Hai un’impresa in difficoltà e ti è stato proposto di nominare un Chief Restructuring Officer (CRO)? Ti stai chiedendo chi è davvero questa figura, che ruolo ha nella gestione della crisi e se può aiutarti concretamente a salvare l’azienda?
Nel nuovo diritto della crisi d’impresa, il CRO è una figura chiave nelle situazioni complesse: un professionista esterno altamente qualificato, chiamato a gestire, guidare e ristrutturare l’impresa con competenze specifiche in finanza, diritto e strategia aziendale. Quando la continuità è a rischio, può fare la differenza tra salvezza e fallimento.
Chi è il Chief Restructuring Officer (CRO)?
È un manager o un advisor indipendente incaricato di affiancare l’imprenditore nella gestione della crisi, assumendo spesso poteri operativi e decisioni strategiche in una fase delicata. Non è un semplice consulente: è una guida operativa per riorganizzare l’azienda e dialogare con i creditori.
Quando è utile nominare un CRO?
– Se la crisi è avanzata e servono interventi rapidi e strutturati
– Se mancano le competenze interne per affrontare il risanamento
– Se ci sono trattative in corso con banche, fondi o investitori
– Se si vuole accedere a strumenti come la composizione negoziata della crisi, il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione
Il CRO può anche essere richiesto o suggerito dal tribunale, nei casi più complessi, per garantire trasparenza e credibilità nella gestione della crisi.
Cosa fa concretamente il CRO?
– Analizza a fondo i conti, i flussi e i debiti
– Predispone o supervisiona un piano di risanamento realistico
– Tratta con i creditori, banche, fornitori e stakeholder
– Verifica la fattibilità della continuità aziendale
– Supporta l’organo amministrativo nelle scelte più delicate
– Prepara l’impresa alla procedura più adatta (negoziazione, ristrutturazione o liquidazione)
Il CRO sostituisce l’imprenditore?
No, ma può assumere deleghe operative importanti, in accordo con l’imprenditore e gli organi societari. Il suo ruolo è di affiancamento, gestione e garanzia, non di espropriazione. La sua presenza può aumentare la fiducia dei creditori e facilitare gli accordi.
Quali sono i vantaggi di un CRO nella gestione della crisi?
– Porta competenze che spesso mancano internamente
– Rafforza la credibilità del piano di risanamento
– Riduce i rischi di responsabilità personali per amministratori e soci
– Favorisce la continuità aziendale e la tutela del valore residuo
– Prepara l’impresa al confronto con i creditori, le banche e il tribunale
Cosa succede se non ti affidi a un professionista?
– La crisi può degenerare rapidamente
– I creditori possono perdere fiducia e agire individualmente
– Le trattative falliscono per mancanza di strategia e coerenza
– L’impresa rischia di arrivare alla liquidazione senza tentare il risanamento
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto della crisi d’impresa – ti spiega chi è il Chief Restructuring Officer, quando può essere decisivo e perché la sua presenza può aiutare concretamente a evitare il fallimento.
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Introduzione
La crisi d’impresa è una fase patologica ma talvolta inevitabile nella vita aziendale. Se affrontata correttamente e con gli strumenti adeguati, può paradossalmente trasformarsi in un’opportunità di rilancio. Negli ultimi anni l’ordinamento italiano ha rivoluzionato la disciplina della crisi e dell’insolvenza attraverso il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) – D.Lgs. 14/2019, entrato pienamente in vigore dal 15 luglio 2022. Questa riforma, attuata in attuazione della legge delega 155/2017, ha abrogato la vecchia legge fallimentare del 1942, introducendo nuovi strumenti di allerta precoce e di composizione negoziata della crisi. Successivi interventi correttivi (D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 136/2024, c.d. “Correttivo ter”) hanno ulteriormente adeguato il Codice alle direttive europee, semplificando alcuni istituti e introducendo novità come il cram-down nelle classi dissenzienti e i piani di ristrutturazione soggetti a omologazione. Parallelamente, permane una disciplina speciale per le grandi imprese in crisi (D.Lgs. 270/1999 sull’amministrazione straordinaria e legge 39/2004 “Prodi-bis”), applicabile in casi particolari di rilevante interesse pubblico.
In questo nuovo contesto normativo, l’attenzione del legislatore si è spostata dalla mera repressione del dissesto alla cultura della prevenzione e del risanamento. Gli imprenditori sono chiamati ad attivarsi tempestivamente per rilevare i segnali di difficoltà e adottare le misure necessarie a salvaguardare la continuità aziendale. L’art. 2086 c.c., modificato dalla riforma, impone all’imprenditore collettivo di istituire assetti organizzativi adeguati e funzionali alla rilevazione tempestiva della crisi. Ciò si traduce nell’obbligo per gli amministratori di monitorare costantemente gli indicatori di squilibrio e, al loro emergere, intervenire con prontezza per evitare che la situazione degeneri. In caso contrario, essi possono rispondere civilmente verso la società e i creditori per i danni causati dalla prosecuzione di un’attività d’impresa ormai non più sostenibile. La Corte di Cassazione, in una pronuncia del 2024, ha ribadito che anche gli amministratori privi di deleghe «devono attivarsi per prevenire, eliminare o attenuare situazioni di criticità aziendale di cui siano o debbano essere a conoscenza», sottolineando così la responsabilità collettiva del management nell’affrontare tempestivamente la crisi.
In questo scenario di profonda evoluzione normativa e culturale, il Chief Restructuring Officer (CRO) – letteralmente Direttore della Ristrutturazione – è emerso come una figura chiave nel supportare le imprese in difficoltà. Si tratta di un manager specializzato nei processi di risanamento aziendale, spesso esterno all’organizzazione, chiamato ad affiancare o integrare il management esistente per guidare l’azienda fuori dalla crisi. La presenza di un CRO, ancora più che in passato, è oggi considerata un prezioso strumento di regolazione della crisi d’impresa dal punto di vista del debitore: egli può aiutare l’imprenditore a riconquistare la fiducia di creditori e stakeholder, a gestire con competenza le trattative di ristrutturazione e soprattutto a garantire l’efficace esecuzione del piano di risanamento concordato. Nelle sezioni che seguono analizzeremo in dettaglio chi è il CRO, quale ruolo riveste nei vari strumenti di gestione della crisi (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordati, composizione negoziata, ecc.), come viene nominato e con quali poteri, evidenziando benefici e criticità dal punto di vista del debitore. Saranno inoltre richiamate le più recenti fonti normative e giurisprudenziali sul tema, presentati esempi pratici (anche con fac-simili di atti) e fornite risposte ai quesiti più frequenti, il tutto con un taglio tecnico-giuridico ma accessibile anche a imprenditori e privati.
Il contesto normativo della crisi d’impresa in Italia
Per contestualizzare la figura del CRO, è utile riepilogare brevemente gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza attualmente previsti dall’ordinamento italiano e le logiche sottese alla riforma. Il CCII utilizza la locuzione “strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza” per indicare l’insieme delle procedure, giudiziali o stragiudiziali, volte a superare lo stato di crisi di un’impresa o, in caso estremo, a liquidarla in modo ordinato. In un’ottica moderna, viene privilegiata la ricerca di soluzioni consensuali e la conservazione dei valori aziendali rispetto alla liquidazione distruttiva. Di seguito un quadro sintetico dei principali strumenti, con le loro caratteristiche essenziali:
Come si evince dalla tabella, il nostro ordinamento oggi privilegia molto gli strumenti anticipatori e volontari, in cui l’imprenditore in crisi – se agisce per tempo – può mantenere le redini dell’azienda (principio del debtor in possession) e concordare con i creditori un percorso di risanamento, con vari gradi di coinvolgimento dell’autorità giudiziaria. Il Chief Restructuring Officer (CRO) si inserisce in questo contesto come un possibile “alleato” del debitore nella gestione della crisi all’interno di tali strumenti. Infatti, il CCII e i decreti attuativi incoraggiano approcci manageriali proattivi: emblematiche sono le Checklist predisposte dal Ministero della Giustizia per la composizione negoziata, che raccomandano di valutare le competenze manageriali disponibili e, se necessario, di avvalersi di professionalità esterne. Proprio in tale ottica viene suggerita la nomina di un CRO in talune situazioni (come vedremo a breve). Prima di approfondire questi aspetti, definiamo esattamente chi è il CRO e quali compiti svolge.
Chi è il Chief Restructuring Officer (CRO)
Il Chief Restructuring Officer (CRO), o “manager della ristrutturazione”, è una figura dirigenziale specializzata nella gestione delle crisi aziendali e nei processi di turnaround. Nato nella prassi anglosassone delle procedure di restructuring, il ruolo del CRO si è diffuso progressivamente anche in Italia, pur senza trovare (almeno finora) un esplicito inquadramento normativo. Come evidenziato in dottrina, “la figura del CRO, in Italia, non è codificata da previsioni normative o regolamentari”, e dunque obiettivi e perimetro d’azione del suo intervento devono essere definiti contrattualmente, nell’autonomia delle parti. In pratica, il CRO è un manager di elevata esperienza – tipicamente con competenze multidisciplinari in campo finanziario, organizzativo e legale – che viene inserito temporaneamente nell’organizzazione aziendale con il mandato specifico di gestire e attuare il risanamento dell’impresa.
A differenza di altri consulenti o advisor esterni, il CRO assume un ruolo direttivo esecutivo: può far parte formalmente del management (ad esempio come direttore generale o consigliere delegato alla ristrutturazione) ovvero operare come dirigente o consulente esterno con ampi poteri operativi, a seconda di come viene inquadrato l’incarico. Ciò che conta è che vi sia chiarezza sul suo mandato e sulle responsabilità assegnate, sia internamente sia verso i terzi. Idealmente, sin dall’inizio tutti gli stakeholder, interni ed esterni all’azienda, devono essere informati del ruolo e degli obiettivi del CRO, così da evitare sovrapposizioni e incomprensioni e creare un clima di fiducia attorno al processo di risanamento.
Competenze e profilo del CRO
Il CRO è solitamente un professionista senior con un background variegato: ha maturato esperienze di vertice in aziende e, soprattutto, ha già diretto in prima persona operazioni di ristrutturazione o rilancio. Nel suo bagaglio deve possedere solide competenze di finanza aziendale (analisi di flussi di cassa, rinegoziazione del debito, valutazione degli investimenti), capacità di gestione operativa (ottimizzazione di processi, riduzione costi, riorganizzazione produttiva), conoscenze del diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, e spiccate doti di leadership e visione strategica. Questa combinazione di skills è fondamentale: la crisi d’impresa coinvolge infatti aspetti finanziari (es. carenza di liquidità, eccessivo indebitamento), ma anche problemi industriali e organizzativi (es. calo di competitività, inefficienze, governance familiare inadeguata, ecc.). Un buon CRO deve saper “mettere le mani” tanto sul conto economico e sullo stato patrimoniale, quanto sulla struttura organizzativa e sul modello di business, motivando al contempo le risorse umane dell’azienda a seguire il cambiamento.
Inoltre, poiché in molti casi la crisi erode la fiducia tra l’impresa debitrice e i suoi interlocutori (fornitori, banche, dipendenti, clienti), il CRO deve avere anche autorevolezza e indipendenza tali da rassicurare i creditori sulla serietà del risanamento intrapreso. Si parla spesso infatti di “discontinuità manageriale”: l’ingresso di un manager esterno porta una visione più obiettiva e “fresca”, non condizionata dalle scelte del passato, e segnala al mercato la volontà di voltare pagina. In altri termini, il CRO impersona quella necessaria discontinuità nella conduzione dell’impresa che spesso è prerequisito per ottenere la collaborazione di banche e altri creditori (i quali, comprensibilmente, possono nutrire dubbi nel lasciare il risanamento nelle stesse mani che hanno causato o non prevenuto la crisi). Un autore ha osservato che la massimizzazione del recupero dei crediti da parte dei creditori dipende sovente dalla massimizzazione del valore dell’azienda, la quale si realizza tramite la continuità aziendale purché accompagnata da una forte discontinuità nella gestione. Questa frase riassume bene la ragion d’essere del CRO: garantire la continuità dell’impresa attraverso un cambiamento radicale nella guida e nelle strategie.
Riassumendo, dal punto di vista del profilo il CRO ideale è:
- Indipendente e super partes: pur essendo ingaggiato dall’imprenditore, deve agire con obiettività nell’interesse del risanamento, instaurando fiducia con tutti i soggetti coinvolti (debitori e creditori).
- Esperto di finanza e gestione della crisi: capace di elaborare piani finanziari, negoziare con le banche, pianificare i fabbisogni di cassa e predisporre azioni per far fronte nell’immediato alla tensione finanziaria.
- Con esperienza operativa: in grado di analizzare i processi aziendali, individuare inefficienze, chiudere rami improduttivi, ottimizzare costi, e se necessario pianificare ristrutturazioni del personale o cessioni di asset.
- Comunicatore e negoziatore: dotato di abilità relazionali per gestire il dialogo con stakeholder interni (lavoratori, manager) ed esterni (istituti di credito, fornitori strategici, clienti chiave, sindacati, istituzioni), mantenendo alta la credibilità del piano di risanamento.
- Orientato ai risultati e al monitoraggio: deve fissare obiettivi concreti di breve e medio termine, monitorare costantemente i KPI (flussi di cassa, margini, avanzamento del piano industriale) e riferire con trasparenza sull’andamento rispetto al piano approvato.
Non esiste un albo professionale dei CRO né una certificazione specifica in Italia. In pratica, si tratta di figure che provengono spesso dal mondo dei manager temporanei (temporary managers) o dei consulenti di direzione, talora individuate su indicazione di società specializzate in ristrutturazioni aziendali. Negli ultimi anni anche alcune società di consulenza finanziaria, fondi di investimento specializzati in distressed assets e studi professionali hanno al loro interno professionisti in grado di ricoprire il ruolo di CRO presso le aziende clienti. È fondamentale, ad ogni modo, che vi sia piena trasparenza sui potenziali conflitti di interesse: ad esempio, un consulente che abbia lavorato per le banche creditrici potrebbe non essere visto di buon occhio dall’imprenditore, e viceversa un professionista troppo vicino alla proprietà potrebbe non offrire garanzie di imparzialità ai creditori. La scelta deve quindi cadere su una persona condivisa e rispettata da entrambe le parti.
Quando è opportuno nominare un CRO
Decidere se e quando nominare un CRO è una valutazione strategica cruciale per l’imprenditore in crisi. Idealmente, il CRO andrebbe coinvolto il prima possibile quando si manifestano segnali di difficoltà strutturale, in modo da aumentare le chance di salvataggio e ridurre i costi del risanamento. Purtroppo, non sempre accade così: sovente l’imprenditore tenta inizialmente di fronteggiare la crisi con le sole risorse interne e strumenti ordinari, procrastinando l’ingresso di competenze esterne. Ciò può derivare da comprensibili resistenze psicologiche (ammettere la gravità della crisi, timore di perdere il controllo), ma anche da oggettive ragioni di costo. Tuttavia, se la crisi persiste o si aggrava nonostante i tentativi ordinari, l’intervento di un CRO diventa opportuno e viene spesso sollecitato dagli stessi creditori principali o da nuovi investitori interessati al rilancio.
In base all’esperienza, alcune situazioni tipiche in cui la nomina di un CRO appare consigliabile sono:
- Crisi di liquidità acuta e rischio default imminente: quando l’azienda non riesce più a far fronte puntualmente ai pagamenti di fornitori, dipendenti, rate di finanziamenti e altri oneri, ed è necessario negoziare moratorie o dilazioni con i creditori. Un CRO può immediatamente imporre disciplina nella gestione di cassa e presentarsi ai creditori come garante imparziale del fatto che nessuno verrà favorito indebitamente (rispettando la par condicio), evitando reazioni disordinate dei creditori.
- Perdita di credibilità del management esistente: se gli interlocutori esterni (banche in primis) manifestano esplicitamente sfiducia verso la capacità dell’attuale imprenditore o CDA di condurre il risanamento, l’unico modo per proseguire le trattative può essere l’introduzione di un manager terzo. Ciò accade ad esempio quando vi è stato un passato di informazioni poco trasparenti, oppure target di piano ripetutamente mancati: a un certo punto banche e fornitori “alzano le mani” e chiedono un cambio di governance. In tali casi il CRO è spesso una condizione posta per continuare a sostenere l’impresa (talora formalizzata in accordi).
- Ristrutturazione complessa con condizioni earn-out o strumenti partecipativi: nelle ristrutturazioni dove ai creditori vengono chiesti sacrifici significativi (es. stralci di credito, dilazioni lunghe) in cambio di meccanismi di recupero condizionati ai risultati futuri (come earn-out legati a performance, oppure assegnazione di strumenti finanziari partecipativi – SFP – che daranno ritorni solo se l’azienda si risolleva), è fortemente raccomandata la nomina di un CRO indipendente. Un soggetto terzo incaricato di monitorare l’esecuzione del piano e il raggiungimento dei risultati previsti offre ai creditori maggiori garanzie che tali forme di “ristoro” condizionato saranno gestite con equità e competenza. Non a caso, le linee guida ministeriali sulla composizione negoziata enfatizzano che in presenza di sacrifici ai creditori compensati da elementi variabili di soddisfazione futura, la figura del CRO è particolarmente opportuna.
- Necessità di attuare cambiamenti drastici e impopolari: ad esempio un pesante taglio dei costi fissi, la chiusura di sedi o stabilimenti, il licenziamento di personale in esubero, la dismissione di asset storici. Spesso l’imprenditore “dentro” l’azienda fatica a prendere queste decisioni anche per legami emotivi o conflitti di interesse; un CRO può agire con maggiore lucidità e determinazione, assumendosi la responsabilità di misure impopolari ma necessarie. In più, la sua autorità tecnica può aiutare a giustificare tali scelte agli occhi dei lavoratori e dell’opinione pubblica (mediando con i sindacati, ad esempio).
- Ingresso di nuovi investitori o partner industriali: se nel contesto del risanamento si profila l’intervento di un socio finanziario (es. fondo di turnaround) o l’aggregazione con un altro gruppo industriale, è comune che tali soggetti condizionino l’operazione alla presenza di un CRO gradito e di fiducia. Il CRO in questo caso svolge il ruolo di “traghettatore” verso la nuova compagine, garantendo che il passaggio sia gestito in modo efficiente. Ad esempio, alcuni investitori propongono direttamente una persona di loro gradimento come CRO dell’azienda target.
- Procedura di composizione negoziata: come già accennato, nella composizione negoziata della crisi l’esperto indipendente nominato può suggerire alle parti di comune accordo di nominare un CRO che prenda in mano la fase esecutiva del risanamento. Ciò può avvenire quando le trattative portano a delineare un piano di rilancio, e si vuole assicurare che tale piano, una volta omologato attraverso uno degli strumenti, venga attuato fedelmente. In pratica, l’esperto (che termina il suo ruolo con la conclusione dell’accordo) “passa il testimone” al CRO per la successiva fase implementativa.
- Crisi settoriali con esigenze specifiche: alcuni settori presentano complessità tali per cui è opportuno ingaggiare un manager con esperienza proprio in quel campo. Ad esempio, nel settore delle costruzioni e grandi opere (dove i contratti hanno lunga durata, servono fideiussioni, ecc.) è frequente il ricorso a CRO ingegneri o manager edili; nell’automotive o nella moda, dove il prodotto e il marketing sono cruciali, si potranno scegliere CRO con competenze industriali specifiche oltre che finanziarie. La presenza di un esperto del settore aumenta la credibilità del piano presso clienti e fornitori chiave di quell’industria.
In definitiva, dal punto di vista del debitore la nomina di un CRO diventa un passaggio quasi obbligato quando: (a) i creditori la richiedono espressamente come condizione per sostenere il piano di risanamento; (b) il risanamento richiede interventi manageriali straordinari che eccedono le capacità o l’autorità dell’attuale management; (c) si vuole dare un segnale forte al mercato di discontinuità e di affidabilità del processo di turnaround. L’imprenditore accorto non dovrebbe temere questa scelta, anzi considerarla come uno strumento di protezione: affidare la guida operativa del risanamento a un esperto è anche un modo per tutelarsi da possibili responsabilità. Se un domani le cose andassero male, l’avere coinvolto un CRO fin da subito dimostra che l’organo amministrativo ha adottato tutte le misure idonee (ai sensi degli artt. 2086 e 2392 c.c.) per gestire la crisi, potenzialmente attenuando profili di colpa grave. Naturalmente, la scelta del momento giusto è delicata: troppo presto, e i costi del CRO potrebbero risultare sproporzionati rispetto ai benefici; troppo tardi, e il suo intervento potrebbe non riuscire a invertire una situazione ormai compromessa. Il tempismo è dunque essenziale.
Come avviene la nomina del CRO (modelli e procedure)
Una volta maturata la decisione di coinvolgere un Chief Restructuring Officer, come si procede concretamente alla nomina? Non essendo una figura “imposta” dalla legge, la sua designazione avviene mediante atto di autonomia privata, tipicamente una deliberazione degli organi sociali dell’impresa debitrice. A seconda della forma societaria e della posizione che il CRO andrà a occupare, la nomina può richiedere passaggi diversi. I due casi principali sono:
- CRO come componente degli organi sociali: l’ipotesi più “forte” è quella in cui il CRO venga cooptato nel Consiglio di Amministrazione o nominato Amministratore Delegato (o Direttore Generale) con delega alla ristrutturazione. In tal caso sarà necessario un atto formale dell’assemblea o del CdA, secondo le procedure statutarie. Ad esempio, se occorre nominare un nuovo consigliere, si può ricorrere alla cooptazione (ex art. 2386 c.c. per le S.p.A., o corrispondenti norme per le S.r.l.) e successiva conferma assembleare. Un caso concreto: Bialetti Industrie S.p.A., durante la propria ristrutturazione, ha visto le dimissioni di un consigliere per fare posto, tramite cooptazione, a un nuovo amministratore con il ruolo di CRO, come previsto dall’Accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis L.F. sottoscritto con banche e investitori. Il nuovo amministratore (dott. Carlo Frau) aveva il compito specifico di monitorare l’attuazione del piano industriale 2018-2023 collegato all’Accordo, riferendo trimestralmente al CdA sullo stato di avanzamento. Questo esempio illustra bene la procedura: l’accordo di ristrutturazione con i creditori prevedeva contrattualmente la nomina di un CRO nel CdA; di conseguenza un membro del CdA si è dimesso e il board ha cooptato la persona individuata come CRO, attribuendogli deleghe operative sul piano di risanamento.
- CRO come dirigente o consulente esterno: in altre situazioni il CRO può essere ingaggiato con un contratto ad hoc di natura dirigenziale o professionale, senza entrare formalmente nel board. Ad esempio, il CdA può deliberare di stipulare un contratto di consulenza manageriale con il dott. XY, definendo il suo titolo (es. “Chief Restructuring Officer dell’azienda”), i poteri che gli vengono delegati e le linee di riporto (tipicamente il CRO risponderà al CdA o all’Amministratore Delegato). In parallelo, per dare efficacia interna, il CdA potrebbe emanare procure o deleghe organizzative in favore del CRO (es. poteri di firma su certe operazioni, supervisione su specifiche funzioni aziendali come CFO, ufficio acquisti, ecc.). Questa soluzione è preferibile quando si vuole mantenere invariata la composizione formale degli organi sociali, oppure quando il CRO arriva in azienda in ruoli non apicali ma comunque decisionali.
Indipendentemente dalla modalità scelta, alcuni accorgimenti sono fondamentali:
- Delibera di nomina ben circostanziata: il verbale del CdA (o dell’assemblea) che nomina il CRO deve specificare le ragioni (richiamo alla situazione di crisi e all’esigenza di supporto specialistico), l’identità della persona scelta, la durata prevista dell’incarico e, soprattutto, le deleghe e i poteri attribuiti. È buona prassi elencare in delibera gli ambiti di autonomia decisionale concessi al CRO (es. potere di autorizzare pagamenti entro certi limiti, di firmare accordi con fornitori nell’ambito del piano, di rinegoziare contratti, ecc.), precisando che opererà in coordinamento con gli organi sociali esistenti. In delibera si può anche definire la necessaria collaborazione dei dipendenti nei confronti del CRO.
- Contratto con il CRO (lettera d’incarico): soprattutto se il CRO non è amministratore (nel qual caso basterà la delibera e l’accettazione della carica), conviene stipulare un accordo scritto che dettagli termini e condizioni: obiettivi dell’intervento, reportistica attesa (ad es. relazioni periodiche sullo stato del piano), compenso e bonus eventuali (spesso i CRO prevedono una parte di compenso variabile legata al successo dell’operazione), cause di revoca o dimissioni, obblighi di riservatezza e non concorrenza, eventuale esonero da responsabilità per atti compiuti in buona fede nell’ambito del mandato. In allegato al contratto si può inserire una descrizione del piano di risanamento concordato e il ruolo del CRO nella sua implementazione, così da avere chiarezza di intenti condivisa.
- Approvazione dei creditori chiave: se la nomina del CRO è frutto di una richiesta dei creditori (banche, fornitori strategici) o contenuta in un accordo, è opportuno coinvolgerli nella scelta della persona (magari sottoponendo prima una rosa di candidati). Un CRO non gradito ai principali finanziatori rischia di partire con il piede sbagliato. Nella pratica, talvolta i creditori richiedono il diritto di gradimento sul CRO: ad es. in accordi di moratoria bancari si legge che “la società nominerà un Chief Restructuring Officer designato dai creditori finanziari, il cui nominativo dovrà essere approvato dalle banche”. È quindi fondamentale individuare un professionista che incontri la fiducia di entrambe le parti.
- Coordinamento con altri organi della procedura: se l’azienda è già in procedura concorsuale (es. concordato in corso), la nomina del CRO deve essere comunicata e coordinata con il Commissario Giudiziale e con il tribunale. In genere, il tribunale vede positivamente l’ingresso di un CRO qualificato, interpretandolo come indice di serietà del debitore nel perseguire il risanamento. Nel caso di Astaldi, ad esempio, la società era in concordato preventivo “in bianco” e il tribunale di Roma è stato informato della nomina di un CRO (Paolo Amato) chiamato a presidiare la fattibilità della proposta concordataria presentata. Il CRO, pur non essendo un organo nominato dal tribunale, di fatto ha cooperato con il Commissario e ha risposto al CdA, garantendo un’interlocuzione più efficace con il ceto creditorio durante la finalizzazione del piano concordatario.
Fac-simile di Delibera CdA – Nomina CRO: Di seguito proponiamo uno schema semplificato di delibera consiliare per la nomina di un CRO in una S.p.A.:
Esempio:
Il Consiglio di Amministrazione della Alfa S.p.A., riunito in data odierna, preso atto:
– della situazione di crisi aziendale in atto, caratterizzata da [breve descrizione squilibri];
– della necessità di porre in essere un piano di risanamento nell’ambito del [indicare se piano attestato, accordo ex art. 57 CCII, concordato, composizione negoziata, ecc.];
– delle interlocuzioni intercorse con i principali creditori e con l’esperto nominato ex art. 17 CCII, e della loro favorevole valutazione circa l’affiancamento della Società con un manager specializzato nella ristrutturazione;
delibera
1) di nominare il Dott. [Nome Cognome] quale “Chief Restructuring Officer” della Società, conferendogli l’incarico di sovraintendere e coordinare l’attuazione del piano di risanamento aziendale;
2) di attribuire al suddetto Dott. [Cognome] i seguenti poteri, da esercitarsi in coordinamento con l’Amministratore Delegato: [elencare poteri operativi: es. autorizzazione pagamenti oltre €X, firma contratti con fornitori strategici, gestione trattative con banche e fornitori in merito alla ristrutturazione del debito, potere di accesso a tutte le informazioni contabili e aziendali, ecc.];
3) di stabilire che il CRO riferirà al CdA sull’andamento del piano con cadenza [mensile/trimestrale] e ogniqualvolta richiesto;
4) di autorizzare il Presidente a sottoscrivere con il Dott. [Cognome] apposito contratto di consulenza/dirigenza regolante gli aspetti economici e le condizioni dell’incarico, in linea con quanto illustrato nella presente delibera.
Tale esempio naturalmente andrebbe adattato alle circostanze concrete (se il CRO entra in CdA, la formula sarà diversa, prevedendo magari la cooptazione come nuovo consigliere delegato, ecc.). Ma evidenzia gli elementi chiave: motivazione nella premessa, nomina formale del soggetto individuato, definizione del ruolo e dei suoi compiti, indicazione della reportistica e del coordinamento con gli organi esistenti, formalità contrattuali.
Durata dell’incarico e cessazione
Un CRO viene normalmente incaricato per la durata del processo di risanamento. In molti casi non c’è una scadenza temporale fissa, ma un obiettivo: ad es. “fino al completamento del piano industriale triennale” oppure “sino al termine della procedura di concordato”. Alcuni contratti prevendono durate minime (es. 12 mesi) rinnovabili. È importante regolare cosa accade in caso di risoluzione anticipata: il debitore potrebbe volere la facoltà di revocare il CRO se il rapporto non funziona, e il CRO potrebbe volersi riservare di dimettersi in certe condizioni (ad esempio mancata attuazione delle sue indicazioni da parte dell’imprenditore, o sopravvenute divergenze insanabili). In ogni caso, un avvicendamento improvviso del CRO va maneggiato con cautela, perché può inviare segnali negativi al mercato. Ad esempio, la revoca di un CRO senza il consenso dei creditori può essere vista come un passo indietro sulla trasparenza e far saltare la fiducia ricostruita. Per questo nei pacta con investitori/banche spesso si stabilisce che il debitore non possa rimuovere il CRO senza l’approvazione degli stessi investitori/banche, se non per giusta causa.
Infine, con il ritorno a una gestione “normale” post-risanamento, il CRO esaurisce la sua funzione. Idealmente, se il suo operato ha successo, al termine l’azienda avrà una struttura finanziaria risanata e un management interno rafforzato o rinnovato, tale da non aver più bisogno del CRO. A quel punto il suo incarico può cessare consensualmente.
Poteri, funzioni e responsabilità del CRO
Analizziamo ora che cosa fa concretamente il CRO una volta nominato, quali poteri esercita all’interno e all’esterno dell’azienda e quale regime di responsabilità giuridica lo riguarda.
Poteri e compiti operativi
Le attività del CRO si possono idealmente dividere in due categorie:
- azioni all’interno dell’azienda (riassetto organizzativo, gestione operativa, controllo di gestione, rapporti con il personale e il management);
- azioni verso l’esterno (rapporti con creditori, istituti finanziari, fornitori, advisor, ecc., volte a negoziare e dare credibilità al piano di risanamento).
All’interno dell’azienda, i principali compiti che il CRO si assume durante il processo di riorganizzazione sono spesso elencati come segue:
- Assicurare discontinuità gestionale: mettere in discussione lo status quo, introdurre nuove prassi decisionali, sospendere eventualmente prassi dannose. Poiché il CRO non deve giustificare scelte passate ed è libero da legami pregressi con persone e routine interne, può portare una visione più chiara e scevra da pregiudizi, fungendo da “catalizzatore” del cambiamento.
- Riorganizzare l’azienda: ridefinire la struttura organizzativa, ottimizzare i processi e i costi. Il CRO analizza criticamente “chi fa cosa” e “come”, anche in un’ottica di efficientamento: può ridurre i costi di fornitura rinegoziando contratti, ridurre organici in aree sovradimensionate (spesso purtroppo ciò implica piani di esubero o cassa integrazione), e in generale snellire la struttura eliminando duplicazioni o attività non essenziali. Tra i compiti più delicati vi è quasi sempre la gestione degli esuberi di personale, eventualmente negoziando con i sindacati soluzioni sostenibili (ad es. prepensionamenti, fondi di solidarietà). Il CRO partecipa in prima persona alle trattative sindacali, spiegando le nuove linee strategiche e cercando di bilanciare gli interessi dell’azienda e dei lavoratori.
- Motivare le risorse umane: un’azienda in crisi vede spesso un calo di motivazione e produttività nei dipendenti, preoccupati per il futuro (fenomeni di burnout o “job insecurity” sono comuni). Il CRO deve anche agire da leader motivazionale: la sua sola nomina può trasmettere al personale il segnale che l’imprenditore intende seriamente cambiare rotta. È importante coinvolgere i dipendenti nel percorso di risanamento, comunicando con trasparenza la situazione e mostrando loro un piano chiaro: in molti casi le maestranze, se adeguatamente informate e responsabilizzate, diventano alleate attive del turnaround. Il CRO può proporre, ad esempio, incentivi legati ai risultati di risanamento per i dipendenti chiave, o prevedere momenti formativi per aggiornare le competenze necessarie al nuovo piano.
- Verificare e migliorare la governance aziendale: se la crisi è dipesa anche da carenze nei controlli o nella gestione, il CRO può suggerire modifiche nell’assetto di governance. Ad esempio, potrebbe consigliare all’imprenditore di inserire consiglieri indipendenti nel CdA, rafforzare il collegio sindacale o nominare un chief financial officer (CFO) più esperto se mancava. L’obiettivo è creare un sistema di controlli ed equilibri più robusto per prevenire future crisi.
- Fare da mediatore metodologico e culturale: il CRO introduce nuove metodologie di pianificazione e controllo. Può implementare strumenti come il cash flow forecasting, sistemi di reporting mensile, KPI di performance per ogni area, se prima non esistevano. In generale, aiuta l’organizzazione a passare da una gestione “artigianale” a una manageriale, inculcando la cultura del monitoraggio continuo. Spesso la crisi deriva anche dalla mancanza di strumenti adeguati di controllo di gestione: il CRO colma questa lacuna affiancandosi magari a un controller esperto, mettendo subito l’azienda in grado di misurare le proprie performance e capire l’origine delle sotto-performance. Ciò è fondamentale per guidare il risanamento su basi analitiche e non approssimative.
- Reimpostare i sistemi di controllo di gestione: come corollario del punto precedente, il CRO rivede i flussi informativi interni. Ad esempio, se mancava una tesoreria centralizzata, ne istituisce una; se il sistema contabile non forniva dati di margine per prodotto/cliente, imposta contabilità analitica; se il budget non veniva fatto, introduce un processo di budgeting e forecasting. Tutto questo serve per avere sempre chiara la situazione finanziaria e prevedere l’andamento dei flussi di cassa, evitando sorprese. Un immediato compito del CRO all’arrivo è proprio controllare i flussi di cassa e predisporre un cash-flow previsionale a breve termine (es. 13 settimane), per assicurare la sopravvivenza dell’azienda nel brevissimo periodo. Sulla base di tale analisi, il CRO individua quali pagamenti urgenti possono essere effettuati e quali invece vanno congelati o dilazionati; dopodiché si confronta con i creditori imminenti spiegando la situazione e cercando un consenso (anche informale) a un calendario di pagamenti sostenibile. Ottenuto questo “respiro” sul brevissimo periodo, può dedicarsi con un minimo di tranquillità al piano di ristrutturazione vero e proprio.
Queste azioni interne sono tutte finalizzate a predisporre l’azienda a ricevere il piano di risanamento e a supportarne l’esecuzione. Un’azienda più snella, con il personale motivato e i costi sotto controllo, avrà molte più probabilità di raggiungere gli obiettivi del piano concordato.
Verso l’esterno dell’azienda, invece, le principali attività che il CRO svolge sono orientate a comunicare, negoziare e rafforzare la fiducia degli stakeholder nel processo di risanamento. Possiamo sintetizzarle in tre macro-compiti:
- Garantire una comunicazione continua e trasparente verso gli stakeholder: il CRO diventa il punto di riferimento per banche, fornitori, clienti e altri creditori per tutti gli aspetti legati al piano di risanamento. Invece di lasciar spazio a voci di corridoio o notizie frammentarie (che in una crisi possono alimentare panico), il CRO istituisce un canale di dialogo periodico: ad esempio, invia report informativi ai principali creditori sull’andamento delle strategie adottate e sui risultati economico-finanziari rispetto al piano. Questo approccio di trasparenza proattiva aiuta molto a contenere la sfiducia: i creditori, tenuti al corrente, sono meno propensi a intraprendere azioni aggressive e più disposti a collaborare. Il CRO può organizzare incontri mensili con il pool di banche per aggiornarle e affrontare eventuali problemi prima che diventino allarme rosso.
- Dare credibilità alle azioni intraprese e al piano industriale: il CRO, grazie alla sua reputazione e alla sua esperienza, “garantisce, in particolare ai finanziatori dell’azienda, che l’azienda ha intrapreso un percorso di trasformazione serio nel tentativo di risanamento”. In pratica funge da certification agent: la sua firma su un report o il suo coinvolgimento diretto in un progetto di riorganizzazione rendono quell’iniziativa più credibile agli occhi dei creditori. Questo è cruciale soprattutto quando si chiede ai creditori di pazientare (ad es. durante uno standstill nei pagamenti): accettano più volentieri se sanno che c’è un CRO a massimizzare il valore dell’impresa e quindi le loro prospettive di recupero. Non a caso, molti accordi di moratoria o ristrutturazione prevedono clausole tipo: “il debitore garantirà l’attuazione del piano sotto il monitoraggio di un CRO indipendente, scelto di comune accordo” – proprio per formalizzare questo meccanismo di credibilità.
- Ricercare nuovi partner finanziari o industriali: il CRO, analizzando la strategia aziendale, potrebbe concludere che per un risanamento completo serva nuova finanza o l’ingresso di un partner. Egli allora esplora il mercato alla ricerca di investitori interessati a sostenere l’azienda (ad esempio presentando l’opportunità a fondi di private equity specializzati in situazioni distress, o contattando potenziali soci industriali per joint-venture). Può anche orchestrare operazioni di conversione del debito in equity: ad esempio, convincere alcuni creditori a convertire i propri crediti in quote di capitale dell’azienda, così da ridurre l’indebitamento e allineare gli interessi (i creditori diventano soci e puntano al rilancio). Tutte queste operazioni straordinarie – siano esse aumenti di capitale, cessione di rami d’azienda a partner strategici, fusioni o scissioni – fanno parte della “cassetta degli attrezzi” del CRO e vengono inserite nel piano industriale se utili a garantire continuità e creazione di valore futuro. Ad esempio, se l’azienda ha capacità produttiva inutilizzata e un competitor nella stessa situazione, il CRO potrebbe proporre un’alleanza (condivisione impianti, unione di divisioni complementari) che senza costi eccessivi migliori le performance di entrambi.
Un punto fermo: il CRO redige, in stretta collaborazione con l’imprenditore e gli eventuali advisor, il nuovo Piano industriale (o piano di risanamento) dell’azienda. Questo documento delinea gli obiettivi strategici e tattici per riportare l’azienda in bonis, e contiene sia iniziative interne (ristrutturazione operativa, investimenti o disinvestimenti, piani commerciali, politica del personale) sia previsioni finanziarie (flussi di cassa attesi, proiezioni di conto economico, ecc.) compatibili con gli impegni verso i creditori. Il Piano industriale predisposto col supporto del CRO viene poi condiviso primariamente con i soci (che spesso devono anch’essi contribuire, ad es. rinunciando a crediti infragruppo o apportando nuova finanza) e quindi presentato a banche e fornitori, per ottenere il loro assenso formale nell’ambito dello strumento di regolazione scelto. Un buon piano per essere persuasivo deve essere concreto e realistico: il CRO lo rende credibile inserendo non solo progetti e intenzioni, ma anche azioni che ha già avviato o inizia subito a implementare (i cosiddetti quick wins) così che i risultati siano in parte tangibili fin da subito. Ad esempio, se il piano prevede di ridurre i costi di struttura del 20%, il CRO avrà già identificato quali uffici chiudere o quali spese tagliare e inizierà ad eseguire queste mosse contestualmente alla presentazione del piano, in modo che creditori e tribunale vedano che non sono solo promesse, ma misure in corso.
In definitiva il CRO, con i poteri che gli sono stati attribuiti, esercita una gestione d’emergenza dell’azienda, focalizzata sui seguenti obiettivi chiave:
- Stabilizzare la situazione finanziaria di breve periodo (cash management, accordi ponte con i creditori, protezione del patrimonio nelle more delle trattative).
- Risanare la struttura industriale e organizzativa, incrementando l’efficienza e riducendo le perdite operative.
- Risanare la struttura finanziaria, rinegoziando l’indebitamento e reperendo eventuali nuove risorse (equity o finanziamenti) necessarie all’attuazione del piano.
- Ripristinare la fiducia di creditori, dipendenti e mercato nell’azienda, grazie a una comunicazione trasparente e all’evidenza dei primi risultati positivi ottenuti.
- Monitorare strettamente l’avanzamento del piano rispetto agli obiettivi, apportando eventuali correzioni di rotta in corso d’opera e segnalando tempestivamente agli organi sociali eventuali scostamenti critici.
Vale la pena sottolineare come la presenza di un CRO non escluda quella di altri advisor specialistici. Al contrario, spesso il CRO coordina un team di consulenti: ad esempio, può lavorare con un advisor finanziario (banca d’affari o professionista) per gli aspetti di finanza straordinaria, con un advisor legale per gli aspetti negoziali e contrattuali della procedura, con consulenti del lavoro per i piani sul personale, ecc. Alcune società di consulenza offrono veri e propri “team di crisis management” dove il CRO guida e si avvale di figure come controller, esperti di marketing strategico, specialisti di settore, tutti dedicati al salvataggio dell’azienda cliente. Il vantaggio per l’azienda è di avere un pacchetto integrato di competenze e braccia operanti sotto un unico coordinamento. È chiaro però che ogni aggiunta di advisor comporta costi, che devono essere sostenibili e calibrati sulla dimensione dell’impresa in crisi.
Inquadramento giuridico e responsabilità del CRO
Dal punto di vista giuridico, il CRO non ha una qualifica unica prefissata, ma rientra in una delle figure esistenti dell’ordinamento societario o del lavoro, a seconda di come viene formalizzato l’incarico:
- Se entra nel CdA come consigliere delegato o amministratore, diviene a tutti gli effetti un amministratore della società, con i doveri e responsabilità che ne conseguono (diligenza ex art. 2392 c.c., obblighi verso la società e i creditori, ecc.).
- Se viene nominato direttore generale o procuratore con deleghe gestionali, diviene un institori o dirigente d’azienda, legato da rapporto di lavoro (o di collaborazione) con corrispondenti obblighi di fedeltà e diligenza professionale.
- Se opera come consulente esterno, rimane un professionista autonomo, con un contratto d’opera intellettuale; in tal caso le sue obbligazioni sono di mezzi e non di risultato, ma l’ampiezza dei poteri delegati potrebbe fargli assumere comunque un ruolo assimilabile a quello di un organo di fatto dell’impresa.
Un tema delicato è quello delle responsabilità. In linea generale, il CRO risponde:
- Verso la società (e i soci) per eventuali inadempimenti contrattuali o, se amministratore, per violazione dei doveri gestori. Ad esempio, se agisce con negligenza causando un peggioramento della situazione aziendale evitabile, potrebbe essere chiamato a rispondere dei danni.
- Verso i creditori sociali, indirettamente, nel senso che se il suo operato configura mala gestio rilevante, gli amministratori potrebbero rivalersi su di lui. Oppure, se è amministratore egli stesso, può incorrere in responsabilità per aggravamento del dissesto (come qualsiasi amministratore) qualora prosegua attività imprudenti senza prospettive ragionevoli di risanamento.
- Eventualmente, verso terzi specifici: si pensi al caso di attestazioni o informazioni fornite dal CRO a banche/fornitori che dovessero rivelarsi false o grossolanamente errate – potrebbe profilarsi una sua responsabilità precontrattuale o extracontrattuale per aver indotto qualcuno ad accordare fiducia in base a dati scorretti. È dunque essenziale che il CRO mantenga sempre la massima professionalità e veridicità nelle comunicazioni.
Un dubbio frequente è se il CRO possa essere considerato “amministratore di fatto” dell’azienda, con tutto ciò che ne consegue (anche in termini di rischio di bancarotta semplice o preferenziale in sede penale, se prende decisioni su pagamenti preferenziali, ecc.). Questo rischio si pone soprattutto se il CRO opera senza inquadramento formale nel CdA: in tali casi, per evitare contestazioni, conviene adottare cautele come:
- Deliberare chiaramente i limiti dei suoi poteri e mantenere formalmente attive le delibere consiliari per le decisioni di maggior rilievo (ovvero non lasciare che de facto tutte le decisioni vengano prese solo dal CRO ignorando il CdA).
- Far figurare il CRO come procuratore speciale per certe materie, così che i terzi sappiano esattamente in quale veste firma (riducendo ambiguità sulla catena di comando).
- Tenere verbali periodici di CdA in cui il CRO riferisce e il CdA ratifica/indirizza le sue azioni principali.
Detto ciò, nella maggior parte dei casi il CRO lavora di concerto con l’organo amministrativo e non in contrapposizione. L’imprenditore o il CdA restano comunque investiti degli obblighi di vigilanza: non possono nominare il CRO e poi disinteressarsi completamente, altrimenti rischiano una violazione dell’art. 2392 c.c. di “mancata vigilanza”. La Cassazione ha sottolineato che l’amministratore (anche non esecutivo) deve sempre agire informato e vigilare sull’operato di chi ha deleghe. Quindi il CdA deve seguire l’operato del CRO, approvando magari le sue iniziative strategiche e leggendo attentamente i suoi report, intervenendo se qualcosa non convince.
Sul fronte della tutela del CRO, è opportuno che:
- Sia chiarita la copertura assicurativa: se l’azienda ha una polizza D&O (Directors & Officers) per gli amministratori, si estenda anche al CRO. Altrimenti, il CRO valuterà di stipulare una propria assicurazione di responsabilità civile professionale.
- Siano previste clausole di manleva nel contratto a favore del CRO per atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, salvo dolo o colpa grave. Questo per proteggerlo da azioni legali pretestuose ex post. Spesso i creditori chiave accettano tali clausole, comprendendo che altrimenti sarebbe difficile attrarre un professionista qualificato in un’impresa già problematica.
- Nel caso di procedure concorsuali avviate, il CRO potrebbe chiedere che i suoi compensi vengano riconosciuti come crediti prededucibili (cioè con priorità di pagamento) nell’eventualità di un successivo fallimento. In un concordato, ad esempio, il compenso del CRO può essere inserito come costo del piano e, se il concordato viene omologato e poi convertito in liquidazione giudiziale, quella spesa può essere prededucibile in virtù dell’art. 6 CCII (costi della procedura concordataria utili ai creditori). Sono dettagli tecnici, ma che un CRO accorto contrattualizza per evitare di trovarsi creditore chirografario in caso di esito nefasto.
- Si disciplini la governance decisionale: ad esempio, stabilire che per certe operazioni il CRO decide autonomamente, per altre serve il concerto con l’AD o col Presidente. Ciò per prevenire sia conflitti interni sia incertezze verso l’esterno su chi può fare cosa.
In sintesi, il CRO opera in un campo minato tra doveri di diligenza gestionale, attese dei creditori e obblighi legali tipici degli amministratori. Dal punto di vista del debitore, la nomina di un CRO non riduce le proprie responsabilità, ma può costituire una prova di aver messo in atto tutte le misure doverose per tentare il risanamento. Se poi, malgrado l’operato diligente del CRO, l’impresa dovesse finire in liquidazione, difficilmente si potrà accusare l’imprenditore di non aver fatto il possibile (benchè ciò non escluda l’analisi del suo operato pregresso alla nomina del CRO). Va inoltre ricordato che il CRO non ha poteri ispettivi “protetti” tipo commissario: se scopre irregolarità o atti distrattivi compiuti prima, ha il dovere etico di segnalarli al CdA e nei piani, ma non ha una posizione di pubblico ufficiale. Egli potrebbe trovarsi in situazioni delicate – ad esempio scoprendo bilanci non veritieri o distrazioni patrimoniali passate – in cui dovrà gestire la cosa con trasparenza nel piano (facendo emergere eventuali buchi) ma anche con prudenza, consigliando all’imprenditore di regolarizzare eventuali illeciti prima che subentrino autorità terze.
Il CRO nei principali strumenti di regolazione della crisi
Come interagisce il CRO con i diversi percorsi di risanamento previsti dalla legge? Analizziamo il ruolo (formale o di fatto) che può assumere nell’ambito di ciascuno degli strumenti descritti in precedenza, sempre considerando la prospettiva del debitore che vuole avvalersene.
Piano attestato di risanamento
Nel piano attestato di risanamento (strumento stragiudiziale e riservato), la nomina di un CRO non è richiesta né regolata dalla legge, ma può rivelarsi un fattore di successo. Trattandosi di un accordo privato con alcuni creditori strategici, la credibilità è tutto: avere un CRO che redige il piano insieme all’imprenditore e lo implementa può convincere i creditori ad aderire più facilmente. In pratica, il CRO in un piano attestato opera “dietro le quinte”: ai creditori verrà presentato un piano attestato dal professionista indipendente ex art. 56 CCII, ma nel memorandum informativo si potrà indicare che “la Società ha nominato il dott. XY quale CRO responsabile dell’esecuzione del Piano”. Questo segnale mostra che l’azienda ha investito in una governance della crisi robusta. Inoltre, il CRO faciliterà il lavoro dell’attestatore assicurando che i dati e le previsioni siano attendibili e documentati.
Dal lato operativo, durante l’esecuzione del piano attestato il CRO monitora che l’azienda rispetti gli impegni presi con i creditori aderenti. Poiché non c’è un commissario né un giudice, tutto si basa sulla fiducia reciproca: il CRO funge un po’ da “garante contrattuale” informale. Ad esempio, se il piano prevedeva pagamenti trimestrali ai creditori, il CRO predisporrà i flussi per rispettarli e, se sorge un problema, contatterà per tempo i creditori per trovare soluzioni condivise (anziché lasciare che sia l’imprenditore, magari poco abituato a negoziare, a fare figuracce con ritardi non comunicati). Va comunque notato che nel piano attestato i creditori non hanno vincolo legale di stare “fermi”: se uno cambia idea, può sempre agire individualmente. Quindi il CRO qui lavora più sui singoli rapporti bilaterali, cercando di mantenere coesa la fiducia fino a risanamento avvenuto.
In sintesi, nel piano attestato la scelta di dotarsi di un CRO è completamente su base volontaria del debitore, ma altamente consigliabile quando la situazione coinvolge molti attori e serve una regia esperta per mantenere le promesse fatte nel piano. Non ci sono riferimenti giurisprudenziali specifici sul CRO nei piani attestati, data la riservatezza di tali accordi; tuttavia, le best practice di mercato mostrano che le aziende più strutturate spesso inseriscono un CRO o almeno un manager dedicato all’implementazione del piano, proprio per ovviare al fatto che nessuna autorità esterna vigilerà.
Accordi di ristrutturazione dei debiti
Negli accordi di ristrutturazione ex art. 57 CCII (già art. 182-bis L.F.), il ruolo del CRO tende a essere più formalizzato, specie quando l’accordo coinvolge una platea ampia di creditori finanziari. È prassi abbastanza diffusa che, nella fase di trattativa dell’accordo, le banche richiedano al debitore di nominare un advisor finanziario e un CRO operativo. Ad esempio, nei Restructuring Agreement stipulati da società quotate spesso si legge dell’impegno a nominare un CRO entro una certa data, a volte indicato per nome nell’accordo stesso, con compiti di monitoraggio.
Un caso concreto già citato: Bialetti Industrie nel suo accordo di ristrutturazione del 2019 ha dovuto nominare un CRO (in CdA) come condizione prevista dall’accordo. Altro esempio: un accordo di ristrutturazione siglato da una PMI con il suo finanziatore Negma stipulava la designazione di un CRO gradito dal finanziatore per vigilare sul rispetto del piano e dell’accordo stesso. In sostanza, in un accordo ex art. 57 il CRO può figurare già nel term sheet o nel piano allegato all’accordo, come soggetto incaricato dell’esecuzione. Il tribunale, in sede di omologazione, ben difficilmente avrà obiezioni sulla presenza di un CRO – anzi, la vedrà come una misura a garanzia della serietà del piano. Quindi il suo ruolo rientra nel perimetro dell’autonomia contrattuale tra debitore e creditori.
Durante la fase esecutiva dell’accordo di ristrutturazione, il CRO opererà in modo analogo al caso del piano attestato: non c’è una procedura concorsuale aperta (l’accordo, ancorché omologato dal tribunale, non prevede organi di procedura come commissari), per cui il CRO rimane l’unico “sorvegliante” operativo insieme all’organo amministrativo. Gli accordi spesso prevedono obblighi di informativa periodica ai creditori aderenti: tipicamente, il debitore deve fornire ai creditori semestralmente o trimestralmente una relazione sull’andamento del piano e sul rispetto degli impegni. È naturale che il CRO sia il redattore di queste relazioni.
Uno scenario peculiare: Accordi con intermediari finanziari e “Monitoraggio esterno”. In alcune grandi ristrutturazioni bancarie, oltre al CRO interno, le banche nominano un loro consulente esterno (talora chiamato Monitoring Trustee o simili) che “controlla il controllore”, ovvero verifica per conto delle banche quello che fa il CRO e riferisce alle banche stesse. Questa figura di monitor è più frequente all’estero, ma qualche volta adottata anche in Italia quando la posta in gioco è molto alta (crediti bancari rilevanti) e magari c’è inizialmente diffidenza sul CRO proposto dal debitore. Tuttavia, se il CRO gode del pieno rispetto, spesso le banche rinunciano a monitor aggiuntivi.
In caso di inadempimento dell’accordo: se l’azienda non rispetta i patti (ad es. salta una rata di pagamento prevista), i creditori possono chiedere la risoluzione dell’accordo in tribunale, salvo che non si trovi un correttivo. Ecco, il CRO qui gioca un ruolo fondamentale di cuscinetto: se percepisce che l’azienda sta deviando dal piano, immediatamente avvisa i creditori e magari propone una modifica dell’accordo (es. un waiver per saltare una scadenza e posticiparla) prima che si arrivi allo strappo legale. Questo è successo in alcuni casi durante la pandemia, dove accordi omologati pre-Covid sono diventati inattuabili: diversi CRO hanno negoziato con i creditori delle modifiche (per esempio allungamento delle moratorie) evitando la rottura. Oggi il CCII consente formalmente la modifica degli accordi già omologati con procedure semplificate, e sicuramente la presenza di un CRO facilita l’istruttoria e la presentazione di tali richieste al tribunale.
Concordato preventivo
Nel concordato preventivo, che è la procedura più articolata e sotto controllo giudiziario, il CRO non è previsto come organo ufficiale; ciononostante, può avere un ruolo determinante su impulso del debitore. La figura corrispondente “ufficiale” in un concordato è il commissario giudiziale, nominato dal tribunale con funzioni di vigilanza e parere (ma non gestionali). Tuttavia, il commissario non gestisce l’impresa, limitandosi a controllare che il debitore la gestisca correttamente e informando i creditori e il giudice. Quindi l’impresa rimane in debtor in possession: l’organo amministrativo continua ad amministrare. Nulla vieta, anzi può essere opportuno, che l’organo amministrativo si rafforzi nominando un CRO per gestire operativamente il concordato.
Un esempio lampante è stato il caso Astaldi S.p.A., uno dei maggiori concordati in continuità in Italia: già durante la fase di presentazione del piano concordatario, la società ha nominato un CRO (Paolo Amato) con il compito di “accompagnare e supportare la società nella prosecuzione delle attività, con particolare attenzione all’efficace esecuzione della proposta concordataria presentata […] e funzione di garanzia e presidio di fattibilità della proposta”. In altre parole, il CRO in Astaldi aveva il mandato di assicurare che tutte le azioni previste dal piano concordatario fossero realizzate e che la proposta di concordato fosse effettivamente realizzabile nei fatti. Egli riportava al CdA, ma ovviamente interloquiva anche col Commissario e con il Tribunale fornendo rassicurazioni sul piano. Non a caso quel concordato è stato poi omologato e portato a termine con successo: l’avere un CRO ha probabilmente contribuito a convincere i creditori (e il tribunale) della serietà e fattibilità del piano di risanamento proposto.
Dunque, prima dell’omologazione del concordato, il CRO svolge un ruolo simile a quello nel piano attestato/accordo, ma con l’ulteriore interfaccia del commissario e del giudice:
- Supporta la stesura del piano concordatario e della proposta, garantendo che sia dettagliato e realistico.
- Collabora con l’attestatore indipendente fornendogli tutti gli elementi per attestare la fattibilità.
- Implementa nell’immediato eventuali azioni urgenti (spesso nelle more tra domanda di concordato “in bianco” e presentazione del piano c’è un tempo prezioso in cui il CRO può avviare ristrutturazioni interne, in modo simile a una composizione negoziata).
- Assicura il rispetto delle autorizzazioni del tribunale: in concordato, ogni atto di straordinaria amministrazione deve essere autorizzato dal giudice delegato. Il CRO si premura di sottoporre al CdA e poi al giudice eventuali richieste (es. pagamento di crediti pregressi strategici, nuovi finanziamenti prededucibili, ecc.) corredandole di motivazioni solide. Questo snellisce il dialogo con il tribunale.
Durante la fase di esecuzione del concordato (post-omologa), il CRO può assumere ancora maggiore centralità. Nelle procedure in continuità, spesso il tribunale, nel decreto di omologa, “ingaggia” il commissario giudiziale come monitor del piano, imponendo al debitore di presentare report periodici sullo stato di avanzamento. Questi report vengono redatti in primis proprio dal CRO, se c’è, poiché è lui che ha il polso della situazione. I creditori, dal canto loro, rimangono informati attraverso il commissario (che a sua volta può ricevere informazioni dal CRO). In alcuni casi, specie se il concordato è lungo da eseguire (piani quinquennali, ecc.), il commissario giudiziale viene talora confermato come commissario “monitor” proprio su istanza del CRO/debitore, così da avere un referente ufficiale con cui confrontarsi e a cui rendere conto, anche a tutela del CRO medesimo (che così opera sotto la supervisione del commissario e difficilmente potrà essere accusato di condotte arbitrarie).
Se il concordato è in continuità indiretta (ovvero prevede la cessione dell’azienda o di rami a terzi, magari dopo un periodo in affitto), il CRO può fungere da project manager per la vendita: gestisce la data room, i contatti con possibili acquirenti, l’implementazione di eventuali condizioni sospensive di contratto d’affitto, ecc. In tal caso lavora a stretto contatto con gli advisor M&A e con il commissario che deve approvare l’operazione.
Nel concordato liquidatorio puro, invece, c’è meno spazio per un CRO dopo l’omologa perché l’impresa è destinata a cessare. Tuttavia, durante la preparazione della proposta anche in un concordato liquidatorio un CRO può essere utile: ad esempio, per organizzare vendite di cespiti nel modo migliore (con procedure competitive pre-concordato), oppure per mantenere il valore dell’azienda se si tiene in esercizio provvisorio mentre si cerca un acquirente unitario (qui sconfinerebbe nella straordinaria amministrazione se dimensioni grandi, altrimenti concordato con continuità indiretta). Diciamo che se l’obiettivo è solo liquidare, spesso l’imprenditore non sente il bisogno di un CRO (si affida al professionista legale e al curatore che verrà). Ma se c’è margine di miglior soddisfacimento tramite gestione attiva, un CRO può comunque dare il suo apporto.
Va evidenziato che la legge non menziona mai il CRO nel concordato, ma ciò non significa che non abbia riconoscimento. Anzi, in sede di omologazione, se un creditore contesta la fattibilità del piano o la buona fede del debitore, poter dimostrare che “l’esecuzione del piano è affidata a un CRO di comprovata esperienza” può essere un punto a favore. Anche in sede di valutazione del “miglior soddisfacimento dei creditori”, recentemente sottolineata dalla Cassazione, il tribunale confronta il risultato atteso in concordato con quello di una liquidazione: avere un CRO che guida la continuità può convincere il giudice che la continuità (con discontinuità gestionale) offrirà un recupero ai creditori superiore alla liquidazione pura, giustificando quindi l’omologa.
In definitiva, nel concordato il CRO è un facilitatore interno che consente al debitore di assolvere meglio i propri obblighi durante la procedura:
- Nei confronti del commissario: assicura collaborazione, fornisce dati e informazioni precise e tempestive, attua le raccomandazioni del commissario (che spesso, nelle relazioni ex art. 100 CCII, suggerisce correttivi o monitoraggi).
- Nei confronti del giudice delegato e tribunale: garantisce che l’impresa non commetta atti pregiudizievoli, gestisce l’ordinario senza peggiorare il dissesto, rispetta le condizioni imposte (es. non pagare crediti anteriori se non autorizzati).
- Nei confronti dei creditori: è un interlocutore credibile che spiega il piano, risponde ai dubbi, e – se ci sono classi votanti – può fare campagna per il voto favorevole (in assemblee informali coi creditori). Spesso i CRO partecipano attivamente alle riunioni con i creditori durante la fase di voto, affiancando l’avvocato e illustrando la parte industriale del piano.
Un aspetto importante: il CRO nel concordato deve però mantenere un equilibrio, perché formalmente è uomo del debitore (nominato e pagato da lui) ma deve guadagnarsi la fiducia del commissario e dei creditori agendo con trasparenza quasi fosse un loro fiduciario. Questa duplice “lealtà” è delicata ma è la chiave per il successo: un CRO troppo appiattito sull’imprenditore perderebbe utilità (non verrebbe creduto dalle controparti), uno troppo schierato coi creditori potrebbe entrare in conflitto con l’imprenditore. Il suo mestiere è mediare e perseguire l’interesse generale del risanamento, che idealmente coincide con quello di tutte le parti oneste coinvolte.
Composizione negoziata della crisi
Nella composizione negoziata il legislatore non istituisce formalmente la figura di un CRO, ma – come abbiamo visto – ne incoraggia l’utilizzo quando opportuno. Durante la fase delle trattative coordinate dall’esperto, l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria e straordinaria, salvo dover concordare con l’esperto gli atti di straordinaria amministrazione e i pagamenti incoerenti. L’esperto non entra mai in gestione diretta. Tuttavia, può capitare che emergano già in questa fase esigenze di immediata riorganizzazione gestionale per rendere credibile un piano.
Le Check-list ministeriali (allegate al D.M. 28 settembre 2021, recepite nel decreto dirigenziale citato) invitano l’imprenditore a interrogarsi se dispone delle “capacità e competenze manageriali per attuare le strategie” del risanamento e, in caso negativo, a cercare supporto. L’esperto, dal canto suo, può proporre alle parti la nomina concordata di un soggetto indipendente, dotato di adeguata competenza, responsabile dell’esecuzione del piano (CRO). Questa previsione indica chiaramente che già in sede di composizione negoziata si può decidere, con l’accordo del debitore e dei principali creditori al tavolo, di individuare un futuro CRO che prenderà le redini quando si passerà all’attuazione. Ad esempio, se durante la negoziazione si disegna un piano di risanamento che prevede un concordato in continuità, le parti potrebbero stipulare un accordo in cui si dice: “la società conferirà l’incarico di CRO al Dr. XYZ entro la data X, il quale avrà il compito di monitorare e attuare il piano ex art…”. Questo accordo potrà poi essere trasposto nella proposta di concordato o accordo di ristrutturazione risultante. Un caso di cronaca: un investitore impegnato in una composizione negoziata con un’azienda in crisi ha condizionato il closing dell’operazione all’incarico di un CRO individuato (il contratto di investimento parlava di un CRO da nominare ex lege 118/2021).
Durante la composizione negoziata in senso stretto (i mesi di trattativa), il CRO può essere nominato formalmente? La norma direbbe di sì, perché nulla lo vieta: l’imprenditore può liberamente assumere un manager mentre è in composizione. Tuttavia, bisogna coordinare i ruoli: l’esperto resta il mediatore super partes, mentre il CRO (se inserito subito) diventerebbe il “braccio” dell’imprenditore. Forse per questo la prassi è di utilizzare il CRO, se già scelto, come un consulente attivo che affianca l’imprenditore ai tavoli con l’esperto. Di solito nella composizione il debitore ha un advisor finanziario e uno legale; ecco, il CRO può essere quell’advisor finanziario con in più la prospettiva poi di entrare in azienda. Una volta raggiunto un accordo, il CRO entra ufficialmente in carica per l’esecuzione.
È utile sottolineare che nella composizione negoziata la collaborazione e buona fede sono centrali: un creditore potrebbe apprezzare molto se il debitore sin da subito coinvolge un CRO e gli lascia condurre, ad esempio, le presentazioni dei piani in bozza. Questo dimostra umiltà e volontà di cambiamento. Quindi anche se non nominato formalmente subito, il CRO può di fatto agire dietro le quinte nella redazione del piano di risanamento che viene discusso con l’esperto.
Se la composizione negoziata sfocia in un accordo stragiudiziale (tipo risanamento contrattuale senza omologa), siamo nel caso di piano attestato sopra: il CRO sarà fondamentale poi a tenerlo in carreggiata. Se sfocia in un accordo ex art. 57 o in un concordato, come già visto quell’accordo/piano probabilmente includerà il CRO nell’esecuzione.
Caso peculiare: concordato semplificato per la liquidazione. Questo strumento, previsto all’art. 25-sexies CCII, consente al debitore – se la composizione negoziata fallisce – di chiedere subito l’omologazione di un concordato liquidatorio senza voto creditori, con nomina di un liquidatore giudiziale. In tale scenario, l’azienda andrà liquidata e il debitore perde la gestione, quindi un CRO qui non trova spazio, se non magari nell’aiutare l’imprenditore a predisporre la domanda (ma è più compito legale). Dunque, nella composizione negoziata, il CRO è principalmente rilevante se c’è prospettiva di continuità, mentre non serve se l’epilogo è la liquidazione.
Riassumendo: composizione negoziata = lo strumento di allerta e mediazione, in cui il CRO è un opzionale ma raccomandato “investimento” che il debitore può fare per garantirsi che quanto negozia veda effettivamente la luce. I creditori non possono imporre nulla qui (è tutta volontaria la trattativa), ma un debitore che spontaneamente porta un CRO al tavolo mostra quell’atteggiamento proattivo che spesso fa la differenza tra un accordo riuscito e un nulla di fatto.
Amministrazione straordinaria e altre procedure
Dal punto di vista del debitore, l’amministrazione straordinaria non è esattamente un percorso volontario: è un intervento eteronomo dello Stato su imprese di grandi dimensioni. In essa, la figura analoga al CRO è il Commissario Straordinario, che però non è scelto dal debitore (bensì nominato dal Ministero). In un certo senso, per un grande gruppo in dissesto, scegliere di avvalersi di un CRO e magari tentare un concordato può essere preferibile rispetto a “subire” l’amministrazione straordinaria, perché consente al debitore di conservare l’iniziativa. Ad esempio, Alitalia nel 2008 provò un proprio piano di risanamento (con nuovi soci e un advisor), ma quando fallì si andò in amministrazione straordinaria con commissari governativi; Parmalat nel 2003 fu commissariata d’urgenza dallo Stato senza che ci fosse tempo per soluzioni autonome. Questi esempi storici insegnano che, quando la situazione è troppo grave e sistemica, le redini passano allo Stato; ma in tutti gli altri casi, dotarsi di un CRO e gestire in proprio la crisi è segno di responsabilità imprenditoriale e può evitare misure più invasive.
Per completezza, menzioniamo anche le procedure di sovraindebitamento (destinate a piccoli imprenditori sotto soglia o persone fisiche): in quelle procedure, recentemente unificate nel CCII, si parla di “advisor” o “organismi di composizione” ma non di CRO. Di fatto, il concetto di CRO è tipico delle imprese di dimensioni medio-grandi, dove c’è una struttura manageriale da integrare. Un piccolo imprenditore individuale in crisi difficilmente nominerà un CRO; più facile che si affidi a un commercialista per fare un piano del consumatore o liquidazione controllata.
Benefici e criticità dell’utilizzo di un CRO (vista debitore)
Dal punto di vista dell’imprenditore debitore, chiamare un CRO comporta vantaggi ma anche qualche potenziale criticità. Ecco una sintesi dei principali pro e contro:
In generale, prevalgono nettamente gli aspetti positivi: l’esperienza insegna che un’impresa in crisi con un buon CRO ha molte più probabilità di risanarsi rispetto a una senza. Tuttavia, perché i benefici si concretizzino, occorre che:
- la scelta del CRO sia azzeccata (persona competente, adatta al settore e compatibile col carattere dell’imprenditore);
- gli vengano dati effettivamente i poteri e l’autonomia per lavorare (niente “CRO di facciata” limitato da mille vincoli);
- tutte le parti accettino di collaborare lealmente (imprenditore che non boicotta dietro le quinte le iniziative scomode del CRO, creditori che lo ascoltano e non agiscono unilateralmente all’improvviso, etc.).
Se queste condizioni mancano, allora sì il CRO rischia di diventare un costo inutile o addirittura dannoso. Ad esempio, in alcune crisi familiari è capitato che il CRO venisse emarginato perché la famiglia proprietaria non tollerava le ingerenze: in quei casi la sua presenza non ha evitato il fallimento ed è servita solo a “comprare tempo”. Il debitore intelligente invece vede il CRO come un investimento: un alleato che per un periodo guiderà la nave nella tempesta, e a cui poi potrà anche dare l’addio a emergenza finita, con riconoscenza.
Esempio pratico: simulazione di un caso di risanamento con CRO
Per concretizzare quanto discusso, immaginiamo una simulazione pratica dal punto di vista del debitore. Società Beta S.r.l. è un’azienda manifatturiera toscana a conduzione familiare (settore tessile, 120 dipendenti) con 50 milioni di euro di fatturato. Negli ultimi due anni Beta ha subito un forte calo di ordini a causa di cambiamenti di mercato e si trova in crisi di liquidità: debiti scaduti verso fornitori per 5 milioni, utilizzi oltre fido con le banche per 2 milioni, e tensioni di cassa tali da non assicurare gli stipendi dei prossimi mesi. Il patrimonio netto si è eroso e gli ultimi bilanci chiudono in perdita significativa.
Scenario senza CRO (approccio iniziale): All’emergere delle difficoltà, i fratelli Bianchi (titolari di Beta) provano a gestire la situazione internamente. Rinviano alcuni pagamenti ai fornitori cercando accordi informali, chiedono alle banche un allungamento sui fidi, e riducono un po’ la produzione per smaltire magazzino. Tuttavia, dopo qualche mese, la situazione peggiora: alcuni fornitori, insospettiti dai ritardi, iniziano azioni legali (decreti ingiuntivi); le banche, notando sconfini continui, bloccano l’operatività su alcuni conti; dipendenti e sindacati fiutano la crisi e chiedono garanzie sugli stipendi. I fratelli Bianchi sono sopraffatti: dedicano tutto il tempo a spegnere incendi (telefonate concitate coi creditori, riunioni col direttore di banca, ecc.) trascurando l’attività commerciale e produttiva, che infatti cala ulteriormente. Arrivati sull’orlo di dover portare i libri in tribunale, consultano infine un avvocato d’affari esperto in crisi.
L’avvocato analizza la situazione di Beta S.r.l. e suggerisce di attivare subito una composizione negoziata della crisi o, se i tempi sono stretti, di depositare un’istanza di concordato preventivo in bianco per bloccare le azioni esecutive (ottenendo misure protettive). Consiglia inoltre vivamente di affiancarsi di un professionista specializzato in risanamenti per gestire l’azienda in questa fase. I Bianchi, inizialmente riluttanti per orgoglio, accettano data la gravità e incaricano l’avvocato di individuare un candidato CRO.
Intervento del CRO: Viene scelto il dott. Rossi, un manager cinquantenne con esperienza di ristrutturazioni nel settore tessile. Appena ingaggiato, Rossi effettua un’analisi lampo della cassa: scopre che Beta ha risorse per coprire solo 2 settimane di spese. Predispone immediatamente un cash flow di 13 settimane dove individua i pagamenti essenziali (stipendi, fornitori critici per non fermare del tutto la produzione, utenze) e quelli procrastinabili. Convince i fratelli Bianchi a reperire liquidità aggiuntiva vendendo un immobile personale non strumentale e immettendo 200 mila euro in azienda come finanziamento soci (i Bianchi, vedendo il suo piano, accettano come atto dovuto per salvarci). Con questo piccolo polmone e grazie alle prime misure protettive ottenute con la domanda di concordato in bianco, Rossi riesce a tamponare l’emergenza pagamenti.
Parallelamente, il CRO comunica ai fornitori e alle banche la situazione: redige una lettera circolare in cui Beta S.r.l. ammette di attraversare una crisi, annuncia di aver presentato domanda di concordato (o avviato composizione negoziata) e soprattutto informa di aver nominato un Chief Restructuring Officer per guidare il risanamento. Nella lettera Rossi, firmandola, chiede a fornitori e banche di sospendere temporaneamente le azioni e collaborare, promettendo che entro 60 giorni sarà presentato un piano di ristrutturazione credibile. Questo approccio trasparente (diverso dalle rassicurazioni vaghe che i Bianchi avevano dato in precedenza) spiazza in positivo i creditori: diversi fornitori rispondono che sono disponibili ad aspettare e partecipare a un tavolo comune, le banche sospendono le revoche dei fidi in attesa di vedere il piano.
Risanamento interno: Rossi inizia anche a immergersi nelle operazioni: scopre che Beta ha due stabilimenti, uno dei quali lavora al 30% ed è fonte di costi fissi elevati. Propone al CdA di concentrare tutta la produzione in un unico sito e di mettere in affitto (o vendita) l’altro stabilimento. Inoltre nota che l’azienda produce ancora linee di prodotto obsolete che generano perdite: convince i Bianchi a eliminare le linee non profittevoli, anche se erano storiche per la famiglia, perché erodono cassa. Sul personale, individua un esubero di circa 20 unità su 120: propone di utilizzare la cassa integrazione straordinaria per crisi per 12 mesi per 15 operai e di accompagnare 5 impiegati vicini alla pensione a un’uscita incentivata. Queste mosse drastiche incontrano resistenza iniziale: il direttore di stabilimento contesta la chiusura di una sede, i sindacati minacciano sciopero su ipotesi di esuberi. Ma Rossi si siede al tavolo con i sindacati, spiega il piano (mostra dati alla mano che senza questi tagli l’azienda fallisce in 3 mesi) e riesce a ottenere un accordo: riduzione del personale tramite strumenti sociali e criteri condivisi, in cambio dell’impegno (se il piano riuscirà) di investire in formazione per riqualificare i restanti operai sulle nuove linee di prodotto.
Elaborazione del piano e accordo coi creditori: Dopo 45 giorni dall’arrivo, il CRO confeziona un piano industriale triennale per Beta S.r.l.: prevede il ritorno all’utile dal secondo anno, focalizzandosi su prodotti ad alto margine, con un fatturato ridotto ma più remunerativo; include la dismissione del capannone inutilizzato (valore stimato €1 milione) per ridurre debiti; e una ricapitalizzazione dei soci di €500k (i Bianchi accettano di sacrificare una parte del patrimonio personale pur di mantenere l’azienda). Sul fronte debitorio, il piano propone ai fornitori di pagare il 50% dei debiti in 4 anni (in quote crescenti legate alla ripresa), e alle banche di ristrutturare i finanziamenti allungandoli e capitalizzando parte degli interessi. Questo piano è presentato ai creditori in una riunione plenaria organizzata dall’avvocato e dal CRO. Rossi illustra con slide il rilancio produttivo, i costi già tagliati, le previsioni di cash flow future, rassicurando che lui stesso monitorerà ogni mese i progressi. I fornitori e le banche, vedendo concretezza (e già alcuni risultati: sanno ad esempio che Beta sta consegnando gli ordini correnti puntuale da 2 mesi, segno di miglior organizzazione), accolgono positivamente. Si entra nei dettagli negoziali e grazie alla credibilità personale del CRO (che risponde a ogni domanda tecnica, dimostrando padronanza dei numeri) si arriva a un accordo di massima.
Implementazione e uscita dalla crisi: Beta S.r.l. formalizza il percorso scelto: nel nostro scenario, supponiamo opti per un accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII con il 75% dei creditori (banche e principali fornitori). Il tribunale omologa l’accordo in breve tempo, anche sulla base della relazione attestatrice positiva che menziona il fatto che “l’esecuzione del piano è affidata al CRO Dr. Rossi, il quale ha già posto in essere significative azioni migliorative” – un elemento che il giudice considera favorevolmente nel valutarne la fattibilità. Nei 18 mesi successivi, Rossi resta in azienda per sorvegliare l’esecuzione: ogni trimestre manda un report alle banche e fornitori su come Beta sta performando rispetto al piano. Il primo anno chiude ancora in leggera perdita, ma la cassa rispetta le previsioni grazie ai tagli; i fornitori ricevono puntualmente le prime rate (piccole) concordate; le banche vedono l’azienda rispettare i nuovi covenant finanziari. Nel secondo anno Beta torna all’utile, piccolo ma simbolico, e Rossi a quel punto inizia a pianificare la sua uscita: prepara un ultimo report dove dichiara che l’azienda è stabilmente risanata e suggerisce, d’accordo coi fratelli Bianchi, di concludere il suo mandato al termine del terzo anno. Forma il controller interno lasciato in azienda affinché continui a redigere i report finanziari anche dopo. I creditori, soddisfatti dell’andamento, non obiettano. Scaduti i tre anni, Beta S.r.l. ha pagato tutto quanto previsto dall’accordo, è tornata solvibile e ha riconquistato fiducia sul mercato (tanto che le banche estendono nuovi fidi). Il CRO Dr. Rossi si dimette formalmente dal suo ruolo, concludendo l’incarico con successo. I fratelli Bianchi gli riconoscono un success fee previsto: un bonus sul raggiungimento di certi obiettivi, felici di onorarlo visto il salvataggio avvenuto.
Questo esempio, pur semplificato, mostra come un CRO ben impiegato può trasformare la traiettoria di un’impresa in crisi. Senza di lui, Beta S.r.l. avrebbe probabilmente navigato a vista fino al fallimento; con lui, ha gestito ordinatamente la crisi, coinvolto i creditori in modo costruttivo e alla fine evitato la cessazione dell’attività. Naturalmente non tutti i casi reali finiscono così bene, ma serve a illustrare i passi tipici e il perché i vari attori (imprenditori, creditori, dipendenti) possano trarre beneficio dalla presenza di questa figura.
Domande Frequenti sul CRO (FAQ)
- D: Chi nomina il CRO in una situazione di crisi d’impresa?
R: La nomina del CRO è di iniziativa dell’imprenditore o degli organi sociali dell’azienda in crisi. In pratica, il Consiglio di Amministrazione (o l’imprenditore individuale) decide di avvalersi di un CRO e ne delibera l’incarico. Spesso tale decisione avviene in accordo o su sollecitazione dei principali creditori (banche, obbligazionisti) o di nuovi investitori, ma formalmente non può essere “imposta” dall’esterno: serve comunque un atto di nomina da parte del debitore. Nei concordati il tribunale non può nominare un CRO d’ufficio (nomina invece il Commissario Giudiziale, figura diversa), ma può semmai prendere atto favorevolmente della scelta del debitore di dotarsene. Quindi, in sintesi, il CRO viene nominato dall’azienda debitrice, con l’eventuale approvazione dei creditori coinvolti nel piano di risanamento. - D: Il CRO sostituisce l’imprenditore o il CdA nella gestione dell’azienda?
R: No, normalmente il CRO non sostituisce completamente gli organi esistenti, ma si affianca ad essi con deleghe specifiche. L’imprenditore (o il Consiglio di Amministrazione) resta formalmente al suo posto e mantiene le responsabilità legali generali. Il CRO opera su mandato di questi organi e riferisce ad essi. In alcuni casi il CRO entra egli stesso nel CdA come amministratore delegato: allora parte del potere di gestione viene effettivamente trasferito su di lui tramite delega. Ma anche in tali casi, il CdA nel suo insieme continua ad esistere e a dover vigilare. Si parla di “gestione condivisa”. Solo in procedure come l’amministrazione straordinaria o il fallimento si ha un ricambio totale (commissari o curatori al posto dell’imprenditore). Con il CRO, invece, l’imprenditore rimane coinvolto, sebbene ceda parte della guida operativa al nuovo venuto. - D: Che differenza c’è tra un CRO e un consulente aziendale tradizionale?
R: Un consulente (es. un commercialista, un advisor finanziario) tipicamente fornisce raccomandazioni e piani, ma non prende decisioni dirette nella gestione quotidiana dell’azienda. Il CRO invece assume un ruolo gestionale esecutivo: ha potere decisionale operativo e responsabilità nell’attuazione delle misure. In altre parole, il consulente suggerisce cosa fare, il CRO lo fa. Inoltre il CRO opera dall’interno dell’azienda, spesso a tempo pieno o quasi, e ha un rapporto di tipo organico (dirigenziale o assimilato), mentre un consulente esterno lavora per incarico su specifiche analisi e rimane esterno alla linea di comando. Infine, il CRO si occupa della globalità della crisi (strategia, finanza, operatività), mentre spesso i consulenti hanno ruoli settoriali (legale, finanziario, HR, ecc.). In molti casi comunque il CRO coordina una squadra di consulenti specialisti – fungendo da regista che assicura che i consigli di ciascuno diventino azioni coerenti nell’insieme. - D: Il CRO può essere una persona interna all’azienda (es. un dirigente già presente) o dev’essere esterno?
R: In teoria, nulla vieta di nominare CRO una risorsa interna, ad esempio il direttore finanziario o un consigliere esistente con esperienza di ristrutturazioni. Tuttavia nella stragrande maggioranza dei casi si preferisce una figura esterna. Questo perché uno dei valori aggiunti del CRO è proprio la discontinuità e indipendenza rispetto alle gestioni pregresse. Una persona interna potrebbe avere difficoltà a imporre scelte drastiche o potrebbe essere percepita dai creditori come non sufficientemente “nuova”. Ci sono comunque situazioni (soprattutto in aziende più piccole) in cui di fatto il ruolo di CRO viene assunto dal professionista che già seguiva l’azienda (il commercialista di fiducia, ad esempio) perché conosce già i numeri e ha la fiducia dell’imprenditore. Non è sbagliato, ma bisogna essere sicuri che quel professionista abbia effettivamente le capacità manageriali necessarie e la credibilità verso l’esterno. In sintesi, è possibile un CRO interno ma la prassi suggerisce un esterno per avere maggior impatto e oggettività. - D: Quali qualifiche professionali deve avere un CRO? Deve essere iscritto a qualche Albo (commercialisti, avvocati…)?
R: Non esiste un albo specifico per i CRO né un percorso formale definito. Molti CRO provengono dall’area amministrativo-finanziaria (dottori commercialisti, CFO d’azienda) e quindi spesso sono iscritti all’Albo dei Commercialisti, ma non è affatto obbligatorio. Altri hanno background da manager industriali e non sono iscritti ad albi professionali. L’importante è l’esperienza di gestione di crisi comprovata. In alcuni casi i creditori preferiscono che il CRO abbia un profilo “tecnico” (ingegnere gestionale, economista d’azienda) piuttosto che legale: questo perché il CRO deve fare, mentre per gli aspetti legali già c’è il supporto dell’avvocato. Ad ogni modo, se il CRO deve anche rilasciare attestazioni professionali ai sensi di legge (es. attestare un piano), allora deve essere un professionista indipendente ai sensi dell’art. 2 CCII (Dottore Commercialista, Avvocato o Consulente del Lavoro, con requisiti di indipendenza). Ma normalmente l’attestatore è un soggetto diverso, quindi il CRO non deve avere per forza quei requisiti formali. - D: Quanto dura in media l’incarico di un CRO?
R: Dipende dalla durata del processo di risanamento. In genere l’incarico è a termine, legato al completamento della ristrutturazione. Spesso i contratti vengono fatti di 12 mesi rinnovabili, oppure di 24-36 mesi. In situazioni meno complesse il CRO può restare pochi mesi – giusto il tempo di negoziare e avviare il piano – poi passa la mano. In altri casi impegnativi, soprattutto se c’è da seguire l’implementazione di un concordato in continuità per diversi anni, il CRO può rimanere anche 3-5 anni. Difficilmente oltre, perché una volta risanato, l’azienda di solito torna a una gestione ordinaria (magari con un management rinnovato). Ci sono però esempi di CRO che poi sono diventati CEO stabili dell’azienda, se nel frattempo la proprietà è cambiata o se hanno ottenuto risultati eccellenti – ma in quel caso escono dal ruolo di “CRO” inteso come interim manager e diventano semplicemente il nuovo amministratore permanente. - D: Il CRO a chi riferisce? Ai creditori, al tribunale o all’imprenditore?
R: Formalmente il CRO riferisce a chi lo nomina, quindi all’interno dell’azienda: tipicamente al Consiglio di Amministrazione o al titolare. È il CdA che lo valuta, lo conferma o eventualmente lo revoca. Tuttavia, nella sostanza operativa, il CRO mantiene un dialogo costante anche con i creditori principali: fornisce loro aggiornamenti, li consulta per decisioni chiave (specialmente se previste da accordi). Se c’è di mezzo una procedura giudiziale, il CRO dialoga pure col Commissario Giudiziale e, indirettamente, col tribunale tramite le relazioni informative. Si può dire che il CRO sia un fulcro di comunicazione: la sua figura serve proprio a far sì che tutti gli stakeholder ricevano informazioni e possano dare input, mantenendo però un coordinamento unificato. Ma gerarchicamente, non risponde direttamente ai creditori (non possono “licenziarlo” loro, se non esercitando pressioni contrattuali) né al giudice. Ovviamente, se perdette la fiducia di creditori e giudice, la sua efficacia sarebbe compromessa; dunque, anche se non deve per legge riferire a loro, di fatto dovrà tenerli soddisfatti con adeguata informativa e ascolto. - D: Cosa succede se l’imprenditore e il CRO entrano in disaccordo su scelte importanti? Chi decide?
R: In linea generale, l’imprenditore (o CdA) mantiene l’ultima parola perché è l’organo amministrativo legale. Se c’è divergenza insanabile, l’imprenditore può revocare l’incarico al CRO (salvo conseguenze contrattuali). Tuttavia, bisogna valutare attentamente: se l’imprenditore in crisi licenzia il CRO nominato magari su richiesta dei creditori, questi ultimi potrebbero reagire molto male (perdendo la fiducia e facendo saltare gli accordi). Quindi nella pratica l’imprenditore non dovrebbe arrivare a uno scontro frontale col proprio CRO, altrimenti significa che la scelta è stata sbagliata o che non ha davvero accettato di cambiare. Idealmente, eventuali divergenze si risolvono discutendo insieme dati alla mano; se l’imprenditore ha valide ragioni, può convincere il CRO a seguire una strada diversa, e viceversa il CRO può far cambiare idea all’imprenditore mostrando gli effetti delle alternative. In caso di stallo, spesso la voce dei creditori o degli advisor terzi fa pendere la bilancia. Ad esempio, se l’imprenditore non vuole chiudere una divisione ma il CRO dice che è necessario, e i numeri lo confermano, i creditori quasi sicuramente staranno col CRO. A quel punto l’imprenditore dovrà adeguarsi per non perdere il sostegno. Quindi, pur restando “capo” in teoria, in una crisi l’imprenditore deve essere pronto a farsi guidare: se non è disposto, forse nominare un CRO non ha senso. - D: Il CRO può essere chiamato a rispondere penalmente di qualcosa?
R: Se il CRO è investito di poteri gestionali, a tutti gli effetti assume anche potenziali responsabilità penali connesse all’amministrazione societaria. Ad esempio, se firma un bilancio falso, risponderà di falso in bilancio; se compie distrazioni patrimoniali, potrà rispondere di bancarotta fraudolenta in caso di fallimento. Tuttavia, normalmente il CRO viene inserito proprio per ripristinare la legalità e la correttezza, quindi è raro che incappi in condotte dolose – semmai deve stare attento a quelle commesse da altri in precedenza, scoprendo le quali ha il dovere morale di non avallarle. In generale un CRO diligente non ha nulla da temere penalmente, purché operi nel rispetto delle normative (ad esempio seguendo le procedure autorizzative del tribunale durante un concordato, evitando pagamenti preferenziali non permessi, assicurando la tenuta regolare della contabilità). Anche sul fronte della responsabilità verso i creditori per aggravamento del dissesto, un CRO nominato in una fase già compromessa difficilmente verrà accusato se sta tentando di risanare: più probabile che tali azioni vengano verso gli amministratori precedenti se hanno colpe nella tardiva emersione della crisi. Va comunque sottolineato che, essendo il concetto di CRO non formalizzato in legge, eventuali suoi illeciti verrebbero inquadrati nelle fattispecie standard (amministratore di diritto o di fatto, procuratore infedele, professionista concorrente in reati fallimentari, etc.). Ma ripetiamo: la funzione stessa del CRO è evitare questi esiti, per cui se egli agisce correttamente riduce anche il rischio di condotte penalmente rilevanti nell’azienda. - D: I creditori devono pagare il compenso del CRO? Chi lo paga e quanto costa di solito?
R: Il compenso del CRO è a carico dell’azienda debitrice che lo assume (quindi, indirettamente, a carico dei soci). I creditori normalmente non pagano nulla direttamente, sebbene in qualche caso possano concordare che una parte di nuova finanza che mettono a disposizione venga usata anche per coprire i costi del CRO. Nei piani e concordati, il costo del CRO è inserito tra le spese della procedura o del piano e come tale deve essere considerato nei flussi. Quanto ai livelli di costo: dipende dalla dimensione aziendale e dall’esperienza del CRO. Ci sono CRO che lavorano con compensi fissi mensili nell’ordine di alcune migliaia di euro per PMI, fino a casi di grandi gruppi dove il CRO viene retribuito decine di migliaia di euro al mese. Spesso c’è una parte variabile (success fee) legata ai risultati (ad es. percentuale sui debiti effettivamente ristrutturati, o bonus se l’azienda torna a utile, etc.). Questo serve ad allineare l’interesse del CRO con il successo del risanamento. Da un punto di vista di mercato, il costo di un CRO può sembrare alto in valore assoluto, ma va comparato al beneficio: se il suo apporto evita il default, anche spendere, poniamo, 100 mila euro per un incarico di un anno è un investimento che salva magari milioni di valore aziendale e debiti ristrutturati. I creditori raramente obiettano sul compenso del CRO, anzi preferiscono sia pagato bene perché lavori bene e senza conflitti. L’importante è che sia in linea con le tariffe di mercato e con la complessità del compito. Nei concordati, il tribunale verifica che i costi di professionisti (incluso il CRO se è incluso) non siano sproporzionati e li approva nell’ambito della fattibilità economica del piano.
Conclusioni
La figura del Chief Restructuring Officer rappresenta oggi, nel panorama della crisi d’impresa in Italia, uno strumento di fondamentale importanza per il debitore che intenda gestire in modo proattivo e professionale la propria ristrutturazione. In un contesto normativo sempre più orientato a favorire la continuità aziendale e la soluzione concordata delle crisi, il CRO incarna quella discontinuità gestionale nella continuità aziendale che spesso è la chiave per recuperare la fiducia dei creditori e salvare il valore dell’impresa.
Attraverso l’analisi svolta, abbiamo visto come il CRO operi trasversalmente su due fronti: all’interno, riorganizzando e risanando l’azienda; all’esterno, facendo da garante e mediatore verso creditori, tribunali e altri stakeholder. Abbiamo anche evidenziato che, pur non essendo un ruolo formalizzato dalla legge, il CRO è ormai riconosciuto nelle prassi come best practice: dalle linee guida ministeriali sulla composizione negoziata, ai casi aziendali concreti (Astaldi, Bialetti e molti altri), emerge la raccomandazione di coinvolgere un manager indipendente nelle situazioni di crisi grave, specie quando al piano di risanamento si chiedono sacrifici e fiducia da parte dei creditori.
Dal punto di vista del debitore, dotarsi di un CRO significa dare un segnale di serietà e trasparenza, ma anche accettare di mettersi in discussione e di collaborare con chi porta un punto di vista nuovo. È un atto di coraggio e umiltà imprenditoriale che spesso viene premiato: come abbiamo visto nell’esempio pratico, il CRO può riuscire dove l’imprenditore da solo rischierebbe di fallire, proprio perché aggiunge competenze e terzietà. Naturalmente non è una bacchetta magica: va inserito nella cornice giusta (un piano realistico, la volontà dell’imprenditore di seguirlo, il supporto degli advisor legali per la cornice contrattuale) e va scelto con cura. Un CRO sbagliato o strumentale sarebbe solo un costo inutile.
In prospettiva, con l’ulteriore diffusione della cultura del risanamento precoce (anche grazie all’attuazione della Direttiva UE 2019/1023), è verosimile che la figura del CRO trovi sempre più spazio in Italia, magari con la nascita di una “community” di professionisti del turnaround riconosciuta e qualificata. Già oggi esistono corsi e certificazioni private in crisis & restructuring management, segno che si va verso la specializzazione. Non è escluso che in futuro il legislatore italiano possa introdurre riferimenti normativi a questa figura – ad esempio prevedendo liste di manager per le composizioni negoziate complesse o incentivi alle imprese che adottano piani di risanamento con determinati requisiti (tra cui un CRO indipendente).
Per ora, il quadro delineato ci dice che il CRO, da soluzione nata dalla prassi, si è evoluto in un elemento quasi essenziale per gestire le crisi d’impresa di una certa rilevanza. In un’epoca in cui “prevenire è meglio che curare”, potremmo parafrasare dicendo che prevenire e curare bene è meglio che curare male: e curare bene una crisi significa affidarsi alle giuste figure, tra cui senz’altro il Chief Restructuring Officer occupa un posto di primo piano.
Il debitore che si trovi ad affrontare i marosi della crisi non dovrebbe quindi esitare, una volta compresa la serietà della situazione, a valutare questo strumento: attorniarsi dei giusti “alleati” può fare la differenza tra affondare con la nave o riuscire a portarla in un porto sicuro per riparazioni. Il CRO è, in questa metafora, il comandante esperto chiamato in soccorso in piena tempesta: non può garantire al 100% la salvezza, ma di certo aumenta le probabilità di evitare il naufragio.
Fonti e Riferimenti normativi
- ODCEC Torino – circolare SPEI 38 (luglio 2022) – Approfondimento sulle checklist della composizione negoziata; contiene il riferimento al decreto dirigenziale Min. Giustizia, sez. III punto 9, in cui si sottolinea l’opportunità di nominare un CRO quando il piano di risanamento prevede earn-out o strumenti partecipativi per i creditori.
Normativa essenziale citata: Codice Civile artt. 2086, 2392, 2386, 2446-2447, 2486; D.Lgs. 12/2019 n.14 (Codice della crisi) artt. 2, 12-25 (composizione negoziata), 25-sexies (concordato semplificato), 56 (piano attestato), 57-64 (accordi di ristrutturazione), 84-120 (concordato preventivo), 120-ter (accordi di ristrutturazione agevolati), 121-270 (liquidazione giudiziale); Legge Fallimentare RD 267/42 (per riferimenti storici: art. 182-bis, art. 186-bis); D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021 (introduzione composizione negoziata); D.M. 28/09/2021 MinGiustizia (checklist composizione negoziata); D.Lgs. 270/1999 e D.L. 347/2003 conv. L.39/2004 (Amministrazione Straordinaria grandi imprese).
Crisi aziendale in corso? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Quando un’azienda entra in crisi, servono competenze specifiche e interventi rapidi. Il Chief Restructuring Officer (CRO) è una figura chiave: un professionista esterno incaricato di gestire il risanamento aziendale con poteri operativi e strategici.
Il suo ruolo è cruciale per evitare l’insolvenza e ristabilire l’equilibrio economico-finanziario dell’impresa.
Il CRO:
- Supporta l’imprenditore nella gestione straordinaria dell’impresa in crisi
- Propone e attua un piano di risanamento credibile e sostenibile
- Gestisce i rapporti con banche, creditori, fornitori e organi della procedura
- Lavora in sinergia con i consulenti legali, fiscali e finanziari
- Aumenta la credibilità dell’impresa davanti al mercato e al Tribunale
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto della crisi d’impresa e ristrutturazione aziendale
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per PMI, imprese industriali e società in ristrutturazione
Conclusione
Il Chief Restructuring Officer è una figura tecnica e strategica indispensabile per affrontare seriamente una crisi d’impresa.
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