Hai un’attività in difficoltà e ti stai chiedendo cosa succede se l’azienda fallisce, quali sono le conseguenze e chi rischia di pagare i debiti? Vuoi sapere cosa comporta davvero il fallimento aziendale e se puoi evitarlo prima che sia troppo tardi?
Il fallimento, oggi chiamato liquidazione giudiziale, è l’estrema conseguenza della crisi d’impresa. Comporta la perdita del controllo dell’azienda, la nomina di un curatore e l’aggressione sistematica del patrimonio aziendale e personale (in certi casi). Ma può essere evitato, se si agisce in tempo con strumenti legali adeguati.
Cos’è il fallimento aziendale?
È una procedura giudiziale che si apre quando l’impresa non è più in grado di pagare i propri debiti in modo stabile e irreversibile. Il tribunale, su istanza dei creditori o della stessa azienda, dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale.
Cosa succede dopo la dichiarazione di fallimento?
– L’imprenditore perde il potere di gestire e disporre dei beni aziendali
– Viene nominato un curatore fallimentare, che subentra nella gestione
– L’attività, se ancora aperta, può essere chiusa o ceduta
– Tutti i beni vengono inventariati e messi a disposizione dei creditori
– Si blocca ogni azione esecutiva individuale (pignoramenti, fermi, ipoteche)
Chi può fallire?
– Imprese individuali o società che superano determinati limiti dimensionali
– L’imprenditore minore non fallisce, ma accede ad altre procedure (come la composizione negoziata o il concordato minore)
Cosa comporta il fallimento per l’imprenditore?
– Perdita totale del controllo sull’impresa e sui beni coinvolti
– Rischio di responsabilità personali (soprattutto per amministratori e soci illimitatamente responsabili)
– Impossibilità di esercitare attività commerciale fino alla chiusura della procedura
– Possibili azioni di responsabilità o revocatorie per operazioni sospette fatte prima del fallimento
– Difficoltà di accesso al credito futuro e danni reputazionali
E per i dipendenti, fornitori e clienti?
– I dipendenti possono accedere al Fondo di Garanzia INPS per TFR e stipendi
– I fornitori diventano creditori nella procedura, ma non sempre recuperano tutto
– I clienti con acconti versati rischiano di perdere la somma o ricevere parziali rimborsi
Si può evitare il fallimento?
Sì, ma bisogna intervenire prima della dichiarazione di insolvenza, usando strumenti come:
– Composizione negoziata della crisi
– Concordato preventivo o semplificato
– Accordi di ristrutturazione dei debiti
– Piano attestato di risanamento
Cosa NON devi fare se temi il fallimento?
– Continuare a fare debiti per “tirare avanti”
– Intestare beni a terzi per sottrarli ai creditori
– Aspettare l’istanza dei fornitori o del Fisco senza muoverti
– Chiudere improvvisamente l’attività senza affrontare il debito legalmente
Il fallimento non è una condanna automatica. Ma se non agisci, lo diventa.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa e procedure concorsuali – ti spiega cosa comporta il fallimento aziendale, quali rischi comporta per l’imprenditore e come evitarlo usando gli strumenti giusti prima che sia troppo tardi.
La tua attività è in crisi e temi l’insolvenza? Vuoi sapere se puoi ancora intervenire prima che parta una procedura fallimentare?
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Introduzione
Il termine fallimento aziendale – nel linguaggio giuridico italiano – indica la procedura concorsuale di liquidazione giudiziale che si apre quando un’impresa non è più in grado di pagare regolarmente i propri debiti. A partire dal 15 luglio 2022, con l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 14/2019), il tradizionale fallimento è stato formalmente rinominato in liquidazione giudiziale. Questo cambiamento terminologico rispecchia una volontà del legislatore di attenuare lo stigma storico legato alla parola “fallito” e di concentrare l’attenzione sugli aspetti organizzati e ordinati della procedura liquidatoria. Dal punto di vista sostanziale, tuttavia, la liquidazione giudiziale ricalca in larga parte la precedente disciplina fallimentare, salvo significative innovazioni introdotte per favorire soluzioni alternative e il fresh start del debitore onesto.
In questa guida approfondiremo cosa comporta il fallimento di un’azienda secondo la normativa italiana aggiornata a giugno 2025. Verranno esaminate le condizioni in cui un’impresa può essere dichiarata fallita, gli effetti giuridici della sentenza di fallimento (liquidazione giudiziale) – sia sugli imprenditori e i loro beni, sia sui creditori – e l’iter della procedura fino alla chiusura ed all’esdebitazione (liberazione dai debiti residui). Saranno inoltre presentate le procedure alternative al fallimento previste dal nuovo Codice della crisi (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, composizione negoziata, procedure di sovraindebitamento, ecc.), utili a prevenire o evitare la liquidazione giudiziale quando possibile. Il taglio dell’esposizione è tecnico e aggiornato (pensato per avvocati, imprenditori e consulenti), ma con un linguaggio il più possibile chiaro e divulgativo. Troverete anche tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte frequenti, per facilitare la comprensione operativa di una materia complessa ma cruciale.
Quadro normativo e definizioni chiave
Normativa vigente: La disciplina del fallimento aziendale è oggi contenuta nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (abbreviato CCII), emanato con D.Lgs. 14/2019 e successivamente modificato da vari decreti correttivi (da ultimo il D.Lgs. 136/2024, cosiddetto “Correttivo-ter”, in vigore dal 28 settembre 2024). Il CCII ha sostituito integralmente la previgente Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) e la legge sul sovraindebitamento (L. 3/2012), unificando in un testo unico sia le procedure concorsuali tradizionali sia gli strumenti per la crisi dei debitori non fallibili. Pertanto, termini come fallimento e fallito sono stati formalmente soppressi in favore di espressioni nuove (liquidazione giudiziale per la procedura e debitore assoggettato alla liquidazione per il soggetto). A livello sostanziale, però, la procedura concorsuale liquidatoria mantiene i tratti fondamentali del vecchio fallimento, quali: la spossessione del patrimonio del debitore, la cristallizzazione dei debiti e il concorso dei creditori (par condicio creditorum) sotto la guida di un curatore nominato dal tribunale.
Finalità della riforma: Il nuovo Codice della crisi ha introdotto un cambio di prospettiva “culturale”: l’insolvenza non è più vista solo come evento da sanzionare, ma come evenienza da gestire in modo efficiente, limitando per quanto possibile la distruzione di valore. Gli obiettivi dichiarati sono di prevenire le crisi d’impresa e, ove possibile, favorire il risanamento piuttosto che la liquidazione. In quest’ottica, grande enfasi è posta su strumenti di allerta precoce e composizione negoziata della crisi, per intervenire prima che l’insolvenza divenga irreversibile. Solo quando ogni tentativo di ristrutturazione fallisce, si ricorre alla liquidazione giudiziale, intesa non più come “pena infamante” per l’imprenditore, ma come extrema ratio per chiudere in modo ordinato un’attività non più sostenibile. Questo non elimina ovviamente le conseguenze gravose del fallimento, ma le inserisce in un contesto più razionale e orientato anche al fresh start del debitore onesto (come vedremo, l’esdebitazione – ossia la liberazione dai debiti residui – è oggi assai più accessibile e rapida rispetto al passato).
Crisi vs insolvenza: È fondamentale distinguere il concetto di crisi da quello di insolvenza. Per stato di crisi si intende una fase di difficoltà economico-finanziaria reversibile, in cui l’impresa sperimenta squilibri patrimoniali o di liquidità che rendono probabile in futuro l’insolvenza se non si interviene. In altri termini, la crisi è un “campanello d’allarme”: l’azienda potrebbe ancora pagare i debiti alle scadenze presenti, ma mostra segnali di sofferenza (perdite significative, flussi di cassa negativi, erosione del patrimonio netto, ecc.) che, se ignorati, evolveranno in incapacità di pagamento. L’insolvenza, invece, è lo stato conclamato in cui l’imprenditore non è più oggettivamente in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni con i mezzi normali a sua disposizione. Si manifesta con inadempimenti generalizzati, mancati pagamenti, protesti, pignoramenti, ecc. Mentre la crisi guarda al futuro prossimo (rischio di insolvenza), l’insolvenza è una situazione attuale di impotenza finanziaria. Questa distinzione è cruciale perché gli strumenti offerti dal Codice (allerta, composizione assistita, piani di risanamento, ecc.) sono tarati per affrontare la crisi prima che degeneri in insolvenza. In caso di insolvenza ormai irreversibile, invece, si attivano le procedure liquidatorie come il fallimento (liquidazione giudiziale).
Dal punto di vista giuridico, la nozione di insolvenza rilevante ai fini del fallimento è stata elaborata dalla giurisprudenza: non coincide con un mero squilibrio contabile tra debiti e crediti, ma con una impotenza strutturale, e non meramente transitoria, dell’impresa a far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni con mezzi normali. La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che lo stato di insolvenza va desunto dall’impossibilità dell’azienda di continuare ad operare proficuamente sul mercato, manifestata da inadempimenti sintomatici di una incapienza finanziaria non occasionale. Ad esempio, l’omesso pagamento di debiti può essere indice di insolvenza solo se rivela un’incapacità strutturale del debitore di generare margini e liquidità sufficienti a soddisfare le obbligazioni in modo ordinario. Viceversa, un mero ritardo o difficoltà transitoria non integrano insolvenza se l’impresa ha ancora accesso al credito e risorse per recuperare. In sintesi, l’insolvenza è uno stato di irreversibile incapacità funzionale dell’impresa di onorare i debiti, che si distingue sia dalla crisi temporanea sia dal semplice dissesto patrimoniale contabile, potendo un’impresa con patrimonio netto negativo continuare ad operare e pagare i debiti (ad es. grazie al sostegno del credito).
Chi può essere dichiarato fallito: Non tutte le imprese o soggetti insolventi possono accedere (o essere assoggettati) alla procedura di fallimento. La regola generale, mutuata dalla vecchia legge e confermata dal CCII, è che solo gli imprenditori commerciali non piccoli sono soggetti a fallimento (liquidazione giudiziale). Ciò significa che devono ricorrere due ordini di requisiti: uno soggettivo (natura commerciale e dimensioni dell’impresa) ed uno oggettivo (stato di insolvenza conclamata). Vediamoli in dettaglio:
- Requisito soggettivo – imprenditore commerciale non minore: L’art. 121 CCII circoscrive l’ambito della liquidazione giudiziale agli “imprenditori commerciali” che non dimostrino il possesso dei requisiti di impresa minore. Si tratta della stessa distinzione prevista dall’art. 1 della vecchia legge fallimentare. In concreto, è considerato “piccolo imprenditore” (impresa minore) colui che, nei tre esercizi antecedenti la domanda, non ha superato congiuntamente tutti e tre i seguenti parametri dimensionali: attivo patrimoniale ≤ €300.000, ricavi lordi annui ≤ €200.000, debiti (anche non scaduti) ≤ €500.000. Se l’impresa rientra entro questi limiti, è sotto-soglia e non può essere dichiarata fallita (né accedere alle altre procedure concorsuali “maggiori” come concordato preventivo o accordi di ristrutturazione). In tal caso, in caso di insolvenza potrà utilizzare solo gli strumenti speciali per i soggetti minori (si veda oltre: liquidazione controllata, concordato minore, ecc.). L’onere di provare di rientrare nei limiti dimensionali grava sul debitore, se vuole eccepirlo per evitare la dichiarazione di fallimento (come in passato, dovrà produrre bilanci, documenti contabili e fiscali per dimostrare di essere sotto soglia). Se invece l’impresa ha superato anche solo uno di questi limiti dimensionali (in pratica, medie e grandi imprese), allora è fallibile.
- Soggetti esclusi per natura: Oltre ai piccoli imprenditori, la legge esclude dal fallimento alcune categorie per la natura dell’attività svolta. Ad esempio, lo Stato ed enti pubblici non possono essere assoggettati a procedure concorsuali ordinarie (hanno discipline speciali di riequilibrio finanziario). Gli imprenditori agricoli tradizionalmente non erano considerati fallibili: oggi la situazione è leggermente diversa. Il CCII non ripropone l’esenzione assoluta per l’imprenditore agricolo tout court, ma poiché l’art. 121 richiede lo status di imprenditore “commerciale”, ne consegue che l’imprenditore agricolo continua di regola ad essere escluso dalla liquidazione giudiziale. Tuttavia, se l’impresa agricola supera le soglie dimensionali sopra viste, la giurisprudenza più recente tende ad equipararla a un’impresa commerciale ai fini concorsuali. Il correttivo 2024 ha confermato che un imprenditore agricolo di grandi dimensioni (sopra soglia) può accedere al concordato preventivo o essere dichiarato fallito al pari di un imprenditore commerciale. Restano invece fuori le imprese agricole piccole: un agricoltore sotto soglia insolvente utilizzerà le procedure da sovraindebitamento (concordato minore o liquidazione controllata). – Esempio: un coltivatore diretto con €180.000 di fatturato e €300.000 di debiti è sotto soglia e, se insolvente, non potrà essere assoggettato a liquidazione giudiziale; viceversa, un’azienda agricola con fatturato di €400.000 (sopra il limite dei €200k di ricavi) potrà fallire o chiedere un concordato preventivo in caso di insolvenza.
- Società ed enti particolari: Tutte le forme di società di persone e società di capitali che esercitano attività commerciale rientrano tra i soggetti potenzialmente fallibili (salvo il limite dimensionale). Ad esempio, una SNC o una SRL sopra soglia sono soggette a fallimento. Le associazioni non riconosciute e le imprese senza personalità giuridica solitamente non falliscono in quanto tali, poiché prive di autonoma soggettività patrimoniale: in caso di insolvenza di un’associazione non riconosciuta, risponderanno illimitatamente e in proprio le persone che hanno agito in suo nome (eventualmente con procedure di sovraindebitamento personali). I professionisti (avvocati, commercialisti, ecc.) e i consumatori privati non sono imprenditori, quindi non sono soggetti a fallimento; per i loro debiti esiste la legge sul sovraindebitamento (ora integrata nel CCII). Le start-up innovative sono temporaneamente escluse dal fallimento (godono di una moratoria di 5 anni dall’iscrizione, durante la quale in caso di insolvenza si applicano solo procedure minori). Infine, alcune categorie di imprese, pur commerciali e sopra soglia, seguono procedure concorsuali speciali diverse dal fallimento: ad esempio banche, imprese assicurative e grandi imprese in stato di insolvenza sono soggette rispettivamente a liquidazione coatta amministrativa o amministrazione straordinaria (si veda oltre per un richiamo a queste procedure speciali).
- Requisito oggettivo – insolvenza e importo minimo di debito: Oltre ad appartenere alle categorie soggettive suddette, per l’apertura della liquidazione giudiziale è necessario che l’imprenditore versi in uno stato di insolvenza attuale. La definizione normativa di insolvenza ricalca l’art. 5 della vecchia legge fallimentare: incapacità persistente di adempiere regolarmente alle obbligazioni. Il CCII aggiunge espressamente che la situazione di insolvenza “si manifesta tramite inadempimenti od altri fatti esteriori” e, ai fini dell’apertura della procedura, richiede che il debitore presenti debiti scaduti e non pagati per almeno €30.000. Questo valore di €30.000 costituisce una soglia oggettiva introdotta per evitare l’attivazione di procedure concorsuali in presenza di debiti esigui o fisiologici. In pratica, anche se un imprenditore è in crisi, difficilmente verrà dichiarato fallito se il totale dei suoi arretrati non supera i 30mila euro (salvo casi particolari di insolvenza conclamata su debiti di minore importo, sui quali la prassi è comunque molto cauta).
Dovere di iniziativa del debitore e allerta precoce: Il Codice della crisi sottolinea la responsabilità dell’imprenditore nel monitorare l’andamento economico-finanziario e attivarsi tempestivamente in caso di difficoltà. Già l’art. 2086 c.c., comma 2 (introdotto nel 2019), impone all’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva di adottare assetti organizzativi adeguati per rilevare per tempo lo stato di crisi e attuare interventi correttivi. In altre parole, amministratori e organi di controllo devono vigilare sui segnali di crisi (indici di bilancio, flussi di cassa, indici di allerta ministeriali, ecc.) e prendere misure (piani di risanamento, ricerca di nuovi capitali, ristrutturazione del debito) prima che l’insolvenza si conclami. La mancata attivazione può comportare responsabilità degli amministratori verso la società e i creditori per aggravamento del dissesto. Inoltre, il Codice aveva previsto un sistema di allerta e composizione assistita gestito da un organismo (OCRI) presso le Camere di Commercio, per segnalare le imprese in crisi e aiutarle a trovare una soluzione. Queste misure di allerta obbligatoria tuttavia non sono ancora pienamente operative (sono state differite e in parte sostituite dall’istituto della composizione negoziata volontaria, di cui diremo oltre). In ogni caso, se l’imprenditore colpevolmente ritarda l’emersione dello stato di insolvenza e l’accesso a una procedura, può subire conseguenze negative: in sede fallimentare potrà essere oggetto di azioni di responsabilità per aver aggravato il buco patrimoniale, e la sua condotta sarà valutata anche ai fini penali (ad esempio ai fini del reato di bancarotta semplice, che punisce l’imprudente inosservanza degli obblighi gestionali causando il fallimento).
Conclusione di massima: Può dunque essere dichiarato fallito (ossia assoggettato a liquidazione giudiziale) l’imprenditore commerciale, persona fisica o società, che esercita un’attività d’impresa sopra i limiti dimensionali di legge e si trova in stato di insolvenza irreversibile manifestata da debiti scaduti ≥ €30.000. Sono invece esclusi dalla procedura i piccoli imprenditori sotto-soglia, gli imprenditori agricoli sotto-soglia, gli enti pubblici e in generale i soggetti non commerciali, per i quali esistono procedure diverse (accordi di ristrutturazione minori, sovraindebitamento, ecc.).
Apertura della procedura fallimentare: iniziativa e presupposti
La procedura di fallimento (liquidazione giudiziale) si avvia con un ricorso al tribunale competente, che in materia concorsuale è quello del luogo in cui l’impresa ha il centro degli interessi principali (il COMI, normalmente coincidente con la sede legale). Il ricorso può essere presentato da diversi soggetti legittimati:
- L’imprenditore stesso (c.d. fallimento in proprio): l’imprenditore insolvente può volontariamente chiedere al tribunale la propria liquidazione giudiziale. Anche se nella prassi ciò avviene raramente (l’imprenditore spesso preferisce tentare altre strade), talora “gettare la spugna” può essere la scelta più saggia per evitare l’ulteriore aggravarsi dei debiti. Presentarsi spontaneamente può anche essere visto positivamente dal tribunale, denotando cooperazione e buona fede (ad esempio, facilitando poi l’esdebitazione personale).
- Uno o più creditori: qualsiasi creditore non soddisfatto può depositare ricorso per far dichiarare il fallimento del debitore, purché ne alleghi lo stato di insolvenza (ad es. mediante mancati pagamenti, protesti di assegni, pignoramenti infruttuosi, ecc.). Il creditore istante deve provare il proprio credito e l’insolvenza del debitore; tipicamente la prova consiste in un decreto ingiuntivo non opposto o in una sentenza di condanna rimasta ineseguita, ma può basarsi anche su altri elementi (es. bilanci in perdita, fuga del debitore, serrata dell’azienda). Va ricordato che se l’attivo del fallimento non basta a pagare neppure le spese di procedura, il creditore può dover anticipare un fondo spese; in passato questo scoraggiava ricorsi pretestuosi.
- Il Pubblico Ministero (PM): la procura della Repubblica può chiedere il fallimento in due ipotesi principali. La prima è quando l’insolvenza dell’impresa risulta nell’ambito di un procedimento penale (es. indagini per bancarotta fraudolenta). La seconda è su segnalazione da parte di autorità di vigilanza o controllo (si pensi a Bankitalia per banche, IVASS per assicurazioni, Consob, oppure l’INPS o l’Agenzia delle Entrate se rilevano violazioni gravi). Inoltre il PM può intervenire se l’imprenditore ha abbandonato l’azienda, si è dato alla fuga, o in caso di morte dell’imprenditore individuale insolvente.
Il deposito del ricorso segna l’inizio del procedimento pre-fallimentare. Il tribunale fissa un’udienza in cui convoca l’imprenditore e l’istante (creditore o PM), e spesso nomina un custode giudiziario provvisorio per gestire l’azienda nel frattempo se c’è rischio di depauperamento. All’udienza, il collegio giudicante esamina la sussistenza dei requisiti: la qualifica soggettiva (imprenditore commerciale sopra soglia) e lo stato di insolvenza. Il debitore può comparire per opporsi, dimostrando magari di avere patrimonio sufficiente o contestando l’importo dei debiti. Il tribunale può assumere informazioni anche d’ufficio, ad esempio consultando le banche dati finanziarie e fiscali (Agenzia Entrate, Centrale rischi, registro imprese). Se all’esito dell’istruttoria risulta accertata l’insolvenza, viene emanata la sentenza dichiarativa di fallimento (apertura della liquidazione giudiziale).
Nota: Il nuovo Codice prevede un procedimento unitario iniziale per tutte le domande di regolazione della crisi o insolvenza. Ciò significa che se al tribunale arrivano più istanze – ad esempio un ricorso per concordato preventivo presentato dall’imprenditore e, contemporaneamente, un’istanza di fallimento presentata da un creditore – esse vengono riunite e trattate assieme. In tale evenienza la legge impone di esaminare con priorità le soluzioni diverse dalla liquidazione giudiziale, nel tentativo di salvaguardare la continuità aziendale. In pratica, il tribunale prima valuterà se può essere ammesso il concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione; solo se queste soluzioni risultano impraticabili o falliscono, procederà a dichiarare il fallimento. Questa regola incarna il principio di favor conservazione introdotto dalla riforma: il fallimento è l’ultima risorsa, da evitare se c’è spazio per soluzioni meno distruttive.
Concordato “in bianco” e nuove norme 2023: Una situazione frequente è quella in cui l’imprenditore, per guadagnare tempo e tentare una ristrutturazione, deposita un ricorso per concordato preventivo “con riserva” (detto anche domanda prenotativa o in bianco), senza piano dettagliato, poco prima dell’udienza pre-fallimentare. Ciò in passato bloccava sul nascere l’istanza di fallimento, concedendo al debitore qualche mese per presentare un piano di concordato. Il correttivo 2024 ha disciplinato meglio questa fase: oggi è ammesso proporre domanda di concordato con riserva anche se pende una richiesta di fallimento, ma l’imprenditore deve contestualmente presentare un abbozzo di piano indicativo della soluzione che intende perseguire. Inoltre, per ottenere una proroga del termine per il deposito del piano definitivo, il debitore deve dimostrare la concreta fattibilità del piano in preparazione. In sostanza, si cerca di evitare usi strumentali del concordato in bianco: se l’imprenditore chiede tempo, deve davvero essere diretto verso una soluzione credibile. Diversamente, il tribunale potrà revocare i termini e dichiarare il fallimento. Queste modifiche garantiscono un equilibrio tra l’opportunità data al debitore di trovare un accordo e il diritto dei creditori a non veder dilazionata inutilmente la loro tutela.
Se i presupposti sono accertati, il tribunale pronuncia la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale. Questa sentenza (un tempo chiamata sentenza dichiarativa di fallimento) è un provvedimento di estrema importanza, poiché da esso derivano tutti gli effetti tipici del fallimento (come la perdita dell’amministrazione dei beni da parte del debitore). La sentenza viene notificata al debitore e comunicata ai creditori conosciuti, è iscritta al Registro delle Imprese ed è pubblicata in apposito portale telematico. Contro di essa è ammesso reclamo (appello) entro 30 giorni per chiunque vi abbia interesse.
Nella stessa sentenza, il tribunale nomina gli organi della procedura: in particolare un Giudice Delegato (magistrato che sovrintenderà allo svolgimento del fallimento) e un Curatore fallimentare. Il curatore è il perno operativo della procedura: si tratta di un professionista (generalmente un commercialista o avvocato iscritto in apposito albo) cui vengono affidati i beni del fallito e la gestione di tutte le operazioni di liquidazione e riparto. Inoltre, la sentenza fissa i termini entro cui i creditori devono insinuare i propri crediti (insinuazione al passivo), stabilisce la data dell’udienza di verifica dello stato passivo e indica altri adempimenti (ad es. ordina al debitore di depositare i bilanci e le scritture contabili).
Riassumendo la tempistica iniziale: ricorso → udienza pre-fallimentare → sentenza di fallimento (se insolvenza confermata) → immediata nomina del curatore e apertura della procedura concorsuale.
Effetti immediati del fallimento: spossessamento, blocco dei creditori e revocatoria
Spossessamento del debitore: Con la sentenza dichiarativa, l’imprenditore perde automaticamente la gestione e la disponibilità di tutti i suoi beni presenti e futuri. Questo effetto – ereditato pari pari dal vecchio art. 42 Legge Fall. – è chiamato spossessamento. In pratica, dal momento dell’apertura della liquidazione giudiziale, il patrimonio del debitore diviene una massa attiva destinata esclusivamente a soddisfare i creditori concorsuali, sotto l’amministrazione del curatore. L’imprenditore non può più disporre dei propri beni: qualsiasi atto di amministrazione o disposizione compiuto dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento è inefficace rispetto ai creditori. Ad esempio, se il fallito paga un creditore di nascosto o vende un macchinario durante la procedura, quell’atto non avrà effetto e il curatore potrà riprendersi le somme o i beni. I poteri di gestione passano integralmente al curatore, il quale agirà in nome e per conto del fallito (quest’ultimo conserva la mera titolarità formale dei beni, ma non può toccarli né amministrarli). Il patrimonio del debitore diventa quindi un patrimonio separato controllato dal curatore per la massa creditoria.
Va sottolineato che lo spossessamento riguarda tutti i beni di proprietà del debitore al momento della sentenza e quelli che eventualmente egli dovesse acquisire durante la procedura (salvo poche eccezioni di legge). Per le persone fisiche, la legge esenta solo i beni strettamente personali inalienabili (ad es. stipendi per la parte necessaria al sostentamento, pensioni minime, beni di affetto, ecc., similmente alle cose impignorabili nel codice civile). Ad esempio, se fallisce un imprenditore individuale, il suo conto corrente personale viene bloccato e affidato al curatore; se trova un nuovo impiego, parte del suo stipendio futuro potrebbe essere attribuito alla massa salvo un quantum per le esigenze di vita. Invece, se fallisce una società, lo spossessamento colpisce il patrimonio sociale (non i beni personali dei soci a responsabilità limitata). I soci di SRL o SPA perdono il valore delle loro quote (ormai azzerate dal dissesto), ma i loro beni personali restano formalmente estranei; viceversa, i soci di società di persone illimitatamente responsabili vengono coinvolti personalmente (vedi oltre).
Parallelamente, la legge prevede che il debitore fallito perda la capacità di stare in giudizio per gli atti relativi ai rapporti compresi nel fallimento. Sarà quindi il curatore, d’ora in poi, a rappresentarlo anche nei procedimenti giudiziari riguardanti i beni o i crediti dell’attivo fallimentare. Ad esempio, se c’era una causa in corso promossa dal fallito per un credito, essa viene interrotta e proseguita (se opportuno) dal curatore. Il fallito non può iniziare nuove cause né proseguire quelle pendenti senza il tramite del curatore.
Blocco delle azioni esecutive individuali – par condicio creditorum: Un secondo effetto cardine è il divieto, per i creditori, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sul patrimonio del debitore fallito. Tutti i creditori anteriori alla dichiarazione di fallimento devono concorrere nella procedura collettiva e soddisfarsi secondo le regole concorsuali, non potendo più agire separatamente per conto proprio. Questo divieto (talora chiamato automatic stay, sebbene nel nostro ordinamento operi ex lege e non su istanza) garantisce la par condicio creditorum, ossia pari trattamento a parità di rango di tutti i creditori chirografari e il rispetto delle cause legittime di prelazione per privilegiati e garantiti. In pratica, dal momento del fallimento, scattano una serie di blocchi:
- Sospensione delle esecuzioni in corso: Se erano pendenti pignoramenti, aste o altre esecuzioni contro il debitore, vengono automaticamente interrotti. Ad esempio, se un creditore stava pignorando un capannone, con la sentenza di fallimento la vendita individuale viene fermata e quel bene confluisce nella massa fallimentare, dove sarà venduto dal curatore nell’interesse di tutti i creditori.
- Divieto di nuovi pignoramenti: Nessun creditore può avviare daccapo un’esecuzione forzata sui beni fallimentari. Qualunque atto compiuto in violazione di ciò è giuridicamente nullo. Ugualmente, non si possono iscrivere o acquisire nuove ipoteche o pegni su beni del fallito dopo la dichiarazione di fallimento (le ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni precedenti, peraltro, saranno revocabili).
- Cristallizzazione dei crediti: I debiti concorsuali (cioè sorti prima dell’apertura) diventano “cristallizzati” alla data di fallimento: cessano di maturare interessi (salvo che per i creditori garantiti da pegno/ipoteca, i quali li riscuoteranno entro i limiti di capienza del ricavato). Parimenti, eventuali sanzioni pecuniarie o penalità di mora restano congelate (non sono ammesse al passivo, trattandosi di debiti non patrimoniali in senso stretto). Il principio è che dal giorno del fallimento la massa attiva è fissa e nessun creditore può alterare la propria posizione (ottenendo privilegi tardivi o maturando ulteriori importi) a scapito degli altri.
- Compensazione: Se un creditore era anche debitore del fallito (rapporti reciproci), è ammessa la compensazione secondo le regole civilistiche, purché il relativo credito sia sorto prima del fallimento. Il CCII consente ai creditori di opporre in compensazione i debiti verso il fallito, evitando che debbano pagare per intero i propri debiti mentre recuperano solo parzialmente i crediti (ciascuno paga solo l’eventuale differenza). Ciò però è vietato se il credito verso il fallito è stato acquistato dopo il fallimento o nell’anno antecedente (compensazione postuma o “triangolare”, tipico caso di chi compra un credito in sofferenza per compensarlo a valore nominale): la legge vuole evitare arbitraggi dannosi per la massa.
Queste regole assicurano che la soddisfazione dei creditori avvenga in concorso tra tutti, secondo l’ordine delle preferenze di legge e sotto il controllo del giudice, evitando corse alle esecuzioni individuali. È un regime di esecuzione collettiva forzata sul patrimonio del debitore, che costituisce la ragion d’essere del fallimento.
Atti a titolo oneroso, pagamenti e revocatoria fallimentare: Un ulteriore effetto riguarda la sorte degli atti compiuti dal debitore prima del fallimento, in un periodo sospetto precedente, che possano aver pregiudicato la par condicio. La legge fallimentare storicamente prevede la revocatoria fallimentare, azione con cui il curatore può far dichiarare inefficaci rispetto ai creditori alcuni atti di disposizione compiuti dall’imprenditore in crisi prima del fallimento. L’idea è di “ripristinare” l’equità distributiva riportando nel patrimonio ciò che è uscito indebitamente poco prima della bancarotta. Il CCII disciplina la revocatoria agli artt. 166-168, riducendo in parte i termini rispetto al passato. In sintesi, sono revocabili, salvo prova contraria o eccezioni di legge:
- Atti a titolo gratuito compiuti nei 2 anni anteriori al fallimento (donazioni, remissioni di debito, transazioni troppo favorevoli a terzi, ecc.): sono tipicamente atti che diminuiscono il patrimonio senza contropartita, quindi facilmente revocabili.
- Pagamenti di debiti scaduti effettuati nell’anno anteriore: la regola generale (rispetto al passato) è che se l’imprenditore ha pagato alcuni creditori a scapito di altri, quei pagamenti possono essere revocati se fatti in periodo di insolvenza conclamata entro 12 mesi prima del fallimento. (Eccezione: i pagamenti eseguiti nell’ambito di piani o accordi di ristrutturazione omologati non sono revocabili, per favorire i tentativi di salvataggio).
- Atti di disposizione a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore, se la prestazione eseguita o ricevuta dal debitore presenta uno squilibrio economico oltre il 25% rispetto al valore di mercato (cioè se il debitore ha venduto sottoprezzo o acquistato a sopraprezzo causando pregiudizio ai creditori). Se l’atto è tra parti correlate o in frode, può essere revocato anche oltre l’anno.
- Costituzione di garanzie (pegni, ipoteche) per debiti preesistenti (cosiddetti pegni o ipoteche “su debito antecedente”): se ad esempio l’imprenditore ha concesso ipoteca ad un creditore chirografario poco prima di fallire, l’ipoteca è sospetta perché altera la graduatoria e può essere revocata se costituita entro 6 mesi prima del fallimento.
La legge esenta comunque gli atti compiuti nell’esercizio ordinario (ad es. vendite di stock di merci al prezzo di mercato) e alcuni pagamenti reputati “fisiologici” (come stipendi, pagamenti di forniture a termine, imposte, ecc.) per non scoraggiare la normale attività. Inoltre, come detto, se il debitore segue percorsi di soluzione concordata (piani di risanamento attestati, concordati, accordi omologati), i pagamenti e le garanzie concesse in esecuzione di tali piani non sono revocabili – una previsione volta a dare certezza a chi aderisce a ristrutturazioni. In ogni caso, l’azione revocatoria fallimentare richiede un giudizio promosso dal curatore contro il terzo beneficiario dell’atto, e si prescrive in 3 anni. L’esito (sentenza di revoca) comporta l’inefficacia dell’atto verso i creditori: ciò che è uscito dal patrimonio deve essere restituito al fallimento, ma il terzo ha diritto ad insinuarsi al passivo per il suo eventuale credito (ad es., se Tizio aveva pagato Caio e il pagamento è revocato, Caio deve restituire la somma ma può insinuarsi come creditore concorrente per quell’importo).
Estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili: Nel caso in cui sia dichiarata il fallimento di una società di persone (S.n.c., S.a.s. o società di fatto) con soci a responsabilità illimitata, la legge prevede che la procedura si estenda automaticamente ai soci. La sentenza dichiarativa emessa contro la società produce il fallimento anche di tutti i soci illimitatamente responsabili ancora in vita (quelli già usciti da oltre un anno potrebbero essere esclusi per decadenza dei termini, ex art. 147 L.F.). Quindi, se fallisce una SNC, falliscono contestualmente i suoi soci; se fallisce una S.a.s., falliscono i soci accomandatari (ma non gli accomandanti, che hanno responsabilità limitata). Il fallimento dei soci viene dichiarato d’ufficio dal tribunale nella stessa sentenza o con altra immediatamente successiva. Questo meccanismo tutela i creditori sociali, i quali potranno rivalersi anche sul patrimonio personale dei soci in aggiunta a quello della società. Il patrimonio del socio fallito confluirà in una procedura concorsuale unificata (di regola si nomina lo stesso curatore per società e soci, formando masse attive distinte ma coordinate). – Esempio: Alfa S.n.c. viene dichiarata fallita; automaticamente anche i soci di Alfa (Beta e Gamma) sono dichiarati falliti in estensione, dovendo rispondere personalmente dei debiti sociali illimitatamente. Il curatore amministrerà tre masse (Alfa, Beta, Gamma) distribuendo prima i beni sociali ai creditori sociali e poi, se necessario, i beni personali dei soci.
Soci di capitali e garanti: Discorso diverso per le società di capitali (S.r.l., S.p.A.): qui vige il beneficio della responsabilità limitata, per cui il fallimento della società non coinvolge i soci (salvo il caso anomalo di “socio unico insolvente” che abbia confuso patrimoni, ma è fattispecie patologica). I creditori sociali si soddisferanno sul patrimonio della società; se i soci avevano prestato garanzie personali (fideiussioni, avalli) per i debiti sociali, allora quei soci/garanti potranno essere escussi separatamente al di fuori del fallimento – il loro eventuale pagamento li surrogherà poi tra i creditori della società fallita. Attenzione: il fallimento della società non protegge i coobbligati o fideiussori. Ad esempio, se la moglie del titolare ha garantito un debito bancario, la banca, pur bloccata verso il marito fallito, potrà agire contro di lei che è garante. Allo stesso modo, il fallimento dell’impresa non estingue i debiti dei soci verso i creditori sociali in caso di società già estinta: la Cassazione ha chiarito, ad esempio, che se fallisce una società estinta da anni, i soci (che hanno incamerato l’attivo finale) rispondono ultra vires fino a concorrenza di quanto riscosso in sede di liquidazione. Ma sono situazioni peculiari. In generale, per le società di capitali il sacrificio economico massimo per i soci è la perdita del capitale investito.
Conseguenze per l’imprenditore fallito (persona fisica e organi sociali)
Dal punto di vista del debitore, il fallimento comporta numerose conseguenze personali e obblighi di comportamento. Pur non essendo più improntato a finalità “punitive” come in passato, resta una procedura invasiva che limita i diritti del fallito durante il suo svolgimento.
Obblighi di collaborazione e condotta: L’imprenditore dichiarato fallito (sia esso un individuo o i legali rappresentanti di una società fallita) ha il dovere di collaborare lealmente con gli organi della procedura. In particolare, il debitore deve consegnare immediatamente al curatore tutti i beni, i libri contabili, le scritture e i documenti relativi all’impresa e al suo patrimonio. Deve inoltre fornire al curatore e al giudice tutte le informazioni che gli vengono richieste per ricostruire la situazione patrimoniale e l’elenco dei creditori. Nel corso della procedura, il fallito è tenuto a comparire personalmente se convocato dal giudice delegato o dallo stesso curatore, e a rispondere con sincerità alle domande (in caso contrario può essere segnalato per il reato di bancarotta semplice o reticenza). Un comportamento non collaborativo – ad es. il nascondere documenti, l’omessa segnalazione di beni, il rifiuto di rispondere – non solo viola i doveri legali, ma costituisce causa di esclusione dall’esdebitazione finale (la liberazione dei debiti può essere negata se il debitore non ha tenuto un contegno trasparente).
Limitazioni personali: La riforma ha eliminato alcune restrizioni “afflittive” che colpivano il fallito nella legge antica, come l’interdizione legale e l’incapacità civile temporanea. Oggi il fallito conserva la capacità di agire in settori non inerenti ai beni fallimentari e non subisce l’automatica privazione di diritti civili (in passato non poteva ad esempio far parte di organi sociali di altre società o ricoprire cariche). Tali preclusioni oggi non discendono più dallo status di fallito in sé. Restano però alcune incompatibilità: ad esempio, durante la procedura, il fallito difficilmente potrà esercitare una nuova impresa, perché di fatto ogni bene che produce entrerebbe nella massa attiva salvo si tratti di redditi da lavoro. Inoltre, norme speciali vietano a chi è in stato di insolvenza di assumere cariche in banche o intermediari finanziari. Di regola, però, dopo la chiusura del fallimento (specie se con esdebitazione) il debitore riacquista la piena capacità e può intraprendere nuove iniziative imprenditoriali.
Controllo della corrispondenza: Un aspetto peculiare (retaggio storico) è che la corrispondenza indirizzata al fallito relativa ai rapporti compresi nel fallimento viene dirottata al curatore. Il curatore ha facoltà di aprire e leggere la posta (anche elettronica) destinata al fallito, trattenendo quella di interesse per la procedura e restituendo al destinatario eventuali missive di carattere personale. Ciò per evitare che il fallito riceva comunicazioni da creditori o terzi e intraprenda azioni sottratte al controllo della procedura. Questo controllo non si estende comunque alla corrispondenza del tutto estranea (ad es. lettere private, che vengono consegnate al destinatario). Violare l’obbligo di consegnare la corrispondenza al curatore fu in passato motivo di diniego di esdebitazione; oggi è ricompreso nel più ampio dovere di cooperazione leale.
Conseguenze lavorative e di vita quotidiana: Durante il fallimento, se la persona fallita svolge un lavoro dipendente, il curatore può chiedere una quota dello stipendio (oltre il minimo vitale) da devolvere alla massa. Il fallito può continuare a svolgere attività lavorativa, ma deve comunicare al curatore eventuali sopravvenienze di reddito (incrementi patrimoniali) durante la procedura, perché potrebbero dover essere acquisite all’attivo. Se l’imprenditore fallito era titolare di autorizzazioni o licenze (es. licenza commerciale), queste possono decadere con il fallimento (spesso l’autorità revoca la licenza se l’impresa cessa l’attività). In ambito di rapporti familiari, la dichiarazione di fallimento non incide direttamente: il fallito conserva la potestà genitoriale, il diritto di voto politico, ecc. Tuttavia, le spese di mantenimento della famiglia devono ora essere coordinate con il curatore se attingono al patrimonio fallimentare. Ad esempio, un coniuge che vanti crediti di mantenimento pregressi può insinuarli come privilegiati.
Azione di responsabilità verso gli amministratori: In caso di fallimento di società, una conseguenza rilevante “dal lato del debitore” è che il curatore è legittimato a esercitare le azioni di responsabilità contro gli amministratori, sindaci o liquidatori che con la loro mala gestio abbiano contribuito a causare il dissesto. L’art. 378 CCII (che ricalca l’art. 146 L.F.) consente al curatore di agire sia per la responsabilità verso la società (danni al patrimonio sociale) sia per quella verso i creditori sociali (violazione dei doveri di conservazione dell’integrità del patrimonio netto). Questo significa che, a seguito del fallimento, gli amministratori possono essere chiamati in giudizio per risarcire i danni cagionati alla società e ai creditori (esempio tipico: aver continuato ad indebitare la società pur essendo azzerato il capitale e in prospettiva di insolvenza conclamata). Tali cause apportano eventualmente nuovo attivo al fallimento se vinte. Dal punto di vista del debitore società, l’azione contro gli ex amministratori è un’opportunità di recupero per i creditori; dal punto di vista degli amministratori incolpati, rappresenta una seria minaccia patrimoniale, spesso coperta in parte da polizze D&O.
Profili penali – reati di bancarotta: L’apertura di un fallimento attiva spesso anche conseguenze sul piano penale per l’imprenditore (o gli amministratori della società fallita). Esiste infatti nel nostro ordinamento la categoria dei reati fallimentari, primo fra tutti la bancarotta fraudolenta, che punisce con pene detentive rilevanti (fino a 10 anni) il fallito che abbia distratto beni, sottratto o falsificato le scritture contabili, esposto passività inesistenti o commesso altri atti dolosi in pregiudizio dei creditori prima o durante il fallimento (artt. 322-323 CCII, eredi dell’art. 216 L.F.). Anche comportamenti meno gravi, come spese personali eccessive o negligenza nella tenuta delle scritture, possono configurare la bancarotta semplice, di rilevanza contravvenzionale. La dichiarazione di fallimento è presupposto per far emergere tali reati: il curatore stende una relazione ex art. 341 CCII segnalando eventuali irregolarità e trasmettendola alla procura. Ne segue spesso l’apertura di indagini penali a carico dei responsabili (imprenditore individuale o amministratori di società fallita). Va precisato che non ogni fallimento comporta un reato: se l’insolvenza è dovuta a cause di mercato e l’imprenditore ha agito correttamente, non vi saranno profili penali. Ma se vi sono state distrazioni di beni, pagamenti preferenziali, frodi, allora scatta l’azione penale. Dal punto di vista del debitore fallito, dunque, è fondamentale evitare condotte illecite: la corretta gestione finale e la trasparenza possono risparmiargli guai giudiziari. Oltretutto, una condanna per bancarotta fraudolenta preclude l’esdebitazione e comporta l’interdizione dai pubblici uffici e dalle cariche direttive per molti anni.
Il Codice attuale, nel dichiarato intento di ridurre il carattere infamante del fallimento, ha eliminato alcune sanzioni automatiche che colpivano il fallito in passato. Ad esempio, prima al fallito veniva applicata un’ammenda pecuniaria e doveva poi ottenere un decreto di “riabilitazione civile” dopo qualche anno per riacquistare alcuni diritti; oggi questi istituti non esistono più. Tuttavia le conseguenze indirette restano: si pensi al danno di reputazione commerciale (il fallito potrebbe incontrare difficoltà a ottenere credito in futuro o a intraprendere nuovi affari, avendo una storia di insolvenza conclamata). Anche per questo, il Codice sottolinea come la liquidazione giudiziale debba rimanere l’ultima spiaggia e come sia preferibile, ove possibile, percorrere strade alternative di composizione della crisi.
Svolgimento del fallimento: fasi della procedura dalla verifica dei crediti alla chiusura
Una volta aperto, il fallimento segue un iter procedurale articolato in più fasi: l’accertamento del passivo (cioè la formazione dell’elenco ufficiale dei debiti ammessi), la liquidazione dell’attivo (realizzazione dei beni del debitore) con distribuzione ai creditori e infine la chiusura della procedura con possibili effetti liberatori per il debitore. Vediamole in sintesi.
Accertamento del passivo (verifica dei crediti)
Entro pochi giorni dalla sentenza di fallimento, il curatore invia a tutti i creditori noti una comunicazione ufficiale contenente un estratto della sentenza e l’invito a presentare la domanda di ammissione al passivo. Il tribunale fissa nella sentenza il termine perentorio entro cui i creditori devono insinuare i loro crediti: solitamente 30 giorni prima dell’udienza di verifica (che di regola è fissata attorno a 90–120 giorni dall’apertura). I creditori devono depositare (oggi con modalità telematica) una domanda di insinuazione in cui indicano l’importo del credito, la causa (contratto, fattura, sentenza, ecc.), l’eventuale titolo di prelazione (privilegio, pegno, ipoteca) e allegano i documenti giustificativi. Anche chi vanta diritti reali su beni del fallito (es. proprietà di beni in possesso del fallito, o leasing) deve presentare domanda per far valere i propri diritti.
Scaduto il termine, il curatore esamina tutte le domande e predispone il progetto di stato passivo, cioè un elenco di tutti i crediti con l’indicazione, per ciascuno, se venga ammesso e in che misura o escluso (con relative motivazioni). Questo progetto viene depositato e notificato ai creditori. Si giunge quindi all’udienza di verifica davanti al Giudice Delegato, alla presenza del curatore. In tale udienza, che spesso si svolge in camera di consiglio senza necessaria comparizione di tutti (il GD può decidere sulle carte), il giudice esamina eventuali contestazioni e forma lo stato passivo definitivo: emette cioè un decreto di esecutività dello stato passivo, ammettendo i crediti ritenuti fondati e respingendo gli altri. I creditori esclusi (o ammessi solo in parte o in rango inferiore) possono proporre opposizione allo stato passivo entro 30 giorni, instaurando un giudizio di cognizione contro il fallimento. In assenza di opposizioni (o dopo la definizione delle stesse), lo stato passivo diviene definitivo.
Va evidenziato che i creditori tardivi – quelli che non hanno presentato domanda nei termini – possono ancora insinuarsi successivamente, ma con alcune penalizzazioni. Hanno tempo fino a 6 mesi dopo la data di esecutività dello stato passivo per presentare domanda tardiva (o fino a 12 mesi se emergono attivi dopo il primo riparto). Tali crediti tardivi, se ammessi, partecipano solo alle ripartizioni future e non a quelle già effettuate: in pratica, un creditore chirografario tardivo perde il diritto a ricevere le quote distribuite nei riparti anteriori al suo ingresso. Il creditore privilegiato tardivo invece non perde le quote già distribuite (perché se il suo bene è stato liquidato, il privilegio si esercita su quell’attivo). Questa regola incentiva i creditori a insinuarsi tempestivamente.
Se il fallimento risulta privo di attivo (o con attivo di valore irrisorio), la legge consente di evitare l’intera fase di verifica dei crediti. In particolare, l’art. 209 CCII prevede che il curatore possa chiedere al giudice delegato di dichiarare che “non si fa luogo all’accertamento del passivo” quando dai primi riscontri non risultino beni da distribuire. Il giudice, verificato ciò, dispone la chiusura anticipata del fallimento per mancanza di attivo. Questa ipotesi (un tempo chiamata “fallimento incapiente”) di solito porta poi all’esdebitazione immediata del debitore persona fisica.
Amministrazione e liquidazione dell’attivo
Durante e dopo la verifica del passivo, il curatore si dedica anche al lato dell’attivo, ovvero al recupero e alla vendita dei beni del fallito. Tutti i beni individuati (mobili, immobili, crediti, partecipazioni, ecc.) vengono inventariati e presi in custodia dal curatore. Entro 150 giorni dalla sentenza il curatore deve presentare un programma di liquidazione dettagliato, in cui descrive le modalità e i tempi con cui intende realizzare gli asset (vendite all’asta, trattative private, cessione in blocco, esercizio provvisorio dell’azienda, ecc.). Il programma è sottoposto all’approvazione del comitato dei creditori e del giudice delegato. La durata della liquidazione dovrebbe essere contenuta (il programma non può eccedere 5 anni, salvo proroga motivata), a testimonianza dell’obiettivo di chiudere i fallimenti in tempi ragionevoli.
Le vendite dei beni avvengono per lo più con procedure competitive (aste telematiche) secondo la normativa aggiornata. Il curatore può liberamente scegliere tra vendita in blocco o frazionata, e tra diverse forme (incanto, vendita al miglior offerente, ecc.), purché massimizzi il ricavato nell’interesse dei creditori. Ad esempio, per i beni immobili spesso ci si avvale del portale delle aste giudiziarie; per i macchinari si possono utilizzare piattaforme specializzate online. Il CCII incoraggia modalità di vendita rapide e trasparenti, anche tramite mandatari o soggetti specializzati, per evitare deprezzamenti.
Una decisione importante riguarda l’eventuale esercizio provvisorio dell’azienda fallita: se l’impresa in crisi ha ancora prospettive di realizzo migliore se tenuta in vita (ad es. c’è la possibilità di venderla come azienda funzionante anziché come somma di singoli beni), il curatore può chiedere al giudice delegato l’autorizzazione a proseguire temporaneamente l’attività. L’esercizio provvisorio viene concesso solo se indispensabile ad evitare un grave danno (ad esempio commesse in corso che frutterebbero più di quanto costi completarle) e comunque in vista di una cessione unitaria. L’obiettivo è cedere l’azienda o rami di essa come going concern, salvaguardando il valore avviamento e i posti di lavoro. Se invece non vi sono queste prospettive, l’attività cessa immediatamente e si liquidano i singoli beni.
Oltre a liquidare i beni materiali, il curatore si occupa di recuperare i crediti vantati dal fallito verso terzi. Ad esempio, se il fallito aveva clienti debitori, il curatore solleciterà il pagamento o cederà in blocco i crediti non riscossi. Inoltre, come già accennato, il curatore può promuovere azioni giudiziarie volte ad accrescere l’attivo: tipicamente l’azione revocatoria per far rientrare beni o somme sottratte prima del fallimento, nonché le azioni di responsabilità contro gli ex amministratori, o cause per risarcimento danni verso terzi (es. cause risarcitorie per inadempimenti contrattuali subiti dal fallito, ecc.). Tutte queste attività fanno parte del mandato del curatore di “reperire liquidità” per i creditori.
Sorte dei contratti pendenti: Un capitolo delicato riguarda i contratti in corso al momento del fallimento (affitti, leasing, forniture continuative, contratti preliminari, ecc.). Il CCII conferma la regola per cui i contratti pendenti non si risolvono automaticamente col fallimento. Il curatore subentra nella posizione contrattuale del fallito e ha la facoltà di sciogliere il contratto (se, valutati costi e benefici, ritiene non utile eseguirlo) oppure di subentrare nell’esecuzione (se il contratto è vantaggioso per la massa). Ad esempio, se il fallito aveva stipulato un contratto di affitto d’azienda, il curatore può decidere di proseguirlo sino alla cessione dell’azienda, oppure di scioglierlo liberando i beni. Oppure, se il fallito aveva versato una caparra per acquistare un immobile (preliminare non ancora eseguito), il curatore può scegliere se subentrare (pagando il saldo e acquisendo l’immobile per poi rivenderlo) oppure sciogliersi dal preliminare (in tal caso l’altra parte ha diritto ad un’indennizzo equivalente al risarcimento del danno, da insinuare). Vi sono norme specifiche per varie tipologie contrattuali (locazione di immobili, leasing, rapporti di lavoro, contratti bancari, ecc.), ma qui basti notare che il curatore valuta caso per caso la convenienza: il suo scopo è massimizzare l’attivo, non necessariamente proseguire i contratti del fallito. La controparte contrattuale, dal canto suo, può chiedere al giudice di fissare un termine (di solito 60 giorni) entro cui il curatore dichiari se intende subentrare o no; nel silenzio, il contratto si intende sciolto.
Nel caso particolare dei lavoratori dipendenti, il fallimento di norma risolve i rapporti di lavoro subordinato (salvo appunto l’ipotesi di esercizio provvisorio in cui i contratti possono proseguire temporaneamente). I dipendenti licenziati diventano creditori del fallimento per le retribuzioni maturate, il TFR e altre indennità. Tali crediti di lavoro sono privilegiati sui beni mobili e immobili dell’azienda (hanno un grado di privilegio molto elevato, secondo solo ad alcune spese procedurali). Inoltre i lavoratori godono dell’intervento del Fondo di garanzia INPS, che – una volta accertato il fallimento e l’insolvenza del datore – provvede a pagare direttamente ai dipendenti il TFR e le ultime tre mensilità non pagate. Il Fondo si surroga poi nel fallimento al posto dei lavoratori per gli importi erogati. Questo meccanismo garantisce una tutela minima ai lavoratori in tempi relativamente brevi, evitando che debbano attendere l’esito (spesso lungo) della liquidazione. Dal punto di vista dell’imprenditore fallito, sapere che i propri dipendenti riceveranno almeno TFR e stipendi arretrati dal Fondo può essere un sollievo morale, poiché il costo di tali arretrati non grava più direttamente su di lui ma sulla collettività (il Fondo di garanzia è finanziato da contributi obbligatori).
Distribuzione ai creditori: Nel corso della procedura, mano a mano che si ricavano disponibilità liquide, il curatore effettua dei riparti (parziali e poi finali) ai creditori. Predispone infatti un progetto di riparto – soggetto all’approvazione del Giudice Delegato – in cui ripartisce proporzionalmente le somme tra i creditori secondo l’ordine dei privilegi. I creditori privilegiati (per pegno, ipoteca o privilegio generale/speciale) vengono soddisfatti per primi, ciascuno sul ricavato dei beni vincolati o, nel caso di privilegi generali (es. lavoratori, fisco), sui beni mobili in via generale. I creditori chirografari (senza garanzie) vengono pagati soltanto se e nella misura in cui residuano attivi una volta pagati tutti i creditori prelatizi. In pratica, a ogni riparto il curatore destina le somme in base ai ranghi: paga integralmente i privilegiati fino a concorrenza dei beni oggetto di prelazione, e qualunque somma non assorbita da privilegi viene distribuita pro quota ai chirografari. Se ci sono delle cause pendenti o crediti in contestazione non ancora risolte, il curatore accantona a riserva una parte di attivo, in attesa dell’esito (così da poter pagare l’eventuale creditore vittorioso più avanti). Ogni riparto viene comunicato ai creditori, i quali ricevono materialmente le percentuali attribuite (spesso tramite bonifico). Tipicamente vi sono uno o più riparti parziali durante la procedura e infine un riparto finale una volta liquidato tutto.
Chiusura del fallimento e liberazione dai debiti (esdebitazione)
Quando tutte le attività sono state liquidate e tutte le somme distribuite, il fallimento giunge al termine. Il curatore presenta un conto della gestione finale e un piano di riparto conclusivo; effettuati gli ultimi pagamenti, egli deposita una relazione conclusiva. A questo punto il tribunale dichiara con decreto chiusa la procedura di liquidazione giudiziale. La chiusura può avvenire anche in altre ipotesi: ad esempio, se nel corso della procedura tutti i creditori vengono integralmente soddisfatti (evento raro ma possibile, in tal caso si chiude anticipatamente perché lo scopo è esaurito); oppure se si scopre ex post che non c’era alcun passivo (es. fallimento annullato per mancanza originaria di debiti). Ancora, come già detto, si chiude se non c’è attivo da liquidare (chiusura per insufficienza di attivo).
Cancellazione della società: Se il fallito era una società, una volta chiuso il fallimento il curatore chiede la cancellazione della società dal Registro delle Imprese. La società dunque viene estinta formalmente. Eventuali procedimenti giudiziari ancora pendenti non ostano alla chiusura del fallimento (che viene disposta lo stesso), ma in tal caso la cancellazione è differita finché quelle cause non terminano o finché il curatore eventualmente non riscuota esiti attivi da esse. Dopo la cancellazione, essendo la società priva di soggettività, eventuali crediti residui non soddisfatti non potranno più essere reclamati contro di essa. Si noti però che, per le società di persone, i creditori sociali conservano azione verso i soci illimitatamente responsabili anche dopo la chiusura.
Esdebitazione del debitore: uno dei profili più innovativi del nuovo Codice è la disciplina dell’esdebitazione, cioè la liberazione del debitore persona fisica dai debiti rimasti insoddisfatti a fine fallimento. L’esdebitazione esisteva anche prima (introdotta nel 2006), ma richiedeva un’apposita istanza e la prova di “meritevolezza” del fallito, con esiti non scontati. Oggi il CCII la rende quasi automatica e di diritto. In particolare, l’art. 278 CCII dispone che – chiusa la procedura – il tribunale dichiara inesigibili nei confronti del debitore fallito i crediti concorsuali non soddisfatti. Ciò avviene contestualmente al decreto di chiusura, su istanza del debitore; oppure, trascorsi 3 anni dall’apertura del fallimento, avviene d’ufficio senza bisogno di istanza (il correttivo 2024 ha eliminato la necessità di domanda in questo caso). In pratica, 3 anni dopo l’apertura (se la procedura dura oltre tale termine) o al più tardi al momento della chiusura, il fallito persona fisica viene liberato dai debiti residui verso i creditori anteriori non soddisfatti. I creditori perdono il diritto di pretendere ulteriormente nulla dal debitore in bonis, dovendosi accontentare di quanto ricevuto nella procedura (o di nulla, se nulla c’era). L’esdebitazione ha l’obiettivo di offrire al debitore onesto una seconda chance, evitando la cosiddetta “morte civile” del fallito a vita. Va rimarcato che l’esdebitazione riguarda solo le persone fisiche: le società, essendo estinte, non ne hanno bisogno (i debiti sociali insoddisfatti si estinguono con la società stessa). Invece per l’imprenditore individuale o i soci falliti, l’esdebitazione è essenziale per tornare ad essere economicamente attivi senza lo spettro di vecchi debiti.
La liberazione dai debiti non è assoluta: alcune categorie di debiti sono escluse per legge dall’esdebitazione. In particolare non vengono cancellati: (a) gli obblighi di mantenimento e alimentari, e in genere le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’attività d’impresa (es. assegni di mantenimento all’ex coniuge o ai figli); (b) i debiti per risarcimento di danni da fatto illecito extracontrattuale (es. risarcimenti per lesioni, danni morali); (c) le sanzioni penali o amministrative pecuniarie non accessorie a debiti estinti. Dunque, ad esempio, se il fallito aveva una multa o una condanna a risarcire un danno da reato, quel debito resta comunque dovuto. Tutti gli altri debiti (bancari, fornitori, fiscali, contributivi, ecc.) sono invece coperti dall’esdebitazione – compresi i debiti erariali, senza necessità di pagare percentuali minime.
L’esdebitazione inoltre non è concessa in caso di comportamenti gravemente scorretti del debitore. La legge elenca tassativamente le cause ostative: ad esempio, se il fallito è stato condannato per bancarotta fraudolenta o altri delitti concorsuali gravi (corruzione tra privati, reati societari); oppure se ha distratto attivo, falsificato i libri, ostacolato lo svolgimento della procedura, fatto ricorso abusivo al credito, o se è recidivo avendo già beneficiato di esdebitazione nei 5 anni precedenti. Al di fuori di queste ipotesi, il giudice non può negare discrezionalmente la liberazione. La Cassazione ha sottolineato che l’elenco dei motivi di diniego è tassativo e non estensibile: solo condotte disoneste specifiche giustificano una negazione del fresh start. Ad esempio, è stato ritenuto illegittimo negare l’esdebitazione ad un socio fallito solo perché la sua società aveva evaso il fisco anni prima (circostanza non prevista tra le cause ostative). Ciò mostra l’orientamento attuale: favorire la riabilitazione del debitore onesto e sfortunato.
Accanto all’esdebitazione “ordinaria” post-chiusura, il CCII prevede anche una forma di esdebitazione anticipata per il debitore incapiente. L’art. 282 introduce il cosiddetto fresh start immediato: se il fallito non dispone di alcun attivo da liquidare ed è meritevole (ossia l’insolvenza non è frutto di frodi o mala fede), il tribunale può liberarlo dai debiti subito, senza attendere tre anni. Questa misura, mutuata dalla L.3/2012 sul sovraindebitamento, permette al piccolo debitore onesto ma sfortunato – che magari non ha nulla da distribuire ai creditori – di chiudere la vicenda debitoria immediatamente e ricominciare. Ci sono alcune condizioni (ad es. il debitore incapiente non deve essere fallibile, non deve aver fatto il furbo sperperando attivo, e può ottenerla solo una volta nella vita), ma rappresenta una notevole novità di civiltà giuridica. È in sostanza la bancarotta senza colpa: il debitore persona fisica totalmente nullatenente può ottenere la cancellazione dei debiti in tempi brevissimi.
Riapertura del fallimento: Dopo la chiusura, se emergono successivamente nuovi beni del fallito che prima erano ignoti (ad es. si scopre un immobile non noto o un credito vinto in una causa pendente), il CCII consente la riapertura della procedura entro un limite di 5 anni. Trascorso quinquennio dalla chiusura, eventuali sopravvenienze attive arricchiranno ormai il debitore libero, a meno che – appunto – non sia stata concessa esdebitazione (in tal caso non si riapre affatto, perché i crediti dei vecchi creditori sono inesigibili). La riapertura è ormai rara, vista la rapidità con cui scatta l’esdebitazione.
In definitiva, il fallimento comporta per il debitore un percorso doloroso ma a termine: egli perde tutti i propri beni e diritti patrimoniali, che sono liquidati per pagare i creditori secondo giustizia; per un periodo (di solito qualche anno) subisce limitazioni e controlli, nonché il discredito commerciale; ma al termine ottiene, se ha agito correttamente, la cancellazione dei debiti residui e la possibilità di ripartire senza pendenze. Proprio per questo equilibrio finale, il fallimento va visto come extrema ratio: è una procedura costosa e invasiva, che distrugge l’impresa, e che conviene affrontare solo quando ogni altra opzione di salvataggio è impraticabile o già fallita. Nella sezione seguente esamineremo infatti le alternative al fallimento che l’ordinamento offre per risolvere la crisi d’impresa, spesso più vantaggiose per il debitore.
Procedure alternative al fallimento e strumenti di gestione della crisi
La legislazione italiana incoraggia l’imprenditore in difficoltà a percorrere, ove possibile, soluzioni negoziali o concordate della crisi, evitando la liquidazione giudiziale. Il Codice della crisi stesso è costruito come un percorso graduale: dagli strumenti di allerta e composizione assistita della crisi, alle procedure di risanamento e ristrutturazione del debito (piani attestati, accordi, concordati), fino ad arrivare solo in ultima battuta alla liquidazione giudiziale. In questa ottica, il fallimento è l’esito da scongiurare se esistono alternative valide di continuità aziendale. Dal punto di vista del debitore, le procedure alternative presentano spesso vantaggi: consentono di mantenere la gestione dell’impresa, riducono la perdita di valore, evitano le conseguenze più gravose (spossessamento totale, stigma penale, ecc.) e possono portare a soluzioni più equilibrate con i creditori. Di contro, richiedono la capacità di negoziare e l’apporto di risorse adeguate, oltre al consenso di una parte dei creditori. Di seguito passiamo in rassegna i principali strumenti concorsuali alternativi al fallimento previsti dall’ordinamento, evidenziandone caratteristiche e condizioni di utilizzo.
Concordato Preventivo
Il concordato preventivo è la principale procedura concorsuale alternativa al fallimento, prevista per consentire all’imprenditore in crisi o insolvente di proporre ai creditori un accordo di ristrutturazione del debito sotto controllo giudiziario. A differenza del fallimento, che è liquidatorio e gestito da un curatore nominato dal tribunale, nel concordato è lo stesso debitore a mantenere la gestione (sia pure sotto vigilanza di un commissario giudiziale) e a presentare un piano con cui intende soddisfare in modo concordato le pretese creditorie. Lo scopo del concordato può essere di due tipi principali:
- Concordato in continuità aziendale: quando si prevede la prosecuzione, in tutto o in parte, dell’attività d’impresa. Il piano può consistere in una ristrutturazione del debito e del capitale, con eventuale intervento di nuovi finanziatori o investitori, taglio parziale dei debiti, dilazioni di pagamento, e così via, in modo da risanare l’azienda come going concern. I creditori accettano il piano se confidano che sia più conveniente rispetto alla liquidazione. In questa forma, l’imprenditore resta alla guida dell’azienda (DIP – debtor in possession), e l’obiettivo è salvaguardare la continuità e i posti di lavoro, pur ristrutturando pesantemente le esposizioni.
- Concordato liquidatorio: quando invece l’impresa non è più risanabile e si decide di liquidare tutti i beni, ma in modo concordato con i creditori, evitando il fallimento. In sostanza, l’imprenditore mette sul piatto l’intero suo patrimonio (e spesso anche risorse aggiuntive di terzi) e lo destina ai creditori secondo un piano di liquidazione, offrendo però a costoro qualche vantaggio in più rispetto a ciò che otterrebbero dal fallimento. Per legge, nel concordato liquidatorio occorre garantire ai creditori chirografari una soddisfazione minima del 20% e un apporto di risorse esterne al patrimonio pari ad almeno il 10% dell’attivo liquidabile. Ciò significa che, ad esempio, se l’attivo stimato è 100 e i chirografari in fallimento avrebbero preso 10, nel concordato il proponente deve offrire almeno 20 ai chirografari (20%) e assicurare che almeno 10 di quei 100 derivino da nuovi fondi, non dalla semplice liquidazione di beni già esistenti (ad es. versamento soci, finanza esterna). Questi requisiti, introdotti dal Codice, mirano a garantire che i creditori ottengano qualcosa in più rispetto al fallimento, giustificando il loro consenso alla proposta. Senza almeno il 20% ai chirografari e il 10% di attivo aggiuntivo, il concordato liquidatorio non è ammissibile.
Il concordato preventivo può essere richiesto solo dal debitore (non dai creditori né d’ufficio). L’imprenditore deve presentare un ricorso al tribunale corredato da un piano dettagliato e da una proposta ai creditori, oltre che da una relazione giurata di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Se la documentazione è completa e i presupposti formali rispettati (tra cui, come visto, che il debitore non sia “piccolo imprenditore” sotto-soglia: i soggetti minori non possono accedere al concordato preventivo ordinario), il tribunale ammette l’azienda alla procedura di concordato. Viene nominato un Commissario Giudiziale, che vigila sull’attività del debitore durante la procedura e riferisce ai creditori e al giudice. Il debitore in concordato resta alla guida, ma ogni atto di straordinaria amministrazione dev’essere autorizzato dal tribunale.
Una volta ammesso, si apre la fase della votazione: i creditori vengono suddivisi in classi (se il piano prevede trattamenti differenziati per categorie omogenee) e sono chiamati a votare sulla proposta concordataria. Per l’approvazione è necessario il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto (calcolata per classi, se ve ne sono, o in percentuale sul totale chirografari). Se il concordato è approvato dalla maggioranza, si passa all’udienza di omologazione davanti al tribunale. Il tribunale verifica la regolarità della procedura, il rispetto dei requisiti di legge (ad esempio, che i creditori dissenzienti non ricevano meno di quanto otterrebbero dalla liquidazione – best interest test), e omologa l’accordo rendendolo vincolante per tutti i creditori anteriori. Da quel momento, il concordato preventivo diventa efficace: i creditori sono tenuti ad accettare le percentuali e le scadenze previste dal piano, rinunciando ad eventuali azioni individuali ulteriori. La procedura poi prosegue con l’esecuzione del piano sotto la sorveglianza di un Liquidatore Giudiziale (nominato dal tribunale se previsto dal piano) e del Commissario. Una volta eseguito il piano (pagate le percentuali promesse), il debitore ottiene la definitiva esdebitazione per la parte residua dei crediti falcidiati, in forza dell’accordo stesso.
Se invece i creditori non approvano la proposta (mancato raggiungimento delle maggioranze) oppure il tribunale nega l’omologazione per qualche motivo (ad es. frodi), la procedura di concordato viene dichiarata infruttuosa e normalmente su istanza dei creditori si apre il fallimento. Il Codice, in alcuni casi, consente un “cram-down” giudiziale: ovvero l’omologazione coattiva anche senza l’unanimità delle classi di creditori, purché almeno una classe favorevole vi sia e il piano non discrimini ingiustamente i dissenzienti. Ad esempio, se i creditori finanziari (banche) approvano ma una classe di chirografari minori no, il tribunale può ugualmente omologare forzatamente il concordato se ritiene che ai dissenzienti è assicurato comunque il rispetto del trattamento di legge (nessuno prende meno di quello che prenderebbe in fallimento e nessuno fuori da quella classe prende più del 100%). Questa facoltà di cram-down è stata ampliata con il recepimento della direttiva UE 2019/1023: oggi il giudice può superare il voto contrario di classi dissenzienti in certi casi, specie nei concordati in continuità che attuano ristrutturazioni complesse.
Vantaggi per il debitore: Il concordato preventivo presenta vari benefici dal punto di vista dell’imprenditore: evita lo spossessamento (il debitore rimane in carica e conserva i beni, seppur vigilato), consente di congelare temporaneamente le azioni esecutive con la concessione del divieto di azioni esecutive (stay) già dalla fase prenotativa, permette di rinegoziare i debiti riducendoli (una falcidia delle passività) e soprattutto – se in continuità – offre una chance di salvataggio dell’impresa come attività economica. Dal punto di vista reputazionale, inoltre, uscire da un concordato omologato può essere visto meglio che un fallimento, e vi è minore stigmatizzazione penale (pur se la bancarotta può scattare anche in concordato se l’imprenditore commette frodi ai danni dei creditori). Di contro, il concordato richiede di convincere i creditori della bontà del piano: se il debitore non è in grado di offrire loro una prospettiva credibile – ad esempio nuovi apporti, un business plan sostenibile o garanzie aggiuntive – difficilmente otterrà i voti necessari. Inoltre, la procedura concordataria comporta costi (commissario, attestatore, legali) ed è complessa da preparare. In sintesi: il concordato preventivo è l’arma principe per l’imprenditore che vuole evitare il fallimento, ma va intrapreso con serietà e con un piano robusto, spesso con il supporto di professionisti esperti in crisi d’impresa.
Novità 2022-2025: Il codice aggiornato ha introdotto due varianti particolari di concordato: il concordato semplificato e il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO). Senza entrare in tecnicismi, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio è una procedura attivabile solo se l’imprenditore ha tentato una composizione negoziata della crisi ma senza raggiungere un accordo. In tal caso egli può proporre direttamente al tribunale un concordato liquidatorio senza voto dei creditori: sarà il giudice, valutata la convenienza del piano per i creditori rispetto al fallimento, ad omologarlo eventualmente anche senza approvazione dei creditori. Si tratta di uno strumento innovativo per casi estremi, dove il voto dei creditori viene bypassato per evitare la liquidazione giudiziale a seguito di negoziazione fallita. Il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO), invece, è un nuovo istituto introdotto per recepire la direttiva europea: consiste in un piano proposto dal debitore e omologato dal tribunale anche senza passare per le regole formali del concordato (voto assembleare, requisiti del 20%-10%, ecc.). Nel PRO i creditori sono coinvolti più come in un accordo di ristrutturazione (vedi oltre), ma con possibilità di cram-down di intere classi dissenzienti da parte del giudice. È dunque uno strumento ibrido, pensato per ristrutturazioni finanziarie complesse, dove si vuole flessibilità maggiore. Ad esempio, nel PRO non valgono i limiti del 20% minimo ai chirografari e del 10% di apporto esterno – si può dunque omologare un piano anche con soddisfazione inferiore al 20%, purché i creditori concordino nelle classi. Questi istituti avanzati sono “armi” in più nel toolbox del debitore, ma richiedono un contesto specifico (il PRO di solito su accordo maggioritario, il concordato semplificato dopo composizione negoziata fallita). Per la maggior parte delle imprese, la distinzione pratica non è essenziale: ciò che conta è sapere che esistono possibilità di accordo e ristrutturazione più flessibili del fallimento, da valutare caso per caso.
Accordi di ristrutturazione dei debiti
Gli Accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) sono un ulteriore strumento concorsuale alternativo, di natura più privatistica rispetto al concordato. Si tratta in sostanza di accordi contrattuali tra l’imprenditore e una parte significativa dei suoi creditori, che vengono poi omologati dal tribunale per acquistare efficacia generale. Introdotti originariamente nell’art. 182-bis Legge Fall., oggi sono disciplinati dagli artt. 57-64 CCII. Funzionano così: il debitore elabora un piano di risanamento o ristrutturazione e lo sottopone ai principali creditori; se riesce ad ottenere l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali (questa la soglia standard prevista), può chiedere l’omologazione giudiziale dell’accordo. L’omologazione rende l’accordo vincolante per le parti aderenti e consente di efficacia esdebitativa pro soluto per quelle posizioni, ma – a differenza del concordato – non vincola automaticamente i creditori dissenzienti o non aderenti, i quali restano estranei (dovranno comunque essere pagati integralmente, fuori accordo). In pratica gli ARD sono simili a transazioni: il debitore e un gruppo qualificato di creditori convengono stralci, proroghe o modifiche delle obbligazioni; il tribunale si limita a verificarne la regolarità (presenza delle attestazioni di fattibilità da parte di un esperto, pagamento integrale dei creditori estranei entro 120 giorni dall’omologa, ecc.) e omologa rendendo l’accordo definitivamente efficace.
Ci sono poi vari tipi particolari: gli accordi ad efficacia estesa consentono, in casi limitati (soprattutto per crediti finanziari), di estendere gli effetti anche ai creditori dissenzienti della stessa categoria se si raggiunge una maggioranza del 75% e il tribunale accerta che i non aderenti non subiscano un trattamento deteriore rispetto ad ipotetiche alternative concorsuali. Esiste anche l’accordo agevolato (introdotto nel 2021) che riduce la soglia di adesione al 30% per alcune tipologie di accordi, ma senza cram-down sui dissenzienti (serve per facilitare accordi parziali con banche e simili).
Dal punto di vista pratico, l’accordo di ristrutturazione è meno invasivo e meno pubblicizzato del concordato: non c’è voto di tutti i creditori, non c’è spossessamento, l’impresa continua la sua attività e negozia privatamente con i creditori chiave (banche, obbligazionisti, fornitori maggiori). Si presenta poi l’accordo firmato in tribunale solo per l’omologazione e per ottenere le protezioni di legge (nel periodo tra pubblicazione della domanda e omologa, il tribunale può concedere misure protettive simili al stay delle azioni esecutive). È quindi uno strumento più snello e riservato. Il rovescio della medaglia è che richiede un consenso elevato: almeno il 60% dei creditori (in valore) deve essere d’accordo sulle soluzioni proposte, il che spesso implica trattative bilaterali intense. I creditori minori possono restare fuori e pretendere il pagamento integrale: per questo, di solito si riservano risorse per pagarli cash (la legge richiede infatti di soddisfare integralmente i creditori estranei entro 120 giorni dall’omologa o 180 dalla domanda). In sostanza, l’ARD è adatto quando il grosso dell’indebitamento è concentrato su pochi creditori “istituzionali” disponibili a negoziare (tipico: ristrutturazione con banche che detengono la maggior parte dell’esposizione; queste accettano un piano di rientro o un taglio del credito, e i piccoli fornitori vengono pagati per intero magari dilazionando poco).
Vantaggi per il debitore: niente spossessamento, gestione interna all’azienda, nessun commissario giudiziale (c’è solo l’attestatore che certifica il piano), minor impatto reputazionale, possibili accordi ad hoc e flessibili con ciascuno (in un ARD, differentemente dal concordato, si potrebbero prevedere trattamenti diversificati anche tra creditori della stessa natura, purché tutti aderenti acconsentano). Svantaggi: necessita negoziazioni complesse e volontarie, non consente di imporre la ristrutturazione ai creditori non d’accordo (tranne i casi speciali di efficacia estesa con 75%), quindi basta un 40% di crediti che dica no per far saltare tutto. Inoltre, data la soglia, l’ARD è precluso se l’indebitamento è molto frammentato e nessuna coalizione arriva al 60%.
Quando preferire accordo o concordato? In linea di massima, l’accordo di ristrutturazione conviene se il debitore ha un numero limitato di creditori con cui può trattare privatamente e raggiungere in tempi rapidi un’intesa. Il concordato preventivo diventa invece necessario quando serve coinvolgere tutti i creditori in una soluzione vincolante, specialmente se molti sono recalcitranti: il concordato consente, con il voto maggioritario e l’omologa, di imporre la falcidia anche ai dissenzienti (cosa che l’accordo non fa, salvo per chi ha firmato). D’altra parte, come visto, il concordato è una procedura più complessa e pubblica, quindi se si può evitare è preferibile. In alcuni casi il debitore presenta contemporaneamente un concordato e un accordo: ad esempio un concordato “misto” dove alcuni creditori strategici hanno già concluso un accordo extra-assembleare (magari per ridurre la soglia dei voti necessari in assemblea).
Piani attestati di risanamento
Un ulteriore strumento, ancora più privatistico e informale, è il Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII, ex art. 67 L.F.). Si tratta di un piano di risanamento redatto dall’imprenditore, con obiettivi e tempistiche per superare la crisi, il quale viene attestato da un professionista indipendente circa la sua ragionevole fattibilità. Questo piano, una volta predisposto e attestato, può essere eseguito dall’imprenditore mediante accordi privati con alcuni creditori (ad esempio rinegoziazione fidi con le banche, dilazione fornitori, nuovi apporti dei soci, ecc.), senza necessità di omologazione in tribunale. Il beneficio legale dei piani attestati consiste nel fatto che gli atti compiuti in esecuzione del piano sono esenti da revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento (art. 166, co.3, lett. d CCII): ciò per incentivare i creditori a sostenere ristrutturazioni out-of-court senza il timore che, se poi l’azienda fallisce comunque, i pagamenti ricevuti o le garanzie concesse vengano revocati. In altre parole, il piano attestato non è di per sé una procedura concorsuale, ma uno strumento contrattuale tutelato dall’ordinamento.
Nella pratica, un piano attestato è utile quando l’impresa ha una crisi gestibile e concorda misure di risanamento con stakeholder rilevanti in modo relativamente rapido. Ad esempio, Tizio S.p.A. elabora con un advisor un piano per ripianare le perdite e riequilibrare la finanza: ottiene che le banche estendano le linee, i soci immettano denaro fresco, i fornitori principali accettino di allungare i termini di pagamento, ecc. Un esperto indipendente attesta che il piano è idoneo a ristrutturare l’esposizione e a garantire l’equilibrio futuro. Tizio esegue il piano: se poi tutto va bene, l’azienda evita procedure; se malauguratamente il piano fallisse e Tizio finisse comunque in fallimento, i soggetti che hanno aderito al piano (banche, fornitori) non subirebbero revocatorie per ciò che hanno incassato o per le garanzie ricevute durante il piano. Ciò li rende più disponibili ad aderire inizialmente.
Dal punto di vista del debitore, il piano attestato ha il vantaggio di essere totalmente riservato (non viene pubblicato, se non volontariamente in registro imprese) e flessibile (non richiede soglie né omologhe). Lo svantaggio è che non vincola nessuno che non voglia aderire: è un puro accordo volontario. Inoltre, non offre la protezione del stay automatico: i creditori che non partecipano potrebbero comunque agire esecutivamente mentre l’azienda cerca di attuare il risanamento (anche se il debitore può chiedere misure protettive in via d’urgenza, non c’è una moratoria generale come nel concordato salvo ricorso a tribunale, il che ne svelerebbe la riservatezza). Quindi il piano attestato funziona soprattutto per crisi ancora moderate, con consenso piuttosto ampio e nessuna ostilità aperta tra creditori e debitore.
Composizione negoziata della crisi
La Composizione negoziata della crisi è uno strumento introdotto di recente (D.L. 118/2021, ora inserito nel CCII) che offre all’imprenditore in crisi l’assistenza di un esperto indipendente per tentare di raggiungere accordi con i creditori in via stragiudiziale. È una procedura volontaria e confidenziale: l’imprenditore richiede la nomina di un esperto (tramite piattaforma camerale) quando si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico, ma ancora reversibile. L’esperto nominato (di norma un commercialista o professionista con specifiche competenze) analizza la situazione e si pone come facilitatore delle trattative tra l’imprenditore e i creditori, nel tentativo di individuare una soluzione concordata per superare la crisi. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria e straordinaria (salvo dover informare l’esperto), e può chiedere al tribunale alcune misure protettive temporanee: ad esempio, la sospensione delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori (una sorta di stay su richiesta) e l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili per sostenere la continuità aziendale. La composizione negoziata di per sé non è pubblica, a meno che l’imprenditore non richieda l’applicazione di misure protettive (in tal caso il provvedimento viene iscritto nel registro imprese e comunicato ai creditori interessati).
Gli esiti possibili della composizione negoziata sono vari:
- Se le trattative hanno successo, l’imprenditore può concludere uno o più accordi stragiudiziali con i creditori (ad esempio, transazioni bilaterali, modifiche contrattuali, moratorie) oppure un contratto di ristrutturazione plurilaterale. Tali accordi, se raggiunti con una percentuale significativa di creditori, possono poi essere formalizzati in un accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII o in un concordato semplificato a seconda dei casi. In alternativa, le parti possono anche strutturare nuove operazioni (es. ingresso di un investitore, cessione di asset) che risolvano la crisi.
- Se le trattative non portano ad alcun accordo, l’esperto ne dà atto in una relazione finale. A questo punto l’imprenditore può valutare di accedere ad una procedura concorsuale vera e propria. In particolare, come già detto, se la composizione negoziata fallisce l’imprenditore può proporre il concordato semplificato al tribunale entro 60 giorni, offrendo comunque ai creditori una liquidazione controllata dei beni (evitando il fallimento). Oppure, l’imprenditore potrebbe optare per il concordato preventivo classico o altre soluzioni (o in ultima analisi, il fallimento in proprio).
La composizione negoziata è pensata per creare uno spazio di confronto protetto ma informale tra debitore e creditori, grazie alla figura terza e imparziale dell’esperto, che cerca di far emergere soluzioni reciprocamente accettabili. È una evoluzione del concetto di allerta: invece di una segnalazione pubblica e autoritativa, si punta sul coinvolgimento volontario del debitore offrendo un aiuto professionale. Vantaggi per il debitore: è riservata (nessuna “etichetta” di procedura concorsuale), consente di continuare a gestire l’impresa, e offre un supporto qualificato nelle trattative, aumentando le chance di un esito concordato senza dover ricorrere a tribunale. Inoltre, l’eventuale concessione di protezioni (come il blocco dei pignoramenti) dà respiro temporaneo evitando che un creditore impaziente faccia saltare tutto. Svantaggi: non vi è certezza di risultato – l’esperto non ha poteri coercitivi, tutto dipende dalla ragionevolezza dei creditori e dalla sostenibilità delle proposte del debitore. In situazioni di forte conflittualità o insolvenza avanzata, la composizione negoziata potrebbe rivelarsi inefficace. Tuttavia, anche quando non si raggiunge un accordo completo, il lavoro svolto con l’esperto può preparare il terreno per un successivo concordato o accordo giudiziale, avendo chiarito le posizioni in gioco.
La Composizione negoziata è accessibile a tutte le imprese, anche quelle minori (anzi, per le imprese sotto-soglia è uno dei pochi canali di emersione della crisi, assieme alle procedure di sovraindebitamento). Per le piccolissime imprese la legge prevede anche la figura del facilitatore messo a disposizione dalle Camere di Commercio per consulenza gratuita. In definitiva, questo strumento – introdotto di recente – rappresenta oggi il primo step consigliabile per un imprenditore che avverta i segnali di una crisi: rivolgersi alla composizione negoziata può permettere di evitare il precipitare verso l’insolvenza irreversibile e il fallimento, utilizzando il dialogo assistito con i creditori e magari soluzioni creative (dilazioni, conversione di crediti in strumenti partecipativi, ecc.).
Soluzioni per debitori non fallibili: sovraindebitamento
Abbiamo detto che i piccoli imprenditori, i professionisti e in generale i soggetti non fallibili non possono accedere alle procedure concorsuali ordinarie (fallimento, concordato preventivo). Ciò non significa che non abbiano tutele in caso di insolvenza: per essi esistono le cosiddette procedure di sovraindebitamento, disciplinate inizialmente dalla L. 3/2012 e ora confluite nel Codice della crisi (artt. 65-91 CCII). Tali procedure, pur rivolgendosi a “non fallibili”, sono in tutto simili concettualmente a concordati e fallimenti, con gli opportuni adattamenti. Dal 2021 sono state in parte riformate per allinearle alla direttiva UE.
In particolare, le principali opzioni per un debitore civile o piccolo imprenditore insolvente sono:
- Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore: è l’evoluzione del vecchio “piano del consumatore”. Consente al consumatore sovraindebitato (persona fisica che ha debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale, es. privati, famiglie) di proporre al tribunale un piano di rientro dai debiti sostenibile, senza il bisogno di approvazione dei creditori. Il giudice omologa il piano valutando soprattutto la meritevolezza del consumatore (che non deve aver fatto debiti con colpa grave o frode) e la sua capacità di adempiere il piano. I creditori vengono vincolati dal decreto pur se contrari, purché ricevano almeno quanto otterrebbero dallo scenario liquidatorio. Questo strumento permette ad esempio a una famiglia oppressa da debiti di ridurli e dilazionarli in base al reddito disponibile, sotto controllo dell’OCC (Organismo di Composizione della Crisi).
- Concordato minore: è una sorta di “concordato preventivo” per piccoli imprenditori e soggetti non fallibili diversi dal consumatore. Funziona analogamente a un concordato: il debitore propone ai creditori un piano di soddisfazione parziale dei debiti (anche con eventuale liquidazione di beni, o con continuazione dell’attività su scala ridotta) e si sottopone al voto dei creditori. Serve la maggioranza dei crediti per l’approvazione. È quindi lo strumento adatto, ad esempio, per un piccolo imprenditore sotto soglia o un professionista che abbiano molti debiti: tramite il concordato minore possono falcidiare e ristrutturare tali debiti ottenendo l’omologazione dal giudice, in modo similare al concordato preventivo ma su scala minore. Una particolarità è che la legge consente anche qui una omologazione del concordato minore nonostante il voto negativo dei creditori quando ricorrono certe condizioni (meritevolezza del debitore e offerta non inferiore a liquidazione): si tenta cioè di favorire anche il debitore minore, evitando che pochi creditori ostacolino la sua ripresa.
- Liquidazione controllata del sovraindebitato: è l’equivalente del fallimento per i debitori civili o minori. Se un soggetto non fallibile è totalmente insolvente e non ha prospettive di accordo, può (anche volontariamente) aprire una procedura di liquidazione controllata dei suoi beni ex art. 268 CCII. Un liquidatore nominato dal tribunale (spesso l’OCC) venderà i beni e distribuirà il ricavato ai creditori. Al termine, il debitore persona fisica può ottenere l’esdebitazione con modalità analoghe a quella post-fallimentare (anzi, tendenzialmente più facili). La liquidazione controllata ricalca la vecchia “liquidazione del patrimonio” della L.3/2012. Si applica a piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, professionisti, consumatori ecc. Praticamente, un artigiano sotto soglia fortemente indebitato può chiedere la liquidazione controllata: affiderà i beni (es. laboratorio, casa di proprietà ecc.) al liquidatore, e una volta venduti e pagato il possibile, otterrà la liberazione dai debiti residui secondo le norme sull’esdebitazione.
- Esdebitazione del debitore incapiente: come già visto in ambito fallimentare, anche per i sovraindebitati esiste la possibilità di esdebitazione senza alcuna distribuzione, in casi eccezionali. La L.3/2012 (art. 14-quaterdecies) aveva introdotto la possibilità per la persona meritevole e totalmente incapiente (cioè senza beni né redditi aggredibili) di ottenere la cancellazione dei debiti subito, una volta nella vita, purché almeno nei 4 anni successivi metta a disposizione ai creditori l’eventuale sopravvenienza attiva (se ha miglioramenti reddituali). Questa “esdebitazione a zero” è ora prevista nel CCII ed è destinata a chi non può nemmeno avviare una liquidazione controllata per mancanza di beni. Rappresenta davvero l’ultima risorsa per chi è schiacciato dai debiti pur non avendo nulla: ad esempio, un disoccupato con debiti di vecchi prestiti può rivolgersi all’OCC e chiedere l’esdebitazione immediata da sovraindebitato incapiente, impegnandosi a comportarsi correttamente nei prossimi 4 anni (il periodo di “osservazione” previsto).
In conclusione, anche i debitori non fallibili (come piccoli imprenditori, privati, professionisti) oggi hanno strumenti per affrontare legalmente il sovraindebitamento. Dal punto di vista del piccolo imprenditore debitore, queste procedure (concordato minore, liquidazione controllata) sono assimilabili a quelle maggiori: offrono la prospettiva di un accordo o quantomeno di una chiusura ordinata dell’attività con esdebitazione finale. È importante conoscerle perché spesso un piccolo imprenditore potrebbe credere di non avere via d’uscita (“non posso fallire, quindi i miei debiti mi inseguiranno a vita”): invece, può ricorrere al tribunale per attivare il sovraindebitamento e liberarsene secondo legge.
Procedure concorsuali speciali (cenni)
Completiamo il panorama segnalando che esistono procedure concorsuali speciali per determinate categorie di imprese di particolare interesse pubblico:
- La Liquidazione Coatta Amministrativa (LCA): si applica ad imprese operanti in settori regolati e pubblicistici (banche, assicurazioni, società finanziarie vigilate, cooperative di grandi dimensioni, etc.). Viene disposta con provvedimento dell’autorità di vigilanza (es. Banca d’Italia per una banca) o decreto ministeriale, anziché dal tribunale, e la gestione della liquidazione è affidata a commissari liquidatori nominati dalla pubblica autorità. La LCA funziona in modo simile ad un fallimento (si spossessa l’ente e si liquidano i beni), ma è condotta in sede amministrativa sotto la supervisione del Ministero o ente vigilante competente. I creditori fanno le domande di ammissione al passivo ai commissari e ricevono distribuzioni analoghe a un fallimento, ma alcune regole possono differire (ad es. privilegio di alcuni crediti, tempistiche). Classici esempi: il fallimento di una banca non si chiama fallimento ma liquidazione coatta bancaria ed è gestito da commissari nominati dalla Banca d’Italia; simile per assicurazioni con IVASS. Anche molte cooperative a rilevanza pubblica (es. cooperative edilizie) in dissesto vengono messe in LCA dal Ministero dello Sviluppo Economico. Dal punto di vista del debitore, la LCA è generalmente imposta d’ufficio (non la chiede l’impresa) e comporta la perdita totale del controllo dell’ente, spesso anticipata da amministrazioni straordinarie; per i creditori, par condicio salvo peculiari privilegi (es. depositanti di banca tutelati da fondo interbancario).
- L’Amministrazione Straordinaria delle Grandi Imprese: è una procedura concorsuale speciale volta non tanto alla liquidazione, quanto alla conservazione di grandi complessi industriali in crisi, tramite programmi di ristrutturazione o cessione. Prevista dal D.Lgs. 270/1999 (Prodi-bis) e dalla L. 39/2004 (Marzano, per imprese oltre 500 dipendenti). Si applica ad imprese di dimensioni enormi (centinaia di dipendenti, debiti ingenti) la cui improvvisa chiusura avrebbe grave impatto sociale. L’autorità governativa (Ministero) nomina uno o tre commissari straordinari che gestiscono l’impresa insolvente con poteri di amministrazione, elaborando un programma di risanamento o predisponendo la cessione degli asset a terzi, il tutto entro un certo termine. Durante l’amm. straord., le azioni dei creditori sono sospese e alla fine i crediti vengono soddisfatti in base al piano approvato (spesso attraverso una ripartizione sull’attivo ricavato). Questa procedura mira a evitare il fallimento quando c’è speranza di salvare l’azienda o parti di essa tramite interventi straordinari (spesso con aiuti pubblici indiretti, v. Alitalia, Ilva, Parmalat furono in amm. straord.). Per il debitore, significa essere esautorato (i vecchi organi vengono spesso rimossi) ma con la prospettiva di una soluzione guidata a salvaguardia di continuità e livelli occupazionali.
Queste procedure speciali esulano dallo scopo di questa guida, ma era opportuno menzionarle. Nella quasi totalità dei casi, l’imprenditore che deve preoccuparsi di “cosa succede se fallisco” si riferirà alle procedure ordinarie (fallimento/liquidazione giudiziale, concordato, accordi, ecc.), mentre LCA e Amm. straord. riguardano casi relativamente rari e settori specifici.
Domande frequenti sul fallimento (FAQ)
Di seguito rispondiamo ad alcune domande comuni che un imprenditore-debitore potrebbe porsi riguardo al fallimento e alle procedure correlate, sintetizzando in forma di Q&A le informazioni più rilevanti:
D: Chi può essere dichiarato fallito (sottoposto a liquidazione giudiziale)?
R: Possono fallire gli imprenditori commerciali (compresi gli enti collettivi) che esercitano un’attività d’impresa, esclusi però i piccoli imprenditori sotto le soglie di legge. In pratica, le società di capitali (Srl, Spa) e le società di persone (Snc, Sas) di medie-grandi dimensioni sono fallibili, così come gli imprenditori individuali non piccoli (fatturato sopra ~€200k e debiti sopra ~€500k). Restano invece esclusi dal fallimento: i piccoli imprenditori (artigiani, coltivatori diretti e ditte individuali sotto soglia), gli imprenditori agricoli sotto soglia, i professionisti, i consumatori privati e, ovviamente, enti pubblici ed entità non commerciali. Questi soggetti, se insolventi, possono accedere alle procedure di sovraindebitamento ma non al fallimento. Inoltre, la legge oggi richiede che per dichiarare il fallimento ci siano almeno €30.000 di debiti scaduti impagati, per evitare procedure su insolvenze bagatellari.
D: Una piccola impresa (sotto soglia) o un privato può fallire?
R: No, una micro-impresa sotto i limiti (€300k attivo, €200k ricavi, €500k debiti) è definita impresa minore e non è soggetta a fallimento. Parimenti un individuo che non sia imprenditore commerciale (consumatore o professionista) non può essere dichiarato fallito. Ciò non significa però che non abbia tutele: in caso di insolvenza, costoro possono ricorrere al concordato minore o alla liquidazione controllata presso il tribunale per risolvere i debiti. Ad esempio, un artigiano con troppi debiti può attivare una liquidazione controllata (simile a un fallimento semplificato) o proporre un accordo ai sensi della legge sul sovraindebitamento. Queste procedure, pur diverse nel nome, hanno effetti analoghi: liquidare i beni e liberare dai debiti. Quindi, di fatto anche il piccolo imprenditore insolvente ha una via d’uscita legale, pur non chiamandosi “fallimento”.
D: Che differenza c’è tra fallimento e liquidazione giudiziale?
R: Dal punto di vista giuridico, nessuna differenza sostanziale – la liquidazione giudiziale è semplicemente il nuovo nome del fallimento introdotto col Codice della crisi d’impresa. Si è voluto cambiare terminologia per attenuare connotazioni negative e sottolineare la finalità tecnica di liquidare il patrimonio sotto controllo giudiziario. In pratica, le norme sulla liquidazione giudiziale (artt. 121 e segg. CCII) ricalcano in gran parte la vecchia legge fallimentare: l’effetto è sempre lo spossessamento del debitore, la nomina di un curatore, il concorso dei creditori e la liquidazione dei beni. Anche la figura del fallito rimane concettualmente, pur non chiamandosi più così formalmente. Quindi parlare di “azienda fallita” o “azienda in liquidazione giudiziale” è equivalente, ma il termine tecnicamente corretto dal 2022 è il secondo.
D: Cosa succede ai beni dell’imprenditore quando viene dichiarato il fallimento?
R: La sentenza di fallimento comporta il passaggio di tutti i beni del debitore sotto il controllo del curatore e l’incapacità del debitore di disporne. Quindi l’imprenditore perde amministrazione e disponibilità del patrimonio: i conti correnti vengono congelati, l’eventuale denaro in cassa viene prelevato, gli immobili e i beni mobili entrano nella massa fallimentare. Il curatore farà l’inventario e progressivamente liquiderà ogni bene per distribuirne il ricavato ai creditori. Il debitore non può vendere, donare, ipotecare o in alcun modo disporre dei suoi beni dopo la dichiarazione di fallimento – se lo fa, quegli atti sono inefficaci e il curatore può riprendersi i beni o le somme. Nel caso di una società, ciò riguarda i beni sociali (la società prosegue solo in funzione liquidatoria, e i soci perdono il valore delle loro partecipazioni). Nel caso di un imprenditore individuale, anche i suoi beni personali entrano nell’attivo fallimentare (tranne gli oggetti strettamente personali e una parte di redditi di lavoro). Ad esempio, se un commerciante individuale fallisce, la sua casa di proprietà, l’auto, i conti, merci, arredi – tutto può essere venduto dal curatore. Dopo il fallimento il debitore non può intraprendere nuove attività economiche con quei beni (li ha persi) e non può pagare preferenzialmente nessun creditore fuori dalla procedura.
D: I soci rispondono dei debiti dell’azienda fallita con il loro patrimonio?
R: Dipende dal tipo di società: per le società di capitali (Srl, Spa) i soci hanno responsabilità limitata, quindi in linea generale non rispondono personalmente dei debiti sociali con il proprio patrimonio. In caso di fallimento della Srl/Spa, i creditori sociali potranno soddisfarsi solo sul patrimonio della società (ormai affidato al curatore), e i soci perderanno al massimo quanto investito in quote/azioni. Fanno eccezione situazioni di abuso di personalità giuridica (es. soci che confondono beni propri e sociali) ma sono casi eccezionali. Viceversa, per le società di persone (Snc, Ss, Sas) i soci illimitatamente responsabili rispondono personalmente dei debiti sociali: ciò significa che, se fallisce ad esempio una Snc, vengono dichiarati falliti anche tutti i soci e i creditori possono aggredire i loro beni personali. Nella Sas falliscono i soci accomandatari (che hanno responsabilità illimitata) ma non gli accomandanti (limitata al conferimento). Quindi i soci illimitatamente responsabili di fatto subiscono il fallimento come persone fisiche con tutte le conseguenze (liquidazione dei beni personali). Infine, se i soci di una società di capitali avevano prestato garanzie personali (fideiussioni) per debiti sociali, allora, pur senza fallire, essi saranno comunque chiamati a pagare quei debiti dai creditori garantiti. Ad esempio, se i soci di una Srl hanno garantito un mutuo bancario della società e la Srl fallisce, la banca potrà escutere direttamente i soci garanti al di fuori del fallimento – e se questi non pagano, potranno subire un pignoramento personale. In tal senso il loro patrimonio è a rischio ma per obblighi assunti volontariamente come garanti, non erga omnes come accade per i soci di Snc.
D: Quali debiti rimangono a carico del fallito dopo la chiusura del fallimento?
R: Se il fallito è una persona fisica, in linea di massima nessuno: oggi il fallito persona fisica, ottenuta l’esdebitazione, viene liberato da tutti i debiti concorsuali non pagati. Dunque dopo la chiusura del fallimento (o anche dopo 3 anni dall’apertura, automaticamente) il debitore non dovrà più pagare ai vecchi creditori le eventuali somme insoddisfatte. È il concetto di fresh start: il fallito onesto ha diritto di ripartire da zero senza zavorre. Ci sono però eccezioni: alcuni debiti per loro natura non sono cancellati dall’esdebitazione. In particolare: le obbligazioni alimentari e di mantenimento (es. assegni familiari, debiti per figli), le sanzioni penali o amministrative pecuniarie (multe, ammende), e i debiti da risarcimento di danni extracontrattuali (per fatti illeciti) restano comunque dovuti. Ad esempio, una multa stradale non pagata o un risarcimento per lesioni personali non vengono spazzati via dal fallimento; il creditore potrà pretenderli dal debitore anche dopo. Inoltre, se l’esdebitazione viene negata perché il fallito ha compiuto atti di frode o reati (bancarotta fraudolenta ad esempio), in tal caso i debiti rimangono esigibili integralmente. Per le società fallite, il problema non si pone: la società al termine del fallimento viene cancellata dal registro imprese e “cessa di esistere”, dunque i debiti insoddisfatti restano privi di un soggetto obbligato (non esiste più il debitore). Attenzione però: in caso di società di persone, l’estinzione della società non estingue i debiti sociali verso i soci illimitatamente responsabili (costoro ne rispondono personalmente anche dopo, salvo che anch’essi ottengano l’esdebitazione nel proprio fallimento).
D: Quanto dura di solito una procedura di fallimento?
R: La durata può variare molto, in base alle dimensioni dell’impresa fallita e alla complessità delle operazioni. Per piccole imprese con pochi beni, il fallimento può concludersi anche in 2-3 anni. Per procedure complesse (con tanti immobili da vendere, contenziosi legali, ecc.) si può arrivare a 5-6 anni e oltre. Il Codice della crisi ha introdotto alcuni accorgimenti per accelerare: ad esempio il programma di liquidazione deve essere presentato entro 5 mesi e dovrebbe concludersi in circa 5 anni al massimo. In pratica però molti fallimenti storicamente si protraevano anche 7-8 anni o più (specie in presenza di cause giudiziarie pendenti, che il curatore deve aspettare). Oggi la tendenza è a chiudere più celermente, utilizzando aste telematiche per vendere in tempi stretti e favorendo la chiusura anticipata se l’attivo è esiguo. D’altra parte, l’esdebitazione per l’individuo scatta comunque dopo 3 anni dall’apertura, quindi il debitore persona fisica può “uscire” dai debiti anche se la procedura tecnica magari prosegue ancora per distribuire attivo (il suo debito residuo viene dichiarato inesigibile trascorsi i 3 anni). In sintesi: qualche anno di durata è da mettere in conto; raramente un fallimento si chiude prima di 2 anni, ma nella maggior parte dei casi entro 4-5 anni si chiude.
D: Che rischi penali corre l’imprenditore in caso di fallimento?
R: L’apertura del fallimento comporta un vaglio molto attento sulle condotte passate dell’imprenditore da parte del curatore e del tribunale. Se emergono irregolarità gravi, scattano le ipotesi di reati fallimentari. Il reato principale è la bancarotta fraudolenta (artt. 322-323 CCII, ex art. 216 L.F.): punisce con la reclusione fino a 10 anni il fallito (o gli amministratori, se società) che abbia dolosamente sottratto o distratto beni dell’azienda prima del fallimento, oppure falsificato le scritture contabili, o ancora simulato passività inesistenti per pregiudicare i creditori. È il reato di “depauperamento fraudolento” del patrimonio a danno dei creditori e viene perseguito d’ufficio appena scoperto. Un’altra fattispecie è la bancarotta semplice (art. 324 CCII) per condotte meno fraudolente ma comunque colpose, ad esempio avere aggravato il dissesto con spese personali eccessive o violando gli obblighi contabili. Inoltre esistono reati connessi come la ricorso abusivo al credito (se l’impresa ha continuato a indebitarsi sapendo di essere insolvente). Quindi, se l’imprenditore ha commesso malversazioni o irregolarità, il fallimento le porta a galla e può portare a processi penali seri. Se invece ha gestito con correttezza e la crisi è dovuta a cause di mercato, non rischia sanzioni penali dal solo fatto del fallimento. In altre parole, fallire non è reato, ma alcune azioni compiute prima del fallimento possono esserlo. Il miglior consiglio per un imprenditore è: non compiere atti di occultamento o favoritismi in extremis (tipo nascondere merci, pagare solo alcuni creditori violando la par condicio, vendere a parenti sotto costo), perché oltre a poter essere annullati dal curatore, espongono a incriminazione per bancarotta. Da notare: se viene aperto un procedimento penale per bancarotta, la concessione dell’esdebitazione viene sospesa finché il penale non si conclude, e se c’è condanna per bancarotta fraudolenta l’esdebitazione non verrà concessa. Dunque la sanzione per il fallito fraudolento è duplice: il carcere e restare coi debiti.
D: Cosa possono fare l’imprenditore o la società per evitare il fallimento?
R: Possono attivarsi tempestivamente utilizzando gli strumenti di regolazione della crisi previsti dalla legge, prima di precipitare nell’insolvenza irreversibile. Nello specifico:
- Rivolgersi a un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) o richiedere la composizione negoziata se emergono i primi segnali di squilibrio. Un esperto potrà aiutare a negoziare con le banche e i creditori, congelando temporaneamente le azioni esecutive e cercando un accordo di ristrutturazione volontaria.
- Predisporre un piano attestato di risanamento, facendolo asseverare da un professionista indipendente, e poi proporre rinegoziazioni ai principali creditori. Ciò consente di operare in bonis senza procedure formali, se c’è collaborazione.
- Se l’insolvenza è ormai conclamata ma c’è ancora fiducia dei creditori, presentare un accordo di ristrutturazione dei debiti (accordo ex art. 182-bis/57 CCII) con il supporto di almeno il 60% dei creditori. Con l’omologazione di tale accordo, il fallimento è evitato e l’azienda può proseguire alle nuove condizioni pattuite.
- In alternativa, predisporre un concordato preventivo e depositare domanda (anche con riserva) prima che i creditori ottengano sentenze o pignoramenti. Il concordato, una volta ammesso, blocca i fallimenti su iniziativa altrui e, se portato a termine con successo, scongiura la liquidazione giudiziale. Ad esempio, un concordato in continuità può ridurre i debiti e salvare l’impresa, oppure un concordato liquidatorio darà ai creditori una soddisfazione maggiore e più rapida di un fallimento e dunque potrebbe essere accettato.
- Per i piccoli imprenditori, utilizzare i procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento (come il concordato minore). Ad esempio un’impresa familiare indebitata potrebbe proporre ai creditori un concordato minore offrendo la liquidazione di alcuni beni ma evitando di perdere l’abitazione principale o altri asset cruciali (spesso i creditori accettano se ricevono più o meno quanto otterrebbero dalla liquidazione pura).
In sintesi, l’imprenditore deve essere proattivo: appena capisce di non poter pagare regolarmente tutti i debiti, dovrebbe cercare un accordo con i creditori invece di lasciar aggravare la situazione. La legge offre varie protezioni e incentivi per facilitare questi accordi (ad es. esenzioni da revocatoria, finanziamenti prededucibili autorizzati, moratorie temporanee). L’importante è agire prima che i creditori perdano la fiducia e inizino azioni legali irreversibili. Naturalmente, se la situazione è troppo compromessa e nessuna soluzione di risanamento è praticabile, può essere consigliabile procedere direttamente con il fallimento in proprio: ciò evita ulteriori accumuli di debito e consente di iniziare prima il conteggio dei tempi per la liberazione dai debiti (esdebitazione). In alcuni casi, come extrema ratio, l’imprenditore stesso chiede il proprio fallimento per mettere fine all’agonia economica. Ma finché c’è margine, conviene tentare le vie concordate perché permettono di gestire la crisi in modo meno traumatico e magari di salvare l’azienda o parte di essa.
D: Dopo aver subito un fallimento, posso avviare una nuova impresa o tornare a fare l’imprenditore?
R: Sì, dopo la chiusura del fallimento (o addirittura durante, se vi è esdebitazione anticipata) il soggetto fallito può riprendere attività d’impresa, salvo eventuali interdizioni specifiche. Nel vigore della vecchia legge, il fallito doveva attendere la “riabilitazione civile” (dopo almeno 5 anni) per riacquistare pieni diritti commerciali. Oggi questo istituto è abolito: quindi una volta ottenuto il decreto di chiusura e l’esdebitazione, l’ex fallito torna libero di iniziare nuove attività economiche, costituire società e assumere cariche (amministratore, ecc.). Non ci sono automatismi che glielo impediscano. Tuttavia, in pratica, va considerato: se il fallito è stato condannato per bancarotta fraudolenta o altri reati, il giudice penale normalmente applica pene accessorie tra cui l’interdizione dall’esercizio di imprese commerciali e dall’assunzione di uffici direttivi per un certo periodo (spesso 10 anni per la bancarotta fraudolenta). Quella è una limitazione penale che prescinde dal diritto fallimentare. Quindi un fallito fraudolento potrebbe essere legalmente bandito dal fare l’imprenditore per anni, a causa della condanna. In assenza di ciò, invece, l’ex fallito può senz’altro ricostituire un patrimonio e reinvestirlo in nuove iniziative. Si noti però che alcuni ordinamenti o regolamenti (es. bandi pubblici, albi professionali) potrebbero richiedere requisiti di onorabilità che un recente fallito non possiede per un periodo. Ma dal punto di vista strettamente normativo concorsuale, l’esdebitazione cancella i debiti e toglie lo status di fallito, per cui il soggetto torna pienamente attivo. Molti grandi imprenditori del passato hanno conosciuto fallimenti e poi sono ripartiti con successo (si cita spesso Ford, Walt Disney, ecc. in contesti diversi). La logica della riforma è proprio questa: favorire il fresh start, perché un imprenditore che ha imparato da un insuccesso potrà magari avere successo in futuro, se non viene marchiato a vita. Naturalmente, ottenere credito e fiducia sul mercato dopo un fallimento può non essere semplice (la segnalazione a Centrale Rischi ed eventuali pregiudizievoli restano visibili per un certo tempo). Ma legalmente non ci sono preclusioni, a parte quelle giudiziarie di natura penale se applicate caso per caso.
Tabelle riepilogative
Di seguito proponiamo alcune tabelle riassuntive che confrontano i punti salienti delle diverse procedure e strumenti trattati, dal punto di vista del debitore:
Tabella 1 – Principali procedure concorsuali e alternative: soggetti, finalità e controllo
Procedura/Strumento | Chi può accedervi | Finalità | Assetto di controllo |
---|---|---|---|
Liquidazione giudiziale (Fallimento) | Imprenditori commerciali insolventi > soglie (non minori). Include grandi imprese e (dal 2022) anche impr. agricoli sopra soglia. | Liquidazione coatta di tutti i beni del debitore e riparto ai creditori. Cessazione dell’attività, chiusura dell’impresa. | Spossessamento del debitore; gestione affidata a Curatore nominato dal Tribunale. Debitore non dispone più dei beni, ma ha obbligo di collaborazione. |
Concordato Preventivo | Imprenditori (anche > soglia se non minore) in crisi o insolventi che vogliono evitare la liquidazione giudiziale. Non accessibile a imprese minori (sotto soglia). | Risanamento o liquidazione concordata con i creditori. Può mirare alla continuazione azienda (continuità) o alla cessione di beni con stralcio parziale debiti (liquidatorio). | Debitore rimane in possesso (DIP), sotto vigilanza di un Commissario nominato dal Tribunale. Atti straordinari autorizzati dal Giudice. Creditori votano il piano; se approvato e omologato, debitore esegue il piano sotto controllo del Commissario/Liquidatore. |
Accordo di ristrutturazione | Imprenditori (anche non commerciali) in crisi, con consenso iniziale di ≥60% dei crediti. Accessibile anche a imprese minori (purché non soggette a liquidaz. giud.). | Ristrutturazione contrattuale del debito con parte dei creditori, omologata dal Tribunale. Obiettivo: rinegoziare scadenze, tagli e piano pagamenti evitando procedure più invasive. | Debitore conserva la gestione integrale (nessun organo nominato), negozia privatamente con creditori. Tribunale interviene solo per omologare l’accordo. I creditori non aderenti restano fuori (devono essere pagati per intero). Misure protettive possibili su richiesta (divieto azioni individuali durante trattative). |
Composizione negoziata | Tutte le imprese (anche piccole) che rilevino squilibri patrimoniali/finanziari potenzialmente remediabili. Volontaria. | Evitare la crisi irreversibile tramite accordi facilitati da un esperto. Può sfociare in accordi stragiudiziali, in un concordato, in un accordo ex art.57 o in altre soluzioni ibride. | Debitore al timone (continua gestione ordinaria e straordinaria con monitoraggio). Un Esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio modera le trattative e verifica la sostenibilità delle proposte. Non è procedura giudiziaria, ma su richiesta del debitore il Tribunale può concedere protezioni (moratoria temporanea). |
Liquidazione controllata (sovraindebitamento) | Debitori non fallibili insolventi: piccoli imprenditori sotto soglia, professionisti, consumatori, start-up innovative, ecc.. | Liquidazione concorsuale dei beni del debitore minore, simile al fallimento ma su scala ridotta e davanti a Tribunale monocratico. Estinzione dei debiti residui con esdebitazione finale. | Spossessamento anche qui: nominato un Liquidatore (spesso un Gestore OCC) al posto del curatore. Procedura semplificata, tempi ridotti. Il debitore collabora ma non gestisce più i beni. |
Concordato minore (sovraind.) | Debitori non fallibili (impr. minori, persone fisiche non consumatori) in crisi/insolvenza. Sostituisce il vecchio “accordo di composizione” L.3/2012. | Accordo concorsuale con i creditori simile al concordato preventivo ma per piccole masse. Possibile continuità o liquidazione concordata. Richiede il voto favorevole dei creditori (maggioranza). | Debitore in possesso, nominato un Gestore/ausiliario dall’OCC. Creditori votano il piano in adunanza. Omologa del Tribunale anche in caso di voto negativo se ricorrono certe condizioni di equità. |
Tabella 2 – Confronto dal punto di vista del debitore: alternative vs fallimento
Soluzione | Vantaggi per il debitore | Svantaggi / Limiti |
---|---|---|
Fallimento / Liquidaz. giud. (ultimo rimedio) | – Permette esdebitazione piena (débiti cancellati) dopo 3 anni.– Procedura d’ufficio: il debitore insolvente può anche non attivarsi (ma subire l’istanza di creditori/PM).– Definisce in modo definitivo la situazione debitoria, chiudendo ogni pretesa individuale. | – Perdita totale del controllo dell’impresa e dei beni dal giorno del fallimento.– Liquidazione integrale del patrimonio (la continuità aziendale non è prioritaria, salvo eccezioni).– Stigma reputazionale e possibili conseguenze penali (se frodi).– Durata pluriennale in cui il debitore è sotto vincoli (spoglio beni, corrispondenza sotto controllo, ecc.). |
Concordato preventivo | – Il debitore conserva la gestione (con supervisione).– Possibilità di salvare l’azienda (in continuità) o parti di essa, preservando valore e posti di lavoro.– Taglio dei debiti: i creditori chirografari possono essere pagati parzialmente (minimo 20% se liquidatorio) e a scadenze dilazionate, se accettano.– Blocco immediato delle azioni esecutive (appena depositata la domanda, su richiesta) e sospensione degli interessi.– Niente dichiarazione di “fallito” per il debitore: minore impatto reputazionale. | – Richiede il consenso dei creditori: almeno la maggioranza in valore deve votare a favore, altrimenti non si omologa.– Iter procedurale complesso e pubblico: va presentato un piano dettagliato con attestazione, nominato un Commissario, convocata un’assemblea dei creditori, ecc.– Costi elevati (compensi per attestatore, commissario, legali) e tempi non brevissimi per l’omologa (mesi).– Limiti legali: se liquidatorio, deve offrire ≥20% chirografi + 10% attivo aggiuntivo; se in continuità, restrizioni su trattamenti differenziati e nuova finanza.– Se il piano non riesce (manca approvazione o salta esecuzione), si rischia il fallimento immediato (con eventuale aggravio di responsabilità per ritardo). |
Accordo di ristrutt.debiti | – Flessibilità: si negozia liberamente il contenuto con ogni creditore aderente, senza dover rispettare rigorosi standard di legge (nessuna percentuale minima di pagamento fissata ex lege).– Meno pubblicità: l’accordo e la crisi possono rimanere riservati, emergendo solo al momento dell’omologa (e in alcuni casi neanche quella è pubblica se non richiesta iscrizione).– Il debitore mantiene integrale disponibilità dell’impresa durante la trattativa e dopo (nessun commissario).– Tempistiche potenzialmente rapide: se i principali creditori sono d’accordo, si può depositare subito l’accordo per l’omologa, senza attendere voti, ecc.– Possibile moratoria su azioni esecutive individuali se il tribunale concede misure protettive ad hoc. | – Soglia di adesione 60%: se non si convince una super-maggioranza di creditori (in valore), l’accordo non è omologabile.– I creditori dissenzienti o non aderenti restano fuori: vanno pagati integralmente entro 120 gg dall’omologa, quindi servono risorse per liquidarli subito. Un singolo creditore importante non aderente può rendere di fatto impraticabile l’accordo (a meno di trovare finanza per soddisfarlo cash).– Manca il voto assembleare: il che è vantaggio in semplificazione, ma significa che l’accordo vincola solo chi firma. Non c’è un effetto erga omnes come il concordato (salvo casi di accordo esteso su finanziari con 75%).– Non azzera le passività: riduce e riscadenzia i debiti secondo accordi, ma il debitore resta obbligato ai pagamenti concordati; in caso di inadempimento, i creditori possono agire (non c’è esdebitazione automatica).– Se l’accordo fallisce (il debitore non rispetta le nuove scadenze, ecc.), si ritorna alla situazione pregressa e i creditori possono chiedere il fallimento. |
Composizione negoziata | – Confidenzialità: le trattative sono segrete; l’adesione all’esperto non implica pubblicazione (salvo si attivino misure protettive). Ciò evita allarme su clienti/fornitori.– Supporto di un esperto: l’imprenditore non è solo nel confronto coi creditori; l’esperto aiuta a trovare soluzioni e a mantenere un dialogo costruttivo.– Nessuna spersonalizzazione: l’imprenditore resta al comando, coadiuvato ma non sostituito.– Possibilità di ottenere dal tribunale provvedimenti mirati: sospensione di ipoteche/pignoramenti, autorizzazione a nuovi finanziamenti garantiti prededucibili, ecc., senza aprire una procedura concorsuale formale.– Se si trova un accordo, si può formalizzarlo in varie forme (accordo semplice, accordo ex 57, concordato semplificato) quindi flessibilità di esito. | – Nessuna leva coercitiva: i creditori non sono obbligati a venire a patti. Se qualcuno mantiene un atteggiamento ostativo (es. rifiuta ogni proposta), l’esperto può far poco oltre a sollecitare.– Può essere time-consuming: si investe tempo e risorse in trattative che potrebbero non concludersi positivamente, durante i quali comunque la crisi può aggravarsi (anche se misure protettive aiutano a congelare situazioni).– Non c’è automatica protezione di stay (bisogna richiederla al tribunale e motivarla). Se non concessa, un creditore impaziente potrebbe comunque avviare un’azione esecutiva mentre è in corso la composizione negoziata.– Adatto alle crisi iniziali: se l’insolvenza è già avanzata e manca liquidità per le attività ordinarie, la composizione negoziata potrebbe arrivare troppo tardi. In quei casi serve una procedura concorsuale con effetti immediati. |
Concordati/accordi minori (sovraindebitamento) | – Consentono anche ai piccoli debitori di ridurre i debiti ed essere esdebitati, cosa altrimenti impossibile perché non fallibili.– Procedure spesso semplificate e con costi più contenuti (gestite dall’OCC locale, tribunale in composizione monocratica, ecc.).– Nel concordato minore: serve maggioranza crediti ma omologabile anche se manca, se il piano offre ai dissenzienti almeno quanto avrebbero in liquidazione e il debitore è meritevole (c.d. cram down “fattuale”).– Liquidazione controllata: il debitore può chiedere di liquidare i propri beni sotto controllo e poi liberarsi dai debiti, senza soglie di importo. Anche il debitore incapiente totale può essere liberato subito (fresh start). | – Limiti simili alle corrispondenti maggiori: nel concordato minore, bisogna presentare un piano fattibile e tendenzialmente servirebbe consenso dei creditori (sebbene, come detto, il giudice possa superare un dissenso non giustificato in certi casi).– Nel piano del consumatore (ristrutturazione debiti del consumatore) il giudice valuta la meritevolezza: se il consumatore ha fatto debiti in modo gravemente irresponsabile (es. gioco d’azzardo), può negare l’omologazione.– Nella liquidazione controllata, il sovraindebitato perde i beni esattamente come in un fallimento; inoltre, se emergono condotte fraudolente, può subire conseguenze penali analoghe (es. esiste il reato di frode ai creditori).– Manca un vero “commissario” indipendente in alcune fasi: l’OCC assiste, ma non sostituisce la figura del curatore, per cui a volte le operazioni si basano più sull’onestà del debitore (che comunque se tenta di frodare rischia sanzioni penali e revoca dei benefici). |
Conclusioni: consigli finali dal punto di vista del debitore
Dal percorso esposto emergono alcuni punti chiave per l’imprenditore (o individuo) che si trovi in difficoltà finanziaria e tema il fallimento:
- Monitorare la propria situazione e attivarsi presto: La legge attuale sottolinea l’obbligo di predisporre assetti adeguati per cogliere i segnali di crisi per tempo. È interesse del debitore farlo: quanto prima si riconosce un problema di liquidità o solvibilità, tanto maggiori sono le opzioni di soluzione. Aspettare passivamente aggrava i debiti e riduce la fiducia dei creditori. Un imprenditore dovrebbe tenere d’occhio indici come DSCR (Debt Service Coverage Ratio), perdite di esercizio reiterate, ecc., e non ignorare sintomi quali ritardi sistematici nei pagamenti o utilizzo di troppi fidi a breve. Se questi segni compaiono, è tempo di consultare un esperto di crisi d’impresa.
- Usare gli strumenti di composizione negoziata e accordi stragiudiziali: Il punto di vista del debitore dev’essere proattivo e collaborativo. Oggi c’è meno stigma nell’ammettere le difficoltà e cercare un accordo, perché la stessa normativa lo incoraggia. Coinvolgere tempestivamente i principali creditori in un dialogo, magari sotto l’egida di un esperto indipendente, può evitare esiti distruttivi. Ad esempio, negoziare con le banche una moratoria o un refinancing del debito può scongiurare la revoca degli affidamenti che porterebbe a default. Molti creditori, di fronte a un debitore trasparente che propone un piano credibile certificato da un professionista, preferiranno transigere (accettando un pagamento parziale) piuttosto che spingerlo al fallimento (col rischio di recuperare meno). Dunque, il debitore dovrebbe valutare con il suo consulente la strada della composizione negoziata appena la situazione degenera: è una procedura confidenziale che può solo aiutare (male che vada, non si raggiunge accordo ma non si è perso nulla di irreparabile).
- Predisporre piani sostenibili e documentati: Sia che si tenti un accordo stragiudiziale sia che si ricorra a concordato preventivo o similare, è fondamentale presentare ai creditori (e al tribunale, se del caso) un piano realistico e ben articolato. Il debitore deve essere pronto a mostrare bilanci, proiezioni di flussi di cassa e perizie sul valore dei beni per convincere che la proposta è il massimo ottenibile. Ad esempio, nel concordato liquidatorio la legge ora richiede perizia di stima dei beni e attestazione che il piano offre almeno il 20% ai chirografari. Un imprenditore che conosce il valore della sua azienda può predisporre un dossier convincente (e offrire magari un contributo di terzi o soci in più per raggiungere quel 20%). In sintesi: serietà e trasparenza pagano. Piani fumosi o eccessivamente ottimistici verranno bocciati dall’attestatore o dal giudice, facendo perdere tempo prezioso e fiducia dei creditori.
- Evitare favoritismi e occultamenti nell’emergenza: Quando l’insolvenza diventa imminente, l’istinto di taluni debitori è di “salvare il salvabile” – ad esempio pagare solo i fornitori amici, spostare soldi su conti di parenti, svuotare magazzino. Queste azioni sono fortemente sconsigliate: non solo sono ingiuste verso la massa dei creditori, ma lasciano tracce e verranno con ogni probabilità invalidate (via azione revocatoria) e molto probabilmente qualificate come bancarotta fraudolenta con rischio di condanna penale. Dal punto di vista del debitore, la strategia migliore è invece mantenere la correttezza: se i beni residui non bastano per tutti, sarà il curatore a ripartirli equamente. Tentare di fare i “furbi” all’ultimo aggraverebbe solo la posizione (niente esdebitazione, anzi sanzioni). Meglio piuttosto concentrare gli sforzi in quelle azioni consentite per tutelare l’azienda: ad esempio, si possono vendere beni aziendali a prezzo di mercato per fare cassa (atti di ordinaria amministrazione, se realmente a prezzi congrui, non sono revocabili), oppure costituire pegni a garanzia di nuovi finanziamenti di emergenza ottenuti durante trattative (se fatti nel contesto di un piano concordatario, possono essere autorizzati e non soggetti a revoca). Queste mosse però vanno pianificate con i consulenti e possibilmente autorizzate dall’autorità (ad esempio, nel concordato con riserva si può chiedere di poter pagare fornitori strategici o stipendi per continuare attività). In breve: niente panico e niente iniziative unilaterali disperate; seguire il percorso legale disponibile porta a risultati migliori.
- Valutare il fallimento in proprio come reset finale: Se ogni tentativo di risanamento fallisce e l’insolvenza è conclamata, il debitore – specie persona fisica – dovrebbe considerare di presentare istanza di fallimento egli stesso, piuttosto che attendere passivamente eventuali istanze dei creditori o atti esecutivi disordinati. Il fallimento volontario può sembrare arrendersi, ma in realtà comporta alcuni vantaggi: si può scegliere il foro competente (evitando magari conflitti di competenza), si dà un segnale di collaborazione che verrà apprezzato dal tribunale e dal curatore, e soprattutto si inizia prima il decorso dei termini per l’esdebitazione. Ad esempio, se Tizio capisce che non c’è nulla da fare, presentando istanza oggi, fra 3 anni potrà essere libero dai debiti; se invece resiste 2 anni subendo pignoramenti a raffica e poi comunque viene trascinato in fallimento, avrà perso 2 anni e aggravato il dissesto (rischiando peraltro responsabilità per aggravamento). Ovviamente la decisione va ponderata con avvocati e commercialisti: ci sono situazioni in cui qualche asset può essere salvato extra fallimento (ad es. se i debiti sono pochi, meglio accordarsi che fallire). Ma in scenari disperati, paradossalmente chiedere il fallimento può essere l’atto più responsabile e razionale, per chiudere col passato e ripartire. Come ha efficacemente detto qualcuno: “il fallimento non è la fine, può essere un nuovo inizio”, grazie alle norme sull’esdebitazione.
In conclusione, il fallimento aziendale comporta certamente conseguenze gravose per il debitore: la perdita del patrimonio, della propria impresa, restrizioni personali temporanee e il venire meno di ogni autonomia economica durante la procedura. Tuttavia, grazie all’evoluzione normativa, non è più una “condanna a vita”: al debitore onesto è garantita la possibilità di rimettersi in gioco, con tempi relativamente brevi per la cancellazione dei debiti residui. Inoltre, il fallimento non è un destino inevitabile: esistono molteplici vie alternative che, se percorse per tempo e con serietà, possono evitarlo, soddisfacendo in parte i creditori e preservando valore economico. Dal punto di vista dell’imprenditore, il messaggio chiave è: non nascondere la testa sotto la sabbia. Affrontare la crisi con gli strumenti adeguati – anche se comporta ammettere difficoltà di fronte a terzi – è sempre preferibile a subire passivamente un fallimento disordinato. E se il fallimento arriva, viverlo non come una vergogna ma come un processo legale di soluzione della crisi, dal quale si può uscire puliti e pronti a ripartire. Come recita un noto aforisma, “il fallimento è un’opportunità per ricominciare in modo più intelligente”.
Fonti
- Tribunale di Torino – Esdebitazione – Linea guida esdebitazione fallito, Tribunale Torino (scheda informativa). Contiene l’elenco delle cause di esclusione dall’esdebitazione ex art. 278 CCII: (a) obblighi di mantenimento e alimentari; (b) debiti da risarcimento danni extracontrattuali; (c) sanzioni penali/amministrative pecuniarie non accessorie. Conferma inoltre condizioni per esdebitazione: no condanne per bancarotta fraudolenta, no frodi o ritardi, non aver già avuto esdebitazione <5 anni, ecc..
- Cassazione Civile n. 15359/2023 – Ordinanza dell’8 maggio 2023: ha stabilito che le cause ostative all’esdebitazione sono tassative e non estensibili analogicamente. Nel caso concreto, cassata decisione che negava esdebitazione a socio illimitatamente responsabile perché la società aveva commesso illeciti fiscali (non previsti tra cause di esclusione). Questo ribadisce l’approccio “oggettivo”: fuori dai casi espressi (frodi, reati concorsuali gravi, ecc.), l’esdebitazione va concessa anche se il debitore può aver avuto altre mancanze non tipizzate.
(Fonti normative: Codice civile art.2086 co.2; Regio Decreto 16.3.1942 n.267 (Legge Fallimentare) art.1, art.5, art.147; D.Lgs. 12.1.2019 n.14 (CCII) artt. 2, 24, 39-46, 54, 57, 121-142, 152-154, 166-168, 178-182, 189-197, 278-282. Fonti giurisprudenziali: Cass. Civ. Sez.I 2.11.2022 n.32280; Cass. Civ. Sez.I 03.01.2023 n.64; Cass. Civ. Sez.Un. 18.05.2021 n.147).
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Il fallimento, oggi chiamato liquidazione giudiziale, è la procedura con cui un’impresa in stato di insolvenza viene chiusa e liquidata sotto il controllo del Tribunale.
È una misura estrema, ma regolata dalla legge, che ha conseguenze importanti su patrimonio, amministratori e rapporti con i creditori.
Conoscere i suoi effetti è il primo passo per evitarlo o affrontarlo con lucidità e strategia.
Cosa comporta il fallimento per l’impresa?
Quando viene dichiarata la liquidazione giudiziale:
- L’impresa cessa l’attività e il controllo passa a un curatore nominato dal giudice
- Il patrimonio aziendale viene liquidato per soddisfare i creditori
- Tutti i debiti diventano immediatamente esigibili
- I beni aziendali possono essere pignorati, venduti o sequestrati
⚠️ Viene meno la possibilità di compiere atti di gestione o disporre dei beni in autonomia.
Cosa comporta il fallimento per l’imprenditore?
Se sei il legale rappresentante o un socio di società fallita, puoi subire:
- Azione di responsabilità per mala gestio (soprattutto se ci sono bilanci falsi, distrazione di fondi o aggravamento del dissesto)
- Incapacità temporanea a esercitare cariche societarie
- Segnalazione nella Centrale Rischi e limitazioni nei rapporti bancari
- Impossibilità di accedere a nuovi finanziamenti o bandi pubblici
- Indagini penali in caso di fallimento fraudolento o bancarotta
Ma esistono anche strumenti per evitare queste conseguenze se si agisce prima del fallimento.
Come evitare il fallimento e uscirne puliti?
La normativa consente alternative concrete al fallimento:
- Composizione negoziata della crisi, con supporto di un esperto
- Concordato preventivo o concordato semplificato
- Piano di ristrutturazione dei debiti
- Liquidazione controllata volontaria
- Esdebitazione dell’imprenditore onesto ma incapiente
Agire per tempo è fondamentale per proteggere azienda, patrimonio e reputazione.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
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⚖️ Ti rappresenta davanti al Tribunale fallimentare e nei rapporti con i creditori
✍️ Redige piani di rientro, accordi di ristrutturazione e soluzioni extragiudiziali
🔁 Ti tutela anche nella fase post-fallimentare per ottenere l’esdebitazione e ripartire
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto della crisi d’impresa e procedure concorsuali
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per PMI, studi professionali, imprese artigiane e start-up in difficoltà
Conclusione
Il fallimento aziendale ha conseguenze gravi, ma non è inevitabile.
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