Hai ricevuto un avviso di accertamento per presunte fatture false e ti stai chiedendo come difenderti? L’Agenzia delle Entrate ti contesta l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e temi pesanti conseguenze fiscali o penali?
Le contestazioni per fatture inesistenti sono tra le più gravi in ambito tributario. Possono colpire tanto chi emette quanto chi riceve la fattura e, se non vengono gestite correttamente, possono portare a sanzioni rilevanti, recuperi d’imposta, accertamenti induttivi e persino denunce penali.
Cosa si intende per fatture per operazioni inesistenti?
Sono fatture che documentano:
– Operazioni mai avvenute
– Prestazioni mai rese
– Quantità o valori falsati
– Soggetti diversi da quelli realmente coinvolti
Possono essere “oggettivamente inesistenti” (quando il fatto non è mai accaduto) oppure “soggettivamente inesistenti” (quando chi ha emesso la fattura non è il reale prestatore o cedente).
Come si difende il contribuente?
In caso di accertamento, il contribuente ha diritto a:
– Dimostrare l’effettiva esistenza dell’operazione, anche con mezzi indiretti (contratti, bonifici, consegne, corrispondenza, testimonianze)
– Contestare la ricostruzione dell’Ufficio, specie se basata solo su presunzioni o automatismi
– Chiedere l’annullamento dell’atto se carente di motivazione o notificato in modo irregolare
Cosa succede se non presenti opposizione nei termini?
L’avviso di accertamento diventa definitivo e l’imposta richiesta diventa esigibile. In caso di importi rilevanti o recidiva, l’Agenzia può segnalare il caso alla Procura per reato tributario.
E se l’operazione c’è stata ma hai ricevuto la fattura da un soggetto “di comodo”?
Devi dimostrare che non eri a conoscenza della frode e che hai agito in buona fede. Il Fisco tende a presumere che chi beneficia della detrazione IVA o deduzione del costo fosse consapevole dell’illecito: per questo è fondamentale conservare e produrre documentazione puntuale e coerente.
Come può aiutarti lo Studio Monardo?
Verifichiamo se l’accertamento è fondato, se vi sono elementi per impugnarlo e se l’Agenzia ha rispettato i limiti di legge. Difendiamo i tuoi diritti in sede amministrativa e giudiziale e ti assistiamo anche in caso di procedimento penale collegato.
Hai ricevuto una contestazione per fatture inesistenti e non sai come reagire? Vuoi sapere se puoi difenderti in modo efficace?
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Introduzione
Le fatture per operazioni inesistenti rappresentano uno dei fenomeni più insidiosi nell’ambito dell’evasione fiscale in Italia. Si tratta di documenti contabili emessi a fronte di operazioni commerciali mai avvenute, in tutto o in parte, oppure avvenute con soggetti diversi da quelli indicati in fattura. L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza considerano questa pratica una grave forma di frode, poiché consente di creare costi fittizi e crediti IVA indebiti, alterando il reddito d’impresa dichiarato e il debito d’imposta effettivo. Le conseguenze per chi utilizza o emette tali fatture false sono estremamente severe: da un lato l’amministrazione finanziaria può procedere al recupero delle imposte evase con accertamenti tributari e sanzioni amministrative molto pesanti; dall’altro, sotto il profilo penale, l’emissione e l’utilizzo di fatture false configurano reati tributari specifici, puniti con reclusione e altre misure afflittive.
Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – offre un’analisi approfondita e aggiornata su come difendersi efficacemente da un accertamento fiscale per fatture inesistenti, dal punto di vista del contribuente (debitore) che si vede contestare tale violazione. Affronteremo dapprima le definizioni e le tipologie di operazioni inesistenti, per poi esaminare la normativa di riferimento (tributaria e penale) e i più recenti orientamenti giurisprudenziali. Illustreremo il funzionamento dell’accertamento fiscale in questi casi, soffermandoci sul tema cruciale dell’onere della prova e sul ruolo (limitato) della buona fede del contribuente. Spiegheremo quindi le strategie difensive a disposizione del contribuente, sia in sede amministrativa che contenziosa, includendo consigli pratici su come documentare la reale esistenza delle operazioni e come prevenire contestazioni (ad esempio con un’adeguata due diligence sui fornitori). Saranno esposti i profili sanzionatori amministrativi (imposte, sanzioni pecuniarie) e i profili penali di responsabilità, con focus sulle fattispecie di reato previste (dichiarazione fraudolenta mediante fatture false e emissione di fatture false) e sulle più recenti novità normative (aumento delle pene dal 2019, estensione della non punibilità in caso di pagamento integrale del debito tributario, ecc.).
All’interno della guida troverete anche domande e risposte frequenti (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni, tabelle riepilogative che sintetizzano i concetti chiave (ad es. differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, confronto tra sanzioni amministrative e penali, ripartizione degli oneri probatori, ecc.), nonché alcune simulazioni pratiche di casi italiani, per capire in concreto come impostare la difesa in differenti scenari. L’obiettivo è fornire un quadro completo e aggiornato – al livello avanzato richiesto – che permetta al contribuente di conoscere i propri diritti e strumenti di tutela, e al professionista di disporre di riferimenti normativi e giurisprudenziali autorevoli per affrontare con successo questo tipo di controversie tributarie.
Importante: tutte le fonti normative e giurisprudenziali menzionate (leggi, decreti, sentenze, circolari, ecc.) sono indicate nel testo con appositi riferimenti e sono elencate per esteso nella sezione Fonti a fine guida, per agevolare ulteriori approfondimenti.
Cosa si intende per “operazioni inesistenti”
Il termine “operazioni inesistenti” in ambito fiscale indica quelle operazioni economiche (cessioni di beni o prestazioni di servizi) che non sono state realmente effettuate, in tutto o in parte, oppure che sono avvenute tra soggetti diversi da quelli indicati nei documenti fiscali. In altre parole, si tratta di fatture false: documenti emessi per simulare operazioni fittizie, al fine di creare vantaggi fiscali indebiti (come la detrazione di IVA non dovuta o la deduzione di costi mai sostenuti). La normativa e la giurisprudenza italiana distinguono principalmente due tipologie di operazioni inesistenti, con caratteristiche e implicazioni leggermente differenti:
- Operazioni oggettivamente inesistenti – Sono quelle operazioni che non sono mai avvenute nella realtà. La fattura è totalmente falsa, in quanto documenta una cessione di beni o una prestazione di servizi che in concreto non c’è stata: né i beni sono mai stati consegnati, né il servizio è stato reso. Ad esempio, Tizio emette fattura a Caio per una consulenza mai svolta, oppure Alfa Srl fattura a Beta Srl la vendita di macchinari che in realtà non sono mai stati venduti né consegnati. In tali casi il documento è falso oggettivamente, perché attesta eventi economici inesistenti sotto ogni profilo. Chi utilizza queste fatture crea costi fittizi (riducendo artificiosamente l’utile imponibile) e crediti IVA fittizi. Chi le emette normalmente lo fa dietro compenso, consentendo al destinatario di evadere imposte, senza che vi sia alcuna effettiva movimentazione di beni o servizi.
- Operazioni soggettivamente inesistenti – In questo caso un’operazione economica è avvenuta realmente, ma tra soggetti diversi da quelli riportati in fattura. Tipicamente lo schema è il seguente: un soggetto effettua effettivamente una cessione di beni o servizi al destinatario finale, ma la fattura viene emessa da un altro soggetto (di regola una società “cartiera” o prestanome) che formalmente si interpone nella transazione. In sostanza, la fattura è “soggettivamente” falsa perché il cedente/prestatore indicato non è quello reale. Un esempio classico è la “frode carosello”: la società Alfa acquista beni dall’estero e li rivende a Beta, ma per evadere l’IVA inserisce fittiziamente un soggetto intermedio (la cartiera Gamma) che emette fattura a Beta. Beta riceve merce effettiva, ma la fattura proviene da Gamma (che non ha svolto alcun ruolo reale se non cartolare). Oppure, un’impresa affida lavori in subappalto a ditte non autorizzate o in nero, ma si procura fatture da una ditta compiacente che non ha eseguito i lavori, per poter dedurre il costo e detrarre l’IVA. In questi casi l’operazione economica c’è stata (il bene è stato consegnato, il lavoro eseguito), ma non con il soggetto indicato sulla fattura.
Esistono anche forme “miste” o parzialmente inesistenti, ad esempio quando la fattura indica importi superiori al reale (sovrafatturazione) oppure descrive beni/servizi diversi da quelli effettivamente forniti, al fine di gonfiare i costi deducibili. In tal caso la fattura è considerata falsa limitatamente alla parte non corrispondente al vero (per la differenza di importo o di qualità dei beni). Tuttavia, ai fini fiscali, anche la sovrafatturazione viene assimilata alle operazioni inesistenti per la parte fittizia: l’IVA relativa alla maggiorazione non corrisponde a una reale operazione imponibile e diviene indetraibile, mentre il costo eccedente il reale non è deducibile in quanto privo di inerenza effettiva.
Di seguito una tabella riepilogativa delle differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti:
Caratteristica | Oggettivamente inesistente | Soggettivamente inesistente |
---|---|---|
Esistenza dell’operazione | Nessuna operazione reale: il bene/servizio non è mai stato scambiato | Operazione reale avvenuta, ma con un soggetto diverso da quello in fattura |
Falsità della fattura | Totale: documento interamente fittizio | Parziale: falso il soggetto emittente (cedente/prestatore non è quello reale) |
Esempio tipico | Fattura per merce mai consegnata o servizio mai reso | Fattura emessa da “cartiera” per coprire operazione svolta da altro fornitore |
Scopo fiscale | Creare costi e crediti IVA fittizi dal nulla | Detrarre costi/IVA reali ma occultando il vero fornitore (spesso evasore IVA) |
Deducibilità costi | NO, costi fittizi del tutto indeducibili | Sì in linea di principio, se il costo è reale e inerente (anche se fornitore fittizio), ma soggetto a condizioni (vedi testo) |
Detraibilità IVA | NO, IVA indetraibile (operazione assente) | NO in linea di principio, IVA indetraibile (IVA versata a soggetto non legittimato), salvo prova di totale buona fede (vedi oltre) |
Prova richiesta al Fisco | Provare che l’operazione non è avvenuta | Provare che il fornitore è fittizio e che l’acquirente era consapevole della frode |
Difesa del contribuente | Provare che l’operazione c’è stata davvero (es. consegna, uso beni) | Provare di aver agito in buona fede e con diligenza, ignaro della frode |
Nota: la questione della deducibilità dei costi in operazioni soggettivamente inesistenti è complessa e sarà approfondita più avanti. In generale, la Cassazione ha affermato che se il costo è effettivamente sostenuto e inerente, esso può essere dedotto ai fini delle imposte sui redditi, anche se la fattura proviene da un soggetto fittizio, mentre nessun costo è deducibile se l’operazione è oggettivamente inesistente (perché in tal caso manca qualsiasi effettiva spesa). Tuttavia, se il contribuente che ha utilizzato la fattura era partecipe della frode, intervengono norme che ne negano temporaneamente la deducibilità in quanto costo da reato (art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993, v. infra).
Normativa di riferimento
Per comprendere come impostare la difesa è fondamentale conoscere le principali norme italiane che disciplinano le fatture false, sia sotto il profilo tributario (recupero delle imposte e sanzioni amministrative) sia sotto il profilo penale (reati tributari connessi). Presentiamo qui un quadro dei riferimenti normativi chiave, con una distinzione tra normativa tributaria e normativa penale, evidenziando le più recenti modifiche rilevanti.
Normativa tributaria (accertamento e sanzioni amministrative)
- Art. 21, comma 7, DPR 633/1972 (Decreto IVA) – Questa disposizione, contenuta nella legge IVA, stabilisce un principio cardine: “Se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, l’IVA è dovuta per l’intero ammontare indicato in fattura”. Ciò significa che, anche se l’operazione fatturata non è reale, l’emittente della fattura falsa è comunque debitore verso l’Erario dell’IVA indicata nel documento (come se avesse realmente effettuato la cessione). Al contempo, l’IVA addebitata in tale fattura è considerata indetraibile per il destinatario: in pratica la norma “isola” l’IVA relativa a fatture inesistenti, escludendola dal meccanismo di rivalsa e detrazione. Questo principio di cartolarità mira a tutelare il gettito: nessuno può avvantaggiarsi di una fattura fittizia (il Fisco incassa comunque l’IVA dall’emittente, e nega il credito al destinatario). In sostanza, la fattura falsa non produce effetti ai fini della detrazione o deduzione, ma fa sorgere comunque l’obbligo di versamento dell’IVA per chi l’ha emessa.
- Art. 54, comma 2, DPR 633/1972 (rettifiche IVA) – Consente all’Amministrazione finanziaria di rettificare la dichiarazione IVA del contribuente anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Questa norma generale sul potere di accertamento IVA è importante nelle contestazioni da “fatture inesistenti”: l’ufficio può fondare l’atto impositivo su indizi e presunzioni (ad es. mancata movimentazione bancaria, fornitore irreperibile, ecc.) a patto che abbiano i requisiti di gravità, precisione e concordanza. In presenza di tali presunzioni qualificate, scatta l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (principio analogo vale per le imposte dirette, v. art. 39 DPR 600/1973 infra).
- Art. 39, comma 1, lett. d), DPR 600/1973 (rettifica redditi) – Norma equivalente alla precedente ma in ambito imposte sui redditi. Consente al Fisco di determinare induttivamente il reddito imponibile del contribuente basandosi anche su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, in caso di inattendibilità della contabilità o di elementi fittizi. Le fatture per operazioni inesistenti rientrano tipicamente in questa previsione: se l’ufficio prova tramite indizi che certi costi dedotti sono fittizi, può riprenderli a tassazione aumentando il reddito. Anche qui, se le presunzioni sono qualificate, il contribuente deve fornire prova contraria dei dati dichiarati. Art. 39 DPR 600 e art. 54 DPR 633 operano di concerto: forniscono la base legale per gli accertamenti su fatture false.
- Art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993 (costi da reato non deducibili) – Questa norma, inserita nel 1993 e modificata nel 2012, riguarda la deducibilità dei costi relativi ad attività illecite. Dispone che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività costituenti reato non colposo, per il quale sia esercitata l’azione penale”. In pratica, se un costo aziendale è collegato a un reato doloso e il contribuente viene formalmente rinviato a giudizio per quel reato (o patteggia, ecc.), allora quel costo diviene indeducibile ai fini fiscali. L’utilizzo di fatture false è tipicamente un reato doloso tributario; pertanto, i costi fittizi relativi a tali fatture rientrano in questo divieto se c’è un procedimento penale a carico del contribuente. La norma prevede però che, in caso di successiva assoluzione con sentenza definitiva, al contribuente spetti il rimborso delle maggiori imposte versate per la mancata deduzione di quei costi. Inoltre, la legge 537/1993, sempre tramite il d.l. 16/2012, ha aggiunto che nell’accertamento dei redditi “non concorrono a formare il reddito i componenti positivi afferenti a spese relative a beni o servizi non effettivamente scambiati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione”, con sanzione amministrativa dal 25% al 50% di tali componenti negativi fittizi. Questa previsione tecnica serve a evitare una doppia tassazione: quando il Fisco nega la deduzione di un costo inesistente, tassativamente non somma anche ricavi figurativi corrispondenti (impedendo che lo stesso fatto imponibile sia colpito due volte). In sintesi, l’art. 14 co.4-bis ha rilievo difensivo: se la contestazione di fatture false sfocia nel penale, i costi relativi vengono disconosciuti finché c’è un processo, ma possono tornare deducibili ex post se il processo si chiude con proscioglimento pieno.
- D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (conv. L. 44/2012) – Questa legge ha modificato il quadro normativo sopra descritto, chiarendo alcuni aspetti sulle operazioni inesistenti. In particolare, l’art. 8 del DL 16/2012 ha sostituito il testo dell’art. 14, comma 4-bis, L. 537/93 (come visto) e ha introdotto la disposizione secondo cui, ai fini dell’accertamento, “non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi [i costi] relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione”. È stata così normata esplicitamente la situazione delle operazioni oggettivamente inesistenti: il Fisco disconosce il costo fittizio (negandone la deduzione) e, correlativamente, non considera come ricavo omesso l’eventuale importo “incriminato” (evitando la presunzione che vi sia una vendita in nero corrispondente). In pratica, se un’azienda registra un acquisto mai avvenuto per 100, l’ufficio aumenta il reddito di 100 (togliendo il costo) e applica la sanzione pecuniaria del 25-50% su 100, ma non aggiunge ulteriori ricavi fittizi. Questa norma recepisce un orientamento garantista sviluppatosi in giurisprudenza, finalizzato a sanzionare l’evasione senza duplicare la base imponibile.
- Sanzioni amministrative (D.Lgs. 471/1997) – Oltre al recupero delle imposte indebitamente detratte o non versate, l’accertamento comporta pesanti sanzioni tributarie. Nel caso di utilizzo di fatture false, le violazioni sono: dichiarazione infedele IVA e imposte dirette (per aver esposto crediti IVA e costi non spettanti) e, talora, indebita detrazione IVA. La sanzione per indebita detrazione IVA è generalmente pari al 90% dell’imposta indebitamente detratta (art. 6, comma 6, D.Lgs. 471/97). Tuttavia, se l’operazione è inesistente, spesso l’ufficio contesta direttamente la dichiarazione fraudolenta (profilo penale) e in sede amministrativa applica le sanzioni previste dal d.lgs. 471/97 per dichiarazione infedele: queste, a seguito delle modifiche del 2015, vanno dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza di credito risultante. In caso di costi fittizi, come detto, si applica inoltre la sanzione specifica del 25-50% dell’ammontare dei costi non deducibili. Le sanzioni possono cumularsi, ma il principio del favor rei e il divieto di doppia punizione per lo stesso fatto portano di solito a irrogare la sanzione più grave tra quelle concorrenti. È importante notare che, se il contribuente regolarizza spontaneamente la propria posizione prima della contestazione (vedi ravvedimento operoso infra), può beneficiare di riduzioni significative di queste sanzioni amministrative.
- Statuto del Contribuente (L. 212/2000) – Nel contesto difensivo, val la pena richiamare alcune garanzie generali: il diritto al contraddittorio (specie per accertamenti “a tavolino”), il diritto di accesso agli atti, la motivazione chiara degli avvisi di accertamento, e la non applicazione di sanzioni se la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza normativa. In materia di fatture false, tuttavia, difficilmente si può invocare incertezza normativa data la chiarezza dei divieti. Può invece rilevare il principio di cooperazione e buona fede (art. 10, co.1, L. 212/2000) per sostenere – in casi limite – che il contribuente abbia agito senza volontà di evasione, facendo quanto ragionevolmente possibile per verificare i fornitori. Anche se, come vedremo, la giurisprudenza tributaria tende a negare che il contribuente possa opporre una propria buona fede quando l’operazione risulta fittizia in sé.
Normativa penale (reati di fatture false e sanzioni)
L’utilizzo e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti integrano specifiche fattispecie di reati tributari, previste dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (la legge penale tributaria). Questi reati mirano a colpire chi si avvale di documenti falsi per evadere le imposte e chi quei documenti li crea. Di seguito le norme principali:
- Art. 2 D.Lgs. 74/2000 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Questo reato punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, inserisce in una dichiarazione fiscale elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture false. In pratica è il reato di chi utilizza fatture false (il contribuente destinatario che le registra e le porta in dichiarazione per abbattere le imposte). È un delitto punito con la reclusione da 4 a 8 anni. La pena è molto elevata perché il legislatore considera questa condotta altamente insidiosa (è un reato di pericolo: l’uso della fattura falsa ostacola l’accertamento, svia il Fisco con documenti apparentemente regolari). La cornice edittale attuale deriva dalla riforma del 2019 (L. 157/2019) che ha inasprito la pena rispetto al previgente minimo di 1 anno e 6 mesi. È prevista un’attenuazione (comma 2-bis): se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a 100.000 euro, si applica la pena ridotta da 1 anno e 6 mesi a 6 anni. Importante: a differenza di altri reati tributari, l’art. 2 non prevede soglie di punibilità (cioè è reato anche per importi bassi); la soglia di 100.000 € rileva solo per modulare la pena. La Corte Costituzionale ha avallato l’assenza di una soglia minima, data la particolare gravità di questo reato legata al mezzo fraudolento utilizzato (la fattura, appunto). Ai fini della configurabilità, è sufficiente che nella dichiarazione siano indicate passività fittizie basate su fatture inesistenti; non occorre che l’evasione d’imposta si sia effettivamente realizzata in concreto. La Cassazione ha chiarito infatti che “l’evasione d’imposta non è elemento costitutivo del delitto […] essa attiene solo al dolo specifico richiesto, cioè il fine di evadere, ma non è necessario che il fine sia effettivamente realizzato”. Dunque il reato sussiste al momento della presentazione della dichiarazione fraudolenta, anche se poi magari il contribuente non ha ottenuto il rimborso IVA o l’ufficio ha scoperto subito la frode: quel che conta è l’intento fraudolento e l’uso del documento falso.
- Art. 8 D.Lgs. 74/2000 – Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Questo è lo speculare reato di chi emette o rilascia fatture false, al fine di consentire ad altri l’evasione. È punito con la reclusione da 4 a 8 anni (anche qui attenuabile a 1 anno e 6 mesi – 6 anni se l’importo delle fatture false è inferiore a 100.000 euro complessivi per periodo d’imposta). L’art. 8 si riferisce tipicamente al titolare o responsabile della “cartiera” o ditta compiacente che produce i documenti falsi. Si noti che questo delitto è “istantaneo”: si consuma nel momento in cui le fatture vengono emesse (o consegnate) all’altra parte. Non serve, anche qui, che l’evasione si perfezioni: basta l’emissione con lo scopo di far evadere terzi. La Cassazione ha più volte ribadito che il reato di emissione sussiste anche in caso di fatture soggettivamente false, cioè quando l’operazione è avvenuta ma con altri soggetti: ciò perché la finalità illecita (far evadere il reale fornitore e l’utilizzatore) si realizza comunque. Anche l’eventuale mancata individuazione del vero fornitore o esecutore dell’operazione non esclude il reato: la falsa fatturazione, coprendo l’identità dell’effettivo operatore, ha già “raggiunto il risultato illecito di tenere quest’ultimo indenne dal debito IVA”. In sintesi, l’art. 8 colpisce l’attività di chi alimenta il sistema fraudolento fornendo pezze giustificative fasulle ad altri contribuenti. È un reato distinto dall’art. 2: chi utilizza le fatture false (il beneficiario) e chi le emette sono perseguibili separatamente.
- Concorso di persone: spesso nelle frodi vi è coordinamento tra emittente e utilizzatore. Tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che l’imprenditore che utilizza fatture false risponde solo del reato di dichiarazione fraudolenta (art. 2), e non come concorrente nel reato di emissione (art. 8) commesso dal fatturatore. Ciò perché i due reati tutelano beni giuridici diversi e non si fondono in un unico disegno criminoso: l’utilizzatore mira a evadere le proprie imposte, l’emittente offre uno strumento per evadere. Quindi ciascuno risponde del proprio reato autonomo. Diverso il caso in cui il medesimo soggetto realizzi entrambe le condotte (es: un contribuente si autofattura costi inesistenti tramite società cartiera di cui è dominus occulto): in tal caso, in teoria potrebbe configurarsi il concorso formale di reati (o reato unico se le condotte sono indistinguibili). Ma in genere le imputazioni rimangono separate e, se provato, costui risponderà sia ex art. 2 che ex art. 8 in concorso. Ad ogni modo, dal punto di vista difensivo, un utilizzatore di fatture false non verrà incriminato per emissione a meno che non abbia egli stesso predisposto materialmente le fatture fittizie facendo risultare un terzo come emittente.
- Pene accessorie e confisca: per i reati fiscali gravi come quelli in esame, oltre alla pena detentiva sono previste interdizioni dai pubblici uffici e dalle cariche direttive delle imprese (per la durata della pena) e la confisca obbligatoria dei beni che costituiscono profitto o prezzo del reato (di regola il vantaggio economico ottenuto, ad es. imposte evase) o, se non rinvenibili, per equivalente. Inoltre, la condanna comporta la segnalazione alla Camera di Commercio e può incidere sul rating di affidabilità fiscale dell’azienda.
- Responsabilità delle persone giuridiche (D.Lgs. 231/2001): dal 2019 i reati tributari più gravi (inclusi art. 2 e art. 8 D.Lgs. 74/2000) sono stati inseriti nel novero dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti. In particolare, il d.l. 124/2019 ha introdotto l’art. 25-quinquiesdecies nel D.Lgs. 231/2001, prevedendo sanzioni pecuniarie e interdittive a carico dell’ente (società) nel cui interesse o vantaggio siano stati commessi reati fiscali come la dichiarazione o l’emissione fraudolenta di fatture false. Pertanto, un’azienda i cui vertici siano coinvolti in frodi con fatture inesistenti rischia, oltre alle conseguenze tributarie e alle pene per gli amministratori, anche sanzioni dirette come ente (multe salate, interdizione dall’esercizio dell’attività, esclusione da appalti, ecc.), salvo che dimostri di avere adottato modelli organizzativi idonei a prevenire tali reati. Dal punto di vista difensivo, questo implica che la società deve attivarsi per provare di avere procedure di controllo e di compliance fiscale efficaci, onde evitare o attenuare la propria responsabilità ex 231.
- Cause di non punibilità e attenuanti: la riforma del 2019 (L. 157/2019) ha introdotto un importante strumento a favore del contribuente pentito. È stata estesa anche ai reati di cui agli artt. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000 (dichiarazioni fraudolente) la causa di non punibilità per pagamento del debito tributario prevista dall’art. 13, comma 2, D.Lgs. 74/2000. In base a tale norma, se il contribuente estingue integralmente i debiti tributari relativi ai fatti contestati – comprensive di sanzioni amministrative e interessi – prima che venga formalmente dichiarata aperta l’udienza dibattimentale (in primo grado) nel processo penale, allora non è punibile per il reato tributario. In altre parole, pagando tutto il dovuto spontaneamente, l’imputato può ottenere l’estinzione del reato (una sorta di “perdono” legislativo). Questa previsione prima non si applicava alle frodi (art. 2 e 3) ma solo a reati minori; dal 2019 invece è diventata operativa anche per le false fatturazioni. Ciò incentiva il ravvedimento. Attenzione: il pagamento deve essere completo e tempestivo, e comprendere anche le sanzioni amministrative tributarie – per questo in genere si formalizza presentando una dichiarazione integrativa e versando quanto dovuto (ravvedimento operoso), come vedremo. Se si paga dopo l’apertura del dibattimento ma entro la sentenza di primo grado, la causa di non punibilità non opera, ma l’art. 13-bis D.Lgs. 74/2000 prevede comunque una circostanza attenuante speciale (riduzione di pena fino alla metà) per l’integrale pagamento avvenuto dopo l’avvio del procedimento penale. In sintesi: chi corregge il tiro in tempo, restituendo il maltolto all’Erario, può evitare la condanna penale; chi lo fa più tardi otterrà almeno uno sconto di pena. È quindi una strategia difensiva essenziale: se ci si trova coinvolti in un’accusa di false fatturazioni, valutare subito con i professionisti l’opportunità di estinguere il debito tributario (specie se la prova del reato è schiacciante) per beneficiare di questa esimente.
Riassumendo i reati e sanzioni penali in una tabella:
Reato (D.Lgs. 74/2000) | Condotta | Pena base | Note |
---|---|---|---|
Art. 2 – Dichiarazione fraudolenta con fatture false | Utilizzo in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti (elementi passivi fittizi) | Reclusione 4-8 anni (1.6-6 anni se < €100.000) | Reato senza soglia, dolo specifico di evasione; non punibile se paghi tutto prima del dibattimento. |
Art. 8 – Emissione di fatture false | Emissione di fatture o altri documenti falsi per consentire evasione di terzi | Reclusione 4-8 anni (1.6-6 anni se < €100.000) | Reato istantaneo (si consuma all’emissione); punibile anche se operazione soggettivamente inesistente e senza provare evasione effettiva. |
(Eventuale) Art. 3 – Dichiarazione fraudolenta con altri artifici | Frode fiscale senza fatture false (alterazione registri, documenti falsi diversi da fatture) | Reclusione 3-8 anni (soglie di punibilità previste) | Non riguarda specificamente le fatture inesistenti, ma è menzionato per completezza. |
Altre conseguenze | – Confisca del profitto o equivalente; Interdizioni (es. da cariche societarie) – | – | Azienda responsabile ex D.Lgs. 231/2001: sanzione pecuniaria fino a 500 quote e interdittive (art. 25-quinquiesdecies). |
Nota: il ravvedimento operoso (trattato più avanti) con integrale pagamento produce effetti sia sul piano amministrativo (riduzione delle sanzioni tributarie) sia su quello penale (causa di non punibilità ex art. 13 D.Lgs. 74/2000, se tempestivo). Questo vale anche per condotte inizialmente fraudolente: la legge ha rimosso dal 2022 il divieto che un tempo impediva di ravvedersi in caso di frode, proprio per favorire il recupero del gettito e premiare chi collabora.
L’accertamento fiscale e l’onere della prova
Quando l’Agenzia delle Entrate (spesso a seguito di verifiche della Guardia di Finanza) contesta l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, si avvia un procedimento di accertamento tributario che presenta caratteristiche peculiari. In questa sezione esamineremo come si svolge l’accertamento in questi casi, focalizzandoci sul riparto dell’onere probatorio tra Fisco e contribuente – punto cruciale su cui si gioca la difesa – e sugli strumenti con cui l’Ufficio cerca di dimostrare la falsità delle operazioni. Capire questi meccanismi è essenziale per preparare una strategia difensiva efficace.
Avvio e sviluppo dell’accertamento
Di norma, la contestazione di fatture false emerge nell’ambito di una verifica fiscale. Può trattarsi di una verifica generale (controllo a tutto campo di contabilità e dichiarazioni) oppure di controlli mirati (ad esempio, focus su crediti IVA o su operazioni con determinati fornitori). Spesso l’innesco è dato da indagini della Guardia di Finanza o da segnalazioni nell’ambito di controlli incrociati: ad esempio, se viene scoperta una “cartiera” che ha emesso fatture fittizie, l’Agenzia provvede a controllare tutti i clienti di quella cartiera che hanno dedotto i relativi costi.
Quando i verificatori ipotizzano che alcune fatture registrate dal contribuente si riferiscano a operazioni inesistenti, redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dettagliando gli elementi riscontrati: ad es. dichiarazioni del presunto fornitore che ammette la falsità, incongruenze documentali, assenza di strutture per poter effettuare le forniture, movimenti finanziari anomali (pagamenti restituiti in contanti), ecc. Il contribuente viene in genere intervistato e invitato a fornire spiegazioni o documentazione a supporto della reale esistenza delle operazioni contestate.
Al termine della verifica, l’Agenzia delle Entrate emette un Avviso di Accertamento (atto impositivo) nel quale contesta formalmente l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. Nell’avviso verranno elencate le fatture considerate false, con indicazione dei fornitori coinvolti, degli importi e degli anni d’imposta interessati. Le conseguenze tipiche riportate nell’avviso sono:
- Recupero dell’IVA indebitamente detratta su quelle fatture, con relativa applicazione di interessi e sanzione del 90% (indebita detrazione).
- Recupero delle imposte dirette (IRES/IRPEF, IRAP) relative ai costi fittizi dedotti: ciò comporta la rettifica in aumento del reddito imponibile e il ricalcolo delle maggiori imposte dovute, con interessi e sanzione (solitamente 90-180% dell’imposta evasa, trattandosi di dichiarazione infedele).
- Disconoscimento di eventuali crediti di imposta generati dalle operazioni inesistenti.
- Irrrogazione di sanzioni accessorie: ad esempio, se applicabile, l’inibizione alla compensazione di crediti tributari in caso di indebita compensazione di crediti fittizi, o la segnalazione per eventuale sospensione di licenze se si tratta di violazioni IVA gravi e ripetute (misura rara).
L’avviso deve essere adeguatamente motivato: deve cioè spiegare su quali elementi probatori l’ufficio fonda l’affermazione che le operazioni sono simulate. Tipicamente, tra gli elementi che il Fisco porta a sostegno vi possono essere:
- Dichiarazioni del fornitore: se il presunto emittente della fattura è stato verificato e magari ha confessato di essere una cartiera o di non aver effettuato la cessione, la sua deposizione (resa magari in sede penale) diventa un indizio forte. La Cassazione ammette che le dichiarazioni di terzi (fornitori) verbalizzate dalla GdF possano costituire indizio utilizzabile, specie se rese contra se (ammissione di illecito). Non è però una prova legale piena: va valutata in connessione con altri riscontri.
- Elementi oggettivi sulla società fornitrice: ad es. dal database dell’Anagrafe tributaria o dagli accessi sul posto, può emergere che la ditta fornitrice è una “scatola vuota” (nessuna sede operativa reale, magari domiciliata presso un mero indirizzo fiscale, nessun dipendente, nessun magazzino, capitale esiguo, amministratori nullatenenti o prestanome). Tali elementi fanno presumere che non potesse effettuare davvero le forniture fatturate. Se inoltre la ditta è cessata subito dopo, o non ha presentato dichiarazioni, o ha amministratori irreperibili, tutto ciò rafforza l’ipotesi di cartiera.
- Movimentazione finanziaria: un tipico indizio è la cosiddetta “ciclicità dei pagamenti” o la restituzione delle somme. Esempio: l’azienda A paga con bonifico la fattura alla società B; subito dopo B preleva in contanti gran parte dell’importo e lo restituisce sotto banco ad A (trattenendo magari una percentuale come compenso per la prestazione fittizia). Se l’ufficio, grazie a indagini bancarie, documenta prelievi sospetti dal conto del fornitore a ridosso dei pagamenti, e magari incrocia chi ha beneficiato del contante, può dedurre che i soldi sono tornati all’utilizzatore, evidenziando la frode.
- Irregolarità nella documentazione: talvolta le fatture false presentano errori o anomalie (formato, numerazione) o le descrizioni dei beni/servizi sono vaghe e ripetitive, indice di inattendibilità. Oppure manca del tutto la documentazione accessoria: nessun DDT (documento di trasporto) a supporto della consegna di beni voluminosi, nessun contratto, preventivo, progetto per servizi complessi che in teoria sarebbero stati svolti. La totale assenza di tracce operative dell’affare fatturato (a fronte magari di importi rilevanti) costituisce un indizio serio di inesistenza.
- Confronto con l’attività del contribuente: il Fisco può contestare l’inerenza/effettività di un costo se, ad esempio, una ditta individuale di piccole dimensioni acquista servizi per centinaia di migliaia di euro da consulenti esterni fittizi, sproporzionati rispetto al giro d’affari, oppure se un’azienda edile fattura l’acquisto di materiali in quantità abnorme e incoerente con i cantieri attivi (facendo pensare a fatture sovrabbondanti per creare costi). Quando le operazioni fatturate appaiono economicamente irragionevoli o incoerenti, è lecito dubitarne della reale esecuzione.
- Presunzioni di prassi investigative: un caso comune riguarda le frodi IVA con interposizione. La Guardia di Finanza ha elencato alcuni “indici di cartiera” – ad esempio, l’appartenenza a filiere di frode carosello note. Se A compra da B a prezzi sospettamente bassi, e B da C ecc., e nella catena c’è un soggetto che omette versamenti IVA, può presumersi che quell’anello sia fittizio. La Cassazione però avverte: la semplice “irregolarità” o inaffidabilità fiscale del fornitore non basta da sola a considerare false tutte le fatture, specie se potrebbe trattarsi di interposizione soggettiva (operazione reale con altro soggetto). Occorre che l’ufficio fornisca indizi concreti della consapevolezza del cliente. Ci torneremo tra poco parlando dell’onere della prova nelle soggettivamente inesistenti.
Una volta raccolti questi elementi, l’Ufficio, come detto, li utilizza per motivare l’accertamento.
Proceduralmente, l’accertamento per fatture false segue le regole generali: l’avviso va notificato al contribuente (entro i termini decadenziali ordinari, di norma il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione “incriminata” – o il settimo anno se omissione di dichiarazione). È prassi dell’Agenzia notificare l’avviso contestualmente alla comunicazione di notizia di reato alla Procura della Repubblica, quando dagli stessi fatti emerge il reato ex art. 2 D.Lgs. 74/2000. Quindi, il contribuente spesso scopre di avere anche un procedimento penale in corso parallelamente.
Il contribuente, ricevuto l’avviso, può valutare se definire la questione in via pre-contenziosa (ad esempio tramite adesione all’accertamento con riduzione delle sanzioni, se l’ufficio la propone, o tramite un accordo transattivo se ammesso) oppure presentare entro 60 giorni un ricorso tributario innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (già Commissione Tributaria Provinciale). Data la delicatezza e l’importo spesso elevato in gioco, è usuale che si propenda per il ricorso. Da qui inizia il contenzioso, con eventuale secondo grado (Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado, ex Commissione Regionale) e poi possibilità di ricorso in Cassazione.
Ripartizione dell’onere della prova
Chi deve provare cosa nei casi di fatture false? Questo è il fulcro su cui ruotano molte cause. La giurisprudenza, consolidatasi negli anni recenti (specialmente con pronunce di legittimità), ha delineato un principio di distribuzione bilaterale dell’onere probatorio, modulato a seconda che si tratti di operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti:
- In generale, spetta inizialmente all’Amministrazione finanziaria fornire elementi – anche indiziari o presuntivi – che facciano ritenere fittizia l’operazione contestata. L’ufficio deve cioè provare (anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti ex art. 39 DPR 600/73 e art. 54 DPR 633/72) che la realtà commerciale diverge da quanto rappresentato in fattura. Ad esempio, dovrà dimostrare che il fornitore era inesistente o una cartiera, oppure che non c’è traccia della merce, o altre circostanze gravi. Se l’Erario non fornisce alcun elemento concreto e si limita ad affermazioni generiche, la pretesa non può reggere: la fattura gode in partenza di una presunzione di veridicità (il contribuente l’ha registrata e usata, e in linea di principio i documenti contabili fanno fede finché non smentiti). Tuttavia, questa presunzione di veridicità è relativa e cade non appena il Fisco presenti indizi seri di falsità.
- Una volta che l’Ufficio ha assolto tale onere minimo (offrendo presunzioni qualificate di inesistenza), si inverte la prova: sarà onere del contribuente dimostrare la effettiva esistenza dell’operazione contestata. La Cassazione lo ha affermato in maniera chiara: “in caso di contestazione dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio provare che l’operazione fatturata non è mai avvenuta (anche tramite indizi); mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo, altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente a tal fine la regolarità formale delle scritture o dei pagamenti, facilmente falsificabili”. Questo principio, già espresso ad es. in Cass. 11624/2020, è costante giurisprudenza.
Fin qui il principio generale, applicabile soprattutto alle operazioni oggettivamente inesistenti. Infatti, per queste ultime la prova per il contribuente consiste nel dimostrare che invece l’operazione c’è stata davvero (esibendo DDT, prove di consegna, utilizzo dei beni, testimonianze, ecc.). Non basta esibire la fattura o il bonifico, perché – come sottolinea la Suprema Corte – questi sono elementi facilmente “fabbricabili” per simulare la realtà. Servono riscontri sostanziali.
Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti (frode con interposta persona), la giurisprudenza ha introdotto una duplice prova a carico dell’Erario prima di spostare l’onere sul contribuente: l’Amministrazione deve provare sia che il fornitore è un soggetto fittizio, sia che il contribuente era consapevole dell’altrui fittizietà e quindi partecipe della frode. In altre parole, se l’ufficio contesta che un’operazione è solo soggettivamente falsa (bene consegnato ma fornitore di comodo), per negare la detrazione IVA non basta dimostrare che il fornitore era una cartiera; occorre anche provare che l’acquirente sapeva o avrebbe dovuto sapere che stava partecipando a un’evasione IVA, ovvero che non ha usato la dovuta diligenza per evitarlo. Questo orientamento, mutuato dalla Corte di Giustizia UE e recepito ormai dalla Cassazione, tutela il contribuente in buona fede: se uno compra merce reale da un soggetto e ignora che questi è solo un prestanome, non può automaticamente subire le conseguenze del comportamento fraudolento altrui, purché abbia tenuto un comportamento diligente.
Dunque, nelle soggettivamente inesistenti, lo schema probatorio è:
- Il Fisco prova (anche con presunzioni) che il fornitore è fittizio e fornisce indizi che farebbero sorgere in un operatore onesto il sospetto di frode – ad esempio prezzi troppo bassi, fornitore di dubbia solidità, operazioni anomale – tali da sostenere che il destinatario “non poteva non accorgersi” della natura fittizia. La Cassazione parla di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto: se tali indizi c’erano e il contribuente li ha ignorati, si presume la sua consapevolezza.
- A questo punto, per evitare le sanzioni (e la non detraibilità), l’onere passa al contribuente, che deve provare di non essere stato consapevole della frode, e di avere adottato tutte le cautele e la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, in base alla sua posizione e al caso concreto. In pratica, deve dimostrare la propria buona fede: ad esempio, che ha verificato la partita IVA del fornitore, che questi risultava iscritto alla Camera di Commercio, che i pagamenti sono avvenuti in modo tracciato, che ha ottenuto documenti di trasporto regolari, ecc., insomma che non c’era alcun segnale evidente di irregolarità. Inoltre, deve provare che ha effettivamente ricevuto i beni/servizi (quindi che l’operazione c’è stata in sostanza) – questo aiuta a attestare la buona fede, pur non validando la detrazione IVA di per sé (che per legge sarebbe negata, cfr. art. 21 DPR 633/72). Se riesce a convincere che neanche un imprenditore diligente avrebbe scoperto l’inganno, la sua pretesa di aver agito legittimamente guadagna forza.
In sintesi, oggi la prova contraria del contribuente varia a seconda delle circostanze:
- Se l’ufficio contesta un’operazione mai avvenuta (inesistenza oggettiva), il contribuente dovrà provare l’effettiva esistenza (materiale) dell’operazione: produzione aziendale corrispondente ai beni acquistati, esistenza fisica dei beni, testimonianze di dipendenti o terzi, contratti, foto di consegne, e qualsiasi elemento che faccia ritenere che ciò che è fatturato è realmente accaduto. La sola esibizione della fattura, o la regolarità formale di contabilità e pagamenti, non basta affatto, perché – parole della Cassazione – “essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia”. Serve sostanza.
- Se l’ufficio contesta un’operazione soggettivamente inesistente (es. fornitore cartiera), il contribuente dovrà provare la propria estraneità soggettiva alla frode: mostrare di aver fatto tutto il possibile per assicurarsi della serietà del fornitore e che, nonostante ciò, è stato tratto in inganno. Ciò implica spesso documentare le verifiche svolte (visure camerali, controlli VIES per operatori UE, riscontri su referenze), l’assenza di comportamenti anomali (es: non c’è stata retrocessione di denaro), la concretezza della fornitura (merce effettivamente utilizzata nel processo produttivo), ecc. Inoltre, è utile enfatizzare qualsiasi elemento che provi la normalità commerciale del rapporto: ad esempio, che i prezzi praticati erano di mercato (non incredibilmente bassi come spesso nelle frodi), che il fornitore era presente sul mercato con altri clienti, che eventuali ispezioni dell’epoca non avevano segnalato nulla.
Se il contribuente fallisce nel fornire queste prove contrarie, gli elementi presuntivi del Fisco – se ritenuti validi dal giudice – comporteranno la conferma dell’accertamento. Per questo, la fase istruttoria difensiva è determinante: bisogna raccogliere più evidenze possibili a discarico.
Il ruolo (limitato) della buona fede del contribuente
Spesso chi riceve una contestazione di fatture false tende a difendersi affermando: “Non ne sapevo nulla, credevo che fosse tutto regolare”. In altre parole, invoca la propria buona fede. Questo argomento, sul piano umano comprensibile, ha tuttavia un valore giuridico limitato in ambito tributario, specie per quanto riguarda l’IVA. La ragione è che la normativa interna (art. 21 DPR 633/72) e l’impostazione della Cassazione tradizionalmente hanno privilegiato l’oggettività dell’operazione rispetto alla soggettiva buona fede: se l’operazione non c’è (o il fornitore è finto), l’IVA non è detraibile comunque, a prescindere dall’ignoranza incolpevole del cessionario. La fattura viene considerata un documento “fuori dal contesto IVA”, come detto, e non c’è buona fede che la trasformi in genuina. La Cassazione ha affermato ad es. che “non è configurabile la buona fede del contribuente in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti”.
Tuttavia, come visto sopra, per le operazioni soggettivamente inesistenti negli ultimi anni si è aperto uno spiraglio a favore di chi è realmente ignaro: la necessità per il Fisco di provare la “consapevolezza, anche solo in forma di conoscibilità, della frode” prima di negare il diritto alla detrazione. Questo deriva dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (casi “Mecsek-Gabona”, “Teleos”, “Mahamdia”, ecc.), secondo cui il diritto alla detrazione IVA – principio cardine comunitario – può essere negato al cessionario solo se si dimostra che sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a un’evasione IVA. L’Italia, recependo tale principio, di fatto introduce il concetto di buona fede/diligenza nell’analisi, almeno come elemento fattuale: se il contribuente prova di aver agito in buona fede e il Fisco non dimostra indici di conoscenza, il giudice potrebbe ritenere non soddisfatto l’onere probatorio dell’amministrazione e annullare la ripresa IVA. In talune pronunce delle Commissioni Tributarie, infatti, contribuenti “accorti” hanno avuto ragione, soprattutto quando l’unica contestazione era la fittizietà soggettiva e nulla lasciava presagire al cliente la natura fraudolenta del fornitore.
Va però chiarito: buona fede non significa automaticamente conservare i benefici fiscali. In pratica può succedere che il giudice, riconoscendo la buona fede del contribuente, annulli le sanzioni amministrative per mancanza di dolo/colpa grave (principio di colpevolezza in materia sanzionatoria amministrativa) ma confermi il recupero dell’imposta. Questo perché, anche se incolpevole, il contribuente comunque ha portato in detrazione un’IVA che per legge non era detraibile (essendo fuori dal meccanismo). Alcune Commissioni però hanno osato di più, ritenendo che in presenza di buona fede e diligenza massima, negare la detrazione violerebbe i principi UE, e dunque hanno dato ragione al contribuente integralmente. Si tratta però di esiti non scontati e spesso ribaltati in Cassazione se non conformi alla linea dominante.
In definitiva, il punto di vista del debitore deve essere pragmatico: proclamare la propria innocenza non basta, occorre dimostrarla con fatti (documenti, circostanze) e utilizzarla per smontare l’accusa del Fisco di negligenza connivente. La buona fede diventa quindi un argomento di equità che può aiutare a persuadere il giudice a una lettura meno rigida, ma non è una difesa tecnica automatica. È più efficace declinarla come diligenza comprovata: “Ho fatto tutto ciò che era ragionevole fare, ecco le prove, dunque l’ufficio non può dire che avrei dovuto sapere della frode”. Questo nel contenzioso è accettato come controprova (vedi onere probatorio sopra).
Riassumendo il riparto delle prove in breve:
- Fisco: dimostrare elementi fittizi (operazione inesistente o fornitore finto) con presunzioni qualificate. Se soggettiva, anche dimostrare segnali di allerta ignorati dal contribuente.
- Contribuente: se prova fornita dal Fisco, dimostrare effettiva esistenza (per oggettive) o buona fede/diligenza ed effettività sostanziale (per soggettive). Formalità regolari e pagamenti tracciati da soli non bastano, ma aiutano se uniti ad altri riscontri.
Prescrizioni, decadenza e profili temporali
Un ultimo cenno riguarda i tempi: il contribuente che si difende deve anche considerare se l’accertamento sia stato notificato nei termini di legge. Come accennato, il termine ordinario è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (per le imposte sui redditi e l’IVA). Per le fatture false, spesso entrano in gioco proroghe: ad esempio, se c’è stata denuncia penale, i termini di decadenza raddoppiano (nel regime in vigore fino al 2015, il raddoppio dei termini per reati tributari consentiva di notificare entro l’ottavo anno). Oggi il raddoppio è stato in parte assorbito dall’estensione ordinaria a 5 anni, ma rimane per i casi di omessa dichiarazione. Inoltre, attenzione alla sospensione feriale e ad eventuali sospensioni COVID (per accertamenti relativi ad anni in cui erano in vigore proroghe emergenziali).
Il contribuente deve verificare con precisione la data di consegna dell’avviso e la correttezza delle notifiche. Un vizio di notifica o una tardività possono annullare l’atto a prescindere dal merito. Anche la motivazione dell’avviso va scrutata: se l’ufficio non esplicita gli elementi presuntivi a supporto o non confuta le giustificazioni eventualmente fornite dal contribuente in sede di PVC, ciò può costituire difetto di motivazione.
Difendersi dall’accusa di fatture false: strategie e prove
Affrontare un accertamento per operazioni inesistenti richiede una difesa ben preparata, che combini argomentazioni giuridiche e solide prove di fatto. In questa sezione vediamo come un contribuente (tipicamente un imprenditore o professionista) può articolare la propria strategia difensiva, quali documenti e riscontri può utilizzare e quali errori evitare.
Strategia generale di difesa
La prima regola è: contestare analiticamente le presunzioni del Fisco. Bisogna esaminare ogni elemento addotto dall’ufficio e cercare di smontarlo o relativizzarlo, fornendo una spiegazione alternativa lecita. Ad esempio, se il Fisco dice “il fornitore non aveva dipendenti, quindi non poteva eseguire la lavorazione fatturata”, il contribuente potrebbe ribattere mostrando che il fornitore ha subappaltato ad altri (presentando contratti di subappalto, fatture di terzi al fornitore, ecc.), dimostrando così che la prestazione è avvenuta. Se l’ufficio deduce inesistenza dalla mancanza di DDT, il contribuente può esibire documenti di trasporto che magari non erano stati registrati ma esistono, oppure contratti di spedizione con corrieri, registro di carico/scarico di magazzino con entrata dei beni, o ancora e-mail di ordinazione e consegna con date e riferimenti.
Occorre poi produrre attivamente prove a favore. Vediamo alcune possibili categorie di prove utili:
- Documentazione commerciale: oltre la fattura, è fondamentale recuperare tutti i documenti collegati all’operazione. Ad esempio: ordini d’acquisto, preventivi, contratti firmati, bolle di accompagnamento merci, rapporti di intervento (per servizi), collaudi, fotografie di merci consegnate o lavori eseguiti, corrispondenza (email) tra le parti, eventuali autorizzazioni o permessi relativi al lavoro svolto. Più si riesce a ricostruire la traccia documentale dell’operazione, più risulterà credibile che essa sia effettiva. Se alcuni documenti mancano (cosa frequente, specie se il fornitore era scorretto), ci si può avvalere di testimonianze o dichiarazioni di soggetti terzi (ad esempio i destinatari finali dei beni, i clienti dell’imprenditore che hanno ricevuto quei beni, o i dipendenti che li hanno maneggiati).
- Prove di pagamento e flussi finanziari: presentare le evidenze dei pagamenti effettuati non basta a provare la realtà (il Fisco obietterà che i soldi tornavano indietro in nero), ma è comunque necessario farlo per dimostrare quantomeno la coerenza formale: bonifici puntuali a fronte delle fatture. Se possibile, occorre mostrare che il denaro non è rientrato al mittente: ad esempio, evidenziare che dopo il pagamento, la società fornitrice ha utilizzato quei fondi per pagare suoi fornitori o dipendenti, o che sono rimasti sul conto, contraddicendo l’ipotesi di giroconto a ritroso. Se si riesce a rompere la catena pagamento/restituzione, si indebolisce molto la tesi di operazione simulata.
- Prove fisiche e logistiche: per beni materiali, un grande alleato è la prova tangibile che quei beni esistono e sono stati usati. Ad esempio, se si tratta di attrezzature, presentarle o documentarle fotograficamente, dimostrare dove e quando sono state installate, corredare con rapporti tecnici. Se sono beni consumati (es. materie prime), mostrare come hanno alimentato la produzione (report di produzione, quantità in ingresso e uscita). Se è un servizio, come ad es. una consulenza, presentare il deliverable di tale servizio: una relazione tecnica, un progetto, un software sviluppato, etc. Nelle cause su fatture di consulenza inesistenti, chi è condannato spesso non ha niente in mano a dimostrare il lavoro svolto; viceversa, esibire un corposo report prodotto dal consulente X, con data certa, controfirma, e magari allegati, rende più credibile che il consulente abbia effettivamente lavorato.
- Diligenza preventiva: per invocare la buona fede, è utile dimostrare quali verifiche ex ante sono state fatte sul fornitore. Ad esempio: allegare la visura camerale storica del fornitore all’epoca dei fatti, per mostrare che risultava attivo e con oggetto sociale compatibile; un controllo del DURC (Documento Unico Regolarità Contributiva) se era un appaltatore: se all’epoca risultava regolare, ciò avvalora la fiducia riposta; eventuali certificazioni o referenze presentate dal fornitore; copia di documenti d’identità e certificato di attribuzione P.IVA del legale rappresentante (spesso acquisiti in fase di registrazione fornitori). Se la controparte era estera (in frodi carosello), prova di aver consultato il sistema VIES per verificare la validità della partita IVA comunitaria. Tutto questo serve a dimostrare che il contribuente non è stato negligente: ha fatto ciò che la prassi impone per cautelarsi, e nulla di anomalo è emerso.
- Testimonianze e perizie: nel processo tributario, fino a poco tempo fa, la prova testimoniale era preclusa. Dal 2023, con la riforma della giustizia tributaria (D.Lgs. 149/2022), è stata introdotta la possibilità di assumere testimonianze scritte su istanza di parte, in determinate condizioni (art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. 546/92). Dunque è diventato possibile presentare dichiarazioni giurate di terzi. Questo può aiutare in questi casi: ad esempio, far rendere una dichiarazione a un dipendente o collaboratore che attesti di aver visto i fornitori effettuare la consegna, o di aver lavorato insieme al personale del fornitore in cantiere, oppure far testimoniare al trasportatore che ha movimentato la merce. Un’altra via è la perizia tecnica: far analizzare da un tecnico indipendente i conti e la documentazione per certificare che – dati i consumi di materie prime, i tempi di lavorazione – l’azienda aveva bisogno esattamente di quei beni/servizi fatturati, rendendo implausibile che siano inventati. La perizia può anche stimare la congruità dei prezzi pagati rispetto al mercato, per smontare l’idea di prezzi stracciati (spesso spia di frode). Tutti questi elementi, pur non vincolanti, possono convincere il giudice.
- Argomenti giuridici: oltre alle prove di fatto, l’avvocato tributarista solleverà ogni possibile vizio legale. Ad esempio: eccepire che la pretesa IVA è illegittima se l’ufficio non ha provato la participatio fraudis del contribuente (richiamando la giurisprudenza UE e di Cassazione sugli oneri nelle soggettive inesistenti); contestare l’applicazione della sanzione del 90% come duplicazione rispetto a quella del 25-50% sui costi, se fossero cumulate, chiedendo eventualmente il principio del favor rei; invocare l’esimente dello “errore inevitabile” per chiedere esonero da sanzioni (art. 6, co.2, D.Lgs. 472/97 prevede che non è punibile chi ha commesso violazione per obiettive condizioni di incertezza o causa di forza maggiore: la giurisprudenza la applica raramente, ma si può tentare sostenendo che l’acquirente era tratto in inganno da artifizi del fornitore).
- Contraddire le presunzioni: ad esempio, se l’ufficio deduce falsità dalla mancanza di tracce fisiche, si può replicare mostrando spiegazioni alternative: “È vero che il fornitore non aveva magazzino perché consegnava direttamente dal produttore al nostro stabilimento in drop-shipping, ecco le bolle”. Oppure: “Il fornitore non aveva dipendenti, ma aveva una rete di sub-fornitori, di cui alleghiamo fatture”. O ancora: “È vero che poco dopo il fornitore ha chiuso, ma ciò è accaduto perché l’imprenditore è deceduto/ha avuto dissesto finanziario, non perché fosse una cartiera; infatti prima di chiudere ha pagato le imposte X e Y”. Se si riesce a dare spiegazioni credibili e documentate agli indizi, la presunzione grave, precisa e concordante del Fisco può venire meno (diventando dubbia o isolata). Questo richiede un esame minuzioso di ogni dettaglio dell’accusa e un lavoro investigativo da parte della difesa quasi pari a quello della GdF, ma è spesso l’unico modo per vincere.
- Buona fede e cooperative compliance: se l’azienda, all’epoca, aveva procedure di controllo dei fornitori (ad es. chiedeva copia del DURC, verifica white list, ecc.), portarle all’attenzione del giudice aiuta. Mostrare di avere un manuale interno sulla scelta fornitori e di averlo seguito (o magari di aver chiesto parere al proprio consulente fiscale su quell’operazione) può testimoniare la compliance del contribuente. In alcuni casi, imprese più strutturate integrano questo nei modelli 231 e possono dire: “Guardi, noi avevamo un modello di organizzazione atto a prevenire frodi IVA, ma questo soggetto ci ha ingannati lo stesso, dunque più di così non potevamo fare”. Ciò non elimina l’imposta evasa, ma sul piano sanzionatorio e penale può essere molto rilevante (esclude il dolo, al limite configura colpa).
Difesa in sede penale e impatto sul contenzioso tributario
Sebbene il focus sia la difesa dall’accertamento tributario, va tenuto presente che in parallelo (o in prospettiva) può esservi un procedimento penale. La difesa penale può procedere in modo autonomo, ma è auspicabile un coordinamento: gli esiti del penale possono influenzare il tributario e viceversa.
In generale, il giudice tributario non è vincolato alle risultanze penali (principio di autonomia dei giudizi). È possibile quindi che in sede tributaria siate assolti (annullamento dell’atto) e in penale condannati, o viceversa. Tuttavia, una sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste costituisce un fortissimo elemento a vostro favore nel riaprire eventualmente il contenzioso tributario (o nel gestire il rimborso delle imposte versate, ex art. 14 co.4-bis L.537/93 sopra). Se venite assolti penalmente perché si accerta che le operazioni erano reali e voi estranei alla frode, sarà difficile per l’Agenzia sostenere in sede tributaria la tesi opposta (anche se formalmente possibile).
Perciò, una strategia difensiva completa considera anche il penale. Spesso conviene cercare di concordare i tempi: a volte il contenzioso tributario viene sospeso in attesa del penale, o viceversa; oppure si possono usare atti del processo penale (es. perizie tecniche o testimonianze) come prova nel tributario, depositandoli. Ad esempio, se nel penale un perito del tribunale certifica che i lavori fatturati sono stati eseguiti, è un documento potentissimo anche nel tributario.
Un’altra leva difensiva è valutare l’istituto dell’accertamento con adesione o del concordato: se il contribuente riconosce parzialmente la pretesa e vuole limitare danni, può provare a negoziare con l’ufficio una definizione agevolata delle imposte. In questi casi, però, occorre cautela: aderire all’accertamento (ammettendo di fatto l’indebita detrazione) può costituire di riflesso un’implicita ammissione utilizzabile in sede penale. C’è un caso in cui questo è vantaggioso: se l’obiettivo è rientrare nella causa di non punibilità penale pagando tutto, allora definire subito il debito tributario in adesione ha senso, perché vi mette in regola e consente di invocare l’art. 13 D.Lgs. 74/2000. Quindi la scelta dipende dalla strategia nel penale (ad es. evitare il processo penale con pagamento integrale) bilanciata con le chance nel tributario (se avete poche prove a favore, può convenire patteggiare col Fisco e salvare la fedina).
In conclusione, la difesa tecnica da un accertamento di fatture false è estremamente impegnativa: bisogna costruire un dossier di prove parallelo a quello accusatorio e attaccare ogni punto debole giuridico. È fondamentale affidarsi a professionisti (commercialisti, tributaristi, legali) esperti del settore, perché i dettagli – dalle date ai documenti – possono fare la differenza tra vincere e perdere.
Nel prossimo paragrafo vedremo più in dettaglio le sanzioni amministrative (cui si va incontro se la difesa non dovesse avere successo) e successivamente i profili penali (per prepararsi anche su quel fronte).
Sanzioni tributarie (amministrative) in caso di fatture inesistenti
Se l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate dovesse essere confermato (perché il contribuente non riesce a ribaltarlo del tutto), occorrerà affrontare il pagamento delle imposte recuperate e delle relative sanzioni amministrative. È importante conoscere sin dall’inizio quale sarebbe l’esborso in caso di soccombenza, sia per valutare costi/benefici di un eventuale accordo, sia per impostare un’eventuale strategia di riduzione del danno (ravvedimento, definizione agevolata, ricorsi). Vediamo dunque quali sanzioni si applicano.
1. Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) – La detrazione IVA relativa a fatture inesistenti viene annullata. Ciò significa che il contribuente deve restituire all’Erario l’IVA detratta indebitamente, con gli interessi (calcolati al tasso legale dal momento della detrazione all’effettivo pagamento). Inoltre, scatta la sanzione del 90% dell’imposta, prevista dall’art. 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997, per chi si avvale indebitamente di un credito IVA inesistente o eccedente. Esempio: se ho detratto 10.000 € di IVA su fatture false, devo restituire i 10.000 € + interessi e pagare 9.000 € di sanzione. Qualora l’IVA fittizia fosse stata utilizzata in compensazione per pagare altri tributi, la situazione è equiparata a credito inesistente compensato: la sanzione, in tal caso, è addirittura dal 100% al 200% del credito, con un minimo di 258 €, per importi superiori a 5.000 € (art. 13, comma 5, D.Lgs. 471/97). Tuttavia, spesso l’ufficio contesta semplicemente la detrazione in dichiarazione, applicando il 90%. Nota: se la partita IVA era formalmente esistente (quindi fatture soggettivamente false), alcuni contribuenti chiedono di non applicare la sanzione del credito “inesistente” ma solo quella del credito “non spettante” (30%). La differenza è tecnica: credito non spettante è se l’imposta era dovuta ma non al soggetto (discutibile), credito inesistente è se l’operazione non esiste. La prassi tende a qualificare come inesistenti le operazioni fittizie, quindi sanzione 90%. Il contribuente può provare a sostenere la tesi più favorevole (non spettante, 30%) ma la giurisprudenza la respinge quando l’operazione è oggettivamente inesistente, mentre in ipotesi soggettive talora si discute.
Se il contribuente adotta il ravvedimento operoso prima di essere contestato (o prima della notifica dell’atto), la sanzione IVA può ridursi notevolmente: ad esempio a 1/5 del minimo (quindi 18% invece di 90%) se ravvedimento entro l’anno, o 1/6 se oltre, ecc. In caso di adesione all’accertamento o conciliazione giudiziale, c’è una riduzione delle sanzioni del 1/3 (il 90% diventa 60%). In presenza di buona fede conclamata, si può chiedere all’ufficio l’applicazione della sanzione minima (90% è già il minimo edittale per indebita detrazione, salvo riduzioni di rito, per cui margine poco).
2. Imposte sui redditi (IRES, IRPEF) e IRAP – I costi relativi alle fatture false vengono indelebilmente disconosciuti. Ciò comporta che il reddito imponibile viene aumentato della somma di tali costi. Di conseguenza il contribuente deve pagare la maggior imposta (IRES o IRPEF) su quel maggior reddito, oltre interessi. Anche qui si applica una sanzione proporzionale, in genere per dichiarazione infedele. L’art. 1, comma 2, D.Lgs. 471/97 prevede, per chi indica elementi passivi fittizi in dichiarazione (o comunque indica un reddito imponibile inferiore a quello effettivo), una sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Di solito l’ufficio irroga il 90% (minimo) se non ci sono aggravanti (come manovre fraudolente diverse dall’uso di fatture, che qui è già considerata dal penale semmai). Quindi, ad es., se 50.000 € di costi sono stati dedotti indebitamente, e l’aliquota IRES 24% porta a 12.000 € di imposta evasa, la sanzione sarà 10.800 € (90% di 12.000).
Ci sono però particolarità normative: come riportato, il d.l. 16/2012 ha introdotto una norma specifica per i componenti positivi correlati a costi indeducibili per operazioni inesistenti, prevedendo una sanzione dal 25% al 50% dell’importo dei costi fittizi negati. Questa previsione si è sovrapposta in parte alla disciplina generale. In pratica, la prassi recente tende ad applicare entrambe le sanzioni (90% sull’imposta evasa + 25-50% del costo) ma escludendo il cumulo materiale: la sanzione del 25-50% sostituisce l’altra quota parte? La questione è tecnica: alcune interpretazioni dicono che la sanzione 25-50% è aggiuntiva ma poi va considerata non cumulabile per il principio del cumulo giuridico. In ogni caso, raramente la sanzione effettiva supera il 100% del tributo. Si può comunque discutere in giudizio l’applicazione corretta: se l’ufficio avesse duplicato sanzioni, chiedere il ne bis in idem amministrativo.
3. Altre imposte – Se le fatture false hanno inciso su altre imposte (es. IVA di registro nel caso di false fatture per cessioni immobiliari, o dazi doganali se coinvolge import-export), ciascun tributo avrà le sue sanzioni specifiche. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di IVA e redditi.
4. Sanzioni accessorie – In casi di frode grave, può essere proposta la sospensione della licenza o dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività (art. 12 D.Lgs. 472/97) per un periodo da 3 mesi a 2 anni. Questa misura colpisce tipicamente chi emette fatture false come attività, più che l’utilizzatore inconsapevole. Inoltre, se il contribuente è recidivo in violazioni IVA, potrebbe incappare in controlli più stringenti (es. obbligo di fideiussione per rimborsi IVA futuri). In generale però per l’utilizzatore occasionale la sanzione accessoria è rara.
5. Rateazione e riscossione – Le somme accertate, se definitive, vengono iscritte a ruolo (o oggetto di ingiunzione) e il contribuente può chiedere la rateizzazione fino a 16 rate trimestrali (4 anni) o, per importi sopra 50.000 €, fino a 20 rate (5 anni) presentando garanzie. Se si aderisce o concilia, si può dilazionare in 8 rate trimestrali. Quindi, anche in ottica difensiva, uno scenario possibile è: perdere la causa ma ottenere una dilazione del carico, eventualmente col beneficio (se riconosciuto) di sanzioni minime.
6. Ravvedimento operoso come strumento di mitigazione – Già accennato, il ravvedimento è un istituto che consente al contribuente di sanare spontaneamente una violazione prima che questa venga constatata o notificata. Dal 2019-2020, l’Agenzia delle Entrate, con circolare 11/E/2022, ha espressamente aperto al ravvedimento anche per violazioni inizialmente fraudolente. Dunque, se un contribuente si accorge (o teme) di aver involontariamente utilizzato fatture false, può presentare una dichiarazione integrativa per correggere le precedenti (eliminando quei costi e crediti) e pagare il dovuto con sanzioni ridotte. Questo può avvenire anche se l’azienda ha già ricevuto una verifica, purché prima della notifica formale di un atto impositivo o del processo verbale definitivo. Il vantaggio è: sanzione ridotta (ad esempio 1/6 del minimo, quindi 15% dell’imposta invece di 90%, se ravvedimento lungo) e – come visto – effetti penali positivi (estinzione del reato se tutto pagato prima del dibattimento). Certo, ravvedersi significa ammettere la violazione e rinunciare al contenzioso su di essa; va valutato caso per caso con l’assistenza di un esperto. È un’opzione da considerare specie se ci si rende conto che la difesa è molto incerta e i costi di un eventuale processo (anche penale) superano il beneficio di provare a resistere.
In conclusione sulle sanzioni amministrative: sono ingenti, ma in parte negoziabili (adesione, conciliazione) e riducibili (ravvedimento). Nel predisporre la difesa, tuttavia, è bene non farsi scoraggiare solo dall’ammontare potenziale: se si ha ragione, vale la pena lottare fino in fondo, perché in caso di annullamento totale dell’atto si azzera sia l’imposta che la sanzione. Se invece la situazione è compromessa, muoversi presto per ridurre il danno (pagando con sconti) può essere la scelta più saggia.
Profili di responsabilità penale
Abbiamo già delineato la cornice normativa penale (artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000) e i relativi reati in una sezione precedente. Ora li esaminiamo dal punto di vista pratico del contribuente, ovvero cosa succede se si viene coinvolti penalmente, quali strategie difensive ci sono in ambito penale e come questo interagisce con la vicenda tributaria.
Quando scatta il penale?
In caso di fatture false, il penale scatta in quasi tutti i casi rilevanti, poiché – come detto – non ci sono soglie di imposta evasa richieste per configurare il reato di dichiarazione fraudolenta (art. 2) né per emissione (art. 8). È sufficiente aver usato anche poche migliaia di euro di fatture fittizie con dolo di evasione perché tecnicamente il reato sia integrato. In pratica, la Guardia di Finanza, nel corso della verifica, se individua fatture false redige un verbale di constatazione che verrà trasmesso sia all’Agenzia Entrate per l’accertamento, sia alla Procura per la notizia criminis. A quel punto la Procura (di solito tramite il PM specializzato in reati economici) aprirà un procedimento.
Gli indagati tipici sono: il legale rappresentante dell’azienda che ha utilizzato le fatture (per il reato ex art. 2), e il titolare/amministratore della società emittente le fatture (per il reato ex art. 8). Se parliamo dal punto di vista del “debitore” ossia del contribuente utilizzatore, l’indagato sarà il rappresentante (ad es. l’amministratore unico, o i membri del CdA se si prova un concorso decisionale). Se la società è piccola e l’amministratore dice “non sapevo nulla, è stato il contabile a inserirle”, il contabile potrebbe essere a sua volta indagato, ma generalmente la responsabilità ricade su chi firma la dichiarazione (l’amministratore).
Esempio: Alfa Srl ha usato fatture false per 200k euro di costi. L’Agenzia fa l’accertamento fiscale, la Procura incrimina l’amministratore di Alfa per dichiarazione fraudolenta (per aver inserito elementi passivi fittizi in dichiarazione) e l’emittente (se identificato, magari Beta Srl con il suo prestanome) per emissione di fatture false.
Indagini e istruttoria
L’imputazione ex art. 2 richiede la prova del dolo specifico di evasione. Ciò significa che occorre dimostrare che l’amministratore era consapevole della falsità e voleva evadere. Questo lascia margine alla difesa penale per sostenere la mancanza di dolo (“pensavo fossero operazioni vere, sono stato ingannato”). Se tale tesi regge, la condotta non integra il reato (perché l’uso inconsapevole di false fatture, per quanto negligente, non è punito penalmente). Potrebbe semmai configurare un illecito amministrativo, ma non penale.
La difesa penale quindi può puntare su:
- Dimostrare che il contribuente ha agito in buona fede, senza sapere della frode (analogo a quanto discusso per il tributario, ma qui con rilevanza decisiva, perché se non c’è coscienza di usare fatture false viene meno l’elemento soggettivo del reato).
- Evidenziare eventuali prove insufficienti: ad esempio, se il PM non ha trovato chi ha realmente eseguito la prestazione, cercare di minare la certezza che era falsa. Tuttavia, la Cassazione sul reato di emissione ha detto che non serve individuare il reale autore: l’importante è che la fattura sia fittizia soggettivamente. Per l’utilizzatore, invece, dimostrare che la prestazione c’è stata da parte di qualcuno può aiutare a far credere che lui pensasse legittimamente di aver pagato quella persona giusta, quindi ridurre il dolo.
- Sfruttare eventuali errori procedurali: in ambito penale, ad esempio, se intercettazioni sono state fatte, o perquisizioni, vedere se sono state svolte secondo le regole. Anche il rientro dei soldi può essere reinterpretato: il contante prelevato dal fornitore non necessariamente è tornato al cliente – insinuare dubbi.
Ovviamente, se la difesa tributaria ha raccolto robusti elementi probatori (merce consegnata, etc.), questi saranno portati anche nel penale per sostenere l’assenza di artificio (o quantomeno la buona fede).
Scelte processuali: patteggiamento o proscioglimento?
Per il reato di false fatturazioni, specie se importi grandi, la pena edittale minima di 4 anni è alta. Questo comporta che non è nemmeno possibile patteggiare ed evitare il carcere con la sospensione condizionale (che si applica fino a 2 anni, raramente concessa fino a 2 anni e mezzo). Con 4 anni minimo, occorre ridurre. Ecco perché la causa di non punibilità (pagare tutto) è stata estesa: lo Stato preferisce incassare i soldi e lasciare impunito il reo, piuttosto che inseguire condanne detentive lunghe (che oltretutto saturano le carceri). Quindi, dal punto di vista pratico, un imputato per art. 2 spesso valuterà di pagare integralmente il dovuto e chiedere l’archiviazione o il proscioglimento per avvenuto pagamento ex art. 13. Se è possibile pagare, questa è di gran lunga la via più “pulita” per uscire dal penale.
Se non si può o vuole pagare tutto, c’è il patteggiamento (applicazione pena su accordo). Ad esempio, patteggiando prima del dibattimento si può ottenere fino a 1/3 di sconto sulla pena. In più, se si sono pagate in parte le imposte, si può invocare l’attenuante del ravvedimento parziale (art. 13-bis), che il giudice può valutare. Così magari da 4 anni si scende a 2 anni e mezzo o meno, rendendo la pena sospendibile. Il patteggiamento comporta la condanna penale ma evita il processo lungo e spesso porta benefici (esclusione delle pene accessorie interdittive se la pena è <=2 anni patteggiata).
Se invece il contribuente è convinto di poter dimostrare la sua innocenza (perché era estraneo consapevolmente), allora lotterà per il proscioglimento o assoluzione. Un’assoluzione piena “perché il fatto non sussiste” (ad es. dimostrando che i costi erano reali e lui non sapeva del prestanome) è il miglior risultato: oltre a evitare la condanna, permette poi di chiedere il rimborso delle imposte eventualmente pagate in eccedenza (ricordiamo l’art. 14 L.537/93: se assolto, i costi tornano deducibili e l’Erario deve restituire quanto pagato su essi).
Emittenti di fatture false: profili penali
Dal punto di vista del debitore che immaginiamo in questa guida, forse l’emissione di fatture false è meno rilevante (poiché il debitore è in genere l’utilizzatore/taxpayer). Tuttavia, se il lettore fosse qualcuno accusato di emettere false fatture (magari un professionista che “vende” fatture), occorre sapere che la difesa lì è ancora più ardua: se hanno prove (fatture trovate, conti correnti con movimenti sospetti, società di comodo), il reato è configurato. Anche qui pagare le imposte eventualmente evase da terzi non è applicabile (art. 13 non si applica all’emittente per definizione, in quanto l’emittente non “paga” un debito tributario suo, è il terzo che evade). L’emittente dunque non ha quella scappatoia. Può sperare di patteggiare, mostrando semmai di aver collaborato (es. indicando i beneficiari delle sue fatture – tale collaborazione può portare a attenuanti generiche). Oppure deve puntare su aspetti procedurali o su definire la sua posizione (ad es. se era solo un prestanome ignorante, cercare l’assoluzione per mancanza di dolo specifico; magari era pagato per firmare ma non comprendeva il fine evasivo, scenario limite ma tentato in difesa).
Conseguenze penali accessorie
In caso di condanna per art. 2 o 8, oltre alla pena detentiva da scontare (che per <4 anni spesso può essere ai domiciliari o affidamento in servizi sociali se niente di grave nel passato, ma con 4-8 anni non è banale), ci sono come detto le interdizioni: es. l’interdizione dai pubblici uffici e dall’esercizio di imprese o uffici direttivi di persone giuridiche. Queste interdizioni sono temporanee (durata pari alla pena inflitta, se superiore a 3 anni può essere perpetua per pubblici uffici). Danno un duro colpo all’imprenditore condannato perché non potrebbe amministrare società durante quel periodo.
Inoltre, la condanna comporta la confisca obbligatoria del profitto: ciò significa che se ad es. con la frode si è risparmiato 100.000 € di tasse, il giudice ordinerà di confiscare una somma equivalente dai beni del condannato (denaro, immobili). Se però il contribuente ha già versato quell’importo al Fisco quando è stato accertato, in genere la confisca viene limitata alla eventuale differenza (non si va a confiscare due volte).
La società, come visto, può subire sanzioni ex 231, tra cui la confisca del profitto in capo all’ente.
Collegamento tra definizione amministrativa e penale
Una domanda frequente: se definisco l’accertamento tributario pagando le imposte e sanzioni, il penale decade? Risposta: non automaticamente, a meno che non si verifichino le condizioni dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000. Cioè, se il pagamento avviene prima del dibattimento, allora sì, quell’adempimento causa l’estinzione del reato. Ma se il pagamento fosse fuori tempo (es. dopo un eventuale dibattimento iniziato), allora aver sistemato col Fisco serve solo come attenuante. Quindi il tempismo è cruciale.
Altra domanda: se mi assolvono in penale perché il fatto non sussiste, è garantito che vincerò anche col Fisco? Non automaticamente, ma in pratica un’assoluzione “fatto non sussiste” (quindi che l’operazione era reale, o che manca dolo e la fattispecie oggettiva) dovrebbe riflettersi sul giudice tributario come prova nuova per far revocare l’accertamento (tramite revocazione, o più semplicemente confidando che il contenzioso tributario parallelo tenga conto del medesimo materiale probatorio). Spesso però i tempi differiscono: il processo tributario può concludersi prima di quello penale. Ad esempio, se il contribuente perde in Commissione e in Cassazione velocemente e viene confermato il debito, poi magari anni dopo viene assolto penalmente. In tal caso, la legge (art. 14 citato) permette di chiedere rimborso imposte, ma non elimina le sanzioni amministrative pagate né rimuove la “macchia” nel contenzioso vinto dal Fisco. C’è da dire che con la sospensione biennale della riscossione per chi ha un penale in corso (prevista dallo Statuto del Contribuente), di solito i contenziosi vengono allineati, ma non sempre.
In conclusione, il profilo penale aggiunge ulteriore pressione sul contribuente accusato di false fatture. Dalla prospettiva del debitore, il consiglio è di:
- Attivarsi immediatamente appena si percepisce un rischio penale: consultare un penalista esperto di reati tributari, valutare se esistono margini di incolpevolezza o se conviene collaborare e pagare.
- Considerare il pagamento integrale come opzione chiave per chiudere la vicenda: se l’importo non è astronomico e l’azienda/persona ha risorse o può procurarsele (es. con finanziamenti), pagare può evitare anni di processo e possibili condanne. Lo Stato riconosce formalmente questa scelta come virtuosità postuma e ti “perdona” penalmente.
- Coordinare la difesa tributaria e penale: ad esempio, può essere opportuno rinunciare ad alcuni argomenti in sede tributaria per non pregiudicare la linea penale e viceversa (es: in tributario si potrebbe dire “se anche c’è stata evasione io non ne sapevo niente”, ma se allo stesso tempo nel penale l’azienda patteggia, quella ammissione contraddice la linea della non conoscenza – occorre coerenza).
- Sfruttare eventuali errori del Fisco: se l’accertamento tributario viene annullato perché magari la presunzione era labile, quel risultato può essere usato dal penalista per dire: “neanche in ambito amministrativo la tesi ha retto, figuriamoci in penale con standard di prova più alto”. Non è decisivo giuridicamente, ma di fatto conta.
Infine, un cenno all’esito: se condannati penalmente, dopo aver scontato la pena (o durante, se sospesa) resta la macchia nel casellario, e per i professionisti ci possono essere effetti disciplinari, per gli imprenditori limiti nell’accesso a incarichi. Se assolti, invece, si può anche valutare una richiesta di danni per ingiusta accusa, ma è scenario raro.
Giurisprudenza recente e casi rilevanti
Per avere un quadro avanzato e aggiornato, è utile conoscere alcune tra le più recenti sentenze che hanno affrontato il tema delle fatture per operazioni inesistenti, sia in ambito tributario che penale. Spesso queste pronunce chiariscono principi chiave e possono essere citate a sostegno della propria difesa. Ecco una rassegna dei casi e dei principi emersi (tutti riferimenti da fonti autorevoli come la Corte di Cassazione):
- Cass., Sez. Trib., 16 giugno 2020 n. 11624 – Ha ribadito il riparto dell’onere della prova nelle fatture oggettivamente inesistenti. Ha sancito che è onere del Fisco provare (anche per presunzioni) che l’operazione non si è mai verificata, dopodiché spetta al contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione/costo, non bastando la regolarità formale dei documenti. In quel caso, il contribuente aveva vinto in CTR perché i giudici avevano ritenuto insufficienti le prove del Fisco; la Cassazione ha cassato la decisione perché la CTR aveva preteso troppa prova dall’ufficio ed esonerato totalmente il contribuente dall’onere di provare l’effettività, in contrasto con l’orientamento consolidato.
- Cass., Sez. Trib., 14 ottobre 2022 n. 30018 (ord.) – Pronuncia epocale in tema di deducibilità dei costi da reato. Ha stabilito che i costi relativi a operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili se effettivamente sostenuti e rispettosi dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinabilità (ex art. 109 TUIR), anche se il contribuente era consapevole del carattere fraudolento. Invece resta esclusa la deducibilità dei costi di operazioni oggettivamente inesistenti (ovviamente, perché manca la spesa). Questo pronunciamento, basato sulla modifica dell’art. 14 co.4-bis L.537/93 introdotta nel 2012, chiarisce che la finalità penale non travolge il principio di tassazione del reddito effettivo: se un costo, ancorché frutto di reato (es. tangente, fattura falsa) ha comunque eroso il patrimonio dell’impresa ed è inerente all’attività, va dedotto, salvo sia già escluso per altra norma. Solo in pendenza di processo penale quel costo è sospeso, ma se c’è condanna definitiva per frode, allora scatta l’indeducibilità permanente (perché c’è esercizio azione penale con esito di rinvio a giudizio). In pratica Cass. 30018/2022 ha confermato che l’art. 8 del DL 16/2012 va inteso nel senso di consentire la deduzione dei costi soggettivamente falsi (perché qualcuno il lavoro l’ha fatto e pagato c’è stato) e di vietarla per i oggettivamente falsi. Implicazione: se state subendo un accertamento che nega la deduzione di costi soggettivamente falsi, potete far leva su questa sentenza per dire: “Va bene punire l’IVA, ma il costo in quanto tale è reale e deducibile, quindi l’aumento del reddito è indebito”. Ovviamente dovete provare che il costo sia reale e inerente (es. documentando che dietro la fattura del fornitore fittizio c’era il subfornitore vero pagato). Questa tesi può portare almeno ad evitare l’imposta sui redditi e relative sanzioni.
- Cass., Sez. V, 9 agosto 2022 n. 24471 – Rilevante per le operazioni soggettivamente inesistenti: ha affermato che l’Amministrazione, per recuperare l’IVA sugli acquisti da soggetti fittizi, deve provare non solo la fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario, con indizi che avrebbero allertato un imprenditore onesto. E il contribuente deve dimostrare di aver agito senza consapevolezza e con massima diligenza. Questa pronuncia, richiamata anche nella successiva n. 35091/2023, è la base del nuovo orientamento “doppia prova per soggettive”. Quindi Cassazione 2022 n. 24471 può essere citata per sostenere l’eccezione che il Fisco non ha provato la scientia fraudis del contribuente.
- Cass., Sez. V, 14 dicembre 2023 n. 35091 – Ha confermato i principi sopra (richiamando appunto Cass. 24471/2022) e aggiunto un’osservazione critica: ha ammonito che spesso l’accertamento parte dalla presunzione logica “fornitore irregolare = fatture false”, ma ciò non è un automatismo ineccepibile e, anche alla luce del nuovo art. 7, co.5-bis, D.Lgs. 546/92 (riforma processo tributario 2022), il giudice deve valutare con rigore il peso di tale presunzione. Ha ricordato anche che lo schema tipico di frode IVA è l’interposizione soggettiva (frode carosello), dove la vendita è reale e la cartiera serve ad evadere – scenario che di per sé implica operazione soggettivamente inesistente ma oggettivamente avvenuta. Quindi la semplice esistenza di una cartiera non basta a dire che l’acquirente non abbia ricevuto la merce: spesso la merce c’è e viene da un altro soggetto. Pertanto, la presunzione generalizzata che “cartiera = tutto falso” non regge se non supportata da ulteriori evidenze (ad es. la mancanza di beni, etc.). Questo passaggio è utile per la difesa: se il Fisco ha fatto un ragionamento troppo semplicistico, la sentenza 35091/2023 è dalla vostra per affermare che serviva più sostanza.
- Cass., SS.UU., 30 settembre 2022 n. 28433 – Questa non tratta di fatture false, ma è importante menzionarla riguardo la prova testimoniale nel processo tributario. Le Sezioni Unite hanno sancito che resta preclusa in generale la testimonianza orale in udienza, ma nulla vieta al contribuente di produrre dichiarazioni rese da terzi in altre sedi (es. in un processo penale, o scritte extragiudiziali) e che il giudice tributario le valuti come elementi indiziari. Inoltre, la riforma del 2022 consente come detto le testimonianze scritte in alcuni casi (per cause avviate dal 2023 in poi). Questo contesto permette oggi di utilizzare più efficacemente deposizioni di fornitori o terzi. Ad esempio, se un fornitore in sede penale ha ritrattato dicendo “in realtà la merce l’ho consegnata”, quella dichiarazione può essere portata in Commissione a favore del contribuente.
- Cass., Sez. III Pen., 17 aprile 2023 n. 16576 – Importante sul fronte penale, caso già citato: ha chiarito che il reato di emissione di fatture false (art. 8) sussiste anche se non si individua chi abbia svolto effettivamente la prestazione e anche se poi l’evasione non si è realizzata, perché l’elemento costitutivo è la condotta di creare documenti mendaci per consentire l’evasione. Inoltre ha sottolineato che l’evasione effettiva non è richiesta come evento; incide solo come dolo specifico (fine di evadere). Questa sentenza fornisce una base giurisprudenziale autorevole, ad esempio, per contrastare eventuali difese dell’emittente del tipo “ma io ho emesso la fattura però poi i terzi hanno pagato l’IVA, quindi…”. Non regge: il reato c’è comunque. D’altra parte, per l’utilizzatore, una pronuncia così ricorda che non conta se il trucco ha funzionato, conta averci provato con il documento finto.
- Cass., Pen., 2 maggio 2022 n. 16800 – Massima: “L’imprenditore che utilizza fatture false risponde soltanto per il reato di frode fiscale e non concorre invece nel reato di emissione di documenti falsi”. Questo serve per evitare doppi incriminazioni: come già spiegato, se sei utilizzatore non ti possono accusare di emissione solo perché magari hai materialmente redatto tu la fattura finta (caso di imprenditore che si autoproduce fatture intestate a cartiera consenziente). La Cassazione in quell’occasione ha escluso il concorso nel reato di emissione per l’utilizzatore. Ciò è utile da sapere perché talvolta le Procure facevano carichi “duplice” ai destinatari delle fatture, ma con questo precedente la difesa può opporsi.
- Cass., Sez. III Pen., 27 ottobre 2023 n. 45525 – Ha affrontato la questione del concorso di persone tra emittente e utilizzatore. In linea con la 16800/2022, dovrebbe aver confermato che sono fattispecie autonome e l’utilizzatore non è correo nel 8. Inoltre potrebbe aver toccato il tema del doppio dolo: l’emittente deve volere far evadere l’altro, l’utilizzatore voler evadere lui stesso. Sono fini paralleli ma distinti. Non ho il testo, ma presumibilmente questo caso serve a distinguere le responsabilità.
- Cass., Sez. Trib., 11 novembre 2024 n. 28999 – Questa è la sentenza citata nell’articolo Euroconference News sui motivi dell’indetraibilità IVA nelle soggettive inesistenti. Il brano riportato dice chiaramente che quando fattura e realtà non coincidono nei soggetti, viene meno il presupposto della detrazione (operazione effettuata ai sensi art. 19 DPR 633/72), perché l’IVA è stata versata a un soggetto non legittimato alla rivalsa né obbligato al versamento. In sostanza, l’IVA pagata alla controparte non genuina va considerata “fuori conto”, estranea al meccanismo di detrazione. Questa sentenza ribadisce la linea dura sulla indetraibilità oggettiva dell’IVA in presenza di fatture soggettivamente false, allineata al principio dell’art. 21, co.7, DPR 633/72. La portata innovativa però è modesta: conferma quanto sapevamo, ma esposta con coerenza sistematica. Per il difensore, significa che se anche convincerà di buona fede, difficilmente potrà ottenere la detrazione; puntare semmai a non pagare sanzione grazie alla buona fede, ma l’IVA potrebbe rimanere dovuta.
- Corte di Giustizia UE, 18 ottobre 2018 causa C-153/17 (“Volkswagen”) e altre – La CGUE ha avuto occasione di dire che in caso di operazioni fraudolente a monte, se il cessionario è ignaro e non poteva saperlo, il diritto a detrazione non può essere negato (principio di neutralità IVA). Tuttavia, ha anche affermato che gli Stati possono esigere da chi detrae l’IVA un onere di diligenza (non “estremo”, ma adeguato). L’Italia finora ha recepito a metà questi principi: la doppia prova di cui sopra. Quindi, in extremis, un contribuente potrebbe portare il caso in Europa se punito nonostante la sua buona fede. Ma a livello avanzato, è sufficiente sapere che esiste un margine di tutela unionale per il contribuente diligente, che si può brandire come argomento sussidiario.
In definitiva, la giurisprudenza recente consolida alcuni trend: maggiore considerazione per la posizione del contribuente ignaro (ma sempre rigorosa sulla perdita del beneficio IVA se c’è frode), riconoscimento di deducibilità dei costi reali anche in presenza di frode (aspetto importante per ridurre i danni economici), e severità penale mitigata dalla possibilità di ravvedersi.
Come difensori, citare le sentenze giuste può dare autorevolezza alle tesi: ad esempio, per onere della prova Cass. 35091/2023 e 24471/2022; per deducibilità costi Cass. 30018/2022; per penal-non punibilità art. 13 la legge 157/2019 e Circolare Entrate 11/2022; per separazione emissione/utilizzo Cass. 16800/2022. Tutte fonti autorevoli, come richiesto.
Domande frequenti (FAQ)
Passiamo ora a una sezione di domande e risposte sintetiche, utile per riepilogare e fissare i concetti chiave dal punto di vista pratico.
D: Cosa si intende esattamente per “fattura per operazione inesistente”?
R: È una fattura emessa senza che vi sia una reale operazione economica corrispondente, oppure emessa da un soggetto diverso dal reale fornitore. In sostanza un documento falso. Può essere oggettivamente falso (nulla è avvenuto) o soggettivamente falso (bene/servizio ceduto da A a B, ma fatturato da C). In entrambi i casi la fattura serve tipicamente a creare un costo fittizio e un credito IVA indebito per il destinatario, e spesso a consentire al vero fornitore di non dichiarare il ricavo.
D: Quali sono le differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti in termini di difesa?
R: Nel caso di operazione oggettivamente inesistente, la difesa deve puntare a dimostrare che invece l’operazione c’è stata per davvero (il che è arduo se non è così). Se proprio l’operazione non c’è stata, di fatto non c’è difesa se non eventualmente invocare errori procedurali o di prova del Fisco. Nel caso di operazione soggettivamente inesistente, la difesa può argomentare che l’operazione c’è stata (quindi i beni/servizi ci sono) e che il contribuente era in buona fede riguardo all’identità del fornitore. In tal caso, pur dovendo restituire l’IVA (secondo la legge italiana), si può almeno evitare le sanzioni se si dimostra di aver fatto tutto il possibile per evitare la frode. Inoltre, i costi sostenuti per operazioni soggettivamente inesistenti possono restare deducibili se reali e inerenti, mentre se l’operazione è oggettivamente inesistente nessun costo è deducibile.
D: L’Agenzia delle Entrate cosa deve provare per contestarmi l’utilizzo di fatture false?
R: Deve provare, anche tramite presunzioni semplici ma gravi, precise e concordanti, che la fattura si riferisce a un’operazione inesistente. Ad esempio, può provare che il tuo fornitore era in realtà una cartiera senza struttura, o che la merce non è mai stata consegnata, o che i soldi ti sono tornati indietro “in nero”. In caso di operazione soggettivamente falsa, deve anche dimostrare che c’erano elementi tali che tu avresti dovuto accorgerti della frode (fornitore anomalo, prezzi fuori mercato, ecc.). Una volta forniti questi elementi, scatta a tuo carico l’onere di provare il contrario (cioè la genuinità dell’operazione o la tua buona fede).
D: Come posso difendermi efficacemente se mi accusano di aver utilizzato fatture inesistenti?
R: Devi raccogliere prove concrete a supporto della reale esistenza delle operazioni. Qualche esempio: presentare i documenti di trasporto che attestano l’arrivo dei beni, eventuali contratti o email con cui hai ordinato e ricevuto la merce/servizio, foto dei beni in magazzino o del lavoro svolto, testimonianze di clienti o dipendenti che confermino la fornitura. Inoltre, mostra di aver fatto verifiche sul fornitore (visure, controlli) e di non aver avuto segnali di allarme. In tribunale, allega tutto: fatture di acquisto correlate, registri di magazzino, pagamenti effettuati (e dimostra che non ti sono rientrati). Smonta le accuse punto per punto: se ti dicono “il fornitore non aveva mezzi per consegnare”, porta prove che la consegna l’hai curata tu o un corriere esterno. Se dicono “non aveva dipendenti”, mostra che magari erano lavori subappaltati. Ogni dettaglio serve a minare la ricostruzione del Fisco. E soprattutto, se eri realmente all’oscuro della frode, fai emergere la tua diligenza: se hai preso una cantonata ma in buona fede, evidenzialo chiaramente con fatti.
D: È vero che basta la regolarità della fattura e del pagamento per stare tranquilli?
R: Purtroppo no. La Cassazione ha chiarito che la mera regolarità formale (fattura a posto, pagata con bonifico) non prova affatto che l’operazione sia reale. Anzi, spesso chi fa frodi cura proprio questi aspetti formali per non destare sospetti: i truffatori ti fanno la fattura perfetta e incassano su banca, poi magari restituiscono i soldi in contanti. Quindi, in caso di verifica, esibire fatture e bonifici è solo l’inizio: servirà ben altro (DDT, prove materiali, ecc.) per convincere che la transazione non fosse fittizia. Attenzione quindi a non pensare “ho bonificato, quindi l’Agenzia non può dirmi nulla”: se la controparte sparisce e risulta fantasma, i guai arrivano comunque.
D: Posso detrarre l’IVA di una fattura se io non sapevo fosse falsa?
R: Secondo la legge italiana vigente e l’interpretazione prevalente, no, non puoi. Se l’operazione è inesistente, l’IVA non è detraibile oggettivamente. Il fatto di essere in buona fede può, al limite, evitarti le sanzioni e le conseguenze penali, ma non ti ridà il diritto alla detrazione (dovrai restituire l’IVA detratta). Tuttavia, su questo punto c’è un dibattito per le operazioni soggettivamente inesistenti: la giurisprudenza UE direbbe che se proprio non potevi sapere, dovresti mantenere il diritto a detrazione. In Italia però devi dimostrare un tale grado di diligenza e assenza colpa che, in pratica, se lo fai, spesso già l’ufficio desiste o il giudice ti annulla l’atto per mancanza di prova del tuo coinvolgimento. In quel caso potresti salvare la detrazione di fatto. Ma formalmente, la regola è: IVA indetraibile sempre su fatture false, anche se eri vittima inconsapevole. Al massimo, zero sanzioni per te in quel caso.
D: I costi documentati da fatture false sono comunque deducibili ai fini delle imposte sui redditi?
R: Dipende. Se la fattura è oggettivamente falsa (mai esistito nulla), quel costo non esiste proprio: quindi non è deducibile e ti verrà ripreso a tassazione. Se invece è soggettivamente falsa (bene o servizio ricevuto davvero ma fatturato da soggetto diverso), allora il costo c’è davvero – hai pagato qualcuno per ottenere quel bene/servizio – quindi in linea di principio sarebbe deducibile. La Cassazione ha confermato che in tal caso, a differenza dell’IVA, il costo va riconosciuto per determinare il reddito reale. Però attenzione: interviene l’art. 14, comma 4-bis L.537/93 che dice che se c’è un procedimento penale per reato non colposo (come la frode fiscale) quei costi non sono deducibili finché il processo è pendente. Quindi nell’immediato te li tolgono. Se poi tu vieni condannato penalmente per l’uso di quelle fatture, quei costi restano indeducibili definitivamente (erano costi “da reato”). Se invece in penale sei prosciolto o paghi tutto estinguendo il reato, allora puoi riaprirne la deducibilità e chiedere eventualmente rimborso. In pratica: sì, i costi reali sono deducibili, ma se ti accusano di frode te li sospendono. Spesso le Entrate tolgono i costi alzando il reddito: potrai contestare citando Cass. 30018/2022 che quel costo andava ammesso perché effettivamente sostenuto, anche se c’era frode. In ogni caso mai deducibili sono i costi totalmente fittizi (nessuno ha fornito nulla), e ovviamente i sovrapprezzi gonfiati artificiosamente oltre il valore normale (perché per la parte eccedente il reale non c’è effettività né inerenza).
D: Cosa rischio a livello di sanzioni amministrative?
R: Molto. In sintesi: dovrai restituire tutta l’IVA detratta indebitamente, con interessi, e pagare una sanzione del 90% su di essa (minimo). Inoltre, l’azienda dovrà pagare le maggiori imposte sui redditi dovute per i costi non ammessi, più interessi, e sanzione 90% su quelle imposte. Quindi grosso modo pagherai quasi il doppio di quanto indebitamente portato in detrazione/deduzione (100% come imposta/IVA + 90% come sanzione). In casi di crediti in compensazione, la sanzione sale al 100-200%. Ci possono poi essere sanzioni accessorie come la chiusura temporanea dell’attività (rare) o la decadenza da benefici fiscali. Parliamo di cifre importanti: es. per 100.000 € di fatture false, potresti trovarti un atto da 100k IVA + 24k IRES + ~112k di sanzioni varie + interessi. In compenso, se agisci per tempo col ravvedimento, queste sanzioni possono ridursi di molto (anche a 1/7 o 1/8). E se hai ottime ragioni, puoi in contenzioso farti annullare tutto, sanzioni incluse.
D: E a livello penale, cosa rischio se uso fatture false?
R: Rischi una condanna penale per dichiarazione fraudolenta (art. 2 D.Lgs. 74/2000). La pena prevista oggi è la reclusione da 4 a 8 anni. Se l’ammontare delle fatture false è inferiore a 100.000 €, la fascia di pena è 1 anno e 6 mesi – 6 anni (comunque severa). In più, avresti le pene accessorie: interdizione dai pubblici uffici, dalle cariche di impresa, etc., per la durata della pena. Nel concreto, però, hai delle vie d’uscita: se paghi tutte le imposte, sanzioni e interessi prima del dibattimento, non vieni punito penalmente. Oppure puoi patteggiare per ottenere una pena ridotta magari a 2 anni (sospendibile condizionalmente). Se invece neghi e vai a processo, devi puntare all’assoluzione provando che eri estraneo al dolo (se ci riesci esci pulito, sennò in caso di condanna di solito danno sui 2-3 anni se non sei recidivo, ma il minimo è 4 anni, quindi servono circostanze attenuanti per scendere). In ogni caso, il procedimento penale è serio: ci possono essere sequestri preventivi dei tuoi beni fino a concorrenza delle imposte evase (perché poi li vogliono confiscare), perquisizioni, e reputazionalmente non è bello. Quindi il rischio è alto: potenzialmente il carcere (anche se spesso poi con condizionale o misure alternative, ma comunque).
D: E se invece sono stato io a emettere fatture false per altri?
R: Rischi il reato ex art. 8 D.Lgs. 74/2000, anch’esso con pena 4-8 anni di reclusione. In più, se hai emesso tante fatture, spesso contestano anche l’associazione per delinquere (se c’è un’organizzazione). Non c’è la chance di estinzione pagando, perché l’emittente non ha un debito d’imposta suo da estinguere (a parte l’IVA di quelle fatture, che comunque lo Stato chiederà). Per il resto, la dinamica è simile: patteggiamenti, confisca dei profitti (di solito hai percepito un 2-3% di commissione sulle false fatture, lo confiscano). Anche per te interdizioni e discredito. Se eri un mero prestanome di una cartiera, potresti difenderti dicendo che non avevi coscienza di favorire evasione (ma è difficile crederlo). Nota: se tu emittente non hai versato l’IVA sulle fatture (cosa probabile), l’Agenzia Entrate potrebbe pure chiederti quell’IVA in solido.
D: Ho sentito parlare di ravvedimento operoso anche per le frodi; posso sanare la situazione spontaneamente?
R: Sì. Dal 2022 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che anche chi ha commesso frodi (dichiarazione fraudolenta) può accedere al ravvedimento operoso. Ciò significa che puoi presentare una dichiarazione integrativa in cui rimuovi quei costi fittizi, ricalcoli le imposte dovute e versi tutto (imposte + interessi + sanzioni ridotte). Facendo così prima che ti contestino formalmente, ti metti in regola fiscalmente con sanzioni molto ridotte (per esempio se lo fai a controllo già avviato ma prima del PVC, paghi 1/8 o 1/5 delle sanzioni normali). E sul piano penale, questo pagamento integrale ti salva dal processo (causa di non punibilità) se completato entro i termini previsti (prima del dibattimento penale). Quindi il ravvedimento è fortemente consigliato se ti rendi conto di essere incappato in fatture false e non hai ancora l’accertamento: meglio autodenunciarti fiscalmente e pagare un po’ di sanzioni che attendere di essere scoperto e rischiare sanzioni piene + penale. Consulta però un professionista per farlo correttamente (c’è tutta una procedura e valutazioni di opportunità).
D: Quanto tempo ha il Fisco per contestarmi queste cose?
R: I termini di accertamento ordinari sono fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello della dichiarazione (per il 2020, fino a fine 2025). Se non hai presentato dichiarazione IVA o redditi, si va a 7 anni. Inoltre, se c’è un reato e una denuncia penale, i termini raddoppiano (questa regola è stata un po’ complicata negli ultimi anni, ma per violazioni 2016 e precedenti valeva il raddoppio, poi è cambiato solo per omessa). In pratica, spesso per le fatture false l’accertamento arriva entro 8 anni dall’anno contestato. Per il penale, la prescrizione del reato di frode fiscale è di 8 anni (che diventano 10 o più con atti interruttivi, visti gli aumenti di pena del 2019). Quindi possono indagarti anche a distanza di parecchio tempo (ma di solito agiscono prima, entro 2-3 anni già scatta l’indagine se c’è segnalazione). Se passano più di 10 anni, puoi stare abbastanza tranquillo sul penale, e oltre 5 sul fiscale, salvo appunto i casi di omessa dichiarazione (che non è il caso qui, perché se usi fatture false hai presentato la dichiarazione, solo infedele).
D: Cosa succede se vengo assolto in sede penale?
R: Se l’assoluzione è piena (perché il fatto non sussiste o tu non lo hai commesso), ai sensi della legge tributaria hai diritto al rimborso delle imposte che avevi pagato perché quei costi non te li fecero dedurre. Quindi, supponiamo che tu abbia perso nel 2023 in Cassazione tributaria e hai pagato tutto, ma nel 2025 la Corte d’Assise ti assolve dicendo che non c’era frode: tu puoi presentare istanza di rimborso per le maggiori imposte versate su quei costi, e l’Agenzia deve restituirtele. Ciò perché la legge riconosce che se non c’è reato, il costo torna deducibile. Invece, per l’IVA la situazione è più complicata: la norma rimborsa “maggiori imposte versate per la non deducibilità dei costi” (quindi imposte dirette). L’IVA eventualmente potresti chiederla indietro per altra via, ma in genere se la merce c’è stata potresti averla recuperata via detrazione originaria; se l’hai restituita per accertamento e poi ti assolvono, devi provare che quell’IVA era dovuta a quell’operazione. Insomma, è possibile chiederla con un ricorso per ottenere il rimborso per indebito, forte dell’autorità di giudicato penale (magari dicendo: l’operazione c’era, quindi l’IVA era detraibile secondo la CGUE). Non è automatico però. Comunque, diciamo che un’assoluzione piena nel penale aiuta enormemente anche nel rimettere le cose a posto col Fisco. D’altra parte, se in penale patteggi o sei condannato, ciò non fa testo nel tributario (per legge, il giudicato penale di condanna non vincola il tributario). Però in pratica se patteggi è come ammettere la frode, quindi difficilmente vincerai nel tributario (spesso si chiude prima).
D: Cosa posso fare per prevenire problemi di fatture false?
R: Meglio prevenire che curare! Dunque: attua sempre una diligente selezione dei fornitori. Verifica l’identità e l’affidabilità di nuovi fornitori: chiedi visura camerale aggiornata, controlla che abbiano una sede fisica, magari fai una ricerca online, verifica il loro status di registrazione IVA (se esteri), chiedi referenze. Diffida di offerte troppo vantaggiose (prezzi ben sotto mercato) o di richieste di pagamento strane (tipo bonifica a società estera per merce consegnata da italiana, ecc.). Se possibile, inserisci clausole contrattuali in cui il fornitore garantisce la genuinità fiscale e si impegna a risarcirti se mai risultasse essere una cartiera (magari non ti salverà dal Fisco, ma potresti rifarti su di lui). Tieni traccia di tutta la documentazione logistica: se compri beni, pretendi DDT; se subappalti lavori, assicurati che i lavoratori siano identificati e presenti sui cantieri, ecc. Insomma, costruisci un audit trail. Inoltre, occhio ai segnali: se un fornitore ti cambia spesso coordinate bancarie, o chiede di intestare a società diverse nel tempo, o non consente visite in sede, potrebbe esserci puzza di bruciato. In quel caso, meglio interrompere subito i rapporti, approfondire, o addirittura segnalare all’Agenzia se sospetti fortemente (così ti metti al riparo dimostrando di non essere complice). Un altro consiglio: fai controllare al tuo commercialista i fornitori principali ogni tanto, loro spesso hanno occhio per capire situazioni anomale (ad es. vedono se la P.IVA del fornitore risulta a rischio o se è nota come cartiera in ambienti professionali). Implementare un sistema interno di verifica (checklist fornitori) è la miglior difesa per evitare di cadere vittima di frodatori.
Simulazioni pratiche (casi di esempio)
Per comprendere in modo più concreto come applicare i principi esposti, proponiamo ora alcune simulazioni pratiche, cioè casi ipotetici (basati su fatti ricorrenti nella pratica italiana) con l’indicazione di come dovrebbe muoversi il contribuente (debitore) in ciascuna situazione e quali potrebbero essere gli esiti.
Esempio 1: Operazione soggettivamente inesistente con contribuente inconsapevole
Scenario: La Alfa Srl acquista semilavorati di alluminio dalla Beta Srl per € 50.000 + IVA 11.000. La merce viene effettivamente consegnata ad Alfa Srl e utilizzata nel suo processo produttivo. Alfa paga Beta con bonifico. Dopo un anno, emerge (da indagini della GdF) che Beta Srl è una “cartiera”, ossia non aveva struttura né dipendenti e serviva solo a emettere fatture; i semilavorati in realtà provenivano dalla Gamma Spa, una grossa fonderia che vendeva in nero usando Beta come schermo. Alfa Srl non sapeva nulla di Gamma Spa: a lei risultava di aver trattato con Beta, presentatale da un intermediario. L’Agenzia delle Entrate contesta ad Alfa Srl l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti (Beta fittizia) e le notifica un avviso di accertamento: chiede il versamento dell’IVA detratta (€ 11.000) + interessi + sanzione 90% (€ 9.900), e nega la deduzione dei € 50.000 di costo, con recupero di IRES (€ 12.000) + sanzione 90% (€ 10.800). Totale pretesa (arrotondata): ~€ 43.700 tra imposte e sanzioni (più interessi).
Difesa del contribuente: Alfa Srl, supportata da un legale tributarista, presenta ricorso sostenendo di aver agito in totale buona fede e contestando l’onere probatorio. In particolare, porta in Commissione: (a) le visure camerali e fiscali di Beta Srl all’epoca: risultava attiva, iscritta, rappresentata dal sig. Rossi incensurato – nessun segnale evidente di anomalia; (b) le email di ordine e conferma con Beta, in cui Beta comunicava coordinate bancarie e condizioni come un normale fornitore; (c) DDT firmati dal trasportatore che consegnò i semilavorati, indicante Beta come mittente; (d) una dichiarazione testimoniale del titolare del trasporto che conferma di aver ritirato la merce presso la fonderia Gamma su indicazione di Beta (ciò rivela Beta come intermediario, ma Alfa spiega di non aver potuto saperlo allora); (e) prova che il prezzo pagato (€ 50k per tot tonnellate di alluminio) era in linea col mercato, dunque Alfa non aveva un vantaggio sospetto; (f) evidenza che Alfa Srl ha correttamente contabilizzato e usato quei semilavorati nella produzione (registro di produzione che mostra output coerenti con quell’input, etc.). Inoltre, Alfa sottolinea che Beta Srl era addirittura in regola col DURC (risultato da un controllo fatto da Alfa, benché Beta fosse falsa, magari aveva un DURC artefatto, ma Alfa non poteva capirlo).
Giuridicamente, Alfa Srl argomenta: l’Agenzia non ha provato che Alfa fosse consapevole della frode – Beta aveva tutta l’apparenza di legittimità. Invoca la giurisprudenza che richiede la prova della conoscibilità della frode con ordinaria diligenza. Alfa evidenzia di aver esercitato la diligenza media (ha controllato partita IVA, registro imprese, ha un contratto firmato, pagato su conto intestato Beta, etc.). Quindi chiede l’annullamento dell’atto, quantomeno per la parte sanzionatoria e, se possibile, anche per IVA e costi.
Possibile esito: La Corte di Giustizia Tributaria, constatando la documentazione, potrebbe ritenere che effettivamente l’operazione c’è stata (merce consegnata e usata) e che Alfa Srl non era connivente. A questo punto due possibili esiti: (i) Soluzione favorevole parziale: il giudice conferma il recupero dell’IVA (perché art. 21 c.7 DPR 633/72 è implacabile: Beta non era il vero cedente, quindi niente detrazione), ma annulla le sanzioni IVA per obiettiva incertezza o buona fede del contribuente, e riconosce la deducibilità del costo ai fini IRES perché effettivamente sostenuto e inerente. Quindi Alfa dovrebbe versare gli 11.000 di IVA (con interessi) ma non la relativa sanzione, e non pagherebbe nulla per l’IRES (né imposta né sanzione, mantenendo il costo dedotto). (ii) Soluzione favorevole totale: il giudice, magari ispirandosi al diritto UE, annulla anche il recupero dell’IVA, sostenendo che negare la detrazione in caso di buona fede cozza con i principi comunitari – non tutti i collegi osano tanto, ma qualcuno sì. In tal caso Alfa vince su tutti i fronti e nulla è dovuto (scenario ideale). Oppure (iii) Soluzione sfavorevole: il giudice ritiene valida la tesi dell’ufficio: Beta era falsa, poco importa la buona fede, e conferma l’atto. In tal caso Alfa comunque potrebbe fare appello e avrebbe buone chance di spuntarla in secondo grado sulla parte sanzioni/costi, data la Cassazione favorevole sui costi soggettivi deducibili e la diligenza. Nel frattempo, sul piano penale, l’amministratore di Alfa è stato indagato, ma la sua difesa produce le stesse prove di buona fede e riesce a evitare il rinvio a giudizio (il PM chiede l’archiviazione perché non c’è elemento per sostenere il dolo specifico). Beta Srl e Gamma Spa invece verranno perseguite penalmente. Alfa, dopo questa disavventura, d’ora in avanti farà controlli ancora più accurati sui fornitori.
Esempio 2: Operazione oggettivamente inesistente orchestrata dal contribuente (frode “classica”)
Scenario: La Delta Srl, per abbattere il proprio utile, si accorda con l’amico Epsilon, titolare di una ditta individuale inattiva, per farsi emettere fatture di consulenza informatica inesistenti. In un anno, Epsilon emette a Delta fatture per € 80.000 + IVA 17.600, descrivendo “sviluppo software” mai avvenuto. Delta registra le fatture, paga Epsilon con bonifico, poi Epsilon preleva e restituisce in contanti l’80% a Delta (tenendo per sé un 20% di commissione). L’anno dopo, la frode viene scoperta durante una verifica fiscale (magari perché Epsilon era già sospetto in altre operazioni). L’Agenzia notifica a Delta Srl un accertamento recuperando € 17.600 di IVA + interessi + 90% (15.840) di sanzione, e negando deducibilità di € 80.000 di costi, con maggior IRES € 19.200 + sanzione 90% (17.280). Totale circa € 69.000 più interessi. Contestualmente, parte la denuncia penale: amministratore di Delta indagato ex art.2, Epsilon indagato ex art.8.
Difesa del contribuente: In questo caso Delta Srl non ha vere prove a discarico perché davvero il lavoro non c’è stato. Formalmente esistono solo le fatture e i bonifici, ma non c’è un software, non ci sono report, nulla. L’unica strategia difensiva in ambito tributario potrebbe essere trovare qualche appiglio procedurale (ad esempio, eccepire un vizio di notifica, o la mancata attivazione del contraddittorio se applicabile) – altrimenti il contenzioso è perso. Delta Srl, capito di essere nei guai, può scegliere la via del ravvedimento postumo: non ha fatto in tempo a sanare prima dell’accertamento, ora potrebbe tentare un accordo con l’ufficio in adesione o conciliazione. Ad esempio, se l’ufficio offre sanzioni ridotte al 1/3, potrebbe chiudere versando l’imposta + 1/3 sanzioni. O potrebbe pagare tutto e poi sperare nell’attenuante penale.
Possibile esito: Data la malafede conclamata (che magari viene provata dalla GdF con intercettazioni o confessione di Epsilon), Delta Srl non ha scampo in sede tributaria: l’accertamento verrà confermato in pieno. Forse riesce a ridurre qualcosa in fase precontenziosa, ma poco. Dovrà quindi pagare il dovuto. Sul piano penale, l’amministratore di Delta decide di pagare integralmente € 69.000 + interessi prima dell’udienza. Così, quando il caso va in dibattimento, il suo avvocato chiede l’applicazione dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000: il tribunale dichiara il reato non punibile per intervenuto pagamento (il PM può opporsi solo verificando che il pagamento sia realmente completo di tutto). L’amministratore si salva dal carcere, anche se la società ha sborsato una bella cifra. Epsilon, l’emittente, invece non può usufruire di cause estintive (non aveva debiti tributari da pagare se non l’IVA che tanto non aveva versato, e quell’IVA la verserà comunque essendo debitore d’imposta come emittente – gliela chiederanno con sanzioni per operazione inesistente, ma non lo salva dal penale). Epsilon patteggia, ad esempio 1 anno e 8 mesi con sospensione condizionale, e paga una multa.
Questo esempio evidenzia come, in una frode conclamata orchestrata dal contribuente stesso, l’unica difesa sensata sia limitare i danni: collaborazione e pagamento per evitare il peggio (carcere). Non essendoci difese sul merito, la strategia è procedurale (accordi, patteggiamenti).
Esempio 3: Caso particolare – fattura falsa scoperta dal contribuente stesso e regolarizzazione
Scenario: La Zeta Spa commissiona lavori di manutenzione a un fornitore, Ypsilon Srl. Dopo aver pagato fatture per 100.000 € + IVA 22.000 e averle detratte/dedotte, scopre (per vie informali, o perché l’amministratore di Ypsilon viene arrestato per frodi) che Ypsilon era una cartiera e in realtà i lavori li ha eseguiti un subappaltatore in nero. Zeta Spa, preoccupata, prima di ricevere qualunque accertamento decide di correre ai ripari: contatta il proprio commercialista e avvocato.
Azione intrapresa: Zeta Spa, su consiglio dei professionisti, fa una dichiarazione integrativa per l’anno in questione: elimina quei 100.000 € di costi dal bilancio fiscale e riduce il credito IVA di 22.000. Paga quindi le maggiori imposte dovute (IRES 24% di 100k = 24.000, IRAP 3.9% = 3.900, IVA 22.000 da restituire) con i relativi interessi e una sanzione ridotta al 1/8 (essendo ravvedimento oltre l’anno ma entro il controllo, 90%/8 ≈ 11.25% sul tributo). Quindi paga circa: 22k IVA + 24k IRES + 3.9k IRAP = 49.9k di imposte, e sanzioni: 19.8k (90% di 22k + 90% di 24k + 90% di 3.9k = ~44.3k, ridotto a 1/8 = ~5.5k). Totale versato ~55k + interessi. Invia all’Agenzia la documentazione del ravvedimento.
Esito: L’Agenzia delle Entrate verifica e accoglie il ravvedimento (nessun accertamento sanzionatorio, magari un semplice atto di presa d’atto). Zeta Spa evita così l’avviso di accertamento e le relative sanzioni piene. Sul piano penale, la Procura comunque indaga l’amministratore di Zeta per utilizzo di fatture false. Però, essendo Zeta intervenuta spontaneamente prima della notifica di atti e soprattutto prima del dibattimento, il suo legale fa valere la causa di non punibilità: Zeta ha estinto tutto il debito (ha pagato imposte, sanzioni, interessi), come richiesto dall’art. 13 D.Lgs. 74/2000. Quindi il PM o chiederà l’archiviazione, o al massimo vi sarà un proscioglimento per esito positivo del ravvedimento. L’amministratore esce pulito. Certo, Zeta ha dovuto sborsare 55k, ma ha evitato un possibile esborso maggiore (sanzioni al 90% su 49.9k sarebbe state ~44k, quasi 4 volte di più) e soprattutto rischi penali. Inoltre, avendo dimostrato collaborazione, eviterà danni reputazionali o interdittivi. In Commissione Tributaria non si va nemmeno, perché l’Agenzia non emette avviso (o se era partito, viene annullato in autotutela data la definizione).
Commento: Questo esempio mostra come un contribuente che si accorge per tempo di avere in contabilità fatture potenzialmente inesistenti possa (e dovrebbe) autodenunciarsi fiscalmente per limitare le conseguenze. Questa è la strategia del ravvedimento operoso, resa possibile anche nei casi di frode dopo le riforme recenti. Non è una “simulazione” di contenzioso, ma un case study di prevenzione e difesa attiva. Il rovescio della medaglia è dover pagare comunque le tasse inizialmente evitate, ma almeno con forte sconto sanzionatorio e immunità penale.
Questi esempi coprono alcune situazioni tipiche: il contribuente davvero ignaro (esempio 1), il contribuente complice attivo (esempio 2) e il contribuente che corre ai ripari (esempio 3). Ovviamente, ogni caso reale presenta sfumature diverse, ma i principi applicati rimangono quelli discussi nella guida.
Conclusioni
Le fatture per operazioni inesistenti rappresentano una mina fiscale e legale sul cammino di ogni contribuente e professionista. Difendersi con successo dall’accertamento richiede un approccio metodico: conoscenza delle norme, prontezza nel raccogliere ed esibire prove concrete, e abilità nel far valere i diritti procedurali e la giurisprudenza favorevole. Dal punto di vista del debitore (contribuente), è fondamentale:
- Agire sempre con diligenza preventiva, per evitare di incappare in fornitori o situazioni rischiose. Prevenire è la miglior difesa: se tieni la tua contabilità libera da fatture dubbie, non dovrai poi combattere battaglie incerte.
- Se l’accertamento arriva, non farsi prendere dal panico ma predisporre una linea difensiva solida, basata su fatti e non su mere dichiarazioni. Ogni documento utile va portato a sostegno della genuinità delle operazioni. Ogni falla nell’impianto accusatorio va sfruttata.
- Comprendere che la buona fede aiuta ma non risolve tutto: nel migliore dei casi ti salva da sanzioni e reati, ma potresti comunque dover pagare le imposte contestate. Ciò sprona ad essere doppiamente prudenti negli affari: “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” quando si tratta di nuove controparte commerciali.
- Valutare con pragmatismo le opzioni di definizione agevolata e ravvedimento: a volte è più conveniente (e meno dispendioso, anche in reputazione) pagare il dovuto con sconti, anziché imbarcarsi in lunghe cause dall’esito incerto. Altre volte invece si hanno valide ragioni per resistere e allora conviene andare fino in fondo in Commissione e oltre.
- Coordinare sempre la difesa tributaria e penale, perché sono due fronti della stessa guerra. Un passo falso in un ambito può costare caro nell’altro. L’ideale è muoversi con consulenti esperti integrando le strategie (es. non fare ammissioni affrettate in sede fiscale se possono nuocere nel penale, a meno che non si punti tutto sull’estinzione per pagamento).
In ultima analisi, il messaggio di questa guida è che difendersi è possibile – soprattutto quando si è nel giusto – ma richiede impegno, competenza e preparazione. Le Commissioni Tributarie e la Cassazione negli ultimi anni hanno mostrato sensibilità nel distinguere il evasore abituale che costruisce frodi dal contribuente onesto tratto in inganno: il primo va punito severamente, il secondo va messo in guardia ma non distrutto. Citando testualmente un principio affermato: “l’amministrazione finanziaria non può esigere dal contribuente, al fine di assicurarsi che non partecipi a frodi altrui, verifiche più complesse di quelle di un accorto operatore in rapporto alle circostanze concrete”. Ciò significa che se hai fatto tutto il ragionevole, il sistema – in teoria – ti tutela.
Resta però vero che chi utilizza fatture false (anche senza saperlo) subirà comunque conseguenze: quantomeno la perdita del beneficio fiscale indebito. Il punto di vista del debitore deve quindi combinare la difesa tecnica con una riflessione: conviene davvero rischiare? La risposta è no. Questa consapevolezza, unita alle informazioni dettagliate fornite in questa guida su “come difendersi dall’accertamento”, speriamo metta lettori e operatori in grado non solo di fronteggiare l’eventuale verifica, ma soprattutto di navigare nell’attività economica quotidiana con maggiore prudenza e coscienza, riducendo al minimo il pericolo di incorrere in fatture per operazioni inesistenti.
In sintesi: chi è debitore senza colpa può (e deve) far valere le proprie ragioni e ha strumenti per evitare le sanzioni peggiori; chi è debitore perché ha tentato la via facile dell’evasione attraverso false fatture, sappia che la legge oggi offre poche scappatoie – una su tutte, il ravvedimento sincero e il pagamento dovuto – e che la tolleranza è zero verso questo comportamento. Conoscere le regole del gioco fiscale, come abbiamo illustrato, è il primo passo per non diventarne vittima.
Fonti e riferimenti
- Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (IVA), art. 21 comma 7, art. 54 comma 2.
- Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (accertamento imposte sui redditi), art. 39 comma 1 lett. d).
- Legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14 comma 4-bis (costi da reato non deducibili), come modificata da D.L. 2 marzo 2012, n. 16 conv. L.44/2012.
- D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), art. 8 (Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), art. 13 (cause di non punibilità per pagamento).
- Legge 19 dicembre 2019, n. 157 (conversione DL 124/2019, c.d. “Decreto Fiscale 2020”) – Inasprimento pene art.2 e art.3 D.Lgs.74/2000, estensione causa non punibilità ad art.2 e 3; introduzione reati tributari nel catalogo D.Lgs. 231/2001.
- Circolare Agenzia Entrate n. 180/E del 1998 (non più attuale sul divieto di ravvedimento in frode), Circolare Agenzia Entrate n. 31/E del 2020, Circolare Agenzia Entrate n. 11/E del 12 maggio 2022 – Chiarimenti su ravvedimento operoso in casi fraudolenti.
- Cassazione Civile, Sez. V, 16 giugno 2020 n. 11624 – Onere della prova in contestazioni di fatture oggettivamente inesistenti.
- Cassazione Civile, Sez. V, 18 ottobre 2021 n. 28628 – (Cfr. citata in Cass. 35091/2023) – Inesistenza oggettiva: contribuente deve provare effettiva esistenza, formalità non sufficienti.
- Cassazione Civile, Sez. V, 9 agosto 2022 n. 24471 – Operazioni soggettivamente inesistenti: doppia prova (fornitore fittizio e consapevolezza del cessionario), onere diligenza del contribuente.
- Cassazione Civile, Sez. V, 14 ottobre 2022 n. 30018 (ord.) – Deducibilità costi soggettivamente falsi anche se contribuente consapevole (salvi limiti effettività/inerenza), indeducibilità costi oggettivamente falsi.
- Cassazione Civile, Sez. Unite, 30 settembre 2022 n. 28433 – Ammissibilità dichiarazioni rese da terzi e nuovi mezzi prova nel processo tributario (testimonianza scritta).
- Cassazione Civile, Sez. V, 20 dicembre 2023 n. 35091 – (ilTributo) Conferma orientamenti su onere della prova sia per soggettive che oggettive, critica presunzioni automatiche.
- Cassazione Civile, Sez. V, 23 luglio 2024 n. 20411 – (Sistema Ratio) Principio di indetraibilità IVA ex art.21 co.7 DPR 633/72 sempre, anche soggettive (precisazione disciplina).
- Cassazione Civile, Sez. V, 11 novembre 2024 n. 28999 – Motivazioni indetraibilità IVA in operazioni soggettivamente inesistenti.
- Cassazione Penale, Sez. III, 19 aprile 2017 n. 24307 – Emissione fatture false configurabile anche in caso di falsità soggettiva (citata da Cass.16576/2023).
- Cassazione Penale, Sez. III, 17 aprile 2023 n. 16576 – Emissione di fatture false: reato configurabile anche senza individuarne autore reale, evasione effettiva non elemento costitutivo.
- Cassazione Penale, Sez. III, 2 maggio 2022 n. 16800 – Utilizzatore di fatture false non concorre nel reato di emissione (no doppia imputazione).
- Cassazione Penale, Sez. III, 27 ottobre 2023 n. 45525 – Concorso di persone nei reati tributari di emissione e utilizzo (conferma separazione ruoli).
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L’accusa di aver emesso o utilizzato fatture per operazioni inesistenti è tra le più gravi nel diritto tributario: può portare non solo a pesanti sanzioni fiscali, ma anche a conseguenze penali.
In molti casi, però, le contestazioni del Fisco si basano su presunzioni, indizi o errori di ricostruzione che possono essere efficacemente contestati.
Esistono due tipi di operazioni inesistenti:
- Oggettivamente inesistenti: l’operazione non è mai avvenuta
- Soggettivamente inesistenti: il bene o servizio esiste, ma il fornitore è fittizio
Difendersi è possibile, ma serve un’analisi puntuale della documentazione e una strategia legale chiara.
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Conclusione
Le fatture per operazioni inesistenti non vanno sottovalutate, ma non sempre le contestazioni del Fisco sono fondate.
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