Come Si Può Prevenire La Crisi D’Impresa?

Hai un’attività e ti stai chiedendo come si può prevenire la crisi d’impresa prima che sia troppo tardi? Hai notato segnali di difficoltà ma non sai se sono passeggeri o indicano un rischio più serio?

Il Codice della Crisi d’Impresa ha introdotto l’obbligo per gli imprenditori di monitorare costantemente la sostenibilità economico-finanziaria dell’azienda, proprio per prevenire l’insolvenza e intervenire in tempo. La prevenzione non è più una scelta: è un dovere legale e una strategia vitale per chi vuole salvare il proprio business.

Quali sono i segnali iniziali di una possibile crisi?
– Ritardi nei pagamenti a fornitori o dipendenti
– Difficoltà a coprire le imposte e i contributi
– Ricavi stabili ma margini in calo
– Eccessivo ricorso a fidi, anticipi o prestiti a breve
– Gestione confusa dei flussi di cassa
– Magazzino fermo o clienti che non pagano

Come si previene una crisi d’impresa?
Controllando in modo continuo la liquidità e il fabbisogno finanziario
– Verificando i margini di redditività reali per linea di prodotto o servizio
– Usando indicatori di allerta precoci, come quelli previsti dal Codice della Crisi
– Aggiornando frequentemente il business plan
– Monitorando gli scostamenti tra costi previsti e reali
– Mantenendo una contabilità chiara, aggiornata e comprensibile

Cosa sono gli indicatori di crisi?
Sono parametri stabiliti dalla legge e dalla prassi contabile per valutare lo stato di salute economica dell’impresa. Tra i principali:
– Indice di sostenibilità del debito
– Adeguatezza dei flussi di cassa prospettici
– Esposizione verso il Fisco o l’INPS
– Patrimonio netto negativo o fortemente ridotto

Che strumenti legali esistono per prevenire il tracollo?
– Attivare per tempo la composizione negoziata della crisi, anche in assenza di insolvenza
– Rinegoziare i debiti con i creditori prima che diventino esecutivi
– Valutare un accordo di ristrutturazione dei debiti
– Programmare un piano attestato di risanamento
– Coinvolgere un advisor esterno per una diagnosi imparziale

Cosa NON devi fare se sospetti una crisi imminente?
– Ignorare i segnali, sperando in un recupero spontaneo
– Nascondere la situazione a soci, fornitori o collaboratori
– Fare nuovi debiti per coprire quelli vecchi
– Proseguire un modello di business che genera perdite strutturali
– Aspettare il pignoramento, la cartella o il decreto ingiuntivo per muoverti

Agire in tempo fa la differenza tra il salvataggio e il fallimento.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in prevenzione e gestione delle crisi aziendali – ti spiega come riconoscere i segnali di una crisi, quali strumenti legali usare per prevenirla e come costruire un sistema di monitoraggio efficace e conforme alla normativa.

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Introduzione

Il quadro normativo italiano in materia di insolvenza e crisi d’impresa è stato profondamente rinnovato con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), introdotto dal D.Lgs. 14/2019. Questa riforma ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da un approccio prevalentemente repressivo e liquidatorio ad un sistema improntato sulla prevenzione e sul risanamento aziendale. A causa della pandemia da Covid-19 e per integrare la Direttiva UE 2019/1023 (c.d. Direttiva Insolvency), l’entrata in vigore del Codice è slittata al 15 luglio 2022, accompagnata da una serie di correttivi che ne hanno affinato la disciplina. In particolare, il D.Lgs. 83/2022 ha recepito la direttiva europea introducendo nuovi strumenti di regolazione della crisi, e più di recente il D.Lgs. 136/2024 (cd. Correttivo-ter, in vigore dal 28 settembre 2024) ha apportato ulteriori modifiche sostanziali, risolvendo alcuni dubbi interpretativi emersi nella prima applicazione e introducendo importanti novità per il 2024-2025.

Obiettivo principale della riforma è fare in modo che l’insolvenza non venga affrontata soltanto a posteriori (ossia quando l’impresa è ormai in default conclamato), ma che vi siano strumenti per individuare tempestivamente le difficoltà e intervenire prima che la situazione degeneri. In altri termini, prevenire è meglio che curare: si vuole favorire l’emersione precoce dei segnali di crisi e, ove possibile, il risanamento dell’azienda invece della liquidazione. Ciò è in linea con i principi europei e mira a salvaguardare la continuità aziendale come valore, proteggendo posti di lavoro e tessuto economico. Il legislatore italiano ha dunque predisposto una serie di strumenti “a pettine”, che vanno dagli alert precoci interni ed esterni, passando per procedure negoziali e stragiudiziali (accordi di ristrutturazione, piani attestati) fino ad arrivare, solo in caso estremo, alle procedure concorsuali giudiziali (concordato preventivo, liquidazione giudiziale).

Dal punto di vista del debitore, queste novità comportano sia opportunità che responsabilità. Da un lato, l’imprenditore ha oggi a disposizione un ventaglio di soluzioni per affrontare le difficoltà finanziarie, evitando se possibile il fallimento e mantenendo il controllo della propria azienda durante il risanamento. Dall’altro lato, la legge impone precisi doveri di vigilanza e reazione: ignorare i segnali di crisi o tardare ad affrontarli può esporre gli amministratori a gravi conseguenze, tra cui responsabilità patrimoniali personali verso i creditori e sanzioni penali in caso di dissesto aggravato. Questa guida – in un linguaggio tecnico-giuridico ma accessibile – offre una panoramica avanzata degli strumenti di prevenzione e composizione della crisi previsti dall’ordinamento italiano (aggiornati a giugno 2025), rivolta sia a professionisti del settore (avvocati, commercialisti) sia a imprenditori e privati che vogliano comprendere come tutelare la propria attività. Saranno illustrati i principi normativi di riferimento, le procedure attivabili, le ultime novità legislative e le più recenti pronunce giurisprudenziali, con tabelle riepilogative, casi pratici e una sezione di domande e risposte. L’obiettivo è fornire, dal punto di vista del debitore, una guida operativa su come prevenire la crisi d’impresa, dal monitoraggio dei primi segnali alla scelta dello strumento più idoneo per il risanamento.

Principi generali e definizioni chiave

Crisi vs insolvenza: Il CCII distingue chiaramente tra stato di crisi e stato di insolvenza. Per crisi si intende una fase di difficoltà economico-finanziaria reversibile, in cui l’impresa presenta degli squilibri patrimoniali o di liquidità tali da rendere probabile un’insolvenza futura se non si interviene per tempo. In altre parole, la crisi è un campanello d’allarme: l’azienda magari sta ancora onorando regolarmente le obbligazioni, ma registra segnali di sofferenza (perdite di esercizio significative, flussi di cassa negativi, erosione del patrimonio netto, aumento dei debiti scaduti, ecc.) che, se ignorati, potrebbero evolvere nell’incapacità di pagare i debiti alle scadenze pattuite. L’insolvenza, invece, è la fase più grave e conclamata, in cui l’imprenditore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni con i mezzi ordinari, manifestandosi con inadempimenti generalizzati, ritardi nei pagamenti, protesti, pignoramenti subiti e così via. Mentre dunque la crisi guarda al futuro prossimo (insolvibilità probabile se nulla cambia), l’insolvenza è un fatto attuale di incapacità ad adempiere. Questa distinzione è cruciale, perché la maggior parte degli strumenti introdotti dal nuovo sistema – in particolare gli strumenti di allerta precoce e la composizione negoziata – sono orientati a gestire lo stato di crisi prima che degeneri in insolvenza. Solo in caso di insolvenza conclamata (o quando la crisi non sia risolvibile altrimenti) si ricorre alle procedure liquidatorie come la liquidazione giudiziale (il “nuovo fallimento”).

Doveri di prevenzione e gestione diligente: Uno dei pilastri del CCII è l’esplicito richiamo al dovere dell’imprenditore di organizzarsi e agire per prevenire la crisi. Già il Codice Civile, all’art. 2086 comma 2 (introdotto proprio dal D.Lgs. 14/2019), obbliga l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva a predisporre un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. Ciò significa dotarsi di strumenti interni di monitoraggio della salute finanziaria dell’azienda, capaci di far emergere per tempo eventuali squilibri. Ad esempio, è necessario implementare una contabilità accurata e aggiornata, sistemi di controllo di gestione, budget e piani finanziari previsionali, nonché indicatori per tenere d’occhio la sostenibilità del debito e i flussi di cassa futuri. L’adeguatezza di tali “assetti” va commisurata alla realtà aziendale – una piccola impresa utilizzerà strumenti più semplificati rispetto a una grande società – ma in ogni caso non è più ammesso navigare a vista: la legge richiede una gestione proattiva, orientata a cogliere i segnali di crisi prima che sia troppo tardi.

Accanto all’organizzazione interna, vi sono obblighi di attivazione in capo agli amministratori (e, in certa misura, anche ai soci coinvolti nella gestione). Quando emergono dei fondati indizi di crisi (es. perdite rilevanti che erodono il capitale sociale, difficoltà nel far fronte regolarmente alle rate dei finanziamenti, crescente insoluto verso fornitori o fisco, ecc.), gli amministratori devono intervenire senza indugio per adottare le necessarie misure correttive oppure, se del caso, attivare uno degli strumenti formali di regolazione della crisi previsti dalla legge. L’inerzia o il ritardo colpevole nell’affrontare la crisi espone gli amministratori a responsabilità civili sia verso la società (per mala gestio) che direttamente verso i creditori. Su questo punto, il CCII ha innovato prevedendo espressamente (art. 378) che la violazione degli obblighi di preservazione del patrimonio sociale in situazione di crisi può dar luogo a responsabilità patrimoniale personale degli amministratori verso i creditori non soddisfatti. In altre parole, se l’impresa aggravando le perdite arriva all’insolvenza perché gli amministratori hanno colpevolmente tirato avanti sperando in miracoli (“wrongful trading” all’italiana), questi possono essere chiamati a rispondere con il proprio patrimonio dei danni causati. Si tratta di un forte deterrente: l’amministratore diligente, di fronte a segnali di insolvenza, deve evitare di procrastinare e non può restare inerte. Anche la giurisprudenza precedente alla riforma aveva affermato che gli amministratori rispondono dell’aggravamento del dissesto quando omettono di reagire tempestivamente e continuano ad indebitare l’azienda nonostante l’insolvenza manifesta. Ora questi principi sono codificati e rafforzati, affiancati da sanzioni penali nei casi più gravi (ad esempio, bancarotta semplice o fraudolenta qualora il ritardo sfoci in fallimento con distrazione di beni o altre irregolarità).

Tutela della continuità aziendale: Un leitmotiv del nuovo sistema è la preferenza per soluzioni che preservino la continuità aziendale, ove possibile. Questo approccio si concretizza nell’introduzione di strumenti che consentono all’impresa di ristrutturare il debito e riorganizzarsi mantenendo in vita l’attività, e nel riservare la liquidazione giudiziale solo come extrema ratio. Ad esempio, il concordato preventivo in continuità permette di proseguire l’attività (direttamente dalla stessa azienda o tramite cessione a terzi) durante e dopo la procedura concorsuale, se ciò massimizza la soddisfazione dei creditori rispetto a una chiusura immediata. Anche gli strumenti stragiudiziali come la composizione negoziata hanno come finalità primaria il risanamento e non la liquidazione: l’esperto indipendente nominato nella composizione cercherà soluzioni per mantenere in vita l’impresa, purché vi siano ragionevoli prospettive di recupero. Naturalmente, la tutela dei creditori rimane un principio cardine: qualsiasi piano di risanamento in continuità deve assicurare che i creditori non ottengano meno di quanto otterrebbero in una liquidazione, secondo il c.d. principio del “miglior soddisfacimento alternativo” (best interest test). Questo equilibrio tra salvataggio dell’impresa e tutela dei crediti permea tutta la riforma.

Terminologia e “cultura” della crisi: Un cambiamento non solo formale ma anche culturale portato dal CCII è la sostituzione del termine storico di “fallimento” con “liquidazione giudiziale”. L’intento è attenuare lo stigma sociale collegato alla parola “fallito” e sottolineare che l’accento è sulla procedura (la liquidazione dei beni) piuttosto che su una colpa morale dell’imprenditore. Sul piano pratico, la liquidazione giudiziale ricalca la struttura del vecchio fallimento (spossessamento dell’imprenditore, nomina di un curatore, vendita dell’attivo e riparto ai creditori), ma questo cambiamento terminologico riflette la volontà di approcciare la crisi d’impresa in maniera più costruttiva e meno colpevolizzante.

Riassumendo, il nuovo quadro normativo incoraggia l’imprenditore a giocare d’anticipo: conoscere e monitorare lo stato di salute della propria impresa, utilizzare per tempo gli strumenti di allerta e composizione messi a disposizione dalla legge e, soprattutto, agire con tempestività e trasparenza non appena emergono difficoltà. Nelle sezioni seguenti analizzeremo tali strumenti in dettaglio – dagli assetti organizzativi adeguati alla composizione negoziata, dai piani e accordi stragiudiziali al concordato preventivo – illustrando per ciascuno i presupposti, il funzionamento, i vantaggi e gli eventuali rischi, sempre con uno sguardo pratico e con riferimenti a casi concreti e alle ultime novità normative e giurisprudenziali.

Strumenti di allerta precoce e prevenzione della crisi

Il Codice della Crisi dedica ampio spazio agli strumenti di emersione tempestiva della crisi, i cosiddetti “strumenti di allerta precoce”. L’obiettivo è far sì che i segnali di difficoltà dell’impresa vengano individuati e affrontati prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. Questi meccanismi operano su due fronti complementari:

  • Allerta interna: misure organizzative e flussi informativi dentro l’azienda (assetti adeguati, sistemi di controllo e le segnalazioni da parte degli organi sociali di controllo come sindaci e revisori);
  • Allerta esterna: segnalazioni da parte di alcuni soggetti qualificati esterni all’impresa (in primis i creditori pubblici come Fisco ed enti previdenziali) quando rilevano esposizioni debitorie dell’impresa oltre soglie critiche.

Le recenti riforme hanno perlopiù privilegiato un approccio volontario e di accompagnamento rispetto all’allerta: in luogo di procedure “pubbliche” automatiche di allerta (poi sospese, come vedremo), si è puntato su strumenti come la composizione negoziata che incentivino l’imprenditore ad attivarsi spontaneamente. Analizziamo dunque i due ambiti.

Adeguati assetti organizzativi e monitoraggio interno

Come accennato, l’art. 2086 c.c. e l’art. 3 CCII impongono all’imprenditore di dotarsi di assetti organizzativi adeguati per rilevare tempestivamente la crisi e salvaguardare la continuità. Il Codice (anche alla luce del Correttivo-ter del 2024) chiarisce che i segnali elencati hanno funzione predittiva e preventiva, e non vanno intesi come allarmi di una crisi già conclamata. In pratica, l’azienda deve monitorare costantemente una serie di indicatori di gestione e di equilibrio finanziario al fine di intercettare squilibri prospettici, così da poter intervenire prima che si manifesti uno stato di dissesto irreversibile.

Gli indicatori tipici da tenere sotto controllo includono ad esempio: indicatori di liquidità (rapporto tra attivo e passivo a breve termine), il DSCR (Debt Service Coverage Ratio, indice di copertura del servizio del debito) a 6-12 mesi, l’andamento del fatturato e dei margini operativi, l’entità dei debiti scaduti verso banche, fornitori o Erario, la rotazione del magazzino, ecc.. Già nel 2019 il CNDCEC (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti) aveva elaborato una serie di indici di allerta quantitativi per segnalare la probabile crisi – ad esempio DSCR < 1, oppure determinati rapporti tra indebitamento, patrimonio netto e flussi di cassa – i quali, sebbene riferiti al sistema di allerta originario poi sospeso, restano utili come riferimento pratico. È stato però sottolineato che nessun singolo numero può da solo “decretare” lo stato di crisi: è piuttosto la combinazione di più informazioni e la valutazione prospettica d’insieme che conta. Proprio per aiutare le imprese in questo compito di autodiagnosi, sulla piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio) per la composizione negoziata è stata resa disponibile una check-list dettagliata contenente domande e parametri per valutare il proprio stato di salute, nonché un test pratico per verificare la ragionevole perseguibilità del risanamento. Tali strumenti – pur pensati per chi si approccia alla composizione negoziata – possono essere utilizzati dall’imprenditore anche internamente, per valutare se la sua impresa mostra segnali di allerta.

Esemplificando, un’azienda che noti un calo significativo del fatturato per più trimestri, accompagnato da tensioni di cassa (pagamenti ai fornitori via via più ritardati) o da un aumento dell’indebitamento finanziario oltre i limiti concessi dalle banche, dovrebbe immediatamente attivare un’analisi approfondita della propria situazione. Grazie ad adeguati assetti contabili, l’imprenditore dovrebbe disporre di report infrannuali e prospetti finanziari forward-looking in grado di quantificare l’entità delle perdite e proiettare la liquidità attesa nei mesi successivi. Se da queste analisi risulta che, in assenza di interventi, la cassa diventerà negativa e non si potranno pagare stipendi o rate ai creditori a breve, siamo di fronte a segnali di crisi imminente. A questo punto, cosa deve fare l’imprenditore? La legge gli chiede di non ignorare tali segnali ma di attivarsi subito, studiando possibili misure correttive. Le opzioni potrebbero includere, ad esempio, la rinegoziazione di un fido bancario, la ricerca di nuovi apporti di capitale dai soci, interventi di riduzione costi, oppure – se la situazione lo richiede – l’accesso ad uno degli strumenti formalizzati di regolazione della crisi (come la composizione negoziata di cui diremo più avanti). L’importante è la tempestività: ogni settimana o mese di ritardo può peggiorare il quadro e ridurre le chance di successo di un eventuale risanamento.

Sul piano organizzativo, avere assetti adeguati implica anche definire chiaramente responsabilità interne e procedure per gestire situazioni di crisi. Ad esempio, in una società di medie dimensioni ci potrebbe essere un ufficio pianificazione e controllo incaricato di produrre report mensili per gli amministratori con indicatori chiave (KPI finanziari) e un sistema a “semaforo” (verde/giallo/rosso) sullo stato di salute aziendale. Nelle piccole imprese, potrebbe essere il commercialista esterno a svolgere il ruolo di sentinella, elaborando trimestralmente i dati contabili e segnalando all’imprenditore trend preoccupanti. L’importante è che esista un tale meccanismo, proporzionato alla realtà dell’impresa: in mancanza, gli amministratori potranno essere considerati inadempienti ai loro doveri, con tutte le conseguenze del caso.

Il Correttivo-ter del 2024 ha inoltre esteso il novero dei soggetti chiamati a vigilare sugli assetti: non solo gli organi di controllo societari (collegio sindacale, sindaco unico), ma anche l’eventuale revisore legale esterno (società di revisione o revisore unico) ha ora l’obbligo di valutare l’assetto aziendale e segnalare per iscritto agli amministratori la sussistenza di uno stato di crisi o insolvenza. Questa modifica (introdotta all’art. 25-octies CCII) coinvolge attivamente anche i revisori contabili nel sistema di allerta interno. In pratica, se durante le verifiche periodiche il revisore riscontra gravi perdite o significative incertezze sulla continuità aziendale (come da principio di revisione ISA 570), dovrà formalmente segnalare al board la situazione sollecitando interventi – analogamente a quanto farebbe un collegio sindacale. La Relazione Illustrativa al correttivo-ter ha precisato che tale obbligo scatta solo al concretizzarsi di uno stato di crisi o insolvenza conclamato, e non per meri segnali preliminari di difficoltà, per evitare falsi allarmi. Ciò non di meno, il messaggio ai revisori è chiaro: non limitarsi a certificare i numeri a consuntivo, ma farsi parte attiva nel richiamare l’attenzione degli amministratori sulla tenuta prospettica dell’azienda.

Infine, il Codice (art. 24 CCII) prevedeva, nell’ambito delle procedure di allerta interna, che se gli organi di controllo (sindaci/revisori) rilevano indizi di crisi e li segnalano agli amministratori, ma questi ultimi non adottano adeguate iniziative entro 30 giorni, l’organo di controllo possa informare l’OCRI (Organismo di Composizione della Crisi). In pratica, nel disegno originale, i sindaci fungevano da sentinelle e, ignorati dagli amministratori, avrebbero potuto “far scattare” l’allerta formale pubblica. Tuttavia, come vedremo tra poco, l’entrata in vigore di queste procedure di allerta esterna è stata rinviata più volte e infine accantonata in favore di strumenti più flessibili. Resta fermo però che, per prudenza, i sindaci oggi potrebbero comunque scegliere di attivarsi presso l’autorità giudiziaria se l’inerzia degli amministratori ponesse l’azienda in grave pericolo: ad esempio, alcuni commentatori ipotizzano che nei casi più gravi i sindaci possano arrivare a presentare un ricorso ex art. 2409 c.c. al tribunale (denuncia per gravi irregolarità nella gestione) per provocare un intervento d’urgenza. Si tratta di rimedi estremi, ma che evidenziano come gli organi di controllo, per tutelarsi, non possano più ignorare situazioni di dissesto imminente.

Esempio pratico 1 – Allerta interna: Beta S.r.l. è un’azienda manifatturiera che da due anni consecutivi chiude il bilancio in perdita, con conseguente erosione del patrimonio netto. Il suo DSCR a 6 mesi è sceso sotto 1 (i flussi di cassa prospettici non coprono le rate di mutuo in scadenza) e l’indebitamento verso fornitori presenta ritardi medi oltre 120 giorni. Il collegio sindacale di Beta, riscontrati questi elementi, invia una segnalazione scritta al Consiglio di Amministrazione evidenziando la presenza di fondati indizi di crisi e chiedendo al board quali azioni intenda intraprendere (come previsto dall’art. 24 CCII). Il CdA di Beta, preso atto della segnalazione, convoca immediatamente una riunione con il direttore finanziario e il commercialista: emergendo che la situazione è effettivamente critica, gli amministratori decidono di attivare al più presto la procedura di composizione negoziata presso la Camera di Commercio, così da tentare una ristrutturazione assistita del debito prima che i fornitori inizino azioni legali. Inoltre, predispongono un piano interno di riduzione costi e contattano i soci per valutare un eventuale aumento di capitale. Grazie a questa reazione tempestiva, Beta S.r.l. avvia le trattative con i creditori sotto la supervisione di un esperto nominato dall’OCC (come vedremo in dettaglio nel capitolo seguente), evitando di precipitare subito in insolvenza.

Segnalazioni dei creditori pubblici qualificati (allerta esterna)

Oltre ai meccanismi di allerta interni, il Codice della Crisi prevedeva originariamente anche un sistema di allerta “esterna” tramite le segnalazioni di alcuni creditori pubblici qualificati, in particolare Agenzia delle Entrate, INPS e Agente della Riscossione (ex Equitalia). L’idea era che questi enti, constatando il mancato pagamento di imposte o contributi sopra determinate soglie, inviassero una tempestiva segnalazione all’impresa debitrice (e per conoscenza agli organi di controllo interni) per sollecitarla a intervenire. In caso di perdurante inerzia, la situazione avrebbe potuto essere portata all’attenzione dell’OCRI, l’Organismo di Composizione della Crisi d’Impresa istituito presso le Camere di Commercio, che avrebbe gestito una fase di allerta e composizione assistita riservata.

In concreto, erano stati fissati parametri oltre i quali far scattare l’allerta esterna: ad esempio, per l’Agenzia delle Entrate un debito IVA scaduto superiore a una certa soglia, per l’INPS un certo ammontare di contributi non versati, ecc. (le soglie dovevano essere determinate con decreto ministeriale). Se tali soglie venivano superate e il debitore non provvedeva entro un termine, il creditore pubblico aveva l’obbligo di emettere una comunicazione ufficiale all’azienda avvisandola del serio stato di difficoltà e invitandola a reagire. Tali segnalazioni dovevano servire a “rompere il silenzio” su situazioni di crisi latente, soprattutto in imprese poco strutturate, attivando una procedura di allerta davanti all’OCRI in cui esperti terzi avrebbero aiutato l’imprenditore a trovare una soluzione (simile a una mediazione).

Questo sistema, tuttavia, ha incontrato molte resistenze e difficoltà già prima di partire. L’entrata in vigore delle norme sugli OCRI e sulle segnalazioni obbligatorie è stata rinviata più volte dal legislatore. Da ultimo, nel 2021 si è deciso di posporre il tutto al 31 dicembre 2023. Nel frattempo – complice anche l’urgenza post-pandemia di avere strumenti più rapidi e meno burocratici – si è introdotto con D.L. 118/2021 un diverso approccio, ovvero la composizione negoziata volontaria, che di fatto ha sostituito le procedure di allerta prima che queste vedessero la luce. Ad oggi (metà 2025), le norme sugli OCRI e sulle segnalazioni dei creditori pubblici non risultano operative: il legislatore ha preferito scommettere su un meccanismo incentivante e confidenziale, anziché su un allarme automatico pubblico.

Ciò non significa che i creditori istituzionali restino inerti. Al contrario, il CCII impone comunque a tali enti un dovere di monitoraggio delle posizioni debitorie verso di loro e di avviso al debitore in difficoltà. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della Riscossione devono attivarsi inviando solleciti e avvisi appena i debiti superano certe soglie, pena possibili responsabilità amministrative dei propri funzionari per omissione. L’intento, in ottica collaborativa, è fare squadra per far emergere precocemente le crisi. In pratica, già oggi se un’impresa accumula rilevanti debiti tributari o contributivi arretrati, riceverà una “lettera di compliance” dall’ente che la invita a regolarizzare o quantomeno a prendere provvedimenti. Tale lettera può costituire un serio campanello d’allarme per l’imprenditore. Pur non essendoci (ancora) un obbligo legale di attivare la composizione negoziata a seguito di queste segnalazioni, ignorare un richiamo del genere può essere molto rischioso: come visto, se i sindaci o i revisori vengono a conoscenza di un sollecito formale del Fisco o dell’INPS e gli amministratori non agiscono, gli organi di controllo dovranno muoversi per evitare di essere corresponsabili (fino a considerare denunce ex art. 2409 c.c.). Inoltre, i soci o altri stakeholder potrebbero a loro volta intervenire, preoccupati del proprio investimento o dei propri crediti. Insomma, anche senza OCRI, una segnalazione esterna de facto mette forte pressione all’organo amministrativo affinché reagisca.

Da segnalare, sul fronte bancario, un’ulteriore misura di “allerta morbida” introdotta dal correttivo 2024 e dalla normativa di settore: è stato vietato alle banche di revocare affidamenti o segnalare a Centrale Rischi un credito come deteriorato soltanto perché l’impresa ha avviato una composizione negoziata. In passato, infatti, molti imprenditori erano timorosi di attivare procedure di gestione della crisi per non allarmare le banche e vedersi tagliare le linee di credito. Oggi la legge chiarisce che l’avvio di trattative assistite non può di per sé giustificare la revoca di fidi o la classificazione “a sofferenza” di un cliente. La banca potrà certo revocare se ci sono motivazioni oggettive (ad es. peggioramenti nei conti che violano i covenant, o obblighi prudenziali imposti dalle autorità), ma dovrà in tal caso motivarlo specificamente e darne comunicazione sia all’imprenditore sia all’esperto nominato. Questa novità, insieme alla presenza di un tavolo negoziale con la supervisione di un esperto indipendente, sta incentivando gli istituti di credito ad adottare un atteggiamento più costruttivo e trasparente con le imprese in difficoltà, anziché tagliare i ponti al primo sentore di crisi. Si crea così un circolo virtuoso: l’imprenditore viene incoraggiato a non nascondere i problemi finanziari, confidando che le controparti istituzionali (banche e Fisco) siedano al tavolo delle trattative senza prendere iniziative drastiche unilaterali almeno per un certo periodo.

Esempio pratico 2 – Allerta esterna: Gamma S.p.A. opera nel settore edilizio e, a causa di un rallentamento dei cantieri, accumula nel 2024 debiti IVA per oltre €200.000 e ritarda il versamento dei contributi previdenziali per i suoi dipendenti, accumulando 4 mesi di arretrati (circa €20.000). A ottobre 2024, l’Agenzia delle Entrate invia a Gamma un avviso formale di irregolarità fiscale, segnalando il debito IVA elevato; contestualmente l’INPS invia una PEC richiamando l’attenzione sui contributi non pagati e invitando a regolarizzare entro 90 giorni. Tali comunicazioni mettono in allarme il Collegio Sindacale di Gamma, il quale convoca subito il CdA. Gli amministratori, presi atto dell’impossibilità di saldare nell’immediato l’intero debito tributario/previdenziale, decidono di attivare la composizione negoziata. Presentano istanza sulla piattaforma camerale e ottengono la nomina di un esperto indipendente. Durante la procedura negoziale, grazie alla moratoria concordata con le banche e all’accordo di rateazione che l’esperto negozia con l’Agenzia Entrate (facilitato dalla possibilità di transazione fiscale introdotta dal correttivo-ter), Gamma S.p.A. riesce a evitare azioni esecutive e a impostare un piano di rientro del debito compatibile con la prosecuzione dei cantieri. I sindaci, dal canto loro, redigono verbale dettagliato di quanto accaduto e vigilano sul rispetto del piano, consapevoli che un loro silenzio di fronte alle segnalazioni pubbliche li avrebbe potuti esporre a responsabilità.

Nota: Attualmente l’allerta esterna “ufficiale” tramite OCRI non è operativa, ma il sistema funziona comunque attraverso una rete di segnalazioni informali e obblighi di comunicazione (dai creditori pubblici, dalle banche, dai revisori) che spingono l’impresa verso soluzioni negoziali. È attesa nei prossimi anni una valutazione sull’efficacia di questo approccio volontaristico rispetto al modello di allerta originario: se l’approccio attuale si dimostra insufficiente a far emergere in tempo le crisi, il legislatore potrebbe rivalutare l’attivazione di meccanismi più stringenti. Per ora, la composizione negoziata (di cui trattiamo nel prossimo capitolo) è il perno centrale attorno a cui ruota la gestione anticipata della crisi in Italia.

La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa

La composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa è uno degli strumenti cardine di recente introduzione nel nostro ordinamento. Si tratta di una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale che consente all’imprenditore in difficoltà di tentare un risanamento dell’impresa attraverso la negoziazione assistita con i creditori, con l’ausilio di un esperto indipendente nominato da un organismo terzo. Introdotta inizialmente con il D.L. 118/2021 (conv. in L. 147/2021) in risposta all’emergenza economica post-Covid, la composizione negoziata è stata poi inserita stabilmente nel Codice della Crisi (artt. 12–25-octies CCII) e, dopo vari aggiustamenti legislativi nel 2022 e 2024, è oggi uno strumento centrale per prevenire l’aggravarsi della crisi d’impresa.

In parole semplici, la composizione negoziata offre all’imprenditore uno spazio protetto di trattativa: per un periodo di tempo limitato, l’imprenditore può sedersi attorno a un tavolo con i principali creditori (banche, fornitori strategici, Fisco) sotto la supervisione di un esperto imparziale, al fine di individuare soluzioni concordate che evitino il fallimento e permettano la continuazione dell’attività. A differenza delle tradizionali procedure concorsuali, qui non c’è spossessamento dell’imprenditore né intervento invasivo del tribunale: l’impresa continua ad essere gestita dal debitore, senza commissari, e la trattativa resta confidenziale (almeno finché non si attivano misure giudiziali come vedremo). Per questo la composizione negoziata è vista come un percorso “meno traumatico e meno costoso” rispetto al fallimento, che mantiene il controllo all’imprenditore e può salvare l’azienda e i posti di lavoro.

Di seguito esamineremo i punti chiave: chi può accedere e quando, come avviene la nomina dell’esperto, come si svolgono le trattative e quali strumenti di supporto (es. misure protettive, finanziamenti) sono disponibili, quali sono i possibili esiti conclusivi della procedura e, infine, quali novità normative sono state introdotte di recente (2024-2025) per potenziare questo istituto.

Accesso alla procedura e nomina dell’esperto indipendente

Soggetti ammessi: Possono richiedere la composizione negoziata tutti gli imprenditori iscritti al Registro delle Imprese, sia in forma societaria che individuale, di qualsiasi dimensione. Quindi rientrano anche le imprese agricole (prima escluse dal fallimento), le piccole imprese e le start-up. Per le micro-piccole imprese sono previste alcune semplificazioni (composizione negoziata sotto-soglia, v. infra) ma nessuna categoria imprenditoriale è esclusa in principio. Invece non possono accedere i soggetti che non sono imprenditori (es. consumatori, professionisti non organizzati in forma d’impresa) né le imprese che siano già sottoposte a una procedura concorsuale liquidatoria in corso (fallimento/liquidazione giudiziale già aperta).

Condizioni di ammissibilità: L’imprenditore deve trovarsi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza, ma al contempo deve esistere una ragionevole prospettiva di risanamento. In altre parole, lo strumento è pensato per chi è in difficoltà ma non ancora al punto di non ritorno, e soprattutto per chi ha ancora delle chances concrete di recupero se vengono prese misure adeguate. Non è richiesto che l’impresa sia già insolvente – anzi, in tal caso potrebbe essere troppo tardi; basta che vi siano segnali di crisi incipiente. Una recente modifica normativa (D.Lgs. 136/2024) ha chiarito definitivamente che anche la “mera” crisi o uno squilibrio temporaneo sono sufficienti per l’accesso, eliminando dubbi interpretativi che in passato avevano fatto pensare che servisse un’insolvenza imminente. Oggi l’art. 12 CCII parla espressamente di squilibrio economico-finanziario come presupposto, quindi è opportuno avviare la composizione prima di trovarsi tecnicamente insolventi. Naturalmente deve esserci almeno una possibilità di risanamento: se la situazione è totalmente compromessa e l’azienda priva di prospettive, la composizione negoziata non avrebbe senso (in tal caso meglio andare direttamente in concordato o liquidazione). La valutazione su questa “prospettiva ragionevole di risanamento” spetta in primis all’imprenditore e ai suoi consulenti quando decidono se fare istanza, e poi sarà scrutinata dall’esperto nominato.

Requisiti sotto-soglia: Per le micro e piccole imprese, la legge definisce parametri specifici (“sotto-soglia”) che le identificano: attivo patrimoniale annuo ≤ €300.000, ricavi lordi annui ≤ €200.000 (media ultimi 3 esercizi), debiti totali ≤ €500.000. Le imprese che rispettano tutti e tre questi limiti possono accedere a una composizione negoziata con alcune facilitazioni procedurali (ad esempio minori formalità documentali iniziali). Va evidenziato che la gran parte delle imprese italiane rientra in questa fascia di piccole dimensioni. Se la tua impresa è molto piccola, puoi comunque utilizzare lo strumento: la composizione negoziata sotto-soglia è pensata proprio per micro imprese e ditte individuali che vogliono evitare la chiusura e trovare una soluzione sostenibile ai debiti. In pratica, l’accesso sotto-soglia richiede di allegare meno documenti (sono sufficienti gli ultimi bilanci o dichiarazioni fiscali e l’elenco dei debiti fiscali/contributivi, senza bisogno di complessi piani o relazioni iniziali). Inoltre, per le sotto-soglia è possibile presentare l’istanza anche tramite un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) oltre che attraverso la piattaforma online della Camera di Commercio. Questa opzione – introdotta per aiutare chi ha meno dimestichezza con gli strumenti telematici – permette all’imprenditore di rivolgersi fisicamente a un gestore della crisi (presso un ordine professionale, ad es. commercialisti) che lo assista nel depositare l’istanza. I benefici e le tutele, comunque, sono analoghi a quelli per le imprese più grandi.

Procedura di accesso: L’istanza di composizione negoziata si presenta tramite una piattaforma telematica nazionale gestita da Unioncamere (Camere di Commercio). All’atto pratico, l’imprenditore (o un suo professionista delegato) si registra al portale dedicato (composizionenegoziata.camcom.it) e compila la domanda inserendo i dati dell’impresa e allegando la documentazione richiesta. Tra i documenti da allegare vi sono: una relazione sull’attività aziendale, i bilanci degli ultimi esercizi (o ultime situazioni contabili se non vi sono bilanci), l’elenco dei creditori e dei debiti, una dichiarazione sulla presenza di eventuali attestazioni o piani già predisposti, e altre informazioni economico-patrimoniali rilevanti. Come detto, per le PMI sotto-soglia la checklist documentale è ridotta: il correttivo 2024 ha eliminato l’obbligo di allegare relazioni professionali corpose in questa fase iniziale, proprio per incoraggiare le piccole imprese ad accedere senza barriere eccessive.

Nomina dell’esperto: Una volta inviata l’istanza, la palla passa a una Commissione costituita presso la CCIAA competente, formata da tre esperti designati rispettivamente dal Presidente del Tribunale, dal Prefetto e dalla Camera di Commercio. Questa Commissione, verificati i requisiti formali, provvede entro 5 giorni a nominare un esperto indipendente scegliendolo da un apposito elenco di professionisti qualificati (generalmente commercialisti, avvocati o consulenti di comprovata esperienza in risanamenti). L’esperto deve possedere requisiti di indipendenza rispetto all’impresa (assenza di conflitti di interesse, di rapporti recenti, ecc.). Il correttivo-ter ha ulteriormente rafforzato le garanzie di qualità e indipendenza: ad esempio, ha stabilito che se un professionista ha già svolto in passato un incarico di composizione per lo stesso imprenditore, ciò non costituisce di per sé incompatibilità (questo per non escludere a priori esperti che magari conoscono già l’azienda), però la Commissione di nomina deve tenere conto anche del track record del candidato, cioè degli esiti delle precedenti composizioni da lui seguite. In pratica, si cerca di premiare professionisti con un alto tasso di successo nei risanamenti. Inoltre è ora possibile, in caso di necessità, sostituire l’esperto durante la procedura su iniziativa non solo dell’imprenditore ma anche di una minoranza qualificata di creditori (ad esempio se ritengono l’esperto inefficace o parziale). Ciò evita situazioni di stallo dovute a esperti poco collaborativi.

Una volta nominato, l’esperto indipendente accetta l’incarico e studia la situazione aziendale (ha accesso a tutti i dati forniti e può richiedere ulteriori informazioni). Entro pochi giorni, convoca l’imprenditore per un colloquio iniziale, in cui si valuta la concretezza delle possibilità di risanamento. Se l’esperto riscontra che la situazione è disperata e manca qualsiasi prospettiva, può terminare subito la procedura con una relazione negativa. In caso contrario, si procede con le trattative.

Svolgimento delle trattative, misure protettive e altri strumenti di supporto

Negoziati con i creditori: Apertasi la composizione negoziata, l’esperto concorda con l’imprenditore un piano di incontri con i creditori principali. Non c’è un rigido protocollo: l’esperto ha la facoltà di individuare quali creditori coinvolgere nelle trattative e con quali priorità. Tipicamente, saranno convocati inizialmente i creditori finanziari (banche) e quelli strategici (fornitori indispensabili, Erario), poiché sono le controparti senza la cui adesione il risanamento è impossibile. L’esperto agisce da facilitatore: convoca le parti, organizza riunioni (anche telematiche), propone possibili soluzioni e cerca di far convergere verso un accordo. Importante: l’esperto non ha poteri coercitivi – non può imporre ai creditori di aderire, né vincolare l’imprenditore a scelte non volute. Il suo ruolo è di mediatore qualificato, con competenze legali ed economiche, che aiuta le parti a trovare un punto d’incontro. L’imprenditore mantiene la gestione ordinaria dell’azienda e rimane libero di accettare o rifiutare proposte, ma è tenuto a collaborare in buona fede e a fornire informazioni veritiere all’esperto e ai creditori durante le trattative. La leale collaborazione è fondamentale: qualsiasi segno di reticenza o di occultamento di dati da parte del debitore può far naufragare la fiducia e portare a un fallimento delle negoziazioni (oltre a poter integrare in seguito ipotesi di bancarotta fraudolenta se emergono asset nascosti).

Durata della procedura: La composizione negoziata ha una durata flessibile ma comunque limitata. La legge indicava inizialmente 6 mesi prorogabili di altri 6 previo accordo delle parti. Il correttivo 2024 ha semplificato la proroga: ora basta la richiesta motivata dell’imprenditore (o anche di una parte in trattativa) con l’assenso dell’esperto per ottenere un’estensione, senza più richiedere il consenso unanime di tutti i creditori coinvolti. Inoltre, se sono pendenti ricorsi in tribunale o misure protettive in corso, la proroga è automatica fino alla loro definizione. In generale, la procedura tende a concludersi nell’arco di pochi mesi, compatibilmente con la complessità del caso.

Misure protettive e cautelari: Uno dei vantaggi chiave per l’imprenditore è la possibilità di ottenere, durante la composizione negoziata, delle “misure protettive” che congelino temporaneamente le azioni esecutive e cautelari dei creditori. In altri termini, l’imprenditore può chiedere al Tribunale di bloccare i pignoramenti e le altre azioni di recupero dei creditori durante il periodo delle trattative. Tali misure non scattano automaticamente con l’accesso alla procedura (come invece avviene ad es. col concordato preventivo); vanno richieste espressamente depositando un ricorso al tribunale competente (sezione specializzata in crisi) subito dopo l’avvio della composizione. Il tribunale, sentito l’esperto, può emettere decreto con cui dispone la sospensione delle azioni esecutive individuali (ad es. pignoramenti, procedure fallimentari) per un periodo iniziale fino a 4 mesi, estendibile di altri 4. Durante questo periodo, i creditori non potranno iniziare o proseguire esecuzioni sul patrimonio dell’impresa.

Va notato che negli ultimi orientamenti la concessione delle misure protettive è spesso calibrata: i tribunali valutano l’attualità e proporzionalità delle tutele richieste rispetto al piano in discussione. Ad esempio, il Tribunale di Nola (decr. 15 maggio 2025) ha recentemente concesso solo parzialmente le misure richieste in una composizione negoziata, escludendo il divieto di notificare atti di precetto o di segnalare a Centrale Rischi nuovi eventi, ritenendo tali misure eccessive in assenza di immediato pericolo. Ha invece confermato le misure “tipiche” ex art. 18 CCII (sospensione dei pignoramenti e delle ipoteche) ma ha negato quelle ritenute sproporzionate (come impedire ai creditori di notificare decreti ingiuntivi o alle banche di segnalare lo status alla Centrale Rischi). Questo approccio più sfumato, emerso nella prassi 2024-2025, mira a bilanciare la necessità di proteggere l’impresa con il diritto dei creditori di tutelarsi, evitando abusi. In ogni caso, le misure protettive tipiche offrono all’imprenditore un periodo di respiro (moratoria) per poter negoziare senza l’assillo di escussioni immediate.

Oltre alle misure protettive, l’imprenditore può chiedere al giudice anche autorizzazioni specifiche utili al risanamento durante la composizione. Ad esempio, può essere autorizzato a contrarre finanziamenti prededucibili, ossia nuovi finanziamenti che, in caso di successivo fallimento, verranno rimborsati con priorità (prededuzione). Questo serve a incentivare banche o soci a mettere liquidità fresca nell’impresa in crisi, sapendo che tali somme saranno tutelate anche se il piano dovesse fallire. Il correttivo-ter ha chiarito che i finanziamenti erogati durante la composizione godono della prededuzione qualunque sia l’esito finale, persino se si finisce in liquidazione giudiziale. Inoltre, il tribunale può autorizzare l’imprenditore a compiere atti di straordinaria amministrazione necessari a evitare pregiudizio all’azienda (ad esempio, vendita di beni deperibili o non strategici per fare cassa, pagamento di fornitori critici, ecc.), anche se questi atti normalmente sarebbero soggetti a revocatoria in caso di fallimento: se autorizzati, sono esenti da revocatoria. Un caso particolare è l’autorizzazione a pagare fornitori strategici per assicurarsi la continuità delle forniture essenziali durante le trattative: l’art. 19 co.3 CCII consente all’imprenditore di chiedere al giudice di pagare in deroga alla par condicio quei fornitori senza i quali l’attività si fermerebbe (ad esempio, materie prime indispensabili).

Transazione fiscale e debiti verso Erario: Un nodo spesso cruciale è il debito fiscale e contributivo. Tradizionalmente, l’Erario era riluttante a concedere stralci significativi fuori dalle procedure concorsuali formali. Il correttivo-ter (2024) ha introdotto una svolta: oggi l’imprenditore, nell’ambito della composizione negoziata, può proporre una transazione fiscale alle Finanze, cioè un accordo di ristrutturazione dei debiti tributari (ad es. IVA, imposte dirette) con riduzione o dilazione degli importi dovuti. Questa novità è codificata nell’art. 23 co.2-bis CCII. È richiesto che un professionista indipendente attesti la convenienza della proposta per il Fisco rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare. In pratica, se l’impresa dimostra che – ad esempio – pagando il 50% del debito IVA consente la prosecuzione dell’attività e alla fine lo Stato incasserebbe più di quanto otterrebbe dal fallimento (magari nulla), l’Agenzia Entrate può accettare la transazione. Restano tuttavia esclusi (ad oggi) i debiti per contributi previdenziali, per i quali manca una norma specifica. Questo è considerato un vulnus da colmare, poiché l’INPS continua a non poter legalmente fare sconti sul dovuto contributivo fuori dal concordato preventivo. Nonostante ciò, la possibilità di includere il Fisco nelle trattative della composizione negoziata è un enorme passo avanti, perché storicamente l’assenza del Fisco bloccava molti tentativi di risanamento.

Esito delle trattative: Durante la composizione, l’esperto redige periodicamente rapporti sull’andamento delle negoziazioni e li condivide con l’imprenditore (e, se richiesto, col tribunale in caso di misure protettive in essere). Se in qualsiasi momento l’esperto rileva che non vi sono più margini di trattativa o che l’imprenditore non collabora lealmente, può porre fine anticipatamente alla procedura, redigendo una relazione finale negativa (depositata anche presso il registro imprese). Altrimenti, si arriva alla conclusione naturale entro il termine. Vediamo ora quali possono essere i possibili esiti conclusivi.

Esiti della composizione negoziata: accordo, piano o concordato

La composizione negoziata può portare a diversi esiti, a seconda di come vanno le trattative. Nello scenario migliore, l’esito è positivo, con il raggiungimento di una soluzione concordata di risanamento. In particolare, le strade percorribili in caso di successo sono principalmente tre:

  • Accordo stragiudiziale con i creditori: l’imprenditore e tutti o buona parte dei creditori raggiungono un accordo privato di ristrutturazione del debito, formalizzato magari in uno o più contratti (ad es. un accordo quadro). Può trattarsi di una moratoria (proroga delle scadenze), di una riduzione parziale dei crediti (remissione di interessi o abbattimento quote capitale), di una riscadenzamento del debito, conversione di parte di debiti in capitale o altre soluzioni creative. Questo accordo può assumere la veste, ad esempio, di piano attestato di risanamento (se viene redatto un piano e attestato da un professionista indipendente, v. oltre), oppure di semplici patti bilaterali con ciascun creditore. L’importante è che vi sia il consenso dei creditori coinvolti. L’esperto può “certificare” l’accordo raggiunto apponendo la propria firma in calce (come testimone qualificato delle intese raggiunte), e in tal caso la legge riconosce a questo accordo una sorta di patente di affidabilità che esenta da revocatoria gli atti esecutivi posti in essere (beneficio analogo a quello dei piani attestati). La procedura di composizione termina con un successo extragiudiziale: i creditori aderenti rinunciano ad azioni esecutive secondo i termini pattuiti e l’impresa esegue il piano di risanamento concordato.
  • Accordo di ristrutturazione omologato (ARD): se non tutti i creditori aderiscono spontaneamente, ma si raggiunge l’accordo con una parte significativa di essi (almeno il 60% dei crediti, soglia minima di legge), l’imprenditore può scegliere di omologare l’accordo in tribunale ai sensi degli artt. 57-60 CCII. Si passa cioè da una fase stragiudiziale a una fase giudiziale semplificata in cui il tribunale rende l’accordo efficace erga omnes per i creditori aderenti e concede alcuni benefici legali (es. protezione dalle revocatorie, sospensione delle azioni esecutive in corso di omologa). Gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i loro vantaggi saranno discussi nel capitolo dedicato; qui basti dire che questo esito viene scelto quando c’è bisogno di vincolare in modo stabile l’accordo e magari estenderne gli effetti a taluni creditori dissenzienti (caso tipico: le banche rappresentanti >75% dei crediti finanziari aderiscono, e si vuole forzare le poche banche dissenzienti ad accettare lo stesso trattamento – cosa possibile col meccanismo dell’accordo ad efficacia estesa previsto dall’art. 61 CCII). In sostanza, si cristallizza l’accordo negoziale in un provvedimento giudiziario vincolante e si ottengono una serie di tutele aggiuntive.
  • Piano di risanamento attestato: un altro possibile epilogo è che, grazie al lavoro svolto durante la composizione, l’imprenditore perfezioni un piano attestato di risanamento (strumento ex art. 56 CCII, già art. 67 l.f.). Può accadere che l’esperto, valutando la situazione, consigli all’imprenditore di predisporre un piano di risanamento fattibile e di farlo attestare da un professionista indipendente (diverso dall’esperto). Se i creditori principali concordano informalmente sul dare fiducia al piano, la composizione può chiudersi con la redazione di questo piano attestato, che l’impresa poi eseguirà. Il vantaggio è che il piano attestato, pur essendo un accordo puramente privatistico (non omologato in tribunale), gode di protezione: gli atti compiuti in esecuzione del piano sono esenti da azioni revocatorie fallimentari eventualmente future. In sostanza è come un “paracadute” giuridico: se anche il piano dovesse fallire e l’azienda finire in fallimento, le vendite, i pagamenti e le garanzie effettuate durante l’esecuzione del piano non potranno essere revocate dal curatore. Il piano attestato è spesso il primo tentativo che un imprenditore compie per aggiustare la rotta, prima di ricorrere a soluzioni più complesse. Funziona bene quando la crisi è ancora gestibile in modo consensuale e la stragrande maggioranza dei creditori è d’accordo nel dare respiro all’impresa, magari perché confidano che così recupereranno i loro crediti in misura maggiore che non forzando subito la mano. Approfondiremo i piani attestati in seguito.

Accanto a questi esiti di “successo” in cui la crisi viene risolta con accordi o piani di risanamento, vi sono poi gli esiti in caso di fallimento delle trattative. Se la composizione si conclude con esito negativo (nessun accordo raggiunto), l’esperto ne dà atto in una relazione finale che viene archiviata. A quel punto l’imprenditore può comunque esplorare altre strade formali. In particolare, due possibilità:

  • Concordato preventivo (o concordato minore) o liquidazione giudiziale: l’imprenditore può decidere di depositare subito un ricorso per concordato preventivo (o concordato minore se la sua è impresa sotto-soglia) oppure, se non vede alternative di risanamento, può rassegnarsi a richiedere l’apertura della liquidazione giudiziale. Spesso il periodo di composizione negoziata non è stato vano: tutta la documentazione raccolta e l’analisi svolta dall’esperto costituiranno un patrimonio informativo prezioso per predisporre, ad esempio, una domanda di concordato con elementi già valutati (viabilità, stima dell’attivo, ecc.). Inoltre, il comportamento tenuto dagli amministratori in questa fase (ad es. aver tentato un accordo e aver cooperato) sarà valutato positivamente dal tribunale, mentre la mancata attivazione sarebbe stata vista come inerzia colpevole.
  • Concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio: introdotto come novità dal D.L. 118/2021, questo particolare strumento permette all’imprenditore, se la composizione negoziata fallisce senza accordo, di presentare entro 60 giorni una proposta di concordato liquidatorio senza voto dei creditori. Ne parleremo approfonditamente più avanti. In breve, è una procedura lampo in cui l’imprenditore propone al tribunale una liquidazione ordinata dei propri beni offrendo ai creditori il ricavato, senza passare per il complesso iter del concordato preventivo (non c’è voto dei creditori, decide tutto il giudice). Questo concordato “semplificato” può essere una via per evitare il fallimento sebbene l’azienda non sia più salvabile. Importante: può accedervi solo chi ha prima tentato la composizione negoziata. Dunque, paradossalmente, anche la composizione fallita offre un beneficio: apre questa scappatoia per chiudere la crisi in modo controllato.

Se nemmeno queste soluzioni vengono perseguite, resta ovviamente la possibilità che, a seguito di composizione fallita, i creditori tornino liberi di agire individualmente (pignoramenti, decreti ingiuntivi) oppure presentino istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) presso il tribunale. Insomma, la composizione negoziata non garantisce il salvataggio, ma è un tentativo strutturato di evitare la deriva. Da notare che gli atti della composizione (inclusa l’eventuale relazione finale dell’esperto) possono essere utilizzati successivamente per individuare le cause della crisi e valutare le eventuali responsabilità degli amministratori nel dissesto.

Esempio pratico 3 – Trattativa in composizione negoziata: Delta S.r.l., impresa metalmeccanica, avvia la composizione negoziata e l’esperto convoca subito le tre banche finanziatrici e il maggiore fornitore di acciaio, considerati creditori cruciali. Scopo iniziale: ottenere una moratoria di 6 mesi sui pagamenti delle rate di mutuo e delle forniture, per dare ossigeno all’azienda. L’esperto, dopo aver esaminato i conti di Delta, predispone una bozza di piano che prevede: rinvio dei pagamenti bancari per 6 mesi, contestuale ricerca di un investitore di minoranza per apportare nuovo capitale, e graduale rientro dei debiti fornitori in 24 mesi. Nelle riunioni, le banche si mostrano disponibili alla moratoria a patto che i soci versino almeno €100.000 di liquidità immediata. I fornitori chiedono garanzie sulle forniture future. L’esperto media: convince i soci di Delta a impegnarsi a un aumento di capitale di €100.000 (assistito da prededuzione qualora il capitale fosse versato come finanziamento soci in futuro concordato), ottiene dalle banche la sospensione dei pagamenti fino a fine anno e ottiene dal fornitore principale la continuità nelle consegne dietro pagamento in contanti degli ordini correnti (tutelato da un’eventuale autorizzazione tribunale ex art.19 CCII per pagamenti dei fornitori strategici). Dopo tre mesi di trattative serrate, Delta S.r.l. riesce a concludere un accordo stragiudiziale firmato da tutte e tre le banche e dal fornitore: l’accordo prevede la moratoria di 6 mesi sulle rate, l’apporto soci e un piano di rientro dei debiti con pagamento del 80% degli importi in 2 anni. L’esperto attesta la sostenibilità del piano e chiude la composizione con esito positivo. Grazie a questo, Delta evita il fallimento e – con l’aiuto del commercialista – formalizza il tutto in un piano attestato di risanamento, facendolo attestare da un professionista e mettendo in esecuzione gli accordi presi. I creditori che hanno aderito sono vincolati moralmente dall’accordo (anche se, tecnicamente, avrebbero potuto agire, nessuno lo fa per fiducia). Dopo 18 mesi, Delta ha già restituito metà del debito e trovato un nuovo investitore, uscendo definitivamente dalla crisi.

Esempio pratico 4 – Composizione fallita e concordato semplificato: EcoBuild S.r.l. opera nelle costruzioni edili. A causa di costi lievitati e ritardi nei pagamenti dei clienti, accumula €4 milioni di debiti (prevalentemente verso banche e fornitori) e nel 2023 ricorre alla composizione negoziata. L’esperto, dopo 3 mesi di tentativi, constata che i principali creditori (banche e fornitori maggiori) non intendono accettare alcuna proposta in continuità: la situazione di EcoBuild è troppo compromessa, mancano nuovi lavori e il settore è in crisi. La composizione viene dunque chiusa senza accordo. L’imprenditore di EcoBuild però non vuole attendere il fallimento passivamente: entro 60 giorni deposita in tribunale un ricorso per concordato semplificato per la liquidazione. Nel ricorso spiega che la composizione non ha prodotto soluzioni e presenta una proposta liquidatoria: EcoBuild possiede un cantiere edile parzialmente completato e alcuni macchinari; propone di vendere il cantiere a un costruttore terzo disposto a pagare €1 milione, e di vendere i macchinari per €200.000, ottenendo così €1,2 milioni da distribuire ai creditori (chirografari per €4 milioni). In sostanza, offre il 30% ai creditori chirografari. Il tribunale apre la procedura semplificata e convoca i creditori per un’udienza (i quali però non votano formalmente). Alcuni creditori contestano che il 30% sia basso, ma nessuno ha proposte migliori e il giudice rileva – sulla base della relazione finale dell’esperto allegata – che in un fallimento quel cantiere invenduto si sarebbe probabilmente deprezzato causando una soddisfazione minore del 30%. Dunque il tribunale omologa il concordato semplificato, nominando un liquidatore che procederà a effettuare la vendita e il riparto. Nel giro di pochi mesi, EcoBuild S.r.l. viene cancellata ma i creditori hanno ottenuto il 30% in tempi rapidi (meglio del rischio zero dopo anni di fallimento). L’imprenditore ha chiuso la vicenda con uno stigma ridotto (concordato anziché fallimento) e potrà eventualmente chiedere l’esdebitazione personale per liberarsi dei debiti residui non coperti (se ha prestato garanzie personali).

Novità normative 2024-2025 sulla composizione negoziata

Le modifiche legislative intervenute tra il 2024 e il 2025 (in particolare il D.Lgs. 136/2024) hanno ulteriormente affinato e potenziato la disciplina della composizione negoziata, rendendola più accessibile ed efficace. Riassumiamo le principali novità introdotte e già in parte accennate sopra:

  • Accesso anticipato anche per crisi incipiente: è stato confermato espressamente che la composizione è attivabile anche in situazione di mera crisi, non solo di insolvenza probabile. La modifica all’art. 12 CCII elimina ogni dubbio: basta uno squilibrio rilevante per poter accedere, senza attendere sintomi più gravi.
  • Documentazione iniziale semplificata (PMI): per le imprese minori la lista di documenti da allegare all’istanza è stata ridotta. Oggi è sufficiente presentare gli ultimi bilanci approvati (o ultime situazioni contabili se i bilanci non ci sono) e le certificazioni dei debiti fiscali e contributivi. Non è più obbligatorio allegare relazioni di esperti o piani dettagliati sin dal principio. Ciò snellisce l’accesso, soprattutto per chi ha poche risorse e urgenza.
  • Nomina degli esperti più mirata: la Commissione di designazione deve ora considerare, oltre a titoli ed esperienza, anche gli esiti delle precedenti composizioni seguite da ciascun candidato. Questo per favorire nomine di professionisti con comprovate capacità di condurre a buon fine le trattative (track record positivo). Inoltre, si è chiarito che un esperto non è incompatibile solo perché ha già assistito la stessa impresa in passato (evitando di escludere proprio chi magari conosce bene il caso).
  • Sostituzione dell’esperto: è stata introdotta la possibilità di sostituire l’esperto nominato non solo su richiesta motivata dell’imprenditore, ma anche su iniziativa di una minoranza qualificata di creditori. Questo evita che un esperto poco proattivo o considerato non imparziale blocchi il processo. Se almeno una parte significativa dei creditori esprime sfiducia nell’esperto, si può chiedere alla Commissione la sua sostituzione.
  • Tutela dei rapporti bancari: come già evidenziato, vige ora il divieto per le banche di revocare fidi o finanziamenti solo perché l’impresa ha avviato la composizione negoziata, così come il divieto di classificare il credito come “in sofferenza” per tale motivo. Le banche possono agire solo per ragioni oggettive (p.es. deterioramento reale del merito creditizio), e in tal caso devono comunicarlo all’esperto e all’impresa con motivazione. Questa norma difende l’impresa da reazioni automatiche del sistema bancario e favorisce un clima più collaborativo durante le trattative.
  • Misure protettive proporzionate: è stata confermata la possibilità di ottenere misure protettive ampie (blocco delle azioni esecutive, ecc.), ma la prassi giurisprudenziale 2024-2025 ha tracciato limiti: ad esempio, come nel caso del Tribunale di Nola citato, i giudici tendono a escludere dalla protezione atti monitori (decreti ingiuntivi) e segnalazioni a Centrale Rischi, giudicandoli spesso non lesivi nell’immediato e quindi non da congelare. Ciò rende le misure più mirate agli interessi in gioco, evitando eccessi che penalizzino oltremodo i creditori in bonis.
  • Proroga semplificata: come visto, prorogare la durata della composizione è ora più semplice: basta la richiesta dell’imprenditore o di una parte, con placet dell’esperto, senza unanimità. Inoltre, se sono pendenti ricorsi o misure protettive, la durata si estende automaticamente fino alla loro definizione. Questo elimina formalismi che prima potevano far scadere le trattative per cavilli.
  • Transazione fiscale nella composizione: codificata la possibilità di trattare anche i debiti fiscali nell’ambito delle negoziazioni (art. 23 co.2-bis CCII). È forse la novità più rilevante: con attestazione di convenienza, si può proporre al Fisco un accordo con stralcio o dilazione del debito tributario qualora la prosecuzione dell’attività lo giustifichi (come già spiegato sopra). Resta ancora escluso il perimetro contributivo, ma si auspica un allineamento futuro.
  • Finanza esterna prededucibile: i finanziamenti erogati durante la composizione (ad esempio la riattivazione di linee di credito sospese, o nuovi prestiti ponte) godono di prededuzione e tale privilegio resta fermo qualunque sia l’esito. Ciò è stato chiarito per dare certezza a banche e terzi finanziatori che aiutano l’impresa in questa fase: anche se poi la composizione dovesse fallire, quei finanziamenti verranno rimborsati con priorità (sono crediti prededucibili ex art. 6 CCII).
  • Allineamento esiti PMI: le imprese sotto-soglia possono ora accedere, in conclusione della composizione, a tutte le soluzioni previste per le imprese maggiori. In particolare, è stato chiarito che anche una microimpresa che esce dalla composizione può presentare un concordato minore, proporre una transazione fiscale, oppure accedere alla liquidazione controllata (procedura liquidatoria riservata ai debitori minori, ex legge sovraindebitamento). In pratica, si è uniformato il ventaglio di opzioni finali tra grandi e piccoli, evitando zone grigie.
  • Linee guida e massimari: Unioncamere e altri enti hanno pubblicato nel 2023-2024 delle linee guida operative e raccolte di massime giurisprudenziali sulla composizione negoziata. Queste raccolgono gli orientamenti applicativi dei tribunali (es. criteri per concedere misure protettive, modalità di calcolo delle soglie di accesso, ecc.) e servono ad uniformare le prassi sul territorio nazionale, aumentando la prevedibilità delle decisioni. Per i professionisti e gli imprenditori ciò è utile per sapere, ad esempio, come il tribunale locale tende a comportarsi su certe richieste.

Possiamo quindi affermare che la composizione negoziata, nell’arco di pochi anni, si è evoluta da strumento sperimentale in periodo emergenziale a pilastro stabile del sistema di allerta e prevenzione delle crisi d’impresa. Le riforme del 2024-25 ne hanno corretto le debolezze emerse e ne hanno ampliato la portata, al punto che oggi rappresenta quasi un “passaggio obbligato” quando un’impresa comincia a vacillare. Nel prossimo capitolo analizzeremo gli altri strumenti di regolazione della crisi (accordi di ristrutturazione, piani attestati, concordati), tenendo presente che spesso la composizione negoziata funge anche da anticamera o incubatore per tali soluzioni – molte imprese infatti intraprendono la composizione e poi, grazie al lavoro preparatorio svolto, approdano a un piano attestato o a un accordo omologato come soluzione finale.

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviati in ARD) rappresentano uno strumento ibrido tra l’accordo privatistico puro e la procedura concorsuale. Introdotti già dalla Legge Fallimentare (art. 182-bis l.fall.) e ora disciplinati dagli artt. 57–64 CCII, consistono in un accordo contrattuale che il debitore conclude con una parte significativa dei propri creditori per ristrutturare l’indebitamento e superare la crisi, accordo che viene poi omologato dal tribunale acquisendo efficacia legale verso tutti i creditori aderenti (e talvolta, in parte, anche verso alcuni dissenzienti).

In sostanza, l’imprenditore elabora un piano di risanamento e lo negozia con i creditori principali, ottenendone l’adesione formale mediante sottoscrizione di un accordo. Se raggiunge un determinato quorum di consensi – la legge fissa almeno il 60% dei crediti totali in valore – può chiedere al tribunale l’omologazione di tale accordo. Il tribunale, verificata la regolarità formale e la fattibilità del piano, omologa l’accordo rendendolo efficace secondo il suo contenuto. I creditori che hanno aderito sono vincolati dall’accordo e beneficiano di protezioni (ad esempio, come nel concordato, gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo omologato sono esenti da revocatoria fallimentare). I creditori non aderenti, invece, rimangono estranei: conservano intatti i loro diritti e potrebbero anche agire separatamente per il recupero, salvo alcune eccezioni previste dalla legge.

Vediamo i punti salienti degli accordi di ristrutturazione:

  • Consenso richiesto: Come detto, serve almeno il 60% dei crediti (in valore) perché l’accordo sia omologabile. Ciò significa che il debitore deve ottenere adesioni da creditori rappresentanti almeno i 3/5 dell’ammontare totale dei debiti. Non occorre l’adesione di tutti i creditori: l’idea è coinvolgere una massa critica che sostenga il piano, lasciando fuori (e comunque da soddisfare a parte) la minoranza dissenziente. Ad esempio, se un’azienda ha €10 milioni di debiti e ottiene il sì delle banche per €6 milioni, potrà omologare l’accordo con quelle banche; gli altri €4 milioni di debiti (creditori non aderenti) resteranno fuori e dovranno essere gestiti separatamente (di solito pagando questi creditori per intero secondo i termini originali, a meno che anch’essi non accettino spontaneamente modifiche). È importante dunque, nella pratica, selezionare i creditori da coinvolgere nell’accordo: spesso si decide di escludere i creditori minori (pagandoli regolarmente per non disturbarli) e concentrarsi sui grandi creditori finanziari o strategici, che sono disposti a ristrutturare il loro credito.
  • Trattamento dei non aderenti: Di base, come detto, i creditori che non hanno firmato l’accordo non sono vincolati dall’accordo stesso. Il debitore dovrà quindi continuare a pagarli integralmente secondo le condizioni originarie, salvo eventuali negoziazioni individuali separate. Questo implica che, strutturando un accordo di ristrutturazione, conviene spesso lasciare fuori dall’accordo quei creditori che si preferisce pagare regolarmente (ad es. fornitori piccoli, o creditori strategici che non si vogliono turbare), concentrando l’accordo sui creditori più rilevanti che accettano sacrifici. Tuttavia, il CCII prevede alcune forme di estensione degli effetti dell’accordo anche ai dissenzienti in casi particolari (i c.d. accordi ad efficacia estesa). Ad esempio, se l’accordo riguarda debiti finanziari (banche, obbligazionisti) ed ha ottenuto l’adesione di almeno il 75% di tali creditori finanziari, il debitore può chiedere al tribunale di estendere l’accordo anche alle banche che non hanno aderito, purché a condizioni non peggiori di quelle offerte agli altri. Questo strumento, ereditato dal vecchio art. 182-septies l.f., serve per evitare che pochi finanziatori dissenzienti impediscano la ristrutturazione quando la stragrande maggioranza è d’accordo (tipico caso: pool bancario in cui 80% delle banche è favorevole e 20% contrarie – il giudice può imporre l’accordo a quel 20% se non subiscono un trattamento deteriore rispetto agli altri). Analogamente, il CCII consente di estendere ai creditori fiscali o previdenziali dissenzienti gli effetti di un accordo se ha aderito la maggioranza di essi e il rispetto di certe soglie lo giustifica – è il modello del “cram-down” del Fisco mutuato dal concordato (transazione fiscale forzata). In definitiva, l’accordo di ristrutturazione può, in alcuni casi specifici, vincolare anche creditori non firmatari, ma solo entro limiti ben delineati e con l’intervento del tribunale.
  • Intervento del tribunale e vantaggi dell’omologazione: L’omologazione giudiziale, oltre a dare efficacia legale all’accordo, comporta diversi benefici che un mero accordo privato non avrebbe. Primo, come accennato, viene concesso un periodo di protezione dalle azioni dei creditori durante il procedimento di omologa: il debitore, quando deposita l’accordo in tribunale, può chiedere misure protettive simili a quelle del concordato (sospensione dei procedimenti esecutivi e inibitoria di nuovi per 60-120 giorni). Questo mantiene lo status quo finché l’accordo non viene approvato definitivamente. Secondo, una volta omologato, l’accordo diventa vincolante e irrevocabile per i firmatari: acquista efficacia di titolo esecutivo, per cui se un creditore aderente tentasse di tornare sui suoi passi, il debitore può far valere l’accordo in giudizio. Terzo, come nel piano attestato, gli atti esecutivi dell’accordo omologato godono di esenzione da revocatoria fallimentare: se poi l’impresa fallisse, non potranno essere revocati i pagamenti e le garanzie effettuati in esecuzione dell’accordo (art. 59 CCII), così come sono protetti eventuali finanziamenti autorizzati dal giudice in funzione dell’accordo. In sintesi, l’omologa “corazza” l’accordo, impedendo ripensamenti e rendendo più sicuri i terzi che vi hanno partecipato.
  • Contenuto dell’accordo: Ampia libertà contrattuale. Tipicamente, negli accordi di ristrutturazione i creditori finanziari (banche) accettano di posticipare le scadenze dei mutui, ridurre i tassi, talvolta cancellare una parte del credito (haircut) o convertirlo in strumenti partecipativi (azioni, warrant). I fornitori essenziali possono accettare dilazioni dei crediti pregressi in cambio della continuazione delle forniture (per mantenere il cliente in attività). A differenza del concordato preventivo, non c’è bisogno di rispettare rigidamente le cause legali di prelazione, perché tutto si basa sul consenso: ad esempio, una banca con ipoteca può accettare volontariamente di essere pagata solo al 70% del suo credito, rinunciando al restante 30%. Questo in un concordato sarebbe vietato a meno di voto e classi, ma qui è frutto di libera contrattazione. Ovviamente i creditori non aderenti dovranno comunque essere pagati integralmente a parte, quindi spesso l’accordo prevede che parte delle risorse siano destinate proprio a saldare i “piccoli” rimasti fuori, lasciando che il taglio lo subiscano solo i partecipanti. Possono anche essere previste operazioni di finanza straordinaria: spesso l’accordo include la vendita di un asset importante o l’ingresso di un investitore che apporti nuove risorse destinate a pagare i creditori secondo i termini pattuiti.

In definitiva, l’accordo di ristrutturazione dei debiti è un strumento flessibile e potente quando c’è un dialogo aperto con la maggioranza dei creditori. Rispetto al piano attestato, richiede la formalità dell’omologazione e un quorum di consensi importante, ma offre in cambio maggiori tutele legali e la possibilità di superare l’opposizione di minoranze di creditori. Può essere visto come un “concordato light”, dove non c’è votazione di tutti i creditori ma solo accordo con quelli principali, con l’ombrello del tribunale per consolidare il tutto.

Esempio pratico – Accordo di ristrutturazione finanziario: Gamma S.p.A. (lo stesso caso sopra, settore edilizio) ha un indebitamento complessivo di €50 milioni: €35M verso 5 banche e €15M verso fornitori vari. Dopo intense negoziazioni avviate anche grazie a una precedente composizione negoziata, Gamma ottiene da 4 banche su 5 (che detengono €30M su 35, quindi l’85% dei crediti bancari e il 60% del totale debiti) l’accordo su una manovra finanziaria. La manovra prevede: conversione di €10M di crediti bancari in strumenti partecipativi (le 4 banche diventeranno azioniste di minoranza), allungamento a 15 anni dei mutui residui con 2 anni di pre-ammortamento, concessione di nuove linee per €5M per finanziare i cantieri, impegno dei soci a ricapitalizzare per €2M e pagamento integrale dei fornitori non aderenti entro 6 mesi grazie all’ingresso di un investitore. La quinta banca (che ha €5M di credito) rifiuta l’accordo. Gamma S.p.A. allora deposita un accordo di ristrutturazione sottoscritto dall’85% delle banche e chiede al tribunale di estenderne gli effetti anche alla quinta banca dissenziente ai sensi dell’art. 61 CCII (accordo ad efficacia estesa). Il tribunale verifica che la banca dissenziente riceverà lo stesso trattamento delle altre (allungamento e partecipazione minoritaria al capitale in pari condizioni) e che l’adesione delle altre supera il 75% del credito finanziario, quindi omologa l’accordo estendendolo anche alla banca contraria. Inoltre, concede una protezione di 90 giorni durante cui sospende il decreto ingiuntivo che quella banca aveva frattanto notificato. L’accordo omologato diventa vincolante: Gamma inizia ad eseguire la ristrutturazione, effettua l’aumento di capitale, paga i fornitori estranei e ottiene la nuova finanza per completare i lavori. Le operazioni compiute (conversione di debiti in azioni, concessione di garanzie su nuovi finanziamenti) non potranno essere attaccate da revocatorie in futuro. Dopo pochi anni, i cantieri vanno a buon fine e Gamma torna in bonis; la quinta banca incassa regolarmente le rate secondo il nuovo piano, pur non avendo inizialmente aderito.

I Piani Attestati di Risanamento

Il piano attestato di risanamento è lo strumento più “snello” e totalmente stragiudiziale previsto dal nostro ordinamento per superare una crisi d’impresa. È disciplinato dall’art. 56 CCII (già art. 67, co. 3, lett. d) l.fall.). Consiste in un piano di risanamento aziendale – cioè un insieme di misure (operazioni sul capitale, rinegoziazioni di debiti, cessioni di asset, ecc.) – che appare idoneo a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa e ad assicurarne la continuità, attestato nella sua ragionevolezza da un professionista indipendente. Se il piano è effettivamente eseguito con successo, l’impresa esce dalla crisi senza bisogno di procedure concorsuali.

La caratteristica fondamentale del piano attestato è che non richiede omologazione da parte di alcuna autorità né prevede votazioni di creditori: è essenzialmente un accordo privato tra il debitore e i suoi creditori (o anche solo alcuni di essi). La formalità principale è l’attestazione da parte di un esperto indipendente, il quale esamina il piano e rilascia una relazione asseverata in cui dichiara che, a suo giudizio, il piano è idoneo a risanare l’impresa e che i dati aziendali sono veritieri. Questa attestazione conferisce credibilità al piano, ma non lo rende vincolante erga omnes (come farebbe un’omologa in tribunale).

Il beneficio legale del piano attestato sta nel fatto che, se poi malauguratamente l’impresa dovesse fallire, gli atti, i pagamenti e le garanzie compiuti in esecuzione del piano non sono soggetti a revocatoria fallimentare. L’art. 56 CCII stabilisce appunto questa esenzione: ciò significa che, ad esempio, se in base al piano l’imprenditore paga un certo fornitore con uno sconto del 20% e successivamente viene dichiarato fallito, il curatore non potrà chiedere indietro quel pagamento come atto preferenziale, purché fosse contemplato dal piano attestato. Questa protezione incentiva sia l’imprenditore che i creditori a impegnarsi nel piano, perché i creditori sanno di poter trattenere quanto ricevuto e l’imprenditore sa di poter compiere atti di risanamento (pagamenti, cessioni) senza il timore che vengano capovolti in futuro.

Di contro, occorre precisare che il piano attestato non vincola i creditori che non lo sottoscrivono: se qualche creditore resta fuori e non è d’accordo, è libero di agire per il recupero integrale del suo credito. Per questo il piano attestato funziona bene quando c’è un consenso pressoché unanime o quando i creditori principali, seppur non tutti, hanno un’evidente convenienza a evitare il fallimento e ad accettare il piano. In genere, infatti, il debitore cercherà di ottenere l’adesione di tutti i creditori più importanti; se alcuni rifiutano, l’efficacia del piano può essere compromessa, perché quei creditori “estranei” potrebbero intraprendere azioni legali paralizzanti (pignoramenti, istanze di fallimento). È quindi uno strumento adatto a crisi iniziali o moderate, in cui l’imprenditore conserva ancora credibilità e fiducia presso i creditori – magari perché ha sempre onorato i pagamenti in passato e ora affronta una difficoltà temporanea – oppure a situazioni in cui i creditori principali hanno convenienza a evitare scenari concorsuali (es: le banche capirebbero di incassare di meno da un fallimento, quindi preferiscono ristrutturare il credito).

Dal punto di vista giuridico, il piano attestato non è un procedimento né un contratto tipico: è piuttosto un insieme di atti. Non esiste un format obbligatorio: normalmente, l’imprenditore redige un documento di piano, individua un professionista attestatore (di regola un commercialista o revisore esperto in risanamenti) che, dopo aver verificato business plan e dati aziendali, rilascia l’attestazione. Dopodiché, il debitore stipula con ciascun creditore aderente dei contratti bilaterali (ad esempio scritture private di rinuncia parziale al credito, piani di rientro dilazionati, accordi di standstill, ecc.) attuativi del piano. Non vi sono “voti” o decreti di omologa: la forza del piano sta tutta nel consenso e nella fiducia. Se, ad esempio, una banca dovesse cambiare idea dopo aver aderito e richiedere immediatamente il rimborso, il piano attestato in sé non la vincola come farebbe un concordato omologato – anche se moralmente e contrattualmente la banca ha preso un impegno e rischierebbe un contenzioso civilistico per inadempimento contrattuale. In sostanza, occorre tenere presente: il piano attestato è basato sulla fiducia reciproca.

Nel corso degli anni si è sviluppata una prassi consolidata sui piani attestati: il CNDCEC ha emanato principi di comportamento per gli attestatori, per uniformare i criteri di redazione delle relazioni. Inoltre, è stata chiarita la linea di confine rispetto agli accordi privati non attestati: solo l’attestazione e la presenza dei requisiti formali (completezza del piano, idoneità a risanare, data certa anteriore all’eventuale fallimento) conferiscono la protezione ex art. 56. Senza attestazione, gli atti compiuti resterebbero soggetti a revocatoria se poi l’impresa fallisse. Quindi, perché il “paracadute” giuridico funzioni, devono sussistere tutti i requisiti: il piano deve essere credibile e completo, l’attestazione deve essere rilasciata da un professionista indipendente, e il tutto deve avere data certa (di solito si procede con l’iscrizione del piano e della relazione presso il registro delle imprese, in busta chiusa, per dare data certa).

In pratica, il piano attestato di risanamento è la prima opzione che un imprenditore dovrebbe considerare quando la crisi è ancora gestibile con il consenso pressoché totale dei creditori e c’è volontà di evitare pubblicità e tribunale. È spesso meno costoso e più flessibile di qualsiasi procedura formale: niente spese di giustizia, niente commissari, massima riservatezza (i concorrenti e il mercato spesso non vengono nemmeno a sapere che l’impresa era in crisi, a differenza di un concordato che è pubblico). L’unico costo significativo è il compenso dell’attestatore e dei consulenti coinvolti, ma anche questo è di solito ben inferiore al costo di un concordato. La flessibilità è totale: si può strutturare il piano su misura delle esigenze, includendo o escludendo creditori, modulando i sacrifici in modo non uniforme (ciò che nel concordato richiederebbe complesse classi e voti, qui può essere fatto con accordi individuali). Ad esempio, si può decidere di pagare per intero i piccoli fornitori per non perderne la fiducia, mentre le banche concedono uno stralcio del 30% sul loro credito: in un concordato sarebbe complicato discriminare in questo modo, nel piano attestato è fattibile con accordi separati.

Esempio pratico – Piano attestato riservato: Delta S.r.l. (il caso già citato prima, impresa metalmeccanica) ha debiti per €3 milioni con 3 banche e €1 milione verso fornitori. L’attività è sana ma la struttura del debito è troppo onerosa nel breve termine, rischiando di portare all’insolvenza per mancanza di liquidità. Delta, su consiglio del suo advisor, elabora un piano di risanamento triennale: i soci apportano €200k di nuovi mezzi propri, l’azienda vende un immobile non strumentale per €500k, e con queste risorse insieme ai flussi di cassa futuri propone di rimborsare integralmente i fornitori nei 6 mesi successivi e di ristrutturare il debito bancario con un allungamento a 5 anni e una riduzione degli interessi. Le 3 banche, vedendo che in caso di fallimento forse recupererebbero il 50%, accettano di firmare un accordo di ristrutturazione bilaterale con Delta: ciascuna accetta nuova scadenza e abbattimento tasso, in cambio di un parziale rimborso immediato con la vendita dell’immobile (il ricavato va pro quota alle banche). I fornitori, che hanno rapporti di lunga data, vengono pagati man mano grazie alla ripresa dell’attività. Un commercialista indipendente attesta che il piano è fattibile e che i dati sono corretti. Nessun altro sa di questa crisi: i competitor di Delta non ne vengono a conoscenza perché nulla è pubblicato ufficialmente. Dopo 2 anni Delta ha eseguito fedelmente il piano, i fornitori sono rimasti al suo fianco e le banche hanno ottenuto rimborso del 70% dei loro crediti (il restante 30% recupereranno nei 3 anni successivi ma con tassi ridotti). Delta è salva e nessuno scandalo reputazionale l’ha colpita. Se invece il piano fosse fallito e Delta fosse finita in liquidazione, i pagamenti fatti ai fornitori e i rimborsi parziali alle banche non sarebbero stati revocabili perché effettuati in esecuzione di un piano attestato regolarmente predisposto.

Come si evince dall’esempio, la potenzialità del piano attestato sta nella sua discrezione e agilità: i concorrenti e il pubblico non vengono a sapere che Delta era in crisi (nessuna iscrizione pubblica finché le cose vanno bene), non vi è intervento del giudice, i costi sono contenuti e c’è massima libertà negoziale. Il rovescio della medaglia è che tutto dipende dalla tenuta degli accordi privati: se anche uno solo degli attori chiave si sfila (una banca che si rimangia la parola, un fornitore che decide di procedere legalmente), il castello rischia di crollare. Ecco perché è uno strumento che funziona prima che la crisi diventi troppo acuta: se la fiducia è già compromessa o ci sono troppi creditori eterogenei con interessi diversi, sarà difficile orchestrare un piano attestato efficace. In tali casi si deve passare a strumenti più “forti” (accordi omologati o concordati) che possano imporre la soluzione anche ai dissenzienti.

In sintesi, il piano attestato di risanamento è l’ideale “piano A” quando c’è ancora tempo e concordia: consente di risolvere la crisi in modo riservato, rapido e flessibile. È spesso il primo tentativo di ristrutturazione. Se funziona, bene; se non funziona, nulla vieta poi di intraprendere un accordo ex art. 57 o un concordato, ma almeno si è tentata la via meno invasiva. Come regola generale: quanto più presto si interviene nella crisi, tanto più semplice lo strumento utilizzabile. Il piano attestato è quello utilizzabile nelle fasi iniziali; se la crisi peggiora e non tutti i creditori collaborano, si sale di livello verso accordi ex 182-bis o concordati preventivi.

Il Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è storicamente la più nota tra le procedure concorsuali di ristrutturazione della crisi d’impresa. Previsto sin dalla Legge Fallimentare del 1942, ha trovato nuova disciplina negli artt. 84 e seguenti del CCII. Si tratta di una procedura giudiziale vera e propria, che consente all’imprenditore di evitare la liquidazione fallimentare presentando ai creditori un piano da sottoporre alla loro approvazione e all’omologazione del tribunale. A differenza degli strumenti fin qui esaminati (allerta, composizione, accordi, piani), il concordato preventivo comporta l’ingresso immediato dell’autorità giudiziaria nel processo di risanamento: la domanda viene presentata in tribunale, viene nominato un Commissario Giudiziale che vigila sull’operato del debitore, i creditori sono chiamati a votare il piano in apposite adunanze, e il giudice omologa il concordato rendendolo vincolante anche per eventuali creditori contrari.

Nonostante la presenza del tribunale, il concordato preventivo non equivale al fallimento: è concepito come uno strumento di composizione negoziale della crisi, sebbene gestito in sede giudiziaria. L’imprenditore generalmente mantiene la gestione della propria azienda (“debtor in possession”), seppur sotto osservazione, e punta a risolvere la crisi mediante un piano che preveda o la ristrutturazione del debito con continuazione dell’attività (concordato in continuità) oppure la liquidazione dei beni in maniera concordata (concordato liquidatorio), anziché tramite liquidazione giudiziale forzosa.

Il CCII ha innovato vari aspetti del concordato preventivo, recependo i principi della Direttiva Insolvency. Tra le principali novità: l’introduzione del “cram-down” interclassi (omologazione anche senza il voto favorevole di tutte le classi, in certi casi), la distinzione più netta tra concordato in continuità e concordato liquidatorio con requisiti specifici, la previsione di concordati semplificati (di cui già abbiamo parlato) e di nuovi strumenti come il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO) che affianca il concordato (lo tratteremo a parte). Ma andiamo con ordine.

Concordato in continuità aziendale

Un concordato in continuità aziendale è essenzialmente un piano di risanamento dell’impresa che prevede la prosecuzione (totale o parziale) dell’attività aziendale, e che viene sottoposto all’approvazione dei creditori e del tribunale. La continuità può essere diretta (l’azienda resta in capo al debitore e continua la gestione durante e dopo il concordato) oppure indiretta (ad esempio, si prevede la cessione o il conferimento dell’azienda a un investitore che la prosegua). L’idea di fondo è che mantenere in vita il “complesso aziendale” generi più valore per i creditori rispetto alla sua liquidazione spezzettata. Il concordato in continuità è quindi uno strumento orientato al salvataggio: salva l’impresa (o parte di essa), i relativi posti di lavoro, l’avviamento e il valore economico generato dalla prosecuzione.

Nel concordato in continuità, il piano proposto ai creditori di solito prevede che una parte dei debiti venga ristrutturata (es. pagata in misura ridotta o dilazionata) utilizzando i flussi economici generati dalla prosecuzione dell’attività. Ad esempio, il piano potrebbe prevedere che l’azienda, grazie alla continuità operativa, produca utili nei prossimi 5 anni con cui pagare il 60% dei crediti chirografari; oppure che un investitore immetta nuova finanza per sostenere il business e pagare parzialmente i debiti, ecc. Il CCII richiede che il piano in continuità assicuri ai creditori un soddisfacimento non inferiore rispetto alla liquidazione dell’azienda (principio del “miglior soddisfacimento alternativo” già citato). Inoltre, vi sono specifiche tutele per particolari categorie di creditori: ad esempio, i creditori che rimangono fornitori dell’azienda durante il concordato (c.d. creditori strategici in prededuzione) devono essere pagati integralmente per le forniture correnti; i lavoratori devono essere soddisfatti integralmente per le retribuzioni maturate, etc.

Una novità importante apportata dalla riforma 2022 è la possibilità di classificare i creditori in classi e, qualora una classe voti contro, il tribunale può ugualmente omologare il concordato (cram-down) purché siano rispettati alcuni criteri: almeno un’altra classe di pari rango abbia votato a favore e i creditori dissenzienti non ricevano meno di quanto otterrebbero in liquidazione (c.d. Absolute Priority Rule). Questo meccanismo, introdotto con il correttivo 2024, permette di superare l’opposizione di minoranze che potrebbero bloccare un concordato in continuità altrimenti valido. Le prime pronunce giurisprudenziali in materia di cram-down interclassi hanno applicato la norma favorevolmente all’omologazione forzata quando le condizioni di legge sono rispettate.

Da notare che nel concordato in continuità non c’è una soglia minima legale di pagamento dei creditori chirografari (a differenza del concordato liquidatorio, come vedremo, che prevede almeno il 20% salvo esimenti). Tuttavia, i tribunali valutano la fattibilità economica del piano e la sua meritevolezza. Ad esempio, la Cassazione (seppur in tema di sovraindebitamento) ha affermato che un piano che preveda il pagamento “simbolico” del 3-4% ai creditori non può essere omologato, perché contrario ai principi di ragionevolezza e meritevolezza. Tale indicazione, Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2022 n. 28013, è stata richiamata come criterio orientativo anche per i concordati minori e, in generale, per valutare la congruità delle proposte nelle procedure di risanamento. In pratica, offrire percentuali estremamente basse potrebbe essere ritenuto abusivo e non conforme all’obiettivo di soddisfazione dei creditori.

Concordato preventivo liquidatorio

Il concordato liquidatorio si ha quando purtroppo non vi sono prospettive di risanamento dell’impresa come going concern, ma si vuole comunque evitare la liquidazione giudiziale standard offrendo ai creditori una soluzione liquidativa concordata. In un concordato liquidatorio, il piano consiste nella vendita di tutti (o parte) dei beni dell’impresa e nella distribuzione del ricavato ai creditori secondo le regole di preferenza. In altri termini, l’azienda cessa l’attività e viene smantellata, ma ciò avviene nell’ambito di un concordato proposto dal debitore, anziché mediante fallimento. I vantaggi rispetto al fallimento possono includere: tempi più brevi di realizzo, maggior controllo da parte del debitore (che può avanzare lui la proposta su come liquidare e come ripartire), eventuali apporti di terzi (es. i soci che mettono nuova finanza per aumentare il recupero dei creditori) e, non ultimo, un minore stigma per l’imprenditore (che evita la qualifica di “fallito”).

La legge però pone dei paletti per ammettere concordati puramente liquidatori, proprio per evitare che vengano usati in maniera elusiva (un tempo l’uso opportunistico del concordato per scopi liquidatori era visto con sfavore). Nel CCII è stabilito che il concordato liquidatorio può essere omologato solo se ai creditori chirografari viene assicurato il pagamento di almeno il 20% del loro credito, oppure – se si offre meno del 20% – purché vi sia un apporto di risorse esterne (denaro o beni nuovi) per almeno il 10% dell’attivo oggetto di liquidazione. Questo incentivo serve a fare in modo che il concordato liquidatorio dia comunque qualcosa in più ai creditori rispetto a un fallimento standard. Ad esempio, se un imprenditore vuole proporre un concordato dove i chirografari prendono solo il 10%, dovrà garantire che almeno la metà di quel 10% deriva da risorse esterne (non dal realizzo dei beni su cui i creditori contano già). Spesso ciò avviene con un contributo in denaro dei soci. Il CCII ha chiarito cosa si intende per risorse esterne computabili in quel 10%: ad esempio, i versamenti dei soci effettuati post piano o le rinunce a crediti intragruppo da parte di società collegate sono considerati apporti esterni validi ai fini del calcolo. È importante notare che queste soglie (20% e 10%) non si applicano se invece nel concordato c’è continuità aziendale (in quel caso, come detto, nessuna soglia fissa).

Per il resto, il concordato liquidatorio segue regole analoghe: il debitore può prevedere di liquidare i beni tramite il commissario, oppure di cederli a un assuntore (un soggetto terzo che si incarica di pagare i creditori rilevando l’attivo). I creditori votano il piano e, se approvato e omologato, i beni vengono liquidati e il ricavato distribuito.

Nel concordato liquidatorio, a differenza di quello in continuità, di norma l’impresa cessa l’attività (anche se la legge consente che l’attività continui in misura funzionale alla migliore realizzazione dell’attivo: ad esempio, si può proseguire temporaneamente un cantiere per venderlo finito anziché a metà).

Procedimento: dalla domanda al voto e all’omologazione

Il procedimento di concordato preventivo può essere riassunto in alcune fasi chiave:

  • Domanda di concordato: L’imprenditore presenta ricorso al tribunale contenente la proposta di concordato, il piano dettagliato e la relativa documentazione (elenco creditori, inventario beni, bilanci ultimi 3 anni, una relazione di un professionista attestatore che certifichi veridicità dati e fattibilità del piano, ecc.). È possibile anche presentare una domanda di concordato “in bianco” o con riserva (art. 44 CCII), cioè un ricorso con la sola intenzione di accedere al concordato, rinviando di qualche tempo la presentazione del piano dettagliato, al fine di ottenere intanto le misure protettive. Questa opzione viene spesso usata per guadagnare tempo se il piano non è ancora pronto ma occorre bloccare subito i creditori. Tuttavia, il CCII ha cercato di limitarne l’abuso, imponendo termini stringenti per il deposito del piano definitivo.
  • Ammissione e apertura della procedura: Il tribunale verifica la completezza della documentazione e l’ammissibilità giuridica della proposta (es: verifica che siano rispettati i requisiti di legge, come la percentuale minima se liquidatorio). Se tutto è in regola, emette un decreto di apertura del concordato preventivo. Nomina un Commissario Giudiziale (figura chiave di controllo e informazione) e fissa la data adunanza dei creditori per il voto. Da quel momento, l’impresa entra in procedura: l’imprenditore conserva l’amministrazione dei beni ma sotto vigilanza del Commissario; gli atti di straordinaria amministrazione richiedono autorizzazione giudiziale. Le azioni esecutive dei creditori restano sospese (protezione automatica).
  • Fase intermedia e attività del Commissario: Il Commissario Giudiziale raccoglie le dichiarazioni di credito dei creditori (predispone l’elenco dei crediti ammessi al voto), redige una relazione dettagliata sulla causa della crisi e sulla valutazione del piano (esprime un giudizio sulla fattibilità e sulla convenienza per i creditori), e la invia ai creditori prima del voto. Il Commissario vigila che l’imprenditore non compia atti lesivi nel frattempo.
  • Adunanza dei creditori e voto: Alla data fissata (spesso diversi mesi dopo l’apertura), si tiene l’adunanza dei creditori dinanzi al giudice delegato. I creditori possono aver già espresso il loro voto per iscritto. Discutono il piano, possono porre domande all’imprenditore e al Commissario, ed esprimono il voto di approvazione o meno. Il CCII prevede che il concordato sia approvato se raggiunge la maggioranza dei crediti ammessi al voto. In caso di suddivisione in classi, serve anche la maggioranza per classi (la maggioranza dei crediti in almeno la metà + una delle classi). Con la riforma, come detto, non è più necessario il voto favorevole di tutte le classi perché è possibile il cram-down se certe classi votano sì e altre no, a condizione di rispettare le regole di priorità. I creditori pubblici (Fisco/INPS) votano anch’essi, ed è prevista la possibilità che, se votano no ma l’offerta del debitore è migliore di quella ottenibile dalla liquidazione, il tribunale possa omologare lo stesso (cram-down fiscale). Questo principio, già affermato dalla Cassazione in passato, è ora normativizzato.
  • Omologazione: Se la proposta ottiene le maggioranze richieste, il tribunale procede all’omologazione del concordato. Se ci sono opposizioni (creditori contrari che contestano la legittimità o convenienza), vengono discusse. Il giudice verifica il rispetto di tutte le norme (es. che i privilegiati siano soddisfatti almeno per l’eventuale percentuale di capienza, che eventuali cause di prelazione non siano violate se non con consenso, che il piano sia fattibile). Riguardo alla fattibilità, la giurisprudenza distingue tra fattibilità giuridica (rispetto delle norme, es. niente clausole contrarie a leggi) che è sempre oggetto di controllo del giudice, e fattibilità economica (realizzabilità pratica del piano) su cui il controllo giudiziario è più limitato, dovendosi fermare a un giudizio di ragionevolezza e non di merito imprenditoriale. Il CCII ha recepito tale distinzione: il tribunale in sede di omologa può sindacare la fattibilità economica solo se il piano appare manifestamente irrealizzabile, altrimenti prevale il giudizio dei creditori. Se il giudice ritiene soddisfatte tutte le condizioni (compresa, in caso di cram-down, la regola di priorità assoluta per la classe dissenziente), omologa il concordato con decreto.

Da quel momento, il concordato diviene vincolante per tutti i creditori anteriori, anche quelli che non hanno votato o che hanno votato contro. Il debitore è tenuto ad eseguire il piano sotto la sorveglianza eventuale di un Liquidatore Giudiziale (se nominato per vendere i beni, soprattutto nei concordati liquidatori) o del Commissario stesso (in caso di continuità). A esecuzione avvenuta, il debitore è liberato dai debiti secondo quanto previsto dal piano (ottenendo l’esdebitazione concorsuale per la parte falcidiata). La procedura si chiude.

Casi particolari e giurisprudenza sul concordato preventivo

La prassi del concordato preventivo è ultradecennale e la giurisprudenza ha affrontato negli anni innumerevoli questioni. Con l’entrata in vigore del CCII, molti principi consolidati sono stati recepiti normativamente, ma vi sono anche aspetti innovativi su cui si sono avute le prime sentenze in questi ultimi anni.

  • Cram-down interclassi: come accennato, subito dopo la riforma del 2024 alcuni tribunali hanno applicato la nuova norma del cram-down sulle classi dissenzienti. Ad esempio, ipotizzando un concordato in continuità con due classi di creditori di cui una minoritaria vota contro, oggi il tribunale può comunque omologare il piano se ritiene rispettata la Absolute Priority Rule per la classe contraria (cioè che non riceva meno di quanto le spetterebbe secondo l’ordine legale delle prelazioni) e se almeno un’altra classe di pari grado ha votato sì. Le prime pronunce hanno mostrato un orientamento favorevole all’omologazione forzata quando la classe dissenziente non avrebbe ottenuto di più in caso di fallimento e almeno un’altra classe di pari rango ha detto sì.
  • Transazione fiscale nel concordato: anche sul fronte dei debiti fiscali ci sono sviluppi giurisprudenziali importanti. La Cassazione aveva già chiarito (prima della riforma) che il tribunale può omologare il concordato nonostante il voto negativo del Fisco se l’offerta fatta all’Erario è più vantaggiosa rispetto alla liquidazione fallimentare. Questo principio di “cram-down fiscale” – applicato dai tribunali di merito – è stato ora in parte codificato nel CCII, che espressamente consente al giudice di prescindere dal diniego dell’Erario in presenza di convenienza comprovata (art. 48, richiamando la disciplina degli accordi di ristrutturazione per crediti fiscali). In pratica, oggi il Fisco non ha più potere di veto assoluto: se il concordato gli offre almeno quanto il fallimento (e c’è l’attestazione di convenienza), il giudice può imporglielo.
  • Risorse esterne e soglie: la giurisprudenza ha anche chiarito cosa si intende per risorse esterne nel famoso requisito del 10% per i concordati liquidatori. Ad esempio, sono considerati apporti esterni validi i versamenti dei soci effettuati post-piano (anche sotto forma di finanziamenti postergati) e le rinunce a crediti infragruppo da parte di società del gruppo, in quanto migliorano la condizione dei creditori senza intaccare l’attivo su cui essi già vantano diritti. Queste linee interpretative – inizialmente giurisprudenziali – sono ora state recepite nella norma o comunque consolidate.
  • Fattibilità del piano: un tema sempre dibattuto è il limite del controllo di fattibilità da parte del tribunale. L’orientamento consolidato (Cass. SS.UU. 1521/2013 e succ.) distingue tra fattibilità giuridica (assenza di clausole contra legem, rispetto di norme inderogabili) che è oggetto di pieno scrutinio giudiziale, e fattibilità economica (pronostico sul successo del piano) che spetta primariamente ai creditori valutare, salvo piani manifestamente irrealistici. Il CCII ha formalizzato che il giudice deve verificare la fattibilità economica con un controllo di ragionevolezza, senza spingersi in un sindacato di merito troppo penetrante. Così, ad esempio, se un piano prevede la vendita di un immobile a un certo prezzo, il giudice non deve sostituirsi al mercato nel dire se quel prezzo è effettivamente ottenibile, ma può non omologare se quel prezzo appare chiaramente sovrastimato e privo di riscontri (manifestamente irrealizzabile).
  • Altri aggiustamenti normativi: Il Codice ha risolto anche alcune criticità operative del passato. Ad esempio, ha fornito una definizione più puntuale di “valore di liquidazione” (rilevante per valutare la convenienza per i creditori nella comparazione col fallimento), specificando che si calcola al netto dei costi di realizzo e tenendo conto dei tempi di liquidazione. Inoltre, ha esteso ex lege la prededuzione a crediti sorti “in funzione” del concordato (compensi dei professionisti, finanziamenti ponte autorizzati), cosa che già avveniva in prassi ma ora è sancita (art. 6 CCII).

In sintesi, il concordato preventivo si conferma uno strumento complesso ma flessibile. Le riforme recenti lo hanno ulteriormente perfezionato per bilanciare meglio l’interesse al recupero dell’impresa con la tutela dei creditori. Rimane un percorso che richiede elevata competenza nella preparazione e gestione: è necessario predisporre piani credibili, condurre trattative con i creditori (spesso anticipatamente, per assicurarsi i voti) e agire sempre con trasparenza. Dal punto di vista del debitore, il concordato è spesso l’ultima spiaggia prima del fallimento: offre la chance di risolvere la crisi in modo ordinato, ma se fallisce vi è la liquidazione giudiziale. Bisogna quindi intraprenderlo con serietà e solo con concrete prospettive di riuscita.

Esempio pratico – Concordato in continuità: Alfa S.p.A., azienda manifatturiera con 100 dipendenti, ha debiti per €10 milioni (8 verso banche garantiti da ipoteca su capannoni, 2 verso fornitori chirografari). L’azienda ha ancora mercato e ordini, ma l’eccesso di debito la rende non sostenibile. Alfa presenta un concordato in continuità: propone di proseguire l’attività, cedere un ramo secondario per incassare €2M, ottenere un nuovo finanziamento di €1M da un investitore esterno e destinare i flussi di cassa futuri al pagamento dei creditori nell’arco di 5 anni. Il piano prevede pagamento integrale (100%) dei debiti verso banche in 5 anni (grazie anche alla vendita del ramo e al nuovo finanziamento), e pagamento al 40% dei fornitori chirografari in 5 anni. È prevista la continuità operativa con mantenimento di tutti i posti di lavoro. Il piano viene attestato come fattibile da un esperto indipendente. I creditori votano: le banche (classe privilegiata) approvano, i fornitori (classe chirografaria) approvano quasi all’unanimità salvo uno piccolo contrario. Il tribunale omologa il concordato, rilevando che anche quel fornitore otterrà 40% (più di quanto avrebbe avuto in fallimento, stimato 20%) e quindi può essere vincolato nonostante il dissenso (applicando di fatto il cram-down di classe). Alfa S.p.A. continua la produzione durante il concordato sotto controllo del Commissario; esegue la cessione del ramo incassando €2M, l’investitore versa €1M in forma di prestito prededucibile, e nei 5 anni successivi, con i margini generati, paga tutte le rate dovute. Al termine, l’azienda è risanata: il debito bancario è azzerato, i fornitori hanno recuperato il 40% e Alfa può tornare sul mercato in bonis. I dipendenti hanno conservato il lavoro. Se Alfa non fosse riuscita a far ciò, sarebbe presumibilmente fallita con perdita totale per i fornitori e forte impatto sociale.

Esempio pratico – Concordato liquidatorio: Beta S.r.l., impresa commerciale, ha subito perdite gravissime e ha già cessato l’attività. Ha debiti per €5 milioni verso vari fornitori e banche chirografarie, e come attivo solo un capannone del valore stimato di €2 milioni e un magazzino del valore di €0,5 milioni. I soci di Beta offrono di apportare ulteriori €200.000 a beneficio dei creditori. Beta propone un concordato preventivo liquidatorio: tutto l’attivo (capannone + magazzino) sarà venduto, ricavando forse €2,5 milioni, a cui si aggiungeranno €200k dei soci, per un totale di €2,7 milioni da distribuire ai chirografari, pari a circa il 54% dei loro crediti. Non essendoci privilegiati (i pochi dipendenti sono stati pagati), il piano prevede il 54% ai chirografari – ben sopra il minimo 20%. I creditori approvano (ovviamente preferiscono il 54% subito che un fallimento con incognite). Il concordato viene omologato. Un Liquidatore giudiziale viene nominato e procede a vendere il capannone (il mercato conferma €2M) e il magazzino (€0,5M) – incassando €2,5M – e riscuote l’apporto di €200k dei soci. Distribuisce quindi €2,7M ai creditori, che ottengono effettivamente circa 54%. Beta S.r.l. viene poi cancellata e i soci beneficiano dell’esdebitazione per eventuali garanzie prestate. In questo caso il concordato liquidatorio ha permesso di evitare la procedura fallimentare, con un buon livello di soddisfacimento grazie anche al contributo dei soci (che, di fatto, ha garantito quell’extra 10% per superare la soglia) e alla maggiore rapidità della vendita (forse in fallimento il capannone sarebbe stato svenduto nel tempo a meno valore). Per i creditori, aver votato il concordato è stato conveniente; per i soci, evitare il fallimento ha significato chiudere la vicenda più velocemente e senza le restrizioni personali conseguenti al fallimento.

Il Concordato “Semplificato” per la Liquidazione del Patrimonio

Tra le innovazioni apportate dal D.L. 118/2021 (conv. L.147/2021) e poi inserite nel CCII vi è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Si tratta di una procedura concorsuale speciale, attivabile esclusivamente quando una composizione negoziata della crisi si conclude senza accordo, ma l’imprenditore intende comunque evitare la liquidazione giudiziale offrendo ai creditori una soluzione liquidatoria concordataria.

Le peculiarità principali di questo concordato “semplificato” sono:

  • Accesso limitato nel tempo e nei presupposti: solo l’imprenditore che ha esperito una composizione negoziata senza esito positivo può accedervi. Egli deve presentare la domanda entro 60 giorni dall’archiviazione della composizione (cioè dalla comunicazione della relazione finale negativa dell’esperto). Questo garantisce che lo strumento resti un’eccezione legata a un percorso negoziale fallito e non sia utilizzato liberamente da chi non ha tentato un risanamento.
  • Oggetto esclusivamente liquidatorio: il piano di concordato semplificato può prevedere solo la liquidazione dei beni del debitore e la distribuzione del ricavato tra i creditori. Non è ammessa alcuna continuità aziendale: l’impresa è destinata a cessare. In pratica è un concordato liquidatorio “puro”, sebbene semplificato nelle forme (come si dirà). Ciò riflette la sua natura: viene usato quando ogni ipotesi di prosecuzione è tramontata, ma almeno si vuole regolare la liquidazione in modo concordato.
  • Mancata votazione dei creditori: questo è l’aspetto più distintivo. Nel concordato semplificato i creditori non votano sulla proposta. Il piano viene sottoposto direttamente al tribunale per l’omologazione, previa convocazione dei creditori solo per essere eventualmente ascoltati: possono presentare osservazioni od opposizioni, ma non c’è una votazione con maggioranze. Si elimina quindi l’intera fase di voto che nel concordato preventivo ordinario è essenziale. Questo rende la procedura più rapida e snella (niente adunanza né conteggio dei voti), ma anche più “dura” per i creditori, che subiscono di fatto la decisione. Di conseguenza, la responsabilità di valutare la convenienza della proposta ricade interamente sul tribunale (sentite le parti).
  • Assenza di alcuni organi concorsuali: il legislatore definisce “semplificato” questo concordato anche perché non prevede organi concorsuali ordinari come il Commissario Giudiziale né l’attestatore indipendente. Non essendoci votazione, non c’è bisogno di un commissario che raccolga i voti o di un’attestazione di fattibilità (già l’esperto della composizione ha espresso un parere nella sua relazione finale). Il controllo sulla veridicità dei dati e sulla fattibilità del piano è affidato quindi alla precedente attività dell’esperto e al giudizio del tribunale. In particolare, il tribunale tiene conto della relazione finale dell’esperto di composizione e del suo parere sui presumibili risultati liquidatori. Normalmente, l’imprenditore allega alla proposta di concordato semplificato proprio quella relazione e ulteriori elementi per dimostrare che la soluzione offerta ai creditori è la migliore possibile nelle circostanze date.
  • Nomina di un liquidatore giudiziale post-omologa: se il concordato semplificato viene omologato, il tribunale nomina un liquidatore giudiziale (solitamente un professionista) che si occuperà di vendere i beni secondo il piano e distribuire il ricavato. Anche qui, non c’è un Commissario nella fase di voto (che manca), ma viene nominato direttamente il liquidatore per l’esecuzione post-omologa. Il liquidatore agisce similmente a un curatore fallimentare, ma in base al piano concordatario.

Procedura in pratica: l’imprenditore deposita un ricorso spiegando perché la composizione non ha prodotto soluzioni e formulando la propria proposta liquidatoria. Ad esempio, indicando quali beni saranno venduti e a quale valore stimato, e quale percentuale si prevede di pagare ai creditori (ad es. “i creditori chirografari riceveranno il 30%”). È comunque richiesto il rispetto delle regole di trattamento dei creditori analoghe a quelle di un concordato ordinario: vanno rispettate le prelazioni (un chirografario non può essere pagato prima di un privilegiato salvo rinuncia di quest’ultimo), va garantito il best interest test (i creditori non devono ricevere meno di quanto otterrebbero in fallimento), ecc. Quindi, pur senza voto, il contenuto del piano dev’essere equo e conforme alla legge. Il tribunale, ricevuta la domanda, apre la procedura semplificata e convoca un’udienza in cui i creditori possono comparire per esprimere le loro contestazioni (possono depositare memorie opponendosi). Se uno o più creditori ritengono la proposta dannosa, presentano opposizione. Il tribunale valuta le opposizioni ma ha il potere decisionale ultimo: può omologare il concordato anche in caso di dissenso, se ritiene che la proposta sia equa e convenga ai creditori rispetto all’alternativa del fallimento. In pratica, il giudice effettua un giudizio di merito sulla convenienza per i creditori, ruolo che nel concordato ordinario spetterebbe ai creditori stessi col voto. Se la proposta non supera questo vaglio (perché magari i creditori avrebbero più nel fallimento), l’omologa viene negata e solitamente segue la dichiarazione di liquidazione giudiziale (fallimento).

Una volta omologato il concordato semplificato, esso produce effetti analoghi a un concordato ordinario: i debiti sono definiti secondo la proposta e, ad esecuzione completata, l’imprenditore è liberato dai debiti residui verso i creditori concorsuali (fatti salvi i casi di esclusione dall’esdebitazione, es. debiti personali verso Fisco se soggetto non fallibile etc.). La funzione principale di questo strumento è evitare il costo e la lunghezza di un fallimento quando ormai l’esito liquidatorio è scontato, fornendo però ai creditori una soddisfazione magari leggermente migliore e più rapida. Dal lato dell’imprenditore, è vantaggioso perché gli consente di chiudere la vicenda più velocemente e con minor disonore (è pur sempre un concordato, non un fallimento).

Abbiamo già visto un esempio concreto con EcoBuild S.r.l. nell’ambito degli esiti della composizione negoziata. EcoBuild, dopo la composizione fallita, offrì un concordato semplificato proponendo la vendita dei suoi beni e pagò i creditori chirografari al 30%. Alcuni creditori contestarono che il 30% fosse basso, ma il giudice valutò che nessuno aveva prospettato offerte migliori e che in un fallimento forse avrebbero ottenuto meno, quindi omologò comunque il concordato. I creditori, in pochi mesi, ricevettero quel 30%; l’impresa venne liquidata e cancellata; l’imprenditore poté poi chiedere l’esdebitazione personale per i debiti rimasti (ad esempio, per eventuali fideiussioni). Questo caso mostra proprio la logica del concordato semplificato: perché fare un fallimento di anni se si può chiudere tutto in mesi con un risultato che, seppur modesto (30%), è comunque il migliore realisticamente ottenibile?

In conclusione, il concordato semplificato è un’opportunità straordinaria e limitata: può salvarci da un fallimento se, tentata la via negoziale senza successo, almeno c’è la possibilità di presentare una soluzione finale dignitosa. Per i creditori è uno strumento accettabile quando sanno che la torta è quella che è e un fallimento non la farà magicamente crescere, anzi. Dal lato dell’imprenditore-debitore, utilizzare il concordato semplificato significa quantomeno prendere l’iniziativa invece di subire passivamente il fallimento, e può permettere di chiudere i conti in modo più rapido e con effetti personali meno pesanti.

Il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)

Tra le novità più rilevanti apportate dal recepimento della Direttiva UE 2019/1023 (Insolvency) vi è l’introduzione nel nostro ordinamento del Piano di Ristrutturazione soggetto ad Omologazione, comunemente abbreviato PRO. Esso è disciplinato dal Capo I-bis del Titolo IV CCII (artt. 64-bis e seguenti) e rappresenta un nuovo strumento concorsuale che consente al debitore di proporre ai creditori un piano di risanamento con caratteristiche di estrema flessibilità, a patto di ottenere l’approvazione delle varie classi di creditori e l’omologazione del tribunale.

Il PRO si presenta come una sorta di “concordato preventivo su misura”. La sua caratteristica distintiva è la possibilità di derogare alle regole legali di graduazione dei crediti (par condicio creditorum e rispetto dei privilegi ex art. 2740-2741 c.c.), distribuendo il valore generato dal piano in modo non strettamente proporzionale ai gradi di privilegio, bensì secondo quanto concordato nelle classi di creditori. In altre parole, nel PRO il debitore può proporre che alcuni creditori privilegiati non vengano soddisfatti integralmente, oppure che creditori di grado inferiore ricevano più di creditori di grado superiore – situazioni normalmente vietate a meno di consenso unanime nei concordati ordinari. Questa elasticità è consentita a condizione che il piano sia approvato, a maggioranza, da tutte le classi di creditori che il debitore ha formato. Infatti, è obbligatorio dividere i creditori in classi omogenee (per posizione giuridica e interessi), e il piano deve essere approvato dalla maggioranza (in valore) dei crediti in ciascuna classe. Solo così il tribunale potrà omologarlo. Diversamente dal concordato preventivo, dove è sufficiente la maggioranza complessiva dei crediti e di classi (e ora col cram-down possono essercene di dissenzienti), nel PRO serve il consenso di tutte le classi (beninteso, la maggioranza interna di ciascuna, non l’unanimità individuale). Significa che ogni categoria di creditori coinvolta deve essere persuasa dal piano.

Per questo il PRO è spesso descritto come un concordato “consensuale”: è pur sempre un procedimento concorsuale dinanzi a un giudice, ma richiede ampio accordo dei creditori, quasi come un accordo negoziale. In assenza di tale accordo (cioè se una o più classi votano contro), il PRO non può essere omologato – il CCII non prevede un cram-down interclassi nel PRO, a differenza che nel concordato preventivo. (Va notato che la Direttiva UE avrebbe consentito l’introduzione di meccanismi di cram-down interclassi anche per i piani di ristrutturazione, ma l’Italia ha scelto di implementare il cram-down nel concordato preventivo e non nel PRO).

Perché scegliere il PRO? In fondo sembra più “esigente” del concordato (serve l’accordo di tutti i tipi di creditori coinvolti). La ragione è che, grazie alla possibilità di deviare dalle regole di priorità legali, il PRO consente soluzioni creative che un concordato tradizionale non permetterebbe se non con elevati rischi giuridici. Ad esempio, in un PRO il debitore potrebbe proporre di pagare parzialmente i creditori ipotecari e contemporaneamente pagare integralmente alcuni creditori chirografari strategici (fornitori essenziali), se ciò è funzionale alla prosecuzione dell’attività – senza dover garantire agli ipotecari il 100% prima di dare qualcosa ai chirografi, come invece imposto dalla par condicio. Ovviamente, una proposta del genere dovrà convincere sia gli ipotecari (che accetterebbero una falcidia) sia i fornitori (che voterebbero sì nella loro classe perché vengono pagati integralmente): se tutte le classi sono d’accordo, il piano può essere omologato e attuato. In un concordato preventivo normale, una disparità simile sarebbe stata respinta per violazione dell’ordine di prelazione, salvo improbabile consenso individuale di tutti i privilegiati a essere falcidiati a vantaggio dei chirografari.

In pratica, il PRO appare utile in situazioni dove l’imprenditore deve riequilibrare radicalmente la struttura finanziaria dell’azienda, magari tagliando pesantemente il debito bancario privilegiato e garantendo invece maggiori prospettive di recupero a fornitori commerciali o nuovi finanziatori. Oppure dove occorre coinvolgere anche i soci o terzi in operazioni particolari (ad es. conversione di debiti in equity) che alterano le priorità di rimborso ordinarie. Con il PRO questo si può fare, purché si convincano le parti interessate: l’approccio è “se tutti i gruppi rilevanti sono d’accordo, perché il diritto dovrebbe impedirlo?”. Il PRO fornisce quindi un quadro legale a soluzioni tailor-made, ma lascia il potere in mano ai creditori: non c’è imposizione giudiziale in caso di dissenso, il piano deve piacere a tutte le classi.

Procedimento PRO: La procedura inizia con il deposito da parte del debitore di un ricorso contenente il piano, la proposta e tutta la documentazione analoga a quella di un concordato preventivo (elenco creditori, inventario attivo, attestazione di un professionista, ecc.). Anche nel PRO è necessaria l’attestazione di un professionista indipendente sulla fattibilità e veridicità dei dati. È obbligatoria la classificazione dei creditori in classi omogenee. Il tribunale, verificati i presupposti, ammette la procedura e nomina un Commissario Giudiziale (in questo il PRO è simile a un concordato preventivo). Si svolge poi la votazione nelle classi: i creditori di ciascuna classe votano e serve la maggioranza in valore dei crediti per l’approvazione di quella classe. Se tutte le classi approvano a maggioranza, si passa all’omologazione; se anche una sola classe non raggiunge la maggioranza, il PRO non può essere omologato (il debitore potrebbe, a quel punto, convertire la domanda in un concordato preventivo ordinario per tentare quell’altra via, secondo la legge).

Durante la procedura PRO, analogamente al concordato, il debitore rimane in possesso dell’azienda (salvo casi eccezionali di nomina di amministratore giudiziale se vi sono gravi irregolarità) e opera sotto la supervisione del Commissario. Possono essere concesse misure protettive per bloccare le azioni esecutive dei creditori durante il periodo di trattativa e voto, similmente al concordato.

L’omologazione del PRO vede il tribunale verificare la legalità e la fattibilità e, in particolare, il rispetto di una condizione imposta dal CCII: che i diritti dei lavoratori vengano soddisfatti integralmente entro 30 giorni dall’omologazione. Questa clausola protegge dipendenti e collaboratori dall’essere penalizzati nel PRO (non si possono dilazionare troppo i loro crediti). Se tutte le classi hanno approvato e il piano rispetta le condizioni di legge, il tribunale omologa il PRO, che diviene vincolante per tutti i creditori di quelle classi.

In caso di esito negativo (una o più classi contrarie), come detto il PRO non può procedere. Il debitore, se vuole evitare il fallimento, dovrà valutare di passare ad altro strumento (concordato preventivo tradizionale, ad esempio, sfruttando magari il cram-down che lì è possibile). Il CCII prevede una certa fungibilità: la domanda di PRO può essere convertita in domanda di concordato in corso di procedura, per non perdere definitivamente l’opportunità di una soluzione concordataria se il PRO fallisce per poco.

Differenze riassuntive PRO vs Concordato Preventivo:

  • Il PRO richiede il consenso di tutte le classi (seppur a maggioranza interna). Il concordato no: basta la maggioranza complessiva e ora, con il cram-down, può superare anche il dissenso di alcune classi.
  • Nel PRO non valgono i limiti del 20% e del 10% (minimo chirografi e apporto esterno) anche se il piano è liquidatorio. Nel concordato tradizionale invece un piano liquidatorio deve rispettare quei minimi (salvo continuità). Ciò significa che col PRO si potrebbe proporre di pagare anche meno del 20% ai chirografari senza apporti esterni, se questo è accettato dai creditori in classi (magari perché i privilegiati subiscono un sacrificio per lasciare qualcosa ai chirografi). Insomma, cadono certi automatismi di legge per lasciare spazio alla negoziazione.
  • Nel PRO è possibile violare la par condicio se tutti gli interessati sono d’accordo. Nel concordato ordinario si può alterare la graduazione solo con il consenso individuale di eventuali creditori prelatizi degradati (o con classi ad hoc e maggioranze).
  • Il PRO è pensato come strumento di soluzione concordata con ampio consenso, quindi paradossalmente meno conflittuale. Il concordato preventivo invece mette in conto la possibilità di uno scontro con minoranze (ed infatti prevede il meccanismo per vincerlo, il cram-down giudiziale).
  • Nel PRO, essendo innovativo e meno sperimentato, c’è ancora poca prassi applicativa (dal 2022 in poi) e richiede molta abilità negoziale: il debitore deve orchestrare un accordo multi-classe convincendo soggetti con interessi diversi a votare a favore pur sapendo che stanno accettando delle deroghe ai loro diritti normali.

Esempio pratico – Uso del PRO: Sigma S.p.A. è una società immobiliare in profonda crisi, con debiti verso 3 banche ipotecarie (A, B, C) e vari fornitori chirografari, oltre a debiti fiscali per IVA arretrata. L’unico attivo rilevante è un grande immobile (un palazzo) ipotecato a garanzia delle banche. Sigma trova un investitore interessato a rilevare l’immobile per un prezzo però inferiore al totale dei crediti ipotecari: supponiamo €50 milioni a fronte di ipoteche per €70M. Se vendesse e pagasse le banche, resterebbero €20M di scoperto. In un concordato tradizionale, Sigma dovrebbe comunque destinare tutto ai privilegiati fino a capienza (pagando magari ~70% a loro e zero ai chirografari), oppure convincere tutte le banche a rinunciare a una parte (improbabile all’unanimità). Con un PRO, Sigma può proporre: vendita dell’immobile a €50M, da ripartire così – €45M alle banche (che accettano un taglio complessivo del 36%, prendendo circa 64% del loro credito), €5M destinati a pagare integralmente i fornitori chirografari e i debiti IVA (così da evitare impatti su fornitori e garantire il pagamento del debito fiscale privilegiato nella misura richiesta). In più, i soci di Sigma offrono €2M aggiuntivi da destinare a banche e chirografari proporzionalmente. Si formano classi: Classe 1 Banche ipotecarie, Classe 2 Fornitori, Classe 3 Erario. Nella proposta, le Banche (Classe 1) ricevono ~67% del credito (45+ una parte dei 2M), i Fornitori (Classe 2) ricevono 100% (5M su 5M dovuti, e magari una piccola porzione dei 2M), l’Erario (Classe 3) riceve 100% dell’IVA (privilegiata) dagli €5M destinati insieme ai fornitori. È una distribuzione che non rispetta le priorità: i fornitori prendono 100% mentre le banche ipotecarie solo 67%. Ma Sigma giustifica che senza questa leva i fornitori porterebbero i libri in tribunale subito o bloccherebbero attività residuali. Tutte le classi votano: le banche, vedendo che in fallimento forse avrebbero preso meno (l’immobile degradato o venduto a 40, e comunque nessuno pagava i fornitori, quindi l’azienda sarebbe collassata prima di vendere bene), accettano; i fornitori ovviamente votano sì perché prendono tutto; l’Erario vota sì perché incassa l’IVA intera. Il tribunale omologa il PRO: nessuna legge imporrebbe di dare il 100% ai fornitori prima di soddisfare completamente le banche, ma poiché tutte le classi hanno concordato questo trattamento, l’omologa lo rende possibile. Sigma esegue: vende l’immobile all’investitore per €50M, paga €45M alle banche (che rilasciano le ipoteche), €5M a fornitori ed Erario; i soci versano €2M che vengono ripartiti come da piano (ulteriore 2-3% ai creditori). Risultato: Sigma è liquidata (non ha più beni), ma la crisi si è risolta con un compromesso concordato: le banche hanno perso qualcosa ma evitato di peggio, i fornitori sono stati protetti (così non falliscono a loro volta e mantengono rapporti futuri con l’investitore che ha rilevato l’immobile magari per svilupparlo), il Fisco ha incassato le imposte. Un fallimento avrebbe forse visto venduto l’immobile a prezzo di saldo e tempi lunghi, con banche magari al 50% e fornitori a zero.

Questo esempio dimostra la potenza del PRO: consente soluzioni win-win difficilmente attuabili col rigido rispetto delle priorità legali, ma solo al prezzo di ottenere l’accordo di tutti i soggetti interessati. È un strumento avanzato, da utilizzare con cura, e finora in Italia non sono moltissimi i casi di PRO omologati (complice la novità e il fatto che richiede un certo livello di sofisticazione nelle trattative). Tuttavia, è un’opzione aggiuntiva importante nell’arsenale di prevenzione/ristrutturazione a disposizione del debitore e dei suoi consulenti.

La Liquidazione Giudiziale (il “nuovo Fallimento”)

Nonostante l’enfasi del Codice sul salvataggio e la ristrutturazione, permane naturalmente la procedura destinata ai casi in cui l’insolvenza non può essere risolta: la liquidazione giudiziale, erede del vecchio fallimento. La liquidazione giudiziale interviene quando l’impresa è insolvente in modo irreversibile e non vi sono soluzioni alternative praticabili (o quando soluzioni tentate sono fallite). Il suo scopo è liquidare il patrimonio del debitore e distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole concorsuali.

I presupposti per l’apertura di una liquidazione giudiziale sono simili al passato: esistenza di uno stato di insolvenza attuale del debitore e qualifica di imprenditore assoggettabile (restano escluse le imprese minori sotto soglia, per le quali c’è la liquidazione controllata nel sistema sovraindebitamento). La domanda può provenire dal debitore stesso (che “dichiara fallimento” in proprio, anche se oggi si chiama liquidazione) o da un creditore o dal PM. Una differenza terminologica: l’sentenza dichiarativa ora si chiama “sentenza di apertura della liquidazione giudiziale” invece di sentenza di fallimento.

Gli effetti sono sostanzialmente gli stessi del fallimento: l’imprenditore viene spossessato dei suoi beni, che passano in gestione a un Curatore nominato dal tribunale. Il curatore, sotto la supervisione del Giudice Delegato e del Comitato dei Creditori, procede a vendere i beni (liquidazione dell’attivo) e a distribuire il ricavato secondo l’ordine delle cause di prelazione. Nel frattempo, i creditori devono presentare le domande di ammissione al passivo e vengono accertati i loro crediti in sede di verifica dello stato passivo. Tutte le azioni esecutive individuali sono bloccate (vige il divieto di azioni individuali e di acquisire titoli di prelazione dopo l’apertura). Eventuali atti anomali compiuti prima del fallimento possono essere soggetti a revocatoria fallimentare (con le regole aggiornate dal CCII, che peraltro riduce l’ambito delle revocatorie per pagamenti entro certi limiti, per evitare eccessi punitivi su atti di normale amministrazione). L’azienda cessa l’attività salvo esercizio provvisorio autorizzato se utile per una migliore liquidazione (spesso disposto se l’azienda è vendibile come complesso funzionante).

In sostanza, la liquidazione giudiziale è la procedura che chiude l’impresa, vendendo i suoi beni per soddisfare i creditori secondo legge. Per i creditori è spesso una soluzione di ripiego, perché come noto nei fallimenti i recuperi per chirografari sono bassi e i tempi lunghi; tuttavia rimane necessaria per comporre situazioni senza soluzioni alternative. Il Codice, in uno spirito diverso dal passato, tende a considerarla l’ultima ratio: dopo che si è tentato l’allerta, la composizione negoziata, i concordati, se nulla ha funzionato, allora si liquida.

Un elemento innovativo a favore dell’imprenditore persona fisica è l’istituto dell’esdebitazione: già previsto prima per il fallito meritevole, ora con il CCII è stato ulteriormente ampliato e reso quasi automatico. L’imprenditore (persona fisica) che sia stato corretto e cooperativo può ottenere, a fine procedura, la cancellazione dei debiti residui non pagati dalla liquidazione giudiziale. Ciò consente di avere un “fresh start” dopo la chiusura. Nel caso di società, naturalmente l’esdebitazione non si applica (la società una volta liquidata e cancellata cessa di esistere, i debiti insoddisfatti restano inesigibili verso la società defunta; gli eventuali fideiussori o soci illimitatamente responsabili, invece, possono chiedere a titolo personale l’esdebitazione se hanno agito correttamente).

La liquidazione giudiziale prevede anche procedure semplificate per le piccole imprese non fallibili ex lege fallimentare (sotto soglia), ora ricomprese nella liquidazione controllata prevista dal Codice del sovraindebitamento, ma essendo il focus di questa guida sulle imprese, basti dire che le micro-imprese hanno un loro percorso liquidatorio analogo ma con organi leggermente diversi (c’è un liquidatore nominato dal tribunale, ma la procedura è più snella e si chiama appunto liquidazione controllata dei beni).

Conclusione su liquidazione giudiziale: dal punto di vista pratico, un imprenditore dovrebbe considerare la liquidazione giudiziale come l’opzione estrema da evitare finché possibile. Tuttavia, va anche detto che tardare troppo nell’attivare un concordato o una liquidazione volontaria può peggiorare le cose: se l’insolvenza è conclamata e nessun piano serio è fattibile, la strada corretta – anche per evitare responsabilità – è imboccare la liquidazione prima che il dissesto si aggravi ulteriormente (la legge anzi obbliga gli amministratori a farlo, come visto).

In definitiva, la liquidazione giudiziale rimane il fondo del sistema: è sempre lì, pronta ad accogliere le imprese che non si riescono a salvare. L’auspicio del legislatore è che, con tutti gli strumenti di prevenzione e gestione anticipata esaminati finora, si possa ridurre il numero di casi che giungono a liquidazione “disordinata” e aumentare invece le crisi risolte con esiti concordati e meno distruttivi di valore.

Obblighi e responsabilità di imprenditori, amministratori e organi di controllo

Una linea trasversale che attraversa tutto il nuovo Codice della Crisi è il rafforzamento dei doveri di condotta degli attori dell’impresa ai fini della pronta rilevazione e corretta gestione della crisi. Vale la pena, prima di concludere, riepilogare in maniera focalizzata quali sono gli obblighi e le potenziali responsabilità che gravano su ciascun soggetto coinvolto:

  • Imprenditore e organo amministrativo (es. CdA): Devono istituire assetti adeguati (come visto, art. 2086 c.c. e art. 3 CCII) per monitorare costantemente la situazione economico-finanziaria e la continuità aziendale. Ciò implica dotarsi di strumenti di controllo di gestione, pianificazione finanziaria, indicatori di allerta, e – soprattutto – reagire senza indugio ai segnali di crisi. L’organo amministrativo ha l’obbligo di attivarsi tempestivamente nel prendere misure correttive o attivare procedure di regolazione della crisi non appena emergano situazioni di difficoltà significative. In caso di inerzia colpevole, gli amministratori possono incorrere in gravi responsabilità:
    • Responsabilità verso la società: con azione di responsabilità per mala gestio ex art. 2393 c.c., se l’omessa reazione alla crisi ha depauperato il patrimonio sociale.
    • Responsabilità verso i creditori sociali: il CCII (art. 378) ha introdotto espressamente che la violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in situazione di crisi può dar luogo a responsabilità diretta verso i creditori rimasti insoddisfatti. Ciò significa che se l’impresa insolvente vede aggravarsi il dissesto perché gli amministratori hanno colpevolmente ritardato gli interventi (ad es. continuando ad accumulare debiti), gli amministratori potranno essere chiamati a risarcire personalmente i creditori danneggiati. È un forte deterrente: l’amministratore diligente, di fronte a segnali di insolvenza, deve evitare di “tirare a campare” (trading on insolvent), perché se peggiora la situazione, ne risponderà illimitatamente col proprio patrimonio.
    • Responsabilità penale: restano naturalmente le fattispecie penali di bancarotta (semplice o fraudolenta) se l’insolvenza sfocia in liquidazione giudiziale e vengono accertati comportamenti distrattivi, preferenze illecite o altre gravi irregolarità.

Inoltre, amministratori e anche i soci influenti devono tener presente alcuni obblighi specifici derivanti dalle procedure di allerta: se arriva una segnalazione dai creditori pubblici qualificati (Fisco, INPS), non c’è formalmente l’obbligo di aderire alla composizione negoziata, ma ignorare quella segnalazione li espone a gravi rischi. Come visto, il collegio sindacale in tal caso dovrà attivarsi ed eventualmente denunciare gli amministratori inerti (art. 2407 c.c. – responsabilità dei sindaci), e anche i soci di società di capitali potrebbero intervenire (ad es. convocando assemblea o denunciando gli amministratori) se questi non adottano misure a tutela della continuità. In sintesi, l’amministratore che riceve segnali di crisi ha il dovere di reagire: o intraprende un risanamento (piano attestato, accordo, composizione negoziata) o, se non vede soluzioni possibili, deve attivarsi per un concordato o mettere in liquidazione l’azienda – non può restare inerte.

  • Organi di controllo societario (Sindaci, Revisori): Il Codice ha esteso e puntualizzato i loro obblighi di segnalazione. Già dal D.Lgs. 14/2019, le S.r.l. e coop hanno dovuto nominare l’organo di controllo se superano determinati limiti (attivo > €4 mln, ricavi > €4 mln o >20 dipendenti, per 2 esercizi). Questo ampliamento serve proprio a garantire un monitoraggio esterno anche nelle PMI. L’organo di controllo (collegio sindacale o sindaco unico) ha l’obbligo di verificare costantemente che gli amministratori abbiano predisposto adeguati assetti e di vigilare sulla continuità aziendale. Se rileva indizi di crisi, deve attivare l’allerta interna: cioè segnalare per iscritto all’organo amministrativo la situazione e le possibili misure (art. 24 CCII). Se gli amministratori non rispondono entro 30 giorni con iniziative adeguate, l’organo di controllo poteva (nel vecchio impianto) informare l’OCRI – oggi quell’obbligo è sospeso, ma il sindaco può comunque rivolgersi al tribunale ex art. 2409 c.c. per far emergere la situazione. Il Correttivo-ter ha inoltre previsto che anche il revisore legale (se distinto dal sindaco) abbia analogo obbligo di segnalazione agli amministratori in caso riscontri di crisi (come evidenziato sopra). L’idea è creare una rete di “sentinelle”. Se sindaci o revisori omettono di vigilare o segnalare, rischiano a loro volta responsabilità: i sindaci rispondono verso la società e i creditori per omessa vigilanza ex art. 2407 c.c., e possono essere chiamati a risarcire i danni se dalla mancata segnalazione è derivato un aggravamento del dissesto. Anche penalmente, un sindaco che sia connivente con condotte distrattive degli amministratori può rispondere di concorso in bancarotta. In pratica, se si verifica una crisi significativa, l’organo di controllo dovrebbe tempestivamente: (a) sollecitare formalmente il CdA a prendere provvedimenti (mettendo a verbale tale sollecito), e (b) se nulla accade, valutare esso stesso di avvisare un organismo pubblico o l’autorità giudiziaria. Per questo ruolo attivo, il Codice prevede anche tutele: ad esempio, la segnalazione del sindaco non costituisce violazione del dovere di riservatezza ed è espressamente considerata un suo compito, così da proteggerlo da eventuali azioni di responsabilità dei soci per aver “diffuso notizie riservate” (art. 6, co.4 CCII).
  • Creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, Agente Riscossione): Anche questi soggetti, pur esterni all’impresa, sono chiamati a fare la loro parte nel sistema di allerta. Hanno l’obbligo di monitorare le posizioni debitorie (tributi, contributi) e inviare le segnalazioni all’impresa e agli organi di controllo al superamento delle soglie fissate. Se omettono di farlo, potrebbero incorrere in responsabilità sul piano erariale o disciplinare (un funzionario che non invia una segnalazione INPS dovuta, ad esempio, compie omissione di atti d’ufficio). L’intento è però cooperativo: come detto, fare squadra per far emergere precocemente le crisi e orientare l’impresa verso le soluzioni negoziali. La normativa ha bilanciato la severità (sanzioni al funzionario inadempiente) con strumenti come la composizione negoziata che offrono alle imprese un appiglio volontario, in modo che la segnalazione non sia vista come punitiva ma come un “alert” costruttivo.

Riassumendo: il nuovo Codice della Crisi responsabilizza tutti gli attori. L’imprenditore non può più permettersi di navigare a vista e poi magari gettare la spugna all’ultimo momento: deve dotarsi di strumenti di controllo e agire in anticipo. Gli amministratori sono incentivati ad affrontare i problemi appena emergono, sotto pena di rispondere dei danni. I sindaci e i revisori devono fare i “guardiani” attivi e non solo notarili, pena anch’essi responsabilità. Il Fisco e gli enti previdenziali, da par loro, sono tenuti a lanciare l’allarme quando vedono inadempimenti significativi, collaborando al meccanismo di scoperta precoce. Il messaggio complessivo è chiaro: prevenire la crisi è un dovere oltre che un’opportunità, e nessuno può chiamarsi fuori. Questo segna un cambiamento culturale rispetto al passato: la crisi d’impresa viene vista come un evento fisiologico nella vita economica, da gestire con strumenti giuridici appropriati e con comportamenti diligenti, piuttosto che come un tabù da nascondere fino al crack finale.

Domande frequenti (FAQ)

D: Come faccio a riconoscere per tempo i segnali di una crisi nella mia impresa?
R: Occorre monitorare regolarmente alcuni indicatori chiave della salute aziendale. Tra questi: l’andamento del fatturato e dei margini (se calano costantemente, c’è un problema di redditività), gli indici di liquidità (rapporto tra attività a breve e passività a breve, per capire se si riuscirà a far fronte alle scadenze), il DSCR a 6-12 mesi (Debt Service Coverage Ratio, che indica se i flussi di cassa attesi copriranno i debiti finanziari in scadenza), l’eventuale accumulo di ritardi nei pagamenti verso fornitori o banche, l’uso intenso di fidi bancari fino al limite, nonché l’erosione del patrimonio netto causata da perdite di esercizio. Se uno o più di questi indicatori lampeggiano rosso – ad esempio: DSCR < 1 (significa che in prospettiva non genererò cassa sufficiente a pagare i debiti finanziari), fornitori pagati con ritardi di mesi, capitale sociale dimezzato da perdite – è segno che la tua impresa sta entrando in fase di crisi. Il Codice della Crisi fornisce anche una checklist sul portale della composizione negoziata: essa include domande del tipo “stai pagando i debiti tributari e contributivi regolarmente?”, “hai dovuto rinegoziare i fidi con le banche?”, “il MOL operativo riesce a coprire gli oneri finanziari?”, e così via. Se molte risposte sono negative, è consigliabile approfondire con l’aiuto di un professionista (commercialista) e calcolare gli indici di allerta elaborati dall’Ordine dei Commercialisti (come quelli pubblicati nel 2019). Ricorda: anticipare di qualche mese l’emersione della crisi può fare la differenza tra un risanamento riuscito e un fallimento disastroso.

D: Ho percepito segnali di crisi. Cosa devo fare, concretamente?
R: La prima cosa è non negarli e non procrastinare. Se gli indicatori interni segnalano squilibri, convoca immediatamente il tuo consulente (commercialista o esperto di crisi) e analizzate i numeri a fondo. Bisogna elaborare rapidamente un piano d’azione. Le opzioni dipendono dalla gravità della situazione:

  • Se la crisi è iniziale e sembra gestibile con interventi interni, potresti provare misure come: rinegoziare con la banca un’estensione dei finanziamenti, cercare soci o investitori che apportino capitali freschi, ridurre i costi e dismettere beni non strategici per fare cassa. In parallelo, prepara un piano di risanamento a medio termine con proiezioni di come intendiper riportare l’equilibrio (un mini piano industriale).
  • Se la crisi è più seria o già manifesta, valuta da subito l’accesso a uno degli strumenti di regolazione previsti dalla legge. Ad esempio, la composizione negoziata se c’è ancora prospettiva di risanamento ma serve un contesto protetto per trattare con i creditori; oppure un accordo di ristrutturazione se hai già l’appoggio di banche/creditori principali per un piano; oppure, se vedi che l’insolvenza è inevitabile, preparati a un concordato preventivo per gestire il default in modo ordinato e non subire un fallimento.
  • In ogni caso, coinvolgi tempestivamente gli organi di controllo (sindaci, revisore) se presenti: segnalare a loro la situazione ti aiuterà a rispettare gli obblighi di legge e forse a ricevere consigli utili (oltre a evitare che siano loro a dover segnalare d’ufficio).
  • Un ottimo step iniziale è avviare la composizione negoziata: è volontaria e confidenziale, e mentre la prepari puoi utilizzare la check-list del portale che ti guiderà nell’analisi. Inoltre, presentare l’istanza di composizione (o almeno consultarne un esperto esterno informalmente) ti darà un quadro più chiaro della strada percorribile.

In sintesi: non esiste un’unica ricetta, ma la regola d’oro è agire presto e in modo strutturato. Redigi uno schema di piano di risanamento, anche provvisorio, con l’aiuto di un esperto. E non esitare ad utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalla legge – sono lì per aiutarti a prevenire esiti peggiori.

D: Quali vantaggi offre all’imprenditore attivarsi volontariamente (es. con la composizione negoziata) invece di aspettare che i creditori agiscano?
R: Attivarsi volontariamente comporta numerosi vantaggi:

  • Tempo e protezione: Avviando ad esempio una composizione negoziata, puoi ottenere misure protettive dal tribunale che bloccano i pignoramenti e le azioni esecutive, guadagnando qualche mese di respiro. Ciò ti permette di lavorare a una soluzione senza l’assillo di continue richieste di pagamento o dell’ufficiale giudiziario alla porta.
  • Mantenimento del controllo: Nei percorsi negoziali o concordatari proposti da te, rimani alla guida dell’azienda. Nella composizione negoziata non c’è nemmeno un commissario: resti tu a gestire, assistito dall’esperto ma senza perdere potere. In un concordato rimani in possesso salvo casi estremi. Al contrario, se subisci un’istanza di fallimento, rischi l’immediato spossessamento e la perdita totale del controllo.
  • Possibilità di incentivi fiscali: La normativa prevede incentivi per chi si muove per tempo. Ad esempio, nel caso di composizione negoziata conclusa con successo (accordo o piano), la legge ha previsto la riduzione di interessi e sanzioni sui debiti tributari oggetto di transazione. Inoltre c’è un credito d’imposta (o contributo) per rimborsare parte dei costi dell’esperto alle PMI, finanziato dal Fondo per la prevenzione della crisi d’impresa.
  • Prededucibilità e protezione di atti: Se durante una trattativa concordata ottieni finanziamenti autorizzati, questi saranno prededucibili (ovvero rimborsati prima di altri debiti in caso di procedura concorsuale successiva) e gli atti che compi in esecuzione di un piano concordato non saranno soggetti a revocatoria. Ciò ti permette di continuare ad esempio ad acquistare materie prime o pagare fornitori strategici per mandare avanti l’attività, senza paura che poi quei pagamenti vengano contestati in un eventuale fallimento.
  • Maggiore benevolenza da parte di giudici e creditori: Un imprenditore che si attiva per cercare una soluzione viene visto con occhio più favorevole da tutti. I creditori vedranno uno sforzo di buona fede e saranno più propensi a collaborare (rispetto a un debitore che sparisce o fa orecchie da mercante). I tribunali, in caso poi di concordato o fallimento, valuteranno positivamente il fatto che hai tentato il risanamento, e questo può influire ad esempio sull’ottenimento dell’esdebitazione e sul non incorrere in sanzioni per aggravamento del dissesto.
  • Possibilità di soluzioni flessibili: Agire per tempo ti consente di esplorare soluzioni alternative fuori dal tribunale che altrimenti, a crisi conclamata, sarebbero impossibili. Ad esempio, un accordo bonario con un grande fornitore o con la banca per una moratoria, cosa che se fossi già insolvente difficilmente otterresti. In composizione negoziata, con l’aiuto dell’esperto, puoi trovare soluzioni creative (dilazioni, consolidamento debiti, nuovi investitori) in un contesto protetto.

In sintesi, muovendoti tu per primo prendi l’iniziativa sulla crisi, invece di subirla. Ciò aumenta nettamente le chance di salvare l’impresa (o parte di essa) e riduce l’impatto negativo su di te e sul patrimonio. Al contrario, aspettare inerzialmente l’azione dei creditori porta quasi sempre a scenari peggiori: fallimento improvviso, pignoramenti multipli e scoordinati, perdita di fiducia totale da parte del mercato.

D: La composizione negoziata è una procedura pubblica? Devo temere per la reputazione della mia azienda?
R: La fase di composizione negoziata è tendenzialmente riservata. L’accesso alla piattaforma e le trattative con i creditori non sono pubblici: ne sono a conoscenza solo le parti coinvolte (imprenditore, esperto e i creditori che inviti al tavolo). Non c’è una pubblicità legale iniziale – diversamente da un concordato preventivo che viene subito iscritto nel Registro delle Imprese e comunicato ai creditori. Ci sono però un paio di eccezioni importanti alla riservatezza:

  • Se richiedi le misure protettive al tribunale, il decreto che le concede viene pubblicato nel Registro delle Imprese, rendendo nota a terzi l’esistenza della procedura. Ciò significa che banche, fornitori non coinvolti e altri soggetti potrebbero venire a sapere che sei in composizione (spesso lo capiscono perché vedono l’annotazione nelle visure camerali o tramite sistemi informativi creditizi).
  • Se le trattative portano al deposito di un accordo in tribunale per l’omologazione (ad es. un accordo di ristrutturazione ex art.57 CCII, o un concordato minore per PMI), quell’atto diventa pubblico. In sostanza, se dalla composizione passi a una fase giudiziale (accordo omologato o concordato), allora la riservatezza viene meno perché i relativi procedimenti sono pubblici.

In sintesi, la composizione negoziata nasce come percorso riservato, ma può divenire in parte conoscibile se utilizzi strumenti che richiedono l’intervento del giudice. Molti imprenditori riescono a condurla sotto traccia soprattutto se non attivano misure protettive e se coinvolgono un numero limitato di creditori. Ad esempio, potresti convocare solo banche e principali fornitori, e se nessuno di loro diffonde la notizia all’esterno, il mercato non lo verrà a sapere in corso di trattative. Ricorda però che devi valutare il trade-off: se hai bisogno delle protezioni giudiziali per evitare un pignoramento, è meglio attivarle e sacrificare un po’ di riservatezza, piuttosto che mantenere il segreto e poi subire un fallimento (che sarebbe pubblico e ben peggiore per la reputazione). Inoltre, l’esperto e tutti i soggetti coinvolti sono tenuti al dovere di riservatezza per legge, quindi la fuoriuscita di informazioni è limitata al minimo necessario.

D: Chi può accedere alla composizione negoziata? È solo per grandi aziende?
R: Tutti gli imprenditori iscritti al Registro Imprese possono chiedere la composizione negoziata, quindi sia società che imprese individuali, incluse le imprese agricole. Non c’è un limite dimensionale minimo. Esiste anzi una versione sotto-soglia rivolta alle micro e piccole imprese (attivo ≤ €300.000, ricavi ≤ €200.000, debiti ≤ €500.000), con oneri documentali ridotti e possibilità di presentare l’istanza tramite un OCC. Le uniche esclusioni soggettive: non possono accedere i soggetti non imprenditori (es. professionisti, consumatori privati – per loro esistono le procedure di sovraindebitamento) e non possono accedere imprese che siano già in fallimento (liquidazione giudiziale) o abbiano già avuto un concordato omologato nei 5 anni precedenti. Inoltre, se hai già fatto una composizione negoziata o concordato minore negli ultimi 5 anni, la legge ti vieta di attivarne un’altra subito, per evitare abusi e uso ripetuto ravvicinato degli strumenti di risanamento. Ad esempio, se hai chiuso con successo (o anche con insuccesso) una composizione due anni fa, non puoi farne un’altra adesso; dovrai trovare altre soluzioni. Questo per imporre all’impresa di trovare soluzioni durature e non “saltare” da un procedimento all’altro di continuo.

D: Quali sono le differenze tra la composizione negoziata e il concordato preventivo?
R: Sono procedure molto diverse:

  • La Composizione Negoziata non è una procedura concorsuale giudiziale: è un percorso volontario e stragiudiziale. L’imprenditore non perde la gestione dell’azienda, non c’è un commissario né un giudice che supervisiona costantemente. Tutto avviene in modo riservato, attraverso negoziazioni assistite con l’aiuto di un esperto. Il tribunale interviene solo se chiedi misure protettive o autorizzazioni specifiche, ma non “dirige” la procedura. Nessun voto formale dei creditori è previsto: tutto si basa sul loro consenso spontaneo.
  • Il Concordato Preventivo, invece, è una procedura giudiziaria a tutti gli effetti. Appena la presenti, il tribunale ne dà pubblicità (iscrizione al Registro Imprese), nomina un commissario che controlla, e i creditori vengono chiamati a votare il tuo piano. Ha formalità rigide (termini processuali, udienze, eventuali opposizioni) e un giudice deve omologare il tutto. In pratica, è molto più invasivo e “solenne” come procedimento.
  • La composizione negoziata può sfociare in un concordato (o in un accordo omologato) se le trattative non portano a soluzioni extra-giudiziali. In effetti, se le negoziazioni falliscono ma c’è ancora speranza, spesso l’imprenditore deposita un concordato (a volte anche un concordato semplificato se ricorrono i presupposti). L’idea della composizione è però proprio quella di evitare di arrivare a una procedura concorsuale, trovando un accordo attorno a un tavolo anziché in tribunale.
  • In termini di tempi e costi: la composizione negoziata è in genere più rapida e meno costosa. Pochi mesi di negoziato, costi limitati (il compenso dell’esperto nominato, più eventualmente i consulenti che ti assistono) e come detto possibili incentivi pubblici per questi costi. Un concordato è più lungo (può durare anche più di un anno tra deposito, voto e omologa) e costoso (ci sono da pagare il commissario, l’attestatore, contributo unificato, eventuali spese legali, etc.).
  • In sintesi: la negoziazione assistita è un tentativo “soft” e confidenziale; il concordato è la soluzione “hard” che passa dal tribunale ed è resa pubblica.

Dal punto di vista del debitore, conviene iniziare dalla composizione negoziata, riservandosi il concordato solo se necessario. La legge ha calibrato gli strumenti proprio per percorrerli in sequenza crescente di formalità se i precedenti falliscono.

D: Cosa succede se attivo una composizione negoziata ma poi non riesco a trovare un accordo con i creditori?
R: Se la composizione negoziata fallisce (nessun accordo raggiunto), la procedura viene archiviata con esito negativo. A quel punto hai comunque diverse possibilità:

  • Puoi tentare un’altra strada concorsuale: ad esempio, puoi proporre un concordato semplificato entro 60 giorni, per liquidare il patrimonio senza dover passare dal voto dei creditori. Questa opzione è riservata proprio ai casi di composizione fallita (vedi cap. relativo).
  • Oppure puoi presentare un concordato preventivo ordinario (o concordato minore se sei PMI sotto soglia) per gestire formalmente la crisi coinvolgendo tutti i creditori. Oppure, se hai pochi creditori e ti manca il quorum per un accordo di ristrutturazione, potresti provare quell’accordo con l’adesione minima del 60%.
  • Se la tua impresa è molto piccola (sotto soglia) e non c’è soluzione, potresti andare verso la liquidazione controllata (procedura simile al fallimento ma per micro-imprese, ex legge sovraindebitamento).
  • Se proprio nessuna procedura viene attivata dopo la composizione fallita, i creditori riacquistano libertà di agire: potrebbero riprendere i pignoramenti sospesi, o presentare direttamente istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) contro di te. Di solito, però, l’esito di una composizione negoziata fornisce già un quadro della situazione: se tu non ti muovi, è probabile che lo facciano loro.

Tieni presente che tutta la documentazione e l’analisi svolta durante la composizione sarà comunque preziosa per le successive fasi. L’esperto avrà redatto una relazione finale che individua le cause della crisi e magari le motivazioni per cui un accordo non è stato possibile. Quella relazione potrà essere utilizzata dal tribunale e dai creditori per capire la situazione nel prosieguo (ad esempio, valutare un concordato). Se l’esito negativo è dovuto all’intransigenza di uno o due creditori, magari nel concordato potrai sfruttare la maggioranza degli altri per imporre una soluzione (col meccanismo di voto).

In sintesi: non tutto è perduto se la composizione fallisce. Hai ancora la possibilità di gestire la crisi con strumenti più “forti”. L’importante è reagire subito: non lasciar passare tempo inerte dopo l’archiviazione. Il Codice, prevedendo il concordato semplificato in quei 60 giorni, ti dà proprio un’uscita di sicurezza rapida. E se neanche quella va bene, meglio presentare tu un concordato preventivo piuttosto che aspettare i creditori (ricordando l’obbligo degli amministratori di non aggravare la situazione, come da art. 2486 c.c. e art. 378 CCII).

D: Un fornitore può interrompere le forniture o rescindere un contratto solo perché ho avviato la composizione negoziata?
R: No. L’avvio della composizione negoziata di per sé non costituisce causa di risoluzione dei contratti in essere. Qualsiasi clausola contrattuale che preveda la risoluzione automatica del contratto o la decadenza dal termine al solo avvio della procedura è nulla per legge. Quindi un fornitore non può legittimamente interrompere forniture essenziali invocando come motivo il fatto che sei “in composizione” – a patto che tu continui ad adempiere le obbligazioni correnti nei suoi confronti. Ovviamente questo non obbliga il fornitore a darti nuova merce a credito: se tu non paghi la fornitura corrente, il fornitore potrà sospendere la prestazione per inadempimento (il che sarebbe lecito). Ma non può dire “siccome hai attivato la procedura, stacco le consegne”, se tu sei in regola con i pagamenti correnti.

Anzi, esiste una norma (art. 19 co. 3 CCII) che consente all’imprenditore in composizione di chiedere al Tribunale l’autorizzazione a pagare in prededuzione alcuni fornitori strategici per assicurarsi la continuità delle forniture, anche se quei pagamenti verrebbero fatti in deroga alla par condicio. Questo proprio per evitare che fornitori cruciali (tipo: il fornitore di materie prime indispensabili) interrompano il rapporto durante le trattative. Quindi, se hai fornitori chiave preoccupati, puoi tranquillizzarli offrendo pagamento cash dei nuovi ordini (eventualmente chiedendo al giudice il permesso di farlo anche se hai misure protettive attive). In composizione negoziata l’attività deve poter proseguire il più possibile normalmente.

Va aggiunto che con le novità 2024, le banche non possono neppure revocare fidi o classare a sofferenza il credito solo perché sei in composizione. Insomma, la legge cerca di congelare gli effetti negativi reputazionali dell’aver dichiarato di essere in crisi. L’unico rischio inevitabile è che qualche controparte, venuta a saperlo, irrigidisca le condizioni future (es: un nuovo cliente potrebbe esitare a ordinare merce se sa che sei in procedura). Ma per questo la riservatezza iniziale aiuta molto.

D: Ho già usato una composizione negoziata (o un concordato) in passato. Posso riutilizzarla se torno in crisi?
R: La legge scoraggia l’uso ripetuto e ravvicinato degli strumenti concorsuali. In particolare, il CCII prevede che non è ammesso accedere alla composizione negoziata (né al concordato minore per PMI) se l’imprenditore ha già fatto ricorso a qualsiasi procedura di regolazione della crisi nei 5 anni precedenti. Ad esempio, se hai beneficiato di un concordato minore omologato 3 anni fa, ora non puoi attivare una nuova composizione negoziata; dovrai gestire la crisi con strumenti ordinari (o attendere il decorso di 5 anni, che però in una crisi attuale non è utile). Lo stesso vale se, negli ultimi 5 anni, hai subìto per causa tua la revoca o la risoluzione di un concordato per inadempimento: in tal caso la legge non ammette che tu acceda a una nuova procedura a breve distanza. L’obiettivo è evitare abusi e di trasformare concordati e composizioni in “girandole” perenni.

Quindi, in pratica, c’è una sorta di periodo di quarantena: una volta che hai usato uno strumento concorsuale (concordato preventivo, concordato minore, accordo di ristrutturazione omologato, ecc.), per 5 anni non puoi ricorrere di nuovo ad esso o alla composizione negoziata. Questa limitazione ti sprona a trovare soluzioni davvero efficaci la prima volta e non tamponare soltanto.

Fanno eccezione i piani attestati di risanamento e gli accordi stragiudiziali privati: quelli puoi farne quanti ne vuoi, perché non sono considerati “procedure di regolazione della crisi” formali. Ad esempio, se 2 anni dopo un concordato torni in affanno, potresti comunque tentare un piano attestato con banche e fornitori (non essendo concorsuale, la legge non te lo vieta). Ma se questo non bastasse e ti servirebbe un nuovo concordato, la legge non te lo permetterà entro i 5 anni.

D: Quando conviene usare un piano attestato invece di un accordo di ristrutturazione o di un concordato?
R: Il piano attestato conviene nelle situazioni in cui:

  • La crisi è ancora moderata e l’impresa mantiene la fiducia quasi integrale dei suoi creditori. Se pensi di poter ottenere il consenso pressoché unanime dei principali creditori a un piano di risanamento, allora il piano attestato è lo strumento ideale: riservato, rapido, minimo impatto.
  • Vuoi evitare assolutamente pubblicità e procedure formali – ad esempio, se temi che clienti e fornitori scappino appena sanno che sei in difficoltà. Il piano attestato non viene pubblicizzato, a differenza di accordi omologati o concordati che appaiono in Camera di Commercio e sui registri pubblici.
  • Hai pochi creditori eterogenei e riesci a gestirli con accordi individuali. Ad esempio, hai 3 banche e 5 fornitori da sistemare: è fattibile fare accordi singoli senza bisogno di regole di maggioranza. Diverso sarebbe se avessi 50 obbligazionisti: lì il piano attestato non li vincolerebbe efficacemente.
  • Non hai necessità di protezione giudiziaria immediata. Se i creditori per ora non ti stanno aggredendo e confidano nel piano, puoi farne a meno. Se invece hai pignoramenti in arrivo, forse devi valutare accordi omologati o concordato per bloccarli.

L’accordo di ristrutturazione omologato (ARD) conviene quando:

  • Hai un buon supporto da parte di creditori rappresentanti almeno il 60%, ma non tutti. In questo caso l’accordo ti permette di vincolare quella maggioranza e beneficiare di protezioni per portarlo a termine.
  • Vuoi estendere gli effetti anche ai pochi dissenzienti (es. accordo finanziario con 85% banche, imponi al 15% dissenziente di stare alle stesse condizioni tramite l’omologa).
  • Hai bisogno di bloccare esecuzioni e ottenere un cappello giudiziario senza però dover passare da un voto completo di tutti i creditori come nel concordato (es. preferisci trattare con le banche e pagare fuori gli altri).
  • Il contesto è di debiti finanziari o comunque concentrati su pochi soggetti principali, con cui puoi trovare un’intesa di massima. L’ARD è meno rigido del concordato, e lascia fuori i piccoli creditori che paghi a parte.

Il concordato preventivo diventa la scelta quando:

  • La platea dei creditori è ampia e con interessi divergenti, per cui serve coinvolgerli tutti formalmente e poter contare su un meccanismo di voto a maggioranza. Ad esempio, hai tantissimi fornitori e banche e non riusciresti mai a far firmare singoli accordi a tutti.
  • La situazione è così grave che solo una procedura concorsuale può gestirla (ad es. bisogno di vendere l’azienda protetta da regole concorsuali, necessità di falcidiare creditori privilegiati che non aderirebbero mai spontaneamente se non costretti dal concordato).
  • Hai urgenza di bloccare qualsiasi azione e anche eventuali istanze di fallimento: il concordato preventivo, una volta ammesso, sostituisce la prospettiva fallimentare e ti dà un quadro ordinato.
  • Necessiti di utilizzare strumenti come il cram-down fiscale o interclassi, che solo nel concordato puoi avere.

In generale, lo schema logico è: piano attestato se puoi (consenso pressoché unanime e fiducia); accordo omologato se hai consenso ampio ma non totale e vuoi protezione legale per quell’accordo; concordato se hai bisogno di regole concorsuali perché la situazione è complessa o conflittuale.

Molti percorsi di successo partono magari con un piano attestato; se non basta o salta per qualcuno che fa il furbo, si passa a un accordo omologato; e se ancora non funziona, si ricorre al concordato come ultima spiaggia. Il Codice consente questa escalation.

D: Qual è il minimo che devo offrire ai creditori in un concordato o accordo perché venga approvato?
R: Dipende dal tipo di procedura:

  • In un concordato liquidatorio, per legge devi offrire almeno il 20% ai chirografari, salvo tu apporti risorse esterne (denaro nuovo) sufficienti a dare almeno il 10%. Se offri meno del 20%, devi assicurare quell’apporto. Ad esempio, se prevedi 10%, devi mettere almeno 10% di risorse esterne (metà di quel 20 mancante).
  • In un concordato in continuità, non c’è una soglia fissa per i chirografari, ma come visto la giurisprudenza indica che offerte troppo basse (es. pochi punti percentuali) potrebbero essere considerate inammissibili o non meritevoli. Insomma, devi far sì che la proposta appaia ragionevole. Spesso almeno un 10-15% viene visto come soglia minima “di decenza” in continuità, salvo i creditori stessi accettino percentuali inferiori convinti dalla convenienza.
  • Negli accordi di ristrutturazione non c’è soglia, ma visto che i non aderenti vanno pagati fuori, in pratica spesso finisci per offrire ai partecipanti un sacrificio ma i non partecipanti li paghi interamente. Se vuoi forzare un non aderente (tipo la banca dissenziente con l’85% di adesioni), devi comunque garantire che non riceverà meno di quanto ricevono gli altri della sua categoria.
  • Nei piani attestati, pure nessuna soglia di legge: la convenienza la valutano i creditori stessi. Però anche lì, se proponi il 5% a un fornitore, dubito accetterà a meno che nel fallimento non prenderebbe zero e lo sa. Quindi torna sempre il concetto: offrire almeno un po’ di più di quanto prenderebbero nello scenario alternativo di liquidazione.
  • Nota sul Fisco: per tasse e contributi, di regola in concordato devi offrire almeno il pari al 100% per IVA e ritenute, e almeno il 30% per altri tributi salvo autorizzazione ministeriale a scendere. Ora, col cram-down fiscale, se anche offri meno (es. 10% sulle tasse), il giudice può omologare purché sia più di quanto il Fisco otterrebbe dal fallimento. Però ciò di solito significa che quell’importo deve comunque essere ragionevole.

In breve: non c’è un numero magico universale. La regola è: massimizzare ciò che puoi dare ai creditori rispetto a scenario alternativo, e comunque cercare di non scendere sotto soglie di buon senso (10-15%) a meno che non ci sia proprio nulla da distribuire. Se offri percentuali basse, devi motivare con dati che in fallimento prenderebbero ancora meno, altrimenti è difficile ottenere i voti e l’approvazione del giudice. Ad esempio, Cassazione diceva che 3% in un piano del consumatore era offensivo; analogamente, offrire il 3% in un concordato rischia di essere bocciato perché considerato non serio.

D: Qual è la responsabilità degli amministratori se tardano a chiedere fallimento o concordato?
R: Come già spiegato, gli amministratori hanno l’obbligo di non aggravare il dissesto. Se tardano indebitamente a portare i libri in tribunale o a prendere misure:

  • Possono essere condannati a risarcire i creditori per violazione dei doveri verso il patrimonio sociale (art. 378 CCII). Cioè, se continuano l’attività in perdita e creano nuovi debiti quando l’insolvenza era manifesta, ogni incremento del buco potrebbe essere a loro carico.
  • Possono incorrere in bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto (art. 322 CCII, ex art. 217 l.f.).
  • Possono vedersi negare benefici come l’esdebitazione, se è evidente che la loro inerzia ha danneggiato i creditori.
    In concreto: se la tua società è insolvente e non hai alcuna prospettiva di risanamento, devi attivarti per un concordato o una liquidazione. Non puoi sperare nel miracolo continuando a far finta di niente, altrimenti potresti trovarti a rispondere dei debiti sociali di tasca tua, soprattutto verso chi ha continuato a fare credito fidandosi. La giurisprudenza già da tempo condannava amministratori per aver ritardato l’istanza di fallimento (wrongful trading all’italiana), ora c’è pure la norma che lo codifica. Quindi, è un forte stimolo a “staccare la spina” quando necessario o cercare un ultimo salvataggio formalizzato ma senza trascinare la agonia.

Queste FAQ coprono alcune delle domande più comuni che imprenditori e professionisti si pongono sul nuovo sistema. Ovviamente ogni caso concreto va valutato nella sua specificità, e spesso conviene farsi assistere da un consulente esperto in crisi di fiducia per decidere le mosse giuste.

Conclusioni

Prevenire la crisi d’impresa non è solo uno slogan, ma una necessità in un contesto economico complesso e in continua evoluzione. Il legislatore italiano, recependo impulsi europei, ha creato un quadro normativo avanzato che fornisce agli imprenditori strumenti concreti per affrontare le difficoltà finanziarie in modo ordinato e – quando possibile – salvare l’azienda. Dal monitoraggio interno costante (i famosi “adeguati assetti” ex art. 2086 c.c.) alle procedure di allerta e composizione assistita, dagli accordi stragiudiziali ai concordati e ai piani innovativi come il PRO, l’imprenditore oggi ha davanti a sé una sorta di “scala di soluzioni” da percorrere prima di precipitare nel baratro del fallimento.

Dal punto di vista pratico del debitore, quali sono i punti chiave da tenere a mente?

  • Cultura del controllo preventivo: implementare sistemi di controllo di gestione, indicatori e reporting periodico non è più un lusso da grandi aziende, ma un dovere anche per le PMI. Tenere d’occhio i segnali deboli e intervenire subito è la prima linea di difesa. Un investimento in consulenza gestionale e finanziaria su questo fronte può salvare l’azienda anni dopo.
  • Tempestività: ogni mese, spesso ogni settimana, conta quando l’azienda entra in sofferenza. La tempestività nell’attivarsi – sia internamente che cercando assistenza esterna – fa la differenza nelle percentuali di successo dei risanamenti. Un imprenditore proattivo che affronta i problemi a viso aperto avrà molte più chance di trovare supporto da banche, fornitori e eventualmente investitori, rispetto a chi si muove quando ormai i dipendenti non prendono stipendio da 6 mesi e i fornitori sono sul piede di guerra.
  • Trasparenza e buona fede: tutti gli strumenti, dal piano attestato al concordato, presuppongono che l’imprenditore metta sul tavolo la realtà dei fatti in modo trasparente. Occultare o falsificare le carte è doppiamente controproducente: da un lato impedisce di strutturare soluzioni realistiche, dall’altro fa perdere credibilità e può integrare reati. Meglio essere onesti su quanto è grave la situazione; paradossalmente, i creditori apprezzeranno di più una verità dura ma chiara, che promesse vaghe poi smentite.
  • Consulenza specializzata: il diritto della crisi è diventato un terreno specialistico. Farsi affiancare da un professionista esperto (avvocato d’impresa, commercialista esperto in risanamenti) sin dalle prime fasi consente di scegliere la strada giusta e di evitare errori procedurali. Ad esempio, sbagliare la compilazione dell’istanza di composizione o non predisporre bene la documentazione può far perdere tempo prezioso o addirittura far fallire una negoziazione. Gli esperti, inclusi gli “esperti indipendenti” nominati nelle composizioni (come l’Avv. Monardo menzionato nella guida), hanno competenze specifiche e sono lì per aiutare l’imprenditore a traghettare l’azienda fuori dalle secche.
  • Coinvolgimento degli stakeholder chiave: sindaci, revisori, manager interni di controllo, banche di riferimento, clienti e fornitori strategici – tutti questi attori possono diventare alleati in un percorso di risanamento, se coinvolti con la giusta comunicazione. Il Codice spinge proprio per approcci collaborativi: i sindaci devono spronare gli amministratori, le banche devono motivare eventuali revoche, il Fisco deve sedersi al tavolo se gli dimostri convenienza. L’imprenditore non è più solo: sfrutti queste reti di supporto invece di temerle.
  • Soluzioni tailor-made e flessibilità mentale: ogni crisi è diversa. Grazie al ventaglio di strumenti, si può cucire una soluzione su misura (ad es. combinare una composizione negoziata con transazione fiscale, seguita da accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa per le banche, ecc.). L’importante è avere la mente aperta a tutte le opzioni e non fossilizzarsi. Per dire, se una mini-impresa familiare è sovraindebitata, forse la soluzione migliore è un concordato minore o la liquidazione controllata con esdebitazione, che libera l’imprenditore dai debiti e magari gli consente di ripartire pulito – a volte “tagliare” e ricominciare è meglio che ostinarsi a tenere in vita un’azienda decotta. Viceversa, se c’è un nucleo sano di business, può valer la pena lottare con un concordato in continuità.
  • Non abusare degli strumenti: il sistema traccia un percorso ma chiede serietà. Procedimenti come la composizione negoziata o i concordati non vanno usati alla leggera o come tattiche dilatorie. Oltre ai limiti legali (5 anni tra una procedura e l’altra), c’è la valutazione di meritevolezza: i giudici sanno distinguere un imprenditore sfortunato ma diligente da uno che usa le procedure per prendere tempo maliziosamente. Il primo verrà aiutato (e magari ammesso all’esdebitazione), il secondo rischia sanzioni e rigetto delle richieste.

In conclusione, “come si può prevenire la crisi d’impresa?” La risposta è: con una combinazione di buona gestione (controllo interno e rapidità decisionale) e di sapiente utilizzo degli strumenti legali oggi disponibili. L’imprenditore non è più di fronte al bivio secco “nascondere i problemi finché scoppia il fallimento, oppure pagare tutto al 100%”: esiste un terreno intermedio di negoziazione, ristrutturazione e concordato che può salvare valore economico e sociale. Il Codice della Crisi, benché perfezionabile, rappresenta un cambio di paradigma: dalla cultura del fallimento-punizione a quella della seconda chance e del salvataggio quando possibile.

Per i professionisti (avvocati, commercialisti) il compito è assistere l’imprenditore in modo integrato: non solo come tecnici della procedura, ma anche come consiglieri strategici, facilitatori di accordi e, all’occorrenza, mediatori tra l’impresa e i suoi creditori. Per imprenditori e privati investitori, il messaggio è di non avere paura di ammettere una difficoltà e di chiedere aiuto: farlo per tempo, in modo onesto e ben preparato, spesso suscita persino rispetto e fiducia nei partner commerciali. Del resto, la crisi d’impresa non è una colpa in sé – diventa tale solo se gestita con improvvisazione o occultamento.

Infine, va sottolineato il ruolo positivo che può giocare anche il sistema bancario e istituzionale: già si vedono prassi di “early warning” in cui le banche segnalano ai clienti indicatori di potenziale stress e li indirizzano alla composizione negoziata prima di revocare fidi. Segno che pian piano sta attecchendo la mentalità del “rescue” invece che del “punish”.

In definitiva, prevenire la crisi d’impresa oggi si può, e si deve, attraverso previsione, preparazione e prontezza. Una crisi ben gestita può trasformarsi in un’occasione di ristrutturazione e rilancio; ignorata, porta quasi sempre alla distruzione di valore e al rimpianto di non aver agito prima. Come recita un vecchio proverbio cinese: “Il momento migliore per piantare un albero era 20 anni fa. Il secondo momento migliore è adesso.” – Allo stesso modo, il momento migliore per attrezzarsi contro la crisi era prima che insorgesse, il secondo migliore è adesso: con gli strumenti del 2025 alla mano, un imprenditore avveduto può ancora salvare il suo “albero” aziendale anche se le foglie hanno cominciato a ingiallire. E noi professionisti saremo lì, al suo fianco, in questa importante sfida.

Fonti e riferimenti

Normativa:

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 (in vigore dal 15/07/2022), inclusi:
    • Artt. 2, comma 1, lett. d) (definizione di “imprenditore minore” sotto-soglia).
    • Artt. 3 e 24 (obbligo assetti adeguati e obblighi organi controllo).
    • Artt. 12–25-octies (Composizione negoziata e misure protettive).
    • Artt. 25-novies e seguenti (Allerta esterna OCRI – efficacia rinviata al 31/12/2023).
    • Art. 25-sexies (Concordato semplificato).
    • Artt. 56–64 (Piani attestati ex art.56; Accordi di ristrutturazione ex art.57; Accordi ad efficacia estesa ex art.61).
    • Art. 64-bis e segg. (Piani di ristrutturazione soggetti a omologazione – PRO).
    • Titolo V (Liquidazione giudiziale).
    • Art. 378 (Azione di responsabilità verso amministratori per violazione obblighi conservazione patrimonio).
  • Correttivi al CCII:
    • D.Lgs. 26 ottobre 2020 n. 147 (Correttivo “un bis”).
    • D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (Correttivo “bis”, recepisce Dir. UE 2019/1023).
    • D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (Correttivo “ter”, in vigore dal 28/09/2024) – introduce novità su composizione negoziata (transazione fiscale, divieto revoca fidi, semplificazioni PMI, obblighi revisori).
  • D.L. 24 agosto 2021 n. 118 (conv. L. 147/2021) – “Decreto Crisi d’impresa” che ha introdotto la composizione negoziata e il concordato semplificato.
  • Codice Civile, art. 2086 comma 2 – Obbligo per imprenditore collettivo di assetti adeguati e rilevazione tempestiva della crisi.
  • R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (Vecchia Legge Fallimentare) – rilevante per soglie “piccolo imprenditore” art. 1 co.2 (attivo €300k, ricavi €200k, debiti €500k) recepite nel CCII.
  • Legge 27 gennaio 2012 n. 3 (Legge sul sovraindebitamento) – abrogata dal 15/07/2022, sostituita da concordato minore, ristrutturazione consumatore, liquidazione controllata nel CCII.
  • D.M. 28 settembre 2021 Ministero Giustizia – Regolamento piattaforma telematica composizione negoziata e criteri di determinazione compenso esperto.
  • Direttiva (UE) 2019/1023 – Direttiva Ristrutturazioni e Insolvenza: principi recepiti nel CCII (introduzione PRO, allerta precoce, protezione misure, cross-class cram-down).

Giurisprudenza:

  • Cass. civ. Sez. I, 10 ottobre 2022 n. 29472 – Calcolo indebitamento €500k per fallibilità impresa minore (chiarisce criteri di computo).
  • Cass. civ. Sez. I, 26 settembre 2022 n. 28013 – In tema di sovraindebitamento: non omologabile un piano che paga solo il 3,82% ai creditori perché contrario a principi di ragionevolezza e meritevolezza; criterio richiamato anche per valutare congruità proposte in concordati minori.
  • Cass. civ. SS.UU. 9100/2015 – (citata in dottrina) Riconosce responsabilità degli amministratori per aggravamento dissesto (wrongful trading ante litteram) ove proseguano l’attività in perdita.
  • Tribunale di Nola, sez. II civ., decreto 15 maggio 2025 – Misure protettive in composizione negoziata concesse parzialmente: confermati stop esecuzioni ex art.18 CCII, escluse però misure ultra (divieto atti monitori, segnalazioni Centrale Rischi) per mancanza di periculum. Sottolinea ruolo dell’esperto nel consigliare giudice su tutele opportune.
  • Tribunale di Milano, sez. fallimentare, 2023 – (menzionato) Ha precisato che la pendenza di una composizione negoziata non impone automaticamente il rinvio di un’udienza prefallimentare già fissata, salvo decisione del giudice caso per caso. In linea con Cassazione: l’apertura della composizione non blocca istanze di fallimento se il tribunale non concede misure o rinvii discrezionalmente.
  • Tribunale di Roma, 14 ottobre 2022 (o altra pronuncia 2022) – Prime applicazioni cram-down fiscale post DL 118/2021: omologato concordato nonostante voto contrario Agenzia Entrate, reputando offerta più conveniente del fallimento (richiama Cass. 2018 e DL 125/2020 principio).
  • Cass. civ. SS.UU. 1521/2013 – Distingue fattibilità giuridica vs economica del concordato; il giudice non può sindacare nel merito la fattibilità economica se non per manifesta irrealizzabilità (principio recepito dal CCII art. 112).
  • Unioncamere – Massimario e Linee guida 2023-2024 su Composizione Negoziata – Raccolta di prassi applicative e orientamenti uniformi per esperti e tribunali (es. criteri concessione misure, calcolo soglie allerta). Documento citato come riferimento istituzionale.

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Conclusione

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