più, occorre notificare l’accordo e l’istanza di omologa ai dissenzienti dando loro diritto di opposizione. Se il tribunale omologa, i dissenzienti di quella categoria restano vincolati agli effetti come se avessero aderito. Questa è una significativa novità, importata dalla direttiva UE, che risolve il classico problema del “holdout” (creditore che non aderisce sperando di ottenere di più). Con l’efficacia estesa, se 3 banche su 4 accettano e la quarta no per strategia, il tribunale può legarla all’accordo se ricorrono i requisiti. Ci sono limiti: l’estensione funziona solo per categorie di creditori finanziari (banche e intermediari) o altri omogenei, non per il Fisco e altri particolari, a meno di specifiche normative. Il CCII ha previsto anche il caso in cui il debito finanziario verso banche sia almeno il 50% del totale: in tal caso l’accordo ad efficacia estesa con le banche può applicarsi anche se l’accordo è liquidatorio (non in continuità). Ciò amplia l’uso per ristrutturare debiti bancari di maggioranza, coinvolgendo minoranza dissenziente.

In sintesi, oggi il debitore può modulare l’accordo di ristrutturazione secondo le esigenze:

  • Se riesce a coinvolgere quasi tutti i creditori rilevanti: accordo ordinario (60%).
  • Se ha solo pochi creditori da sistemare: accordo agevolato (30%, no stay).
  • Se vuole trascinare pochi dissenzienti in categorie specifiche: accordo ad efficacia estesa (75% di categoria omogenea).
    Queste opzioni permettono un certo grado di cram-down settoriale anche fuori dal concordato.

Procedura e tutela per il debitore: per avviare un accordo, il debitore deposita in tribunale la domanda di omologa con copia dell’accordo sottoscritto e la documentazione (piano, attestazione, elenco creditori e loro adesioni, ecc.). Da quel momento, l’accordo e la domanda vengono iscritti nel Registro delle Imprese e decorre il termine di 30 giorni per eventuali opposizioni da parte di creditori o terzi interessati. Ciò differisce dal concordato dove c’è un voto. Trascorsi i 30 giorni, il tribunale fissa udienza e poi decide sull’omologa. Durante questa fase, su richiesta del debitore, possono essere concesse misure protettive: il giudice può sospendere azioni esecutive e impedire ai creditori di acquisire prelazioni sul patrimonio (similarmente al concordato) per proteggere la par condicio. Questo è fondamentale dal punto di vista del debitore: consente di negoziare e attendere l’omologa senza il timore che un creditore estraneo pignori i beni nel frattempo. Le misure protettive però non sono automatiche: vanno richieste e il tribunale le concede se l’accordo presentato non è manifestamente impossibile e se necessario. Il debitore rimane in possesso dei beni e gestione durante il processo (non c’è amministrazione controllata come in passato; l’organo gestorio conserva i poteri, salvo eventuale nomina di un commissario giudiziale se pendono istanze di fallimento).

Effetti e adempimenti: una volta omologato, l’accordo vincola i creditori aderenti (e i dissenzienti delle categorie estese, se applicato) nei termini previsti. Ad esempio, se l’accordo dice che i creditori chirografari aderenti prendono il 70% in 24 mesi, quegli importi e scadenze sono ora “legge” tra le parti. Il debitore deve eseguire puntualmente il piano. In genere, l’accordo omologato costituisce titolo esecutivo: se il debitore non paga una rata come da accordo, il creditore può intimare e agire subito. A tutela dei creditori pubblici, la legge (art. 63 co.3 CCII) ha inserito una clausola risolutiva automatica: se il debitore non paga integralmente entro 60 giorni le rate dovute al fisco o enti previdenziali secondo l’accordo, l’accordo si risolve di diritto. Ciò significa che un non pagamento delle rate fiscali concordate fa decadere l’intero accordo – regola severa introdotta per garantire serietà nel rispettare il fisco.

Benefici per il debitore: l’accordo omologato offre maggiore certezza e pace legale. Ottenuta l’omologa:

  • I creditori aderenti (e quelli trascinati) non possono prendere iniziative individuali difformi dall’accordo (rinunciano alle azioni legali sul pregresso, salvo inadempimento dell’accordo stesso).
  • Gli atti esecutivi del piano godono di tutte le esenzioni di legge: prededuzione per nuovi finanziamenti previsti dall’accordo, esenzione da revocatoria per atti in esecuzione (equiparata a quella dei piani attestati), protezione da responsabilità penale ex art. 324 c.p. per pagamenti eseguiti secondo accordo omologato.
  • Il debitore può gestire la fase di risanamento con meno pressione, essendo l’accordo un titolo vincolante. Inoltre, se l’accordo prevede una moratoria verso certi creditori (es. moratoria biennale ai privilegiati), l’omologa la rende opponibile e legittima.
  • L’immagine dell’azienda può risultare meno compromessa rispetto al fallimento: benché l’accordo omologato sia pubblicato, viene percepito come soluzione concordata e segno di risanamento in corso.

Limiti: l’accordo di ristrutturazione, pur flessibile, non coinvolge i creditori non aderenti (tranne i casi di efficacia estesa). Quindi se ci sono creditori che non vogliono aderire né possono essere crammati, il debitore deve necessariamente pagarli integralmente come da scadenze, il che talvolta rende il piano oneroso. Un tipico ostacolo era il Fisco: storicamente, se l’Agenzia delle Entrate non aderiva, l’accordo rischiava di fallire perché il debito fiscale doveva essere pagato per intero e magari subito, cosa non sostenibile. Nel 2023-2024 è stata introdotta la possibilità del cram-down fiscale anche negli accordi di ristrutturazione: se il Fisco non aderisce ma il suo voto sarebbe determinante per raggiungere il 60%, e l’accordo è conveniente per l’Erario rispetto al fallimento, il tribunale può ugualmente omologare. Ad esempio, il Tribunale di Vasto (sent. 11 dicembre 2024) ha omologato un accordo ex artt. 57 e 63 CCII nonostante il diniego dell’Erario, ritenendo soddisfatto il test di convenienza (fisco non peggio del 10% che avrebbe preso in liquidazione, contro il 30% offerto nell’accordo). Questa innovazione (recepita dal D.L. 69/2023 e D.Lgs. 136/2024) risponde a quanto richiesto dalla direttiva europea: nessun singolo creditore pubblico può più bloccare da solo un accordo se gli altri concordano e l’offerta è equa. Per il debitore è un progresso fondamentale, perché elimina quell’asimmetria che spesso obbligava al concordato preventivo solo per poter forzare il Fisco.

Esempio pratico: Delta S.p.A. ha debiti complessivi per €10 milioni (4 milioni banche, 2 milioni fornitori, 1 milione leasing, 2 milioni Erario per IVA e tasse, 1 milione altri). L’impresa è in crisi ma attiva e potrebbe riprendersi con un taglio del debito. Propone ai creditori un accordo di ristrutturazione in continuità: banche e leasing accettano di ridurre i tassi e allungare i piani di rimborso a 5 anni, fornitori e altri chirografari accettano uno stralcio del 30% (pagando 70% in 3 anni), l’Erario tramite transazione fiscale accetta di rinunciare a sanzioni e interessi e incassare il 50% del dovuto in 5 anni. Delta ottiene adesioni scritte dall’80% dei crediti (tutte le banche, leasing e la gran parte di fornitori; l’Agenzia Entrate aderisce formalmente alla transazione). Presenta l’accordo al tribunale con attestazione positiva sulla fattibilità e convenienza (il piano prevede cessione di un ramo d’azienda per fare cassa e rilancio dell’altro ramo). Nessun creditore fa opposizione. Il tribunale omologa l’accordo. A questo punto:

  • Delta beneficia di una significativa riduzione e riscadenzazione del debito senza passare per fallimento né cessione integrale dell’azienda.
  • I creditori ottengono soddisfazione migliore di un fallimento (stimato 30%), con impegni legalmente vincolanti.
  • Per 3-5 anni Delta dovrà rispettare rigorosamente il piano di pagamenti. Ma con la riduzione ottenuta e liberata dai debiti eccedenti, può attrarre nuovi investimenti e tornare redditizia.
  • Se Delta dovesse comunque fallire in futuro, tutti i pagamenti fatti secondo l’accordo non sarebbero revocabili perché coperti da omologa. Inoltre i nuovi finanziatori intervenuti (ad esempio una banca che ha dato un prestito di “nuova finanza” di €500k per supportare il piano) sarebbero in prededuzione.
    In questo scenario, l’accordo di ristrutturazione ha consentito un risanamento negoziale con efficacia legale, riducendo il debito e salvando l’impresa dalla liquidazione.

Nota: se qualche fornitore minore non avesse aderito, Delta avrebbe dovuto pagarlo integralmente a scadenza per evitare opposizioni – cosa che il piano probabilmente prevedeva grazie alla cassa generata dalla vendita del ramo. Se invece l’Erario non fosse stato d’accordo, Delta avrebbe comunque potuto chiederne il cram-down in omologa (a condizione di offrire almeno il valore di liquidazione e avere l’ok delle altre classi).

Il concordato preventivo (continuativo e liquidatorio)

Il concordato preventivo rappresenta la procedura concorsuale vera e propria a cui il debitore può ricorrere per risolvere la crisi assicurandosi la protezione giudiziaria e, se del caso, ottenere l’esdebitazione residua. Con l’entrata in vigore del CCII, il concordato preventivo mantiene la sua struttura di base ma con alcune novità soprattutto in tema di classi di voto e cram-down interclassi e con la distinzione tra concordato in continuità e concordato liquidatorio ancora più marcata. Dal punto di vista del debitore, il concordato è spesso l’ultima risorsa prima della liquidazione giudiziale, da attivare se le soluzioni negoziali non bastano o se il livello di consenso richiesto non è raggiungibile se non tramite voto giudiziale.

Tipologie: il concordato può essere:

  • Concordato con continuità aziendale (artt. 84-88 CCII): se prevede che l’attività d’impresa continui, sia pure eventualmente tramite un affitto d’azienda o altre forme, assicurando in tutto o in parte la continuità dei rapporti e dei contratti. In genere proposto per risanare l’impresa, spesso coinvolge un piano industriale di rilancio, magari l’ingresso di investitori, e prevede il pagamento dei creditori col ricavato della gestione caratteristica negli anni post-omologa. Dal punto di vista del debitore, il vantaggio è che consente di salvare l’azienda come entità funzionante e possibilmente mantenere la propria posizione (se i soci mantengono una quota, pur diluita). I creditori accettano perché sperano di ricavare di più dalla continuità che da una vendita spezzatino immediata.
  • Concordato liquidatorio (art. 89 CCII): se prevede solo la liquidazione del patrimonio, senza proseguire l’attività (se non quanto strettamente funzionale a vendere gli asset). È sostanzialmente una proposta di vendere beni e distribuire il ricavato ai creditori, con eventuali offerte già individuate. Qui l’azienda come going concern di solito si ferma. I creditori accettano se la proposta di liquidazione concordataria offre maggiori garanzie o valore rispetto a un fallimento classico (ad esempio perché c’è un acquirente già pronto a rilevare a un prezzo superiore, o perché la procedura concordataria consente meno perdite di valore). Dal punto di vista del debitore/imprenditore, il concordato liquidatorio serve principalmente a evitare le conseguenze peggiori del fallimento (come interdizioni, magari responsabilità personali se emergono irregolarità attenuate dall’accordo, e consente di chiedere esdebitazione finale per società cessate).

Iter procedurale in sintesi: il debitore propone un concordato depositando un ricorso con tutta la documentazione (elenco creditori, inventario beni, piano dettagliato e proposta, attestazione di un professionista sulla fattibilità e veridicità dati). Se la domanda supera un primo esame, il tribunale ammette la procedura e nomina un commissario giudiziale. Da quel momento scattano le tutele: divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, sospensione degli interessi per chirografari, improcedibilità di istanze di fallimento, ecc. (le classiche protezioni concorsuali). Il debitore rimane in possesso dei beni e in carica (non c’è spossessamento, trattandosi di procedura in bonis), ma la gestione è affiancata dal commissario che vigila e riferisce.

Si fissano le classi di creditori e si procede alla votazione sulla proposta: i creditori vengono suddivisi per classi omogenee (obbligatorio per legge se ci sono creditori con cause di prelazione o interessi differenti). Ogni classe vota per approvare o respingere la proposta concordataria. Serve, per l’approvazione, che in ogni classe si raggiunga la maggioranza dei crediti ammessi al voto (o alternativamente i 2/3 dei votanti purché almeno la metà dei crediti della classe abbia votato). Se una o più classi votano contro, il debitore può chiedere comunque l’omologazione forzata (cram-down interclassi), ma solo se si rispettano precise condizioni di legge sulla distribuzione del valore (la cosiddetta priorità relativa). In parole semplici, nessuna classe dissenziente può essere pregiudicata rispetto a chi sta al suo stesso grado o a gradi inferiori. La riforma attuata dal CCII, in recepimento della direttiva UE, ha inserito il principio per cui nessuna singola classe può avere potere di veto assoluto se la proposta è equa – simile al meccanismo discusso per il Fisco. Quindi oggi, anche se qualche classe è contraria, il tribunale può omologare se ritiene rispettata la regola di priorità e di miglior soddisfazione possibile. Questo impedisce a piccoli gruppi di creditori di bloccare concordati vantaggiosi per la maggioranza.

Se il concordato viene omologato dal tribunale, diviene vincolante per tutti i creditori anteriori (anche quelli che hanno votato contro o non hanno partecipato). Gli effetti principali: i crediti pregressi restano definiti secondo quanto stabilito (eventuali stralci liberano il debitore dalla parte eccedente; eventuali dilazioni vanno rispettate). Terminata l’esecuzione del concordato, l’imprenditore ottiene l’esdebitazione per i debiti residui chirografari non soddisfatti (per le società, di fatto l’adempimento del concordato esaurisce il loro debito; per l’imprenditore persona fisica, c’è esdebitazione formale su istanza).

Concordato dal punto di vista del debitore: la procedura è più complessa e costosa rispetto alle soluzioni negoziali: richiede l’intervento del tribunale, la nomina di un commissario, il coinvolgimento di tutti i creditori (anche quelli con cui magari non ci sarebbero controversie), tempi più lunghi e costi di procedura. Tuttavia offre vantaggi unici:

  • Protezione totale dal fuoco incrociato dei creditori durante la pendenza della procedura (nessuno può agire esecutivamente, i contratti essenziali continuano salvo autorizzazione per recesso, ecc.).
  • Possibilità di imporre la soluzione anche alle minoranze dissenzienti: a differenza dei piani o accordi dove i dissenzienti restano estranei, col concordato se hai convinto la maggioranza per classi puoi trascinare dentro tutti. Questo è essenziale se uno o pochi creditori erano ostili.
  • Respiro finanziario immediato: dal deposito della domanda, l’azienda può ottenere autorizzazione a non pagare debiti pregressi e a moratorie su privilegiati fino a 2 anni anche senza il loro consenso (nel concordato con continuità, il CCII estende a due anni la moratoria massima per pagare i creditori privilegiati dal momento dell’omologa, se prevista dal piano).
  • Possibilità di disfarsi di parte del debito legalmente: con un concordato liquidatorio puoi proporre di pagare, ad esempio, il 20% ai chirografari, e se questi approvano e il tribunale omologa, il restante 80% viene stralciato definitivamente (l’imprenditore ne viene liberato).
  • Strumenti di gestione come la transazione fiscale e contributiva: il CCII consente di includere nel concordato proposte di pagamento parziale dei debiti tributari e previdenziali (transazione fiscale), superabili col cram-down se il Fisco vota no, come spiegato sopra. Questo rende possibile ridurre anche i debiti fiscali entro certi limiti (ad esempio l’IVA può essere ridotta se c’è transazione e se c’è almeno il 10% di soddisfo e il cram-down se serve).
  • Nuova finanza prededucibile: come negli accordi, anche nel concordato il tribunale può autorizzare finanziamenti in funzione della procedura con garanzia di prededuzione (il cosiddetto DIP Financing italiano). Ciò aiuta ad ottenere liquidità per gestire l’azienda nel frattempo (pagare fornitori strategici, acquistare materiali per ordini in continuità, ecc.), con la promessa al finanziatore di priorità di rimborso.
  • Sospensione degli obblighi societari: con l’ammissione al concordato, sono sospese le cause di scioglimento della società per riduzione capitale (art. 20 CCII), così i soci non devono ricapitalizzare immediatamente. Inoltre, come accennato nella sezione sugli amministratori, una volta deliberato l’accesso al concordato, i soci non possono revocare gli amministratori salvo giusta causa (viene bloccata la revoca ad nutum per evitare ingerenze). Questo tutela il CdA mentre porta avanti la procedura.

Costo per il debitore: è comunque una procedura concorsuale, quindi:

  • Occorre pagare le spese di giustizia (il commissario, eventuali esperti nominati dal giudice, il compenso del liquidatore o attestatore).
  • L’azienda subisce un contraccolpo reputazionale: l’apertura del concordato è pubblica, spesso la fiducia di clienti/fornitori è scossa (anche se in continuità).
  • La gestione viene scrutinata, gli atti di straordinaria amministrazione richiedono autorizzazione del giudice, quindi la libertà imprenditoriale è limitata.

Casi pratici d’uso: il concordato in continuità viene tipicamente utilizzato per ristrutturazioni profonde di aziende di una certa dimensione, dove il coinvolgimento di tutti i creditori è necessario e magari c’è un piano industriale con intervento di nuovi investitori. Ad esempio, aziende medio-grandi che vogliono evitare la frammentazione di cause, oppure gruppi con molti dipendenti dove serve uno strumento robusto (il concordato tutela anche i dipendenti: i crediti per TFR e stipendi arretrati devono essere pagati integralmente entro un anno dall’omologa nei concordati in continuità). Il concordato liquidatorio invece viene usato quando la situazione è compromessa e l’obiettivo è liquidare l’impresa in modo ordinato, magari vendendo l’azienda in esercizio a un terzo (la cosiddetta concordato con assuntore). Il CCII ha introdotto anche il “concordato semplificato” per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies, D.L. 118/2021): se una composizione negoziata non porta ad accordo, l’imprenditore può chiedere al tribunale di approvare una cessione di beni senza passare per voto dei creditori. È una norma speciale per casi post-composizione negoziata. Serve per evitare il fallimento e liquidare velocemente, ma è un’opzione di nicchia.

Dal punto di vista del debitore (vantaggi/svantaggi) si può sintetizzare così:

  • Vantaggi: massima protezione, taglio dei debiti possibile, cram-down su dissenzienti e Fisco, conservazione temporanea dell’azienda anche insolvente, possibilità di continuare l’attività (in continuità) con tutela, eventuale scarico finale dei debiti insostenibili (esdebitazione).
  • Svantaggi: procedura complessa, pubblicità negativa, costi alti, tempi non brevissimi (di solito 6-12 mesi per arrivare all’omologa), necessità di convincere i creditori sulla convenienza (serve un piano davvero credibile), perdita in parte del controllo gestionale.

Esempio pratico (con transazione fiscale e cram-down): Facciamo l’esempio pratico di Alfa S.r.l. per illustrare un concordato in continuità con cram-down fiscale già citato: Alfa ha 5 mln di debiti (1 mln con banca ipotecaria, 1 mln Erario IVA privilegiata, 3 mln chirografari vari). Propone un concordato in continuità dove:

  • La banca ipotecaria (privilegiata su capannone) sarà pagata 100% vendendo il capannone (quindi classe separata, soddisfatta integralmente, non vota).
  • Il Fisco (privilegio inferiore) riceverà 30% del suo credito in 4 anni (transazione fiscale proposta).
  • I chirografari riceveranno 30% in 4 anni dai flussi di cassa futuri.
    Si formano le classi: Classe 1 banca (non votante perché integrale), Classe 2 Erario privilegiato (vota sulla transazione), Classe 3 chirografari. Supponiamo che i chirografari (Classe 3) approvino all’80% di consenso, ma l’Erario (Classe 2) rifiuti perché ritiene il 30% troppo basso. Secondo le regole, almeno una classe ha approvato (i chirografari) e l’offerta al Fisco è stata giudicata migliore di quanto otterrebbe in liquidazione (in un fallimento magari l’Erario avrebbe preso solo il 10% dopo che la banca ipotecaria realizza il suo credito). Il tribunale dunque applica il cram-down fiscale e omologa comunque il concordato. Alfa esegue il piano: vende il capannone, paga la banca, poi nel quadriennio post-omologa paga rate trimestrali a chirografari e Fisco (ognuno prende 30%). Dopo 4 anni Alfa è uscita dal concordato con debiti azzerati: il 70% non pagato a ciascun chirografo e al Fisco è stato legalmente stralciato. Se il concordato non fosse stato approvato dai chirografari, allora sarebbe saltato tutto e si sarebbe probabilmente aperta la liquidazione giudiziale. Questo esempio mostra come il concordato può risolvere la crisi anche se alcuni creditori non collaborano, purché la proposta sia equa e la maggioranza la supporti.

Per contro, i soci di Alfa hanno perso la proprietà? Nel concordato in continuità possono restare soci se apportano nuove risorse o se comunque il piano li coinvolge. La legge però impone che ai soci non possa andare nulla se non dopo aver soddisfatto i creditori secondo la priorità relativa. Quindi in un concordato standard i soci escono senza valore a meno che non apportino risorse e ottengano magari una classe di loro interesse. Nel concordato semplificato post-composizione, i soci di solito perdono tutto perché è liquidatorio e senza voto.

La composizione negoziata della crisi d’impresa

Introdotta inizialmente con il D.L. 118/2021 e poi integrata nel Codice della crisi (Titolo II), la composizione negoziata è un procedimento volontario e confidenziale che consente all’imprenditore in stato di crisi o pre-crisi di tentare un accordo stragiudiziale con i creditori con l’assistenza di un esperto indipendente. Questo strumento, entrato in vigore a novembre 2021, si affianca alle procedure concorsuali tradizionali come sorta di “corsia preferenziale” per il risanamento anticipato. Dal punto di vista del debitore, la composizione negoziata offre un ambiente protetto e guidato in cui cercare soluzioni, con minori formalità e pubblicità rispetto al tribunale, ma comunque con alcune tutele di legge.

Caratteristiche chiave:

  • È una procedura stragiudiziale e riservata: si svolge principalmente al di fuori del tribunale, su una piattaforma telematica nazionale, e inizialmente in modo confidenziale (l’accesso alla procedura non è pubblico salvo misure protettive richieste, e i terzi non ne sono informati). Questo tutela la reputazione dell’impresa: finché si è in composizione negoziata pura, la situazione di crisi non viene divulgata.
  • Viene nominato un Esperto indipendente dal segretario generale della Camera di Commercio locale, scelto da appositi elenchi (di commercialisti, avvocati, consulenti con esperienza) su piattaforma. L’esperto non ha poteri gestori, ma funge da facilitatore: convoca le parti, analizza l’azienda, propone soluzioni, sprona a raggiungere un accordo equo. Importante: l’imprenditore resta alla guida dell’impresa (nessuno spossessamento).
  • Flessibilità di soluzioni: non c’è un esito predeterminato. La composizione negoziata può concludersi con un semplice accordo stragiudiziale (ad esempio un accordo transattivo multi-creditore), oppure con la sottoscrizione di uno degli strumenti formali (un accordo di ristrutturazione, un piano attestato, un concordato preventivo). Se le trattative falliscono del tutto, il debitore può optare per un concordato semplificato liquidatorio come extrema ratio. Questa flessibilità consente di cucire la soluzione sui bisogni concreti dell’azienda (vendita dell’azienda, ingresso di investitore, risanamento in continuità, ecc.).
  • Assenza di allerta giudiziale obbligatoria: la composizione negoziata ha sostituito il sistema di allerta precoce imperniato sugli OCRI (che il CCII originario prevedeva ma è stato abrogato). Ciò significa che l’attivazione è volontaria e su iniziativa dell’imprenditore (non c’è più un organo che impone di attivarsi, se non le segnalazioni soft di allerta interna da parte di organi di controllo societari, obblighi per sindaci e revisori di avvisare l’organo amministrativo in caso di indizi di crisi – art. 25-octies CCII – e alcune segnalazioni dei creditori pubblici). In pratica, spetta all’imprenditore responsabile attivarsi non appena avverte squilibri.
  • Misure protettive e incentivi: durante la composizione negoziata, il debitore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive temporanee, ad esempio il blocco delle azioni esecutive e cautelari dei creditori. Tali misure (concesse con decreto se funzionali alle trattative) offrono uno scudo simile a quello del pre-concordato, ma con la differenza che la procedura rimane negoziale. Inoltre, come visto prima, l’ordinamento prevede incentivi: le banche non possono revocare fidi per il solo ingresso in composizione (art. 16 CCII), e si possono ottenere autorizzazioni dal tribunale per nuovi finanziamenti prededucibili (art. 22 CCII). Questo incoraggia l’imprenditore a usare la composizione senza timore di provocare un panico creditizio.
  • Durata: la legge inizialmente prevedeva una durata massima di 180 giorni, prorogabile di ulteriori 180. Il correttivo 2024 ha reso la procedura più flessibile, ampliando l’accesso anche se mancano bilanci o se pende un’istanza di fallimento (prima era dubbio), e lasciando più margine al ruolo dell’esperto. Tipicamente, entro pochi mesi (3-6) si cerca di arrivare a un punto.

Finalità dal punto di vista del debitore: la composizione negoziata è pensata per le imprese che non sono ancora insolventi irreversibili, ma attraversano squilibri finanziari o economici potenzialmente risolvibili (“situazione di difficoltà”). Serve a intercettare la crisi “quando è probabile” e non già conclamata. Il vantaggio per il debitore è poter negoziare con i creditori su base volontaria ma con un ombrello protettivo: l’esperto come mediatore aiuta a superare diffidenze, e le misure protettive garantiscono che nel frattempo nessuno faccia colpi di mano (come pignoramenti che paralizzino l’attività). Inoltre l’esperto può suggerire soluzioni creative: ad esempio, consigliare di cedere un ramo, tagliare un certo costo, chiedere cassa integrazione straordinaria (che in composizione è accessibile in deroga per sostenere i costi del personale), e così via.

Esito possibili:

  • Accordo stragiudiziale semplice: Ad esempio, il debitore riesce a farsi concedere nuove dilazioni da banche e fornitori e il supporto di un nuovo investitore, il tutto formalizzato in accordi privati. Se queste intese risolvono la crisi, la composizione si conclude e gli accordi restano fuori da procedimenti formali (magari col sigillo dell’esperto come testimone). Questo ha il vantaggio di minima pubblicità e snellezza. Però se ci sono creditori estranei, restano tali: occorre averli soddisfatti o marginalizzati.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti omologato: spessissimo la composizione negoziata funge da preludio per costruire un accordo ex art.57 CCII. L’esperto aiuta a raccogliere il consenso del 60% dei crediti; una volta ottenute le firme necessarie, il debitore può chiedere l’omologa in tribunale. L’esperto redige la relazione finale positiva e la composizione si chiude; parallelamente parte la fase di omologa in tribunale. È esattamente quello che è successo con Gamma S.n.c. nell’esempio sotto.
  • Piano attestato: se durante la composizione il debitore elabora un piano attestato credibile e tutti i creditori chiave lo accettano, può semplicemente chiudere la composizione con quell’accordo attestato (che non richiede omologa). L’esperto certificherà che c’è un piano attestato ragionevole e fine.
  • Concordato preventivo: se ci vuole coinvolgere tutti i creditori e magari tagliare parte dei debiti e c’è rischio di opposizioni, si può optare per un concordato (preventivo tradizionale). L’esperto può consigliare questa via se vede che non tutti i creditori importanti stanno cooperando. Il CCII consente al debitore, in composizione, di presentare domanda di concordato (anche semplificato) con alcune facilitazioni.
  • Liquidazione controllata: se emerge che l’impresa è decotta e non salvabile, l’esperto può suggerire di passare a liquidazione. Il CCII prevede la liquidazione controllata (procedura per i non fallibili e sovraindebitati) o la liquidazione giudiziale (il “fallimento”). L’imprenditore a quel punto può scegliere di depositare direttamente istanza di liquidazione.
  • Concordato semplificato: come detto, se la composizione fallisce nel trovare un accordo ma c’è un interesse a evitare fallimento, entro 60 giorni dalla relazione finale l’imprenditore può proporre al tribunale un concordato semplificato di sola liquidazione dei beni, senza voto creditori. Questo strumento è utilizzabile limitatamente, ma è un incentivo per il debitore a provare la composizione (male che vada ha ancora quell’uscita di sicurezza per gestire la liquidazione lui invece di subire il fallimento).

Esempio pratico (composizione con esito positivo): Ritorniamo all’esempio di Gamma S.n.c. (cfr. scenario già presentato in parte): Gamma è una PMI familiare tessile, 25 dipendenti, debiti €800k con banche e fornitori (di cui €100k verso Fisco arretrati). A metà 2024 la liquidità scarseggia, il DSCR a 6 mesi < 1 (incassi previsti non coprono uscite) e i sindaci segnalano preoccupazione – classici segnali di crisi. Gamma attiva la composizione negoziata a settembre 2024, viene nominato l’esperto Rossi, esperto del settore. Rossi analizza: c’è sovraindebitamento ma anche un marchio valido e clienti fedeli, quindi ragionevoli prospettive di risanamento. Convoa i principali creditori (2 banche e i fornitori maggiori) per trattare. Gamma nel frattempo chiede al tribunale misure protettive: il giudice emette decreto che sospende le azioni esecutive e blocca i pignoramenti in corso (Gamma aveva già 2 decreti ingiuntivi arrivati). Questo dà respiro durante i 3 mesi di negoziazione. Rossi media e alla fine le parti convergono su un accordo quadro:

  • Le due banche prorogano i finanziamenti di 2 anni, diluendo i pagamenti (quindi minor esborso immediato).
  • I fornitori accettano un piano di rientro all’80% dei loro crediti in 18 mesi.
  • L’Agenzia Entrate concede una rateazione straordinaria di 6 anni sul debito fiscale, senza ulteriori sanzioni (usando strumenti propri di Ag. Entrate).
  • Un investitore locale offre €100k di nuova finanza per Gamma, ottenendo in cambio una quota societaria (equity).

Si redige questo accordo quadro firmato da tutti i creditori qualificati (banche, fornitori principali, l’investitore, e si ha l’ok del Fisco in parallelo). L’esperto attesta che l’accordo è sostenibile e che Gamma può riprendersi (anche grazie a cassa integrazione breve e riduzione di costi fissi concordata con i soci). A quel punto Gamma, avendo oltre il 60% dei crediti firmatari, decide di chiedere l’omologa in tribunale come accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57. Il giudice omologa senza intoppi. Le misure protettive cessano e Gamma, con la nuova finanza e oneri alleggeriti dall’accordo, prosegue l’attività. Nei due anni seguenti paga regolarmente le rate pattuite; la crisi si risolve e nel 2026 esce dall’accordo (si può dire “risanato”). Nessun fallimento, nessuna pubblicità negativa e l’azienda è salva.

Questo case study di Gamma mostra la potenza della composizione negoziata: l’esperto indipendente, agendo quasi da mediatore, ha aiutato a costruire un pacchetto di soluzioni (dilazioni, nuovi apporti, utilizzo ammortizzatori sociali) che ha portato a un accordo omologato, il tutto con minima frizione e salvaguardando la continuità aziendale. Dal lato debitore, Gamma ha beneficiato di:

  • uno stay delle azioni immediato (via misure protettive),
  • negoziazioni facilitate,
  • accesso a nuove risorse (investitore convinto anche dalla cornice semi-ufficiale della composizione),
  • e infine di un accordo omologato che ha messo in sicurezza giuridica il piano.
    Senza la composizione negoziata, probabilmente Gamma avrebbe subito istanze di fallimento a breve.

Conclusione sulla composizione negoziata: è un percorso relativamente nuovo, ancora in evoluzione (il correttivo 2024 ha ampliato il suo raggio d’azione, ad esempio permettendo l’accesso anche se mancano bilanci recenti o se c’è già un’istanza di liquidazione pendente, cosa prima dubbia). Si configura come un “paracadute” per l’imprenditore diligente: se usato appena si intravedono segnali di squilibrio, può evitare che si arrivi alla rottura irreparabile. Va detto che la composizione negoziata non garantisce il successo – dipende molto dalla volontà dei creditori di trovare un accordo – ma offre un contenitore dove provarci seriamente con l’aiuto di un terzo e con supporto normativo. Per il debitore è un’opportunità da cogliere tempestivamente: più tardi la si attiva (ad esempio a insolvenza conclamata e crollo della fiducia), meno margini di manovra rimangono.

Strumenti particolari e ulteriori tutele del debitore

Transazione fiscale e contributiva

Un tema cruciale nelle crisi d’impresa italiane è come gestire i debiti verso il Fisco e gli enti previdenziali (INPS, etc.). Questi debiti godono di privilegi e talvolta di garanzie penali (si pensi all’IVA o alle ritenute non versate, che espongono a reati tributari se sopra certe soglie). Per il debitore in crisi, negoziare con il Fisco è spesso inevitabile data la frequente presenza di ingenti carichi tributari accumulati. La normativa italiana prevede l’istituto della transazione fiscale (già nella L. 3/2012 per sovraindebitati, poi nell’art. 182-ter L.F., oggi rifluito negli artt. 63 e 88 CCII), che consente di includere nel concordato preventivo o negli accordi di ristrutturazione una proposta di trattamento dei crediti tributari e contributivi diversa da pagamento integrale.

Dal 2021-2022, complice anche la direttiva UE, le regole sulla transazione fiscale sono state rese più flessibili:

  • Nel concordato preventivo, è ora possibile proporre il pagamento parziale anche dell’IVA e delle ritenute (prima intoccabili) purché si offra almeno il 10% del loro importo. Questo rimuove il vecchio divieto di falcidia dell’IVA se c’è la transazione fiscale. Restano comunque crediti sensibili: l’Agenzia delle Entrate deciderà se accettare.
  • Negli accordi di ristrutturazione, similmente, si può prevedere una falcidia sui tributi.
  • Il D.Lgs. 136/2024 ha introdotto espressamente il cram-down fiscale: se la proposta al Fisco (in concordato o accordo) è ritenuta equa e la sua adesione era determinante per le maggioranze, il tribunale può omologare anche senza il suo consenso. Questa innovazione ha rimosso di fatto il veto storico del Fisco. Una pronuncia esemplare è quella citata del Tribunale di Vasto (dic. 2024), dove l’accordo è stato omologato nonostante il diniego dell’Erario perché rispettava la regola del best interest e senza quell’adesione non si raggiungeva il 60%. La stessa facoltà di cram-down fiscale vale nel concordato: il giudice può approvare il piano nonostante voto contrario di una classe pubblica dissenziente se la proposta è conveniente e almeno un’altra classe ha detto sì.
  • Importante: per i crediti degli enti locali (es. IMU dovuta al Comune) invece non è previsto il cram-down, rimangono fuori dall’ambito di transazione secondo il correttivo. Quindi quelli vanno pagati a parte o vanno portati anch’essi al tavolo se possibile.

Per il debitore, la transazione fiscale è sia un’opportunità che una necessità: opportunità perché permette di ridurre l’importo dei debiti fiscali (spesso tra i maggiori) e rateizzarli nell’ambito di un piano; necessità perché senza regolare il debito fiscale difficilmente la crisi può risolversi. L’importante è strutturare una proposta che il Fisco possa accettare: in genere l’Agenzia valuta piani che offrano almeno la migliore soddisfazione possibile compatibile con la continuità o con la liquidazione, e guarda con favore l’imprenditore che agisce trasparentemente. Le soglie normative (il 10% minimo per IVA ad esempio) sono indicazioni, ma in pratica più si offre meglio è per convincere l’Erario. E se l’Erario comunque dicesse no per rigidità? Ecco che subentra il cram-down a salvare il piano, come ultima risorsa, evitando ingiustizie (perché magari quell’“irriducibile” verrebbe comunque soddisfatto più che in fallimento).

Finanziamenti prededucibili e tutela dei nuovi apporti

Abbiamo anticipato più volte che uno dei punti cardine per favorire l’afflusso di risorse durante la crisi è garantire chi finanzia un’azienda decotta. Senza garanzie normative, banche o investitori non darebbero un soldo a un’impresa sull’orlo del fallimento, per timore di perderlo o vederselo restituire forzatamente dal curatore. Le riforme italiane (già col DL 83/2015 e poi art. 182-quater L.F., ora trasfuse negli artt. 99-101 CCII) hanno predisposto un sistema di incentivi:

  • Finanza interinale autorizzata (DIP financing): se l’impresa deposita una domanda di concordato “in bianco” o è in composizione negoziata, può chiedere al tribunale di autorizzare finanziamenti necessari alla continuità aziendale, riconoscendo a tali crediti il diritto di prededuzione. Questo tranquillizza il finanziatore ponte: se poi l’azienda fallisce, verrà pagato prima di altri creditori. Per esempio, un istituto può concedere un prestito per pagare materie prime critiche durante il concordato, sapendo di essere privilegiato in caso di fallimento.
  • Finanza nel piano omologato: tutti i finanziamenti (banche, soci, terzi) previsti dal piano di concordato o accordo omologato godono di prededuzione ex lege. Ciò rassicura chi deve sborsare soldi nell’ambito del piano approvato dai creditori – tipicamente le nuove linee bancarie o i nuovi fornitori “strategici”.
  • Esonero da revocatoria: non solo per piani attestati come detto, ma anche per pagamenti effettuati durante la composizione negoziata su autorizzazione e per atti coerenti con il piano di risanamento in genere c’è protezione. Ad esempio, i pagamenti ai fornitori effettuati regolarmente durante il concordato (fatti con autorizzazione del tribunale per proseguire l’attività) non sono revocabili. Similmente, quanto pagato in esecuzione di un accordo omologato o di un piano attestato è salvo.
  • Postergazione dei finanziamenti soci: regola inversa, ma da tener presente. In condizioni di sotto-capitalizzazione, i versamenti o prestiti dei soci fatti in periodo di crisi possono essere considerati capitale di rischio anziché debito, quindi se l’azienda fallisce i soci vengono soddisfatti dopo gli altri creditori (art. 2467 c.c.). Questa norma serve a scoraggiare i soci dal fare finta di fare equity quando invece fanno debito. Tuttavia, se il finanziamento socio è previsto da un piano attestato o concordatario, si evita la postergazione di legge. Dunque, conviene formalizzare i nuovi apporti soci all’interno di questi strumenti (magari come versamenti a fondo perduto o capitalizzazioni). Anche il CCII prevede che in concordato le nuove risorse apportate dai soci PMI, anche in forma di lavoro personale, non contano nel confronto di priorità, un incentivo per i soci a contribuire al salvataggio.

In sostanza, il legislatore ha creato un ambiente dove, se il debitore predispone un piano ragionevole e lo sottopone a certificazione o approvazione, i soggetti che lo sostengono finanziariamente vengono premiati con uno status privilegiato. Ciò dal punto di vista del debitore significa potersi sedere al tavolo con potenziali finanziatori (banche, investitori terzi, soci stessi) e dire: “Se mi dai liquidità ora, quei soldi saranno protetti: o esco dalla crisi e te li restituisco regolarmente, oppure se disgraziatamente dovessimo fallire, tu sarai tra i primi ad essere rimborsato e nessuno potrà attaccarti per avermi dato credito”. Questa assicurazione spesso fa la differenza nel convincere le banche a erogare quel finanziamento-ponte senza il quale il piano non partirebbe.

Modelli e strumenti operativi per il risanamento

Redazione di un business plan e di un piano di risanamento

Qualsiasi percorso di autofinanziamento e ristrutturazione parte da un piano dettagliato. Abbiamo visto i requisiti del piano attestato; ma in generale, sia per chiedere una moratoria ai creditori, sia per presentare un concordato o convincere un investitore, serve un solido business plan che dimostri come l’impresa uscirà dalla crisi. Gli elementi imprescindibili:

  • Analisi diagnosi: una sezione iniziale che spieghi le cause della crisi (es. perdita di mercato, inefficienze, eventi esterni) e quantifichi l’entità del deficit finanziario da colmare. Questo include analisi di bilancio (indici di liquidità, DSCR, posizione finanziaria netta, ecc.).
  • Strategia di risanamento: elencare specificamente le azioni correttive previste. Esempio: “Riduzione costi del personale del 20% tramite solidarietà, chiusura filiale X, dismissione cespite Y per 500k €, rinegoziazione fido con Banca Z, nuovo capitale da socio per 200k, lancio nuova linea prodotto per aumentare ricavi del 15% annuo”. Ogni azione deve avere un impatto finanziario stimabile.
  • Piano finanziario a medio termine: tipicamente un prospetto su 3 o 5 anni con conto economico, stato patrimoniale e rendiconto finanziario previsionali. In particolare, è cruciale il cash flow forecast: mese per mese (o trimestre per trimestre) bisogna mostrare come l’azienda userà le risorse interne ed esterne per pagare i debiti e contemporaneamente sostenere l’attività corrente. Va evidenziato come si ripristina l’equilibrio di cassa (quando incassi e uscite tornano allineati con margine).
  • Calendario dei pagamenti ai creditori: un dettaglio, spesso in forma tabellare, di chi verrà pagato, quanto e quando. Se ci sono classi, indicare la percentuale di soddisfo proposta per ciascuna. Ad esempio: “Banche ipotecarie: 100% entro 6 mesi grazie a vendita immobile; Fornitori privilegiati: 60% in 12 mesi; Chirografari: 30% in 5 anni; Erario: transazione 50% in 4 anni; …”. Questa è la sostanza che interessa ai creditori per il voto o l’adesione.
  • Indicatori di fattibilità: calcoli come il DSCR (Debt Service Coverage Ratio) nei vari anni, l’EBITDA previsto e come copre il servizio del debito ristrutturato, l’evoluzione della PFN (posizione finanziaria netta). Ad esempio, se il DSCR < 1 per tutti gli anni, il piano non è fattibile. Si punta ad avere un DSCR > 1 già dal primo anno post-risanamento o, se non possibile, giustificare perché è accettabile.
  • Sensitività e rischi: riconoscere i principali rischi (es. “il piano assume crescita ricavi 10% annuo, se fosse 5% i flussi basterebbero comunque?”) e magari includere scenari alternativi. Ciò rassicura i creditori che il debitore ha valutato ipotesi prudenziali.

Un format operativo spesso usato è presentare il piano in due documenti:

  1. una Relazione descrittiva (word/pdf) con la narrazione delle cause e delle strategie,
  2. un Allegato finanziario (tipicamente un file Excel o tabelle nel documento) con i numeri dettagliati. Alcuni piani più sofisticati includono anche indicatori di allerta interna per monitorare l’andamento (ad esempio, si fissano parametri trimestrali che, se sforati, indicano che il piano sta deragliando).

Nel contesto italiano avanzato, ci sono anche i “Principi per la redazione dei piani di risanamento” emanati da CNDCEC e altre istituzioni (come documento di best practice). Questi principi sottolineano: attendibilità dei dati, ipotesi realistiche, coerenza tra dati finanziari e industriali, coinvolgimento di figure esperte (es. per valutare eventuali perizie di valutazione se il piano implica cessione di asset occorre stime di periti sul valore di realizzo, ecc.). Un professionista attestatore seguirà tali linee guida per decidere se dare il “crisma” di fattibilità al piano.

Esempio di struttura di Business Plan Risanatorio:

  • 1. Executive Summary: sintesi della situazione e della proposta di risanamento (1-2 pagine).
  • 2. Analisi della crisi: presentazione dell’azienda, mercato, e cause specifiche del dissesto; tavole con principali indicatori pre-crisi (es. calo EBITDA, aumento debiti finanziari, DSCR, ecc).
  • 3. Strategia di rilancio: descrizione qualitativa delle misure (taglio costi, investimenti, cessioni, nuovi prodotti, riorganizzazione).
  • 4. Proiezioni economico-finanziarie: bilanci previsionali a 3-5 anni con assunzioni di base (es. tasso crescita ricavi, margini, miglioramento capitale circolante); rendiconto finanziario previsto.
  • 5. Dettaglio del piano di ristrutturazione del debito: tabella con elenco creditori o classi, importo dovuto, importo proposto in pagamento, tempistica e eventuali garanzie offerte. Evidenziare percentuali di soddisfo e confrontarle con stima di soddisfo in scenario liquidatorio (per mostrare convenienza).
  • 6. Fonti e impieghi: se entrano nuove risorse (nuovi finanziamenti, equity, dismissioni), mostrare come vengono impiegate (es. €X aumento capitale destinato a pagamento debiti tributari; €Y vendita immobile destinato a pagare banca…).
  • 7. Attestazione (se piano asseverato): riportare in allegato la relazione del professionista indipendente che assevera i dati e conferma che, a suo giudizio, il piano è fattibile e i creditori estranei saranno regolarmente soddisfatti.
  • 8. Allegati: bilanci storici, relazioni di stima (valore immobili o assets se vendesi), elenco analitico creditori con indicazione di chi aderisce o no, calcolo analitico degli indici (es. DSCR) magari in un foglio di lavoro.

Checklist operativa per il debitore in crisi (punto di vista pratico)

  1. Verificare tempestivamente gli indizi di crisi: incagli su pagamenti, indicatori in rosso, sindaci che segnalano, ecc. → Non ignorarli, ma attivarsi subito (prima si agisce, più soluzioni disponibili).
  2. Coinvolgere consulenti esperti: un advisor finanziario e un legale di fiducia possono aiutare a valutare le opzioni (piano interno, accordo, concordato).
  3. Predisporre un budget di cassa di breve periodo: capire quanta liquidità serve per i prossimi 6-12 mesi per evitare default immediati. Ciò orienta a chiedere eventuali misure urgenti (moratorie, fidi emergenza).
  4. Iniziare interlocuzioni informali coi principali creditori: sondare banche e fornitori se c’è apertura a discutere ristrutturazioni (capire mood, perché se tutti sono chiusi, forse conviene subito il concordato).
  5. Scegliere lo strumento più idoneo: col supporto dei consulenti, decidere se restare su un piano privato (se pochi creditori e collaborativi) o se avviare procedura (composizione, accordo, concordato). Considerare dimensioni impresa e soglie (es. impresa minore potrebbe dover usare concordato minore e non quello grande).
  6. Attivare eventualmente la composizione negoziata: se c’è incertezza, spesso questo è a costo contenuto e reversibile e dà subito protezione.
  7. Selezionare un attestatore credibile: per piani o accordi, individuare un professionista stimato il cui giudizio dia fiducia ai creditori.
  8. Comunicare in buona fede e trasparenza: con i creditori, il dialogo deve essere franco. Nascondere problemi peggiora la fiducia. Fornire loro informazioni veritiere (i documenti attestati servono anche a quello).
  9. Eseguire i passi legali formali correttamente: depositare domande al tribunale per misure protettive, per omologhe, ecc. nei tempi e modi giusti (pena decadimento protezioni).
  10. Durante l’attuazione del piano, rispettarlo rigorosamente: ogni scostamento va comunicato e magari rinegoziato. Se il piano prevede pagamento trimestrale del 5% ai chirografari, occorre farlo senza ritardi, altrimenti si perde la fiducia residua e si aprono le porte alle risoluzioni e azioni.

Domande frequenti (FAQ)

D: In che modo l’“autofinanziamento” differisce dal prendere un normale prestito in banca?
R: L’autofinanziamento consiste nell’uso di risorse interne o generate dall’azienda stessa per finanziare le esigenze d’impresa, mentre un prestito bancario è un finanziamento esterno da terzi. Ad esempio, reinvestire l’utile invece di distribuirlo, o posticipare il pagamento di fornitori per trattenere liquidità, sono forme di autofinanziamento; contrarre un nuovo mutuo invece aumenta l’indebitamento. Nella crisi, l’autofinanziamento riduce la dipendenza da nuovo debito e spesso è l’unica via se le banche chiudono i rubinetti. Inoltre, alcune forme di autofinanziamento indiretto (come le moratorie accordate) non generano oneri finanziari immediati, mentre un nuovo prestito comporta interessi e richiede capacità di rimborso. In sintesi: l’autofinanziamento è “finanziare sé stessi con i propri mezzi (o col tempo)”, il prestito è ottenere soldi freschi ma che vanno restituiti a un creditore.

D: Quali sono le principali forme di autofinanziamento diretto per un’impresa in bonis?
R: In condizioni normali, l’autofinanziamento diretto avviene soprattutto tramite utili non distribuiti e accantonamenti. L’utile trattenuto a riserva aumenta il patrimonio netto e resta a disposizione dell’impresa per investimenti futuri o per rafforzare la liquidità. Gli ammortamenti e gli accantonamenti a fondi rischi, pur essendo costi, generano risparmio d’imposta e non implicano esborso di cassa, accumulando così risorse interne (detti a volte autofinanziamento “improprio”). Altre forme: la vendita di beni obsoleti per reinvestire il ricavato, la riduzione volontaria di compensi o dividendi da parte di amministratori e soci, o l’apporto di capitale da parte dei soci (quest’ultimo in realtà è un finanziamento esterno ma “dalla proprietà”, quindi spesso assimilato ad autofinanziamento in senso lato). In anni recenti, lo Stato ha incentivato l’autofinanziamento diretto con misure fiscali: ad esempio l’“IRES premiale” al 20% per chi reinveste almeno l’80% degli utili in azienda e aumenta l’occupazione (introdotta dalla Legge di Bilancio 2025), che di fatto premia la patrimonializzazione. In sintesi, qualsiasi flusso di cassa che rimane nell’impresa invece di uscire (per dividendi, prelievi, ecc.) è autofinanziamento diretto.

D: Perché moratorie e dilazioni sono considerate forme di autofinanziamento indiretto?
R: Perché posticipare i pagamenti dovuti equivale, dal punto di vista finanziario, a ottenere un prestito per il periodo di dilazione senza incassare effettivamente denaro. Ad esempio, se non pago un fornitore oggi €100.000 e questo accetta di farsi pagare fra 6 mesi, è come se il fornitore mi avesse finanziato €100.000 per 6 mesi a costo zero (o al costo di un modesto interesse di mora concordato). L’impresa mantiene in cassa quella somma per ulteriori 6 mesi, migliorando il proprio fabbisogno finanziario nel breve termine. Analogamente, una moratoria bancaria sulle rate di mutuo (sospendendo la quota capitale per un anno) lascia all’azienda i soldi che altrimenti avrebbe usato per rimborsare capitale in quell’anno, denaro che può impiegare altrove. Si parla di autofinanziamento “indiretto” perché avviene per effetto di accordi sul passivo (lato uscite) e non per introiti propri; è “come se” i creditori finanziassero temporaneamente l’impresa rinunciando a esigere subito i crediti. Ovviamente non è sostenibile all’infinito – prima o poi si deve pagare – ma in ottica di breve periodo è ossigeno finanziario che l’impresa si procura da sé grazie al dialogo coi creditori, e non grazie a nuovi apporti.

D: Che differenza c’è tra una dilazione e la convenzione di moratoria ex art. 62 CCII?
R: La dilazione in genere è un accordo bilaterale con il singolo creditore per spostare in avanti la scadenza di un pagamento o suddividerlo a rate. Non ha un inquadramento procedurale specifico, è materia di autonomia contrattuale: ad esempio un semplice accordo scritto “pagherò in 6 rate mensili”. La convenzione di moratoria ex art. 62 è invece un accordo multilaterale e strutturato, che coinvolge una categoria di creditori, ha requisiti di maggioranza (75%) e richiede un’attestazione di un professionista, potendo estendere gli effetti anche ai creditori minoritari dissenzienti. In pratica, la convenzione di moratoria è una sorta di dilazione collettiva formalizzata: serve quando si vuole dare efficacia generale allo standstill, coinvolgendo magari tutte le banche o tutti i leasing. Inoltre, la convenzione è inserita nel novero degli strumenti di regolazione della crisi e prevede forme di controllo (possibile opposizione in tribunale dei dissenzienti), cosa assente in una dilazione individuale dove chi non ci sta può agire liberamente. In sintesi: con la dilazione comune se un creditore non aderisce può comunque agire, con la convenzione ex art. 62 se hai il 75% di una categoria a favore, il dissenziente di quella categoria può essere bloccato (fermo restando che non gli imponi nuovi oneri). La convenzione è dunque uno strumento collettivo con efficacia semi-erga omnes, la dilazione è un semplice patto uno a uno.

D: Quando conviene tentare un piano attestato di risanamento invece di andare subito in concordato?
R: Conviene optare per un piano attestato (stragiudiziale) quando:

  • Si ritiene di poter ottenere un consenso quasi unanime dai creditori chiave senza bisogno di vincolare coattivamente nessuno (es. poche banche e fornitori principali sono disponibili a collaborare).
  • L’azienda ha interesse a mantenere la riservatezza sulla crisi (evitando la pubblicità del concordato) e a fare in fretta senza attendere procedure lunghe.
  • La crisi è ancora gestibile internamente, magari perché i debiti non sono eccessivamente frammentati e non c’è un rischio concreto di azioni legali immediate da terzi.
  • Si vuole beneficiare subito delle esenzioni da revocatoria e protezioni legali per i nuovi finanziamenti, ma senza gli oneri di un procedimento giudiziario.
    In pratica, il piano attestato è ideale per crisi “mediate”, dove c’è ancora fiducia reciproca e non serve la forza cogente del tribunale. Per contro, se già sai che qualche creditore importante non accetterà l’accordo volontario o se hai necessità di bloccare tutti i creditori immediatamente (cosa che solo un concordato/accordo omologato può fare erga omnes), allora saltare direttamente al concordato può essere opportuno. Il vantaggio del piano attestato è la flessibilità e velocità – nessuna procedura pubblica – ma il rovescio è che non vincola i dissenzienti. Quindi conviene quando i dissenzienti o non ci sono o sono pagabili a parte. Se sei in dubbio, spesso si tenta prima la via stragiudiziale (anche perché puoi sempre passare a concordato in un secondo momento se fallisce). Tieni presente che anche a livello di costi: un piano attestato comporta il compenso per l’attestatore ma non ha le spese di procedura di un concordato (commissari, ecc.), quindi se le condizioni lo permettono è più economico e soft.

D: Cos’è e quando si utilizza il concordato semplificato per la liquidazione?
R: Il concordato semplificato per la liquidazione è una procedura speciale introdotta nel 2021 (art. 25-sexies CCII) riservata al caso in cui una composizione negoziata della crisi non abbia prodotto soluzioni. In sostanza, se l’imprenditore ha tentato la composizione negoziata ma non è riuscito a concludere accordi con i creditori per salvare l’azienda, egli – entro 60 giorni dalla relazione finale dell’esperto – può presentare al tribunale una proposta di concordato liquidatorio senza passare per il voto dei creditori. È “semplificato” perché:

  • Non c’è la fase di ammissione e voto delle classi: i creditori non votano affatto, il tribunale decide direttamente sull’omologazione valutando la proposta (sentiti eventuali opponenti).
  • Può essere presentato anche se l’azienda è ormai ferma: serve a liquidare i beni residui in modo ordinato, magari vendendoli a un assuntore già individuato.
    In pratica lo si usa quando l’esito della composizione negoziata è negativo e l’unica strada è liquidare, ma si vuole evitare il fallimento, preferendo una liquidazione concordataria rapida. È un modo per “premiare” il debitore che ha tentato di risanare in bonis: non gli fai fare il fallimento classico, gli consenti di proporre come smaltire i beni (ad esempio vendendo in blocco l’azienda ad un prezzo concordato) e ripartire il ricavato ai creditori. Si utilizza raramente, soprattutto per PMI non fallibili o casi dove il fallimento sarebbe dispersivo. Dal punto di vista del debitore è utile perché comunque chiude la partita con i creditori più velocemente e con meno stigma di un fallimento, e permette anche in teoria di richiedere l’esdebitazione per la persona (nel sovraindebitamento c’è il “concordato minore” simile a questo). In sintesi: è un’uscita di emergenza se la composizione negoziata non trova un accordo di risanamento e bisogna liquidare, consentendo di farlo sotto controllo del tribunale ma senza passare per tutto l’iter fallimentare.

D: I soci dell’azienda possono mantenere la proprietà dopo una ristrutturazione del debito?
R: Dipende dallo strumento utilizzato e dall’apporto che i soci danno. In un piano attestato o accordo stragiudiziale, i soci possono benissimo restare proprietari: se non c’è procedura concorsuale, non c’è imposizione di perdere le partecipazioni. Tuttavia, se i soci non immettono risorse fresche, spesso i creditori (soprattutto le banche) chiedono qualche sacrificio ai soci come condizione del piano, ad esempio la diluizione tramite aumento di capitale sottoscritto da terzi o la rinuncia a crediti dei soci verso la società. In ambito concordatario, la legge prevede meccanismi per cui i soci non possono opporsi a modifiche dell’assetto proprietario necessarie per il risanamento: ad esempio, gli amministratori possono proporre aumenti di capitale con esclusione del diritto d’opzione nel piano senza dover chiedere autorizzazione all’assemblea; inoltre durante il concordato i soci non possono revocare gli amministratori per il solo fatto che accedono a uno strumento di crisi. Questo per evitare che i soci blocchino soluzioni (tipicamente, soci che non vogliono perdere controllo potrebbero opporsi a un piano che preveda ingresso di nuovi investitori: la legge glielo impedisce). Se nel concordato è previsto che i soci mantengano una quota di proprietà, essi devono essere inseriti in una classe di voto e possono votare come una classe di creditori, ma con regole particolari (mancato voto = assenso). Tuttavia, va rispettata la regola che i creditori dissenzienti non ricevano meno perché ai soci viene lasciato qualcosa (priorità relativa). In concreto, nei concordati liquidatori i soci di solito perdono tutto (il capitale è azzerato dalle perdite), nei concordati in continuità i soci potrebbero conservare la società se trovano un accordo con i creditori, ad esempio impegnandosi a versare nuovi fondi. Spesso, come condizione per l’omologa, ai soci viene chiesto un sacrificio: o perdono quote a favore dei creditori (debt-equity swap) o immettono capitali. Se lo fanno, possono mantenere una parte dell’azienda. Perciò la risposta è: sì, i soci possono mantenere la proprietà, ma quasi sempre a patto di contribuire al risanamento e comunque senza pregiudicare il diritto dei creditori a priorità nel recupero. In nessun caso i soci possono conservare valore se i creditori non vengono soddisfatti almeno in misura equa (non può accadere che i soci escano illesi mentre i creditori subiscono perdite). La legge dichiara inefficaci i patti che darebbero ai creditori facoltà di risoluzione contratti in caso di cambio di controllo dovuto a ristrutturazione, proprio per facilitare eventuali passaggi di proprietà necessari. Insomma, i soci non hanno la garanzia di restare, dipende dal piano di soluzione: se serve farli uscire o diluirli perché entri un investitore o perché i creditori convertano crediti in capitale, ciò avverrà. Se la crisi si risolve con i soci ancora dentro (perché hanno sostenuto essi stessi l’azienda e i creditori sono pagati) allora possono restare proprietari.

D: Quali rischi corrono gli amministratori quando attuano un piano di risanamento poi fallito?
R: Gli amministratori hanno una responsabilità delicata. Se agiscono correttamente e in buona fede per il risanamento, la legge tende a tutelarli. Ad esempio, l’art. 21 CCII li obbliga, in crisi, a gestire senza aggravare il dissesto e a attivarsi immediatamente per trovare soluzioni. Quindi un amministratore che attiva un piano di risanamento tempestivamente adempie ai suoi doveri. Tuttavia, se il piano è inidoneo o condotto in modo fraudolento, potrebbero sorgere rischi:

  • Rischi civilistici: se durante l’esecuzione del piano fanno atti pregiudizievoli (ad esempio pagano preferenzialmente qualche creditore fuori piano peggiorando la situazione), in un successivo fallimento quei pagamenti potrebbero essere revocati e gli amministratori potrebbero essere chiamati a risponderne (azione di responsabilità per aver leso la par condicio). Anche l’attestatore può avere responsabilità se rilascia una relazione negligente o falsa.
  • Rischi penali: l’esempio classico è il reato di bancarotta fraudolenta. La Cassazione (Cass. pen. n. 8926/2016) ha detto chiaramente che compiere atti distrattivi sotto copertura di un piano attestato non esime da responsabilità penale. Quindi se gli amministratori, “in nome del piano”, sviano beni o favoriscono qualcuno e poi il piano fallisce, possono essere incriminati. Altro rischio penale è per l’attestatore: omettere informazioni rilevanti nell’attestazione è equiparato a mendacio (falso), con responsabilità penale (c’è stato un caso di Cassazione 2020 su attestatore e condotte omissive punibili).
  • Rischio di azione dei creditori dissenzienti: se un creditore sente di essere stato danneggiato da un piano malfatto, potrebbe tentare azioni in sede civile contro gli amministratori (non frequente ma teoricamente possibile, es. accusandoli di abuso del piano solo per ritardare il fallimento).
    In generale, se il piano è serio e onesto, i pagamenti fatti sono protetti (no revocatoria), e l’amministratore difficilmente avrà guai. Anzi, la legge gli impone di provarci. Ma se il piano era chiaramente irrealistico e serviva solo a prendere tempo, gli amministratori possono essere accusati di mala gestio per aggravamento del dissesto. Il CCII sottolinea il dovere di attivarsi presto: aspettare troppo e bruciare cassa in tentativi tardivi può costituire inadempimento (anche su questo Cassazione è intervenuta, sanzionando amministratori che procrastinavano l’inevitabile insolvendo patrimonio). Quindi il rischio maggiore è non attivarsi o attivarsi tardi – in quel caso i creditori o il curatore potranno citarli per danni. Invece, agire per tempo con un piano ragionato è spesso considerato comportamento diligente, anche se poi il fallimento dovesse arrivare. Detto ciò, ogni situazione può essere valutata in sede giudiziaria: un piano di risanamento fallito non comporta automaticamente colpa degli amministratori, a meno che emergano elementi di imperizia o dolo (esempio: attestatore e amministratori collusi nel dipingere un quadro troppo roseo – sarebbe grave). In conclusione, gli amministratori devono predisporre piani realistici e documentati e non usarli per guadagnare tempo a detrimento dei creditori, altrimenti rischiano sul piano legale.

D: Un piccolo imprenditore “sotto soglia” può accedere a queste procedure o solo al sovraindebitamento?
R: Il nuovo Codice della crisi ha eliminato molte distinzioni tra fallibili e non fallibili. Oggi anche l’imprenditore minore (che non supera i limiti di art. 2 CCII: attivo 300k, ricavi 200k, debiti 500k) può utilizzare diversi strumenti, con alcuni adattamenti:

  • Può certamente fare un piano attestato di risanamento (l’art. 56 non esclude i piccoli, e la convenzione di moratoria art. 62 pure è applicabile interpretativamente).
  • Può accedere alla composizione negoziata (nessun limite di dimensione per quella, anzi è consigliata anche alle microimprese).
  • In caso di procedura concorsuale vera e propria, l’imprenditore minore non fallibile (ad esempio impresa commerciale individuale sotto soglia, o start-up innovativa protetta nei primi 5 anni) non va in liquidazione giudiziale ma nelle procedure di sovraindebitamento (ora riunite nel CCII Titolo II Capo IX):
    • Ha a disposizione l’accordo di ristrutturazione dei debiti per imprenditore minore (accordo minore ex art. 65 CCII) – simile a un concordato minore con i creditori.
    • Oppure il concordato minore (art. 74 CCII) se vuole proporre una soluzione concorsuale semplificata con struttura debiti ridotta.
    • Oppure la liquidazione controllata del suo patrimonio (art. 268 CCII) in caso di decozione, con esdebitazione finale.
      Queste procedure sono tarate sui piccoli (ad esempio, il concordato minore non richiede classi necessariamente).
  • Per le società di persone o piccole srl sotto soglia, la giurisprudenza per un po’ fu incerta se potessero accedere al concordato preventivo “normale”; il CCII adesso prevede il “concordato minore” per le imprese minori. Quindi un piccolo imprenditore opterà per quello (che è di competenza del tribunale comunque).
    In sostanza, oggi nessuno è escluso da strumenti di gestione della crisi: se sei piccolo userai i modelli semplificati di sovraindebitamento (accordo minore, concordato minore). Per esempio, un artigiano sotto soglia può presentare un piano del consumatore/imprenditore o un accordo minore in tribunale per farselo omologare anche se i creditori non votano, purché garantisca il pagamento di certe percentuali minime (il CCII ha integrato la L.3/2012).
    Va notato che la start-up innovativa ha una protezione speciale: entro i primi 5 anni non può essere dichiarata fallita (né liquidazione giudiziale) – come nell’esempio Beta S.r.l. in cui l’attesa del 5° anno ha fatto la differenza. Una recente Cassazione 1587/2024 ha confermato che allo scadere esatto del quinquennio la protezione cessa, senza attendere la cancellazione dal registro startup. Quindi in quel caso l’imprenditore deve eventualmente agire prima (concordato minore ad es.) se vuole evitare il fallimento al giorno 366 del quinto anno.
    In conclusione, anche la micro-impresa ha strumenti dedicati, solo calibrati per realtà minori e debiti non colossali. Il Codice della crisi ha unificato sotto un unico tetto vari istituti, offrendo un ventaglio adatto a tutte le dimensioni.

L’azienda ha problemi di liquidità? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Quando un’impresa attraversa una fase di difficoltà economica o di crisi, il primo pensiero è chiedere nuovi prestiti o ricorrere a finanziamenti esterni.
Ma spesso la soluzione più solida è già all’interno dell’azienda: si chiama autofinanziamento, ovvero la capacità di sostenere la gestione e ripianare i debiti con risorse proprie.

È uno strumento che riduce la dipendenza da banche e investitori, aumenta l’affidabilità verso i creditori e consente un recupero graduale, ma stabile.


Cos’è l’autofinanziamento aziendale?

L’autofinanziamento è l’insieme delle risorse che l’impresa riesce a generare internamente, senza ricorrere a capitale di terzi.
Include:

  • Utili non distribuiti
  • Ammortamenti e accantonamenti
  • Riduzione dei costi operativi
  • Smobilizzo di crediti e magazzino
  • Razionalizzazione della struttura aziendale

Queste risorse possono essere reinvestite per coprire debiti, riequilibrare i flussi di cassa o sostenere un piano di ristrutturazione.


Quali sono i principali tipi di autofinanziamento in caso di crisi?

Ecco le forme più efficaci di autofinanziamento aziendale in situazioni critiche:

  • Autofinanziamento tecnico: attraverso ammortamenti, accantonamenti e riserve
  • Autofinanziamento operativo: generato dalla gestione quotidiana, grazie alla riduzione di costi inutili e maggiore efficienza
  • Autofinanziamento da dismissione: vendita di beni non strategici o cespiti inutilizzati
  • Recupero crediti: attuato con strategie più aggressive e mirate
  • Ridefinizione del ciclo finanziario: accelerare gli incassi e posticipare i pagamenti in modo equilibrato
  • Aumento della produttività interna senza investimenti esterni

Tutte queste strategie devono essere parte di un piano coordinato e sostenibile, preferibilmente affiancato da un professionista esperto.


🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Analizza il bilancio e individua le risorse interne attivabili
📑 Ti aiuta a strutturare un piano di autofinanziamento credibile e legalmente efficace
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✍️ Ti rappresenta nei rapporti con i creditori e nella rinegoziazione del debito
🔁 Ti assiste anche nella tutela del patrimonio aziendale e personale durante la fase critica


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto della crisi d’impresa e ristrutturazione finanziaria
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per PMI, aziende familiari e professionisti in difficoltà
✔️ Consulenza per difesa patrimoniale e nella continuità aziendale


Conclusione

L’autofinanziamento non è solo una scelta “di emergenza”: è spesso l’unica strategia intelligente per uscire dalla crisi senza ricorrere a nuovi debiti.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi valorizzare le risorse interne dell’impresa, proteggere l’attività e costruire un piano di risanamento sostenibile e concreto.

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