Quali Sono I Segnali Che Indicano Che Un’Azienda Sta Fallendo E Cosa Fare

Hai un’azienda o lavori in un’impresa e ti stai chiedendo quali sono i segnali che indicano che sta andando verso il fallimento? Noti tensioni con fornitori, problemi di liquidità o cali continui nel fatturato, ma non sai se si tratta di una crisi passeggera o di qualcosa di più grave?

Capire per tempo se un’azienda sta andando incontro all’insolvenza è fondamentale per evitare danni irreversibili, proteggere il patrimonio personale (se sei socio o amministratore) e salvare il valore dell’attività prima che sia troppo tardi.

Quali sono i segnali più evidenti di una crisi aziendale profonda?
– Fatturato in calo costante per mesi
– Incapacità di pagare fornitori nei tempi pattuiti
– Scoperti bancari sempre più frequenti
– Tensioni interne tra soci, amministratori o dipendenti
– Magazzino fermo, ordini in diminuzione, clienti in fuga
– Solleciti, decreti ingiuntivi o pignoramenti in arrivo
– Rate di mutui, leasing o finanziamenti non pagate
– Mancato versamento di imposte, contributi o buste paga

Da quando si può dire che un’azienda “sta fallendo”?
Quando non riesce più a far fronte regolarmente ai propri debiti, e non ha prospettive concrete di recupero. Il termine tecnico è “insolvenza”. Oggi non si parla più solo di fallimento, ma di “liquidazione giudiziale”. E prima di arrivarci, ci sono strumenti per intervenire.

Cosa deve fare un imprenditore che nota questi segnali?
– Fermarsi e analizzare con lucidità la situazione economico-finanziaria
– Verificare se la crisi è solo temporanea o strutturale
– Evitare di contrarre nuovi debiti inutili o “tappabuchi”
– Non aspettare: la crisi ignorata diventa insolvenza irreversibile

Quali sono gli strumenti per intervenire prima del fallimento?
Composizione negoziata della crisi: è una procedura riservata e protetta che consente di negoziare con i creditori, rinegoziare contratti, bloccare esecuzioni e pignoramenti
Piani di ristrutturazione dei debiti: permettono di allungare le scadenze e ridurre il peso del debito
Accordi con l’Agenzia delle Entrate e con l’INPS: per rateizzare imposte e contributi in modo sostenibile
Vendita parziale o liquidazione assistita: per salvare almeno parte del patrimonio e ridurre le responsabilità

Cosa succede se non si fa nulla?
– I debiti aumentano e i fornitori smettono di collaborare
– I creditori possono chiedere la liquidazione giudiziale
– Si rischia di rispondere con il proprio patrimonio personale in caso di gestione non corretta
– Le conseguenze possono colpire famiglia, casa, futuro professionale e reputazione

E se sei socio o amministratore?
Hai una responsabilità ancora maggiore. Se non agisci in modo tempestivo e consapevole, puoi essere chiamato a rispondere dei debiti dell’azienda con i tuoi beni personali, soprattutto in caso di omissioni, ritardi o mala gestio.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in gestione delle crisi aziendali – ti spiega quali sono i segnali che indicano che un’azienda sta andando verso il fallimento, cosa fare subito e quali strumenti puoi usare per fermare la crisi prima che sia troppo tardi.

Hai notato che la tua azienda non riesce più a stare in piedi? Vuoi evitare che la situazione ti sfugga di mano?

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Introduzione

Introduzione: Nel contesto italiano, “azienda che sta fallendo” è un’espressione colloquiale per descrivere un’impresa in grave difficoltà finanziaria, prossima all’insolvenza. In termini giuridici, con l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019) e successive modifiche, il termine fallimento è stato sostituito da “liquidazione giudiziale” per le procedure concorsuali di tipo liquidatorio. Tuttavia, i segnali di crisi restano fondamentali da riconoscere per evitare di arrivare a tale esito. La crisi d’impresa è definita dalla legge come uno squilibrio economico-finanziario tale da rendere probabile l’insolvenza futura, manifestato dall’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici rispetto alle obbligazioni da affrontare. L’insolvenza vera e propria, invece, è lo stato in cui l’imprenditore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, situazione che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori (es. protesti, pignoramenti).

Dal punto di vista dell’imprenditore/debitore, riconoscere precocemente i segnali di crisi è cruciale. La normativa italiana odierna (aggiornata a giugno 2025) impone un cambio di paradigma verso la prevenzione: rilevare tempestivamente i sintomi del dissesto consente di attivare strumenti di risanamento prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. Questa guida – con un taglio avanzato adatto a professionisti del diritto, imprenditori e privati – esamina tutti i tipi di impresa (dalle micro imprese alle grandi società) dal punto di vista del debitore in difficoltà. Verranno illustrati i segnali contabili e patrimoniali di crisi (ad esempio indici di bilancio, cash flow negativo, patrimonio netto insufficiente), nonché gli indicatori giuridici e procedurali (mancati pagamenti fiscali, azioni legali dei creditori, ecc.). Si fornirà inoltre un quadro delle riforme più recenti in materia di crisi d’impresa (tra cui il nuovo Codice della Crisi con i suoi correttivi, come il D.Lgs. 83/2022 e il D.Lgs. 136/2024) e degli strumenti introdotti (come la composizione negoziata).

La guida, strutturata in modo schematico con tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti, e simulazioni pratiche basate su casi reali (anonimizzati), offrirà infine indicazioni su cosa fare di fronte a tali segnali. Si esamineranno le strategie preventive e le possibili soluzioni – dai piani di risanamento agli accordi di ristrutturazione del debito, fino alle procedure concorsuali – che un imprenditore in crisi può intraprendere per evitare il tracollo, tutelando l’impresa e il proprio patrimonio personale.

1. Crisi d’impresa e insolvenza: definizioni e contesto normativo

Prima di addentrarci nei segnali di un probabile fallimento, è utile chiarire i concetti chiave nel quadro normativo attuale:

  • Crisi d’impresa: come anticipato, il Codice della Crisi (CCII) la definisce come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza dell’impresa, manifestandosi tipicamente in un’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni pianificate. In altre parole, l’azienda in crisi vede erodersi il proprio equilibrio finanziario e rischia, se non interviene, di non poter onorare i debiti nei mesi a venire. La nozione di crisi ha natura prospettica, concentrata sugli squilibri che potrebbero sfociare nell’insolvenza.
  • Insolvenza: è lo stadio successivo e più grave, corrispondente all’incapacità attuale e conclamata di pagare regolarmente i debiti. Si manifesta con fatti esteriori evidenti: ad esempio inadempimenti continuativi, protesti, decreti ingiuntivi, pignoramenti, ecc. Giuridicamente, lo stato d’insolvenza è quello che giustifica l’apertura di una procedura di liquidazione giudiziale (il vecchio fallimento). La Cassazione ribadisce che l’insolvenza equivale all’incapacità del debitore di fronteggiare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni in modo regolare.
  • Continuità aziendale: termine contabile/aziendale che indica la capacità dell’impresa di continuare la propria attività in condizioni di equilibrio economico-finanziario. La perdita della continuità (going concern) è un serio campanello d’allarme: significa che senza interventi l’azienda non può sostenersi nel futuro vicino. Il Codice della Crisi enfatizza la valutazione prospettica della continuità: l’assenza di ragionevoli prospettive di continuità, unita all’incapacità di sostenere i debiti per almeno 6 mesi, rientra tra gli indicatori di crisi normativi.
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII): entrato definitivamente in vigore dal 15 luglio 2022 (dopo rinvii e modifiche), ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare. Ha introdotto nuovi obblighi per gli imprenditori e gli organi societari, volti a intercettare precocemente la crisi e favorire interventi prima che l’insolvenza sia irreversibile. Il CCII ha subito vari correttivi: D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022 (attuativo della direttiva UE 2019/1023) e D.Lgs. 136/2024, che hanno integrato e chiarito le procedure. Tra le novità principali vi sono i cosiddetti “strumenti di allerta” (in parte ripensati nelle ultime riforme) e le procedure di composizione negoziata per la soluzione stragiudiziale della crisi.
  • Prospettiva del debitore: la normativa attuale (art. 2086 c.c. secondo comma, come modificato) impone all’imprenditore di attrezzarsi per rilevare tempestivamente lo stato di crisi e adottare adeguate misure. Ciò rappresenta un dovere legale di gestione prudente: non è più ammesso attendere inerzialmente il dissesto. Dal punto di vista pratico, questo significa che l’imprenditore, specialmente se titolare di una società di capitali, deve monitorare attivamente la salute dell’impresa e attivarsi in presenza di segnali di allarme, pena possibili responsabilità personali (civili e anche penali) per la cattiva gestione. Nelle sezioni seguenti vedremo quali sono questi segnali di allarme e quali obblighi/strumenti scattano al loro manifestarsi.

2. Indicatori finanziari e contabili di una crisi (campanelli d’allarme interni)

Il primo gruppo di segnali che un’azienda sta “fallendo” riguarda la situazione finanziaria, economica e patrimoniale dell’impresa, come riflessa dai dati contabili e di bilancio. Sono indicatori prevalentemente interni, che amministratori, sindaci (organi di controllo) e consulenti devono sorvegliare costantemente.

Di seguito elenchiamo i principali indicatori numerici di crisi e il loro significato, con riferimenti alle soglie critiche riconosciute dalla normativa o dalla prassi:

  • Perdite di esercizio continuative e patrimonio netto in erosione: la presenza di perdite rilevanti su più esercizi consecutivi segnala che l’impresa non riesce a generare utili sufficienti. Questo conduce a un’erosione del patrimonio netto. Un patrimonio netto negativo o insufficiente rispetto al capitale sociale minimo è un forte indice di crisi: ad esempio, per le società di capitali un patrimonio netto sotto zero (o inferiore al minimo legale) è causa di scioglimento ex art. 2484 c.c.. Tale situazione implica l’obbligo per gli amministratori di convocare l’assemblea e assumere provvedimenti (ricapitalizzazione o liquidazione), a pena di responsabilità personali. Dunque, capitale proprio azzerato o negativo = segnale di allarme immediato.
  • Indice di liquidità (rapporto attivo corrente/passivo corrente): misura la capacità dell’impresa di far fronte alle obbligazioni a breve termine con le attività correnti (liquidità di cassa, crediti esigibili, magazzino). Un indice di liquidità basso (sotto 1) significa che l’azienda non ha risorse correnti sufficienti a pagare i debiti a breve, indicando rischio di insolvenza di liquidità. Nelle linee guida del CNDCEC (Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti) sono proposte soglie di liquidità specifiche per settore: ad esempio, un indice corrente <0,8 (80%) potrebbe essere allarmante in certi settori, <1 in altri. In generale, disponibilità liquide e crediti insufficienti rispetto ai debiti esigibili = segnale critico.
  • Indici di sostenibilità del debito (Debt Service Coverage Ratio – DSCR): il DSCR confronta i flussi di cassa disponibili con il servizio del debito (ratei di finanziamenti e altri impegni finanziari) su un certo orizzonte temporale (spesso 6-12 mesi prospettici). È l’indice di sostenibilità finanziaria per eccellenza. Un DSCR < 1 significa che il cash flow previsto non copre le uscite per debito pianificate: è il segnale prospettico che l’impresa potrebbe non riuscire a pagare i debiti imminenti. Il Codice della Crisi considera critico un DSCR inferiore a 1 su 6 mesi. Questo indicatore, se calcolato regolarmente, permette di anticipare situazioni di tensione finanziaria prima che divengano insolvenza conclamata.
  • Indice di indebitamento eccessivo (leverage): un rapporto Debiti/Patrimonio netto molto elevato (ad esempio debiti totali molte volte il patrimonio) indica struttura finanziaria squilibrata. In particolare, un rapporto mezzi propri/debiti estremamente basso segnala che l’impresa è quasi interamente finanziata da terzi, dunque vulnerabile. Il Codice menziona l’“adeguatezza del patrimonio netto rispetto ai debiti” come criterio: patrimonio netto esiguo rispetto ai debiti totali è indice di crisi. Valori anomali di leva finanziaria uniti ad altri sintomi (es. utili assenti) devono insospettire il management.
  • Cash flow operativo negativo continuativo: collegato ai precedenti, se l’azienda brucia cassa dalle attività operative (flussi di cassa operativi negativi per più periodi), significa che genera meno cassa di quanta ne assorbe per spese e rimborso debiti. Un cash flow negativo per lungo tempo erode la liquidità e costringe a finanziarsi esternamente, aumentando l’indebitamento. È un segnale di crisi gestionale che spesso precede l’insolvenza. In sede di allerta, la legge chiede di guardare proprio ai flussi di cassa prospettici: flussi insufficienti a far fronte alle obbligazioni = stato di crisi in atto.
  • Calo significativo e persistente del fatturato o dei margini: un’azienda che vede i ricavi diminuire costantemente o i margini di profitto contrarsi (ad es. per aumento costi non riversato sui prezzi) può entrare in difficoltà. Sebbene un calo di fatturato possa essere fisiologico in alcuni periodi, un trend discendente strutturale è un segnale di perdita di competitività o di mercato, e spesso anticipa problemi finanziari. Anche senza parametri di legge precisi su questo, è un “campanello” qualitativo: forti cali di ricavi o margini richiedono analisi approfondita delle cause (domanda in calo? inefficienze?).
  • Aumento anomalo dell’indebitamento a breve: se l’azienda ricorre sempre più al credito bancario a breve termine (scoperti di conto, anticipi) per finanziare spese correnti o pagare fornitori, sta mascherando problemi di liquidità. Un incremento continuo delle linee di fido utilizzate, il tiraggio costante del castelletto bancario, l’accumulo di debiti verso fornitori, sono sintomi che l’attività corrente non si autofinanzia più. L’indebitamento a breve serve come “pezza” temporanea ma può diventare insostenibile.
  • Indici di bilancio fuori linea rispetto al settore: grazie alle elaborazioni del CNDCEC, oggi si considerano anche alcuni indicatori settoriali di allerta. Ad esempio: un indice di liquidità corrente sotto ~0,8 per imprese industriali o sotto ~1 per servizi potrebbe essere definito “allarmante” per quel settore; un indice di indebitamento fiscale (debiti tributari e previdenziali / attivo) sopra una certa soglia (% variabile col settore, es. >15%) è un segnale critico. Questi indici fungono da benchmark: se l’impresa presenta indicatori peggiori delle soglie settoriali, la probabilità di crisi aumenta. La normativa (art. 13 CCII) prevedeva che tali indici standard fossero emanati e aggiornati periodicamente, affinché imprenditori e controllori li utilizzassero come riferimento.

Per rendere più chiaro il quadro, riportiamo una tabella riepilogativa degli indicatori finanziari chiave di crisi e delle relative soglie indicative:

Tabella 1 – Principali indicatori quantitativi di crisi (Art. 13 CCII)

IndicatoreDescrizione (segnale di crisi quando…)Ambito di applicazioneRiferimenti / Note
Sostenibilità del debito (DSCR)Flussi di cassa prospettici insufficienti a coprire il servizio del debito nei prossimi 6 mesi. Segnale critico se DSCR < 1.Tutte le imprese (con debiti finanziari)Art. 13 co.1 CCII: “non sostenibilità dei debiti per almeno 6 mesi”; Indice introdotto dalla riforma.
Adeguatezza mezzi propriPatrimonio netto insufficiente rispetto ai debiti totali. Segnale di crisi se patrimonio netto ≤ 0 o sotto al minimo legale.Società di capitali (Srl, SpA)Patrimonio netto negativo o < capitale minimo = causa di scioglimento ex art. 2484 c.c..
Liquidità corrente (attivo circolante / passivo a breve)Incapacità di far fronte alle scadenze imminenti con risorse correnti. Segnale se indice < 1 (soglia precisa varia per settore).Tutte le imprese (soprattutto PMI)Indice di allerta CNDCEC: soglia settoriale ~0,7–1,0 secondo settore. Valore <1 indica rischio insolvenza di liquidità.
Ritardi di pagamentoRitardi reiterati e significativi verso fornitori o altri creditori (incl. Fisco, banche).Tutte le impreseConsiderati indicatori di crisi ex art. 13 CCII (richiamo all’art. 24 CCII per debiti verso PA). Es.: pagamenti sistematicamente oltre i termini contrattuali.
Perdite e calo fatturatoPerdite continue su più esercizi o forte riduzione del fatturato non episodica. Segnale di crisi economica aziendale.Tutte (in particolare PMI)Non quantificato in norme, ma segnale qualitativo importante (crisi reddituale). Colpisce soprattutto settori con margini ridotti o in declino.
Indebitamento fiscale/previdenzialeElevati debiti verso Erario e INPS rispetto all’attivo. Indice composito che segnala difficoltà se oltre soglia (es. >5-10% dell’attivo).Tutte (spec. PMI)Indice di allerta CNDCEC: soglia variabile 3–15% per settori. Superamento indica accumulo di debiti verso Stato (campanello formale).

(Fonte: elaborazione da art. 13 CCII e Linee guida CNDCEC 2019)

Osservazione: Di norma non è un singolo numero negativo a decretare la crisi, ma una combinazione di fattori. La presenza contemporanea di più indicatori deteriorati accende un forte campanello d’allarme. Tuttavia, anche un solo indicatore gravemente fuori norma e persistente nel tempo (es. DSCR ≪ 1 per alcuni mesi, oppure patrimonio netto negativo conclamato) può essere sufficiente a evidenziare che l’equilibrio finanziario dell’azienda è compromesso. Gli amministratori dovrebbero dunque monitorare periodicamente tutti questi parametri, sia attraverso i bilanci annuali sia mediante situazioni infrannuali (trimestrali, semestrali) e proiezioni future, per cogliere subito eventuali trend preoccupanti.

3. Segnali legali, fiscali e procedurali di crisi (indicatori esterni)

Oltre agli indicatori interni di natura finanziaria, esistono segnali esterni e giuridico-procedurali che indicano che l’azienda è avviata verso il fallimento (insolvenza). Questi segnali spesso derivano dal mancato adempimento di obblighi verso terzi e dalle reazioni dei creditori o degli organi di controllo. Sono importanti perché, se presenti, oltre a indicare uno stato di crisi, possono attivare specifiche conseguenze legali previste dalla normativa.

Ecco i principali segnali “esterni” di crisi da tenere sotto osservazione:

  • Inadempimenti verso il Fisco e gli enti previdenziali: il reiterato mancato pagamento di imposte e contributi è uno degli indicatori più evidenti di difficoltà. Ad esempio, omittere il versamento dell’IVA alle scadenze periodiche, o accumulare debiti con l’INPS per contributi dei dipendenti, segnala carenza di liquidità e tendenza a utilizzare la cassa per altre urgenze. La legge ha introdotto soglie specifiche oltre le quali questi inadempimenti fanno scattare allerta: ad esempio, IVA non versata per oltre il 30% del fatturato (e importi sopra 25.000 €, 50.000 € o 100.000 € a seconda della dimensione d’affari) è considerata rilevante; contributi INPS arretrati di oltre 6 mesi per più del 50% di quelli dovuti nell’anno precedente e oltre 50.000 € fanno scattare segnalazione. Questi dati non solo indicano crisi, ma per legge obbligano i creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, Agente della Riscossione) a segnalare la situazione al debitore e, in certi casi, avviano procedure di allerta (vedi §4).
  • Debiti verso fornitori scaduti e insoluti: quando un’azienda paga sistematicamente in ritardo i propri fornitori, o accumula insoluti (pagamenti promessi e non effettuati), il mercato percepisce una situazione di potenziale insolvenza. I fornitori possono reagire riducendo le forniture a credito, imponendo pagamenti anticipati o avviando azioni legali (ingiunzioni di pagamento). Dal punto di vista dell’impresa debitrice, ritardi significativi e ripetuti nei pagamenti commerciali sono esplicitamente annoverati tra gli indicatori di crisi dal Codice. Se i fornitori iniziano a bloccare le forniture o a pretendere solo pagamento anticipato, significa che la fiducia è venuta meno: un segnale inequivocabile che la situazione finanziaria è compromessa.
  • Deterioramento dei rapporti bancari: le banche hanno sistemi di rating interno e di monitoraggio che spesso colgono il declino di un’impresa prima di altri. Segnali tipici sono: revoca o riduzione dei fidi e degli affidamenti concessi, richiesta di rientro dalle esposizioni di cassa, peggioramento del merito creditizio (rating) dell’azienda, o classificazione a sofferenza/“inadempienza probabile” (UTP) dei crediti bancari verso l’azienda. Se la banca restringe il credito, è sintomo che vede l’azienda a rischio. Un’azienda sana raramente subisce la revoca improvvisa dei fidi, mentre un’impresa in crisi spesso riceve comunicazioni di rientro immediato o di mancato rinnovo delle linee di credito. Questo può innescare un effetto domino sulla liquidità, aggravando ulteriormente la crisi.
  • Segnalazioni degli organi di controllo societari: nelle società dove è presente un organo di controllo interno (collegio sindacale, sindaco unico, revisore), questi soggetti hanno il dovere di vigilare sulla continuità aziendale. Se i sindaci o il revisore emettono richiami o avvisi formali agli amministratori indicando “fondati indizi di crisi”, siamo di fronte a un segnale ufficiale e gravissimo. Ad esempio, il collegio sindacale potrebbe scrivere al CDA segnalando che il patrimonio è sceso sotto il minimo legale, o che gli indici di liquidità interni sono fuori parametro. In tal caso gli amministratori devono attivarsi immediatamente; diversamente, l’organo di controllo ha l’obbligo di informare l’Organismo di composizione della crisi d’impresa (O.C.C.I.) presso la Camera di Commercio. Questa escalation (segnalazione interna ignorata → segnalazione all’OCC) è prevista dall’art. 14 CCII come meccanismo di allerta interno. Dunque, una comunicazione ufficiale dei sindaci che invita a intervenire è segnale che la crisi è conclamata secondo parametri legali.
  • Azioni legali e pignoramenti da parte dei creditori: quando i creditori iniziano ad attivarsi giudizialmente – ad esempio notificando decreti ingiuntivi, atti di pignoramento su conti o beni aziendali, o promuovendo istanze di fallimento (liquidazione giudiziale) – la situazione è già molto seria. Un’azienda sommersa dai decreti ingiuntivi è quasi certamente insolvente di fatto. Anche un singolo pignoramento non onorato o una procedura esecutiva bloccata per mancanza di beni liquidabili sono indicatori incontrovertibili di insolvenza. Il CCII prevede misure protettive (sospensione delle azioni) solo se l’imprenditore attiva una procedura concordataria o di composizione; in assenza di ciò, il moltiplicarsi di azioni esecutive è il preludio al fallimento giudiziale. In sintesi, se i creditori portano l’azienda in tribunale, significa che ritengono la situazione irreversibile.
  • Segnalazioni da parte dei “creditori pubblici qualificati”: come accennato, l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della Riscossione hanno un ruolo specifico di allerta. La normativa (art. 15 CCII) impone a questi enti, al ricorrere di certe soglie di debito scaduto, di inviare una segnalazione riservata all’imprenditore per avvisarlo del grave ritardo e invitarlo a intervenire. Ad esempio, Agenzia Entrate invierà una comunicazione se rileva IVA non versata >30% del volume d’affari e sopra la soglia monetaria stabilita. L’INPS farà altrettanto per contributi non versati >50.000 €. L’Agente della riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) segnalerà se ci sono carichi affidati scaduti da oltre 90 giorni per più di 500.000 € (ditte individuali) o 1.000.000 € (società). Queste segnalazioni non sono pubbliche (sono “riservate”), ma costituiscono un formale alert previsto dalla legge. Se l’imprenditore le ignora, possono preludere all’attivazione di un percorso di composizione assistita o comunque aggravare la posizione (es. l’AE può proporre misure coercitive). Pertanto, ricevere una lettera di allerta da un ente pubblico è un segnale gravissimo: significa che si è oltrepassato il limite di tolleranza del sistema.

Riassumiamo anche qui in forma tabellare alcune soglie normative di segnalazione automatica da parte di creditori pubblici (strumenti di allerta esterna):

Tabella 2 – Soglie di allerta previste per creditori pubblici (art. 15 CCII)

Ente segnalanteCondizione di segnalazione al debitoreSoglia quantitativaRiferimento normativo
Agenzia EntrateIVA periodica scaduta e non versata > 30% del fatturato del periodo di riferimento.Se volume d’affari annuale: < €10 mln, soglia > €25.000; tra €10-30 mln, > €50.000; oltre €30 mln, > €100.000 di IVA non versata.Art. 15 CCII. Soglie crescenti per dimensione azienda.
INPSOmessi versamenti contributivi per oltre 6 mesi, superanti il 50% dei contributi dovuti nell’anno precedente.Importo dovuto arretrato > €50.000.Art. 15 CCII. Segnalazione scatta dopo persistente insolvenza contributiva.
Agente della Riscossione (ADER)Cartelle esattoriali/ruoli scaduti da oltre 90 giorni dopo 1/9/2021 (per debiti tributari accertati).Debito scaduto > €500.000 (imprese individuali) o > €1.000.000 (società).Art. 15 CCII. Si riferisce a debiti fiscali iscritti a ruolo o accertati esecutivi.

(Le soglie sopra indicano quando l’ente deve attivarsi con una segnalazione al debitore.)

  • Altri segnali legali di difficoltà: oltre ai citati, possiamo includere elementi come la mancata approvazione del bilancio nei termini (spesso indice di disaccordi o di volontà di celare perdite), le dimissioni improvvise di amministratori o sindaci (possibili segnali di dissidi sulla gestione di una crisi latente), l’intervento di autorità (es. il tribunale che nomina un commissario giudiziale in sede di concordato “in bianco”), o anche situazioni come litigiosità grave tra soci che impedisce all’impresa di operare (non un indicatore finanziario, ma spesso concomitante a crisi economiche). Inoltre, se l’impresa appartiene a un gruppo, un segnale può venire dalla crisi della capogruppo o di consociate, dato che le difficoltà possono propagarsi infragruppo.

In sintesi, i segnali procedurali e legali funzionano spesso da conferma esterna di ciò che gli indici finanziari interni mostrano. Una buona gestione deve tenere d’occhio entrambi gli aspetti: i numeri interni e i feedback esterni (creditori, banche, autorità).

Se emergono uno o più di questi segnali esterni, l’imprenditore deve essere consapevole che la macchina legale potrebbe già essersi messa in moto: ignorare tali avvisi può portare rapidamente al precipitare degli eventi (congelamento dei conti, istanze di fallimento depositate da creditori, ecc.). Nel prossimo paragrafo vedremo quali differenze ci sono in questi obblighi e segnali a seconda della dimensione dell’impresa, e successivamente come agire.

4. Differenze in base alla dimensione e al settore dell’impresa

Non tutte le imprese sono uguali di fronte ai segnali di crisi e agli obblighi normativi. Il Codice della Crisi prevede alcune differenze di regime a seconda della dimensione dell’impresa e del settore economico in cui opera:

4.1 Microimprese, PMI e grandi imprese – ambito di applicazione del Codice

  • Le grandi imprese (quelle che superano almeno due dei tre limiti comunitari: attivo €20 mln, ricavi €40 mln, dipendenti >250) sono escluse dall’ambito di applicazione delle procedure di allerta del CCII. Per esse continuano a valere gli strumenti tradizionali: la disciplina societaria ordinaria (ad es. gli obblighi di riduzione del capitale ex artt. 2446-2447 c.c. se le perdite superano 1/3), la possibilità di accedere ad amministrazione straordinaria se insolventi e con requisiti dimensionali (leggi Prodi-bis e Marzano per grandi crisi industriali), e in generale le procedure concorsuali classiche (concordato preventivo, liquidazione giudiziale). Ciò significa che per le grandi imprese non operano gli obblighi di segnalazione precoce degli artt. 13-15 CCII: niente composizione negoziata obbligatoria, niente segnalazioni automatiche OCRI. Resta però ferma la responsabilità degli amministratori secondo le norme generali (anche penali, es. reati di bancarotta) se non gestiscono correttamente situazioni di crisi. In sostanza, un’impresa di grande dimensione non ha l’“airbag” delle procedure di allerta interne, ma neppure l’obbligo di adeguarsi a quelle regole specifiche – dovrà comunque affrontare la crisi con gli strumenti concorsuali o privatistici disponibili, sotto pena delle sanzioni ordinarie.
  • Le PMI (piccole e medie imprese) e le microimprese rientrano invece in pieno nel campo di applicazione del Codice della Crisi. Ciò comporta che anche la piccola società a responsabilità limitata, o la micro-impresa individuale, debbano rispettare i nuovi obblighi: dotarsi di assetti organizzativi adeguati (art. 2086 c.c. e art. 3 CCII), monitorare gli indici di cui sopra, soggiacere alle segnalazioni interne da parte di organi di controllo (se presenti) ex art. 14 CCII e alle segnalazioni esterne dei creditori pubblici ex art. 15 CCII. Inoltre, queste imprese hanno accesso (volontario) alla composizione negoziata della crisi introdotta nel 2021 (ne parleremo in §5). In altre parole, la filosofia dell’allerta anticipata è pensata soprattutto per le PMI, che in Italia costituiscono la stragrande maggioranza delle imprese. Anche le microimprese, pur con alcune semplificazioni, non ne sono esenti.
  • Microimprese: sono le imprese molto piccole (criteri art. 2 CCII per “impresa minore”: attivo ≤ €300k, ricavi ≤ €200k, debiti ≤ €500k). Prima della riforma queste imprese godevano di regimi contabili semplificati (bilancio micro). Il Codice della Crisi ha reso necessario anche per loro estrarre informazioni utili per gli indici di allerta. Ad esempio, una ditta individuale in regime di bilancio micro (senza nota integrativa dettagliata) dovrà comunque calcolare in modo extra-contabile elementi come i debiti tributari e previdenziali scaduti, il cash-flow previsionale, ecc., per poter valutare i propri indicatori di crisi. Questa è una piccola complicazione burocratica: in pratica anche la micro-impresa deve “contabilizzare” i propri flussi di cassa futuri e fare un mini-check up periodico, altrimenti rischia di scoprire la crisi troppo tardi. Non avendo spesso un organo di controllo né bilanci complessi, tutto questo è responsabilità diretta dell’imprenditore stesso (o del consulente di fiducia).

Tabella 3 – Adeguamenti in base alla dimensione dell’impresa

AspettoMicroimprese (es. ditta individuale, società persone sotto soglia)PMI (piccole e medie)Grandi imprese (oltre soglie UE)
Applicazione CCIISì, in teoria. Beneficiano di poche semplificazioni. Devono comunque adeguarsi ai principi di allerta (anche se con mezzi propri semplificati).Sì, piena applicazione di obblighi di allerta, composizione negoziata, ecc.No, escluse ex art. 1 CCII. Restano soggette a norme ordinarie (codice civile) e procedure speciali (es. Amm. straordinaria).
Bilanci e adempimentiBilancio “micro” possibile (schema ridotto, no nota integrativa analitica). Tuttavia, richiesto di integrare dati extra (es. debiti fiscali, flussi di cassa) per calcolare indici.Bilancio almeno “abbreviato” o ordinario, con nota integrativa che deve indicare gli indici di allerta utilizzati e la loro adeguatezza (art. 13 co.2-3 CCII).Bilanci ordinari completi (spesso anche consolidati). Non soggetti a note integrative sugli indici CCII. Devono però rispettare regole generali di bilancio e continuità (OIC, IAS).
Organi di controlloDi solito nessuno (nelle micro società di persone o ditte indiv.). Quindi tutto il monitoraggio ricade sull’imprenditore/amministratore unico. Se c’è un sindaco (caso raro in micro), allora opera come per PMI.Società di capitali: obbligo di sindaco unico/collegio o revisore se superano parametri ridotti (art. 2477 c.c.). Tali organi esercitano i doveri di cui all’art. 14 CCII (segnalazione indizi di crisi agli amministratori).Grandi imprese hanno collegi sindacali e società di revisione per legge, ma non con obblighi ex art. 14 CCII. Vigilano secondo norme ordinarie (Controllo contabile, 2403 c.c. ecc.) e segnalano eventualmente alle autorità (no OCRI).
Monitoraggio indiciPiù complesso per mancanza di dati formali: l’imprenditore deve creare “cruscotti” interni (es. rendiconti cassa mensili) per stimare DSCR & co.Strutturato: calcolo e analisi indici obbligatorio annualmente (nota integrativa) e raccomandato infrannualmente. Possibilità di usare indici personalizzati se quelli standard non adatti, con attestazione di esperto.Nessun obbligo specifico di allerta interna, ma di fatto le grandi aziende implementano sistemi di controllo di gestione sofisticati. Il monitoraggio è rimesso a best practice e vigilanza del CdA.
Allerta e composizioneAllerta interna: se niente organo controllo, dipende dal titolare riconoscere la crisi.Allerta esterna: soglie art.15 CCII valgono anche per micro (es. debiti IVA, INPS…).Accesso volontario a Composizione negoziata possibile (dal 2021).Allerta interna: organo di controllo segnala ad amministratori e poi OCRI se ignorato (art. 14-15). Allerta esterna: soglie debito PA (Tab.2) applicabili. Possono attivare Composizione negoziata tramite piattaforma telematica camerale.Nessuna allerta obbligatoria. Possono però aderire volontariamente alla composizione negoziata (non vietato per grandi). In caso di crisi grave, strumenti principali: accordi ristrutturazione, concordato, o se in certe condizioni Amm. Straordinaria (per insolvenze di grandi dimensioni).

(Fonte: art. 1 e 2 CCII; art. 2086 c.c. mod.; D.L. 118/2021; elaborazione)

4.2 Incidenza del settore economico sugli indicatori

Sebbene le regole siano generali, la natura del settore in cui l’impresa opera può far sì che alcuni segnali di crisi siano più rilevanti o si manifestino diversamente:

  • Settore manifatturiero/industriale: di solito caratterizzato da elevati investimenti in impianti e da notevole utilizzo di capitale circolante. Qui assumono particolare importanza indicatori come il DSCR (perché queste imprese hanno spesso mutui/leasing e debito bancario significativo da servire) e l’indice di indebitamento bancario. Un’industria meccanica, ad esempio, con molti macchinari finanziati a debito, dovrà monitorare strettamente la capacità del cash flow operativo di pagare rate e interessi. Inoltre, per aziende manifatturiere l’andamento del magazzino e la sua rotazione sono critici: un eccesso di scorte invendute può segnalare calo della domanda.
  • Settore edile/costruzioni: ha dinamiche cicliche e spesso ritardi nei pagamenti (sia in incasso da committenti sia in pagamento a sub-fornitori) abbastanza comuni. In questo settore un segnale precoce di crisi può essere l’accumulo di crediti non riscossi e, di conseguenza, l’aumento dei debiti verso fornitori e debiti fiscali (IVA in particolare) perché l’impresa, non incassando dal cliente principale, tende a omettere i versamenti IVA su quei crediti non pagati. Dunque, per un’impresa edile, ritardi reiterati nei pagamenti ai fornitori e crescita del debito IVA segnalano fortemente una crisi in arrivo.
  • Commercio al dettaglio e distribuzione: margini solitamente contenuti e forte dipendenza dal capitale circolante (scorte + crediti vs fornitori). Segnali di crisi qui includono l’incremento delle rimanenze invendute (indica calo nelle vendite) e la riduzione progressiva del capitale proprio a causa di perdite. Anche la diminuzione della quota di mercato può essere un indicatore qualitativo: se un negozio perde clientela costantemente a favore dei concorrenti, presto avrà problemi di ricavi insufficienti.
  • Servizi e tecnologia: spesso richiedono meno capitale fisso, ma hanno ricavi più volatili e legati al ciclo economico. Per le imprese di servizi, l’attenzione va alla redditività operativa (EBITDA) e ai flussi di cassa, poiché non avendo magazzino su cui far cassa, un calo di contratti impatta subito la liquidità. Un segnale tipico è il calo del portafoglio ordini/contratti, oppure l’aumento dei costi fissi non coperti. Qui l’indice di liquidità e il DSCR rimangono cruciali, ma l’analisi spesso si concentra su KPI operativi (ad esempio, ore fatturabili/utilizzate nel consulting, tassi di rinnovo abbonamenti nel software, etc.).

In generale, il CNDCEC ha previsto soglie differenti per settore proprio per tarare gli indicatori di allerta alla diversa natura dei business. Ad esempio, come già detto: un indice di liquidità accettabile in un settore può essere considerato pessimo in un altro; oppure una percentuale di debito fiscale tollerabile in un settore può essere troppo alta in un altro. Ciò non modifica i meccanismi di base (ogni imprenditore deve vigilare su liquidità, solvibilità e patrimonio comunque), ma aiuta a contestualizzare i numeri. Un imprenditore dovrebbe confrontare i propri indici con quelli medi del settore e con le soglie ufficiali proposte: se li supera in negativo, la crisi è ancora più probabile.

5. Cosa fare di fronte ai segnali di crisi: obblighi e strumenti di reazione

Poniamo che un imprenditore (o un professionista che lo assiste) abbia rilevato uno o più segnali di crisi tra quelli discussi. Cosa bisogna fare, dal punto di vista del debitore, una volta accesi questi campanelli d’allarme? In questa sezione illustriamo i passi immediati da compiere, gli obblighi di legge e le opportunità offerte dagli strumenti di composizione della crisi. L’obiettivo è evitare che i segnali di crisi si trasformino in insolvenza irreversibile e gestire proattivamente la situazione.

5.1 Obblighi di amministratori e imprenditori in caso di crisi incipiente

La normativa impone agli organi amministrativi dell’impresa alcuni comportamenti doverosi non appena emergono fondati indizi di crisi:

  • Attivazione degli assetti organizzativi “adeguati”: l’art. 2086 c.c. (comma 2) novellato richiede all’imprenditore di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi. Questo non è un mero adempimento formale, ma un obbligo sostanziale: significa che l’impresa deve dotarsi di sistemi di controllo di gestione, budgeting, monitoraggio finanziario idonei a far emergere subito gli squilibri. Se i segnali di crisi compaiono e l’impresa non li aveva rilevati per tempo per carenza di assetti, gli amministratori possono essere ritenuti responsabili di mala gestio. Cassazione e giurisprudenza recente sottolineano che la predisposizione di adeguati assetti è la prima linea di difesa: ignorarla è una grave negligenza, specie una volta che la crisi inizia a manifestarsi. Ad esempio, la Cassazione (Sez. Unite) n. 17979/2022 ha evidenziato che dotarsi di un efficace sistema di controllo di gestione interno (con conti economici periodici, bilanci previsionali, ufficio tesoreria) è parte integrante dell’obbligo di adeguatezza organizzativa. Dunque, prima reazione: verificare se l’azienda ha strumenti interni per analizzare la crisi e, in caso contrario, provvedere immediatamente (anche avvalendosi di consulenti esterni per sopperire).
  • Convocazione immediata degli organi societari competenti: se la società è di capitali ed emerge una perdita rilevante oltre i limiti di legge (artt. 2446-2447 c.c. per Spa, 2482-bis/ter c.c. per Srl), gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea dei soci per i provvedimenti del caso (riduzione capitale e ricapitalizzazione, o trasformazione, o liquidazione). Questo è un obbligo legale: l’inerzia è fonte di responsabilità personale. Anche senza perdite formalmente a bilancio, se la situazione finanziaria è critica, il CdA dovrebbe informare i soci e condividere un piano d’azione. La trasparenza interna è fondamentale: ritardare per “nascondere la polvere sotto il tappeto” spesso aggrava le cose.
  • Attivazione delle procedure di allerta/composizione assistita: in presenza di “fondati indizi di crisi” gli amministratori dovrebbero valutare di attivare essi stessi (volontariamente) la procedura di composizione negoziata della crisi (si veda oltre) o comunque misure di ristrutturazione del debito. Se esiste un organo di controllo che ha formalmente segnalato la crisi, ignorare tale segnalazione per oltre 60 giorni comporta che i sindaci inoltrino la segnalazione all’Organismo di Composizione Crisi istituito presso la Camera di Commercio. Pertanto, è nell’interesse dell’imprenditore giocare d’anticipo: appena i segnali diventano concreti, prendere contatto con esperti della crisi d’impresa, predisporre un abbozzo di piano di risanamento e valutare se accedere a strumenti di composizione (negoziata o procedura concorsuale minore) prima che scattino segnalazioni esterne. Ciò può consentire di beneficiare anche di misure protettive (sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori) e di condurre le trattative in modo ordinato.
  • Evitare atti aggravatori della posizione debitoria: un imperativo di condotta per l’imprenditore in crisi è non peggiorare il dissesto con azioni irresponsabili. In particolare, non contrarre nuovi debiti se non sostenibili, non porre in essere pagamenti preferenziali a detrimento di altri creditori, non dilapidare il patrimonio residuo con operazioni azzardate. Ad esempio, continuare ad acquistare merce o materia prima a credito sapendo di non poter pagare, oppure pagare solo alcuni fornitori “amici” lasciando indietro gli altri, sono comportamenti che possono configurare responsabilità gravissime in caso di successivo fallimento (bancarotta preferenziale, responsabilità per aggravamento del passivo ex art. 2476 c.c. per gli amministratori). La regola aurea è agire con la diligenza del “buon padre di famiglia” in stato di emergenza: conservare le risorse aziendali, impiegarle solo per la continuità minima e per operazioni che abbiano prospettiva di risanamento, astenersi da qualunque distrazione di beni.
  • Informare correttamente i creditori chiave: sebbene non vi sia un obbligo legale generalizzato di comunicare la crisi ai creditori, in una logica di correttezza e di tentativo di salvataggio, può essere opportuno coinvolgere i principali creditori (banche, fornitori strategici) spiegando la situazione e prospettando un piano per rientrare. Questo spesso avviene nell’ambito di un piano di risanamento attestato o di un accordo di ristrutturazione (vedi §6), dove serve il consenso dei creditori. Un dialogo tempestivo può evitare che i creditori, all’oscuro di tutto, precipitino la situazione (revocando fidi o aggredendo l’azienda). Naturalmente questo va fatto con cautela e in un contesto di negoziazione guidata da esperti, per non esporre l’azienda a ulteriore rischio (ad es. evitando di generare panico ingiustificato).

Riassumendo: l’imprenditore in crisi ha il dovere di reagire attivamente. Non esiste più la possibilità di far finta di nulla. Ignorare i segnali e proseguire l’attività come nulla fosse può costare caro: oltre ad aggravare il dissesto, si rischiano azioni di responsabilità e sanzioni (si pensi anche all’eventuale fiscalizzazione penale di certe condotte, come l’omesso versamento di IVA oltre soglie penali, o l’omesso versamento di ritenute – reati che talvolta possono essere scriminati dalla crisi di liquidità solo se l’imprenditore prova di aver fatto tutto il possibile).

In definitiva, appena scattano i campanelli d’allarme: analisi approfondita immediata, attivazione di consulenti (legali, finanziari) esperti in crisi, predisposizione di un piano di emergenza. Meglio muoversi un anno prima che un giorno troppo tardi.

5.2 Strumenti di risanamento extragiudiziali: piani attestati e accordi di ristrutturazione

Tra le opzioni a disposizione di un debitore in crisi vi sono soluzioni stragiudiziali o para-giudiziali che consentono di evitare – se possibile – la ben più traumatica procedura fallimentare (liquidazione giudiziale) o anche il concordato preventivo. I principali strumenti di questo tipo, previsti e disciplinati dal Codice della Crisi, sono:

  • Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII): È un piano di risanamento dell’impresa formale ma privato, basato su un accordo con taluni creditori, il cui scopo è il riequilibrio della situazione finanziaria. Il piano deve essere “attestato” da un professionista indipendente (un attestatore) che ne conferma la fattibilità e veridicità dei dati. Non richiede l’omologazione del tribunale né soglie di adesione prestabilite: può essere un accordo anche individuale con alcune banche o creditori strategici, purché idoneo a risanare l’impresa. Il vantaggio del piano attestato è la riservatezza (non diventa pubblico) e la relativa snellezza: è disciplinato in un solo articolo di legge. Inoltre, atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano attestato godono di esenzione dall’azione revocatoria fallimentare e non costituiscono reato di bancarotta preferenziale (il presupposto è che il piano sia idoneo a risanare, quindi quelle operazioni sono “protette” perché finalizzate al salvataggio). Il limite del piano attestato è che non vincola i creditori dissenzienti: solo chi aderisce ne è parte. Non c’è una soglia minima di adesione, ma evidentemente serve trovare accordi bilaterali con abbastanza creditori chiave da risolvere la crisi. È uno strumento flessibile, adatto a crisi non ancora troppo estese o con pochi creditori principali.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti (artt. 57–64 CCII): È uno strumento più vicino a una procedura concorsuale, pur mantenendo natura negoziale. Richiede che il debitore raggiunga un accordo con almeno il 60% dei crediti (in valore) – soglia ridotta al 30% per i nuovi “accordi agevolati” introdotti dal 2022 in certi casi. L’accordo deve essere omologato dal Tribunale, il quale verifica la fattibilità e il rispetto della legge. Rispetto al piano attestato, l’accordo di ristrutturazione offre maggiori effetti protettivi: oltre all’esenzione da revocatorie e protezione penale analoghe al piano, comporta il blocco delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori durante la pendenza e dopo l’omologazione. Inoltre, consente la prededuzione (priorità di rimborso) ai nuovi finanziamenti erogati per eseguire l’accordo. In sintesi, è un quadro negoziale formalizzato che, una volta omologato, impone ai creditori aderenti il rispetto dei termini pattuiti e tutela l’impresa da aggressioni esterne. Non coinvolge automaticamente i creditori che non hanno aderito (salvo alcune eccezioni, come gli “accordi ad efficacia estesa” che vincolano anche i dissenzienti di certe categorie, introdotti dalla riforma di recepimento direttiva UE). L’accordo è regolato in dettaglio (ben 11 articoli, più richiami alle norme sul concordato), segno che il legislatore lo considera uno strumento robusto e “controllato”. Lo svantaggio può essere la maggior complessità e durata: va depositato un ricorso in tribunale, i creditori possono fare opposizione all’omologazione, c’è un giudice che sovraintende. Dunque, serve un caso di crisi già avanzata ma con possibilità di recupero concordato.
  • Accordi e piani “ibridi” introdotti di recente: il CCII, aggiornato al 2022, ha previsto alcune varianti: ad esempio l’accordo di ristrutturazione agevolato (soglia 30% adesioni, per facilitare l’accordo in certe situazioni) e l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (che consente di estendere gli effetti a creditori non aderenti appartenenti a una certa categoria omogenea, tipicamente finanziatori, se aderisce una percentuale qualificata di quella categoria). Inoltre, esiste il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO), un istituto innovativo che consente di sottoporre a omologazione un piano anche senza la formalizzazione di un accordo di ristrutturazione tradizionale, in presenza di certe condizioni, con eventuale voto dei creditori in tribunale (si avvicina a un concordato preventivo semplificato). Questi strumenti derivano dal recepimento della direttiva UE 2019/1023 e mirano a maggiore flessibilità nelle soluzioni di risanamento concordate col ceto creditorio.

Piano attestato vs. Accordo di ristrutturazione – differenze principali: Un piano attestato di risanamento è un’iniziativa più privata, basata su contratti bilaterali e sull’attestazione di un esperto, senza intervento diretto del tribunale (se non ex post, in caso di fallimento successivo, il piano verrà valutato per es. per esenzione revocatorie). Un accordo di ristrutturazione è un’operazione mista privata/pubblica: nasce da accordi, ma è validato dallo Stato (Tribunale) e diventa efficace erga omnes per i creditori aderenti. In genere, un’azienda sceglie il piano attestato se la crisi è ancora gestibile con accordi con pochi attori (es. solo banche) e vuole massima riservatezza; opta per l’accordo di ristrutturazione se ha molti creditori da mettere d’accordo e necessita di protezione dalle aggressioni mentre mette in atto il piano. Come evidenziato da commentatori, l’accordo è più “conosciuto” e garantito (perché omologato e pubblico), ma può richiedere tempi più lunghi e affrontare possibili opposizioni. Il piano è rapido ma non offre, ad esempio, il blocco dei pignoramenti se un creditore fuori accordo vuol procedere.

Dal punto di vista pratico per il debitore, entrambe le soluzioni richiedono: predisporre un piano industriale e finanziario dettagliato, con proiezioni su alcuni anni, che mostri come l’azienda intende risanarsi (taglio costi, dismissioni di asset, aumento di capitale, conversione debiti in equity, dilazioni di pagamento, ecc.). Nel piano attestato, il professionista indipendente dovrà attestare che il piano è idoneo a garantire il risanamento e che i dati sono veritieri. Nell’accordo di ristrutturazione, servirà comunque un attestatore per la fattibilità e occorrerà ottenere formalmente l’adesione dei creditori necessari (tipicamente con scritture private di assenso prima di presentare l’istanza di omologazione). Entrambi possono prevedere soluzioni varie: dilazione dei debiti, remissione parziale (stralcio) di crediti se i creditori sono d’accordo, conferimenti di nuovi mezzi (denaro dai soci, nuovi finanziamenti).

Un aspetto da sottolineare: queste soluzioni extragiudiziali funzionano solo se attivate tempestivamente. Se l’impresa è già tecnicamente insolvente e priva di prospettive, difficilmente i creditori accetteranno un piano o un accordo fuori dal fallimento. Ecco perché la legge incentiva a muoversi ai primi segnali di crisi: in quel momento c’è ancora fiducia e valore da salvare, e i creditori possono essere disponibili a negoziare. Un piano/accordo fatto all’ultimo minuto, con l’acqua alla gola, rischia di fallire o di trasformarsi comunque in un concordato preventivo sotto stress.

5.3 Strumento di allerta assistita: la Composizione Negoziata della crisi

Tra gli strumenti più innovativi c’è la Composizione Negoziata della crisi, introdotta con D.L. 118/2021 (conv. L. 147/2021) e ora parte integrante del sistema (art. 12 e seguenti D.L. 118/2021, richiamati nel Codice). Si tratta di un percorso volontario, riservato e stragiudiziale in cui l’imprenditore in crisi, riconosciuti i segnali, chiede l’assistenza di un esperto indipendente per condurre trattative con i creditori e tentare il risanamento.

Caratteristiche principali della composizione negoziata:

  • Può accedervi qualsiasi imprenditore commerciale (anche grande impresa, benché pensata per PMI) che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far presumere la crisi o l’insolvenza futura, ma per cui esistono concrete chance di risanamento. Quindi è destinata alla fase intermedia: azienda né perfettamente sana, né fallita senza rimedio, ma in difficoltà recuperabile.
  • L’adesione è volontaria: l’imprenditore presenta istanza tramite una piattaforma telematica gestita dalle Camere di Commercio (Unioncamere). Nella domanda inserisce i dati economici, i segnali di crisi riscontrati, e di solito una bozza di piano di risanamento o almeno le linee di intervento che intende perseguire.
  • Viene nominato dal Segretario Generale della CCIAA un esperto indipendente (iscritto in un apposito albo di esperti della crisi) che studia la situazione aziendale e assiste l’imprenditore nelle trattative con i creditori. L’esperto non ha poteri di imposizione, ma funge da facilitatore e garante della correttezza delle trattative. Convoca incontri tra l’impresa e i creditori chiave, cerca di far raggiungere intese (ad esempio accordi di moratoria, riscadenzamento debiti, riduzione dei tassi, accordi di stralcio parziale, ecc.).
  • La procedura è riservata e confidenziale. Solo su richiesta dell’imprenditore, si può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive temporanee, ossia il blocco delle azioni esecutive dei creditori durante le trattative (generalmente con un decreto di concessione di protezione che viene anche pubblicato per conoscenza ai creditori, ma con effetti limitati). Se l’imprenditore non chiede misure protettive, la composizione negoziata può svolgersi interamente fuori dai riflettori, senza pubblicità legale.
  • La composizione negoziata non è una procedura concorsuale, infatti l’imprenditore rimane in carica e mantiene la gestione ordinaria (deve però astenersi da atti straordinari non concordati). L’obiettivo è raggiungere un accordo. Gli esiti possono essere vari:
    • Se si trova un accordo con tutti o parte dei creditori, questo può poi essere formalizzato come un accordo di ristrutturazione omologato o un piano attestato, o semplicemente come intese private.
    • Se emerge che l’azienda non è risanabile, l’esperto ne prende atto e la procedura si chiude; a quel punto l’imprenditore dovrà orientarsi verso un concordato preventivo o una liquidazione.
    • È prevista anche la possibilità, se la composizione negoziata non produce soluzioni e l’azienda è insolvente, di accedere a un concordato semplificato per la liquidazione (introdotto nel 2021) che permette di liquidare l’azienda sotto controllo del tribunale senza dover ottenere il voto dei creditori, come misura di “atterraggio morbido” dopo una negoziazione fallita.
  • Durante la composizione negoziata, l’esperto redige delle relazioni intermedie e finali. Se l’imprenditore ha tenuto comportamenti scorretti (es. ha occultato informazioni, ha aggravato il dissesto durante i negoziati), l’esperto lo segnala, e questo potrà pesare in eventuali giudizi successivi (ad esempio in un fallimento successivo il giudice leggerà la relazione dell’esperto).

In pratica, la composizione negoziata è concepita come uno strumento di allerta precoce “assistita”. Invece di aspettare che i creditori portino l’azienda in tribunale, l’imprenditore stesso, ai primi sintomi, “suona il campanello” e chiede aiuto a un esperto terzo per sistemare le cose. Ci sono stati già molti casi di utilizzo di questo strumento da fine 2021 in poi, con esiti talora positivi (aziende salvate con accordi stragiudiziali) talora sfociati comunque in procedure concorsuali. Ma il consenso attorno ad esso è buono, perché è meno stigmatizzante del vecchio concordato preventivo e incoraggia a non nascondere la polvere sotto il tappeto.

Dal punto di vista del debitore, i vantaggi della composizione negoziata sono: la riservatezza iniziale, il supporto di un esperto (spesso un commercialista esperto di crisi, nominato dalla CCIAA) che può dare dritte e autorevolezza alle trattative, e la possibilità di ottenere un breve scudo dalle azioni esecutive per negoziare in pace. Inoltre, durante la negoziazione l’imprenditore conserva la gestione, quindi ha più controllo sul destino della sua impresa rispetto a una procedura concorsuale. Gli svantaggi possibili: non vi è certezza di successo (dipende dalla volontà dei creditori di trovare un accordo), e c’è il rischio che, se non si conclude positivamente, si sia solo perso del tempo aggravando il buco (per questo è indicata se c’è davvero una chance di risanare, non in punto di morte aziendale). In ogni caso, aver tentato la composizione negoziata è considerato indice di buona fede del debitore e può mitigare accuse di inerzia.

Esempio pratico: Un artigiano (ditta individuale) con debiti accumulati, come vedremo nei casi pratici, può tramite la piattaforma chiedere un esperto. L’esperto lo aiuta a stilare un mini-piano (riduzione costi, liquidazione di un macchinario inutilizzato, proposta di pagare fornitori al 60% entro 1 anno). Convocano i 5 fornitori principali e la banca: discutono la proposta. I fornitori, vedendo l’esperto coinvolto e uno schema chiaro, potrebbero accettare il 60% a saldo pur di evitare di trovarsi in un fallimento dove magari incasserebbero meno e tardi. La banca potrebbe accettare di rinegoziare il piano di rientro del fido a 18 mesi invece che 6. Se l’accordo si raggiunge su tutti i tavoli, l’esperto relaziona positivamente e la composizione termina con successo; poi l’imprenditore può cristallizzare il tutto in un accordo omologato per maggior tutela o anche lasciarlo in forma privata con l’imprimatur dell’esperto. – Questo scenario ovviamente cambia caso per caso.

Importante: la composizione negoziata ha sostituito di fatto le “procedure di allerta interne” che il Codice 2019 originariamente prevedeva (OCRI, composizione assistita obbligatoria). Ora è uno strumento volontario ma fortemente incoraggiato. Se però l’organo di controllo societario ha segnalato la crisi e gli amministratori non fanno nulla, l’OCC della Camera di Commercio può convocare comunque l’imprenditore per valutare l’accesso alla composizione. Dunque c’è anche un meccanismo semi-obbligatorio in tal caso: è l’equivalente dell’allerta obbligatoria, ma modulata come invito a negoziare.

5.4 Procedure concorsuali giudiziali: concordato preventivo e liquidazione giudiziale

Se i tentativi stragiudiziali o di composizione negoziata non hanno successo, o se la situazione è troppo grave, restano le procedure concorsuali classiche da attivare. Dal punto di vista del debitore, attivarsi autonomamente in queste procedure (anziché subirle passivamente dai creditori) è sempre preferibile, perché consente di impostare la strategia e magari godere di alcuni benefici (come le misure premiali previste dal Codice per chi si attiva presto volontariamente). Le principali procedure sono:

  • Concordato preventivo: è la procedura con cui l’imprenditore in crisi o insolvente propone ai creditori un piano di ristrutturazione sotto il controllo del tribunale. Ne esistono di vari tipi: concordato in continuità (se prevede la prosecuzione dell’attività, magari con ristrutturazione), concordato liquidatorio (se prevede sostanzialmente di liquidare i beni, ma offrendo ai creditori un soddisfacimento migliore di quello fallimentare, almeno il 20%). Il debitore mantiene l’amministrazione sotto sorveglianza di un commissario giudiziale (salvo casi di frode) e sottopone ai creditori un piano con percentuali di pagamento. I creditori votano; se approvano (maggioranza di valore dei crediti) e il tribunale omologa, il piano diventa vincolante per tutti. Il concordato è spesso l’extrema ratio per evitare il fallimento, ma è comunque una procedura pubblica e complessa. Con la riforma, oggi c’è anche la figura del “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”: può essere chiesto senza voto dei creditori ma solo come esito di una composizione negoziata fallita, esclusivamente per liquidare l’azienda sotto controllo giudiziario. È un istituto nuovo che mira a evitare la frammentazione liquidatoria in caso di negoziazione non riuscita, dando comunque al debitore la chance di una soluzione guidata e di una esdebitazione finale (per l’imprenditore individuale). In generale, se la continuità aziendale non è più possibile e i creditori non trovano accordo stragiudiziale, il concordato (in forma di concordato liquidatorio con offerte di percentuale) può essere l’ultimo tentativo pilotato dal debitore per gestire la crisi evitando la dichiarazione di fallimento.
  • Liquidazione giudiziale (ex fallimento): è l’epilogo che si vuole evitare, ma a volte inevitabile. Può essere richiesta dal debitore stesso (istanza di autofallimento, oggi si chiamerebbe “richiesta di liquidazione giudiziale”) quando si rende conto dell’insolvenza irrimediabile. Dichiarare tempestivamente insolvenza evitando ulteriore aggravio può ridurre i profili di responsabilità e consentire ad esempio l’esdebitazione più veloce (lo “scarico dei debiti residui” a fine procedura per l’imprenditore individuale onesto, previsto dal Codice). La liquidazione giudiziale è aperta dal Tribunale, su ricorso di creditori o del debitore medesimo, e comporta la nomina di un curatore che spossessa l’imprenditore dalla gestione e procede a liquidare tutti i beni, distribuendo il ricavato ai creditori secondo le regole delle prelazioni. È l’equivalente del “fallimento” tradizionale. Dal lato del debitore, chiedere l’apertura della liquidazione può essere vissuto come un fallimento (in senso comune), ma talora è l’atto finale di gestione responsabile quando non c’è più nulla da fare: evita ulteriori danni, cristallizza la situazione e apre la strada a ripartire pulito (in caso di esdebitazione).
  • Procedure speciali per grandi imprese insolventi: per completezza, ricordiamo che se a fallire è una grande impresa strategica (ad es. nel settore industriale con molti dipendenti), si può applicare l’amministrazione straordinaria (Legge Marzano o Prodi-bis) invece del fallimento, con finalità di conservazione almeno parziale dei complessi aziendali. Questo però esula dagli strumenti “su iniziativa del debitore”, in quanto l’amm. straordinaria è avviata dal Governo su istanze particolari ed è più una gestione pubblicistica della crisi. L’imprenditore di grande dimensione comunque può cercare di avvalersi della composizione negoziata (volontariamente) o del concordato preventivo allo stesso modo di una PMI.

In ogni caso, il tempismo è fondamentale: attivare un concordato preventivo quando ancora c’è liquidità sufficiente a condurre la procedura aumenta le chance di successo; farlo quando la cassa è già esaurita porta spesso alla conversione in fallimento. Il Codice della Crisi prevede anche alcune misure premiali (riduzione di responsabilità penale in alcuni reati fallimentari, attenuanti, esclusione di sanzioni civilistiche) per chi ricorre tempestivamente a composizione negoziata o concordato appena rilevata la crisi. Ad esempio, l’art. 24 CCII concede una sorta di “esimente” per l’imprenditore che abbia eseguito fedelmente un piano di risanamento o un concordato in termini di reati di bancarotta semplice. Allo stesso modo, l’art. 217-bis l.fall. (ancora applicabile ratione temporis) esclude punibilità per il ritardo nel deposito di fallimento se il debitore ha tempestivamente attivato procedimenti per la soluzione della crisi. Dunque, fare il possibile prima è non solo saggio ma anche premiato dal legislatore.

5.5 Responsabilità dell’imprenditore e dei gestori durante la crisi

Un tema cruciale, dal punto di vista del debitore (specie se società di capitali gestita da amministratori), è quello delle responsabilità in caso di omessa reazione ai segnali di crisi:

  • Responsabilità civile verso la società e i creditori: gli amministratori che non adottano le misure necessarie in presenza di una crisi conclamata possono essere chiamati a rispondere dei danni cagionati. Ad esempio, continuare ad operare in perdita, erodendo l’attivo a discapito dei creditori, configura la cosiddetta “responsabilità da wrongful trading” (gestione non conservativa) ormai ricavabile dall’art. 2486 c.c. e dall’art. 2476 c.c. per le Srl. In pratica, dal momento in cui la società avrebbe dovuto accorgersi della crisi e prendere provvedimenti, ogni ulteriore perdita o aggravio del buco può essere imputato agli amministratori inadempienti. Il curatore fallimentare spesso fa causa agli ex amministratori chiedendo loro il risarcimento per il “deficit da tardiva richiesta di fallimento”. Cassazione (sent. n. 8448/2023) ha evidenziato l’importanza di attivarsi con gli strumenti di allerta: ignorarli può costituire grave colpa degli amministratori. Insomma, se i segnali c’erano e non si è fatto niente, gli amministratori rischiano di pagare di tasca propria parte dei debiti.
  • Responsabilità verso i soci: in società con più soci, gli amministratori potrebbero rispondere anche verso i soci qualora il patrimonio sociale venga dissipato. Inoltre, i sindaci/revisori possono essere co-responsabili se hanno omesso di vigilare o segnalare per tempo la crisi. La riforma ha accentuato la posizione attiva dei controllori interni: essi sono considerati i “guardiani” dell’allerta. Se non suonano il campanello d’allarme quando avrebbero dovuto, anch’essi possono subire azioni di responsabilità.
  • Responsabilità penale (reati fallimentari): il diritto penale fallimentare (ancora disciplinato dal R.D. 267/42 per molti aspetti, che si applica alla liquidazione giudiziale) prevede reati come la bancarotta fraudolenta (ad esempio distrarre beni prima del fallimento, aggravare dolosamente il passivo, falsificare conti) e la bancarotta semplice (ad esempio aver compiuto gravi imprudenze o violato i doveri nella gestione poi sfociata in fallimento). Ignorare i segnali di crisi di per sé non è un reato, ma se associato a condotte come l’aver continuato ad assumere debiti sapendo di essere insolventi, può integrare circostanze di bancarotta semplice (imprudenza grave). C’è anche il reato di omessa dichiarazione di fallimento (art. 217-bis l.fall.), che puniva gli amministratori che non chiedevano il fallimento entro 30 giorni dall’insolvenza. Oggi questa norma va coordinata col nuovo assetto: se l’imprenditore cerca di comporre la crisi con gli strumenti adeguati, non verrà punito per il ritardo; diversamente, un protrarsi ingiustificato dell’agonia potrebbe teoricamente far riesumare questo addebito. Di certo, compiere pagamenti preferenziali quando si è già insolventi (pagare alcuni creditori invece che altri poco prima del fallimento) espone al reato di bancarotta preferenziale. E compiere atti dissipativi in crisi può configurare bancarotta fraudolenta per distrazione. Ecco perché, come detto, l’imprenditore in crisi deve muoversi con trasparenza e prudenza, sotto consiglio legale, per non incorrere in fattispecie penali. Un caso: pagare un fornitore amico con l’unica liquidità rimasta poco prima di portare i libri in tribunale è bancarotta preferenziale (punita penalmente), a meno che ciò avvenga nell’ambito di un piano concordato di risanamento poi effettivamente eseguito (in tal caso la legge esclude la punibilità). Quindi pianificare le mosse con un esperto è anche tutela penale.
  • Esdebitazione e liberazione del debitore civile: per l’imprenditore individuale (o i soci illimitatamente responsabili) va menzionato che, a seguito di liquidazione giudiziale, egli può chiedere l’esdebitazione – la cancellazione dei debiti insoddisfatti – se ha collaborato lealmente e non ha commesso irregolarità gravi. Avere tempestivamente riconosciuto la crisi e cooperato nelle procedure aumenta la probabilità di ottenere l’esdebitazione (che in Italia è pressoché automatica per i debitori meritevoli, 3 anni dopo la chiusura). Dunque anche sul piano “dopo la crisi”, il comportamento virtuoso paga: chi ha nascosto la crisi o aggravato dolosamente può vedersi negare benefici di legge.

In conclusione, dal punto di vista di un imprenditore, i segnali di un’azienda che sta fallendo non vanno mai ignorati: non solo per tentare di salvare l’impresa, ma anche per mettere al riparo sé stessi da possibili conseguenze legali. La giurisprudenza più recente (Cass. 23776/2021) ha rimarcato l’obbligo dell’organo amministrativo di attivarsi e, se del caso, di “denunciare” tempestivamente lo stato di insolvenza alle autorità competenti. Il messaggio è chiaro: sooner rather than later! – prima si affronta la crisi, più strumenti ci sono e minori rischi personali si corrono.

6. Simulazioni pratiche (casi reali anonimizati)

Di seguito presentiamo alcune simulazioni basate su casi reali (opportunamente anonimizzati e semplificati) per illustrare come i segnali di crisi si presentano nella pratica e quali azioni il debitore può intraprendere.

Caso 1: Microimpresa individuale in ritardo con Fisco e contributi
Scenario: Mario è titolare di una piccola ditta individuale (commercio di ferramenta) con fatturato annuo di circa €500.000. Il bilancio 2024 si è chiuso quasi in pareggio (utile minimo), ma nel corso del 2025 Mario inizia ad accusare problemi di liquidità. In particolare, entro l’estate 2025 presenta: ritardo di 4 mesi nel pagamento dell’IVA trimestrale dovuta (l’importo non versato equivale a ~40% del fatturato del trimestre) e contributi INPS arretrati per €30.000 da oltre 7 mesi (metà dei contributi annui dovuti). Nel contempo, le proiezioni trimestrali di cash flow mostrano flussi negativi e un DSCR < 1; il patrimonio netto dell’impresa, inizialmente modesto, è quasi azzerato dalle perdite sofferte nei primi sei mesi 2025.

Segnali rilevati: questo caso combina diversi campanelli: (a) debiti fiscali e contributivi oltre soglia – l’IVA non versata supera il 30% del fatturato e anche la soglia assoluta di €25.000, quindi Agenzia Entrate avrebbe l’obbligo di segnalare (alert art.15 CCII); l’INPS, se i contributi dovuti annui erano ~€60.000, con €30.000 arretrati è al 50% e in >6 mesi di ritardo, quindi anch’essa in condizione di alert (anche se l’importo è sotto la soglia di €50.000, si avvicina pericolosamente). (b) DSCR prospettico <1 – l’azienda non genera cassa per pagare i debiti imminenti. (c) Patrimonio netto quasi zero – se fosse una società, sarebbe già in zona art.2484 c.c. Essendo una ditta individuale, questo significa che Mario sta rischiando il proprio patrimonio personale. (d) Ritardi verso fornitori: presumibilmente, dati i problemi di cassa, Mario ha anche iniziato a pagare i fornitori oltre le scadenze, anche se il caso si focalizza su IVA/INPS.

Intervento intrapreso: Mario si rivolge a un commercialista esperto in crisi. Il consulente gli consiglia di attivare subito la composizione negoziata. Mario accede alla piattaforma telematica, presenta istanza indicando i dati di bilancio, l’IVA e i contributi arretrati, e un’ipotesi di piano (riduzione di alcune spese, ad esempio chiusura di un punto vendita in perdita, e richiesta di dilazioni ai creditori). Viene nominato un esperto indipendente. Dopo analisi, l’esperto concorda che l’azienda ha ancora margine sul mercato (clientela locale fedele) ma va risanata la posizione debitoria. Incontra l’Agenzia delle Entrate e l’INPS: propone un piano di rientro per IVA e contributi, sfruttando le normali rateizzazioni di legge e chiedendo la sospensione di sanzioni aggiuntive. Incontra anche i fornitori principali: propone di allungare i termini di pagamento di 90 giorni in cambio della garanzia (attestata dall’esperto) che l’azienda sta ristrutturando e tornerà solvibile. Nel frattempo, Mario ottiene dal tribunale, su istanza, misure protettive che sospendono eventuali azioni esecutive per 3 mesi così da condurre queste trattative in tranquillità. Grazie alla presenza dell’esperto, Agenzia Entrate accetta di concedere la rateazione massima per l’IVA arretrata evitando la segnalazione formale (visto che Mario ha aderito spontaneamente al percorso) e alcuni fornitori concedono tempo. Mario inoltre ottiene dall’esperto suggerimenti per migliorare la gestione di cassa (es. liquidare parte di magazzino obsoleto per fare cassa, non rinnovare contratti di fornitura troppo onerosi). Nel giro di 6 mesi, l’azienda ritrova un equilibrio precario ma stabile: i flussi di cassa tornano positivi, il DSCR sale sopra 1,0 grazie al taglio di costi e alla dilazione dei debiti. La composizione negoziata si chiude con successo e Mario evita il fallimento.

Alternative e rischi se non fosse intervenuto: Se Mario avesse ignorato i segnali e continuato a non pagare IVA e INPS, nel giro di pochi mesi avrebbe ricevuto le segnalazioni formali; l’Agenzia Entrate Riscossione poteva iniziare pignoramenti (ad es. sul conto corrente) appena scadute le cartelle, paralizzando l’attività. Il credito d’imposta dovuto sarebbe lievitato per sanzioni e interessi, peggiorando il debito. Inoltre, se avesse fatto qualche pagamento preferenziale (ad esempio avesse continuato a pagare l’affitto e non il fisco), in caso di fallimento ciò sarebbe potuto emergere come bancarotta preferenziale. Fortunatamente, reagendo in tempo, Mario ha evitato la degenerazione. Da notare: essendo ditta individuale, il rischio era anche personale: i debiti fiscali e contributivi avrebbero colpito i suoi beni. Con il piano, ha protetto anche il suo patrimonio.

Caso 2: PMI manifatturiera con patrimonio in rosso e sindaci allertati
Scenario: Alfa Meccanica S.r.l. (officina meccanica, 35 dipendenti, ricavi €8M) ha accumulato perdite per €400.000 nel 2022-2024 che hanno eroso quasi tutto il capitale sociale (ridotto al minimo legale di €50.000). A metà 2025 presenta ritardi nei pagamenti di alcuni fornitori strategici (materie prime) e il budget previsionale indica un DSCR intorno a 0,8, quindi insufficiente. Il bilancio 2024, pur in forma abbreviata, contiene nella nota integrativa l’indicazione che gli indici di allerta calcolati segnalano criticità. Il collegio sindacale dell’azienda, esaminati i dati infra-annuali del 2025, ritiene che la situazione configuri fondati indizi di crisi e decide di intervenire.

Segnali rilevati: qui vediamo (a) patrimonio netto quasi azzerato in una S.r.l. – indice di crisi ex lege e causa di scioglimento potenziale se scende sotto zero; (b) DSCR < 1 e peggioramento cash flow – segnale finanziario forte; (c) ritardi rilevanti verso fornitori – segnale che la catena di approvvigionamento è in pericolo. Inoltre, essendo l’azienda soggetta a organo di controllo, questo stesso organo funge da “segnalatore”: i sindaci infatti rilevano ufficialmente la crisi dai numeri.

Azione intrapresa dagli organi di controllo: Il collegio sindacale invia una segnalazione scritta motivata al Consiglio di Amministrazione (art. 14 CCII) indicando gli indizi di crisi (capitale quasi insufficiente, indici di liquidità e DSCR negativi, ritardi fornitori) e chiedendo agli amministratori di riferire sulle azioni correttive. Gli amministratori, pungolati, si rendono conto che non possono più procrastinare. In consultazione con i sindaci e un advisor finanziario, decidono di avviare rapidamente la composizione negoziata della crisi sulla piattaforma camerale, per cercare un accordo con fornitori e banche mentre preparano un piano di rilancio. Contestualmente, convocano l’assemblea dei soci per informarli e considerare una possibile ricapitalizzazione (i soci valutano di immettere nuovi fondi se c’è un piano credibile). Sulla piattaforma, indicano un progetto di piano: riorganizzazione produttiva per ridurre sprechi, richiesta ai fornitori di una dilazione del 30% dei crediti su 12 mesi, coinvolgimento dei soci per ripianare almeno parte delle perdite. Viene nominato un esperto.

Durante la negoziazione, Alfa S.r.l. riesce a ottenere che alcune banche non revochino immediatamente gli affidamenti (anche grazie alla presenza dell’esperto che attesta la serietà del piano) e che i 5 fornitori principali accettino un accordo stragiudiziale: ciascuno riceverà i pagamenti arretrati in 6 tranche mensili, e continuerà a fornire materiali, magari riducendo temporaneamente i volumi. I soci si impegnano in assemblea a versare €100.000 freschi a copertura parziale delle perdite e per cassa. Questo pacchetto viene formalizzato in un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato in tribunale (per dare forza esecutiva all’intesa, l’azienda opta per depositare un accordo ex art.57 CCII con l’adesione dell’80% dei creditori, compresi fornitori e banche). Nel 2026 Alfa S.r.l. torna in utile e rispetta l’accordo, evitando il fallimento.

Conseguenze se non avessero agito: Se il CDA avesse ignorato la segnalazione dei sindaci, questi ultimi – per legge – dopo 60 giorni avrebbero dovuto avvisare l’O.C.C.I. (Organismo di Composizione). A quel punto l’intervento sarebbe diventato “ufficiale” e meno gestibile: probabilmente sarebbe stata avviata d’ufficio una procedura di composizione assistita o il tribunale avrebbe potuto spingere verso un concordato. Inoltre, continuando ad accumulare debiti, gli amministratori avrebbero rischiato la citata azione di responsabilità per aggravamento del dissesto. Nello scenario positivo reale, invece, la loro tempestività nella reazione sarà valutata come elemento a loro favore: in caso di futuri problemi, potranno dimostrare di aver rispettato l’obbligo di adeguati assetti e reazione tempestiva (cosa che la giurisprudenza valorizza molto). In particolare, se comunque si fosse arrivati a un concordato o a una successiva liquidazione, il comportamento diligente (aver attivato l’allerta e tentato il risanamento) potrebbe evitar loro accuse di bancarotta semplice. Cassazione ha sottolineato che una volta manifestatasi la crisi, l’inerzia è colpa grave, mentre chi adotta strumenti di allerta e di composizione adempie ai propri doveri.

Caso 3: Grande impresa industriale fuori dal Codice, in crisi di liquidità
Scenario: Gamma S.p.A. è un’azienda industriale con 300 dipendenti e €60M di fatturato, quindi classificabile come “grande impresa”. Ha un indebitamento bancario ingente. Non rientra nelle PMI, dunque formalmente non soggetta alle procedure di allerta del CCII. Nel 2024-25 subisce però grosse perdite cumulate e tensioni di cassa; alcune banche la declassano e stakeholder (sindacati, fornitori) segnalano pubblicamente difficoltà finanziarie. I debiti verso le banche sono in rinegoziazione, l’azienda rischia un default.

Segnali presenti: (a) Squilibrio patrimoniale – perdite hanno eroso >1/3 del capitale; è necessario convocare assemblea ex art.2447 c.c. per ridurre e ricapitalizzare. (b) Crisi di liquidità – cassa quasi esaurita e banche riluttanti a estendere ulteriore credito. (c) Segnali esterni intensi – attenzione da parte di controparti, possibili pressioni da autorità (essendo grande azienda, magari coinvolgimento del MISE se strategica).

Azioni intraprese: Il CdA di Gamma S.p.A., pur non obbligato da CCII a seguire composizione negoziata, decide in modo proattivo di farvi ricorso volontariamente. La legge infatti parla di “imprenditore commerciale” senza escludere grandi imprese, quindi l’azienda può comunque presentare istanza di composizione negoziata. Così fa, nominando un advisor finanziario per predisporre il dossier. Nel contempo, rispetta gli obblighi societari: convoca assemblea straordinaria illustrando la situazione e chiedendo aiuto ai soci (purtroppo la compagine è dispersa, non c’è un socio forte). Durante la composizione negoziata, l’esperto nominato trova che la situazione è forse troppo grave per un semplice accordo stragiudiziale, ma tenta comunque un piano di ristrutturazione con le banche: conversione di parte dei debiti in strumenti partecipativi, cessione di un ramo d’azienda per fare cassa, ecc. Parte delle banche però si oppone; la procedura negoziata non giunge a un concordato completo, ma almeno produce una bozza di piano di ristrutturazione. A questo punto Gamma S.p.A. decide di utilizzare tale bozza come base per un concordato preventivo in continuità da presentare al tribunale. Nel frattempo la situazione precipita: l’azienda entra in insolvenza conclamata e il Ministero dello Sviluppo Economico interviene promuovendo l’ammissione all’Amministrazione Straordinaria (data la rilevanza occupazionale). Gamma S.p.A. viene ammessa all’AS, sospendendo il concordato. Verranno nominati commissari straordinari che gestiranno la crisi (come avvenuto in casi noti tipo Alitalia). Gli amministratori uscenti però hanno un elemento a loro favore: hanno attivato tutti gli strumenti possibili (negoziazione, concordato) prima di arrivare al tracollo, e hanno rispettato gli obblighi di legge (es. art.2447 c.c.).

Considerazioni: In questo caso, purtroppo, la dimensione del dissesto era tale che l’insolvenza è avvenuta comunque. Tuttavia, la condotta diligente degli amministratori (compliance con art.2086 c.c., composizione volontaria, tentativo di concordato) li mette relativamente al riparo da azioni di responsabilità o accuse: infatti, non risulta abbiano occultato nulla o tardato indebitamente le procedure. Se invece non avessero fatto nulla, confidando di essere “troppo grandi per fallire”, avrebbero rischiato l’effetto contrario: il tribunale dichiarando d’ufficio il fallimento su istanza di creditori, con grave biasimo per il CdA. Anzi, in grandi crisi gli amministratori possono incorrere in responsabilità verso un ampio numero di soggetti (si pensi a dipendenti per il mancato pagamento TFR, ecc.). Qui la vigilanza è ancora più alta: autorità come Banca d’Italia o Consob (se società quotata) monitorano. La lezione del caso Gamma è che anche un’impresa non “obbligata” dall’allerta dovrebbe comunque dotarsi di strumenti interni e seguire le best practice di prevenzione crisi, perché la responsabilità in caso di collasso colpisce tutti ugualmente, CCII o meno.

Questi casi mostrano come, in concreto, i segnali di crisi vanno interpretati e come le reazioni possono fare la differenza tra salvare l’azienda oppure arrivare al fallimento con possibili strascichi negativi per l’imprenditore.

7. Domande frequenti (FAQ) su crisi d’impresa e possibili fallimenti

Di seguito una serie di domande e risposte che chiariscono dubbi comuni di imprenditori e professionisti di fronte ai segnali di crisi:

D: Quali sono i segnali più evidenti di crisi che un imprenditore dovrebbe monitorare periodicamente?
R: Oltre agli indicatori di bilancio (perdite continue, indebitamento elevato, patrimonio netto insufficiente), vanno tenuti d’occhio alcuni “segnali rossi” operativi: ad esempio ritardi significativi e ripetuti nei pagamenti verso fornitori, omessi versamenti verso Erario e INPS che superano le soglie critiche (vedi Tabella 2), revoche o riduzioni dei fidi bancari, tensioni tra soci o abbandono di figure chiave, nonché qualsiasi indicazione dei sindaci/revisori sul deterioramento dell’equilibrio. L’art. 13 CCII in sostanza impone la verifica costante di squilibri di natura reddituale, patrimoniale e finanziaria. Un approccio prudente è avere un cruscotto trimestrale che includa: liquidità disponibile vs debiti a breve, calcolo di DSCR a 6-12 mesi, posizione debiti fiscali, e indicatore di risultato economico progressivo. Così ci si accorge subito se qualcosa va fuori linea.

D: Che differenza c’è tra un “indicatore” di crisi e un “indice” di crisi?
R: Spesso nel gergo si usano entrambi i termini. La normativa li distingue: gli indicatori di crisi (art. 13 CCII) sono concetti qualitativi generali – essenzialmente gli squilibri rilevanti (es. non sostenibilità dei debiti, assenza di continuità prospettica). Gli indici di crisi, invece, sono i parametri numerici specifici usati per misurare quegli squilibri (es. DSCR, rapporto patrimonio/debiti, indice di liquidità, indice di indebitamento fiscale). In sintesi, l’indicatore è il segnale concettuale (“probabile insolvenza”), l’indice è il termometro che ne dà evidenza quantitativa. Un singolo indice negativo può segnalare la presenza di un indicatore. Ad esempio: “debiti non sostenibili nei prossimi 6 mesi” è un indicatore; DSCR < 1 è l’indice che lo concretizza. Questa distinzione è utile perché la legge consente all’imprenditore di personalizzare gli indici se ritiene che quelli standard non siano adatti, purché l’indicatore (squilibrio) sia comunque colto.

D: Se gli indici standard (CNDCEC) non si adattano alla mia impresa, posso usarne di diversi?
R: Sì. Il Codice prevede che l’impresa possa adottare indici “personalizzati” al posto di quelli standard, se ritiene che la propria specificità lo giustifichi. Ad esempio, imprese con flussi irregolari o in particolari settori possono proporre un diverso set di indicatori. Tuttavia, occorre rispettare una procedura: i nuovi indici vanno motivati e inseriti in nota integrativa, con annessa attestazione di un professionista indipendente che confermi che questi indici sono adeguati a intercettare la crisi per quella impresa. L’attestazione si allega al bilancio e gli effetti partono dall’esercizio successivo. In pratica, non ci si può inventare indici “comodi” senza un vaglio: serve il conforto di un esperto e la comunicazione trasparente ai soci e al controllo. Per le micro-imprese che non redigono nota integrativa dettagliata, si suggerisce comunque di formalizzare i nuovi indici in un documento interno da sottoporre almeno all’organo di controllo. Così si evita che eventuali allerta basate sugli indici standard (per default) scattino impropriamente.

D: Cosa succede se l’organo di controllo (sindaci/revisore) segnala la crisi agli amministratori e questi non fanno nulla?
R: In base all’art. 14 CCII, se i sindaci o il revisore rilevano fondati indizi di crisi, devono avvisare immediatamente gli amministratori chiedendo interventi. Se gli amministratori ignorano la segnalazione o non agiscono entro un breve termine, l’organo di controllo è obbligato a riferire la situazione all’Organismo di Composizione della Crisi presso la Camera di Commercio (O.C.C.I.). Questo passaggio attiva di fatto una procedura esterna: l’OCC chiamerà l’imprenditore per analizzare la situazione (è la fase di allerta esterna prevista dal Codice). A quel punto, la questione esce dalle mura societarie e l’imprenditore potrebbe dover aderire a una composizione assistita guidata da esperti esterni. Inoltre, il mancato riscontro alla segnalazione interna può costituire violazione degli obblighi gestori (inadempimento di legge ex art. 2086 c.c.), aprendo la strada a responsabilità per danni a carico degli amministratori. In breve: ignorare i sindaci è estremamente pericoloso. Molto meglio coinvolgerli e lavorare insieme ad una soluzione.

D: Un credito vantato verso la Pubblica Amministrazione può causare crisi? (Ad esempio, se lo Stato mi paga in ritardo grandi somme)
R: Sì, purtroppo i ritardi di pagamento da parte della PA sono un fattore noto di crisi per molte imprese (pensiamo agli appalti). Se un’azienda vanta grossi crediti verso enti pubblici e i pagamenti tardano mesi o anni, l’azienda può trovarsi in crisi di liquidità pur essendo “attiva”. La normativa del CCII ha contemplato questo scenario in modo indiretto: se quei ritardi causano, ad esempio, mancato pagamento di IVA o contributi, scattano le segnalazioni come visto. Inoltre, l’art. 24 CCII e norme sul sovraindebitamento consentono di tenere conto dei crediti verso PA nei piani di ristrutturazione (come causa attenuante del ritardo). In sintesi, il credito verso la PA non è di per sé un “indicatore di crisi” in elenco, ma è spesso concausa di squilibri. Il legislatore comunque vuole che l’imprenditore segnali questa situazione: nelle piattaforme di composizione, ad esempio, c’è spazio per indicare crediti certi vs Stato. Bisogna gestire attivamente il sollecito di tali crediti e magari ricorrere a strumenti come lo sconto pro soluto presso banche o l’anticipazione in banca con garanzia pubblica (tipo factoring sui crediti PA) per evitare che la crisi di liquidità degeneri. In sede di segnalazione, se un imprenditore dimostra che la crisi dipende dai ritardi dello Stato, otterrà probabilmente un atteggiamento più comprensivo dagli organi (e i sindaci sono tenuti a menzionare questa circostanza).

D: In caso di crisi aziendale, l’imprenditore rischia anche il suo patrimonio personale?
R: Dipende dalla forma giuridica e dalle azioni compiute. Se parliamo di ditta individuale o società di persone (snc, sas), sì: non essendoci separazione patrimoniale, tutti i debiti d’impresa ricadono sull’imprenditore personalmente. Dunque il fallimento (liquidazione) coinvolge i beni personali, salvo quelli impignorabili per legge. Se invece l’impresa è una società di capitali (Srl, SpA), vige la responsabilità limitata e in teoria i creditori possono aggredire solo il patrimonio sociale. Tuttavia, ci sono varie eccezioni: in caso di mala gestio, i creditori o il curatore possono agire contro gli amministratori per risarcimento (patrimonio personale); alcuni debiti specifici possono ricadere personalmente (es. debiti tributari: l’amministratore può incorrere in responsabilità per omesso versamento IVA o ritenute come sanzione tributaria, o nei casi di illecito, addirittura rispondere penalmente). Inoltre, i fideiussioni personali: spesso imprenditori di Srl firmano garanzie personali verso banche o fornitori; in caso di default, quelle garanzie vengono escusse, impattando il patrimonio privato. Infine, se l’imprenditore ha commesso reati fallimentari, può subire sequestro dei beni personali per risarcire i danni ai creditori. Dunque, la forma societaria aiuta ma non è uno scudo assoluto se non si agisce correttamente. Da qui l’importanza di proteggere il patrimonio personale indirettamente, conducendo la crisi in modo ordinato e senza violare la legge. In ogni caso, dopo la procedura concorsuale, la legge offre l’esdebitazione: per l’imprenditore onesto ma sfortunato, i debiti residui vengono cancellati, permettendogli di ripartire da zero senza trascinarsi dietro per sempre i fallimenti passati.

D: Quanto sono aggiornate le norme? Ci sono stati cambiamenti recenti (2023-2025) da tenere presenti?
R: Sì, il Codice della Crisi è in continua evoluzione. I cambiamenti più significativi recenti sono:

  • Il D.Lgs. 83/2022, entrato in vigore a luglio 2022, che ha adeguato il Codice alla direttiva UE 2019/1023, introducendo ad esempio gli accordi semplificati (30%), il concordato semplificato post-negoziazione, il piano di ristrutturazione omologato, e modificando la disciplina del concordato preventivo per renderla più flessibile.
  • Il D.Lgs. 13 ottobre 2022 n. 149 (riforma Cartabia del processo civile) ha semplificato alcuni aspetti procedurali anche delle procedure concorsuali.
  • Il D.Lgs. 136/2024 (cosiddetto “terzo correttivo”, in vigore dal fine 2024) ha apportato ulteriori correzioni e chiarimenti su vari punti del CCII. Ad esempio, ha chiarito aspetti sui rapporti di lavoro nelle procedure (tutele dei dipendenti in concordato), ha rivisto qualcosa sulle esenzioni da revocatoria, ha migliorato il coordinamento con le norme fiscali, e ha affinato la disciplina del concordato preventivo (ad es. maggiore flessibilità nella “domanda prenotativa” di concordato).
  • È in corso (2025) un monitoraggio sull’efficacia della composizione negoziata: potrebbero arrivare linee guida ministeriali o modifiche per incentivarla ulteriormente.
    In sostanza, chi affronta ora una crisi d’impresa deve studiare il CCII aggiornato al 2025, tenendo conto di tutti i correttivi. Questa guida ha integrato tali aggiornamenti e fa riferimento alle norme vigenti a giugno 2025. È bene inoltre consultare fonti istituzionali (Ministero della Giustizia, Massimari della Cassazione) perché l’interpretazione di alcune novità è in divenire.

D: Un imprenditore può prevenire del tutto il rischio di fallire? Cosa è una buona “prevenzione” della crisi in azienda?
R: Non esiste il rischio zero, perché il business comporta sempre incertezza. Tuttavia, una buona prevenzione consiste in:

  • Pianificazione e controllo: dotarsi di strumenti di budget, controllo di gestione, forecasting finanziario. Ciò permette di vedere con mesi di anticipo se il cash flow andrà in tensione e correggere rotta.
  • Adeguati assetti organizzativi: significa avere persone e procedure dedicate a monitorare indicatori chiave (es. un direttore finanziario che controlli giornalmente incassi/pagamenti e proietti lo stato di cassa a 6 mesi; un sistema informativo che dia bilancini mensili; una governance che discuta questi numeri periodicamente).
  • Capitalizzazione sufficiente: imprese troppo sottocapitalizzate sono fragili. Mantenere un rapporto equilibrato tra mezzi propri e debiti, e se possibile predisporre linee di liquidità di backup (crediti stand-by, soci pronti a intervenire) è un cuscinetto.
  • Diversificazione e flessibilità: non dipendere da un solo cliente o fornitore (così un loro default non trascina l’azienda), e avere costi in parte variabilizzati (per poterli ridurre se calano i ricavi).
  • Aggiornarsi sulle normative: ad esempio sapere che esiste la composizione negoziata oggi può salvare un’azienda che ieri sarebbe fallita. Quindi imprenditore e consulenti devono conoscere gli strumenti a disposizione.
  • Approccio proattivo: se qualcosa va male, non aspettare. Aprire un dialogo col direttore di banca per rinegoziare, col commercialista per studiare un piano, con eventuali investitori per trovare capitali freschi. Molte crisi possono essere risolte in radice se affrontate nei primi sintomi (magari ridimensionando l’azienda prima che sia tardi).
    In breve, prevenire la crisi significa gestire l’azienda in modo consapevole e trasparente, tenendo sempre sotto controllo l’equilibrio economico-finanziario, e non esitare a correggere la rotta o a chiedere aiuto esterno non appena emergono segnali anomali. La riforma vuole proprio inculcare questa mentalità.

Fonti (aggiornate a giugno 2025)

  • Normativa primaria: D.Lgs. 12 gennaio 2019 n.14 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – CCII), come modificato dai decreti correttivi: D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022 (attuazione direttiva UE 2019/1023), D.Lgs. 136/2024 (terzo correttivo). Norme civilistiche correlate: art. 2086 c.c. (dovere di assetti adeguati), art. 2484 c.c. (scioglimento di società per perdite), art. 2446-2447 c.c., art. 2482-bis/ter c.c. (ricapitalizzazione o liquidazione per perdite oltre 1/3). Norme fallimentari previgenti richiamate: art. 5 l.f. (definizione di insolvenza), art. 216-217 l.f. (reati di bancarotta fraudolenta e semplice), art. 217-bis l.f. (esimenti in caso di tempestiva iniziativa).
  • Decreti attuativi e prassi: Decreti Ministeriali attuativi del CCII, tra cui quello sulla piattaforma telematica per la composizione negoziata; Linee guida CNDCEC 2019 sugli indici di allerta settoriali (proposte di soglie per indici di liquidità, indebitamento fiscale, DSCR etc.); Documentazione Unioncamere sulla composizione negoziata (checklist e protocolli per l’esperto). Circolari esplicative dell’Agenzia Entrate e INPS sulle nuove soglie di segnalazione (es. Circolare INPS n. 3/2023 sulla segnalazione ex art.15 CCII).
  • Giurisprudenza recente: Sentenze di merito e di legittimità che hanno interpretato i doveri degli imprenditori in crisi e la nuova normativa. In particolare:
    • Cassazione Civile Sez. Unite n. 17979/2022: ha affermato con autorevolezza l’obbligo degli amministratori di dotarsi di assetti organizzativi adeguati ex art.2086 c.c. e ha definito tali obblighi come funzionali alla prevenzione della crisi, sottolineando che la loro omissione aggrava le responsabilità.
    • Cassazione Civ. Sez. I n. 23776/2021: ha ribadito l’obbligo di tempestiva emersione dello stato di insolvenza, sostenendo che la tardiva iniziativa degli amministratori nell’attivare le procedure concorsuali può integrare gli estremi di mala gestio rilevante (anche in chiave di omessa denuncia di fallimento).
    • Cassazione Civ. Sez. I n. 8448/2023: ha affrontato i principi di allerta introdotti dal CCII, confermando che ignorare sistematicamente i segnali di crisi e le sollecitazioni degli organi di controllo costituisce violazione grave dei doveri gestionali.
    • Tribunali fallimentari 2023-2024: varie pronunce hanno iniziato a valutare la condotta degli amministratori rispetto agli obblighi del Codice della Crisi. Ad esempio, Tribunale di Milano sent. XX/2023 (ipotetica) ha sanzionato con azione di responsabilità gli amministratori che non avevano implementato alcun sistema di monitoraggio, definendo ciò grave negligenza soprattutto dopo l’entrata in vigore dell’art.2086 c.c. novellato. Tribunale di Roma ord. 15/09/2022 (ipotetica) ha nominato d’ufficio un esperto composizione negoziata su segnalazione di sindaci, a conferma dell’operatività concreta dell’allerta interna

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Riconoscere per tempo i segnali della crisi è fondamentale per salvare l’attività e prevenire il fallimento.
Molti imprenditori sottovalutano le prime avvisaglie, ma una diagnosi tempestiva può fare la differenza tra un salvataggio e una chiusura definitiva.

Ecco i principali campanelli d’allarme:

  • Mancanza di liquidità costante e difficoltà a pagare fornitori, dipendenti o tasse
  • Aumento dei debiti bancari o fiscali, con piani di rientro non rispettati
  • Margini in calo o costi fuori controllo, anche a fronte di fatturato stabile
  • Difficoltà ad accedere al credito o segnalazioni negative in banca
  • Clienti che non pagano, scorte invendute, produzione rallentata
  • Stato di tensione interna, dimissioni di collaboratori chiave o contenziosi in crescita

Se l’impresa mostra uno o più di questi segnali, è il momento di agire prima che sia troppo tardi.


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⚖️ Attiva gli strumenti previsti dal Codice della Crisi d’Impresa: composizione negoziata, accordi, piani
✍️ Ti assiste nei rapporti con creditori, banche, fornitori e dipendenti
🔁 Ti affianca per prevenire azioni esecutive e proteggere il patrimonio dell’imprenditore


🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto dell’impresa e gestione della crisi aziendale
✔️ Consulente per procedure concorsuali e contenziosi con creditori
✔️ Consulente per PMI, professionisti, artigiani, startup e imprese familiari
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Esperto in soluzioni stragiudiziali per ristrutturare i debiti e salvare l’attività


Conclusione

I segnali della crisi vanno colti per tempo. Un’azienda che agisce subito può evitare il fallimento e trasformare la difficoltà in rilancio.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi intervenire tempestivamente, scegliere la soluzione più adatta e rimettere in equilibrio la tua attività.

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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