Hai un prestito in corso e la rata mensile è diventata troppo pesante per il tuo bilancio? Ti stai chiedendo se è possibile abbassare la rata senza risultare inadempiente o finire segnalato come cattivo pagatore?
La buona notizia è che sì, è possibile ridurre la rata del prestito, anche se il contratto è già attivo. Ma per farlo servono i giusti strumenti, una strategia personalizzata e soprattutto la consapevolezza di quali opzioni hai a disposizione.
Quando puoi chiedere la riduzione della rata?
– Se il tuo reddito è diminuito (cambio lavoro, cassa integrazione, imprevisti)
– Se stai affrontando altre spese fisse che prima non avevi
– Se il prestito ha una durata breve e una rata troppo alta rispetto alle tue entrate
– Se hai più debiti e vuoi alleggerire l’impegno mensile complessivo
Come puoi abbassare la rata di un prestito in corso?
- Rinegoziazione del contratto con la finanziaria
Puoi chiedere una rimodulazione del piano di ammortamento, allungando la durata del prestito per ottenere una rata più bassa. La finanziaria può accettare se dimostri che stai affrontando reali difficoltà. - Surroga o sostituzione del prestito
Se hai un prestito a condizioni sfavorevoli, puoi sostituirlo con un altro più conveniente, anche presso un’altra banca o finanziaria. Può portare a un tasso d’interesse inferiore o a un piano più sostenibile. - Consolidamento dei debiti
Se hai più prestiti attivi, puoi unirli in un’unica rata mensile più bassa, distribuendo il pagamento su un periodo più lungo. Così puoi liberare liquidità e ridurre il peso delle scadenze. - Accesso alle tutele previste per i soggetti in difficoltà
Se la tua situazione economica è diventata insostenibile, puoi valutare anche l’accesso alle procedure da sovraindebitamento, che consentono la ristrutturazione legale dei debiti e il blocco delle azioni esecutive.
Serve il consenso della banca per abbassare la rata?
Sì. Ma se presenti una richiesta chiara, ben documentata e sostenuta da un piano realistico, molti istituti sono disposti ad ascoltare, soprattutto per evitare il rischio di insolvenza. A volte, la trattativa è più semplice di quanto si pensi, se viene gestita con il supporto giusto.
Cosa succede se non fai nulla e smetti di pagare?
– Scattano interessi di mora e penali
– Vieni segnalato alla Centrale Rischi
– Il debito passa a società di recupero
– Può partire il pignoramento dello stipendio, del conto o dei beni
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto bancario e ristrutturazione del debito – ti spiega come abbassare legalmente la rata del prestito, quali sono le opzioni migliori e come trattare con banche e finanziarie senza rischi.
La rata del tuo prestito è troppo alta e non ce la fai più a pagare? Vuoi trovare una soluzione prima che sia troppo tardi?
Richiedi, in fondo alla guida, una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la tua posizione, individueremo la strada più efficace per ridurre la rata e ti aiuteremo a rinegoziare le condizioni del prestito in modo sicuro e sostenibile.
Introduzione
Molti debitori in Italia, siano essi privati cittadini o piccoli imprenditori, si trovano prima o poi nella necessità di ridurre l’importo della rata mensile di un finanziamento in corso. Un cambiamento delle condizioni economiche personali (ad esempio, un calo del reddito), l’aumento dei tassi d’interesse o la presenza di più debiti contemporanei possono rendere il rimborso regolare difficoltoso. Dal punto di vista del debitore, abbassare la rata del prestito significa ottenere una maggiore sostenibilità finanziaria, pur sapendo che spesso ciò comporta un allungamento dei tempi di pagamento o altre conseguenze. In questa guida approfondita (aggiornata a giugno 2025), esamineremo tutte le soluzioni giuridiche e pratiche per ridurre la rata di un prestito non ipotecario (quindi escludendo i mutui), con un taglio avanzato ma divulgativo, adatto sia ai professionisti legali sia ai debitori privati e agli imprenditori. Analizzeremo gli strumenti contrattuali come la rinegoziazione del prestito, la surroga o il rifinanziamento presso un altro istituto, il consolidamento dei debiti, nonché le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (ex Legge 3/2012, ora integrate nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza). Verranno inoltre trattate le tutele legali in sede contenziosa – ad esempio la verifica di tassi usurari o clausole invalide – alla luce della giurisprudenza più recente. Troverete anche tabelle riepilogative, esempi numerici e una sezione di domande e risposte frequenti, per chiarire i dubbi più comuni. Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono riportate in fondo alla guida, nella sezione Fonti.
Metodi contrattuali per ridurre la rata
Il primo insieme di soluzioni riguarda la sfera contrattuale, ovvero interventi da attuare sul contratto di finanziamento esistente (o stipulandone uno nuovo) per modificare le condizioni di pagamento. Questi metodi richiedono in genere la collaborazione dell’ente finanziatore (banca o finanziaria) e comprendono: la rinegoziazione del prestito originario, il rifinanziamento o surroga presso un altro istituto, e il consolidamento dei debiti. Esamineremo ciascuno di essi nel dettaglio, evidenziandone i profili normativi, i vantaggi e i limiti dal punto di vista del debitore.
Rinegoziazione del prestito con la banca originaria
Rinegoziare un prestito significa ridiscutere con la banca o finanziaria che ha erogato il credito le condizioni del contratto, ad esempio il tasso d’interesse applicato o la durata residua, al fine di ottenere una rata periodica più bassa. In Italia, a differenza di quanto avviene per i mutui ipotecari, non esiste un diritto legale alla rinegoziazione dei prestiti personali: l’operazione non è espressamente disciplinata dalla legge per i finanziamenti non fondiari, e la banca non è obbligata ad accettare richieste di modifica unilaterale. Di conseguenza, l’ente creditore mantiene ampia discrezionalità nel decidere se venire incontro al cliente debitore, in base alle proprie politiche interne di credito e al merito creditizio del richiedente. Il debitore può dunque chiedere una rinegoziazione, ma la banca è libera di rifiutare o di proporre condizioni alternative; non esiste un mezzo per “obbligarla” a ridurre la rata in mancanza di accordo.
Dal punto di vista operativo, rinegoziare un prestito personale spesso si traduce nella stipula di un nuovo contratto che sostituisce il precedente. Infatti, modifiche sostanziali come il tasso d’interesse o la durata del piano di ammortamento non possono di norma essere introdotte con un semplice accordo aggiuntivo, ma richiedono l’estinzione anticipata del vecchio prestito e l’apertura di uno nuovo a condizioni più vantaggiose. Ciò comporta potenziali costi: ad esempio, la penale di estinzione anticipata (indennizzo che per legge può essere al massimo dell’1% del capitale residuo, ai sensi dell’art. 125-sexies TUB) – salvo che il contratto preveda l’assenza di penali – e le eventuali spese di istruttoria per il nuovo finanziamento. È quindi fondamentale per il debitore valutare attraverso un calcolo costi/benefici se la rinegoziazione conviene realmente: talvolta, i costi addizionali possono annullare o superare il risparmio derivante dal pagamento di rate più leggere nel futuro.
Quando conviene rinegoziare? In genere, la rinegoziazione ha senso se le condizioni di mercato sono migliorate rispetto a quando si sottoscrisse il prestito originario (ad esempio, i tassi d’interesse medi sono scesi, oppure la posizione creditizia del debitore è divenuta più solida). In tal caso, il debitore può provare a negoziare un tasso nominale più basso, che riduce la quota interessi di ciascuna rata, oppure un allungamento del termine di rimborso, che spalma il debito residuo su un numero maggiore di rate. Entrambe le soluzioni abbassano l’importo della rata. Tuttavia, come detto, non c’è garanzia di successo: la banca valuta il nuovo tasso o la nuova durata caso per caso e spesso potrebbe richiedere garanzie aggiuntive (come un coobbligato o garante) se percepisce un aumento del rischio. In assenza di obblighi normativi, se la banca non ritiene conveniente rinegoziare (ad esempio perché dovrebbe rinunciare a parte degli interessi futuri), può anche rifiutare qualsiasi trattativa. È stato riconosciuto dagli arbitri bancari e dalla Banca d’Italia che il rifiuto di rinegoziazione rientra nell’autonomia negoziale dell’intermediario, purché venga comunicato in modo trasparente e non discriminatorio al cliente. In altre parole, il debitore ha diritto almeno a una risposta motivata: ad esempio, se la banca nega la modifica perché il debitore ha un’età avanzata o un credit score peggiorato, deve comunicarne la ragione in forma scritta. Questa trasparenza è imposta dalle disposizioni di trasparenza della Banca d’Italia (Comunicazione del 22/10/2007) e serve a tutelare il cliente, pur non potendo quest’ultimo pretendere l’accoglimento della propria richiesta.
Cessione del quinto e prestiti con delega – Un caso particolare di rinegoziazione riguarda i prestiti contro cessione del quinto dello stipendio o della pensione. Le cessioni del quinto sono disciplinate in modo specifico (D.P.R. 180/1950 e successive modifiche) e prevedono la possibilità del rinnovo del contratto, che di fatto equivale a una rinegoziazione, ma solo al ricorrere di determinate condizioni di legge. In particolare, se la cessione del quinto iniziale era di durata pari o inferiore a 5 anni (60 mesi), è possibile rinegoziarla stipulando una nuova cessione decennale (10 anni) solo dopo aver rimborsato almeno il 40% delle rate originarie. Se invece la cessione originaria aveva già durata di 10 anni, la legge consente un rinnovo (ossia una nuova cessione per sostituire la precedente) solo dopo che sia trascorso almeno il 40% del piano di ammortamento iniziale. In pratica, chi ha una cessione del quinto in corso può “rinnovarla” anticipatamente con un nuovo contratto (spesso ottenendo anche ulteriore liquidità) solo rispettando i vincoli suddetti: ad esempio, una cessione quinquennale può essere rinnovata prima della scadenza solo trasformandola in decennale, mentre una decennale non si può rinegoziare se non dopo almeno 4 anni di pagamento. Questo meccanismo di rinegoziazione regolamentata offre al debitore la chance di abbassare la rata (spalmando il debito su più anni) o di ottenere nuova liquidità, ma impone vincoli stringenti ed è tipico solo dei finanziamenti contro cessione del quinto. Altre forme di prestito personale non godono di una disciplina di legge analoga e restano affidate alla contrattazione individuale con l’intermediario.
Va ricordato inoltre che alcuni contratti di prestito – tipicamente pubblicizzati come “prestiti flessibili” – includono clausole opzionali che consentono una certa modulazione delle rate senza bisogno di rinegoziare da zero. Ad esempio, alcune finanziarie offrono l’opzione del salto rata (possibilità di saltare o posticipare il pagamento di una rata all’anno), oppure l’opzione del cambio rata (variare in corso d’opera l’importo della rata entro certi limiti, allungando o accorciando la durata). Queste facoltà, se previste dal contratto originario, non costituiscono una vera rinegoziazione (non si modificano le condizioni contrattuali pattuite, ma si esercita un diritto contrattuale già concordato). Tuttavia, rappresentano uno strumento utile al debitore in difficoltà temporanea, perché consentono ad esempio di alleggerire la rata per alcuni mesi o di adeguarla alla nuova situazione reddituale. È bene verificare nel proprio contratto se esistono tali clausole di flessibilità e con quali costi o limitazioni possono essere attivate.
Esempio pratico di rinegoziazione – Immaginiamo un prestito personale originario di €10.000 con durata 5 anni (60 mesi) al tasso nominale annuo (TAN) del 10%, e una rata mensile di circa €212. Dopo un anno, il debitore ha difficoltà e scopre che attualmente la stessa banca offre nuovi prestiti a un TAN del 7% (più conveniente). Egli chiede allora una rinegoziazione per abbassare il tasso sul suo prestito esistente. La banca, non essendo obbligata, rifiuta di modificare quel contratto, ma propone come alternativa di estinguere il vecchio finanziamento e accenderne uno nuovo alle condizioni migliori, concedendo anche una piccola liquidità aggiuntiva. Il debitore accetta e ottiene così €2.000 aggiuntivi (liquidità extra) rifinanziando il debito residuo precedente. In totale il nuovo capitale erogato è €10.400 (ossia €8.400 circa per chiudere il vecchio debito rimasto dopo 12 rate, più €2.000 nuovi). Al TAN 7% su 5 anni, la nuova rata risulta ~€205, leggermente inferiore alla precedente. Apparentemente il debitore ha ottenuto un beneficio: rata più bassa e €2.000 in più in tasca. Tuttavia, conteggiando i costi scopriamo che ha pagato una penale di estinzione di circa l’1% sul capitale residuo (diciamo ~€84, se prevista) e aveva già versato €926 di interessi nel primo anno. Inoltre, con il nuovo prestito pagherà circa €1.955 di interessi in cinque anni. Sommando gli interessi già corrisposti e futuri e la penale, l’esborso totale in interessi diventa €2.881 (senza penale) o €3.880 (con penale), a fronte dei €2.748 che avrebbe pagato di interessi mantenendo il vecchio prestito al 10% fino a scadenza. In questo scenario semplificato, la rinegoziazione tramite rifinanziamento conviene solo se l’operazione è a costo zero (nessuna penale o spesa aggiuntiva); in caso contrario, il risparmio in rata può essere compensato da maggiori oneri complessivi. L’esempio conferma che ogni rinegoziazione va valutata attentamente in base ai calcoli reali, utilizzando magari un tool di calcolo indipendente, e considerando il Tasso Annuo Effettivo Globale (TAEG) del nuovo prestito rispetto al vecchio.
In sintesi, la rinegoziazione del prestito è uno strumento potenzialmente utile per abbassare l’importo delle rate, ma: (a) non può essere pretesa per legge (eccetto il caso particolare del rinnovo delle cessioni del quinto); (b) spesso si traduce in un nuovo finanziamento con costi accessori; (c) va ponderata sul piano economico perché allungare la durata o aggiungere capitale può aumentare il totale degli interessi dovuti. Il debitore deve quindi negoziare con la propria banca in modo informato, eventualmente facendosi assistere da un consulente o da un legale, e tenere aperte anche altre opzioni se la rinegoziazione viene negata o risulta non vantaggiosa.
Surroga e rifinanziamento presso un altro istituto
Se la banca originaria non concede miglioramenti, il debitore può rivolgersi al mercato del credito per cercare condizioni più favorevoli. In ambito di mutui ipotecari esiste l’istituto della surrogazione del mutuo (portabilità senza costi, introdotta dalla Legge n. 40/2007 “legge Bersani”), ma per i prestiti personali non esiste una “surroga” legalmente garantita. Ciò non impedisce comunque di effettuare un rifinanziamento presso un altro intermediario: in pratica, si stipula un nuovo prestito con un diverso istituto di credito e lo si utilizza per estinguere quello precedente. Dal punto di vista del debitore, questa operazione equivale a “trasferire” il debito presso il nuovo finanziatore alle nuove condizioni contrattuali. La differenza rispetto alla surroga dei mutui è che, non essendoci una disciplina specifica, il nuovo prestito personale potrà comportare costi (spese di istruttoria, eventualmente imposta sostitutiva, e l’indennizzo di estinzione anticipata sul vecchio, se previsto). Inoltre, a differenza della surroga di mutuo dove la vecchia banca per legge non può opporsi né addebitare commissioni al cliente, qui sarà il debitore ad attivarsi per chiudere il vecchio prestito e saldare quanto dovuto.
Quando conviene il rifinanziamento esterno? I presupposti sono simili a quelli della rinegoziazione interna: occorre trovare sul mercato un nuovo prestito con rata più bassa grazie a un tasso minore e/o una durata maggiore. Questo spesso avviene se i tassi di interesse generali sono scesi (ad esempio, se il prestito originario era al 10% e ora si trovano offerte al 6-7%) oppure se il debitore, avendo pagato regolarmente finora, ha mantenuto un buon merito creditizio tale da ottenere proposte di rifinanziamento. Prima di procedere, vanno confrontati i TAEG delle soluzioni: il TAEG incorpora tutti i costi (tasso nominale, commissioni, polizze) ed è l’indicatore principale del costo effettivo. Si dovranno poi calcolare le eventuali penali di estinzione sul vecchio prestito: fortunatamente, per i prestiti ai consumatori di importo fino a €75.000 (ai sensi del D.lgs. 141/2010 attuativo della direttiva sul credito al consumo) la penale è limitata per legge (massimo 1% o 0,5% del capitale residuo, a seconda della durata residua >1 anno o <1 anno, e nulla se il rimborso avviene in un periodo in cui il tasso è variabile) – in molti contratti recenti la penale è addirittura zero, come leva commerciale. Se non vi sono penali, rifinanziare altrove può risultare agevole; se invece è presente l’indennizzo, va incluso nel calcolo.
Dal punto di vista legale, l’estinzione anticipata del vecchio prestito deve avvenire secondo il contratto: il debitore richiede alla prima banca il conteggio di estinzione (un documento con importo da pagare per chiudere il debito a una certa data, includendo il residuo capitale, gli interessi maturati e la penale se dovuta). Il nuovo finanziatore può occuparsi direttamente di saldare tale importo alla vecchia banca (spesso avviene contestualmente all’erogazione, per assicurare la chiusura del debito pregresso). Non esistendo la surroga formale, il vecchio rapporto si estingue definitivamente (con rilascio di quietanza liberatoria) e ne nasce uno completamente nuovo con un altro istituto. È importante verificare anche l’impatto sui dati creditizi: la chiusura anticipata di un prestito e l’apertura di un altro vengono segnalate nelle banche dati dei credit bureau (come CRIF). Se il debitore ha pagato regolarmente, la segnalazione è positiva/neurale (prestito estinto regolarmente), ma l’apertura di un nuovo debito di pari importo potrebbe influire sul credit scoring temporaneamente. Tuttavia, se l’obiettivo è proprio alleggerire la rata per evitare futuri ritardi, il rifinanziamento può prevenire situazioni di insolvenza e quindi è consigliabile farlo prima che eventuali difficoltà conducano a mancati pagamenti (che verrebbero segnalati come negativi).
Va sottolineato che banche e finanziarie si fanno concorrenza anche su questo terreno. Alcuni istituti offrono prodotti di refinancing o consolidamento destinati proprio a chi ha già prestiti altrove: in questi casi la nuova banca propone tassi competitivi e si occupa della burocrazia di chiusura dei precedenti finanziamenti. Dal lato del debitore, conviene raccogliere più preventivi e valutare attentamente la convenienza complessiva. Il supporto di un mediatore creditizio o di un comparatore online può aiutare ad individuare l’offerta di rifinanziamento con la maggior riduzione di rata a parità di condizioni.
Surroga nei prestiti – Il termine surroga in senso tecnico si applica ai mutui ipotecari (dove la legge impone la portabilità gratuita mantenendo l’ipoteca). Per i prestiti personali, talvolta si usa il termine surroga impropriamente, intendendo un rifinanziamento esterno. Non essendoci ipoteche in gioco, non si tratta di una surrogazione di garanzia ma semplicemente di una sostituzione del creditore tramite nuova erogazione. Ciò significa anche che non valgono le agevolazioni previste per i mutui in surroga: ad esempio, mentre nella surroga mutuo tutti i costi notarili e bancari sono a carico della nuova banca e nulla è dovuto dal cliente, nel rifinanziamento di un prestito personale eventuali spese di istruttoria o assicurative sul nuovo prestito possono essere addebitate al cliente (anche se molte offerte promozionali le annullano). Inoltre, per i mutui la surroga non prevede penale, mentre per i prestiti personali, come visto, la penale di estinzione può esserci (nei limiti di legge). Dunque, il concetto di surroga nel prestito coincide di fatto con il concetto di estinzione e accollo esterno del debito.
Un caso affine alla surroga, riservato però ai mutui immobiliari, è disciplinato dall’art. 41-bis D.L. 124/2019 (conv. L. 157/2019) e successive modifiche: consente, in presenza di pignoramento immobiliare sulla prima casa, di sospendere l’esecuzione e rinegoziare il mutuo o surrogarlo con una nuova banca (con garanzia Consap) per evitare la vendita forzata. Tale procedura eccezionale non si applica ai prestiti personali, ma vale la pena citarla per chiarire la differenza: è uno dei rari casi in cui una norma impone a una banca (o a una nuova banca subentrante) di concedere un piano dilazionato decennale-trentennale al debitore in difficoltà, purché certi requisiti siano soddisfatti (immobile adibito ad abitazione principale, importo residuo < €250.000, assenza di altre proprietà, etc.). Fuori da questo ambito circoscritto, la regola generale è che il debitore non può costringere il creditore a rinegoziare – deve quindi affidarsi a una proposta volontaria, che il creditore valuterà liberamente. Per questo il mercato dei rifinanziamenti è competitivo: se la banca A non accetta di abbassare la rata, il cliente può vedere se la banca B è disponibile a subentrare offrendo condizioni migliori.
Conclusione operativa: Il rifinanziamento/surroga esterna è spesso una strada percorribile per abbassare le rate, ma richiede che il debitore abbia ancora un profilo accettabile per nuovi finanziatori. Se la situazione finanziaria è già compromessa (p.es. ritardi di pagamento in corso, segnalazioni negative in CRIF), trovare un nuovo prestito può risultare difficile o possibile solo a tassi più alti. Quindi questa soluzione funziona al meglio in chiave preventiva, quando si intuisce di non poter più sostenere la rata attuale ma si è ancora in bonis. In caso contrario, il debitore potrebbe dover ricorrere a strumenti diversi (consolidamento o procedure di sovraindebitamento, v. oltre). Nella sezione Domande&Risposte vedremo anche quali domande porre e quali documenti preparare quando ci si approccia a una banca per un rifinanziamento.
Consolidamento debiti
Il consolidamento dei debiti è una strategia finanziaria che consente di accorpare più finanziamenti in corso in un unico nuovo prestito, di solito con una rata mensile inferiore alla somma delle precedenti. L’idea è semplice: invece di pagare tante rate a diverse scadenze, il debitore ne paga una sola, spesso più bassa, perché il nuovo prestito ha una durata più lunga o un tasso più conveniente. In apparenza, il consolidamento semplifica la gestione del debito (un pagamento invece di molti) e può dare respiro al bilancio familiare. Tuttavia, occorre comprendere bene pro e contro di questa soluzione e la relativa cornice normativa.
Dal punto di vista legale, non esiste in Italia una normativa ad hoc che regolamenti il “prestito di consolidamento”. Il consolidamento non è un tipo di contratto previsto dal codice civile o dal Testo Unico Bancario: in sostanza è un normale finanziamento personale (o mutuo, se garantito da ipoteca, come vedremo) finalizzato però all’estinzione di altri debiti. Alcuni siti o operatori in passato hanno millantato l’esistenza di una “legge sul consolidamento”, citando impropriamente il D.L. 212/2011, ma ciò è frutto di confusione: quel decreto (poi non convertito) riguardava il sovraindebitamento ed è confluito nella Legge 3/2012, senza introdurre alcun diritto al consolidamento automatico. In conclusione, la legge non dà al debitore un potere di imporre il consolidamento, ma questi può rivolgersi liberamente a banche/finanziarie che offrano tale prodotto e stipulare un nuovo prestito che estingua i precedenti. Gli istituti di credito sono ben disposti a proporre consolidamenti se il cliente ha un profilo sufficientemente affidabile (assenza di gravi segnalazioni al CRIF o ad altre centrali rischi), poiché il consolidamento in definitiva è l’erogazione di un nuovo credito.
Il consolidamento può assumere due forme principali a seconda dell’ente erogante:
- Consolidamento con mutuo ipotecario: una banca tradizionale potrebbe offrire di consolidare i debiti accendendo un mutuo (garantito da ipoteca su un immobile di proprietà del debitore). Questa opzione è percorribile solo se il debitore possiede un immobile libero da vincoli (o con un mutuo residuo incorporabile) e comporta il beneficio di un tasso generalmente più basso (i mutui ipotecari hanno tassi minori dei prestiti personali perché garantiti) e una durata molto più lunga (anche 20-30 anni). Ad esempio, un debitore proprietario di casa che paga più prestiti potrebbe stipulare un mutuo di consolidamento, iscrivere un’ipoteca e ottenere una rata notevolmente ridotta. Chiaramente, ciò trasforma debiti chirografari in debito ipotecario: il rischio è che, in caso di insolvenza, la casa venga pignorata con priorità dalla banca (la banca acquisisce un “diritto prioritario” sull’immobile consolidando in un mutuo ipotecario). Quindi, si scambia minore onerosità con maggiore rischio sui beni di famiglia. Bisogna valutare attentamente questa mossa e considerarla solo se si è ragionevolmente certi di poter sostenere la nuova rata, per non mettere a repentaglio l’abitazione.
- Consolidamento con prestito personale: società finanziarie e istituti di credito al consumo offrono tipicamente consolidamenti sotto forma di prestiti personali chirografari (senza ipoteca). In questi casi la nuova finanziaria concede un importo sufficiente a coprire tutti i finanziamenti esistenti, spesso offrendo anche liquidità aggiuntiva come incentivo commerciale. La durata viene estesa il più possibile (alcuni prestiti personali arrivano fino a 120 mesi, ovvero 10 anni, che è la durata massima comune). Il tasso proposto dipende molto dal merito creditizio: talvolta può essere più conveniente dei tassi medi pagati sui vecchi debiti, ma non aspettatevi i tassi bassi di un mutuo ipotecario. Spesso per debitori un po’ al limite il tasso consolidamento è uguale o maggiore di quelli in corso, e il sollievo di rata deriva quasi esclusivamente dall’allungamento dei tempi. Inoltre, consolidare debiti preesistenti in un nuovo prestito non è sempre finanziariamente vantaggioso: le finanziarie possono applicare costi di istruttoria, polizze assicurative sul credito obbligatorie e altri oneri che aumentano il costo totale.
Limiti e requisiti – Il consolidamento presuppone che vi siano almeno due debiti da unificare. Non ha senso (e non viene concesso) per chi ha un solo finanziamento; in tal caso si parlerebbe di un normale rifinanziamento. Quando ci sono più posizioni aperte (ad esempio un prestito auto + un prestito personale + saldi su carte revolving), il consolidamento va a estinguerle tutte contestualmente, accollandosi i rispettivi importi residui. Spesso la nuova banca chiederà le lettere di liberatoria delle vecchie entro breve tempo dall’erogazione, a prova che i precedenti creditori sono stati pagati. È quindi importante che il debitore fornisca l’elenco completo dei propri debiti e autorizzi la nuova banca a saldarli. Alcuni debiti potrebbero essere esclusi dal consolidamento: ad esempio, se c’è un mutuo casa in corso, molte offerte di consolidamento lo escludono (concentrandosi sui crediti al consumo), perché incorporare un mutuo chirografario in un prestito non garantito farebbe lievitare troppo l’importo. In quei casi, il debitore consoliderebbe tutto tranne il mutuo, che continuerebbe a pagare a parte. Il risultato sarebbe comunque semplificare magari 4-5 rate in sole 2 (mutuo + prestito consolidato).
Dal lato del creditore finanziatore, la valutazione per concedere un consolidamento è simile a un normale prestito, ma con attenzione alla capacità di rimborso: l’obiettivo dichiarato è migliorare la sostenibilità della rata, dunque è nell’interesse di entrambe le parti che la nuova rata unica sia effettivamente calibrata sul reddito disponibile. Tuttavia, come evidenziato da alcuni esperti, spesso si giunge al consolidamento in situazioni già tese, e c’è il rischio che, riducendo momentaneamente l’esborso mensile, il debitore accumuli nuovi debiti altrove se la causa del sovraindebitamento non viene risolta (ad esempio, se la famiglia spende più di quanto guadagna, la rata più bassa potrebbe indurla a fare altri acquisti a rate, tornando rapidamente al punto di partenza). Pertanto, il consolidamento va accompagnato da educazione finanziaria e da un controllo rigoroso per non contrarre ulteriori finanziamenti non necessari.
Esempio pratico di consolidamento – Una famiglia ha attualmente: 1) un prestito auto con rata €300, 2) un prestito arredamento con rata €180, 3) due carte di credito revolving con pagamenti minimi €150 e €180 al mese rispettivamente. Il totale delle uscite per debiti al consumo è €810 mensili. Supponiamo che restino ancora da pagare complessivamente €40.000 di debito (tra capitali residui e utilizzo delle carte). La famiglia ha un reddito mensile netto di €1.800. In questa situazione, oltre il 40% del reddito è assorbito dai debiti, creando forte stress finanziario. Valutano quindi un consolidamento: una finanziaria propone di erogare un prestito di €40.000 per chiudere tutte le posizioni, con durata 10 anni a un TAN, poniamo, dell’8%. La rata unica risultante sarebbe di circa €485 al mese (calcolata su 120 mesi all’8%). Si tratta di un importo decisamente inferiore ai €810 precedenti, liberando €325 al mese di budget familiare. Sulla carta, sembra un ottimo risultato: la rata totale scende di oltre il 40%. Tuttavia, analizziamo l’operazione: per 10 anni la famiglia pagherà €485, che è il 27% circa del reddito (quota più sostenibile). Ma il debito complessivo alla fine? Pagheranno 120 rate, quindi €58.200 in totale, ossia circa €18.200 di interessi su €40.000 (TAEG intorno al 8,5-9% considerando spese). In assenza di consolidamento, avrebbero finito di pagare i debiti forse in 5 anni (il prestito auto e arredamento residui + carte revolving se non utilizzate più) pagando interessi per importi inferiori (le revolving però hanno tassi altissimi, 15-20%, quindi difficile dire; comunque i €810 mensili sarebbero durati meno di 10 anni). Insomma, col consolidamento si paga più a lungo e di più in termini di interessi totali, ma si respira nell’immediato. Se la famiglia in questione userà il margine liberato (€325) per vivere senza indebiti e magari risparmiare qualcosa, il consolidamento avrà avuto senso. Se invece, come talora accade, quella disponibilità in più verrà in parte utilizzata per fare nuove spese a credito (es. un nuovo finanziamento per l’elettronica, o usare di nuovo le carte di credito ora azzerate), allora dopo un paio d’anni la famiglia si troverà nuovamente con più debiti e addirittura con il consolidamento decennale ancora da onorare. Questo esempio riflette situazioni reali di trappole del debito, dove il consolidamento ritarda il problema ma non lo risolve se non cambia il comportamento di spesa.
Vantaggi e svantaggi in sintesi:
- Vantaggi: rata mensile ridotta e singola (maggior respiro finanziario e minore probabilità di dimenticare scadenze); possibile riduzione del tasso medio se i debiti consolidati avevano interessi molto alti (specie carte revolving); semplificazione amministrativa (un solo interlocutore, un solo addebito). In alcuni casi, opportunità di ottenere liquidità aggiuntiva.
- Svantaggi: allungamento della durata con aumento degli interessi complessivi dovuti; costi accessori (spese istruttoria, eventuali penali di chiusura dei vecchi prestiti, costi assicurativi); rischio di ipoteca su beni (se consolidamento con mutuo); nessuna garanzia di concessione – se il debitore è già in sofferenza grave, il consolidamento potrebbe essere rifiutato dalle banche; possibile illusione di aver risolto il problema mentre invece si è solo diluito (richiede quindi disciplina per non contrarre nuovi debiti).
Una considerazione interessante è fatta da alcuni consulenti del debito: “il consolidamento dei debiti si adatta meglio alle aziende che alle famiglie”. Per un’impresa, infatti, unificare vari finanziamenti può razionalizzare la gestione finanziaria e si presuppone che l’azienda, liberando flussi di cassa, li investa per produrre reddito. Nelle famiglie, liberare flussi di cassa spesso serve solo a coprire spese di sopravvivenza, e se la struttura di spesa è strutturalmente superiore al reddito, il consolidamento da solo non risolve il sovraindebitamento familiare. Per questo la legislazione sul sovraindebitamento (Legge 3/2012 e nuovo Codice della Crisi) è considerata dalla dottrina la vera via d’uscita per le famiglie sommerse dai debiti. Prima di arrivare a quelle soluzioni più drastiche (vedi sezione successiva), il consolidamento rimane comunque uno strumento contrattuale utilissimo in casi limitati, ad esempio: debitori con più piccoli prestiti e credit card, che hanno ancora un buon credito ma vogliono prevenire difficoltà unificando tutto in un piano più lungo; oppure famiglie con un immobile che vogliono ristrutturare la propria esposizione debitoria mediante un mutuo a tasso minore (magari approfittando di periodi di tassi bassi).
Nota: se un istituto rifiuta la richiesta di consolidamento (magari perché dal credit scoring interno risulta già troppo indebitato), esistono società di intermediazione del credito o consulenti specializzati che possono suggerire alternative. Tuttavia, bisogna stare attenti a non cadere nelle mani di operatori poco trasparenti: casi di pseudo-consolidamento che sfociano in prestiti cambializzati (con costi enormi e rischio di protesto in caso di mancato pagamento delle cambiali) o, peggio, in usura. Il Ministero dell’Economia gestisce tramite enti convenzionati un Fondo di prevenzione dell’usura (L. 108/1996) che garantisce parzialmente finanziamenti fino a €50.000 con piani decennali a favore di famiglie e PMI sovraindebitate, proprio per evitare che ricorrano a usurai. Tali finanziamenti antiusura, erogati tramite banche convenzionate su segnalazione di fondazioni/associazioni antiusura, possono essere una ancora di salvezza per chi è escluso dal credito tradizionale: ad esempio, una famiglia con reddito ma segnalazioni negative potrebbe ottenere un prestito garantito dal Fondo Usura per consolidare debiti, restituendolo in 10 anni a tassi calmierati. Questa però è una misura straordinaria e richiede l’assistenza di enti specializzati (come fondazioni antiusura, Caritas, consulte diocesane, etc.) che valutano la situazione e presentano la domanda. In ogni caso, il ricorso al Fondo antiusura sottolinea come il consolidamento classico di mercato non sia sempre accessibile ai soggetti più in crisi, per i quali servono soluzioni “di sistema” o giudiziali (vedi oltre).
Moratorie e flessibilità nei pagamenti
Un ulteriore metodo per ridurre temporaneamente o sospendere le rate è il ricorso a moratorie o ad accordi di dilazione straordinaria. Negli ultimi anni, specialmente in concomitanza di crisi economiche (si pensi alla crisi finanziaria 2008-2009, alla crisi dei debiti sovrani 2012, alla pandemia da Covid-19 nel 2020), sono stati introdotti strumenti di sollievo per debitori in difficoltà, sia per mutui che per altri finanziamenti.
Moratorie volontarie ABI – L’Associazione Bancaria Italiana, in accordo con il Governo e le associazioni dei consumatori, ha periodicamente promosso moratorie “di sistema”. Ad esempio, nel 2009 e 2010 furono attivate moratorie per famiglie e PMI che consentivano di sospendere per 12 mesi il pagamento della sola quota capitale delle rate dei mutui e dei leasing (continuando a pagare gli interessi). Iniziative analoghe sono state riproposte durante la pandemia Covid: nel 2020 Assofin (Associazione delle società finanziarie) ha lanciato una moratoria per crediti ai consumatori su base volontaria, offrendo la possibilità di sospendere fino a 6 mesi le rate di prestiti personali e finalizzati per chi aveva perso il lavoro o subito riduzioni di orario a causa dell’emergenza. Tali misure sono temporanee e circoscritte: tipicamente occorre fare domanda alla propria banca/finanziaria aderente, dimostrando di rientrare nelle categorie protette (es. disoccupazione, cassa integrazione, calo fatturato per autonomi). La sospensione può riguardare l’intera rata oppure la sola quota capitale; nel primo caso, gli interessi maturati nel periodo di sospensione vengono poi spalmati sulle rate successive o aggiunti come rate finali, nel secondo caso il cliente continua a pagare solo interessi e rinvia il rimborso del capitale. Durante la moratoria, l’ammortamento viene allungato dello stesso periodo (c.d. slittamento), quindi il debito residuo rimane e la scadenza finale si sposta in avanti. Importante: queste sospensioni concordate non comportano segnalazioni negative in centrale rischi, perché sono frutto di accordo e non di morosità del cliente.
Ad oggi, giugno 2025, non sono attive moratorie generalizzate sui prestiti personali a livello di sistema (le ultime legate al Covid sono scadute). Tuttavia, alcune banche individualmente possono offrire soluzioni di sospensione rate ai propri clienti in difficoltà, talora pubblicizzate come iniziative commerciali di responsabilità sociale. Conviene quindi informarsi presso la propria banca/finanziaria: ad esempio, nel 2023-2024 alcune grandi banche italiane hanno esteso la possibilità di sospendere fino a 6-12 mesi i mutui prima casa (grazie al rifinanziamento del Fondo di solidarietà prima casa, c.d. Fondo Gasparrini), mentre per i prestiti al consumo non c’è un fondo analogo; tuttavia, il cliente può sempre provare a chiedere una moratoria personalizzata, soprattutto se il motivo della difficoltà è documentabile (perdita del lavoro, spese mediche impreviste, etc.). L’istituto potrebbe concedere ad esempio di saltare alcune rate e poi riprenderle, oppure di pagare rate ridotte per un certo periodo e recuperare il differenziale in coda al piano.
Attenzione: la moratoria non è una remissione del debito, ma un rinvio. Se si sospende l’intera rata, gli interessi continuano a maturare sul capitale non pagato, e vanno comunque corrisposti (spesso capitalizzati come detto). Quindi, sebbene utile per superare un’emergenza, la sospensione aumenta il costo totale del finanziamento (più interessi per via del tempo extra). È però preferibile a una morosità incontrollata, perché permette di congelare legalmente la posizione senza incorrere in penali o segnalazioni negative. Ad esempio, la moratoria Covid di Assofin del 2020 richiedeva che il prestito non fosse già in default oltre certe soglie (non più di 90 giorni di arretrato), quindi incentivava i clienti a fare richiesta prima di accumulare ritardi gravi.
Dilazioni extra-giudiziali – Al di fuori delle moratorie strutturate, un debitore in temporanea difficoltà può sempre tentare di pattuire privatamente con la banca una dilazione del pagamento. Questa situazione si verifica spesso quando il debitore anticipa che non riuscirà a pagare una o più rate imminenti: contattando l’ufficio crediti, può essere negoziato (per iscritto) un piano di rientro ad hoc. Ad esempio, potrebbe essere accordato che per 3 mesi paga solo metà rata, e la metà non pagata viene ridistribuita sulle rate successive o versata in coda come maxi-rata finale. Tali accordi sono di natura commerciale: la banca non ha obbligo di concederli (se il contratto non prevede flessibilità, la rata sarebbe dovuta intera alla scadenza) ma spesso li preferisce rispetto al dover classificare il credito come deteriorato. Se si raggiunge un accordo simile, è fondamentale farselo confermare per iscritto, per evitare contestazioni (ad esempio, evitare che il ritardo concordato venga segnalato per errore come insoluto). In genere, finché si rispettano i termini della dilazione concordata, la posizione rimane “regolare” nei confronti dell’istituto.
Un caso particolare riguarda la rinegoziazione delle condizioni di pagamento in sede di recupero crediti: supponiamo che il prestito sia già decaduto dal beneficio del termine (DBT) a causa di rate non pagate e sia stato affidato a una società di recupero o avvocato. In tale fase, è spesso possibile concordare un piano di dilazione stragiudiziale per evitare l’azione legale esecutiva. Ad esempio, se un finanziamento da €10.000 è stato revocato per mancato pagamento di 7 rate (situazione tipica di decadenza ai sensi dell’art. 40 TUB, vedi infra), la finanziaria potrebbe proporre al debitore di rateizzare l’importo dovuto (magari rientrando in 24-36 mesi) invece di procedere subito con il decreto ingiuntivo e il pignoramento. Questo è in effetti un modo di “abbassare la rata” nella fase di crisi conclamata: si trasforma il debito scaduto in un nuovo piano sostenibile. Tali accordi vengono formalizzati in scritture private di ricognizione del debito e transazione. Dal punto di vista del debitore, sono vantaggiosi perché evitano le vie legali, ma bisogna negoziare bene: spesso il creditore vorrà aggiungere interessi di mora, spese legali, ecc., nel calcolo. Si può cercare di ridurre queste voci, facendo leva sul fatto che una soluzione concordata fa risparmiare al creditore i costi e i tempi dell’azione giudiziaria. In alcuni casi, se il debitore ha disponibilità immediata di una parte significativa del dovuto, può proporsi un “saldo e stralcio” (vedi oltre) o comunque un acconto consistente e il resto a rate. È importante essere realisti su ciò che si potrà pagare: promettere rate troppo alte pur di fermare l’azione legale, per poi non rispettare l’accordo, porta solo a perdere credibilità e a ritrovarsi punto e a capo.
Riassumendo, moratorie e dilazioni offrono strumenti temporanei per ridurre o sospendere le rate, con l’obiettivo di superare momenti difficili senza incorrere in inadempimenti formali. Il debitore deve però tenere presente che queste misure spostano in avanti l’onere e spesso lo aumentano, quindi vanno utilizzate con criterio. Se la difficoltà non è temporanea ma strutturale (ad esempio, perdita definitiva di parte del reddito, o indebitamento cronicamente eccessivo), allora occorre considerare soluzioni più incisive, come le procedure da sovraindebitamento di cui parliamo nella prossima sezione.
Procedure di ristrutturazione legale dei debiti (sovraindebitamento)
Quando i debiti sono diventati realmente insostenibili rispetto al reddito e al patrimonio del debitore, gli aggiustamenti contrattuali privati potrebbero non bastare più. In questi casi entra in gioco la legislazione sul sovraindebitamento, introdotta originariamente con la Legge 3/2012 (detta anche “legge salva-suicidi”) e oggi trasfusa nel nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022). Tali norme consentono al debitore non assoggettabile alle procedure fallimentari (consumatori, professionisti, piccoli imprenditori sotto soglie di fallibilità, start-up innovative, enti non commerciali, ecc.) di accedere a procedure giudiziali finalizzate a ridurre e ristrutturare il debito complessivo, ottenendo eventualmente l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) a fine procedura. Dal punto di vista del debitore, questi strumenti rappresentano spesso l’ultima spiaggia per riequilibrare la propria situazione finanziaria, in quanto permettono di imporre ai creditori – con l’approvazione del tribunale – piani di pagamento sostenibili, anche senza il consenso di tutti i creditori (nel caso del consumatore) e con significative riduzioni di importo.
Le procedure previste attualmente dal Codice della Crisi per il sovraindebitamento (Titolo IV, Capo II CCII) sono:
- la Ristrutturazione dei debiti del consumatore (artt. 67–73 CCII), che è l’erede del “piano del consumatore” della L.3/2012;
- il Concordato minore (artt. 74–83 CCII), erede dell’“accordo di composizione”;
- la Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268–277 CCII), erede della “liquidazione del patrimonio”;
- in aggiunta, introdotta ex novo dal Codice: l’Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII), una forma speciale di esdebitazione “a zero” per debitori meritevoli che non hanno nulla da offrire ai creditori.
Vediamo in particolare quelli più utili per abbassare o azzerare le rate dal punto di vista del debitore persona fisica.
Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore
Il piano del consumatore, ora formalmente denominato piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore, è una procedura riservata ai debitori persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività di impresa (in pratica: privati e famiglie, ma anche soci di società o piccoli imprenditori per i debiti personali non legati all’azienda). Consente di predisporre, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi (OCC) o professionista nominato, un piano di pagamento dei debiti che tenga conto del patrimonio e del reddito disponibile del consumatore, anche prevedendo il pagamento parziale dei crediti. La caratteristica fondamentale del piano del consumatore è che non richiede l’accordo dei creditori: il piano viene sottoposto al giudice il quale, valutata la meritevolezza del debitore e la fattibilità della proposta, può omologarlo rendendolo vincolante per tutti i creditori (anche dissentienti). Questo differenzia il piano del consumatore dal concordato minore (dove i creditori votano, come vedremo) e lo rende uno strumento potente per chi, da solo, non riuscirebbe mai a convincere ogni singolo creditore ad accettare uno stralcio.
Condizioni di ammissibilità – Il Codice della Crisi prevede alcuni requisiti: il debitore deve presentare tutti i documenti sulla propria situazione economica e patrimoniale, l’elenco dei creditori e l’indicazione di eventuali atti di disposizione compiuti. L’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) nominato aiuterà a elaborare il piano e redigerà una relazione sulla condotta del debitore. Il tribunale valuta la meritevolezza, cioè che il sovraindebitamento non sia dovuto a dolo o colpa grave del consumatore (ad esempio, aver fatto debiti oltre ogni ragionevole capacità restitutoria con leggerezza potrebbe costituire comportamento non meritevole, ma questo criterio nel nuovo Codice è stato reso meno stringente rispetto al passato). Una causa di inammissibilità è l’aver già usufruito di procedure di sovraindebitamento nei 5 anni precedenti.
Una novità del Codice della Crisi riguarda i debiti misti (in parte consumeristici, in parte derivanti da attività di impresa/professionale). Prima vi era un certo dibattito: la giurisprudenza prevalente ammetteva il piano del consumatore anche con debiti misti, purché quelli personali fossero prevalenti in percentuale. Il “Correttivo ter” del Codice (D.Lgs. 83/2022) aveva formulato le norme in modo da far temere un’esclusione dei debitori con debiti misti, consentendo l’accesso solo per obbligazioni assunte in qualità di consumatore. Tuttavia, recentissime pronunce (Tribunale di Napoli, sentenza 5 maggio 2025) hanno confermato, post-Correttivo, la possibilità per il consumatore di includere anche debiti di natura imprenditoriale nel piano, a condizione che la componente consumeristica sia prevalente. Ciò è importante per molte situazioni reali: si pensi al piccolo imprenditore individuale che ha debiti sia verso fornitori (impresa) sia personali verso banche o fisco – egli potrebbe accedere al piano del consumatore se i debiti personali superano quelli d’impresa, evitando il concordato minore. Dunque, l’orientamento attuale tende a riallinearsi alla flessibilità già esistente sotto la L.3/2012, grazie all’interpretazione giurisprudenziale.
Come si abbassano le rate col piano? Nel piano di ristrutturazione, il debitore propone di pagare i creditori secondo le sue possibilità effettive. Non c’è un minimo obbligatorio di legge (eccetto trattamento dei crediti privilegiati, vedi infra), se non il buon senso: offrire importi “non meramente simbolici” ai creditori chirografari e comunque almeno pari a quanto otterrebbero liquidando eventuali beni. Si possono prevedere: stralci di debito (pagamento parziale, es. 30% a un creditore chirografario), dilazioni (pagamento rateale magari su 4-5 anni), differenti categorie di creditori con trattamenti differenziati, e anche forme particolari come il soddisfacimento non in denaro (dare un bene in conto pagamento). Non esiste un vincolo di durata fissa per il piano, ma spesso i tribunali preferiscono piani non eccessivamente lunghi (indicativamente la prassi li tiene entro 5–7 anni per i consumatori). Importante: il piano del consumatore può sicuramente “abbassare la rata” rispetto a quella contrattuale, perché il debitore può proporre di pagare meno di quanto dovuto inizialmente. Ad esempio, un prestito con rate da €300 che il debitore non riesce più a pagare potrebbe essere incluso nel piano proponendo di pagare al creditore magari €150 al mese per un periodo più lungo, oppure una percentuale del residuo in tot mesi. Il criterio giuridico è che l’offerta ai creditori deve essere migliore di quanto loro ricaverebbero in un’alternativa liquidatoria. Se il debitore dispone di reddito, in genere si costruisce un piano di rientro sostenibile: si calcola il suo reddito disponibile al netto delle spese di sostentamento, e quello diventa l’importo massimo distribuibile ai creditori ogni mese. Così il debitore paga rate commisurate al suo reddito e non alla montare originario del debito – di fatto una riduzione della rata per via giudiziale.
Trattamento dei creditori privilegiati – Il Codice ha innovato positivamente: non è più necessario pagare integralmente entro 1 anno i creditori con privilegio/pegno/ipoteca (come imponeva la vecchia legge 3/2012), requisito che rendeva impossibile includere mutui ipotecari in un piano. Ora è sufficiente garantire a quei creditori un trattamento non inferiore a quello che avrebbero ottenuto escutendo la garanzia. In pratica, se c’è un mutuo ipotecario sulla casa, il debitore può proporre di continuare a pagare le rate alle scadenze originarie (fuori dal piano) se è in bonis, oppure di vendere l’immobile e farli soddisfare in percentuale. Addirittura, l’art. 67 co.5 CCII consente di mantenere il mutuo immobiliare sulla prima casa: se il debitore è in regola con le rate o paga quelle scadute, il piano può non toccare affatto quel mutuo e lasciarlo proseguire fino a naturale scadenza. Questa è una novità rilevante perché prima molti tribunali dichiaravano inammissibili piani che prevedevano di proseguire il mutuo oltre l’anno. Quindi oggi, un consumatore indebitato che però riesce a sostenere il mutuo prima casa, può salvaguardarlo e trattarlo a parte nel piano, riducendo invece altre rate più gravose.
Anche i debiti da cessione del quinto possono essere inclusi e tagliati: l’art. 67 co.3 CCII prevede espressamente la possibilità di pagamento parziale e dilazionato dei debiti derivanti da finanziamenti contro cessione del quinto dello stipendio/pensione, nonché dei prestiti su pegno. In concreto, se il debitore ha ancora in corso una cessione del quinto, il piano può prevedere che il creditore (che riceve le trattenute in busta paga) si accontenti di una somma ridotta rispetto al credito residuo. Una volta raggiunta tale somma, cesseranno le trattenute in busta paga, liberando reddito per il debitore e magari per pagare altri creditori. L’esempio riportato in dottrina: residuo su cessione €10.000, il piano prevede pagamento del 20% (€2.000); il quinto stipendio continuerà ad essere prelevato dal datore di lavoro e girato al finanziatore fino al raggiungimento di €2.000, dopodiché le trattenute devono cessare e lo stipendio torna pienamente disponibile al debitore. Questa previsione consente dunque di ridurre drasticamente l’esborso anche su contratti che altrimenti avrebbero drenato il 20% dello stipendio per anni.
Dal momento dell’omologazione del piano, il debitore deve poi eseguire regolarmente i pagamenti previsti. I creditori vengono soddisfatti secondo quanto stabilito e non possono agire esecutivamente né pretendere interessi o importi diversi da quelli fissati nel piano. Le eventuali procedure esecutive in corso vengono sospese e si estingueranno a completamento del piano.
Esdebitazione – Un enorme vantaggio, a termine, è che il debitore consumatore che adempie il piano ha diritto all’esdebitazione, ossia alla cancellazione di tutti i debiti residui non pagati nel piano (art. 282 CCII). Se ad esempio con il piano si è pagato il 30% a un certo creditore, il restante 70% viene legalmente annullato al termine. L’esdebitazione nel piano del consumatore è concessa automaticamente con il decreto che dichiara eseguito il piano. Questo consente al debitore di ripartire da zero senza quelle passività pendenti. Se invece il debitore non rispetta il piano omologato, i benefici possono decadere e i creditori tornare all’attacco (salvo richiedere conversione in liquidazione, ecc., ma sono casi particolari).
Si noti che l’intera procedura richiede l’assistenza di un OCC o di un professionista nominato dal giudice, quindi vi sono dei costi (onorari del gestore della crisi) e va affrontata con serietà e trasparenza, pena inammissibilità o revoca. Tuttavia, per molte famiglie schiacciate dai debiti, il piano rappresenta la soluzione ideale: invece di inseguire rinegoziazioni impossibili con ogni singola banca e finanziaria, ci si rivolge al tribunale e in un solo colpo si definisce un nuovo importo rata globale sostenibile e una prospettiva di liberazione dal debito entro pochi anni. Come efficacemente riassunto, questa legge “facilita la pianificazione del debito esistente permettendo ai debitori di pagare secondo le proprie possibilità, entro un periodo di tempo ragionevole, generalmente 3 anni. Le somme non saldate entro tale termine sono poi annullate per disposizione di legge”. (I 3 anni menzionati in tale citazione si riferiscono probabilmente alla durata tipica della liquidazione controllata, ma il concetto di fondo è chiaro).
Concordato minore (accordo di ristrutturazione dei debiti)
Il concordato minore è la procedura rivolta ai debitori non consumatori, cioè quelli che hanno debiti principalmente derivanti da attività professionale o d’impresa e rientrano nelle categorie “non fallibili” (imprenditore sotto soglie art. 2 CCII, start-up innovativa, imprenditore agricolo, etc.), o comunque che non vogliono/potranno accedere come consumatori. Funziona in modo simile al concordato preventivo delle imprese maggiori: si presenta una proposta di accordo che deve essere approvata dai creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti (almeno il 60% secondo la vecchia L.3/2012; il CCII art. 78 richiede la maggioranza dei voti espressi dai creditori votanti, con meccanismi di formazione delle classi analoghi a un concordato preventivo semplificato).
Dal punto di vista del debitore sovraindebitato, il concordato minore permette di ridurre l’ammontare dovuto e di dilazionarlo, ma a differenza del piano del consumatore, serve una trattativa con i creditori. Di solito, si propone ai creditori un pagamento in percentuale (es. 30%) entro un certo periodo, motivando che quella è la soluzione migliore possibile rispetto ad alternative liquidatorie. Se i creditori votano a favore nelle percentuali richieste, il tribunale omologa l’accordo e questo diviene vincolante anche per gli eventuali dissenzienti. Durante la procedura, valgono protezioni simili (automatic stay delle azioni esecutive). Se l’accordo viene poi eseguito, il debitore ottiene l’esdebitazione dei residui.
Per “abbassare la rata”, il concordato minore ha lo stesso effetto del piano, con la differenza che qui c’è una negoziazione collettiva: spesso sarà necessario convincere le banche o gli altri creditori più rilevanti che la proposta è nel loro interesse. In termini pratici, un piccolo imprenditore indebitato con banche per prestiti e leasing potrà proporre di pagare, ad esempio, la metà di ciascun debito in 5 anni, prevedendo magari di liquidare qualche cespite non essenziale per reperire fondi. Se le banche ritengono di recuperare di più così rispetto a un fallimento personale o a inseguire il debitore con esecuzioni, potrebbero votare a favore.
Importante: un consumatore puro (debiti solo personali) può scegliere di utilizzare comunque il concordato minore al posto del piano, se preferisse coinvolgere i creditori (ad esempio, per evitare di sottoporsi al giudizio di “meritevolezza” o perché magari conta di ottenere il voto favorevole essendo in buoni rapporti con essi). Ma questo è raro: in genere il consumatore opta per la procedura che non richiede voti.
Liquidazione controllata del sovraindebitato
La liquidazione controllata è il procedimento che equivale ad una “piccola liquidazione fallimentare” del patrimonio del debitore sovraindebitato. Viene nominato un liquidatore che vende i beni del debitore (esclusi i beni impignorabili e quelli necessari al sostentamento proprio e della famiglia) e ripartisce il ricavato tra i creditori. Dura in genere 3 anni (il CCII ha ridotto il termine standard a tre anni, rispetto ai 4 anni della vecchia liquidazione L.3/2012). Al termine, il debitore persona fisica ottiene l’esdebitazione per i debiti non soddisfatti, salvo alcune eccezioni (debiti alimentari, da risarcimento danni per illecito, e altre esclusioni tipiche analoghe al fallimento). La liquidazione può essere richiesta dallo stesso debitore sovraindebitato (anche in alternativa alle altre procedure, specie se non ha entrate per fare un piano) o in certi casi può risultare conversione di un piano/concordato minore non omologato.
Dal punto di vista del “ridurre le rate”, qui di fatto si esce dalla logica della rata: tutti i debiti vengono cristallizzati e il patrimonio liquidato. Il debitore non paga più nulla mensilmente (cede i beni e l’eventuale surplus di reddito oltre una certa soglia). Se per esempio il debitore aveva uno stipendio, di solito viene applicato un prelievo mensile di una parte di esso (quella non necessaria per un dignitoso mantenimento) per i 3 anni di liquidazione: ciò può essere visto come una sorta di “rata globale” sostenibile. Finito il triennio e liquidati i beni, quel che è pagato è pagato, il resto viene cancellato (esdebitato). In liquidazione spesso i creditori recuperano poco, ma accettano la procedura perché è l’unica via per incassare qualcosa in caso di insolvenza totale.
Questa procedura è indicata per chi non riesce a proporre alcun piano sostenibile o non ha la maggioranza creditori favorevoli. Ad esempio, un soggetto senza redditi sufficienti, ma con qualche bene pignorabile, può mettere in liquidazione i beni: in 3 anni sarà libero dai debiti. Durante la liquidazione, ovviamente, il debitore perde la disponibilità dei beni ceduti (vengono venduti). In compenso, per i crediti molto superiori al valore dei beni, c’è un taglio drastico. Esempio: debiti totali €200.000, patrimonio liquidabile €50.000 -> i creditori prenderanno percentualmente 25% circa e il restante 75% sarà cancellato.
Esdebitazione del debitore incapiente
Una delle novità più innovative del Codice della Crisi (art. 283 CCII) è l’esdebitazione del debitore incapiente. Questa procedura consente al debitore persona fisica meritevole – che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità nemmeno in futuro – di ottenere la cancellazione dei debiti senza dover pagare nulla. È un’esdebitazione “a costo zero”, introdotta per dare sollievo a chi si trova in una condizione disperata (ad esempio, nulla tenente, senza reddito, sovraindebitato per eventi sfortunati) e non avrebbe accesso neppure alle altre procedure che richiedono di offrire qualcosa.
I requisiti fondamentali sono:
- lo stato di incapienza assoluta (assenza di beni liquidabili e di reddito disponibile oltre il minimo vitale, neppure prospettive future concrete di miglioramento);
- la meritevolezza (il debitore non deve aver colposamente causato la sua insolvenza, né aver fruito di altra esdebitazione negli ultimi 8 anni, né aver commesso atti in frode ai creditori);
- la procedura non si applica a debiti da obblighi di mantenimento, alimenti, risarcimento danni da illecito extracontrattuale o debiti fiscali per cui sia intervenuta condanna penale (questi restano comunque dovuti).
Se il tribunale concede questa esdebitazione, con decreto, i debiti vengono dichiarati inesigibili. Attenzione: per 4 anni successivi, se sopravvengono utilità rilevanti (es. vincita, eredità, un forte aumento di reddito), il debitore esdebitato ha l’obbligo di pagare i creditori nei limiti di quanto ottenuto in più, altrimenti l’esdebitazione può essere revocata. Passati i 4 anni di “probation”, l’esdebitazione diventa definitiva anche rispetto ad eventuali miglioramenti successivi.
Questa procedura realizza in estrema sintesi il concetto di “fresh start” anche per chi non avrebbe nulla con cui proporre un piano. Non è propriamente un modo di “abbassare la rata del prestito”, ma piuttosto di azzerare il debito quando non si può pagare. Rappresenta la soluzione finale per il debitore civile onesto ma sfortunato, e allo stesso tempo tutela i creditori prevedendo quel quadriennio di possibile “clawback” se il debitore torna ad avere risorse (evitando che qualcuno ricco di colpo si liberi dei debiti e tenga tutto per sé).
È utile menzionarla perché completa il quadro: laddove la riduzione della rata non sia sufficiente e il sovraindebitamento sia totale, oggi l’ordinamento italiano consente persino la liberazione integrale dai debiti, cosa impensabile fino a poco più di un decennio fa.
Comparazione delle procedure di sovraindebitamento (Tabella)
Di seguito una tabella riepilogativa delle caratteristiche principali delle procedure ex L.3/2012 – Codice della Crisi, dal punto di vista di un debitore persona fisica sovraindebitato, per capire come incidono sulla sorte delle rate dei prestiti:
Procedura | Soggetti ammessi | Necessità accordo creditori | Riduzione debito ottenibile | Durata tipica pagamento | Esdebitazione finale |
---|---|---|---|---|---|
Piano del consumatore (ristrutturazione del consumatore) | Consumatori (debiti personali, anche con qualche debito di impresa se minoritario) | No (omologazione giudiziale, creditori non votano) | Stralcio parziale senza limiti (purché il piano offra ai creditori quanto ottenibile in liquidazione). Possibile anche solo moratoria o dilazione senza stralci, a seconda dei casi. | Generalmente 4–5 anni (ma può essere più breve o un po’ più lungo; mutui su prima casa possono proseguire a parte oltre il piano). | Sì, automatico a completamento del piano (cancella debiti residui non soddisfatti). |
Concordato minore (accordo di ristrutturazione) | Debitori non consumatori (piccoli imprenditori, professionisti, start-up, ecc.); anche consumatori se preferiscono coinvolgere creditori | Sì (richiesta approvazione maggioranza crediti) | Stralcio negoziato con i creditori: di solito significativo, ma dipende dal voto (creditori potrebbero esigere percentuali minime per acconsentire). | Variabile, spesso 3–5 anni. | Sì, a completamento (se il debitore adempie l’accordo, ottiene esdebitazione residui). |
Liquidazione controllata (ex liquidazione patrimonio) | Chiunque sovraindebitato (consumatore o no), volontaria o conseguente ad inammissibilità di altre procedure | Non applicabile (non c’è accordo da votare; è liquidazione giudiziale) | Debiti soddisfatti in base al ricavato della liquidazione dei beni; in genere recupero parziale modesto, il resto è perdonato. | 3 anni (durata standard attività liquidatore). | Sì, al termine (salvo eccezioni per debiti esclusi) – cancella tutto ciò che non è stato pagato. |
Esdebitazione incapiente | Persone fisiche senza beni né reddito (incapienti) meritevoli | Non applicabile (istanza individuale al tribunale) | Totale (0% ai creditori). Il debitore non paga nulla. | Nessun piano di pagamento. Periodo di osservazione 4 anni per sopravvenienze. | Sì, immediata con il decreto (salvo revoca se nei 4 anni compaiono risorse > necessità). |
Nota: Tutte queste procedure richiedono che il debitore non abbia fatto atti di frode ai creditori e non abbia già abusato di tali misure di recente. La meritevolezza e buona fede sono condizioni valutate dal giudice in vario grado. In caso di comportamento malizioso, può essere negato l’accesso o revocati i benefici.
Come si evince dalla tabella, le soluzioni da sovraindebitamento sono strumenti avanzati ma in grado di risolvere situazioni di crisi radicale. D’altro canto, comportano un intervento dell’autorità giudiziaria e la “pubblicità” della procedura (ci sarà un registro delle procedure, i creditori saranno convocati, etc.), oltre al fatto che il debitore dovrà probabilmente rinunciare a parte dei propri beni (specie in liquidazione). Dunque, esse si giustificano solo quando le vie “private” (rinegoziazioni, consolidamenti, moratorie) siano impraticabili o insufficienti.
È importante sottolineare che, una volta avviata una di queste procedure, decade l’obbligo di pagamento delle rate secondo i vecchi contratti: i crediti restano congelati e saranno pagati secondo il piano omologato o la liquidazione. Se invece la procedura non viene omologata (ad es. il giudice rigetta per difetto di requisiti), il debitore può tentare un’altra procedura o resta esposto alle azioni esecutive dei creditori.
Tutele legali e contenzioso: ridurre il debito attraverso la legge
In parallelo alle soluzioni fin qui viste – che potremmo definire “proattive” – il debitore ha anche la possibilità di attivare strumenti di tutela legale volti a contestare aspetti del contratto di finanziamento o il comportamento del creditore, al fine di ottenere un vantaggio economico. In certi casi, questi interventi possono ridurre l’importo dovuto (e quindi, di riflesso, alleggerire le rate o limitarne il numero). Parliamo qui di eccezioni per nullità parziali del contratto, di verifiche su interessi usurari o illeciti, di abusi nella fase esecutiva. Entrare in contenzioso con una banca o finanziaria richiede l’assistenza di un legale esperto in diritto bancario, ma in situazioni problematiche può rivelarsi una leva negoziale importante: ad esempio, sollevare un’eccezione di usura può spingere la banca a rivedere il piano di rientro anziché affrontare l’incertezza di una causa. Esaminiamo i principali profili.
Verifica del tasso d’interesse: usura e anatocismo
Interessi usurari – La Legge n. 108/1996 stabilisce che «sono usurari gli interessi che superano il tasso soglia stabilito dalla legge al momento in cui sono promessi o convenuti». Il tasso soglia d’usura viene pubblicato trimestralmente dal MEF, calcolato sui tassi medi rilevati per categoria di operazione aumentati di una certa maggiorazione (attualmente: media aritmetica dei TEGM + 25%, più 4 punti percentuali, con un cap massimo di 8 punti oltre la media). Se un contratto di prestito prevede interessi (sommando interessi corrispettivi e oneri assimilati) superiori a tale soglia, la conseguenza è la nullità della clausola e la non debenza di alcun interesse: in pratica, il debitore deve restituire solo il capitale senza interessi (art. 1815 c.c. comma 2). Si tratta di una sanzione molto rigorosa a tutela del debitore. Per questo, molte contestazioni legali ruotano intorno al calcolo del TEG (Tasso Effettivo Globale) e all’individuazione del tasso soglia.
Un debitore che voglia ridurre il proprio debito può far verificare a un consulente se, all’epoca della stipula, il tasso applicato inclusi eventuali costi superasse la soglia antiusura. Ad esempio, su piccoli prestiti o su cessioni del quinto, commissioni elevate o polizze obbligatorie possono spingere il costo effettivo oltre la soglia. Oppure, nel caso di interessi moratori (di mora), questi potrebbero essere usurari se fissati a livelli molto alti (es. 18% annuo, quando la soglia magari è 12%). La Corte di Cassazione ha chiarito in più pronunce recenti alcuni punti fermi: (a) la normativa antiusura si applica anche agli interessi di mora, non solo a quelli corrispettivi; (b) ai fini del confronto con la soglia, non si sommano i due tassi (corrispettivo + mora) – vanno valutati separatamente o con specifici criteri, essendo la “sommatoria” un metodo grezzo espressamente ripudiato; (c) se il tasso di mora pattuito eccede la soglia specifica per gli interessi di mora (che di solito si calcola aggiungendo un margine ai tassi medi, margine stimato dal MEF), la clausola di mora è nulla e il debitore dovrà pagare solo gli interessi corrispettivi, mentre la parte di mora usuraria non è dovuta. In altre parole, l’usurarietà degli interessi di mora non travolge l’obbligo di pagare gli interessi corrispettivi validi, ma elimina qualsiasi maggiorazione per ritardo. Se invece già gli interessi corrispettivi convenuti superavano la soglia, allora nessun interesse è dovuto sul capitale (lo rende di fatto un prestito a tasso zero ex lege).
La giurisprudenza ha inoltre affermato che vanno conteggiati nel TEG tutti gli oneri collegati all’erogazione del credito (commissioni, spese, remunerazioni a vario titolo) mentre sono esclusi oneri fiscali. Ad esempio, una commissione di massimo scoperto applicata su un’apertura di credito va considerata ai fini dell’usura: Cassazione 20 giugno 2022 n.19825 ha ritenuto usurario un tasso che, sommando interessi e CMS, superava la soglia. Dunque, se un prestito applica commissioni occulte o costi ricorrenti non computati, il debitore può eccepire che inserendoli il tasso è oltre soglia.
In caso di contenzioso per usura, il vantaggio per il debitore può essere notevole: se dimostra in giudizio che il contratto era usurario ab origine, ottiene la riconduzione a zero degli interessi. Ciò significa, concretamente, che tutte le rate già pagate si imputano a capitale; se ha pagato più del capitale avuto in prestito, potrebbe addirittura avere diritto a ripetere l’indebito. Se invece ancora deve restituire parte del capitale, lo farà senza ulteriori interessi. Capite bene che questo abbassa fortemente l’esborso totale. In fase stragiudiziale, l’allegazione di usurarietà può indurre la banca a transigere, ad esempio riducendo il tasso o stralciando gli interessi di mora accumulati.
Limiti pratici: Non sempre è facile determinare l’usura. Spesso serve una consulenza tecnica. Inoltre, negli ultimi anni le banche sono state più caute nel tenere i tassi entro soglia. Ci sono state anche interpretazioni normative oscillanti (ad esempio sul calcolo del Teg nelle cessioni del quinto includendo o meno il costo assicurativo; dopo il caso Lexitor e i chiarimenti di Banca d’Italia, oggi quel costo va incluso pro-quota). Ma se il prestito è datato e all’epoca i tassi erano più alti, vale la pena controllare le soglie storiche e il TAEG del contratto.
Un altro aspetto legato è l’usura sopravvenuta: se i tassi soglia scendono col tempo e un tasso contrattuale variabile supera successivamente la soglia. Su questo la Cassazione (SU 24675/2017) ha detto che l’usura si valuta solo al momento della pattuizione iniziale, quindi un tasso lecito all’inizio non diventa illegale dopo, ma in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta il debitore può semmai chiedere la rinegoziazione o la risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.). Tuttavia, la via dell’eccessiva onerosità è stretta: è necessario un evento straordinario e imprevedibile che alteri l’equilibrio; l’oscillazione dei tassi in sé è ritenuta fisiologica e di solito esclusa come causa.
Interessi anatocistici e ammortamento alla francese – L’anatocismo è la capitalizzazione degli interessi su interessi (far pagare interessi composti). In ambito di prestiti rateali “alla francese” (quelli con rata costante comprendente quota capitale e quota interessi), alcuni hanno sostenuto che la struttura di calcolo comporti un’illecita capitalizzazione degli interessi ad ogni rata. In realtà, la prevalente giurisprudenza (es. Trib. Alessandria 9/11/2022) ha confermato che l’ammortamento francese è lecito e non genera anatocismo vietato, perché la rata è determinata sulla base di formule finanziarie che non prevedono interessi su interessi scaduti, ma solo interessi maturati sul capitale residuo. Quindi, questa strada di contestazione raramente porta frutti. Diverso è il caso dei conti correnti in passato, dove l’anatocismo era praticato (interessi trimestrali addebitati su conto generavano altri interessi). Oggi per i contratti di finanziamento il divieto di anatocismo dell’art. 1283 c.c. si interpreta nel senso che, se il debitore paga in ritardo le rate, non si possono calcolare interessi di mora sugli interessi di mora scaduti (no anatocismo sugli interessi moratori, se non dal momento della domanda giudiziale ex 1283 c.c.). Questo è generalmente rispettato: in pratica vi applicano mora solo sul capitale scaduto.
In sintesi, sul fronte interessi, l’arma principale del debitore è l’eccezione di usura, da valutare con un tecnico. Se fondata, può ridurre drasticamente il debito e quindi indirettamente abbassare a posteriori l’onere (si pensi a un debitore citato in giudizio per €5.000 di residuo prestito: se prova che c’erano tassi usurari, potrebbe dover restituire solo magari €3.000 di capitale residuo senza interessi, con uno “sconto” legale notevole).
Vizi di forma nel contratto: Trasparenza, TAEG, clausole invalide
I contratti di credito ai consumatori devono rispettare rigorosi obblighi di trasparenza e informativa (TUB art. 117 e 125-bis, Istruzioni Bankitalia). Ad esempio, va indicato chiaramente il TAEG/ISC (Tasso Annuo Effettivo Globale o Indice Sintetico di Costo) che rappresenta il costo totale del credito su base annua. Se il TAEG indicato nel contratto è sbagliato o non include voci obbligatorie di costo, ci si può domandare quali siano le conseguenze. In passato alcuni Arbitrati Bancari e giudici avevano sanzionato l’errata indicazione del TAEG con l’applicazione del tasso BOT ex art. 117 TUB comma 6 (clausole non chiare -> tasso sostitutivo legale). Tuttavia, la giurisprudenza recente della Cassazione propende per vedere il TAEG come elemento informativo, la cui inesattezza non determina nullità del contratto né automatica gratuità, a meno che l’errore sul TAEG celi in realtà costi occulti (in tal caso potrebbe configurare usura o violazione di trasparenza con rimedi specifici). Insomma, non sempre il fatto che nel contratto ci sia scritto un TAEG leggermente inferiore al reale consente al debitore di non pagare interessi. È un terreno abbastanza tecnico e con orientamenti variegati: ad esempio, la Corte di Giustizia UE (caso Lexitor) ha sancito che in caso di estinzione anticipata di un credito il consumatore ha diritto alla riduzione proporzionale di tutti i costi del finanziamento, non solo quelli dipendenti dalla durata (in Italia però nel 2021 è stata emanata una norma interpretativa restrittiva, contestata, che limita il rimborso di alcuni costi iniziali). Ma questa è un’altra partita, riguarda i rimborsi in caso di chiusura anticipata, non la rata.
Altri vizi contrattuali possono essere: la mancanza di indicazione analitica delle condizioni economiche (es. tasso pattuito per relationem “usi piazza” – clausola nulla ex art. 117 TUB, che porta a sostituire il tasso con quello minimo tra BOT o tasso legale); l’assenza di pattuizione scritta di commissioni (nullità delle stesse). Se un debitore scopre di aver pagato commissioni non valide, può chiederne la restituzione o l’imputazione al capitale. Queste eccezioni possono ridurre il saldo dovuto.
Un altro caso: polizze abbinate obbligatorie non dichiarate. Se la banca ha imposto una polizza costosa spacciandola per facoltativa ma in realtà vincolante, c’è stata pratica commerciale scorretta e violazione del TUB. Ciò potrebbe dare luogo a reclamo e rimborso premio non goduto.
Va menzionato che esiste l’Arbitro Bancario Finanziario (ABF), sistema stragiudiziale dove il cliente può presentare ricorso per controversie fino a €200.000. L’ABF ha deciso molti casi su TAEG, polizze, commissioni, spesso a favore dei consumatori. Ad esempio, ABF Collegio di Roma in varie decisioni ha ritenuto che l’indicazione errata del TAEG comporta il ricalcolo degli interessi al tasso BOT (sanzione civilistica), mentre altre decisioni hanno escluso questa sanzione se l’ISC ha funzione solo informativa. In ogni caso, l’ABF può ordinare rimborsi di quote interessi indebitamente percepite. Anche se le decisioni ABF non creano precedente vincolante come una legge, molti intermediari le rispettano e preferiscono evitare pronunce sfavorevoli.
Decadenza dal beneficio del termine e azioni esecutive
Quando un debitore non paga le rate, la conseguenza contrattuale di solito prevista è la decadenza dal beneficio del termine (DBT), ovvero la perdita del diritto al pagamento dilazionato: il debito residuo diventa esigibile in un’unica soluzione. La legge (per es. art. 40 TUB per i mutui e finanziamenti) prevede che questo possa avvenire solo al verificarsi di certi inadempimenti di una certa gravità. Per i mutui ipotecari, come visto prima, occorre il mancato pagamento di 7 rate mensili (anche non consecutive) con ritardi oltre 30 giorni, oppure un ritardo continuato di oltre 180 giorni. Per i prestiti al consumo chirografari, spesso i contratti richiamano analogamente la soglia di 6-7 rate non pagate (o un ammontare di debito scaduto > 1/8 del totale). Ad esempio, molti finanziamenti al consumo riportano: “il mancato pagamento di almeno due rate determina la risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c.” oppure fanno riferimento all’art. 40 TUB analogicamente. Secondo il codice civile (art. 1186 c.c.), anche al di fuori dei casi pattizi, il creditore può chiedere immediatamente tutto se il debitore diviene insolvente o diminuisce le garanzie.
Il pignoramento è la conseguenza successiva: una volta risolto il contratto per inadempimento, il creditore, munito ad es. di un decreto ingiuntivo, può pignorare i beni del debitore. Qui il discorso “abbassare la rata” prende un’altra forma: se il debitore lavora come dipendente, il creditore potrà pignorare lo stipendio nei limiti di 1/5 (20%) per i debiti ordinari. Ciò significa che, per assurdo, se la rata del prestito era il 50% dello stipendio e il debitore ha lasciato decadere il prestito finendo in esecuzione, ora il giudice limiterà la trattenuta al 20% dello stipendio. È come dire che “forzosamente” la rata è stata abbassata a un quinto dello stipendio (con l’intervento del tribunale). Naturalmente, questo non è un percorso privo di danni: il debitore sarà segnalato cattivo pagatore, avrà spese legali e interessi di mora accumulati, e il pignoramento sullo stipendio dura finché non estingue l’intero debito (quindi magari per molti anni). Però è interessante notare che il sistema prevede un limite all’esposizione mensile in fase esecutiva. Lo stesso vale per la pensione (pignorabile al 20% sulla parte eccedente il minimo vitale) e per altre entrate. Se ci sono più pignoramenti concorrenti, la somma delle trattenute può arrivare al massimo al 50% dello stipendio.
Ovviamente non si suggerisce di farsi pignorare per ridurre la rata – sarebbe una strategia autolesionista. Tuttavia, in termini pratici, qualche debitore in totale affanno decide di lasciar “andare a sofferenza” il prestito, sapendo che poi in busta paga non potranno levargli più di un quinto. Questo può garantire la sopravvivenza economica, ma comporta di contro un allungamento potenzialmente enorme dei tempi di pagamento (perché il quinto potrebbe essere molto inferiore alla rata contrattuale, quindi servirebbero più anni per rimborsare con quella percentuale, più gli interessi legali nel frattempo) e rovina della reputazione creditizia.
Nel contenzioso esecutivo, il debitore ha poche leve se non quella di cercare un accordo transattivo con il creditore (anche all’ultimo momento, ad es. in sede di pignoramento immobiliare si può proporre alla banca di sospendere l’asta e accettare un saldo parziale). Dal 2021 alcune norme hanno incentivato soluzioni alternative: per i pignoramenti immobiliari, la già citata normativa consente di rinegoziare il mutuo prima casa pignorata (ma qui parliamo di mutuo, fuori dal nostro campo). Per i pignoramenti presso terzi (stipendi, conti) non ci sono specifiche previsioni di “piano del debitore” come in altri paesi. L’unica potrebbe essere quella di chiedere rateizzazioni in sede di esecuzione fiscale (se il creditore è Agenzia Entrate Riscossione, molte norme permettono dilazioni amministrative), ma per creditori privati no.
Una volta terminata l’esecuzione (ad esempio l’immobile venduto, lo stipendio pignorato per l’importo dovuto), il debito si chiude. Se invece rimane incapiente (es. asta deserta o importo ricavato insufficiente), il creditore potrebbe tentare altre azioni o cedere il credito a società di recupero che potrebbero a loro volta proporre un saldo e stralcio.
Saldo e stralcio
Un metodo spesso utilizzato fuori dalle aule giudiziarie per chiudere posizioni debitorie è il saldo e stralcio. Consiste in un accordo transattivo tra debitore e creditore per cui il debitore paga in un’unica soluzione (o poche soluzioni ravvicinate) una somma inferiore al dovuto e il creditore accetta tale importo a definizione completa del debito, rinunciando a pretendere il resto. Dal lato del debitore, il saldo e stralcio è vantaggioso perché riduce l’ammontare totale e termina subito la vicenda (niente più rate future); dal lato del creditore, si ottiene subito una somma liquida evitando ulteriori incertezze e costi di recupero.
Quando è fattibile il saldo e stralcio? Di solito dopo che il debitore è già in sofferenza con le rate, e magari il credito è stato classificato a perdita o ceduto a un recuperatore. Le finanziarie specializzate in NPL (crediti deteriorati) comprano crediti a prezzi bassi (anche 10-20% del valore nominale) e quindi possono accettare stralci favorevoli al debitore (a loro generano comunque profitto). Ad esempio, un debitore con €20.000 di residuo prestito non pagato da tempo potrebbe negoziare con la società di recupero la chiusura a saldo accettando di pagare €10.000 in un’unica soluzione ottenendo l’atto di quietanza che lo libera dal debito. Percentuali tipiche di stralcio vanno dal 30% al 70% del dovuto a seconda della “forza contrattuale” delle parti (più il debitore è in difficoltà conclamata e privo di beni, maggiore lo sconto che potrebbe spuntare, perché il creditore rischia di non recuperare nulla in caso di insolvenza conclamata).
Il saldo e stralcio abbassa la rata in senso lato, perché di fatto elimina tutte le rate future in cambio di un esborso concentrato (che potrebbe anche provenire da terzi, parenti, ecc.). Certo, serve trovare la somma per stralciare: talvolta i familiari aiutano, o si vendono alcuni beni per racimolare la proposta. È fondamentale formalizzare per iscritto l’accordo, preferibilmente facendo inserire la formula che il pagamento di €X avverrà entro data Y e sarà “a saldo e stralcio” di ogni pretesa, con liberatoria integrale del debitore. Si consiglia di far risultare anche la volontà del creditore di procedere all’eventuale cancellazione delle segnalazioni negative (cosa che però non sempre fanno spontaneamente, specie se la segnalazione era già avvenuta per morosità).
Spesso i creditori preferiscono un uovo oggi (il saldo stralciato) alla gallina domani (incerte cause o pignoramenti lunghi). Il debitore può avvalersi di un legale o di un’associazione dei consumatori per condurre la trattativa in modo efficace e credibile. Da evitare assolutamente di promettere saldo stralcio e poi non pagare la somma concordata: si perderebbe definitivamente la fiducia e il creditore tornerebbe all’attacco magari chiedendo il massimo.
Effetti sull’eventuale garante: se il prestito aveva un garante o coobbligato, è opportuno includere nell’accordo di saldo che anche il garante viene liberato. In teoria, se non incluso, il creditore potrebbe poi rivalersi sul fideiussore per la parte “stralciata”. Di solito però nei verbali di transazione ben fatti, specie con finanziarie, si dichiara che l’accordo libera chiunque dagli obblighi residui. Attenzione anche a eventuali effetti fiscali: lo stralcio di debiti può generare una “rinuncia” tassabile come reddito diverso per il debitore (ma per debiti con banche vi sono esenzioni fiscali in certi casi, e comunque per il debitore sovraindebitato il problema è relativo).
Riabilitazione creditizia: Un debitore che abbia stralciato il debito può successivamente chiedere alla Centrale Rischi privata (CRIF, Experian, etc.) la registrazione dell’avvenuto saldo stralcio. Purtroppo, la dicitura “saldo parziale” rimane e la posizione rimarrà visibile per un certo tempo (per le sofferenze bancarie si parla di 36 mesi dalla data di aggiornamento a saldo). Non c’è modo di farla sparire prima; diffidare da chi promette miracoli in tal senso. Solo il tempo e la costruzione di nuovi dati positivi possono riabilitare la reputazione finanziaria.
Domande frequenti (FAQ)
Di seguito, alcune delle domande e risposte più frequenti in materia di riduzione delle rate dei prestiti, per chiarire gli ultimi dubbi dal punto di vista pratico e giuridico del debitore.
D: Posso obbligare la banca a ridurre la rata del mio prestito?
R: In generale no, non puoi costringere la banca a modificare le condizioni contrattuali di un prestito personale in corso. La rinegoziazione è una scelta volontaria della banca, che la legge non impone per i comuni finanziamenti chirografari. Fanno eccezione solo alcuni casi particolari previsti dalla legge: ad esempio, la cessione del quinto può essere rinnovata anticipatamente se ricorrono i requisiti di legge (durata e rate pagate); oppure, per i mutui ipotecari prima casa pignorati esiste una procedura di rinegoziazione ex art. 41-bis L.157/2019, ma non riguarda i prestiti non garantiti. Fuori da ciò, puoi chiedere una modifica (es. allungamento, riduzione tasso) ma la banca è libera di accettare o rifiutare. Se rifiuta, puoi cercare un rifinanziamento con un’altra banca o valutare altre soluzioni (consolidamento, piano sovraindebitamento, ecc.).
D: La “surroga” vale anche per i prestiti personali o solo per i mutui?
R: La surroga propriamente detta (portabilità senza costi) è prevista dalla legge solo per i mutui immobiliari (art. 120-quater TUB). Per i prestiti personali non c’è una surroga con quelle tutele. Tuttavia, in pratica puoi fare un’operazione analoga: trovare un altro istituto che ti conceda un nuovo prestito a condizioni migliori, con cui estingui quello vecchio. In questo senso, parliamo di rifinanziamento del prestito. Tieni presente che dovrai comunque rispettare le clausole di estinzione anticipata del vecchio (pagare l’eventuale penale dell’1% se prevista) e il nuovo finanziatore potrà addebitarti le spese di istruttoria o polizza. Diversi intermediari offrono prodotti chiamati “Prestito Rinnovo” o “Sostituzione prestiti”: informati sui costi e condizioni per capire il vantaggio effettivo, guardando sempre al TAEG delle offerte.
D: Ho più prestiti attivi: meglio il consolidamento o mantenere le rate separate?
R: Il consolidamento debiti può semplificarti la vita e ridurre la rata totale, ma spesso a costo di pagare di più interessi sul lungo termine. Se attualmente stai gestendo le rate separate senza troppe difficoltà e senza ritardi, potresti anche decidere di non consolidare, specie se i prestiti sono prossimi a terminare o hanno tassi convenienti. Se invece la somma delle rate diventa insostenibile, il consolidamento ti dà respiro immediato. Valuta i pro e contro: consolidando, quasi sicuramente allungherai la durata media del debito e pagherai più interessi complessivi, e se ti rivolgi a una finanziaria, il tasso potrebbe essere mediamente alto. Esempio: se hai due prestiti con rate da €250 e €150 (totale €400) e li consolidi in uno da €300 al mese, avrai €100 in più al mese disponibili, ma per magari 5 anni extra. Chiediti se preferisci “finire prima” pagando di più ora, o “pagare meno al mese ma più a lungo”. Inoltre, verifica se hai un buon credit score: se hai avuto ritardi di pagamento, il consolidamento potrebbe non essere approvato o costare caro. In tal caso, valutare anche la via del piano del consumatore (se sei un privato) che può ridurre le rate in base al reddito.
D: Cosa succede se non pago più le rate del prestito?
R: Se smetti di pagare, inizialmente la banca/finanziaria ti manderà solleciti. Dopo un certo numero di rate non pagate (di solito 6-7, o raggiunto un certo importo arretrato), scatterà la decadenza dal beneficio del termine: l’intero debito residuo diventa esigibile in una volta. Verrai segnalato come cattivo pagatore nelle banche dati dei crediti a consumo (CRIF ecc., solitamente dopo due rate mensili non pagate consecutive scatta la prima segnalazione di “ritardo”, e dopo 3 rate di “sofferenza”). A questo punto, o trovi un accordo di saldo/recupero, oppure il creditore agirà legalmente: otterrà un decreto ingiuntivo e potrà attivare un pignoramento sui tuoi beni (conto corrente, stipendio/pensione, autoveicoli, immobili). Il pignoramento dello stipendio comporta che ti prelevino forzosamente fino a 1/5 dello stipendio netto; il pignoramento del conto può bloccare le somme depositate al momento, etc. Non pagando, insomma, la situazione peggiora: maturano interessi di mora (spesso più alti dei normali) – salvo il caso in cui fossero usurari, ma dovresti farli eventualmente valere in giudizio – e pagherai spese legali. Detto ciò, a volte fermare i pagamenti è l’unica strada se devi scegliere tra la rata e i beni di prima necessità: in quel caso è essenziale che tu cerchi assistenza (ad es. presso una associazione consumatori o un OCC) per valutare soluzioni come un piano del consumatore o un saldo e stralcio. Non ignorare le comunicazioni legali e non aspettare l’ufficiale giudiziario alla porta: attivati subito per gestire la crisi, perché dopo sarà più difficile anche negoziare (il creditore, avendo già un titolo esecutivo, sarà meno disposto a sconti).
D: È vero che se non pago un prestito, dopo qualche anno va in prescrizione e non me lo chiedono più?
R: La prescrizione ordinaria dei crediti è di 10 anni per le somme di denaro da contratto. Quindi, tecnicamente, se il creditore per 10 anni non agisse né sollecitasse formalmente il pagamento, il debito si prescriverebbe e non sarebbe più esigibile. Però è una situazione rara: le banche/finanziarie cedono i crediti a società di recupero, e queste ogni tot tempo inviano una raccomandata o PEC di costituzione in mora che interrompe la prescrizione, facendo ripartire il termine da capo. Inoltre, se ottengono un decreto ingiuntivo (titolo giudiziale), la prescrizione diventa di 10 anni dal passaggio in giudicato del decreto. Insomma, non fare affidamento sulla prescrizione a meno che davvero il creditore “si dimentichi” di te per un decennio (cosa improbabile, verranno almeno a notificare un sollecito). Piuttosto, meglio affrontare il problema tramite le vie legali che abbiamo detto, per chiuderlo prima.
D: Ho scoperto che il tasso del mio prestito è sopra la soglia d’usura. Cosa devo fare per farlo valere?
R: Se sei convinto di ciò (magari hai fatto fare un calcolo peritale e confrontato con i decreti ministeriali dell’epoca), puoi agire in due modi: stragiudiziale o giudiziale. Stragiudizialmente, potresti scrivere (meglio tramite avvocato) alla finanziaria esponendo la questione e chiedendo la rinegoziazione del debito eliminando gli interessi usurari, quindi proponendo di pagare solo il capitale (magari già decurtato di interessi pagati in passato). Qualcosa si muove a volte. In alternativa, in sede giudiziale, l’usura è un’eccezione che puoi sollevare se la banca ti fa causa (ad esempio in opposizione a decreto ingiuntivo) oppure attivamente puoi tu come attore chiedere l’accertamento dell’usurarietà per ottenere la restituzione degli interessi pagati in più. Tieni però presente che le questioni di calcolo usura non sono banali: le banche difendono la legittimità delle loro rilevazioni e spesso servono CTU (consulenze tecniche) lunghe. Vale la pena se ci sono cifre importanti in ballo. Nel frattempo, se c’è un contenzioso in corso, potresti chiedere la sospensione delle azioni esecutive facendo valere che c’è un fumus di nullità della pretesa. È un campo dove serve un legale specializzato. Se riesci a dimostrare usura, come detto, potresti ridurre il debito agli importi di solo capitale senza interessi (o senza interessi di mora se sono quelli ad essere usurari). Ci sono anche associazioni antiusura che aiutano in queste battaglie legali.
D: Come posso evitare di indebitarmi troppo in futuro?
R: Questa domanda esula dalla pura legalità, ma è fondamentale. Molti che cercano di abbassare le rate ormai sono sovraindebitati. Il consiglio generale è: fai un budget delle tue entrate e spese; la somma di tutte le tue rate non dovrebbe mai superare, prudenzialmente, il 30-35% del tuo reddito netto mensile. Se superi quella soglia, sei a rischio. Prima di prendere un nuovo finanziamento, valuta se puoi tagliare spese o risparmiare per l’acquisto. Se proprio serve credito, preferisci soluzioni con rate sostenibili anche nel peggior scenario (es. tasso variabile che aumenta, o entrata che diminuisce). Tieni sempre un piccolo fondo emergenze: se perdi il lavoro o hai imprevisti, quel fondo ti permette di pagare le rate per qualche mese mentre rinegozi o trovi alternative. Inoltre, informati sui tuoi diritti: ad esempio, se hai estinto anticipatamente un prestito, hai diritto al rimborso delle commissioni non maturate (secondo la normativa sul credito al consumo, in attuazione anche della sentenza Lexitor – benché su questo in Italia ci sia stata come dicevamo una restrizione, l’Arbitro Bancario di solito riconosce buona parte dei rimborsi). Recuperare quei soldi può aiutarti a ridurre altri debiti. Infine, se vedi che la situazione sta precipitando, non vergognarti di chiedere aiuto: esistono sportelli di consulenza sul sovraindebitamento (presso i Consigli degli Ordini degli Avvocati, associazioni no-profit, comuni) che offrono orientamento gratuito e possono indirizzarti verso un OCC per valutare un piano. Meglio affrontare di petto il problema con strumenti legali, che lasciare che i debiti crescano in silenzio.
D: A chi mi posso rivolgere per un aiuto concreto?
R: Dipende dalla natura del problema. Per una rinegoziazione o consolidamento, puoi rivolgerti a un consulente del credito o direttamente a banche/finanziarie (attenzione a chi chiede soldi in anticipo per “trovare prestiti”: affidati a intermediari finanziari iscritti in Banca d’Italia). Per le procedure di sovraindebitamento, devi contattare un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) della tua zona: ce ne sono presso molti Ordini professionali (avvocati, commercialisti) o Camere di Commercio. L’elenco è sul sito ministeriale della crisi di impresa o presso il tribunale. L’OCC ti assegnerà un professionista che ti guiderà nel piano del consumatore o altro, calcolando cosa puoi pagare e predisponendo la pratica. Per le azioni legali di contestazione (usura, ecc.), serve un avvocato esperto in diritto bancario. Puoi chiedere al tuo ordine degli avvocati se esiste uno sportello di orientamento sul tema. Anche le associazioni dei consumatori (Adusbef, Federconsumatori, Unione Nazionale Consumatori, ADICONFI, etc.) spesso si occupano di assistenza su prestiti e possono indirizzarti. Se hai problemi di gioco d’azzardo o usura criminale, esistono fondazioni antiusura e enti locali (in alcune regioni c’è un numero verde antiusura) che offrono sia supporto finanziario tramite il Fondo di prevenzione usura, sia consulenza psicologica e legale. Ricorda: non sei il solo in queste difficoltà; l’importante è non isolarsi e sfruttare i rimedi che l’ordinamento oggi offre per non rimanere schiacciati dai debiti.
Fonti
- Arbitro Bancario Finanziario – Collegio di Napoli – Decisione n. 7569 del 09/09/2016 – Caso in cui un cliente lamentava il diniego di rinegoziazione; la banca ha ribadito la natura discrezionale della rinegoziazione e l’ABF ha riconosciuto la correttezza della banca purché vengano fornite motivazioni al cliente.
La rata del prestito è troppo alta? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Quando la rata di un prestito personale o aziendale pesa troppo sul bilancio familiare o aziendale, è il momento di valutare soluzioni concrete per alleggerire il carico.
Abbassare la rata è possibile e spesso previsto nei contratti stessi, ma va fatto nel modo corretto, senza compromettere la tua affidabilità creditizia.
Le strade principali sono:
- Rinegoziare il prestito con la banca o la finanziaria
- Allungare la durata del finanziamento, con conseguente riduzione dell’importo mensile
- Consolidare i debiti in un’unica rata più sostenibile
- Attivare una procedura di sovraindebitamento se la tua situazione è gravemente compromessa
Con l’assistenza giusta di Studio Monardo, puoi intervenire in tempo, evitare ritardi nei pagamenti e recuperare la serenità finanziaria.
🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo
📂 Analizza il contratto del prestito e la tua reale capacità di rimborso
📑 Ti aiuta a formulare una proposta chiara e motivata alla banca o alla finanziaria
⚖️ Ti assiste nei rapporti con i creditori e nella gestione di eventuali rinegoziazioni
✍️ Predispone un piano di rientro sostenibile, anche in via giudiziale
🔁 Ti rappresenta se sei in difficoltà grave e hai bisogno di accedere alla procedura per sovraindebitamento
🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto bancario e ristrutturazione del debito
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Difensore in procedimenti per riduzione e ricalcolo delle rate
✔️ Autore di accordi approvati con abbattimento delle esposizioni mensili
✔️ Consulente per famiglie, lavoratori, imprenditori e pensionati in difficoltà
Conclusione
Abbassare la rata di un prestito è possibile, se ti affidi a un esperto che conosce i tuoi diritti e i margini di trattativa.
Con l’Avvocato Giuseppe Monardo, puoi trovare la soluzione giusta per riequilibrare le tue finanze, difenderti da situazioni di crisi e riprendere il controllo delle tue uscite mensili.
📞 Richiedi ora una consulenza riservata con l’Avvocato Giuseppe Monardo: