Hai un’azienda con sede all’estero o stai pensando di trasferirla fuori dall’Italia per motivi fiscali? Ti stai chiedendo se puoi beneficiare legalmente di una tassazione più favorevole o se rischi di incorrere in contestazioni per esterovestizione e utilizzo illecito di paradisi fiscali?
L’esterovestizione è uno dei reati fiscali più contestati dall’Agenzia delle Entrate. Se viene accertata, le conseguenze per l’azienda e per l’amministratore possono essere pesantissime, sia dal punto di vista tributario che penale.
Cos’è l’esterovestizione?
È la fittizia localizzazione all’estero di una società che in realtà ha la propria direzione effettiva in Italia. La società risulta residente in un paese a fiscalità privilegiata, ma le decisioni strategiche, amministrative e operative sono prese in Italia.
Quando scatta il rischio di esterovestizione?
– Quando la società è formalmente registrata all’estero, ma gli amministratori operano stabilmente in Italia
– Quando le assemblee, la contabilità e le direttive vengono gestite in Italia
– Quando non esiste una reale struttura estera, ma solo un indirizzo fittizio o una casella postale
– Quando i soci o i beneficiari effettivi risiedono e agiscono in Italia
Cosa rischia l’azienda se viene accertata l’esterovestizione?
– Il Fisco italiano riqualifica la società come residente in Italia
– Viene imposta la tassazione su tutti i redditi ovunque prodotti
– Scattano sanzioni tributarie gravissime e interessi
– Si rischia il penale per dichiarazione infedele o omessa
– Gli amministratori possono essere personalmente responsabili per le imposte evase
E se la sede estera è in un paradiso fiscale?
Il rischio è ancora più alto. I paradisi fiscali sono sotto osservazione costante da parte del Fisco italiano. In particolare:
– Scatta l’inversione dell’onere della prova: sei tu a dover dimostrare che l’attività è reale
– I controlli sono approfonditi, soprattutto sui flussi bancari e le operazioni intra-gruppo
– Le transazioni possono essere considerate antieconomiche o simulate
Come si difende un’azienda da un’accusa di esterovestizione?
– Dimostrando l’effettività dell’operatività estera (uffici, dipendenti, clienti reali)
– Producendo documentazione completa sulle decisioni aziendali prese all’estero
– Mostrando l’indipendenza gestionale rispetto alla struttura italiana
– Verificando in anticipo, con un legale esperto, la sostenibilità fiscale della struttura societaria
Cosa NON devi fare mai se operi o vuoi operare all’estero?
– Aprire una società estera solo per risparmiare sulle tasse, senza struttura reale
– Intestare società a prestanome o parenti per “mascherare” la gestione
– Trasferire la residenza fiscale in modo fittizio
– Usare conti offshore senza tracciabilità e documentazione
Il risparmio fiscale illecito oggi ha costi altissimi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale e contenzioso tributario – ti spiega quando un’operazione estera è lecita e quando diventa esterovestizione, quali sono i segnali che insospettiscono il Fisco e come proteggere legalmente la tua azienda da contestazioni devastanti.
Hai già costituito una società all’estero o stai pensando di farlo? Vuoi evitare che venga considerata fittizia dall’Agenzia delle Entrate?
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Introduzione
Nell’era della globalizzazione, molte imprese italiane considerano di aprire società all’estero o spostare la propria sede in Paesi a bassa fiscalità, alla ricerca di vantaggi tributari. Tuttavia, quando questo trasferimento è solo “di facciata” e l’attività rimane sostanzialmente in Italia, si configura il fenomeno dell’esterovestizione. L’esterovestizione – letteralmente “vestirsi da estero” – consiste nella fittizia localizzazione all’estero di una società (o di un gruppo societario) al solo scopo di ottenere un indebito risparmio d’imposta. In parallelo, si parla di paradisi fiscali (tax havens) per indicare quegli Stati o territori con regime fiscale privilegiato (spesso esenzione o aliquote minime di tassazione) che attraggono persone e imprese in cerca di un carico fiscale ridotto. L’utilizzo disinvolto di società nei paradisi fiscali espone però a rischi significativi: accertamenti del Fisco, recupero di imposte evase, pesanti sanzioni amministrative, possibili responsabilità penali e contenziosi lunghi e complessi.
In questa guida avanzata – aggiornata a giugno 2025 – esamineremo nel dettaglio la normativa italiana sull’esterovestizione e sui paradisi fiscali dal punto di vista del contribuente (l’“esterovestito”). Verranno illustrati i criteri per determinare la residenza fiscale di persone fisiche e società, le presunzioni legali anti-elusive introdotte dal legislatore, i rischi e le conseguenze cui si va incontro, nonché i più recenti orientamenti giurisprudenziali (comprese le sentenze del 2024-2025 e i contenziosi con l’Agenzia delle Entrate). Troverete inoltre tabelle riepilogative, casi pratici italiani, domande e risposte su questioni frequenti, oltre a consigli su come difendersi o prevenire contestazioni di esterovestizione. Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono elencate in fondo alla guida, per offrire un riferimento autorevole a supporto di ogni affermazione.
Cos’è l’esterovestizione?
Il termine esterovestizione indica la simulazione di residenza fiscale estera da parte di un soggetto che, in realtà, mantiene il proprio centro di attività o interessi in Italia. In ambito societario, si ha esterovestizione quando una società formalmente costituita all’estero viene gestita e amministrata dall’Italia, al fine di usufruire di un regime fiscale estero più vantaggioso. In altri termini, l’esterovestizione societaria si configura se la localizzazione all’estero è solo fittizia, priva di una reale sostanza economica, mentre la sede effettiva di direzione rimane in Italia. Questa pratica è considerata elusiva/abusiva dall’ordinamento: costituisce infatti una forma di abuso del diritto di stabilimento quando l’unico scopo del trasferimento all’estero è ottenere un indebito risparmio d’imposta, senza una genuina ragione economica.
Benché l’esterovestizione sia un fenomeno tipicamente riferito alle società (esterovestizione societaria), esiste un concetto analogo per le persone fisiche. Si parla infatti di esterovestizione della persona fisica quando un contribuente trasferisce la propria residenza all’estero solo sulla carta, ma di fatto continua a vivere e avere i propri interessi vitali in Italia. Un caso tipico è quello del cittadino italiano che si iscrive all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) e dichiara residenza a Montecarlo, Dubai o in altro paradiso fiscale, mentre trascorre la maggior parte del tempo in Italia e qui ha famiglia o lavoro: anche questa è una forma di esterovestizione, perseguibile dal Fisco con il recupero delle imposte evase e sanzioni.
L’ordinamento italiano contrasta l’esterovestizione attraverso specifiche norme di legge e strumenti di accertamento. In particolare:
- Criterio della sede effettiva (substance over form): ai fini fiscali conta dove la società è effettivamente gestita e opera, non solo dove ha sede legale. Se una società è amministrata dall’Italia, il Fisco la considererà residente in Italia indipendentemente dalla sede formale estera.
- Presunzioni legali anti-esterovestizione: l’art. 73 comma 5-bis TUIR (per le società) e l’art. 2 comma 2-bis TUIR (per le persone fisiche) prevedono presunzioni relative per cui certi soggetti formalmente esteri sono presunti residenti in Italia, salvo prova contraria, se ricorrono determinati requisiti (ad es. controllo italiano e localizzazione in Paesi a fiscalità privilegiata).
- Principio della costruzione artificiosa: come affermato dalla Corte di Cassazione e dalla giurisprudenza UE, uno schema societario transnazionale è sanzionabile solo se è puramente artificioso, privo di reale attività economica e creato unicamente per scopi fiscali illegittimi. Se invece l’entità estera svolge effettivamente un’attività sostanziale all’estero, l’operazione in sé non costituisce abuso della libertà di stabilimento e va rispettata (pur restando necessario valutare caso per caso).
In sintesi, l’esterovestizione è una forma di evasione/elusione fiscale internazionale in cui l’apparenza (residenza estera) non coincide con la realtà (sede di amministrazione in Italia). Nel prosieguo vedremo come distinguere una delocalizzazione legittima da un’esterovestizione illecita, analizzando le norme in vigore e i criteri adottati dall’Amministrazione finanziaria e dai giudici.
Cosa si intende per “paradisi fiscali”?
Con l’espressione “paradisi fiscali” (o Paesi a fiscalità privilegiata) si indicano quegli Stati o territori caratterizzati da un regime tributario estremamente favorevole (aliquote d’imposta nulle o molto basse, specialmente sui redditi delle società e dei non residenti) e spesso da un elevato grado di segretezza bancaria e societaria. Tali giurisdizioni – come ad esempio le isole Cayman, Panama, le Isole Vergini Britanniche, Monaco, Dubai, ecc. – sono tradizionalmente scelte per insediare società o spostare residenze con finalità di risparmio fiscale. Il rovescio della medaglia è che le operazioni coinvolgenti paradisi fiscali vengono considerate ad alto rischio dalle autorità fiscali: l’Agenzia delle Entrate pone automaticamente sotto la lente i contribuenti che localizzano redditi o asset in queste giurisdizioni.
Dal punto di vista normativo italiano, non esiste una definizione univoca di “paradiso fiscale”, ma varie disposizioni identificano gli Stati o territori a regime fiscale privilegiato. In passato il legislatore ha prodotto elenchi (le cosiddette black list) di Paesi considerati paradisi fiscali, ad esempio ai fini della disciplina CFC (Controlled Foreign Companies) o di limitazioni alla deducibilità di costi. Occorre notare che dal 2016 molte black list normative sono state abrogate o sostituite da criteri generali: ad esempio, la legge n. 208/2015 ha eliminato l’elenco dei paesi black list per la deducibilità dei costi ex art. 110 c.10 TUIR. Oggi, dunque, l’individuazione di un paradiso fiscale avviene in base a parametri come: livello nominale di tassazione molto basso (inferiore a una certa soglia rispetto all’aliquota italiana), mancanza di un adeguato scambio di informazioni con l’Italia, o regimi speciali che attraggono solo capitali esteri.
Esempio: attualmente l’ordinamento CFC (art. 167 TUIR, come modificato dal Dlgs. 142/2018 in attuazione delle direttive ATAD) considera “regime fiscale privilegiato” quello del Paese in cui l’entità controllata è tassata con un’aliquota effettiva inferiore al 50% di quella italiana. Se una società controllata estera si trova in tale situazione e oltre il 1/3 dei suoi redditi è da passive income (o altre condizioni anti-abuso), i suoi utili possono essere imputati per trasparenza al controllante italiano (regime CFC).
Per le persone fisiche, l’art. 2, comma 2-bis del TUIR prevede tuttora una presunzione relativa secondo cui un cittadino italiano che trasferisce la residenza in uno Stato a fiscalità privilegiata (indicato in apposito decreto ministeriale) viene considerato residente fiscale in Italia salvo prova contraria. La ratio è scoraggiare espatri “di comodo” verso paradisi fiscali. Ad esempio, se Tizio si trasferisce alle Bahamas, il Fisco presume che sia rimasto residente in Italia, a meno che Tizio dimostri effettivamente di avere colà il centro dei propri interessi. Questa presunzione è però temperata dall’eventuale presenza di convenzioni internazionali: la Cassazione ha di recente chiarito che anche chi si trasferisce in un paradiso fiscale può ottenere il riconoscimento della residenza estera se l’Accordo contro le doppie imposizioni lo stabilisce mediante le tie-breaker rules. È il caso, ad esempio, della convenzione Italia-Emirati Arabi: in una pronuncia del 2023 la Suprema Corte ha ritenuto superata la presunzione di residenza in Italia in virtù dei criteri convenzionali che assegnavano la residenza fiscale agli Emirati.
Riassumendo, i paradisi fiscali sono giurisdizioni allettanti per l’ottimizzazione fiscale, ma l’ordinamento italiano (in linea con quello internazionale ed europeo) le tratta con particolare sfavore: trasferirvi società o residenze può far scattare presunzioni di esterovestizione, controlli approfonditi e normative antielusive speciali (CFC, monitoraggio fiscale, ecc.). Nel prossimo paragrafo analizzeremo in dettaglio come viene determinata la residenza fiscale secondo la normativa italiana, poiché capire i criteri di residenza è fondamentale per comprendere l’esterovestizione.
Residenza fiscale: criteri generali per persone fisiche e società
Prima di addentrarci nelle norme anti-esterovestizione, è necessario richiamare i criteri ordinari di collegamento che stabiliscono quando un soggetto è considerato fiscalmente residente in Italia. Tali criteri sono fissati dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) – D.P.R. 917/1986 – rispettivamente all’art. 2 per le persone fisiche e all’art. 73 per le società ed enti.
Persone fisiche: i criteri di residenza fiscale (novità 2024)
Ai sensi dell’art. 2, comma 2 del TUIR, una persona fisica è residente fiscale in Italia se, per la maggior parte dell’anno (più di 183 giorni):
- a) è iscritta nelle anagrafi della popolazione residente oppure
- b) ha in Italia il domicilio (ai sensi del codice civile, ossia la sede principale degli affari e interessi, prevalentemente personali/familiari dopo la riforma) oppure
- c) ha in Italia la residenza (abituale dimora, il luogo in cui vive stabilmente).
Questi criteri sono alternativi: basta che si verifichi uno di essi per considerare il soggetto residente ai fini fiscali. Dal 1° gennaio 2024, a seguito della riforma operata dal D.Lgs. 209/2023 (in attuazione della legge delega 111/2023), la definizione di domicilio fiscale per le persone fisiche è stata affinata e soprattutto è stato introdotto un nuovo criterio della “presenza fisica”. In pratica:
- Il domicilio fiscale è ora inteso in senso più personale (luogo di interessi personali/familiari prevalenti) distinto dal concetto di residenza civile.
- È stato aggiunto esplicitamente il criterio della presenza fisica in Italia per più di 183 giorni nell’anno, anche non continuativi. Chi trascorre in Italia più di metà anno (anche frazionato) è considerato residente, a prescindere dalla formale iscrizione anagrafica. Questo chiarimento è rilevante, ad esempio, per chi lavora da remoto: se un lavoratore per datore estero passa la maggior parte dell’anno in Italia in smart working, sarà comunque residente fiscale italiano in base alla presenza fisica.
Esempio: Un cittadino italiano si trasferisce formalmente in Portogallo a gennaio 2024. Tuttavia torna frequentemente in Italia e, sommando i periodi, risulta presente sul suolo italiano per 190 giorni nel 2024. Anche se iscritto all’AIRE, in base al nuovo criterio sarà considerato residente fiscale italiano (183+ giorni in Italia) e tassato sui redditi mondiali in Italia.
Un’altra novità dal 2024 riguarda l’iscrizione anagrafica: prima era considerata una presunzione assoluta di residenza (chi restava iscritto in anagrafe si presumeva residente senza possibilità di prova contraria); ora invece l’iscrizione nelle anagrafi dei residenti costituisce solo presunzione relativa, superabile se la persona dimostra di aver effettivamente risieduto altrove. Inoltre, sempre dal 2024, sono previste sanzioni amministrative (200–1000 € per anno) per chi omette di comunicare il trasferimento di residenza all’estero (iscrizione all’AIRE) entro i termini di legge. Ciò incentiva ad eseguire correttamente gli adempimenti formali quando ci si trasferisce fuori Italia.
Presunzione per espatri in paradisi fiscali (art. 2, co.2-bis TUIR): Introdotta nel 1999, questa norma stabilisce che gli italiani che trasferiscono la residenza in Stati o territori a regime fiscale privilegiato (individuati da un apposito decreto ministeriale) sono considerati comunque residenti in Italia salvo prova contraria. È una presunzione legale relativa concepita per contrastare i cosiddetti “finti espatri” nei paradisi fiscali. Chi si trasferisce, ad esempio, a Monaco, Emirati Arabi, Bahamas, ecc., dovrà essere pronto a dimostrare che la realtà dei fatti supporta la residenza estera (abitazione principale, famiglia, lavoro, patrimonio prevalentemente all’estero). Come accennato, la giurisprudenza più recente ha temperato la portata di questa presunzione: in presenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni, si applicano i criteri convenzionali (centre of vital interests, soggiorno abituale, ecc.) per stabilire la residenza effettiva, anche se il Paese estero è un paradiso fiscale. Ad esempio, Cass. n. 35284/2023 ha riconosciuto la residenza negli Emirati Arabi a un contribuente italiano emigrato lì, perché l’accordo bilaterale assegnava la residenza fiscale a Dubai sulla base delle circostanze concrete (pur trattandosi di Stato black list).
Società ed enti: criteri di residenza fiscale
Per le società, la norma chiave è l’art. 73 del TUIR. In base al comma 3 di tale articolo, si considerano fiscalmente residenti in Italia le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo d’imposta, hanno in Italia la sede legale, la sede dell’amministrazione oppure l’oggetto principale. Questi tre criteri – sede legale, sede di amministrazione (o sede effettiva) e oggetto principale – sono alternativi: basta che uno sia in Italia per radicare la residenza ai fini fiscali.
- Sede legale: è il luogo risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto della società. È un criterio formale, facilmente individuabile, ma non determinante se gli altri elementi puntano altrove.
- Oggetto principale: è il luogo in cui si svolge prevalentemente l’attività principale della società (es. stabilimenti, produzione, commercio). Questo criterio rileva soprattutto se la sede legale ed amministrativa sono all’estero ma la produzione o il business effettivo avviene in Italia.
- Sede dell’amministrazione: è il criterio più importante in tema di esterovestizione. Va inteso come sede effettiva della società, ovvero il luogo in cui avvengono in concreto le attività direttive e di gestione. Secondo la Cassazione, la sede dell’amministrazione coincide con il luogo dove si accentrano le decisioni operative e amministrative dell’ente, dove si riuniscono gli organi societari e si impartiscono direttive, anche nei rapporti con i terzi. In pratica, il cervello gestionale della società.
Nota: La nozione fiscale di “sede dell’amministrazione” ricalca quella civilistica di “sede effettiva” (art. 73 TUIR rinvia implicitamente all’art. 43 cod. civ.). Numerose sentenze ribadiscono che conta dove vengono assunte le decisioni e svolta la gestione, non la sede formale. Ad es., Cass. n. 23150/2022 ha confermato che la residenza fiscale di una società prescinde dallo schermo formale se la direzione effettiva risulta altrove.
Il concetto di sede di amministrazione è cruciale: una società può avere sede legale estera, ma se la sede di amministrazione è in Italia (perché qui operano gli amministratori, qui si firma la corrispondenza aziendale, qui si trovano i dirigenti o gli uffici decisionali), sarà considerata residente in Italia. Ed è proprio su questo concetto che si basano gli accertamenti di esterovestizione: dimostrare che la sede effettiva dell’azienda “esterna” è in realtà sul territorio italiano.
Novità 2024: Il D.Lgs. 209/2023 ha riformulato l’art. 73 TUIR (in vigore dal 2024) per allineare i criteri di residenza alle migliori prassi internazionali. In particolare, ha fornito definizioni più puntuali di:
- “sede di direzione effettiva” – concetto analogo alla sede dell’amministrazione, riferito al luogo da cui si prendono le decisioni strategico-gestionali di alto livello;
- “sede della gestione operativa prevalente” – riferita invece al luogo dove si svolgono principalmente le attività operative ordinarie.
Lo scopo è chiarire il perimetro della “sede effettiva” distinguendo la dimensione strategica da quella esecutiva. Tuttavia, ai fini pratici di individuare la residenza, resta determinante il luogo da cui “partono gli impulsi amministrativi” e dove vi è la base gestionale stabile. La riforma mira a garantire maggior certezza e a ridurre i contenziosi, ma non stravolge la logica sostanzialistica: ciò che conta è dove la società vive realmente la propria vita economica.
Convezioni internazionali: Va ricordato che in presenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni, se una società fosse considerata residente in due Stati (es. in Italia per la sede amministrativa e all’estero per la sede legale), si applicano le tie-breaker rules convenzionali. Di solito i trattati prevedono che in caso di doppia residenza societaria si guardi alla sede di direzione effettiva per decidere l’unica residenza fiscale. Quindi, le Convenzioni tendono a confermare il primato del criterio della sede effettiva. Ad esempio, la Convenzione Italia–Paesi Bassi stabilisce che se una società è residente in entrambi gli Stati secondo le rispettive leggi interne, si considera residente dove si trova la direzione effettiva. Questo significa che, anche convenzionalmente, vince lo Stato dove la società è effettivamente gestita. La Cassazione in più occasioni ha richiamato tale criterio OCSE di collegamento.
Riassumendo questa sezione, una società che di fatto opera dall’Italia non può nascondersi dietro un domicilio estero: la normativa italiana, sostenuta dai trattati internazionali, la riporterà nell’alveo impositivo nazionale. I criteri di residenza delineati sono la base su cui poggiano le norme anti-esterovestizione che ora vedremo.
La presunzione anti-esterovestizione per le società: art. 73 comma 5-bis TUIR
Oltre ai criteri generali appena visti, il legislatore italiano ha introdotto una specifica norma anti-elusiva per colpire le esterovestizioni societarie più ricorrenti. Si tratta dell’art. 73, comma 5-bis del TUIR, introdotto nel 2006 e poi modificato nel 2015. Questa disposizione prevede una presunzione legale relativa di residenza in Italia per certe società formalmente estere che presentano forti legami con l’Italia. In pratica, se ricorrono determinati presupposti, la legge presume che la società estera abbia in Italia la propria sede di amministrazione (quindi sia fiscalmente residente qui), a meno che il contribuente provi il contrario.
Contenuto della presunzione (art. 73 c.5-bis)
La formulazione vigente della norma (dopo la modifica della L.208/2015) è la seguente:
“Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo in soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (ossia in società o enti residenti in Italia), se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo equivalente composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia”.
Traducendo la norma in termini più semplici, la presunzione scatta quando una società estera soddisfa entrambe le seguenti condizioni:
- Funzione di holding italiana: la società estera possiede una partecipazione di controllo in una o più società o enti residenti in Italia. In altre parole, la società estera controlla società italiane (fungendo da capogruppo o holding di imprese italiane).
- Collegamenti personali con l’Italia (almeno uno dei due):
- Controllo dall’Italia: la società estera è a sua volta controllata, direttamente o indirettamente, da soggetto(i) residente(i) in Italia. Ad esempio, se i soci o il beneficiario ultimo della società estera sono italiani.
oppure - Amministratori italiani: la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione (o organo gestionale equivalente) della società estera è composta da persone residenti in Italia. (Questo indicatore riflette il fatto che se chi prende le decisioni vive in Italia, è probabile che le decisioni vengano prese dall’Italia).
- Controllo dall’Italia: la società estera è a sua volta controllata, direttamente o indirettamente, da soggetto(i) residente(i) in Italia. Ad esempio, se i soci o il beneficiario ultimo della società estera sono italiani.
Se entrambe le condizioni (1) e (2) ricorrono, la legge presume che la sede di amministrazione della società estera sia localizzata in Italia. Pertanto quella società, ancorché costituita all’estero, viene considerata residente fiscale italiana a tutti gli effetti. La presunzione è relativa: l’onere passa al contribuente, che potrà fornire prova contraria dimostrando che la società ha invece una sostanziale operatività all’estero e che lo schema non è artificioso. In assenza di tale prova, però, l’Agenzia delle Entrate non deve ulteriormente dimostrare l’intento elusivo – viene dato per implicito dalla presenza di quei fatti (controlli e CdA italiani). L’obiettivo della norma è infatti facilitare il compito del Fisco nei casi tipici di esterovestizione, fornendo indici oggettivi che attivano il recupero.
Esempio pratico: Un imprenditore italiano crea una holding in Olanda, di cui è proprietario al 100% (controllo italiano) e di cui lui stesso e due suoi familiari (tutti residenti in Italia) sono amministratori. La holding olandese a sua volta detiene il 90% delle quote di una SRL italiana operativa. Siamo esattamente nel caso dell’art. 73(5-bis): società estera che controlla società italiana, con controllo e amministrazione riferibili all’Italia. Presunzione: salvo prova contraria, la holding olandese è considerata residente in Italia, con conseguente tassazione in Italia dei suoi redditi ovunque prodotti.
Prova contraria: Come può il contribuente vincere tale presunzione? Deve dimostrare che, nonostante gli elementi formali, la società estera ha una propria sostanza economica all’estero e una gestione effettiva fuori dall’Italia. Ad esempio, provando che dispone di una sede reale all’estero, personale locale qualificato, attività economiche effettive nel Paese estero, e che le decisioni vengono realmente prese lì (si vedano più avanti i consigli sulla documentazione difensiva). In sostanza, deve convincere che la società estera non è un guscio vuoto creato solo per schermare i redditi italiani, ma un’entità genuina.
Va evidenziato che l’art. 73(5-bis) non copre tutte le ipotesi di esterovestizione. Esso si applica miratamente alle “società esterovestite di mero investimento” – tipicamente holding estere piazzate a capo di partecipazioni italiane per spostare fittiziamente i profitti. Al di fuori di questi casi, l’Amministrazione finanziaria può comunque contestare l’esterovestizione utilizzando gli strumenti ordinari, ma dovrà sostenere l’onere probatorio pieno. Ad esempio, se una società estera non possiede partecipazioni in società italiane ma il Fisco sospetta che sia gestita dall’Italia (esterovestizione “atipica”), non si applica la presunzione automatica: l’Agenzia dovrà dimostrare in fatto che la sede effettiva è in Italia, senza agevolazioni probatorie. Ciò richiede un lavoro istruttorio più meticoloso (raccolta di indizi gravi, precisi e concordanti).
Evoluzione normativa della presunzione
L’ambito della presunzione anti-esterovestizione è stato ridimensionato nel tempo per motivi di coerenza comunitaria. La versione originaria del 2006 (DL 223/2006) prevedeva i requisiti del controllo italiano e della composizione del CdA come alternativi, e non richiedeva che la società estera fungesse da holding di società italiane. In pratica, in origine qualsiasi società estera controllata da italiani poteva ricadere nella presunzione, anche se operativa e con sostanza economica propria all’estero. Ciò sollevava dubbi di compatibilità con la libertà di stabilimento UE (penalizzando la creazione di società in altri Stati membri anche per business reali).
Intervenendo sulla questione, la Legge n. 208/2015 (legge di Stabilità 2016) ha modificato l’art. 73(5-bis) restringendone l’applicazione alle sole società estere che detengono partecipazioni di controllo in società italiane. Contestualmente, con la stessa legge è stata eliminata la distinzione basata sui “paradisi fiscali”: prima si parlava di società con sede in Stati a fiscalità privilegiata, dopo il 2015 questo riferimento è scomparso. In sostanza, oggi conta il legame strutturale con l’Italia (controlli incrociati), non il Paese di costituzione: la norma infatti può applicarsi anche se la società estera è in un Paese UE o “white list”. Ciò paradossalmente amplia il raggio d’azione (perché prima alcune società estere in Paesi “normali” ne erano escluse), ma allo stesso tempo focalizza il target su schemi palesemente elusivi (le holding di comodo). Questa evoluzione normativa è nata anche per allineare la disciplina interna ai principi UE: la restrizione ai casi di puro artificio (holding senza attività reale) è coerente con la giurisprudenza europea che ammette interventi anti-abuso solo contro costruzioni “wholly artificial”.
Oggi, dunque, l’art. 73 c.5-bis si applica solo in presenza di una società estera-holding di partecipazioni italiane, controllata/amministrata da italiani. La prassi recente ha chiarito che se manca la funzione di holding, la presunzione non opera affatto. Ad esempio, in una Risposta a interpello del 2023 (Agenzia Entrate n. 164/2023) è stato escluso l’utilizzo della presunzione per una società estera (di e-commerce) controllata da un italiano ma priva di filiali o partecipazioni in Italia: semplicemente, quella società non rientrava nel perimetro del comma 5-bis, pur restando possibile un accertamento della sua residenza effettiva con gli strumenti ordinari. Analogamente, la Risposta AE n. 27/2022 aveva chiarito che una società estera controllata da italiani senza partecipazioni in Italia non attiva la presunzione, mancando il presupposto fondamentale (la funzione di holding). Queste posizioni confermano che la norma mira a colpire “schemi societari vuoti” creati per interporre un guscio estero ai vertici di aziende italiane, mentre situazioni diverse (es. imprese realmente operative all’estero) vanno valutate caso per caso in base alla sede di direzione effettiva.
Onere della prova e accertamento
Come già accennato, la particolarità dell’art. 73(5-bis) è che costituisce una presunzione legale relativa, comportando un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente esterovestito. In presenza dei requisiti di legge (holding di società italiane + controllo/CdA italiani), l’Agenzia Entrate può presumere la residenza italiana senza dover dimostrare oltre. Toccherà alla società estera fornire la prova contraria, cioè provare con elementi oggettivi la genuinità della propria localizzazione estera (struttura operativa, uffici, dipendenti, contratti locali, ecc.) e l’assenza di intenti elusivi.
Tuttavia, ciò non significa che il Fisco possa agire arbitrariamente o con mere congetture. In base ai principi generali del processo tributario – recentemente rafforzati dalla L. 130/2022 che ha inserito l’art. 7, comma 5-bis nel D.Lgs. 546/92 – “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate”. Questa regola generale non elimina le presunzioni legali, ma implica che il Fisco deve comunque presentare in giudizio almeno gli indizi seri che attivano la presunzione. In pratica, per contestare l’esterovestizione, l’Ufficio finanziario deve quantomeno provare l’esistenza dei fatti-soglia (il controllo su società italiane, la composizione del CdA) e possibilmente qualche ulteriore elemento indiziario di direzione effettiva in Italia. La Cassazione più recente ha affermato che, pur con inversione dell’onere, non basta l’automatismo formale: servono elementi concreti iniziali a carico del Fisco, pena la debolezza dell’atto impositivo. Ad esempio, la sentenza Cass. n. 3386/2024 (che vedremo in dettaglio) e Cass. n. 14485/2024 hanno ribadito che il riscontro di esterovestizione deve basarsi su un quadro indiziario grave, preciso e concordante, valutato globalmente e non in modo atomistico. Un singolo elemento formale (es. sede legale estera) non è sufficiente se tutto il resto indica direzione in Italia.
Infine, è utile menzionare che non è ammesso un interpello preventivo per evitare l’applicazione della presunzione. Già nel 2007 l’Agenzia (Risoluzione 312/E/2007) chiarì che non si può presentare un interpello “disapplicativo” per chiedere di non applicare l’art. 73(5-bis). Questo perché: (a) la verifica è troppo fattuale e non basata su semplici dati normativi; (b) l’interpello disapplicativo è previsto solo per norme che danno luogo a oneri tributari, non per norme che definiscono la soggettività passiva (residenza). Quindi, la partita si gioca sul campo: se il Fisco contesta l’esterovestizione, la società dovrà difendersi in sede di accertamento o contenzioso, esibendo lì le prove a proprio favore.
Paradisi fiscali e altre norme rilevanti
Nell’ambito dell’esterovestizione assumono rilievo anche altre disposizioni che coinvolgono i paradisi fiscali o situazioni analoghe:
- Art. 2, comma 2-bis TUIR (persone fisiche in paradisi fiscali): già trattato, presunzione di residenza in Italia per cittadini italiani che si trasferiscono in Stati a fiscalità privilegiata. Caso particolare: Cass. 35284/2023 ha precisato che tale presunzione può essere superata dai criteri convenzionali (tie-breaker) se c’è una convenzione applicabile.
- Norme sul monitoraggio fiscale (quadro RW): i detentori di attività finanziarie e patrimoniali all’estero devono dichiararle nel quadro RW. La mancata dichiarazione è soggetta a sanzioni aumentate se le attività sono in Paesi black list (attualmente 3% annuo del valore, elevato al 15% se in Stati non collaborativi). Questo è un ulteriore deterrente verso l’occultamento di asset nei paradisi fiscali.
- Controlled Foreign Companies (CFC): come accennato, l’art. 167 TUIR considera imputabili al socio residente gli utili di società controllate estere in paradisi fiscali (regime fiscale privilegiato) salvo prova di esclusione (es. svolgimento di attività economica effettiva, per filiali UE). Dal 2019 la disciplina CFC si basa su criteri generali (tax rate < 50% italiano) più che su liste statiche, ma l’effetto è che avere società in Paesi a bassa tassazione può comportare la tassazione immediata in Italia degli utili prodotti da queste società, anche senza distribuzione, a meno che si dimostri che si tratta di imprese con reale attività locale (no entità passive).
- Divieto di deduzione costi da paradisi fiscali: la vecchia normativa (art. 110 c.10 TUIR) proibiva la deducibilità di spese verso fornitori localizzati in paradisi fiscali, salvo prova della concreta esecuzione e economicità dell’operazione. Come detto, questa norma è stata abrogata nel 2016. Oggi resta comunque il principio generale anti-abuso: pagamenti infragruppo verso entità in Paesi a bassa fiscalità sono oggetto di particolare attenzione in sede di transfer pricing (devono essere a valore normale), e se configurano mere manovre di spostamento di utili possono essere contestati come componenti negativi indeducibili per mancanza di inerenza o per abuso del diritto.
- Accordi sullo scambio di informazioni: negli ultimi anni molti ex paradisi fiscali hanno siglato accordi di scambio informazioni o aderito allo scambio automatico CRS. Ciò ha ridotto l’area del segreto bancario. L’Italia distingue ancora Paesi “collaborativi” o meno in termini di scambio: nelle sue liste ministeriali esistono white list (Paesi con accordi di piena cooperazione) utilizzate, ad es., per esenzioni da imposta sugli interessi o altre agevolazioni. Stabilire società in Paesi che non scambiano informazioni (pochi rimasti) è estremamente rischioso: il Fisco italiano difficilmente potrà ottenere prove da quei Paesi, ma se scopre l’asset può applicare il massimo rigore sanzionatorio (vedi sanzioni quadro RW al 15%).
- Enti non societari (trust, fondazioni): La normativa anti-esterovestizione (art. 73(5-bis)) si applica anche a enti diversi dalle società, sebbene il caso tipico siano le società. Dunque anche un trust o una fondazione estera che controlli società italiane e sia controllata/amministrata da italiani può ricadere nella presunzione. Inoltre, i trust esteri istituiti da italiani e non dichiarati possono comportare violazioni al monitoraggio fiscale e sono anch’essi al centro di verifiche (soprattutto se situati in Paesi offshore).
In sintesi, il quadro normativo italiano negli ultimi anni si è fatto via via più stringente: la pianificazione fiscale internazionale aggressiva viene contrastata su più fronti. Paradisi fiscali e esterovestizione sono facce della stessa medaglia – l’obiettivo di spostare basi imponibili fuori dall’Italia – e la legge prevede contromisure presuntive, oneri di documentazione e possibili contestazioni penali per dissuadere tali condotte. Passiamo ora ad esaminare proprio le conseguenze e i rischi concreti cui un’azienda (o un privato) va incontro se decide di “esterovestirsi” o di operare tramite paradisi fiscali.
Rischi e conseguenze dell’esterovestizione (per le aziende)
Cosa succede se l’Agenzia delle Entrate scopre o sospetta che una società formalmente estera sia in realtà gestita dall’Italia? Le conseguenze possono essere molto severe, sia sul piano tributario che su quello sanzionatorio (amministrativo e anche penale). In questa sezione analizziamo i vari profili: dall’accertamento fiscale al recupero delle imposte evase, dalle sanzioni pecuniarie fino ai possibili risvolti penali, senza trascurare gli effetti civilistici e reputazionali.
Accertamento fiscale e recupero delle imposte
Quando il Fisco contesta un caso di esterovestizione, in pratica riqualifica la società estera come se fosse residente in Italia per gli anni d’imposta in esame. Ciò comporta che:
- La società viene assoggettata ad imposizione in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti in quei periodi (principio del worldwide income per i residenti). Se aveva già pagato imposte all’estero, potrà vedersi riconosciuto un credito per le imposte estere entro i limiti previsti dalle convenzioni, ma spesso i paradisi fiscali applicano imposte zero, quindi l’intero reddito potrebbe essere tassato ex novo.
- Vengono emessi uno o più avvisi di accertamento per i vari tributi evasi. Tipicamente: IRES e (se dovuta) IRAP non versate sui redditi societari, IVA se rilevano operazioni imponibili non dichiarate, eventuale imposta di registro o altre imposte indirette se l’esterovestizione ha influito su atti tassabili (si pensi a conferimenti di beni in società estera).
- Gli amministratori o soci coinvolti potrebbero ricevere avvisi di accertamento in solido (ad esempio, nel caso in cui l’atto contestato individui un amministratore di fatto italiano, gli si può notificare l’avviso come rappresentante fiscale o coobbligato). La Cassazione ha chiarito però che soltanto il soggetto destinatario della pretesa tributaria – la società – è legittimato a impugnare l’atto, non il mero notificatario persona fisica se non è chiamato a pagare imposte in proprio. Quindi, l’eventuale amministratore di fatto potrà difendersi sul suo status (negando di essere tale) ma non entrare nel merito dell’accertamento fiscale che riguarda la società.
Dal punto di vista finanziario, il recupero d’imposta può essere ingente: si sommano più annualità di imposte non pagate, con applicazione di interessi (normalmente al tasso legale annuo, calcolati giorno per giorno dal momento in cui l’imposta sarebbe stata dovuta) e sanzioni amministrative. Se la società estera non aveva mai presentato dichiarazioni dei redditi in Italia, ciascun anno verrà trattato come omessa dichiarazione (vedi oltre per le sanzioni). Non solo: i redditi occultati potrebbero includere utili portati all’estero, dividendi distribuiti a soci italiani non tassati, ecc., quindi l’accertamento potrebbe estendersi anche a livello dei soci per i redditi di capitale percepiti e non dichiarati (in base al principio di trasparenza, specie se la società è considerata di fatto una mera interposta).
Caso particolare – Imposte indirette: L’esterovestizione può rilevare anche ai fini di imposte indirette. Un esempio concreto è il caso affrontato dalla Cassazione n. 3386/2024, in cui una società con sede legale a Londra aveva ricevuto conferimenti di immobili situati in Italia beneficiando dell’imposta di registro fissa prevista per conferimenti a società UE. Il Fisco ha contestato che la società britannica fosse fittizia e quindi non spettasse il regime agevolato, chiedendo l’imposta di registro in misura proporzionale (ben più elevata) come se il conferimento fosse avvenuto a una società italiana. Ebbene, la Cassazione ha dato ragione all’Agenzia, affermando che il contrasto all’esterovestizione è un principio generale che vale non solo per le imposte sui redditi ma anche per quelle indirette. Dunque, la società esterovestita ha dovuto pagare l’imposta di registro piena, e la sua esterovestizione è stata rilevante anche in quell’ambito. Questo per dire che le conseguenze fiscali non si limitano all’IRES ma possono abbracciare ogni àmbito in cui la residenza o sede effettiva conti (registro, IVA, successioni/donazioni se del caso, ecc.).
Sanzioni amministrative tributarie
Parallelamente al recupero delle imposte, l’accertamento comporta l’irrogazione di sanzioni amministrative per le violazioni tributarie commesse. In un caso di esterovestizione, le violazioni tipiche sono: omessa dichiarazione dei redditi (se la società estera non ha presentato la dichiarazione in Italia ma avrebbe dovuto in quanto considerata residente) oppure dichiarazione infedele (se ha presentato dichiarazioni omettendo una parte di imponibili). Vediamo le sanzioni previste dal D.Lgs. 471/1997 (importi aggiornati alle modifiche normative recenti):
- Omessa dichiarazione dei redditi: sanzione dal 120% al 240% delle imposte dovute, con un minimo di 250 euro. La riforma del giugno 2024 (D.Lgs. 87/2024) ha fissato questa sanzione al 120% fisso in caso di ravvedimento oltre un certo termine, ma in via ordinaria l’intervallo è 120-240%. In pratica, se la società avrebbe dovuto pagare, ad esempio, 100.000 € di IRES, la sola sanzione per omessa dichiarazione può arrivare fino a 240.000 € (oltre interessi). È evidente come si tratti di importi molto penalizzanti. (Nota: se la dichiarazione viene presentata con ritardo superiore a 90 giorni, è considerata omessa ai fini sanzionatori).
- Dichiarazione infedele: sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Questa si applicherebbe se, ad esempio, la società estera aveva presentato una dichiarazione in Italia (magari perché aveva una stabile organizzazione dichiarata) ma sotto-reportando redditi. Nel contesto di esterovestizione pura, è più comune l’omessa, ma qualora si configuri l’infedele (ad esempio il contribuente persona fisica non ha indicato nella propria dichiarazione i redditi della società estera poi attribuitigli), si applicherebbe questa sanzione.
- Altre violazioni: possono esservi sanzioni per omesso versamento IVA, per violazioni contabili (se la società avrebbe dovuto tenere scritture in Italia), ecc. Ad esempio, omessa dichiarazione IVA comporta anch’essa 120-240% dell’imposta, e la non istituzione dei registri contabili obbligatori può portare a sanzioni accessorie.
Le sanzioni amministrative tributarie sono di regola definibili in via agevolata: il contribuente può accedere all’istituto dell’adesione o acquiescenza, riducendo le sanzioni a 1/3 del minimo (nei limiti e condizioni di legge). Va segnalato che nel 2023 è stata prevista una definizione agevolata delle liti tributarie pendenti con sanzioni ridotte o azzerate: molti contribuenti con cause di esterovestizione hanno colto l’opportunità di pagare solo imposte e interessi chiudendo il contenzioso.
Un ulteriore effetto sanzionatorio è il possibile raddoppio dei termini di accertamento. Se l’esterovestizione configura un reato tributario (vedi infra), i termini di decadenza per l’accertamento raddoppiano (per permettere all’amministrazione di tenere conto dell’esito penale). Dunque, il Fisco potrebbe controllare anche periodi d’imposta più vecchi del normale, se vi è stata denuncia penale. Inoltre, se la società estera non aveva partita IVA italiana, l’accertamento dell’IVA evasa può ricadere in un regime di maggiore difficoltà per il contribuente (poca documentazione fiscale, ecc.). Tutti questi aspetti rendono la posizione del debitore particolarmente complessa.
Responsabilità penale (reati tributari)
L’esterovestizione può avere profili penalmente rilevanti. Pur non esistendo un reato specifico denominato “esterovestizione”, la condotta tipica dell’esterovestizione – ossia non dichiarare in Italia redditi imponibili mediante lo schermo di una società estera – integra spesso reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000. In particolare:
- Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): è il reato commesso da chi, obbligato a presentare una dichiarazione annuale (es. dei redditi o IVA), non la presenta affatto, con imposta evasa superiore a una certa soglia. Nel caso di esterovestizione societaria, la società estera formalmente non presenta dichiarazioni in Italia; se viene ritenuta residente, quelle dichiarazioni risultano omesse. La soglia di punibilità attualmente è 50.000 € di imposta evasa per periodo d’imposta. Superata tale soglia, scatta il reato, punito con la reclusione da 2 a 5 anni (pena aumentata dal 2019, prima era 1½–4½ anni). Il reato può coinvolgere gli amministratori italiani che hanno di fatto diretto la società.
- Dichiarazione infedele (art. 4): se invece una dichiarazione è stata presentata ma i redditi esterovestiti non vi figurano (ad esempio un imprenditore persona fisica dichiara solo redditi italiani, omettendo di dichiarare quelli della società estera a lui imputabili), può configurarsi il reato di dichiarazione infedele. La soglia è imposta evasa > 100.000 € e omessa indicazione di redditi > 2 milioni. La pena va da 2 a 4½ anni. Nella pratica, l’esterovestizione pura ricade più spesso nell’omessa, ma non sono esclusi casi di infedele (soprattutto per le persone fisiche con asset esteri non dichiarati).
- Altri reati possibili: Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) se per attuare l’esterovestizione si sono usati atti falsi o frodi; Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) se si sono occultate le scritture della società estera; Riciclaggio o autoriciclaggio se i proventi sottratti al fisco sono stati reimmessi in attività economiche (questa però è un’ipotesi ulteriore e diversa, che esula dal reato tributario in sé).
- Reati del professionista: se un consulente fiscale ha concorso nell’ideare e realizzare l’esterovestizione, potrebbe essergli contestato il concorso nei reati tributari citati oppure il nuovo reato di pena per consulenza fiscale illecita (introdotto nel 2019 per chi suggerisce strumenti fraudolenti oltre certe soglie).
Ovviamente, non ogni contestazione di esterovestizione sfocia nel penale. Occorre il superamento delle soglie di punibilità, e va provato l’elemento soggettivo (dolo). Nei casi grandi però, le somme sono tali che il penale è quasi automatico. Si pensi a una società con 5 milioni di utili l’anno non tassati: l’omessa dichiarazione con imposta evasa di ~1,2 milioni supera abbondantemente la soglia, e configura reato.
Esistono per fortuna strumenti deflattivi: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che pagando integralmente i debiti tributari (imposte, sanzioni amministrative, interessi) prima della sentenza di primo grado, i reati di omessa e infedele dichiarazione si estinguono. Dunque, se un imprenditore sotto processo per esterovestizione riesce a pagare tutto quanto dovuto al Fisco (magari grazie a una definizione agevolata o a una transazione), può evitare la condanna penale. Questo incentivo spinge molti a trovare un accordo col Fisco e saldare il dovuto. Anche il patteggiamento è facilitato se c’è pagamento integrale. Dal punto di vista pratico, chi si trova in un procedimento penale per esterovestizione dovrebbe coordinare strettamente la difesa tributaria con quella penale. Spesso è consigliabile chiudere il contenzioso tributario (anche pagando qualcosa) per “mettere a posto” la posizione fiscale, ed evitare così guai penali maggiori.
Altre conseguenze (civilistiche, reputazionali)
Oltre a tasse e sanzioni, l’esterovestizione può generare effetti collaterali:
- Bilanci e obblighi societari: se la società estera è dichiarata residente in Italia, in teoria dovrebbe sottostare a vari obblighi societari italiani (deposito bilanci, normativa antiriciclaggio, magari legge sulle società estere controllate, ecc.). In pratica, gli accertamenti tributari non “riscrivono” lo statuto societario, ma vi possono essere provvedimenti collaterali. Ad esempio, se una società delle Isole Vergini viene considerata residente, l’Agenzia potrebbe richiederle di nominare un rappresentante fiscale o identificare un domicilio in Italia per notifiche. Non è raro che, a seguito di contestazioni, si proceda poi a liquidare la società estera divenuta inutilizzabile.
- Rischi civilistici per gli amministratori: Un amministratore di fatto italiano di società estera potrebbe essere ritenuto responsabile in solido per alcuni debiti tributari, o comunque esposto ad azioni di responsabilità se emergono danni (ad esempio sanzioni pagate dalla società per sue scelte elusive). Inoltre, se l’amministratore è iscritto ad albi (commercialista, avvocato) potrebbe avere conseguenze disciplinari in casi estremi.
- Reputazione e rapporti d’affari: Una scoperta di esterovestizione balza spesso agli onori della cronaca locale o di settore, con titoli del tipo “Società fantasma estera per evadere le tasse”. Ciò può danneggiare la reputazione dell’imprenditore e dell’azienda, minando la fiducia di clienti, fornitori, investitori. In settori regolamentati o partecipando a gare pubbliche, una contestazione grave può precludere opportunità (per esempio, può emergere nei DURC o negli illeciti professionali rilevanti ai fini degli appalti). Inoltre, se la società viene “riportata” in Italia fiscalmente, potrebbe dover rispettare normative italiane di settore (es. se operava in ambito vigilato come finanziario, potrebbe incorrere in sanzioni per attività senza le necessarie autorizzazioni italiane).
- Altri effetti: L’esterovestizione spesso si accompagna a violazioni valutarie (trasferimenti di capitali non dichiarati), a problematiche di monitoraggio fiscale (omessa compilazione quadro RW), a questioni di esterometro e comunicazioni IVA se vi erano operazioni transfrontaliere non segnalate. Insomma, può innescare una serie di verifiche a cascata, con ulteriori sanzioni e obblighi di regolarizzazione.
In definitiva, decidere di utilizzare una società estera di comodo per abbattere il carico fiscale può rivelarsi un boomerang molto costoso. Oltre a dover poi pagare tutte le imposte risparmiate (con interessi), si subiscono sanzioni pesanti e si rischia di incorrere in un procedimento penale. Senza contare il costo in termini di stress, reputazione e consulenze legali per gestire il contenzioso. Nel prossimo capitolo esamineremo come i giudici (Cassazione in primis) hanno affrontato casi recenti, così da capire quali elementi sono risultati decisivi nel confermare o meno un’esterovestizione.
Orientamenti giurisprudenziali recenti (2023–2025)
La materia dell’esterovestizione è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, sia di merito che di legittimità. La Corte di Cassazione, in particolare, ha delineato principi chiave su cosa configura un’esterovestizione e su quali prove siano richieste al Fisco e al contribuente. Analizziamo alcune sentenze recentissime (2023-2025) che rappresentano i più aggiornati orientamenti, distinguendo fra casi societari e questioni relative alle persone fisiche.
Cassazione (Sez. Trib.) n. 3386/2024 – Esterovestizione e imposta di registro
Questa sentenza, depositata il 6 febbraio 2024, è notevole perché estende il concetto di esterovestizione oltre l’ambito delle imposte sui redditi. La vicenda riguardava un conferimento di immobili italiani in una società con sede legale a Londra; la società aveva pagato imposta di registro fissa avvalendosi dell’agevolazione per conferimenti a società UE. L’Agenzia ha contestato che la società inglese fosse in realtà un puro artificio (nessuna struttura propria, immobili situati in Italia e usati dai soci italiani). In base all’art. 73 TUIR, l’Ufficio ha ritenuto la società fiscalmente residente in Italia (sede dell’amministrazione in Italia) e quindi non spettante l’agevolazione. La Cassazione gli ha dato ragione, affermando un principio generale: contrastare l’esterovestizione è un principio di ordine generale dell’ordinamento, applicabile a tutti i tributi, diretti e indiretti. In concreto, la Suprema Corte ha convalidato l’applicazione dell’art. 73 c.3 e 5-bis TUIR anche all’imposta di registro, ritenendo legittimo chiedere l’imposta proporzionale perché la società era esterovestita. Questa pronuncia sottolinea che la forma societaria estera non può essere usata per eludere tributi di qualsiasi natura: se dietro la forma estera c’è la sostanza italiana, tutte le imposte ne devono tenere conto. La Cassazione richiama anche il dovere costituzionale di concorrere alle spese pubbliche e i principi UE/OCSE anti-abuso a fondamento di tale approccio.
Da notare, inoltre, che la sentenza n. 3386/2024 ribadisce una definizione di esterovestizione: ricorre quando una società ha in Italia la sede effettiva dell’amministrazione, pur avendo collocato formalmente all’estero la residenza al solo fine di fruire di un regime fiscale più vantaggioso. Viene citata espressamente la precedente Cass. n. 16697/2019 in tal senso. In più, i giudici affermano che per individuare la sede effettiva bisogna considerare un complesso di fattori, non limitarsi ai documenti formali di costituzione estera. In quell’occasione la Cassazione ha richiamato anche Cass. n. 2869/2013, altro precedente in materia, e ha concluso che serve sempre un accertamento concreto, caso per caso, dell’artificiosità della collocazione estera.
Cassazione n. 14485/2024 – Presupposti probatori dell’esterovestizione
Depositata il 28 luglio 2024, questa sentenza affronta un caso di esterovestizione ai fini dell’imposta di registro (simile al precedente) fornendo però un importante chiarimento sugli oneri probatori. Il caso: una cittadina italiana aveva conferito un immobile in una società di diritto inglese (Edimburgo) a fronte di un aumento di capitale. L’Agenzia sostenne che la società inglese fosse un “puro artificio” (priva di struttura e operatività propria) e che di fatto l’immobile restava riconducibile alla contribuente. In primo grado la CTP diede ragione al Fisco (società artatamente costituita), in appello la CTR ribaltò la decisione ritenendo che i contribuenti avessero prodotto documenti attestanti una reale operatività della società estera nel settore immobiliare (capitali conferiti per farla operare, ecc.). La Cassazione, su ricorso dell’Agenzia, ha cassato la sentenza di appello ritenendo che la CTR non avesse adeguatamente valutato gli indizi di esterovestizione e avesse dato rilievo a elementi formali privi di decisività.
Dal testo si ricava: la Cassazione richiama una sua precedente ordinanza, Cass. n. 5537/2023, in un caso analogo, che affermava la legittimità di disconoscere la sede legale estera quando manchi qualsiasi collegamento effettivo con lo Stato estero. In quell’ordinanza si sottolineava che l’esterovestizione è configurabile quando la società “ha nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione… e localizza la propria residenza fiscale all’estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa”, citando appunto Cass. 16697/2019. Inoltre, la Cassazione (n. 14485/2024) ribadisce – richiamando il principio UE – che costituire una società in altro Stato membro per beneficiare di norme più favorevoli non è di per sé abuso, purché vi sia un insediamento effettivo e un’esercizio reale di attività economica in quello Stato. Viene citata a tal fine Cass. n. 33324/2018, che ricalca i noti principi della Corte di Giustizia (caso Cadbury Schweppes): la libertà di stabilimento tutela anche la scelta di stabilirsi dove la fiscalità è più leggera, ma richiede un’insediamento genuino, non fittizio.
La sentenza 14485/2024 pone dunque l’accento su come valutare le prove: il giudice di merito deve esaminare tutti gli elementi indiziari nel loro insieme (in combinato) e verificare se hanno i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c.. Non può limitarsi a constatare che la società è formalmente costituita all’estero e ha espletato alcune formalità (es. tenuto l’assemblea) per concludere che non c’è esterovestizione: “cosa diversa è la reale operatività del soggetto giuridico” ammonisce la Cassazione. In pratica, la CTR aveva dato peso al fatto che la società inglese fosse stata capitalizzata e formalmente proprietaria dell’immobile, ma Cassazione obietta che bisogna guardare alla sostanza (aveva una struttura? Un ufficio? Personale? Faceva operazioni indipendenti?) e non fermarsi al fatto che “sulla carta” è proprietaria. L’errore della CTR fu di considerare sufficienti documenti di costituzione e finanziamento, quando invece il Fisco lamentava l’assenza di qualsiasi attività reale estera (circostanza che la CTR non ha confutato puntualmente). Così la Cassazione ha rinviato per nuova valutazione, ribadendo che serve verificare in concreto l’artificiosità della collocazione estera.
Questa pronuncia quindi conferma una linea: la Cassazione applica pienamente l’art. 73 comma 5-bis (presunzione) e il criterio generale della sede effettiva, ma esige che il giudice valuti seriamente gli indizi di esterovestizione e non si fermi a elementi di facciata presentati dal contribuente. È una “stretta” probatoria nei confronti delle difese meramente formali.
Cassazione n. 2458/2025 – Controllo italiano e presunzione di residenza
La sentenza n. 2458 del 2 febbraio 2025 (Sez. V civile) riguarda un caso paradigmatico di società estera eterodiretta da interessi italiani. Una società residente nei Paesi Bassi era controllata al 100% da una società italiana; secondo la Cassazione, i soci italiani di quest’ultima prendevano in realtà tutte le decisioni sostanziali, eseguite formalmente dagli amministratori della società olandese. Nonostante non fosse menzionata la presenza di filiali italiane della società estera, la Suprema Corte ha ritenuto provati elementi sufficienti per applicare la presunzione di esterovestizione ex art. 73, co.5-bis TUIR. Ha quindi accolto il ricorso dell’Agenzia (che in appello aveva perso) e riconosciuto la residenza in Italia della società olandese.
Questo caso sembra rientrare perfettamente nello schema del comma 5-bis: società olandese (Paese non paradiso fiscale ma comunque con tassazione ridotta su certe holding), controllata da italiani e (presumibilmente) con board dominato da italiani, e con la funzione di possedere partecipazioni. La Cassazione però – come evidenziato da commenti dottrinali – avrebbe erroneamente fatto riferimento al 5-bis anche se formalmente la società olandese non controllava società italiane (in realtà era il contrario, era controllata da una italiana). Probabilmente c’era una struttura di gruppo articolata. Al di là del tecnicismo, ciò che conta è che Cass. 2458/2025 conferma la mano dura verso le costruzioni elusive: se i soci italiani tirano i fili, la società estera è fittizia. Questa pronuncia inoltre è in linea con due risposte a interpello ricordate prima (27/2022 e 164/2023) che sottolineano come la presunzione si applichi se la società estera ha legami partecipativi con l’Italia. Nel caso di Cass. 2458, c’era il controllo totalitario dall’Italia, ed è bastato quello – unito alla prova che le decisioni erano prese dagli italiani – per invertire l’onere sul contribuente e attribuire la residenza in Italia.
Cassazione n. 12864/2025 – Legittimazione ad impugnare e amministratore di fatto
Questa sentenza, depositata il 14 maggio 2025, merita un cenno perché tocca un aspetto procedurale interessante in vicende di esterovestizione. In un caso di società con sede in Liechtenstein contestata come esterovestita, l’avviso di accertamento fu notificato sia alla società (destinataria della pretesa fiscale) sia a una persona fisica italiana, indicata come rappresentante fiscale e amministratore di fatto della società estera. L’individuo in questione (A.B.) presentò ricorso in proprio contro l’atto, negando di essere amministratore e sostenendo l’inesistenza della notifica a suo carico. La Cassazione, riprendendo un orientamento recente, ha stabilito che solo il soggetto destinatario della pretesa tributaria è legittimato a impugnare l’avviso. Nel caso specifico, l’avviso era intestato alla società estera, e A.B. figurava solo quale rappresentante per notifica: dunque A.B. non poteva impugnare l’atto in nome proprio per contestare la propria (asserita) qualità di amministratore di fatto. La sua impugnazione personale è stata ritenuta inammissibile, in linea con la giurisprudenza che vede isolati e superati opposti precedenti.
Questa pronuncia insegna che, quando il Fisco individua un amministratore di fatto italiano di una società estera, può notificargli l’atto ma ciò non lo rende parte del rapporto tributario: l’obbligato resta la società. L’amministratore potrà far valere l’inesistenza della notifica o la propria estraneità eventualmente come eccezione nel processo avviato dalla società o in altra sede. Per il “debitore” esterovestito ciò significa che la difesa principale spetta sempre alla società estera (che se è inerte rischia di far passare in giudicato l’accertamento), mentre le persone fisiche coinvolte devono coordinarsi con essa. È un aspetto procedurale che spesso complica i contenziosi internazionali, specie se la società estera non partecipa al giudizio (magari perché amministrata da fiduciari che non intervengono). In tal caso, l’atto potrebbe diventare definitivo e riscuotibile anche nei confronti di eventuali coobbligati in solido in Italia (es. i soci, per i redditi imputati per trasparenza, o l’amministratore come responsabile d’imposta, a seconda delle circostanze). Quindi occhio: non ignorare un avviso di accertamento intestato alla società estera solo perché ci si ritiene “solo amministratori”; va impugnato a nome della società tramite un difensore abilitato.
Altre pronunce significative
- Cass. n. 23150/2022: ha ribadito che per individuare la residenza fiscale di una società non occorre provare un intento di evasione, ma basta verificare obiettivamente i criteri di legge (sede legale/effettiva/oggetto) e in caso di conflitto si dà prevalenza alla sede effettiva. Conferma anche che la “sede dell’amministrazione” equivale al luogo di direzione effettiva e accentra la vita societaria.
- Cass. n. 1544/2023: (richiamata in Cass. 3386/2024) sul concetto di sede effettiva come luogo di direzione e amministrazione concreta.
- Cass. nn. 33234 e 33235/2018: note come sentenze Dolce & Gabbana in sede civile tributaria. Hanno stabilito che la costituzione di società in Lussemburgo da parte dei noti stilisti non era di per sé illecita, e hanno affermato che solo se la società estera è priva di sostanza economica e costituisce una costruzione di puro artificio si può parlare di abuso. In quel caso specifico, le società lussemburghesi avevano una certa struttura e un’attività di gestione marchi non completamente fasulla, il che portò in ambito penale anche all’assoluzione (Cass. pen. n. 43809/2015). Queste pronunce del 2018 (insieme a Cass. SU 330/2010 e altre) hanno recepito la dottrina comunitaria: non è reato né illecito tributario trasferire legittimamente attività all’estero; diventa illecito se tutto è simulato.
- Cass. n. 17857/2018 (Sez. Unite): chiarisce l’uso delle presunzioni nel processo tributario, ribadendo che occorrono indizi con le tre caratteristiche richieste dalla legge e che il ragionamento presuntivo va motivato adeguatamente. È stata richiamata sul punto da Cass. 14485/2024 per censurare la CTR che aveva utilizzato presunzioni non sufficienti.
- Giurisprudenza di merito: numerose Commissioni Tributarie Regionali hanno affrontato fattispecie di esterovestizione. Ad esempio, la CTR Emilia-Romagna n. 861/2020 (citata nel caso sopra) aveva ritenuto dovuta l’imposta di registro proporzionale su un conferimento ad una società UK, ravvisando la mancanza di attività effettiva estera. Le CTR spesso vanno caso per caso: alcune volte danno ragione al contribuente se vedevano sostanza (come avvenuto in primo momento nel caso Forte dei Marmi poi finito in Cassazione), altre volte no. Con la riforma del contenzioso tributario del 2022, va segnalato che le nuove Corti di Giustizia Tributaria (ex commissioni) dispongono ora di magistrati togati in organico: ci si attende maggiore uniformità e attenzione ai principi di Cassazione.
Sintesi dei principi attuali: La Cassazione oggi tende a confermare gli accertamenti di esterovestizione quando riscontra che l’entità estera è meramente formale (nessuna struttura/progetto economico proprio) e che vi sono indizi concordanti di gestione italiana (amministratori italiani, decisioni prese in Italia, beni e affari concentrati in Italia). Al contempo, afferma chiaramente che costituire società all’estero per beneficiare di tasse minori non è vietato, se ciò avviene nel rispetto della sostanza (cioè la società deve davvero operare lì). In altre parole: il diritto di stabilimento include il diritto di scegliere lo Stato con regime fiscale preferibile, purché l’insediamento sia reale e non fittizio. Questa linea interpreta fedelmente la giurisprudenza UE (caso Cadbury: “wholly artificial arrangement” come limite). Quindi, in giudizio, il contribuente che riesce a provare che la sua società estera ha vita propria (uffici, persone, attività genuina) può spuntarla; viceversa, chi si limita a esibire il certificato di iscrizione nel registro estero e poco altro difficilmente convincerà i giudici.
Come difendersi (o prevenire) dal rischio esterovestizione – Il punto di vista del contribuente
Dal “punto di vista del debitore” (cioè di chi potrebbe essere accusato di esterovestizione), quali strategie e accorgimenti si possono adottare? In questa sezione conclusiva forniamo consigli pratici sia preventivi – per chi sta pianificando strutture estere legittime ma teme contestazioni – sia difensivi – per chi è già sotto verifica o accertamento. L’obiettivo è adottare un approccio di compliance sostanziale, mantenendo documentazione solida e dimostrando la buona fede e la realtà economica delle operazioni transfrontaliere.
Prevenire l’esterovestizione: sostanza e coerenza
- Creare sostanza economica all’estero: Se decidete di aprire una società estera, dotatela di una vera presenza locale. Ciò significa: ufficio fisico (anche di piccole dimensioni, ma reale), recapito telefonico e indirizzo operativi, personale o collaboratori sul posto, conti bancari locali, magari iscrizione a camere di commercio locali, sito web con contatti esteri. Più la società appare “vera” nel Paese estero, meno sarà attaccabile.
- Separazione delle attività italiane ed estere: Evitate di gestire tutto dall’Italia. Ad esempio, non fate firmare tutti i contratti della società estera mentre siete in Italia – meglio recarsi all’estero per le firme, oppure conferire procura a qualcuno sul posto. Distinguete anche l’infrastruttura digitale: se possibile usate server e cloud situati nel Paese estero per l’email aziendale, così gli IP delle comunicazioni risultano esteri. (Non si tratta di barare, ma di coerenza: se poi il Fisco vede che ogni email parte da un IP italiano, la narrativa di una gestione estera perde credibilità).
- Evitare commistioni bancarie: Non fate transitare sistematicamente i soldi della società estera su conti italiani. Mantenete conti esteri e usateli per spese e incassi dell’azienda estera. Se trasferite subito tutti i ricavi sul vostro conto personale in Italia, è un segnale negativo.
- Transfer pricing logico: Nei rapporti tra la società italiana e quella estera del gruppo, assicuratevi che le transazioni avvengano a valore di mercato (norme Transfer Pricing). Se la società italiana si accolla quasi tutte le spese e l’estera fa solo utili, il Fisco può rettificare i prezzi di trasferimento o vedere un’indebita allocazione di utili. Viceversa, se l’italiana svolge tutte le funzioni e l’estera è solo una holding passiva, non c’è vero rapporto commerciale ma un sintomo di interposizione. In breve: strutturate i flussi economici in modo giustificabile.
- Scegliere con cura la giurisdizione: Aprire società in paesi ultra-offshore (Panama, Isole Vergini, Vanuatu…) vi pone immediatamente nel mirino. Se avete libertà di scelta, privilegiate Paesi con fiscalità “normale” e accordi con l’Italia. Ad esempio, una società in Irlanda o in Svizzera con aliquota moderata e piena collaborazione internazionale è più difendibile di una a zero tasse in un’isola sperduta. Certo, avrete comunque l’onere di mostrare la sostanza, ma almeno non partirete con l’etichetta di paradiso fiscale. Al contrario, insediare una holding a Dubai o nelle Free Zone degli Emirati oggi è molto rischioso: l’UAE solo di recente ha introdotto una minima imposta societaria e lo scambio informazioni con l’Italia è stato limitato fino a poco fa. Non a caso le società in Free Zone a tassazione zero rischiano sia la presunzione CFC sia la presunzione di esterovestizione, e difenderle è arduo.
- Attenzione a trust e strutture alternative: Come detto, costituire un trust alle Bahamas sperando di aggirare l’art. 73(5-bis) non funziona: la norma colpisce anche gli enti non societari se controllano società italiane e sono controllati da italiani. Inoltre, i trust esteri comportano obblighi di monitoraggio fiscale e comunicazione dei beneficiari; se non li rispettate, aggiungete infrazioni. Dunque, qualsiasi struttura estera scegliate, considerate che l’Agenzia la guarderà in trasparenza per vedere chi c’è dietro e quali asset italiani coinvolge.
Documentazione difensiva da predisporre
- Dossier permanente della società estera: Fin dal primo giorno, raccogliete e conservate un fascicolo con tutti i documenti utili a dimostrare la reale operatività all’estero. Ad esempio: visura camerale locale, atto costitutivo, organigramma con indicazione di nazionalità e ruolo di soci/amministratori, contratto di affitto dell’ufficio estero, bollette elettricità/telefono della sede, buste paga di eventuali dipendenti locali, fotografie dei locali e del personale al lavoro, brochure o sito aziendale che mostrino la sede estera, articoli di stampa locale sull’azienda. Aggiornate questo dossier ogni anno. Se vi arriverà un questionario o un PVC dell’Agenzia, avere queste prove pronte vi permetterà di rispondere celermente e in modo convincente, trasmettendo subito l’idea di una struttura genuina (e non improvvisando affannosamente all’ultimo minuto).
- Verbali societari e registri ufficiali: Tenete con scrupolo tutti i verbali di assemblea e consiglio di amministrazione della società estera. Indicate sempre il luogo (estero!) e la data delle riunioni, e fate firmare i verbali ai presenti in loco se possibile. Se qualche riunione avviene in teleconferenza, redigete comunque il verbale indicando che la riunione si è svolta con sede di riferimento all’estero (es. “collegati in teleconferenza con base a Londra”) – anche se questo è meno efficace, meglio organizzare riunioni fisiche periodiche all’estero. Inoltre, conservate i libri sociali e contabili presso la sede estera (come spesso richiesto anche dalla legge locale). Se il Fisco vi chiede dove sono i libri e voi rispondete “in Italia dal commercialista italiano”, vi date la zappa sui piedi: per coerenza, dovrebbero stare presso la società, nel suo Stato.
- Prova delle decisioni prese all’estero: Un trucco pragmatico: quando fate incontri o riunioni importanti all’estero, collezionate tracce tangibili. Ad esempio, se approvate il bilancio in assemblea a Lugano, tenete le ricevute dell’albergo o del ristorante di quei giorni a Lugano, intestate ai partecipanti. Se fate un meeting operativo a Bucarest, scattate qualche foto dei partecipanti in ufficio a Bucarest. Questi dettagli di vita vissuta potranno sembrare irrilevanti, ma messi insieme racconteranno una storia credibile: “vedete, periodicamente ci recavamo lì per occuparci della società, ecco le prove”.
- Contratti e corrispondenza in lingua locale: Se la società estera opera con controparti locali, cercate di stipulare i contratti in lingua locale o quantomeno in versione bilingue. E mantenete corrispondenza (email, lettere) in quella lingua. Se tutto avviene in italiano, suona strano. Ad esempio, se avete una s.r.l. romena ma tutti i contratti con fornitori romeni sono redatti solo in italiano, appare come un mero artificio (e probabilmente quei fornitori sono riconducibili all’Italia). Viceversa, se mostrate contratti con fornitori rumeni scritti in rumeno, sarà più difficile sostenere che la società non abbia alcuna sostanza locale.
- Utilizzo di professionisti locali: Avvaletevi, per quanto possibile, di commercialisti, avvocati e consulenti nel Paese estero, e pagateli con la società estera (fatture intestate all’azienda estera). Ciò dimostra che la società opera nel contesto giuridico locale e vi si conforma. Se invece la contabilità della vostra società bulgara è tenuta dal consulente in Italia, e magari la società manco ha partita IVA bulgara, capite che è un punto debole: molto meglio assumere un contabile bulgaro o affidarsi a uno studio in loco. Ha un costo, certo, ma è il prezzo da pagare per avere sostanza.
- Check-up periodico: Ogni anno fate una sorta di due diligence interna sulla vostra struttura estera. Chiedetevi con occhio critico: “se arrivasse un controllo, quali elementi potrebbero usarci contro? Saremmo in grado di dimostrare la direzione all’estero?”. Se individuate falle (es. tutti gli amministratori sono italiani – forse conviene nominarne uno locale; l’ufficio estero è una stanza presso un avvocato – meglio prendere un piccolo coworking dedicato; ecc.), corregetele per tempo. Questa auto-valutazione onesta può salvarvi in anticipo, prima che le mancanze vengano notate dal verificatore.
Cosa fare in caso di verifica o accertamento
- Non sottovalutare la verifica iniziale: Se ricevete un questionario dall’Agenzia delle Entrate che vi chiede della vostra residenza estera o della società estera, oppure una visita/Processo Verbale di Constatazione (PVC) della Guardia di Finanza, attivatevi subito con i vostri consulenti esperti di fiscalità internazionale. È fondamentale fornire collaborazione, ma in modo strategico: rispondete per iscritto con precisione e completezza, allegando tutti i documenti richiesti e magari anche qualcuno in più di propria iniziativa, se rilevante. Qui torna utile il dossier preparato in anticipo: potrete consegnare copia di contratti, visure, bollette, foto – tutto ciò che possa convincere già in fase pre-accertamento. Mostrarsi trasparenti e organizzati a volte può fermare l’ufficio prima che emetta l’atto.
- Contraddittorio: chiedetelo e sfruttatelo: Se l’accertamento è imminente, chiedete un incontro di contraddittorio con l’ufficio, oppure partecipate attivamente se ve lo propongono. Spiegate a voce le vostre ragioni, illustrate il business rationale della struttura estera, ovvero quali motivi economici non fiscali vi hanno spinto a operare così (mercati esteri, soci stranieri, necessità commerciali). L’obiettivo è mostrare genuinità: far capire che non era solo per evadere tasse, ma c’era sostanza e convenienza economica reale. Se riuscite a convincere l’ufficio della bontà di almeno una parte delle vostre ragioni, potreste ottenere un esito migliore – magari una chiusura parziale o una riduzione delle pretese. In ambito di libertà di stabilimento UE, ricordate che dovrebbe essere sempre garantito il contraddittorio anticipato (principio del diritto UE): la mancanza di contraddittorio nei casi di contestazione di abuso potrebbe portare all’annullamento dell’atto. Quindi insistete su questo punto se l’ufficio volesse agire unilateralmente.
- Verificare vizi formali dell’atto: Fate controllare ai vostri legali se l’accertamento contiene vizi procedurali (errore nella notifica, mancanza di firma digitale valida, difetto di motivazione specifica, omissione del contraddittorio se dovuto). A volte appigli formali possono portare all’annullamento dell’atto indipendentemente dal merito. Ad esempio, la Cassazione ha annullato avvisi in casi di abuso di diritto quando mancava il contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio in contesto UE, oppure se l’atto era stato notificato a soggetti privi di legittimazione. Sono questioni tecniche, ma un avvocato tributarista esperto le individuerà.
- Considerare definizioni agevolate e sanatorie: Se siete nel pieno di un contenzioso e il legislatore apre una finestra di definizione agevolata, valutate seriamente di approfittarne. Ad esempio, nel 2023 c’è stata la definizione delle liti pendenti: pagando il solo tributo (o poco più) si chiudeva la causa e si annullavano sanzioni e interessi. Pagare qualcosa potrebbe sembrare sgradito, ma vi toglie l’incertezza di esiti processuali e – cosa non da poco – vi tutela in sede penale (pagare il debito tributario estingue il reato, come visto). Anche eventuali “pace fiscali” future (dilazioni, condoni) vanno tenute d’occhio: in materie borderline come queste, molti preferiscono chiudere subito e voltare pagina.
- Affrontare il contenzioso tributario in modo tecnico: Se decidete di andare avanti in Commissione Tributaria (oggi Corte di Giustizia Tributaria) perché ritenete di avere buone carte, predisponete un ricorso molto dettagliato, magari corredato da perizie di parte se necessario. Ad esempio, una perizia di un esperto estero che attesti dove è localizzata la direzione effettiva sulla base di elementi oggettivi, oppure che descriva il settore economico mostrando che l’operatività estera era indispensabile. Durante la causa, potete anche proporre una conciliazione giudiziale: a volte l’Agenzia preferisce chiudere con un compromesso (pagamento di imposte e sanzioni ridotte al 50%) piuttosto che rischiare una sconfitta. È un’opzione da non scartare, soprattutto se il giudizio è incerto e la posta in palio elevata.
Strumenti preventivi di interlocuzione con il Fisco
- Interpello anti-abuso: Formalmente l’interpello ordinario anti-abuso (art. 11, co.2, L.212/2000) non è ammesso per questioni già coperte da norme specifiche anti-elusive come l’esterovestizione. In altre parole, non potete chiedere all’Agenzia “se faccio questa struttura, è esterovestizione?” perché l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente esclude le fattispecie sanzionate penalmente o con presunzioni da questo interpello. Tuttavia, nulla vieta di consultarsi informalmente: se siete un contribuente di grandi dimensioni, potete richiedere incontri di pre-filing con l’ufficio grandi contribuenti, esporre lo schema e tastare il terreno. Non avrete magari una risposta ufficiale scritta, ma potreste ottenere indicazioni utili su come l’Agenzia vede la cosa e su eventuali correzioni da apportare per stare nei limiti.
- Ruling per nuovi investimenti: Esiste uno strumento introdotto dal 2015 (art. 2 DL 147/2015) che consente, per investimenti rilevanti in Italia (>15-20 milioni €), di ottenere un Ruling con l’Agenzia delle Entrate su vari aspetti fiscali collegati all’investimento. In teoria, tra questi aspetti potrebbe rientrare anche la qualificazione di società coinvolte (ad esempio se nel progetto internazionale c’è una holding estera, si può chiedere conferma del trattamento fiscale). È un istituto ancora poco usato, ma ha il vantaggio di vincolare l’Agenzia a quanto concordato. Ovviamente è riservato a operazioni di ampia portata.
- Cooperative Compliance: Se la vostra azienda è molto grande (fatturato > 1 mld € o anche >100 mln se ammessa al programma pilota), potete aderire al regime di adempimento collaborativo con l’Agenzia Entrate. In tale contesto di trasparenza reciproca, potreste discutere a monte anche di questioni di residenza fiscale delle vostre controllate, ottenendo una sorta di comfort dall’Agenzia sul fatto che certe strutture non saranno contestate (ovviamente dovete rivelare tutto). È un approccio di tax assurance avanzata: per chi ha strutture internazionali complesse, la cooperative compliance può essere un modo per evitare a monte i contenziosi, accettando però un livello di disclosure altissimo.
Rimedio estremo: rientro o regolarizzazione
- Sciogliere la struttura esterovestita (Exit strategy): Se col senno di poi realizzate che la società estera vi espone a troppi rischi e non ha più una valida ragion d’essere economica, considerate di chiuderla o trasferirla in Italia spontaneamente prima di essere scoperti. Ad esempio, potete liquidare la società estera e riportare gli asset in Italia, pagando le imposte eventualmente dovute su plusvalenze al momento. Oppure trasferire la sede legale in Italia (se consentito) regolarizzando la posizione. Questa scelta può farvi dormire più tranquilli se la struttura era borderline.
- Voluntary Disclosure e simili: In passato ci sono state due edizioni di Voluntary Disclosure (2015 e 2017) che consentivano di autodenunciare attività finanziarie estere e società non dichiarate, pagando le imposte dovute con sanzioni ridotte e ottenendo persino l’immunità penale. Molti hanno sanato così situazioni di esterovestizione. Al momento (2025) non c’è una VD aperta, ma se il legislatore ne proponesse un’altra, e vi trovate in una situazione irregolare, cogliete l’opportunità. Pagare spontaneamente prima che il Fisco vi contesti è sempre la scelta più saggia. Dopo una VD, difficilmente vi sarà contestata esterovestizione per gli anni sanati (avete già concordato e pagato).
- Gestire le sanzioni penali in caso di accertamento: Se siete già sotto indagine penale per omessa dichiarazione derivante da esterovestizione, come detto pagare il dovuto al Fisco al più presto è la mossa numero uno. L’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che il pagamento integrale prima del giudizio evita la punibilità. Anche dopo la formale contestazione, il patteggiamento e l’attenuante del ravvedimento operoso possono mitigare la pena se collaborate. Coordinare gli avvocati penalisti con i consulenti fiscali è cruciale: talvolta accettare di chiudere con l’Agenzia pagando può sembrare amaro, ma è la scelta vincente per evitare il casellario giudiziale sporco.
- Reputazione e altri effetti collaterali: Se siete un imprenditore noto, valutate di comunicare proattivamente eventuali regolarizzazioni. Ad esempio, se chiudete una struttura offshore sospetta, potreste diffondere (in modo mirato a soci/investitori) che avete riorganizzato l’assetto nel rispetto delle norme. Questo può prevenire danni reputazionali. Inoltre, riflettete sulle implicazioni legali: ad esempio, se la vostra società estera viene considerata residente, potrebbe dover rispettare la normativa antitrust o golden power italiana se opera in settori strategici. Meglio affrontare questi aspetti con i consulenti prima che diventino problemi.
In conclusione, dal punto di vista del contribuente “esterovestito” la parola chiave è sostanza: sostanza economica reale nelle operazioni e sostanza nelle prove difensive. Chi intende mantenere strutture estere deve essere disposto a dimostrare con i fatti la legittimità delle stesse, e chi invece ha fatto il passo più lungo della gamba farebbe bene a tornare indietro finché è in tempo. La cooperazione con il Fisco (nei limiti) e la trasparenza sono spesso premianti rispetto a un atteggiamento ostruzionistico. E come abbiamo visto, esistono strumenti e momenti in cui regolarizzare conviene.
Domande frequenti (FAQ) sull’esterovestizione e i paradisi fiscali
- Q1: Cos’è esattamente l’“esterovestizione” e quando si configura?
A: L’esterovestizione è la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di un soggetto (società o persona fisica) che in realtà conserva in Italia il centro effettivo della propria attività o dei propri interessi. In pratica, si configura quando una società costituita all’estero è gestita e amministrata dall’Italia, senza una reale autonomia operativa nello Stato estero, con l’unico scopo di ottenere un vantaggio fiscale indebito (tasse più basse). Ad esempio, una società con sede legale in un paradiso fiscale ma uffici, dirigenti e affari in Italia sarà considerata “esterovestita”. Lo stesso vale per una persona fisica che si dichiara residente a Montecarlo mentre vive abitualmente in Italia. In generale, l’esterovestizione si configura quando l’apparenza (residenza estera) non coincide con la realtà sostanziale (sede effettiva in Italia). - Q2: Come determina il Fisco italiano la residenza fiscale di una società?
A: La residenza fiscale di una società è determinata principalmente dai criteri dell’art. 73 TUIR: una società è residente in Italia se ha nel territorio dello Stato la sede legale, la sede dell’amministrazione oppure l’oggetto principale per la maggior parte del periodo d’imposta. Il criterio cruciale è la sede dell’amministrazione, intesa come sede effettiva (luogo dove si svolge la direzione effettiva e l’accentramento delle decisioni). In altre parole, conta dove la società viene amministrata in concreto. Quindi, anche se la sede legale è estera, l’Agenzia delle Entrate guarderà a dove si riunisce il CdA, dove operano gli amministratori, dove si trova il management e l’amministrazione quotidiana. Se questi elementi puntano sull’Italia, la società verrà considerata residente in Italia. Inoltre, dal 2016 in poi, è in vigore una presunzione anti-abuso: se la società estera controlla società italiane ed è a sua volta controllata o amministrata da italiani, si presume che abbia sede in Italia (art. 73 co.5-bis TUIR). - Q3: Quali sono gli indizi che l’Agenzia delle Entrate cerca per sospettare un’esterovestizione?
A: Gli indizi tipici includono: composizione degli organi sociali (amministratori, soci e decisori della società estera sono in maggioranza residenti in Italia); struttura economica inconsistente all’estero (nessun ufficio reale, nessun dipendente né attrezzatura nello Stato estero, magari sede presso uno studio professionale); asset e attività concentrati in Italia (es. la società estera possiede immobili, partecipazioni o affari solo in Italia e poco/nulla nel proprio Paese); decisioni operative prese in Italia (riunioni svolte in Italia, contratti firmati regolarmente in Italia, conti bancari italiani usati per operazioni della società estera). Altri segnali: la società estera fu creata poco prima di un’operazione fiscale vantaggiosa; oppure applica regimi fiscali preferenziali senza una ragione industriale (es. holding in un Paese con tassazione nulla senza personale né attività propria). L’Agenzia incrocia dati (anagrafe tributaria, registri, comunicazioni finanziarie) e sfrutta la cooperazione internazionale per raccogliere evidenze, come ad esempio quante persone risultano impiegate all’estero, dove sono localizzati gli IP dai quali partono le email dell’azienda, dove sono conservati i documenti contabili, ecc.. Più indizi si accumulano (e devono essere gravi, precisi e concordanti nel loro insieme), più è probabile che il Fisco concluda per un’esterovestizione. - Q4: Cosa rischia concretamente un’azienda se viene scoperta a fare esterovestizione?
A: Molto. In primo luogo, l’azienda dovrà pagare tutte le imposte evase in Italia sui redditi non dichiarati, con interessi. Tipicamente si tratterà dell’IRES (24%) su tutti gli utili realizzati negli anni passati, eventualmente IRAP, IVA o altre imposte a seconda dei casi. A questo si aggiungono le sanzioni amministrative tributarie: per omessa dichiarazione la sanzione è dal 120% al 240% dell’imposta evasa per ciascun anno; per dichiarazione infedele 90%–180%. Le sanzioni possono facilmente superare l’importo dell’imposta evasa stessa. Se gli importi sono ingenti, scattano anche le sanzioni penali: l’omessa dichiarazione è reato sopra 50.000 € di imposta evasa per anno (pena fino a 5 anni di reclusione), la dichiarazione infedele è reato sopra 100.000 € evasi (pena fino a 4½ anni). Dunque l’imprenditore e gli amministratori possono trovarsi indagati per reati fiscali con rischi di condanna e interdizioni. Inoltre, la società potrebbe subire sequestro preventivo per equivalente dei beni fino all’ammontare delle imposte evase, in funzione della confisca penale. Oltre al lato fiscale, ci sono le conseguenze civilistiche: un’azienda dichiarata residente in Italia potrebbe dover regolarizzare le posizioni civilistiche (deposito bilanci) e potrebbe perdere benefici goduti all’estero (es. regimi fiscali speciali decadono retroattivamente). Senza contare il danno reputazionale: la scoperta di un’esterovestizione finisce spesso sui giornali, associando l’azienda (e il suo titolare) all’idea di evasione, con effetti negativi su credibilità e rapporti commerciali. Insomma, le conseguenze finanziarie, penali e d’immagine possono essere devastanti, tali da mettere a repentaglio la continuità stessa dell’impresa. - Q5: Trasferire sede o residenza all’estero per pagare meno tasse è considerato un reato?
A: Di per sé, no. Trasferire realmente la sede di una società all’estero, o la propria residenza personale, è legittimo (fa parte della libertà di stabilimento garantita anche dall’UE). Diventa un illecito – e può avere risvolti penali – quando è fatto in modo fittizio, simulando una situazione che non corrisponde al vero al solo scopo di evadere le imposte italiane. Non esiste un reato chiamato “esterovestizione” nel codice penale, ma se tramite esterovestizione si omettono dichiarazioni o si presentano dichiarazioni infedeli, allora sì che si commette un reato tributario (omessa dichiarazione, art. 5 D.Lgs.74/2000, o infedele dichiarazione, art.4) al superamento delle soglie di punibilità. Ad esempio: se Tizio finge di trasferire la residenza a San Marino ma continua a vivere e guadagnare in Italia, e non dichiara più nulla al fisco italiano, commette (oltre all’illecito amministrativo) il reato di omessa dichiarazione se evade più di 50.000 € di imposte annue. Quindi, il mero trasferimento in sé non è reato, ma l’utilizzo fraudolento di un trasferimento fittizio per non pagare le tasse lo diventa. Nella famosa vicenda Dolce & Gabbana, ad esempio, i due stilisti furono processati penalmente per una struttura in Lussemburgo, ma alla fine assolti perché la Cassazione ritenne che non ci fosse stata una costruzione totalmente artificiosa (mancava il dolo di frode). In generale, il confine penale è dato dalla prova dell’intento fraudolento e dall’entità dell’evasione: l’autorità procederà penalmente solo nei casi più gravi e conclamati. - Q6: Cosa si intende per “paradiso fiscale” e quali sono alcuni esempi?
A: Un paradiso fiscale è uno Stato o territorio che offre un regime di tassazione molto favorevole o nullo per determinati soggetti (spesso non residenti) e che generalmente garantisce un elevato livello di segretezza finanziaria. Spesso questi Paesi hanno economie piccole o basate sui servizi finanziari offshore. Esempi classici: le Isole Cayman, le Bermuda, le Isole Vergini Britanniche, il Principato di Monaco, la Svizzera (almeno fino a qualche anno fa, per i capitali non dichiarati), Panama, Hong Kong (per redditi offshore), Singapore, gli Emirati Arabi Uniti (Dubai), il Liechtenstein e così via. L’elenco può variare a seconda delle normative: l’Italia in passato ha pubblicato liste di paradisi fiscali, e l’Unione Europea aggiorna periodicamente una black list delle giurisdizioni non cooperative (ad es. nel 2025 includeva Oman, Samoa, Trinidad e altre). Oggi la definizione in Italia è più per “regime fiscale privilegiato”: ad esempio, per le CFC è considerato privilegiato un Paese con tassazione effettiva inferiore al 50% di quella italiana. Oltre alla bassa tassazione, altri elementi tipici dei paradisi fiscali sono la scarsa trasparenza (assenza di registri pubblici dei titolari effettivi, segreto bancario) e la mancanza di scambi di informazioni con le autorità straniere. Questi fattori li rendono rifugi attrattivi per capitali e profitti, ma anche li mettono sotto la lente delle agenzie fiscali di tutto il mondo. Importante: non tutti i Paesi a bassa tassazione sono considerati “paradisi fiscali” in senso stretto – ad esempio l’Irlanda e l’Ungheria hanno aliquote societarie basse ma sono Paesi UE cooperativi, dunque non vengono trattati alla stregua di un’isola offshore caraibica. - Q7: Se trasferisco la mia residenza personale in un paradiso fiscale (es. Dubai), cosa devo aspettarmi dal fisco italiano?
A: Il fisco italiano applicherà la presunzione di residenza in base all’art. 2, comma 2-bis del TUIR: se un cittadino italiano si trasferisce in uno Stato a fiscalità privilegiata (Dubai/Emirati Arabi è considerato tale, almeno fino a pochi anni fa), presume che non abbia realmente lasciato l’Italia, salvo prova contraria. In pratica, sarai tu a dover dimostrare che la tua nuova residenza estera è autentica. Dovrai: iscriverti tempestivamente all’AIRE, documentare che a Dubai hai l’abitazione principale, che lì lavori o hai interessi economici significativi, che la tua famiglia eventualmente ti ha seguito o comunque la maggior parte dei tuoi interessi è fuori d’Italia. Se non fornisci questa dimostrazione, l’Agenzia Entrate potrebbe continuare a considerarti residente italiano, tassando in Italia i tuoi redditi mondiali e magari aprendo un accertamento per i redditi non dichiarati dopo il trasferimento. Da notare che oggi l’iscrizione AIRE non è più una garanzia per evitare contestazioni: è obbligatoria, e la mancata iscrizione è sanzionabile (200-1000 €), ma anche se sei iscritto AIRE il Fisco può contestarti la residenza di fatto in Italia se scopre che passi qui più di 183 giorni o hai qui il centro dei legami familiari ed economici. C’è però una via di difesa: se tra Italia e il Paese in questione c’è una Convenzione contro le doppie imposizioni (ad es. l’Italia ha un trattato con gli Emirati dal 2021), puoi invocare i criteri convenzionali tie-breaker. La Cassazione (sent. 35284/2023) ha riconosciuto che il trattato può prevalere sulla presunzione interna. Nel caso concreto, un imprenditore trasferitosi a Dubai ha ottenuto di essere considerato residente negli UAE perché il “centro degli interessi vitali” e altri criteri convenzionali risultavano a favore di Dubai, nonostante la presunzione italiana. Quindi, se fai le cose per bene (ti stabilisci davvero all’estero e lo provi), la legge ti tutela tramite le Convenzioni. In caso contrario, il rischio di un’accertamento per finta residenza estera è molto elevato. - Q8: Cosa prevede la legge italiana in sintesi per contrastare l’esterovestizione delle società?
A: Prevede sia criteri generali sia presunzioni specifiche. In generale, l’art. 73 TUIR come detto considera residenti le società che hanno sede legale o amministrativa o oggetto in Italia. Inoltre, dal 2006 esiste una norma anti-elusiva mirata: l’art. 73 comma 5-bis TUIR, che presume residente in Italia (salvo prova contraria) una società estera che controlla società italiane quando è controllata o amministrata da soggetti italiani. Questa è la cosiddetta presunzione di esterovestizione, modificata nel 2015 per restringerla alle società estere “holding” di partecipazioni italiane. In pratica, se un imprenditore italiano apre una società in Svizzera e la usa come scatola per detenere la sua azienda italiana, e magari nel CdA della società svizzera siedono lui e familiari italiani, l’Agenzia può automaticamente presumere che la società svizzera sia residente in Italia. Starà poi a lui dimostrare il contrario (ad es. mostrando che la società svizzera ha un’attività propria reale in Svizzera). Oltre a ciò, la legge prevede il concetto di “abuso del diritto” (art. 10-bis L.212/2000) che consente di disregardare qualsiasi operazione priva di sostanza economica e fatta solo per vantaggi fiscali: l’esterovestizione può essere inquadrata come abuso, con conseguente riqualificazione e sanzioni (non penali, in quel caso, ma amministrative). Infine, come ulteriore deterrente, se la società estera è localizzata in un paradiso fiscale, scatta anche la disciplina CFC (tassazione per trasparenza) e la già citata presunzione di residenza per i titolari italiani. Quindi il quadro normativo è piuttosto robusto: il Fisco ha vari strumenti per ricondurre a tassazione italiana redditi e società formalmente esteri ma sostanzialmente italiani. - Q9: Come può un’impresa legittima che opera anche all’estero evitare di incorrere in contestazioni di esterovestizione?
A: La chiave è dimostrare la reale operatività all’estero e mantenere la separazione tra le attività italiane e quelle estere. In concreto:
– Struttura reale all’estero: dotare la società estera di uffici, personale (anche minimo), attrezzature, un indirizzo fisico e recapiti locali. Non usare prestanome o “uffici di comodo” se puoi evitarlo.
– Governance coerente: se possibile, nomina anche amministratori/responsabili localizzati all’estero. Oppure delega alcuni poteri a figure sul posto.
– Documentazione precisa: tenere tutti i verbali societari e far risultare che le riunioni avvengono all’estero (meglio fare davvero alcune riunioni di persona lì). Conservare contratti, fatture e corrispondenza che mostrino interazioni con controparti locali (contratti in lingua locale, consulenti esteri).
– Evitare impronte italiane su tutto: ad esempio non far risultare che tutte le mail partono da IP italiani o che i server sono in Italia. Sono dettagli tecnici, ma oggi il Fisco ci guarda (possono chiedere ad esempio la logistica IT).
– Transfer pricing corretto: se ci sono transazioni tra la società italiana e quella estera (vendita di beni, prestazioni di servizi infragruppo), rispettare il valore di mercato. Un prezzo fuori mercato può far pensare a spostamento di utili artificioso.
– Evitare black list: se stai scegliendo dove insediare l’attività estera, prediligi paesi non inseriti nelle liste nere e che hanno accordi di scambio info con l’Italia. Aprire in un noto paradiso fiscale ti pone già con presunzione negativa. Se invece operi, poniamo, in Portogallo, Irlanda, UK, è più difficile per il Fisco insinuare che lì non c’è nulla (anche se comunque potrebbe farlo se mancano sostanza e decisioni).
– Consulenza preventiva: coinvolgi un fiscalista internazionale prima di strutturare l’operazione. Puoi anche considerare di attivare un dialogo con l’Agenzia (cooperative compliance se ne hai diritto, o un interpello se fattibile) per avere certezza.
In breve: comportati come un’impresa locale nel Paese estero. Se la società appare come un’azienda estera normale (paga le tasse locali se dovute, ha ufficio, impiegati, clientela locale, ecc.), sarà difficile bollarla come esterovestita. Spesso, inoltre, l’esterovestizione viene a galla durante controlli su attività in Italia (es. la società italiana deduce costi verso la collegata estera). Mantenendo la correttezza anche nei rapporti con l’Italia (es. documentando i costi, rispettando normative di monitoraggio) si riduce il rischio di audit approfonditi. - Q10: Quali novità ci sono state di recente (2024-2025) su questo tema?
A: Ci sono diverse novità normative e giurisprudenziali fresche:
– Riforma della residenza fiscale (2024): dal 1° gennaio 2024 sono cambiate alcune definizioni nei criteri di residenza (soprattutto per le persone fisiche): introdotto il criterio dei >183 giorni di presenza fisica, ridefinito il concetto di domicilio fiscale (più legato alla vita personale), resa relativa la presunzione legata all’iscrizione anagrafica. Queste modifiche (D.Lgs. 209/2023 e circolare AE 20/E 2024) mirano a dare maggiore certezza e ad adattarsi ai fenomeni come lo smart working transnazionale. Per le società, sono state introdotte definizioni di “sede di direzione effettiva” e “sede di gestione operativa” per chiarire la sede effettiva. La sostanza però rimane: focus sul luogo di direzione effettiva.
– Nuovi orientamenti della Cassazione: nel 2024 e 2025 la Cassazione ha emesso varie sentenze significative. Ad esempio la Cass. 3386/2024 ha sancito che l’esterovestizione va combattuta come principio generale anche sulle imposte indirette. La Cass. 14485/2024 ha chiarito che i giudici devono valutare attentamente tutti gli indizi di esterovestizione e che serve provare concretamente l’artificiosità dello schema, non bastano formalità. La Cass. 2458/2025 ha applicato la presunzione a una società olandese controllata da italiani, confermando che il controllo totalitario e la direzione di fatto italiana implicano residenza in Italia. Inoltre, sul fronte persone fisiche, la Cass. 35284/2023 (dic. 2023) ha aperto alla prevalenza dei criteri convenzionali sulle presunzioni interne per chi va in paradisi fiscali, e la Cass. 19843/2024 ha stabilito che le nuove regole (domicilio affettivo vs economico) non si applicano retroattivamente ai periodi passati. Insomma, la giurisprudenza recente conferma la linea dura sugli schemi fittizi, ma al tempo stesso recepisce i principi UE (richiesta di sostanza economica reale).
– Diritto processuale tributario: con la riforma del processo tributario (L.130/2022) c’è maggiore enfasi sull’onere della prova a carico dell’amministrazione. Nel contesto dell’esterovestizione, questo significa che l’Agenzia deve presentare in giudizio un quadro probatorio iniziale robusto (ad es. documentazione su organigrammi, flussi finanziari, ecc.) prima che scatti l’onere di prova contraria sul contribuente. Quindi si è un po’ bilanciato meglio il contraddittorio processuale.
– Scambi di informazioni e cooperazione internazionale: sempre più Paesi, anche un tempo considerati paradisi, scambiano dati finanziari automaticamente. L’Italia dal 2017 riceve flussi CRS (Common Reporting Standard) anche da piazze offshore. Ciò significa che l’Agenzia Entrate potrebbe già sapere che la società estera ha un conto con tot soldi o che Tizio ha asset alle Cayman. Nel 2025 questi meccanismi sono maturi e rendono più difficile farla franca.
– Fiscalità internazionale UE: a livello europeo, continua l’aggiornamento della blacklist delle giurisdizioni non cooperative. Inoltre, è in discussione la cosiddetta “Direttiva ATAD3” sulle shell companies (società di comodo) che imporrebbe dal 2024-2025 di comunicare sostanza e negare benefici fiscali a entità prive di organico e uffici reali. Questa non è ancora legge al momento, ma indica la direzione: stretta sulle scatole vuote.
In sintesi, le ultime novità vanno tutte in una direzione: maggiore chiarezza normativa e maggiore severità verso le finte residenze estere, con strumenti di controllo più efficaci. È un tema in costante evoluzione, quindi è importante restare aggiornati con circolari dell’Agenzia, sentenze e direttive UE man mano che escono.
Esempi pratici di esterovestizione (casi reali italiani)
Esempio 1: La holding lussemburghese del gruppo di moda – Negli anni 2000 il noto gruppo di moda D&G (Dolce & Gabbana) aveva costituito una società holding in Lussemburgo a cui erano stati trasferiti i marchi del gruppo. La società lussemburghese percepiva royalties dalle società operative italiane, beneficiando della bassa tassazione locale sui proventi da marchi. L’Agenzia delle Entrate contestò che la holding fosse esterovestita, cioè una scatola vuota creata per spostare profitti tassabili. Partì un lungo contenzioso, incluso un procedimento penale per evasione fiscale. Qual era la realtà? La holding aveva effettivamente una sede in Lussemburgo e qualche dipendente, ma le decisioni strategiche restavano in capo ai due stilisti italiani. In primo grado penale vennero condannati, ma in appello e poi in Cassazione furono assolti (2015) perché la Cassazione ritenne che lo schema non fosse una “costruzione puramente artificiosa”. In sostanza, pur essendo principalmente un’operazione di risparmio fiscale, la holding lussemburghese aveva comunque una minima sostanza e la condotta non superava la soglia del penalmente rilevante. Sul piano tributario civile, la Cassazione (sentt. 33234-5/2018) confermò che non c’è esterovestizione illecita se l’entità estera non è un guscio vuoto ed esistono ragioni economiche non marginali per la struttura. Conclusione: il gruppo in quell’occasione riuscì a evitare condanne grazie al fatto che aveva predisposto un minimo di struttura genuina all’estero. Questo esempio mostra il confine sottile: se la holding fosse stata totalmente fittizia (zero dipendenti, zero attività), l’esito probabilmente sarebbe stato diverso (condanna e tasse da pagare).
Esempio 2: Conferimento di immobili italiani a una società UK – Due coniugi residenti in Emilia-Romagna possedevano numerosi immobili in Italia. Nel 2011 decidono di conferire tali immobili in una società di diritto inglese con sede a Londra, di nuova costituzione, di cui essi stessi erano soci. L’operazione venne realizzata attraverso un aumento di capitale della società inglese, liberato mediante l’apporto degli immobili (del valore di oltre 3 milioni di euro). Grazie a questa struttura, al momento del conferimento gli atti vennero tassati in misura fissa (200 €) per l’imposta di registro, essendo previsti benefici per i conferimenti a società UE. La società inglese aveva sede presso lo studio di un consulente a Londra e come amministratore una persona locale di fiducia, ma di fatto non aveva dipendenti né attività oltre a detenere quegli immobili italiani. L’Agenzia delle Entrate, qualche anno dopo, notificò un avviso di liquidazione chiedendo l’imposta di registro in misura proporzionale (9% circa sugli immobili conferiti) sostenendo che la società UK era un mero schermo artificioso per evitare le imposte italiane sul trasferimento. In pratica, l’ufficio disse: “la società inglese è esterovestita, quindi la agevolazione per società UE non spetta, trattiamo il conferimento come a società italiana”. In Commissione Tributaria ci fu contrasto: in primo grado vinse il Fisco, in appello i contribuenti presentarono documenti (affitti incassati poi dalla società estera, atti societari) e la CTR diede loro ragione ritenendo che la società inglese fosse operativa e vera proprietaria degli immobili. La questione è arrivata in Cassazione (sent. 14485/2024), la quale ha annullato la decisione di appello, ritenendo che la CTR avesse sopravalutato elementi formali e non avesse invece considerato indizi di artificiosità (assenza di struttura economica propria, soci conferenti che continuavano a trarre utilità dagli immobili – ad es. si erano riservati il diritto di abitazione su una villa conferita). La Cassazione ha praticamente sposato la tesi dell’Agenzia: una società estera di mero patrimonio, senza dipendenti né uffici, creata da residenti italiani per possedere immobili in Italia, è una costruzione artificiosa. Ha dunque stabilito che la presunzione di esterovestizione poteva essere applicata e che la CTR in appello aveva sbagliato nel farsi convincere da elementi poco sostanziali. Esito: la causa è stata rinviata ma con un orientamento chiaro pro-Fisco; i contribuenti rischiano di dover pagare l’imposta di registro piena (oltre sanzioni e interessi) e la società UK viene considerata fiscalmente trasparente. Questo esempio dimostra come operazioni con società estere “vuote” per gestire asset italiani sono altamente contestabili. La semplice appartenenza all’UE della società estera non basta a legittimare l’operazione se manca un’effettiva attività economica in quello Stato (qui la società UK non svolgeva alcuna attività d’impresa, era solo un contenitore immobiliare). Inoltre, il caso evidenzia l’importanza di preparare prove robuste: i documenti esibiti (atto costitutivo, qualche affitto) non hanno convinto la Cassazione perché c’erano fatti più forti dalla parte del Fisco (immobili sempre usati dai soci, etc.).
Esempio 3: La società olandese controllata da italiani – Una società a responsabilità limitata italiana (Chiamiamola Alfa Srl) decide nel 2018 di creare una holding nei Paesi Bassi (Beta BV) a cui conferire le quote della stessa Alfa Srl e di altre società italiane del gruppo. I soci di Alfa Srl (tutti italiani residenti) diventano soci della holding Beta BV. Formalmente Beta BV è amministrata da un fiduciario olandese (trust company) e ha sede presso di esso ad Amsterdam. Non ha però uffici propri né dipendenti. Negli anni seguenti, Beta BV incassa dividendi dalle controllate italiane e li reinveste, beneficiando del regime fiscale olandese (che magari esenta le partecipazioni – “participation exemption”). Nel 2025, l’Agenzia delle Entrate italiana contesta che Beta BV è fiscalmente residente in Italia ai sensi dell’art. 73 c.5-bis, perché: i) controlla società italiane (vero); ii) è controllata da soggetti italiani (i soci originari) e il suo CdA, sebbene composto da fiduciari olandesi, in sostanza agisce su istruzioni dei soci italiani (il Fisco raccoglie email e verbali che mostrano che le decisioni importanti provenivano da Milano, dove i soci discutevano prima di far deliberare il fiduciario). In questo scenario, l’Agenzia ha buon gioco a far valere la presunzione anti-esterovestizione. Beta BV non può invocare il fatto di essere in un Paese “white list” (UE) perché come visto la norma dal 2016 si applica a prescindere dal Paese. A meno di provare che Beta BV avesse sua sostanza (cosa che non ha, essendo un veicolo finanziario), la holding verrà considerata residente in Italia fin dall’origine. Conseguenze: Beta BV dovrà essere tassata in Italia sugli utili ricevuti (anche se in Olanda erano esenti), eventualmente le distribuzioni ai soci saranno trattate come fatte da società italiana, e potrebbero scattare sanzioni. Questo caso ipotetico ricalca molte situazioni reali (holding estere di comodo in UE): la Cassazione n. 2458/2025 ha affrontato proprio un caso simile con una società olandese controllata da una italiana, concludendo per la residenza in Italia. La lezione è che anche usare paesi “virtuosi” UE non mette al riparo se la holding non svolge una funzione economica vera (es. se fosse un fondo di investimento con investitori esteri sarebbe diverso; ma se è solo il vecchio proprietario italiano travestito da BV, è elusione).
Esempio 4: Persona fisica trasferita a Dubai – Mario, imprenditore digitale italiano, nel 2022 si trasferisce a Dubai per approfittare dell’assenza di imposte sugli individui negli Emirati. Cancella la residenza in Italia e si iscrive all’AIRE. Mantiene però la sua villa in Italia (dove risiede la famiglia) e continua a dirigere da remoto la sua azienda italiana tramite videoconferenze giornaliere. Trascorre a Dubai circa 4 mesi l’anno, il resto tra Italia e viaggi. Nel 2024 l’Agenzia delle Entrate apre un controllo: incrociando i dati delle celle telefoniche e dei passaggi doganali, emerge che Mario nel 2023 è stato in Italia per circa 200 giorni. Inoltre, scoprono che Mario risulta ancora amministratore unico della sua SRL italiana (teoricamente incompatibile con una residenza all’estero in paradiso fiscale senza stabile org in Italia). Applicando la presunzione dell’art. 2 co.2-bis TUIR, l’Agenzia presume Mario residente in Italia. Mario prova a difendersi invocando la residenza negli Emirati, ma l’Italia nota che la Convenzione Italia–UAE prevede sì i criteri tie-breaker, ma Mario ha mantenuto casa e famiglia in Italia, quindi “centro interessi vitali” in Italia; inoltre la società italiana lo qualifica come amministratore di fatto sul territorio. La Cassazione, con l’orientamento 2023, in un caso simile (Cass. 35284/2023) ha sì detto che il trattato può vincere la presunzione, ma solo se i criteri convenzionali pendono davvero a favore dell’estero. Qui è il contrario: l’abitazione permanente e la famiglia sono in Italia, quindi anche secondo il trattato Mario è residente italiano. Esito: Mario viene ri-tassato in Italia per gli anni 2022-23 su tutti i redditi (comprese le criptovalute vendute a Dubai e i dividendi esentasse percepiti lì). Riceve sanzioni per omessa dichiarazione dal 2022 in poi. A quel punto, per evitare guai peggiori, Mario opta per la definizione agevolata (se c’è) o comunque paga tutto e nel 2025 fa rientrare la famiglia e si toglie dal rischio. Questo esempio rispecchia la realtà di molti cosiddetti “nomadi digitali” che credono di eludere il fisco spostando la residenza, ma poi non rispettano i criteri sostanziali. Per avere la meglio, Mario avrebbe dovuto trascorrere almeno >183 giorni/anno fuori Italia e preferibilmente far trasferire la famiglia o vendere la casa italiana, in modo da spostare davvero il baricentro di vita. Senza queste precauzioni, la presunzione di residenza in Italia regge.
Gli esempi sopra illustrano come l’esterovestizione venga declinata in situazioni concrete e come le autorità (o i giudici) reagiscono. In conclusione, possiamo affermare che: se c’è davvero vita economica all’estero, il sistema tende a riconoscerla; se c’è solo un nome su una targhetta estera ma tutto il resto è in Italia, l’esterovestizione verrà (giustamente) colpita.
Fonti e riferimenti normativi/giurisprudenziali
- D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) – Art. 2, commi 1-3 (criteri di residenza persone fisiche); Art. 2, comma 2-bis (presunzione per trasferimenti in paradisi fiscali); Art. 73, commi 1-5 (criteri di residenza società ed enti); Art. 73, comma 5-bis (presunzione di esterovestizione per società estere controllate/amministrate da residenti); Art. 73, comma 5-ter (nozione di controllo ai fini 5-bis); Art. 167 (Controlled Foreign Companies).
- Codice Civile: Art. 43 c.c. (domicilio e residenza delle persone); Art. 2359 c.c. (definizione di società controllate – per richiamo nel TUIR).
- Legge 9 agosto 2023, n. 111 (Delega per la riforma fiscale 2023) – art. 3, c.1 lett. c) delega il Governo a rivedere i criteri di residenza fiscale per adeguarli a UE/OCSE.
- D.Lgs. 27 dicembre 2023, n. 209 – art. 1 (nuova definizione residenza persone fisiche dal 2024); art. 2 (nuova definizione residenza società ed enti dal 2024).
- Circolare Agenzia Entrate 4 novembre 2024, n. 20/E – “Istruzioni operative sulla residenza fiscale dopo le modifiche del D.Lgs. 209/2023”. Chiarisce il criterio della presenza fisica >183g; sottolinea che l’iscrizione AIRE diventa presunzione relativa; illustra “sede di direzione effettiva” e “sede gestione operativa” per le società.
- Circolare Agenzia Entrate 28/E del 2006 – Prima circolare attuativa sull’art. 73(5-bis) TUIR. Sottolinea l’inversione onere della prova e spiega che il controllo rileva anche se esercitato indirettamente tramite società interposte.
- Risoluzione Agenzia Entrate 312/E/2007 – Chiarisce l’inammissibilità di interpello disapplicativo per la presunzione di esterovestizione.
- Risoluzione Agenzia Entrate 9/E/2015 – (citata in dottrina) definisce “sede dell’amministrazione” di una società ai fini imposta di registro come luogo delle attività amministrative e di direzione (coincide con sede effettiva).
- Risposte a interpello Agenzia Entrate: n. 27/2022 e n. 164/2023 – Escludono l’applicabilità dell’art. 73(5-bis) a società estere senza partecipazioni in società italiane (holding mancata): in assenza di tale requisito, niente presunzione. Ribadiscono comunque che se la società è gestita dall’Italia potrà essere valutata ex art.73(3) caso per caso. (Interpello 164/2023 riguarda un amministratore che rientrava in Italia con società e-commerce estera).
- Cassazione Civile – Sez. Trib.:
- Sent. n. 2869/2013: tra le prime a sancire che il contrasto all’esterovestizione è principio generale applicabile anche a imposte indirette.
- Sent. nn. 33234 e 33235 del 17/12/2018: Caso Dolce & Gabbana in sede tributaria. Principio: società estera ≠ esterovestita se non è costruzione di puro artificio. Libertà di stabilimento consente scelta di legislazione più favorevole se c’è attività economica reale nello Stato estero.
- Sent. n. 16697/2019: Definisce esterovestizione come localizzazione fittizia all’estero di società che in realtà ha sede di amministrazione in Italia, per usufruire di fiscalità più vantaggiosa.
- Ord. n. 5537/2023: Conferma disconoscimento di stabilimento a Londra ritenuto del tutto fittizio (società senza uffici né attività reali in UK, decisioni dall’Italia).
- Sent. n. 1544/2023: Ribadisce che “sede amministrazione” = “sede effettiva” della società (luogo di direzione effettiva).
- Sent. n. 35284 del 18/12/2023: Residenza persone fisiche – caso di trasferimento in Emirati Arabi. Stabilisce che la presunzione legale di residenza (art.2, co.2-bis TUIR) può essere superata dai criteri convenzionali tie-breaker, riconoscendo prevalenza al trattato (Accordo Italia–EAU) anche in assenza di doppia imposizione effettiva. Riconosce residenza estera se i criteri (abitazione permanente, interessi vitali, ecc.) lo indicano, nonostante Paese black list.
- Sent. n. 19843 del 18/07/2024: Chiarisce che le nuove norme su domicilio introdotte dal 2024 non hanno effetto retroattivo. Nei giudizi su annualità precedenti si applicano i vecchi criteri (es. prevalenza interessi economici).
- Sent. n. 3386 del 06/02/2024: Caso di conferimento immobiliare a società UK. Principi: esterovestizione come principio generale vale anche per imposte di registro; sede amministrativa = sede effettiva (richiamate Cass. 1544/2023, 23150/2022…); contrasto a esterovestizione trova fondamento in obbligo costituzionale e norme UE/OCSE. Confermata applicazione art.73(5-bis) anche fuori imposte dirette.
- Sent. n. 14485 del 28/07/2024: Caso conferimento immobili in società UK (Forte dei Marmi). Stabilisce che contestazione di esterovestizione è legittima solo se fondata su indizi gravi, precisi e concordanti valutati unitariamente; documenti formali di costituzione estera non bastano se manca operatività reale. Richiama Cass. SU 17857/2018 sui limiti all’uso di presunzioni. Necessario accertare in concreto l’artificiosità della struttura.
- Sent. n. 23150 del 25/07/2022: (indicata in fonti) afferma che la disciplina della residenza fiscale prescinde dalla prova di specifico intento elusivo: se la sede effettiva è in Italia, la società è residente, punto. Ribadisce definizione di sede effettiva con richiamo a precedenti 2020 e 2019.
- Sent. n. 2458 del 02/02/2025: Caso società olandese controllata da italiani. Applica presunzione art.73(5-bis) pur in assenza apparente di sub-holding italiana. Conferma che se soci italiani adottano tutte le decisioni poi eseguite da amministratori esteri, la sede effettiva è in Italia e l’esterovestizione c’è. (Commento Eutekne evidenzia riferimento forse improprio a 5-bis senza partecipazioni italiane dirette, ma il principio di sostanza rimane).
- Sent. n. 12864 del 14/05/2025: Esterovestizione Liechtenstein – ribadito che solo la società estera (destinataria imposta) è legittimata ad impugnare avviso; il mero notificatario persona fisica (rappresentante fiscale, amm. di fatto) non può ricorrere in proprio. Ciò in ossequio a orientamento su legittimazione ad causam (cit. Cass. 4622/2009 isolata in contrario).
- Cassazione Penale:
- Sent. n. 43809 del 30/10/2015 (Cass. pen. sez. III) – Caso Dolce & Gabbana. Ha escluso il reato di omessa dichiarazione ritenendo non provata l’artificiosità esclusiva dello schema estero (società lussemburghesi non erano entità fittizie al 100%). Stabilisce che, in mancanza di prova oltre ogni dubbio di una costruzione meramente simulata, gli imputati vanno assolti. Importante precedente sul versante penale: afferma che l’abuso del diritto di stabilimento, per essere reato, richiede il carattere di wholly artificial arrangement (concetto mutuato dal diritto UE).
- Normativa penal-tributaria: D.Lgs. 74/2000 (reati fiscali) – Art. 4 (dichiarazione infedele, soglia 100k imposta evasa e 2M imponibile); Art. 5 (omessa dichiarazione, soglia 50k); Art. 13 (causa di non punibilità per pagamento integrale debiti tributari prima del dibattimento).
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Sempre più imprese scelgono di aprire una sede all’estero per motivi fiscali. Ma se l’attività è effettivamente gestita dall’Italia, il Fisco può contestare l’esterovestizione, con conseguenze pesantissime.
Questo accade quando una società è formalmente residente in un Paese estero (spesso a fiscalità privilegiata), ma in realtà l’amministrazione, le decisioni strategiche e gli interessi economici si trovano in Italia.
In questi casi, l’Agenzia delle Entrate può:
- Spostare la residenza fiscale in Italia con effetto retroattivo
- Recuperare imposte non pagate, con sanzioni fino al 240%
- Contestare la nullità di operazioni infragruppo
- Attivare accertamenti internazionali con la collaborazione di autorità estere
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Il rischio aumenta se la sede estera è fittizia, priva di struttura operativa o personale, oppure se la società è gestita “di fatto” dall’Italia.
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Conclusione
L’esterovestizione non è solo un rischio fiscale: può trasformarsi in un incubo giudiziario per tutta l’azienda.
Se gestisci una società con sede all’estero o operi in più Paesi, è fondamentale strutturare l’attività in modo trasparente e conforme alla normativa italiana e internazionale.
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