Hai un’impresa indebitata e non riesci più ad accedere al credito bancario? Ti stai chiedendo se è possibile finanziare l’attività senza dover chiedere nuovi prestiti e aggravare la situazione?
In caso di crisi o difficoltà di liquidità, l’autofinanziamento aziendale può diventare l’unica strada per sopravvivere e ripartire. Ma per renderlo efficace servono decisioni strategiche, tagli mirati e una gestione attenta dei flussi di cassa.
Cos’è l’autofinanziamento aziendale?
È la capacità dell’impresa di generare internamente le risorse necessarie per sostenere la gestione operativa, investire o ristrutturare i debiti, senza ricorrere a finanziamenti esterni. In pratica, significa usare al meglio quello che l’azienda già produce o può recuperare.
Quando è utile l’autofinanziamento se hai debiti?
– Quando le banche hanno bloccato l’erogazione di credito
– Quando vuoi evitare nuove esposizioni e interessi
– Quando devi finanziare un piano di rientro o una procedura di risanamento
– Quando vuoi mantenere la continuità aziendale senza svendere asset
Come si attiva l’autofinanziamento in concreto?
- Recupera liquidità dormiente:
– Incassa rapidamente i crediti verso clienti
– Sconta fatture o utilizza strumenti di factoring
– Vendi scorte inutilizzate o immobilizzazioni non strategiche - Taglia i costi non essenziali:
– Rinegozia forniture, affitti, leasing
– Riduci consulenze, trasporti, spese generali
– Sospendi investimenti non urgenti - Ottimizza i flussi in entrata e uscita:
– Allunga i tempi di pagamento ai fornitori
– Anticipa gli incassi con promozioni o sconti mirati
– Gestisci con priorità i pagamenti più urgenti (es. stipendi, fornitori chiave) - Valorizza gli asset interni:
– Sfrutta know-how, brevetti, relazioni commerciali
– Riattiva linee produttive ferme
– Riqualifica personale interno anziché esternalizzare
È possibile autofinanziare anche un piano di ristrutturazione?
Sì, soprattutto se si opta per una composizione negoziata della crisi o un accordo con i creditori. In questi casi, dimostrare di saper generare risorse internamente aumenta la credibilità del piano e riduce il fabbisogno esterno.
L’autofinanziamento può anche essere affiancato da nuovi apporti dei soci, da considerare come investimento sul rilancio, non come semplice “tappabuchi”.
Cosa succede se non ti muovi in tempo?
– I debiti continuano a crescere per effetto di interessi e sanzioni
– I creditori iniziano azioni legali o esecutive
– Perdi il controllo sull’impresa e sulle sue risorse
– L’azienda si svuota di valore e diventa difficile salvarla
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in gestione della crisi d’impresa – ti spiega come usare l’autofinanziamento in modo strategico, anche quando sei sommerso dai debiti, per evitare il tracollo e costruire un piano concreto di ripartenza.
Hai debiti e non puoi più contare sulle banche? Vuoi sapere se la tua azienda può salvarsi autofinanziandosi?
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Autofinanziamento aziendale quando hai i debiti: come fare
Introduzione: Affrontare una situazione di forte indebitamento aziendale richiede un mix di gestione finanziaria interna oculata e l’utilizzo mirato degli strumenti giuridici predisposti dall’ordinamento. Con “autofinanziamento aziendale” si intende la capacità dell’impresa di generare liquidità e risorse con mezzi propri, ad esempio reinvestendo utili non distribuiti, dismettendo attivi non strategici o grazie all’apporto di soci, senza ricorrere a nuovi prestiti esterni. Quando un’azienda è gravata dai debiti, l’autofinanziamento diventa cruciale: spesso l’accesso al credito è compromesso e occorre trovare soluzioni interne per onorare le obbligazioni e ristabilire l’equilibrio finanziario.
Negli ultimi anni il quadro normativo italiano in materia di crisi d’impresa è stato profondamente riformato. Con l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) – D.Lgs. 14/2019, operativo dal 2022 – e i successivi correttivi fino al 2024 (c.d. Correttivo “ter”, D.Lgs. 136/2024), sono stati introdotti nuovi strumenti per prevenire e gestire la crisi, promuovendo la continuità aziendale e una “seconda opportunità” in linea con la Direttiva UE 2019/1023. In parallelo, la giurisprudenza più recente – dalla Corte Costituzionale alle pronunce della Cassazione – ha ampliato le tutele per l’imprenditore onesto ma sfortunato, ad esempio permettendo la riduzione concordata di debiti fiscali (IVA compresa) quando la soluzione concordataria è più vantaggiosa della liquidazione.
Questa guida, aggiornata a giugno 2025, esamina in dettaglio tutte le principali tipologie di debito e forme di impresa, illustrando le tecniche di gestione finanziaria interna e gli strumenti legali disponibili per evitare il fallimento (ora liquidazione giudiziale), negoziare col Fisco e con gli altri creditori, e rilanciare l’attività. Adotteremo un linguaggio giuridico accurato ma di taglio divulgativo, con riferimenti normativi puntuali e richiami alle sentenze più recenti. Troverete anche tabelle riepilogative, domande e risposte su quesiti frequenti, nonché casi pratici simulati riguardanti la realtà italiana. L’obiettivo è fornire un quadro avanzato – adatto a professionisti legali, imprenditori e privati informati – dal punto di vista del debitore, cioè focalizzato sulle strategie che l’impresa debitrice può attuare per risanare la propria posizione ed evitare esiti irreversibili.
Riconoscere la crisi e valutare i debiti
Prima di tutto, è fondamentale riconoscere per tempo lo stato di crisi della propria azienda. Spesso l’imprenditore tende a sottovalutare segnali d’allarme, ritardando interventi che invece andrebbero attuati subito. Il Codice della crisi definisce crisi uno stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura, misurabile tramite indici come il Debt Service Coverage Ratio (DSCR) o squilibri di bilancio (ad es. patrimonio netto azzerato). In pratica, alcuni campanelli d’allarme comuni sono:
- Liquidità insufficiente e cassa costantemente negativa, con utilizzo completo degli affidamenti bancari.
- Ritardi nei pagamenti di fornitori, dipendenti, rate di mutuo o leasing, tributi e contributi.
- Aumento dell’esposizione verso banche (conto scoperto, sconfinamenti) e verso il fisco (cartelle esattoriali non saldate).
- Solleciti e azioni legali da parte dei creditori: decreti ingiuntivi, pignoramenti, o anche solo diffide di pagamento sempre più frequenti.
- Calo del fatturato o margini erosi, con costi fissi che restano elevati a fronte di ricavi in diminuzione.
Tali sintomi indicano che l’impresa potrebbe trovarsi in difficoltà nel far fronte regolarmente alle obbligazioni nei successivi 6-12 mesi. La normativa odierna impone all’imprenditore di attivarsi senza indugio in presenza di segnali del genere: l’art. 2086 c.c., come riformato, obbliga le società di capitali a dotarsi di assetti organizzativi adeguati anche per la rilevazione tempestiva della crisi e per prendere le misure necessarie. Inoltre, esistono soglie specifiche (ad esempio arretrati IVA oltre €5.000 per periodo trimestrale) che se superate devono essere segnalate dall’Erario o dagli organi di controllo come indici di crisi. Ignorare questi obblighi può esporre gli amministratori a responsabilità civili e anche penali in caso di aggravamento del dissesto.
Mappare l’indebitamento: Una volta riconosciuta la situazione, il debitore deve procedere a una ricognizione completa dei debiti aziendali. Ciò significa stilare un elenco dettagliato di tutte le passività, distinguendo per tipologia e scadenza, e confrontandole con le attività liquidabili e i flussi di cassa prospettici. Occorre quantificare: i debiti finanziari (verso banche e intermediari), i debiti verso fornitori, i debiti tributari verso l’Erario (Agenzia Entrate) e quelli verso enti previdenziali (es. INPS), nonché eventuali debiti verso i dipendenti (stipendi arretrati, TFR) o altri debiti particolari. Per ciascuna categoria va verificato lo stato delle eventuali procedure di recupero avviate (una banca ha già notificato un decreto ingiuntivo? L’Agenzia Entrate Riscossione ha iscritto ipoteche o fermi amministrativi? Ci sono pignoramenti in corso?).
È utile, in questa fase, farsi affiancare da un professionista (commercialista o avvocato) esperto in crisi d’impresa. Una diagnosi accurata permette di scegliere gli strumenti più adatti. Ad esempio, se gran parte del debito è verso il Fisco, sarà cruciale valutare le opzioni di rateazione o definizione agevolata fiscale; se invece prevalgono i debiti bancari, si esploreranno piani di rientro o accordi con gli istituti di credito; se ci sono molti fornitori piccoli, potrebbe essere opportuno un approccio collettivo tramite procedura. Anche la forma giuridica dell’impresa e la presenza di eventuali garanzie personali (come fideiussioni dei soci verso le banche) incidono molto sulle strategie possibili, come vedremo.
Tipologie di debito e implicazioni per il debitore
Non tutti i debiti sono uguali: la natura del credito e del creditore influenzano sia le azioni che il creditore può intraprendere, sia gli strumenti di composizione disponibili per il debitore. Di seguito analizziamo le principali categorie di debito che un’impresa indebitata può avere, evidenziandone le caratteristiche, le conseguenze del mancato pagamento e le possibili soluzioni dal lato del debitore.
- Debiti bancari e finanziari: comprendono mutui, finanziamenti, scoperti di conto, leasing, ecc., concessi da banche o società finanziarie. Spesso sono assistiti da garanzie: ipoteche su immobili, pegni su beni o titoli, e quasi sempre da fideiussioni personali dei soci o degli amministratori (specie nelle PMI). Il mancato pagamento di rate o interessi può portare rapidamente alla decadenza dal beneficio del termine e all’iscrizione a sofferenza in centrale rischi. La banca può reagire con un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo e procedere a pignoramenti dei beni aziendali o escussione delle garanzie (ad esempio pignorando immobili ipotecati, o chiedendo il fallimento se il debito è significativo). Dal punto di vista del debitore, è fondamentale mantenere un dialogo con la banca: spesso è possibile negoziare una moratoria o un rifinanziamento del debito. Ad esempio, si può concordare un piano di rientro con rateizzazioni più sostenibili, magari allungando la durata del mutuo (operazione di rescheduling). In situazioni di crisi conclamata, se la banca teme di perdere tutto in un fallimento, potrebbe accettare un accordo a saldo e stralcio (pagamento parziale a fronte di stralcio del residuo), oppure aderire a un accordo di ristrutturazione o a un concordato preventivo (come creditore in classe separata). Da ricordare che i fideiussori (es. soci garanti) restano obbligati: se il debitore principale non paga, la banca escuterà loro – motivo per cui spesso i garanti hanno interesse a sostenere l’autofinanziamento dell’azienda per evitare default.
- Debiti verso fornitori: sono i debiti commerciali per materie prime, merci, servizi ricevuti. Tipicamente sono chirografari (non garantiti) e di importo variabile ma complessivamente incidono sulla gestione corrente. I fornitori insoluti, specie se strategici, possono mettere in difficoltà l’operatività interrompendo ulteriori forniture. Possono anch’essi attivarsi legalmente (ingiunzioni, pignoramenti); anzi, un gruppo di piccoli creditori insoddisfatti potrebbe coalizzarsi e presentare istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) se ritengono l’azienda insolvente. Dal lato del debitore, la gestione di questi debiti passa per una negoziazione individuale: spesso è possibile ottenere proroghe di pagamento (brevi dilazioni) se il fornitore ha interesse a mantenere il cliente. In altri casi, specie quando il debito è elevato e palesemente non esigibile integralmente, si può proporre anche qui un saldo e stralcio (pagamento di una percentuale entro breve, a stralcio del totale) facendo leva sul fatto che l’alternativa – agire legalmente – comporterebbe tempi lunghi e incertezza (soprattutto se l’azienda rischia il fallimento). Un fornitore commerciale spesso preferisce recuperare subito ad es. il 30-50% piuttosto che attendere anni e forse prendere meno. Negoziare con i fornitori richiede trasparenza: conviene condividere almeno in parte il piano di rilancio, per convincerli che applicando uno sconto oggi possono mantenere il cliente in futuro (incentivo alla continuità). In caso di procedura concorsuale, i fornitori rientrano tra i creditori chirografari, che – salvo classi separate – ricevono il medesimo trattamento percentuale secondo il piano proposto.
- Debiti tributari (Erario): includono imposte dirette e indirette dovute all’Agenzia delle Entrate, nonché le somme iscritte a ruolo e affidate all’Agenzia delle Entrate-Riscossione (AER) – ex Equitalia – per la riscossione coattiva (es. IVA, IRPEF trattenuta ai dipendenti, IRES, IRAP non versate, ecc.). Questi debiti godono in gran parte di privilegio generale sui beni mobili (per le imposte) e di privilegi speciali (es. ipoteca per le imposte ipotecarie, privilegio sui beni dell’azienda per l’IVA). Il mancato pagamento genera cartelle esattoriali; se non si adempie, l’Agenzia Riscossione può adottare misure cautelari ed esecutive come il fermo amministrativo di automezzi, l’ipoteca sugli immobili dell’azienda o dei soci garanti, e infine il pignoramento di conti correnti o beni (anche presso terzi). Inoltre, alcuni omessi versamenti configurano reati tributari: ad esempio, il mancato versamento di IVA superiore a una certa soglia (€250.000 annui, soglia vigente per il reato di cui all’art. 10-ter D.Lgs. 74/2000) espone gli amministratori a responsabilità penale. Dal punto di vista del debitore, i margini di manovra fuori dalle procedure concorsuali sono limitati, poiché per legge il Fisco non può rinunciare ai tributi dovuti, se non nelle forme generalizzate previste dalla normativa (è escluso un “saldo e stralcio” liberamente negoziato col Fisco). Le opzioni extragiudiziali sono: rateizzare il debito fiscale e contributivo (ai sensi dell’art. 19 DPR 602/1973, si possono ottenere piani di dilazione fino a 72 rate, o 120 rate (10 anni) in caso di comprovata grave difficoltà); oppure aderire a eventuali definizioni agevolate (c.d. rottamazioni delle cartelle) offerte dal legislatore. Ad esempio, la “rottamazione-quater” attiva tra 2023-2024 consente di estinguere i ruoli risparmiando sanzioni e interessi di mora, pagando solo imposte e aggio in forma dilazionata. Queste misure possono ridurre significativamente il carico fiscale pendente. Va monitorata la Gazzetta Ufficiale per cogliere eventuali condoni o sanatorie in corso. Fuori da queste ipotesi, se il debito tributario è troppo alto per essere pagato, l’unica via per abbatterlo è ricorrere alle procedure concorsuali che prevedono la transazione fiscale (nel concordato preventivo o negli accordi di ristrutturazione), tramite cui si propone il pagamento parziale delle imposte con l’approvazione del tribunale. Approfondiremo oltre le condizioni legali della transazione fiscale (ad es. trattamento minimo dei crediti erariali). In sintesi: prima di avviare una procedura formale, un’azienda con debiti fiscali potrà sospendere l’azione esecutiva aderendo a una rateizzazione (basta la domanda e il pagamento della prima rata per congelare nuove azioni esecutive) o a una rottamazione; poi, per qualsiasi taglio sull’importo, sarà necessario includere il Fisco in un piano di risanamento omologato.
- Debiti contributivi (previdenziali/assistenziali): sono i debiti verso enti come INPS o INAIL per contributi obbligatori dei dipendenti o del titolare d’azienda. Hanno natura simile ai debiti tributari: sono privilegiati e affidati per la riscossione coattiva sempre all’Agenzia Entrate-Riscossione. Il mancato versamento dei contributi previdenziali dei lavoratori dipendenti, oltre al recupero coattivo, può integrare reato se l’omissione supera una soglia (€10.000 annui, art. 2 co.1-bis D.L. 463/1983 conv. L. 638/1983). Le strategie dal lato debitore rispecchiano quelle per i debiti fiscali: possibilità di rateazione direttamente con l’ente (INPS concede piani di dilazione per alcune forme di debito contributivo), eventuali condoni limitati (talora legislatori hanno previsto stralcio di interessi e sanzioni per contributi, analogamente alle rottamazioni), e – se serve ridurre il carico – ricorso alla transazione contributiva in sede concorsuale (la transazione fiscale di cui all’art. 63 CCII include anche i crediti degli enti previdenziali, con pari regole). In un concordato o accordo, i contributi (come i tributi) rientrano tra i crediti pubblici che seguono disciplina propria.
- Debiti verso dipendenti: includono retribuzioni arretrate, tredicesime non pagate, trattamento di fine rapporto (TFR) maturato e non versato ai fondi, ecc. Questi crediti godono di privilegi speciali e generali molto forti a tutela dei lavoratori (ad esempio, salari degli ultimi 6 mesi e TFR hanno privilegio generale sui mobili, ex art. 2751-bis c.c.). Il mancato pagamento dei dipendenti può portare a dimissioni per giusta causa, vertenze di lavoro e decreti ingiuntivi immediatamente esecutivi. Tuttavia, esiste un’importante rete di sicurezza: se l’azienda fallisce (liquidazione giudiziale), i dipendenti possono richiedere al Fondo di garanzia INPS il pagamento dei loro crediti privilegiati (TFR e ultime mensilità), evitando di restare del tutto pregiudicati. Dal lato dell’impresa debitrice, pagare i dipendenti deve essere una priorità – sia per motivi etici che operativi, poiché una forza lavoro non pagata abbandona il posto o comunque non rende. In situazioni di crisi di liquidità, si possono tentare accordi transattivi con i lavoratori, ad esempio con l’intervento dei sindacati, per dilazionare il pagamento di arretrati su un periodo concordato (magari offrendo garanzie, come la prededucibilità in caso di successiva procedura). All’interno di un concordato, i crediti dei lavoratori privilegiati di solito vanno soddisfatti integralmente (almeno quelli super-privilegiati per retribuzioni e TFR, salvo che i lavoratori espressamente accettino una falcidia) – pena la non fattibilità del piano. In pratica, spesso nei piani di risanamento si prevede che eventuali arretrati salariali siano pagati al più presto (anche perché, diversamente, il Tribunale difficilmente omologherebbe un concordato che preveda di non pagare i dipendenti).
Tabella riepilogativa – Tipi di debito e gestione:
Tipologia di Debito | Caratteristiche e Rischi per il Debitore | Strumenti di gestione (punto di vista debitore) |
---|---|---|
Bancari/Finanziari (mutui, leasing, fidi) | – Spesso garantiti (ipoteche, pegni, fideiussioni personali).- Inadempimento: revoca fidi, decreto ingiuntivo, pignoramenti, escussione garanzie, possibile istanza di fallimento. | – Rinegoziazione privata con banca (allungamento piani di ammortamento, moratoria interessi).- Piano di rientro con rate sostenibili concordato per iscritto.- Saldo e stralcio se banca preferisce incassare subito parziale.- Nuove garanzie: offrire collaterali aggiuntivi per ottenere tempo.- Procedura concorsuale: inserire il credito in un accordo di ristrutturazione o concordato, eventualmente con apporto di finanza esterna per pagare la banca in misura maggiore rispetto ad altri chirografari. |
Fornitori (debiti commerciali) | – Chirografari, molti creditori di importo variabile.- Inadempimento: sospensione forniture, azioni legali individuali (ingiunzioni), rischio di iniziative collettive (istanza di fallimento). | – Dilazioni informali: negoziare estensioni dei termini di pagamento se possibile.- Sconti per pronto pagamento: offrire una percentuale immediata a stralcio del debito.- Accordi quadro: tentare un accordo con un gruppo di fornitori chiave (difficile senza procedura formale).- Procedura concorsuale: i fornitori accettano un dividendo sul loro credito nel concordato; eventualmente classandoli separatamente se strategici (continueranno a fornire durante e dopo la procedura). |
Erario (tributi) | – Privilegi su gran parte del credito.- Riscossione tramite Agenzia Entrate-Riscossione (cartelle, fermi, ipoteche, pignoramenti).- Divieto di transazione extra lege (no stralci negoziali privati).- Possibili sanzioni penali per IVA/ritenute non versate oltre soglia. | – Rateazione amministrativa: fino 6 anni (72 rate) automatica sotto certa soglia; straordinaria fino 10 anni con prova crisi.- Definizioni agevolate: rottamazioni condoni se previsti (sconto sanzioni/interessi).- Sospensioni di legge: usufruire di moratorie emergenziali (es. Covid).- Procedura concorsuale: transazione fiscale in concordato/accordo, con pagamento parziale di imposte previa omologazione giudiziale (condizioni di legge: es. integrale IVA/ritenute, >=20% su resto tributi, salvo eccezioni). |
Contributi (INPS, INAIL) | – Privilegi simili ai tributi.- Riscossione parimenti via ruolo (cartelle ecc.).- Omesso versamento contributi dipendenti > €10.000 annui = reato (se non regolarizzato entro termini). | – Rateazione: possibile diluire il debito contributivo presentando piani a INPS.- Eventuali sanatorie: verificare se normative specifiche consentono condoni di interessi.- Procedura concorsuale: analogo alla transazione fiscale, include contributi (stesse percentuali minime da garantire). In mancanza di adesione INPS, possibile cram-down con omologa se condizioni rispettate. |
Dipendenti (retribuzioni, TFR) | – Privilegiati (salari ultimi 6 mesi, TFR) ex art.2751-bis c.c.- Mancato pagamento: vertenze di lavoro, decreti ingiuntivi esecutivi immediati, dimissioni di massa; clima conflittuale.- In fallimento: interviene Fondo di garanzia INPS a tutela. | – Accordi con i lavoratori: possibilmente con assistenza sindacale, per pagamenti dilazionati di arretrati (p.es. in più tranche) evitando contenziosi.- Garanzie: riconoscere interessi di mora o offrire beni in garanzia per rassicurare che il debito sarà pagato.- Procedura concorsuale: predisporre nel piano il pagamento integrale dei crediti privilegiati dei dipendenti (o al massimo lievi falcidie su crediti non super-privilegiati, con consenso lavoratori e autorizzazione giudice). Eventuale finanza esterna può essere destinata a soddisfare questi crediti prima e fuori dal concorso (prassi comune per tutelare il capitale umano). |
Nota: I debiti bancari garantiti (ipotecari o pignoratizi) e alcuni debiti fiscali/contributivi privilegiati rientrano nei crediti pre-deducibili o privilegiati anche nelle procedure concorsuali, il che significa che vanno soddisfatti per intero o nel grado di privilegio loro spettante prima di pagare i creditori chirografari. Le strategie di ristrutturazione devono tener conto di questa gerarchia legale dei crediti (la par condicio creditorum). Un buon piano di risanamento spesso prevede il coinvolgimento dei soci o di investitori terzi nel fornire nuove risorse da destinare proprio ai creditori che altrimenti andrebbero pagati integralmente, così da ridurre l’esborso a carico dell’impresa e permettere ai chirografari di ottenere comunque un minimo.
Inoltre, una considerazione fiscale: la cancellazione o riduzione di un debito comporta tecnicamente per l’azienda una sopravvenienza attiva tassabile (un “ricavo” straordinario) per la parte di debito di cui è stata liberata. Fortunatamente, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) esenta da tassazione le sopravvenienze derivanti da accordi di ristrutturazione dei debiti omologati o concordati preventivi omologati (art. 88 co.4-quater TUIR). Ciò significa che se riducete i debiti attraverso una procedura concorsuale, non pagherete imposte sul “beneficio” contabile ottenuto dallo stralcio. Al contrario, se ottenete uno stralcio stragiudiziale da un creditore (es. un saldo e stralcio privato con una banca), quella riduzione potrebbe essere imponibile come sopravvenienza attiva, a meno che l’azienda non sia in procedura concorsuale o in piano attestato ex lege. È un aspetto da valutare con il commercialista durante le trattative.
Tecniche di autofinanziamento e interventi di emergenza
Una volta mappati i debiti, l’imprenditore deve mettere in atto tutte le misure interne possibili per generare liquidità aggiuntiva e stabilizzare i flussi finanziari. In questa sezione vediamo le principali tecniche di autofinanziamento e gestione operativa della cassa che un’azienda indebitata può adottare, prima e durante l’eventuale ricorso a soluzioni più strutturate.
1. Ottimizzazione del capitale circolante: L’azienda deve liberare liquidità dal proprio ciclo economico. Ciò può includere: sollecitare i clienti a pagare più velocemente (ad esempio offrendo piccoli sconti per pagamento anticipato), ridurre le scorte di magazzino vendendo l’invenduto anche a prezzo scontato, e posticipare – nei limiti del possibile – i pagamenti ai fornitori meno critici. Attenzione: pagare in ritardo i fornitori è già un sintomo di crisi e rischia di peggiorare la fiducia, ma una gestione attiva del circolante implica anche negoziare termini migliori con chi può concederli. Ad esempio, se normalmente si pagano i fornitori a 60 giorni, provare ad estendere a 90 giorni per alcuni mesi. Parallelamente, evitare assolutamente di concedere dilazioni ai propri debitori: imporre pagamenti cash or quick. Monitorare strettamente l’età dei crediti verso clienti e attivarsi immediatamente sul recupero di quelli scaduti (anche tramite società di recupero crediti o cessione pro-soluto di crediti inesigibili, se serve, per incassare subito qualcosa). L’obiettivo è ridurre il ciclo monetario (DSO – days sales outstanding, DPO – days payable outstanding) per avere più cassa disponibile in un dato momento.
2. Riduzione dei costi operativi: Un’autofinanziamento “indiretto” deriva dal taglio dei costi. Rivedere il budget e tagliare le spese non essenziali: consulenze non vitali, pubblicità non strategica, benefit, spese generali superflue. Anche costi del personale: se l’azienda ha un calo di attività, valutare strumenti come la cassa integrazione straordinaria (se ammissibile) o contratti di solidarietà, che permettono di ridurre temporaneamente il costo del personale con il sostegno di fondi pubblici, anziché accumulare debiti verso i dipendenti. Attenzione però a non “tagliare l’osso”: bisogna mantenere la capacità operativa per generare ricavi, quindi i tagli vanno bilanciati. Qualsiasi euro risparmiato in costi è un euro in più per pagare i debiti, quindi la disciplina sui costi diventa cruciale in fase di crisi.
3. Sospensione di investimenti e dividendi: Nell’ottica di destinare quanta più cassa al risanamento, è prudente sospendere temporaneamente gli investimenti in nuovi progetti, macchinari non indispensabili, espansioni, ecc., a meno che siano investimenti che abbiano un ritorno immediato sulla redditività. Anche la politica dei dividendi deve cambiare: se l’azienda è in debito, gli azionisti/soci non dovrebbero prelevare utili. Anzi, l’autofinanziamento classico avviene proprio rinunciando alla distribuzione degli utili e accantonandoli a riserva per rafforzare il patrimonio. Se ci sono state riserve degli anni precedenti, valutarne l’utilizzo per coprire perdite o per fare fronte ai debiti.
4. Dismissione di asset non strategici: Un’impresa in difficoltà dovrebbe chiedersi se possiede beni non essenziali che possano essere venduti per fare cassa. Ad esempio, immobili non utilizzati direttamente nell’attività (una seconda sede, un terreno inutilizzato), partecipazioni in altre società non strategiche, macchinari obsoleti o mezzi in eccedenza. La vendita di questi cespiti può generare liquidità fresca da destinare ai creditori. Ovviamente bisogna fare attenzione a vendere a valori congrui e con modalità tracciabili, per non incorrere in possibili azioni revocatorie successivamente (si evita ciò vendendo a condizioni di mercato e preferibilmente prima di essere tecnicamente insolventi conclamati). In caso di necessità, anche la vendita dell’intera azienda o di un ramo d’azienda può essere considerata: magari un concorrente o investitore è disposto a rilevare l’attività salvandone la continuità e pagando un corrispettivo che andrà a soddisfare i debiti. Questa è spesso l’ultima ratio (perdita della proprietà da parte dei soci), ma a volte meglio cedere l’azienda che vederla fallire. Nelle procedure concorsuali vi sono strumenti per vendere l’azienda in esercizio (lo vedremo parlando di concordato in continuità indiretta).
5. Apporto di nuovi fondi da parte dei soci (“finanziamenti soci”): I proprietari dell’azienda, se ne hanno la possibilità, dovrebbero considerare di iniettare risorse proprie nell’impresa in crisi. Ciò può avvenire in due forme: come apporto di capitale o come finanziamento soci. L’apporto di capitale (versamento a fondo perduto o aumento di capitale sociale) rafforza il patrimonio netto e non genera debito da rimborsare – è la modalità preferibile quando l’azienda è sottocapitalizzata. Il finanziamento soci, invece, consiste nel prestito di denaro da parte dei soci alla società, normalmente da restituire in futuro. Bisogna sapere che la legge scoraggia la prassi di “finanziare invece che capitalizzare”: l’art. 2467 c.c. prevede la postergazione del rimborso dei finanziamenti soci rispetto agli altri debiti sociali. In altre parole, se i soci prestano soldi all’azienda quando questa è sottocapitalizzata o in situazione di crisi in cui sarebbe ragionevole un conferimento, quei prestiti saranno rimborsati solo dopo aver pagato tutti gli altri creditori – di fatto diventano simili a capitale di rischio. Inoltre, se la società poi fallisce (liquidazione giudiziale), il curatore può chiedere ai soci la restituzione di qualunque rimborso di finanziamento soci effettuato nell’anno precedente il fallimento, considerandolo una restituzione vietata. Pertanto, i soci dovrebbero sì sostenere l’azienda, ma preferibilmente tramite versamenti a capitale (o versamenti in conto capitale/futuro aumento di capitale) oppure, se effettuano finanziamenti, essere consapevoli che essi verranno rimborsati per ultimi e solo se rimangono attivi sufficienti. In molte ristrutturazioni, l’apporto soci è decisivo: ad esempio, per chiudere un accordo a saldo e stralcio con una banca può servire liquidità immediata che solo i soci possono mettere; oppure nel concordato liquidatorio la legge richiede un apporto esterno minimo (vedremo più avanti il requisito del 10% extra) – tipicamente fornito dai soci stessi – per rendere ammissibile la proposta. L’impegno finanziario dei soci dimostra anche ai creditori la fiducia nel risanamento e la buona fede dell’operazione. Va ricordato infine che, se nuovi investitori terzi o soci apportano capitale durante una procedura di concordato o accordo di ristrutturazione, tali somme possono godere dello status di finanza prededucibile (cioè verranno rimborsate con priorità, prima degli altri debiti, se la procedura dovesse comunque sfociare in liquidazione) previa autorizzazione del Tribunale – un meccanismo pensato per incentivare la c.d. DIP financing e gli investimenti nella fase di crisi.
6. Moratorie e accordi di standstill con i creditori finanziari: Un’azione spesso utile, nelle crisi complesse con più banche finanziatrici, è cercare di stipulare un accordo di moratoria interbancario (o con pool di creditori finanziari). Esistono protocolli (anche promossi dalle associazioni di categoria bancarie, es. accordo ABI per la moratoria PMI) in cui le banche accettano di congelare o prorogare le scadenze di breve termine, sospendere temporaneamente il rimborso quota capitale dei mutui (“piano di rientro in interesse-only” per un periodo) così da alleviare la tensione di cassa e dare respiro all’azienda per elaborare un piano di rilancio. Tali accordi di standstill devono essere negoziati caso per caso e spesso vengono facilitati dalla presentazione ai creditori di uno schema di piano industriale e finanziario di risanamento. In pratica, si chiede alle banche: “non interrompete le linee e non agite ora, concedeteci 6-12 mesi di tregua mentre implementiamo queste misure…”. Le banche tendono ad aderire se intravedono prospettive di recupero migliori attendendo, rispetto a procedere legalmente subito. Un accordo di moratoria può essere informale o formalizzato in un contratto; può anche essere omologato ai sensi dell’art. 182-septies L.F. (ora art. 69 CCII) se raggiunge determinate maggioranze, per renderlo efficace anche verso eventuali banche dissenzienti (strumento noto come accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari). L’azienda debitrice, dal canto suo, deve rispettare rigorosamente i patti della moratoria: ad esempio fornire report periodici sull’andamento, non aggravare ulteriormente l’esposizione, e magari rinunciare a distribuire utili finché dura l’accordo, ecc.
Riassumendo, attraverso queste azioni interne l’impresa cerca di autofinanziarsi e guadagnare tempo. Tuttavia, se il debito accumulato è tale che, anche spremendo al massimo le risorse interne, non si riuscirà a pagare tutto, allora parallelamente bisogna impostare una strategia di ristrutturazione del debito più ampia, che inevitabilmente coinvolge i creditori in modo organizzato. Tale strategia può svilupparsi lungo due binari: (a) la via stragiudiziale privata, basata su accordi volontari con i singoli creditori o gruppi di essi, e (b) la via delle procedure di regolazione della crisi previste dalla legge (che culminano in piani attestati, accordi omologati o concordati preventivi). Nel prossimo paragrafo esamineremo gli strumenti stragiudiziali; successivamente, quelli concorsuali. È importante considerare entrambe le vie in modo complementare: spesso si tenta prima la negoziazione privata e, se non basta o non tutti i creditori aderiscono, si passa a una procedura formale per superare le resistenze residue con l’autorità del tribunale (cram-down).
Accordi stragiudiziali con i creditori (soluzioni private)
In una situazione di crisi d’impresa, prima di ricorrere al tribunale è in genere consigliabile tentare soluzioni stragiudiziali, ovvero accordi privati con i creditori, che consentano di ristrutturare il debito in maniera consensuale. I vantaggi sono evidenti: si evitano i costi e la pubblicità di una procedura concorsuale, si mantiene maggiore autonomia gestionale, e spesso si può agire più rapidamente e con flessibilità adattando l’accordo alle parti coinvolte. Di contro, gli accordi stragiudiziali non vincolano legalmente i creditori dissenzienti o estranei: occorre quindi raggiungere il consenso di tutti i principali creditori, altrimenti i rimanenti possono agire per conto proprio vanificando lo sforzo collettivo. Vediamo i due principali schemi di accordo privato utilizzabili:
Piano di rientro dilazionato (pagamento integrale con nuova tempistica)
Un piano di rientro è un accordo mediante il quale l’impresa debitrice e il creditore (o i creditori, anche singolarmente) stabiliscono una nuova tempistica di pagamento del debito, in forma dilazionata. In pratica il debitore riconosce il 100% dell’importo dovuto, ma il creditore concede una dilazione sul tempo: ad esempio, il debito di €50.000 sarà pagato in 24 rate mensili, o in quattro tranche trimestrali, ecc. Spesso il piano di rientro è formalizzato con una scrittura privata o accordo transattivo in cui il debitore può anche riconoscere interessi di dilazione (talvolta ridotti rispetto a quelli di mora) e il creditore si impegna a non procedere esecutivamente purché i pagamenti avvengano secondo il piano concordato. Questa soluzione è indicata quando l’impresa ha sì una crisi di liquidità temporanea, ma prospettive di solvibilità nel medio termine – cioè si ritiene di poter pagare tutto, solo serve più tempo. Ad esempio, un’azienda attende incassi futuri significativi o deve vendere un immobile e chiede ai creditori di pazientare.
Come negoziare un piano di rientro: Bisogna presentare al creditore (es. a ciascun fornitore o banca) un piano realistico di pagamenti. È opportuno documentare la propria situazione finanziaria per far capire perché serve tempo (ad es. mostrando ordini futuri, contratti firmati che daranno liquidità, o un piano di disinvestimenti). Molto importante è non promettere più di quanto si possa mantenere: la credibilità è fondamentale. Conviene prevedere rate sostenibili, magari crescendo nel tempo se si prevede un miglioramento. Il creditore solitamente vorrà una ricognizione del debito (riconoscimento formale dell’importo dovuto) e può chiedere garanzie – ad esempio una fideiussione di un terzo, o titoli di credito (cambiali) a garanzia delle rate. Attenzione: firmare cambiali per l’importo dilazionato significa che, in caso di mancato pagamento di una rata, il creditore può subito ottenere un titolo esecutivo (la cambiale stessa) e procedere a pignoramento senza ulteriori avvisi. Quindi impegnarsi su un piano di rientro richiede assoluta serietà. Una volta firmato, rispettare rigorosamente le scadenze: basta saltare una rata perché il creditore si ritenga libero dall’accordo e agisca immediatamente (includendo eventualmente tutte le more pattuite).
Spesso l’accordo di dilazione viene accompagnato da una clausola di decadenza dal beneficio del termine: se il debitore salta anche una sola scadenza, l’intero importo residuo torna immediatamente esigibile in un’unica soluzione. Questo rende stringente l’impegno.
Un esempio pratico: La Alfa S.p.A. ha un debito di €120.000 verso un fornitore di componenti elettronici, già scaduto da mesi. Invece di agire legale, il fornitore preferisce garantirsi il pagamento certo sia pur tardivo: Alfa propone di pagare €10.000 al mese per 12 mesi, a fronte dell’impegno del fornitore a non intraprendere azioni esecutive. Le parti firmano un accordo scritto in tal senso, con Alfa che rilascia anche 12 cambiali mensili. Alfa eseguirà i pagamenti attingendo ai flussi di cassa mensili operativi, e il fornitore attenderà; se Alfa dovesse saltare una sola cambiale, il fornitore avrebbe titolo immediato per precettarla e pignorare. Grazie a questo piano di rientro, Alfa evita un’azione legale immediata e diluisce l’esborso nel tempo.
Coinvolgimento di più creditori: Un piano di rientro può anche essere collettivo, se i creditori acconsentono: ad esempio, l’azienda predispone un prospetto di rientro trimestrale verso tutti i fornitori al pro-rata (pagando qualcosa a ciascuno in percentuale sul loro credito ogni trimestre). Questa è però una situazione fragile: basta un creditore che rifiuta e agisce per mandare in crisi l’accordo. Per questo, gli accordi multi-creditore di pagamento integrale sono rari senza la cornice di una procedura concordataria. A volte, però, nelle crisi minori si riesce a ottenere dai creditori una sorta di “pace temporanea” informale: ciascuno accetta di essere pagato un po’ per volta e nessuno agisce aggressivamente. È comunque opportuno, se si percorre questa strada, mantenere tutti informati e trattare tutti con equità, per non creare attriti (ad esempio, se un creditore scopre che un altro è stato pagato integralmente mentre a lui si chiede dilazione, potrebbe reagire legalmente).
Checklist – Negoziare un piano di rientro:
- Analisi del cash flow: calcolare con precisione quanta liquidità l’azienda potrà destinare al servizio del debito nei mesi a venire, al netto delle spese correnti indispensabili. Questo definisce la “rata massima” sostenibile.
- Priorità e strategia: decidere se privilegiare alcuni creditori (quelli strategici o più pericolosi) pagando prima loro e negoziando tempi più lunghi con altri. Comunicare eventualmente un piano diverso a ciascun gruppo di creditori in base alla criticità.
- Credibilità: presentare ai creditori documenti che diano fiducia (es. un order book, il budget di tesoreria) e magari coinvolgere un professionista che garantisca sulla fattibilità del piano.
- Forma scritta: formalizzare sempre per iscritto l’accordo di dilazione, specificando importo, scadenze, modalità di pagamento (bonifico, RID, cambiale, etc.), interessi eventualmente inclusi, e clausola di risoluzione in caso di inadempimento. Firmare per accettazione e scambiarsi copie.
- Monitoraggio: una volta attivo il piano, seguire un rigoroso controllo delle scadenze di pagamento, predisponendo i fondi necessari con anticipo. Inviare magari qualche giorno prima al creditore conferma che la rata sta per essere pagata, per mantenere la fiducia.
- Comunicazione costante: se per qualche motivo si prospetta la difficoltà a rispettare una scadenza, contattare immediatamente il creditore prima che la scadenza arrivi, spiegando la situazione e proponendo una soluzione (es. pagamento parziale immediato e saldo entro X giorni). La cosa peggiore è farlo trovare sorpreso dall’inadempimento.
Il piano di rientro è quindi uno strumento di autofinanziamento nella misura in cui “compra tempo”: l’azienda evita esborsi immediati e li spalma nel futuro, finanziando i pagamenti col margine operativo generato nel frattempo. Se però l’azienda non riesce a produrre sufficiente cassa nemmeno nel periodo aggiuntivo, si tornerà al punto di partenza ma con tempo sprecato e credibilità erosa.
Saldo e stralcio (riduzione concordata dell’importo dovuto)
Quando è chiaro che l’azienda non potrà restituire l’intero importo del debito nemmeno dilazionato, si può tentare un accordo di saldo e stralcio. Questo accordo prevede che il creditore accetti di rinunciare a una parte del credito (“stralciare” il debito) a fronte del pagamento immediato – o in tempi molto brevi – di una somma inferiore, concordata come saldo a tacitazione definitiva. In sostanza è una transazione sul debito: il creditore incassa subito una percentuale e considera estinto l’intero debito, rinunciando a qualsiasi ulteriore azione.
Il saldo e stralcio è indicato quando: (a) l’impresa non è oggettivamente in grado di pagare il 100% neppure a lungo termine, ma (b) è in grado di procurarsi nel breve termine una certa liquidità inferiore al dovuto (ad esempio grazie a risorse messe dai soci, o vendendo un bene, o anche attraverso un nuovo finanziamento dedicato allo scopo). Funziona meglio con creditori finanziari (banche, società di leasing, factor) o creditori che abbiano già in carico crediti deteriorati (ad esempio fornitori che hanno già svalutato quel credito, o crediti già ceduti a società di recupero). Tali creditori sono più abituati a ragionare in termini di valore attuale di incasso certo vs valore nominale incerto futuro.
Come funziona concretamente: Il debitore formula al creditore una proposta scritta di pagamento parziale a titolo di saldo definitivo. Ad esempio: “importo dovuto €100.000; proponiamo il pagamento di €40.000 entro 30 giorni dalla firma dell’accordo, a completo soddisfo del credito, con rinuncia da parte Vostra a ogni ulteriore pretesa”. È essenziale che l’accordo sia formalizzato per iscritto, spesso come atto di transazione in cui il creditore, a fronte del pagamento convenuto, dichiara di ritenersi definitivamente soddisfatto e di non aver null’altro a pretendere. Il pagamento deve avvenire con modalità tracciabili (bonifico, assegno circolare) e il debitore deve ottenere contestualmente una quietanza liberatoria completa dal creditore. In pratica, il creditore scriverà che ricevendo €X “a saldo” rinuncia irrevocabilmente al resto, così che il debitore sia al sicuro da futuri ripensamenti.
Esempio pratico – Saldo e stralcio: La Beta S.r.l. ha un debito di €80.000 verso una banca per un prestito non rimborsato; la società è in grave crisi e la banca sta per avviare un decreto ingiuntivo. Beta, tramite il proprio legale, propone un saldo e stralcio: pagamento immediato di €30.000 (somma che i soci di Beta mettono a disposizione) a fronte della cancellazione del restante debito di €50.000. La banca valuta che, in caso di fallimento di Beta, recupererebbe forse meno di €30.000 dopo anni di procedura, e accetta la proposta. Si sottoscrive un accordo transattivo in cui la banca, incassati €30.000, dichiara estinto l’intero credito rinunciando a ogni ulteriore diritto. Beta S.r.l. si “libera” così di €80.000 di debito pagando €30.000, evitando il fallimento e relative conseguenze. (Nota: questo è un esempio virtuoso; nella realtà, convincere un creditore a uno stralcio così ampio – 62,5% di riduzione – richiede di dimostrare che l’alternativa sarebbe peggiore: ovvero, che se non accetta 30, rischia di ricavare 0 o poco più in un contesto liquidatorio).
Chiavi di successo per un saldo e stralcio:
- Analisi di fattibilità: Verificare quanta liquidità immediata l’azienda (o i soci) possono mettere sul piatto. L’offerta deve essere credibile: offrire troppo poco (es. il 5% del debito) difficilmente invoglierà il creditore, a meno che la prospettiva alternativa per lui sia quasi zero. Bisogna raccogliere il massimo che si può per rendere la proposta appetibile.
- Valore di riferimento: Dal lato del creditore, la soglia di accettazione dipende da quanto stima di poter ottenere altrimenti. Informatevi – o fate intendere al creditore – quale sarebbe il possibile recupero in caso di procedure concorsuali o esecutive. Un creditore concederà lo stralcio se convinto che la Vostra offerta cash è migliore di ciò che otterrebbe forzando il pagamento. Questo spesso richiede di mostrare vulnerabilità: ad esempio, se la società ha altri debiti e rischio fallimento, far capire che il creditore in questione non sarebbe pagato integralmente comunque.
- Proposta formale ben dettagliata: Inviare una proposta scritta chiara: indicare l’importo offerto e i tempi (es. “€30.000 entro 30 giorni dalla firma”). Specificare che quel pagamento è subordinato alla condizione che il creditore consideri definitivamente soddisfatto il credito e rinunci al residuo. Mai pagare neppure un euro senza avere per iscritto che è a saldo!
- Transazione scritta e quietanza: Non accontentarsi di accordi verbali o vaghi email. Redigere un accordo di transazione completo, firmato da entrambe le parti. Eseguire il pagamento esattamente nelle modalità concordate (es. bonifico puntuale) e pretendere subito dopo la lettera di quietanza liberatoria su carta intestata del creditore.
- Esecuzione immediata: Nel saldo e stralcio il tempo è un fattore: il creditore accetta lo sconto solo perché incassa subito e chiude. Dunque il debitore deve avere già pronta la liquidità o comunque rispettare scrupolosamente i tempi pattuiti. Idealmente, lo scambio è contestuale: assegno circolare consegnato e contestuale firma della quietanza.
- Effetti contabili/fiscali: Come accennato, la parte di debito stralciata è una sopravvenienza attiva per l’azienda e in assenza di procedura concorsuale potrebbe essere tassabile. Tuttavia, il TUIR (art. 88, co.4-quater) prevede esenzione d’imposta per le riduzioni di debiti ottenute in sede concordataria o tramite accordi di ristrutturazione omologati. Quindi, se l’accordo a saldo e stralcio è fatto nell’ambito di un piano attestato o di un accordo ex art.57 CCII, l’esenzione potrebbe applicarsi. In caso di dubbio, consultare un tributarista per evitare che un “beneficio” si trasformi in un onere fiscale successivo.
Il limite principale del saldo e stralcio è che ogni creditore deve essere gestito singolarmente. Se se ne “soddisfa” uno stralciando molto, potrebbero mancare risorse per accontentare altri. Inoltre occorre stare attenti a non violare la par condicio in caso di successivo fallimento: pagare un creditore molto più di quanto avrebbe preso in fallimento, mentre altri restano a bocca asciutta, potrebbe esporsi a azioni revocatorie se il fallimento avviene entro 6 mesi/un anno. Però va detto che pagamenti e transazioni effettuati in esecuzione di un piano attestato di risanamento pubblicato, o di un accordo di ristrutturazione omologato, sono esenti da revocatoria (art. 56 co.3 e art. 60 CCII). Dunque, il consiglio è: se prevedete di fare stralci importanti con alcuni creditori, considerate di incorporare tali accordi in un quadro più generale certificato o omologato. Ad esempio, predisponendo un piano attestato di risanamento che includa gli accordi stralcio: ciò offre una “protezione” legale in caso le cose vadano male dopo.
Debiti fiscali e contributivi: Nota bene, come già detto, non esiste saldo e stralcio privato con Agenzia Entrate o INPS. Unici modi di ridurre quei debiti sono attraverso definizioni agevolate di legge o nel contesto di un concordato/accordo omologato (transazione fiscale). Fuori da lì, potete ottenere al massimo dilazioni. Dunque con il Fisco l’approccio stragiudiziale è limitato: fate domanda di rateizzazione al più presto per bloccare le ganasce (sospende esecuzioni in corso una volta accettata) e verificate tutte le rottamazioni possibili. Ad esempio, nel 2023 la rottamazione-quater ha permesso a molte imprese di ridurre il carico su cartelle fino al 2017 risparmiando sanzioni e interessi. Se avete perso la finestra, tenete d’occhio possibili riaperture o nuovi provvedimenti.
Quando gli accordi privati non bastano: Se l’indebitamento coinvolge molti creditori eterogenei e non si riesce a raggiungere un consenso universale, oppure se il risanamento richiede anche interventi che vanno al di là di semplici dilazioni (ad esempio ristrutturare l’assetto societario, liquidare parte dell’azienda, ecc.), allora è il momento di valutare gli strumenti legali di composizione della crisi offerti dal CCII. Questi strumenti – composizione negoziata, piani attestati, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo – permettono di gestire in modo unitario la posizione debitoria, con la supervisione (e gli effetti vincolanti) dell’autorità giudiziaria. Passiamo dunque ad esaminarli in dettaglio.
Strumenti legali per la ristrutturazione del debito (procedure di crisi)
Il diritto fallimentare italiano, riformato nel Codice della Crisi, mette a disposizione dell’imprenditore indebitato una serie di procedure finalizzate a regolare la crisi o l’insolvenza in modo ordinato e, possibilmente, conservativo. A differenza degli accordi puramente privati, questi strumenti hanno efficacia erga omnes (vincolano anche i creditori dissenzienti una volta omologati) e offrono varie tutele legali – come il blocco delle azioni esecutive (stay) e la possibilità di falcidiare i crediti secondo regole di maggioranza. D’altro canto, richiedono il rispetto di requisiti formali stringenti e l’intervento (più o meno intenso) del Tribunale. Di seguito analizziamo i principali istituti previsti per il risanamento dal CCII, in ordine crescente di “invasività” giudiziaria: si parte dalla composizione negoziata (strumento di allerta precoce, volontario e riservato), passando per il piano attestato di risanamento (accordo privato assistito da perizia), poi gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati dal tribunale, fino al concordato preventivo (procedura concorsuale in senso proprio). Per completezza tratteremo anche le procedure di sovraindebitamento per i debitori non fallibili (come piccoli imprenditori e consumatori) e, brevemente, l’eventualità della liquidazione giudiziale (il “fallimento” in senso stretto) da evitare se possibile.
Composizione negoziata della crisi d’impresa (CNC)
Introdotta dal D.L. 118/2021 (convertito in L. 147/2021) e ora parte integrante del CCII, la composizione negoziata è uno strumento di allerta e prevenzione pensato per affrontare le difficoltà finanziarie prima che sfocino in insolvenza conclamata. Si tratta di una procedura volontaria e riservata in cui l’imprenditore, riconosciuto di trovarsi in uno stato di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tale da rendere probabile la crisi o insolvenza (ma non ancora irreversibilmente insolvente), chiede l’assistenza di un esperto indipendente per negoziare con i creditori soluzioni di risanamento. La finalità è di raggiungere un accordo stragiudiziale o predisporre un piano, evitando soluzioni concorsuali più drastiche.
Chi può accedere: Qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione (anche piccolo o individuale), può attivare la procedura se percepisce segnali di crisi. Non è necessario essere formalmente “insolventi”; anzi, è concepita per la pre-crisi o la crisi iniziale. L’importante è che vi siano ragionevoli prospettive di risanamento dell’impresa. Non vi accede invece chi è già insolvente conclamato senza prospettive, né il consumatore (che ha altri strumenti di sovraindebitamento).
Attivazione: La domanda si presenta tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio). L’imprenditore carica informazioni sull’azienda: ultimi bilanci, situazione aggiornata, elenco creditori, un piano finanziario iniziale e una relazione che descrive le cause della crisi e le possibilità di risanamento. Una commissione presso la CCIAA nomina un esperto indipendente, tipicamente un commercialista, avvocato o consulente con specifiche competenze in ristrutturazioni, pescato da un apposito albo. La nomina avviene entro pochi giorni e l’esperto accetta l’incarico se non ha conflitti di interesse.
Svolgimento delle trattative: Una volta nominato, l’esperto convoca l’imprenditore e analizza i dati. L’esperto funge da facilitatore: aiuta l’imprenditore a elaborare un piano di risanamento realistico e contatta i principali creditori per avviare negoziati. Gli incontri possono essere con ciascun creditore o collettivi, anche in videoconferenza. Tutto avviene in modo riservato: l’apertura della composizione negoziata è iscritta sì nel Registro Imprese (visibile a terzi), ma gli atti delle trattative sono confidenziali e l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria dell’impresa. Non vi è spossessamento, né commissariamento – l’esperto non ha poteri sostitutivi, è un mediatore. Le parti (debitore e creditori) hanno il dovere legale di collaborare in buona fede e di mantenere riservatezza sulle informazioni acquisite.
Misure protettive: Su istanza dell’imprenditore, il Tribunale può concedere misure protettive durante la composizione negoziata: in pratica un blocco temporaneo delle azioni esecutive e cautelari dei creditori sul patrimonio del debitore. Questo stay non è automatico: va richiesto e motivato (il debitore indica perché serve, ad es. per evitare che un pignoramento pregiudichi le trattative). Il Tribunale, valutato che la negoziazione è avviata seriamente, emette un decreto di applicazione delle misure protettive per un periodo iniziale (max 4 mesi, prorogabili di altri 4). Durante questo periodo, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né acquisire nuove garanzie, a pena di nullità, e i processi pendenti possono essere sospesi. Le misure protettive valgono per tutti i creditori o solo per alcuni, a discrezione dell’imprenditore (si può chiedere di escludere talune categorie, per esempio per continuare a pagare fornitori strategici). Le scadenze di legge per pagamenti fiscali/contributivi non sono automaticamente sospese, ma il debitore può chiedere che il tribunale autorizzi il pagamento parziale di alcuni creditori strategici durante la negoziazione (c.d. pagamenti in corso di procedura). Questo regime protettivo garantisce un ambiente “congelato” per cercare la soluzione, impedendo ai creditori impazienti di far saltare il banco.
Esito della composizione negoziata: Se le trattative hanno successo, possono sfociare in:
- un contratto di ristrutturazione del debito con taluni creditori (ad esempio un accordo plurilaterale firmato da vari creditori chiave con nuove scadenze e remissioni parziali),
- oppure in uno o più accordi stragiudiziali bilaterali (ad es. accordi di saldo e stralcio con ciascuno),
- oppure in un piano attestato di risanamento ex art. 56 CCII (vedi oltre) che viene predisposto con l’aiuto dell’esperto,
- oppure direttamente in un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione: in tal caso l’esperto redige una relazione finale e la procedura negoziata si chiude, lasciando il posto all’avvio formale della procedura scelta.
Se le trattative falliscono (nessun accordo raggiunto), l’imprenditore può comunque accedere a un rimedio: il concordato preventivo semplificato per la liquidazione (introdotto dal DL 118/2021, art. 25-sexies CCII). Si tratta di un concordato liquidatorio senza voto dei creditori, proponibile entro 60 giorni dalla chiusura della negoziazione se non si è trovata altra soluzione. In tale concordato “semplificato” il tribunale valuta e omologa la cessione dei beni ai creditori senza passare per il voto, purché ricorrano certi presupposti (onestà del debitore, ecc.). È uno strumento da usare come ultimissima risorsa per evitare il fallimento quando la negoziazione non ha portato a un risanamento ma almeno si è individuata la possibilità di liquidare l’attivo in modo ordinato.
Vantaggi e svantaggi della CNC: I pregi sono la flessibilità e la riservatezza (è uno strumento non giudiziale finché non si chiedono misure protettive), i costi contenuti (l’esperto ha diritto a un compenso determinato, ma non ci sono organi giudiziari da pagare come curatori o commissari) e le misure premiali previste dalla legge: ad esempio, per l’imprenditore che intraprende tempestivamente la composizione negoziata, gli interessi moratori e le sanzioni su debiti fiscali accumulati durante la procedura possono essere ridotti o condonati; inoltre, in caso di successivo concordato, è prevista la riduzione delle sanzioni tributarie al minimo e degli interessi al tasso legale sui debiti anteriori alla domanda di composizione (art. 25-bis CCII). Anche sul fronte penale, l’imprenditore che attiva l’allerta può godere di attenuanti per eventuali reati concorsuali e la non punibilità di alcuni reati fallimentari minori se il danno è contenuto. Lo svantaggio è che, non essendo una procedura impositiva, non risolve coattivamente la crisi: tutto dipende dalla volontà dei creditori di trovare un accordo. Se uno o più creditori rilevanti non collaborano, la composizione negoziata da sola non può obbligarli (salvo usare poi concordato o accordi omologati). Inoltre, va considerato che l’impresa, per quanto protetta dallo stay, durante le trattative continua ad operare e deve evitare di peggiorare il buco (c’è un obbligo di gestione conservativa: l’esperto monitorerà che non si aggravino le perdite, altrimenti può interrompere la procedura).
Aggiornamento 2024: Il terzo correttivo (D.Lgs. 136/2024) ha ulteriormente rafforzato la composizione negoziata: ha ampliato la platea (ora vi si può accedere anche se mancano bilanci approvati o perfino se pende una domanda di liquidazione giudiziale presentata da un creditore, casi prima dubbi), ha rafforzato il ruolo dell’esperto e la flessibilità delle trattative, e ha esteso l’allerta anche ai revisori e organi di controllo esterni (obbligati a segnalare tempestivamente al CDA le situazioni a rischio). Ciò indica che il legislatore punta molto su questo strumento “pre-concorsuale” come primo baluardo per salvare aziende vive. E i dati recenti sembrano incoraggianti: nei primi due anni di applicazione, decine di procedure di composizione negoziata si sono concluse con successo salvando centinaia di posti di lavoro.
In sintesi, la composizione negoziata è la strada da tentare appena si percepisce che da soli non si uscirà dalla crisi. È un atto di umiltà (chiedere aiuto esterno) ma anche di responsabilità. Se funzionerà, bene; se no, avrete comunque gettato le basi per la soluzione successiva (ad esempio, avrete già un quadro chiaro per predisporre un concordato o un accordo di ristrutturazione).
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII)
Tra gli strumenti “privati” riconosciuti dalla legge figura il piano attestato di risanamento, disciplinato dall’art. 56 del Codice della Crisi (già art. 67, co.3, lett. d) legge fall.). Si tratta di un piano di risanamento aziendale redatto dall’imprenditore, solitamente con l’ausilio di consulenti, e asseverato da un professionista indipendente (attestatore) riguardo alla sua fattibilità. Il piano attestato ha natura stragiudiziale: non richiede omologazione in tribunale né un voto formale dei creditori, ma se predisposto secondo i requisiti di legge offre importanti protezioni giuridiche.
Obiettivo e utilizzo: Il piano attestato è utilizzato per gestire una ristrutturazione in modo totalmente volontario, quando l’imprenditore confida di poter risanare l’impresa mantenendone la continuità e riesce a ottenere la collaborazione necessaria dei creditori chiave. In pratica l’imprenditore elabora un dettagliato piano industriale e finanziario a 2-5 anni in cui spiega come supererà la crisi (ad esempio tramite nuovi capitali, dismissioni, riorganizzazione, ecc.) e concorda informalmente le nuove condizioni con i creditori più importanti. Non essendo una procedura, ogni modifica delle condizioni di pagamento va contrattata individualmente con ciascun creditore (non c’è effetto di maggioranza). Tuttavia, il valore aggiunto è che l’esistenza di un piano globale attestato funge da “ombrello” di legittimità per l’operato dell’imprenditore: in altre parole, viene riconosciuta e tutelata la scelta del debitore e dei creditori di tentare il risanamento.
Vantaggi legali: Se il piano attestato è idoneo a risanare l’impresa ed è accompagnato dalla relazione di un professionista che attesta veridicità dei dati e fattibilità, gli atti compiuti in esecuzione del piano godono di esenzione da revocatoria fallimentare. Ciò significa che, se malauguratamente in futuro l’azienda dovesse finire in liquidazione giudiziale, i pagamenti effettuati e le garanzie concesse secondo il piano non potranno essere revocati dal curatore. Ad esempio, se nel piano attestato si è pagato anticipatamente un fornitore strategico per assicurarsene la continuità, quel pagamento non sarà revocabile come preferenziale in un successivo fallimento. Questa protezione è fondamentale: incentiva i creditori ad aderire al piano, sapendo di non dover restituire le somme incassate in caso di default successivo. Analogamente, l’art. 56 CCII esclude la revocabilità delle garanzie concesse sui nuovi finanziamenti in esecuzione del piano. Dunque il piano attestato fornisce un porto sicuro normativo per le operazioni di risanamento anticipato, purché fatte alla luce del sole e con attestazione indipendente.
Limiti: Il piano attestato, non essendo una procedura concorsuale, non offre vincoli coattivi sui creditori dissenzienti. In pratica è efficace solo con chi vi aderisce spontaneamente. Se alcuni creditori non stanno al gioco e avviano azioni esecutive, il piano rischia di saltare. Inoltre, il piano attestato non sospende di per sé le azioni esecutive: non c’è uno stay automatico (diverso dalla composizione negoziata). Quindi tipicamente funziona quando la platea dei creditori è ristretta o comunque controllabile. Il vantaggio rispetto a un semplice accordo privato è l’attestazione professionale, che dà credibilità e, come detto, copertura giuridica anti-revocatoria. Ma se serve una ristrutturazione più incisiva che imponga tagli a tutti i creditori, allora meglio valutare un accordo ex art. 57 o un concordato.
Requisiti formali: Il piano deve avere data certa (va pubblicato nel Registro delle Imprese per dare pubblicità) e contenere tutti i dettagli sullo stato dell’impresa, le cause della crisi, le strategie di intervento, i flussi di cassa previsti e come questi garantiranno il pagamento dei creditori secondo le nuove scadenze. L’attestatore, figura chiave, deve essere un professionista indipendente (requisiti art. 2 CCII) che esamina i libri dell’impresa e redige una relazione in cui assevera che i dati aziendali sono veritieri e che il piano è realistico e realizzabile. L’esperto deve valutare che i creditori col piano non riceveranno meno di quanto otterrebbero da una liquidazione alternativa (concetto di convenienza). Spesso l’attestazione di un piano di risanamento viene richiesta anche dalle banche per concedere nuove linee di credito in fase di turnaround, in quanto dà conforto sulla bontà delle misure previste.
Esempio d’uso: La Gamma S.r.l., indebitata ma con un buon prodotto sul mercato, elabora con un advisor un piano triennale: i soci reinvestiranno utili, venderanno un capannone inutilizzato per ridurre l’indebitamento bancario, taglieranno alcuni costi, e lanceranno un nuovo prodotto per aumentare i ricavi. Prevedono così di tornare in utile entro 2 anni e rimborsare i debiti scaduti in 5 anni. Ottengono dalla maggior parte dei fornitori una conferma delle forniture a condizione di pagare gli arretrati in 18 mesi. Le banche accettano di ristrutturare i mutui allungando le scadenze e rinunciando a parte degli interessi di mora, a patto di avere il piano attestato e il monitoraggio di un professionista. Un commercialista indipendente viene nominato e attesta che il piano di Gamma è fattibile. Il piano attestato viene pubblicato al Registro Imprese per dare data certa e oponibilità. Grazie a questo piano, Gamma S.r.l. evita il default e dopo tre anni di “cure” ricomincia a produrre utili (questo esito felice è possibile quando la crisi è affrontata tempestivamente e non è troppo profonda).
Checklist – Piano attestato di risanamento:
- Dati veritieri e aggiornati: Prima di tutto mettere in ordine la contabilità e le situazioni debitorie. L’attestatore dovrà verificare ogni voce, quindi l’impresa deve fornire bilanci aggiornati, elenco completo creditori, situazione fiscale ecc. Trasparenza totale.
- Business plan credibile: Predisporre un piano industriale-finanziario dettagliato, con ipotesi realistiche (meglio prudenti). Prevedere scenari alternativi e margini di sicurezza. Il piano deve mostrare come l’azienda genererà abbastanza cassa per pagare i creditori secondo le nuove tempistiche.
- Coinvolgimento dei creditori chiave: Prima di finalizzare il piano, sondare la disponibilità dei principali creditori alle modifiche proposte (es. la banca sulla rinegoziazione, i fornitori sulla dilazione, i soci sui conferimenti). Il piano finale non può essere un libro dei sogni unilaterale: deve riflettere accordi di massima già ottenuti.
- Scelta dell’attestatore: È importante nominare un professionista stimato e realmente indipendente. Se possibile scegliere qualcuno gradito anche ai creditori (così darà maggiore fiducia).
- Pubblicazione e comunicazione: Una volta attestato, pubblicare il piano come previsto e comunicare ai creditori aderenti che il piano è operativo. Non è obbligatorio coinvolgere tutti i creditori minori, ma è buona prassi informare che esiste un piano generale (senza necessariamente svelarne il contenuto a concorrenti).
- Esecuzione rigorosa: Dopo l’attestazione, l’imprenditore deve seguire pedissequamente il piano. Ogni scostamento significativo richiede di rimettere mano (se necessario, anche far ri-attestare una versione aggiornata). Non rispettare un piano attestato potrebbe esporre a responsabilità (ad esempio, se poi fallisce, si guarderà se l’organo amministrativo si è discostato dal piano senza motivo).
In definitiva, il piano attestato è uno strumento elegante per imprese che hanno ancora fiducia da parte dei creditori e margini di ripresa autonomi. Offre protezioni (niente revocatorie) ma non impone sacrifici a chi non è d’accordo. Dunque funziona in contesti relativamente consensuali. Se invece serve imporre la soluzione a minoranze dissenzienti, si dovrà usare l’accordo di ristrutturazione o il concordato.
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD, art. 57 CCII)
L’accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD) è uno strumento legale che si colloca a metà strada tra gli accordi puramente privati e il concordato preventivo. Consiste in un accordo tra il debitore e una parte significativa dei creditori per la ristrutturazione delle passività, accordo che viene poi sottoposto all’omologazione del Tribunale. Una volta omologato, l’accordo diviene efficace anche verso i creditori che non vi hanno aderito (entro certi limiti). In sostanza, è una procedura concorsuale “light”: c’è il giudice che interviene solo alla fine per omologare, ma non ci sono fasi di voto formali come nel concordato; la maggioranza è costruita raccogliendo adesioni individuali.
Requisiti di maggioranza: L’art. 57 CCII prevede che l’accordo sia valido se vi aderiscono creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. Dunque non occorre il 100% (che sarebbe un semplice accordo stragiudiziale), basta una solida maggioranza qualificata. I creditori non aderenti restano estranei (dovranno essere pagati integralmente fuori dall’accordo, entro i termini di legge) a meno che non si utilizzi un particolare meccanismo per estendere gli effetti anche a essi (vedi accordo ad efficacia estesa più avanti). L’accordo di ristrutturazione tipicamente viene utilizzato quando c’è un numero limitato di creditori, spesso banche, disposti a ristrutturare, mentre altri creditori (minori) vengono pagati regolarmente o integralmente. Ad esempio, un’azienda potrebbe avere 5 banche con l’80% dei debiti e poi fornitori per il 20%: raggiunge un accordo con le banche (magari pagamento parziale o dilazionato) e chiede omologazione; i fornitori al 20% li paga interamente alla scadenza o li lascia fuori accordo (tanto rappresentano meno del 40%). In questo modo il 60%+ del credito ha aderito e il tribunale può omologare l’accordo che vincolerà solo i partecipanti.
Procedura: Il debitore presenta in tribunale la domanda di omologazione allegando il testo dell’accordo sottoscritto dai creditori aderenti, una relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria, un piano che descrive come saranno pagati i creditori (aderenti e non) e la relazione di un attestatore indipendente che asseveri l’idoneità dell’accordo a assicurare l’integrale pagamento dei creditori non aderenti nei termini di legge (massimo 120 giorni dall’omologa per i crediti scaduti o 120 giorni dalla scadenza per quelli non ancora scaduti) e la regolarità del trattamento dei creditori aderenti secondo l’accordo. Il tribunale, verificate le condizioni (maggioranza raggiunta, informazione corretta dei creditori, fattibilità del piano), convoca un’udienza e, in assenza di opposizioni fondate, omologa l’accordo con decreto. Da quel momento l’accordo è vincolante e soggetto a esecuzione forzata in caso di inadempimento.
Vantaggi: Rispetto al concordato, l’accordo di ristrutturazione è più snello: non c’è un voto assembleare, le parti si accordano fuori e poi formalizzano. Non vi è nomina obbligatoria di commissari o liquidatori, l’impresa rimane in mano agli amministratori. È riservato finché non si deposita in tribunale (e anche allora, l’iter è più breve e con meno pubblicità rispetto a un concordato). Permette soluzioni flessibili, anche ad hoc per singoli creditori (perché non serve par condicio assoluta tra aderenti, si può negoziare caso per caso con ciascuno finché tutti gli aderenti sono soddisfatti e nessuno lamenta discriminazioni intollerabili). E, come detto, consente di imporre la moratoria ai non aderenti purché li si paghi integralmente nei termini. Inoltre c’è la possibilità di ottenere dal tribunale, su richiesta, le stesse misure protettive del concordato (stay delle azioni) già dalla fase delle trattative (depositando una “prenotativa” ex art. 44 CCII).
Transazione fiscale nell’accordo: Uno dei motivi principali per cui si ricorre all’accordo ex art. 57 è includere anche i debiti fiscali e contributivi in un quadro di ristrutturazione. La cosiddetta transazione fiscale (art. 63 CCII) può essere inserita nell’accordo: il Fisco e gli enti previdenziali possono aderire accettando un pagamento parziale dei loro crediti. Se però l’Erario o l’INPS non aderiscono, il debitore può comunque chiedere al tribunale l’omologazione con cram-down fiscale, a patto di rispettare certe condizioni di legge (offrire almeno un certo importo minimo su quei crediti). Questa è una novità importante: dal 2021 e confermata nel 2022, il tribunale può omologare l’accordo anche senza adesione dell’Erario se la proposta è più conveniente del fallimento e il voto del Fisco era determinante per raggiungere il 60%. In altre parole, se ho il 55% dei creditori privati che hanno aderito e il 5% di crediti erariali che ha detto “no” (mancando così il 60%), posso chiedere al giudice di forzare l’omologa comunque, dimostrando che la mia offerta al Fisco è equa (ad esempio pagamento 30% dei debiti fiscali, meglio di un fallimento dove prenderebbe 10%). La Cassazione ha definito questo istituto del cram-down fiscale una “dirompente novità” finalizzata a superare ingiustificate resistenze del Fisco. Il D.Lgs. 136/2024 ha introdotto limiti più stringenti: ad esempio, per omologare senza il Fisco bisogna offrire almeno il 30% del credito fiscale (o 40% se si chiede di dilazionarlo fino a 10 anni) e non si può applicare se i debiti fiscali/previdenziali costituiscono oltre l’80% dell’indebitamento complessivo o se il debitore ha commesso frodi fiscali rilevanti. Inoltre restano intoccabili IVA e ritenute salvo diversamente previsto (in concordato minore e sovraindebitamento il divieto fu rimosso dalla Consulta, ma per imprese soggette a fallimento di fatto l’Erario chiede il pagamento integrale di IVA/ritenute come condizione base).
Varianti di ARD: La legge prevede alcune varianti:
- l’accordo di ristrutturazione agevolato (art. 61 CCII) dove basta il 30% dei crediti aderenti, ma limitatamente a casi in cui non ci sono crediti tributari o contributivi rilevanti;
- l’accordo ad efficacia estesa (art. 63-bis e 64 CCII) per categorie omogenee di creditori finanziari o fornitori essenziali: se aderisce una certa percentuale qualificata di essi, l’accordo può essere esteso dal giudice anche ai non aderenti di quella categoria (un po’ come un concordato forzato per quella classe). Ad esempio, se l’85% delle banche ha firmato, l’accordo può essere reso obbligatorio anche per la banca dissenziente sullo stesso trattamento (purché la dissenziente sia stata invitata e abbia avuto chance di partecipare). Questo meccanismo di cram-down di classe è stato potenziato dalla riforma 2022/2023 per recepire la direttiva UE.
- l’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria (artt. 68-69 CCII, ex 182-septies L.F.), mirato a banche: consente di omologare accordi con banche anche se qualche banca dissente, a condizione di percentuali elevate di adesione e che ai dissenzienti sia stato offerto lo stesso trattamento.
Approfondire tutte le varianti esula da questa sede; basti sapere che esistono strumenti per rendere l’ARD flessibile e adattabile a diverse situazioni.
Esecuzione dell’accordo: Una volta omologato, l’accordo di ristrutturazione viene pubblicato e acquista efficacia. Da quel momento, il debitore deve eseguire puntualmente quanto promesso. Se, poniamo, l’accordo prevedeva di pagare le banche aderenti al 60% in 24 mesi e i fornitori estranei al 100% a scadenza, dovrà farlo. I creditori hanno diritto a quanto pattuito e, se il debitore non adempie, possono agire secondo i termini dell’accordo (che spesso prevederà clausole risolutive in caso di inadempimento significativo). Il tribunale può nominare, su richiesta, un ausiliario/esperto per vigilare sull’esecuzione ma non è obbligatorio.
Confronto con il concordato: L’ARD è più mirato: non coinvolge tutti i creditori necessariamente, ma solo quelli con cui si tratta. Non consente di imporre perdite a creditori estranei (devi comunque pagarli integrali). Il concordato invece coinvolge tutti e può falcidiare anche chirografari dissenzienti senza pagarli integrali, però richiede il rispetto di regole di classe e maggioranze. Diciamo che se il problema sono pochi grandi creditori, l’ARD è l’ideale; se il problema è tanti creditori eterogenei e servono tagli diffusi, meglio il concordato. Nulla vieta di usare la composizione negoziata per convincere informalmente i creditori e poi formalizzare con un ARD.
Checklist – Accordo di ristrutturazione:
- Identificare i creditori da coinvolgere: tipicamente banche e principali fornitori/locatori. Valutare se si raggiunge il 60% del passivo con loro adesione. Se no, considerare l’ARD agevolato (30%) se applicabile o procedura diversa.
- Negoziazione pre-firma: trattare con ciascun creditore chiave le nuove condizioni (quanto pagherai, quando). Ottenere intese preliminari magari condizionate all’omologa.
- Predisporre il piano e l’attestazione: serve un piano che illustri come l’azienda continuerà e con che risorse pagherà quanto promesso. L’attestatore dovrà certificare che i creditori estranei prendono il 100% entro 120 gg, quindi prevedere nel piano liquidità sufficiente per onorarli (spesso tramite un finanziamento ponte o supporto soci).
- Adesioni formalizzate: far firmare ai creditori aderenti l’accordo (può essere unico documento o anche lettere separate di adesione che si uniscono in un unico testo).
- Deposito tempestivo: presentare la domanda di omologa non oltre 60 giorni dalle firme (per evitare impugnazioni di singoli). Nel frattempo, valutare se chiedere misure protettive per congelare azioni dei non aderenti (il tribunale di solito concede una moratoria di 60-120 giorni se vede che c’è possibilità di accordo in omologa).
- Trasparenza nel prospetto trattamenti: assicurarsi che l’accordo descriva chiaramente chi è aderente, cosa riceverà, chi è estraneo e quando sarà pagato, e che nessun creditore aderente sia stato indebitamente preferito a parità di condizioni (altrimenti potrebbe opporsi all’omologa un altro aderente per disparità di trattamento).
- Opposizioni: prepararsi a possibili opposizioni in udienza dai creditori estranei (anche se, se li paghi integralmente, di norma non hanno da opporsi) o da aderenti scontenti. In caso, avere pronte difese sulla convenienza e correttezza dell’accordo.
- Post-omologa, monitoraggio: attuare rigorosamente il piano di pagamento. Se occorrono modifiche dell’accordo in corso (imprevisti), si può provare a far sottoscrivere un accordo modificativo e chiedere nuova omologa, ma è complesso; meglio evitare modifiche.
In conclusione, l’accordo di ristrutturazione dei debiti è uno strumento sofisticato che consente di salvare imprese con consenso quasi unanime, con la benedizione del tribunale. La giurisprudenza recente lo ha applicato variamente: ad esempio, Cassazione 24/12/2024 n.34377 ha chiarito che, in caso di transazione fiscale nell’ARD, il debitore deve aspettare i tempi di risposta del Fisco prima di chiedere l’omologa, per non leserne il diritto di difesa (termine di 90 giorni dall’iscrizione al Registro Imprese). Ciò per dire che questi accordi vanno orchestrati con precisione sui tempi procedurali. Se ben condotti, però, sono un eccellente modo di evitare il fallimento con il consenso dei creditori principali.
Concordato preventivo
Il concordato preventivo è lo strumento concorsuale per eccellenza nella regolazione della crisi d’impresa, il più collaudato mezzo di ristrutturazione dalle origini del diritto fallimentare. Consiste in una procedura giudiziale in cui l’imprenditore propone ai creditori un piano per soddisfarli, in misura almeno pari a quanto otterrebbero da una liquidazione giudiziale (vecchio fallimento), e ottiene l’approvazione delle maggioranze di legge e l’omologazione del tribunale. Il CCII (come modificato dal D.Lgs. 136/2024) disciplina due principali tipologie di concordato, con regole parzialmente diverse: il concordato in continuità aziendale e il concordato liquidatorio.
Finalità generale: Il concordato mira a evitare la liquidazione giudiziale tramite un accordo collettivo coi creditori, basato su un sacrificio concordato (una quitanza parziale dei crediti chirografari, ad esempio) in cambio di una soddisfazione più celere o più elevata di quanto avrebbero nel fallimento. Il tutto sotto controllo del tribunale, che garantisce la legalità e l’equilibrio della proposta.
Vediamo i punti essenziali di entrambi i tipi:
Concordato in continuità aziendale
Si ha continuità aziendale quando il piano concordatario prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa (in tutto o in parte), in modo da generare valore per pagare i creditori coi proventi futuri, e non solo liquidando l’esistente. In parole semplici, l’azienda rimane operativa durante e dopo la procedura, e i creditori vengono soddisfatti in misura significativa grazie ai flussi di cassa generati dal business che continua (al contrario del concordato liquidatorio dove si chiude bottega e si vendono i beni). La continuità può essere diretta (la stessa società debitore prosegue l’attività) o indiretta (il piano prevede la cessione o il conferimento dell’azienda a un soggetto terzo che la gestirà, mantenendo però operatività e posti di lavoro, ad esempio vendendo l’azienda “in esercizio”).
- Contenuto del piano: Il piano di concordato in continuità deve essere molto dettagliato. L’art. 87 CCII richiede di indicare: la situazione patrimoniale ed economica dell’impresa, le cause della crisi, la descrizione della strategia di risanamento, l’eventuale suddivisione dei creditori in classi, il trattamento proposto per ciascuna classe, le risorse apportate (es. soci o nuovi investitori), i tempi di esecuzione, ecc. In pratica, è un vero piano industriale corredato da un piano finanziario. Si deve dimostrare come la continuità aziendale genererà valore aggiunto per i creditori rispetto alla chiusura. Di norma nel concordato in continuità si prevede che i creditori privilegiati siano pagati integralmente (salvo rinunce volontarie o degrado di parte a chirografo se privilegio incapiente) e che i creditori chirografari ricevano una percentuale (“dividendo”) sul loro credito. Non c’è una soglia legale minima per i chirografari nel concordato in continuità (può essere anche bassa, purché superiore a zero e comunque non inferiore a quanto avrebbero in liquidazione).
- Apertura della procedura: Il concordato si apre con un ricorso al tribunale da parte del debitore. Il ricorso può essere “diretto” (accompagnato subito da piano e proposta) oppure “con riserva” (detto anche concordato in bianco, art. 44 CCII), ossia si chiede l’ammissione e le misure protettive subito, riservandosi di depositare il piano dettagliato entro un termine (fino 120 giorni prorogabili di 60). Quest’ultima opzione serve a guadagnare tempo protetto per finalizzare accordi o trovare investitori, mentre i creditori sono bloccati. All’atto della presentazione, vanno depositati vari documenti: elenco creditori, elenco beni, bilanci ultimi 3 anni, relazione attestatore indipendente sulla fattibilità e veridicità dei dati, ecc.. Il Tribunale compie un controllo di ammissibilità formale (rispettate le norme, ad esempio nessun altro concordato pendente, ecc.) e che la proposta non sia manifestamente incapace di soddisfare la legge (es. un liquidatorio senza il 10% extra sarebbe inammissibile). Se tutto regolare, ammette la società al concordato e nomina un commissario giudiziale. Dalla data di ammissione scattano le misure protettive automatiche: nessun creditore può iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né acquisire pegni/ipoteche sui beni del debitore (chi lo fa è inefficace). L’azienda continua ad operare (continuità gestionale), ma sotto la vigilanza del commissario e del giudice delegato: gli atti di straordinaria amministrazione richiedono autorizzazione del tribunale. Lo scopo è preservare il patrimonio nell’interesse di tutti fino all’omologa.
- Classi e voto dei creditori: Nel concordato preventivo i creditori possono essere suddivisi in classi secondo la posizione giuridica e gli interessi economici (es. separare banche, fornitori, etc.). Ogni classe vota separatamente sulla proposta. Per l’approvazione, occorre in ogni classe il voto favorevole di creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi di quella classe (maggioranza semplice >50% in valore). Se non si formano classi (concordato senza classi), serve il voto favorevole della maggioranza dei crediti chirografari ammessi al voto. La legge inoltre prevede un meccanismo per favorire l’approvazione: la mancata espressione di voto può essere conteggiata come voto favorevole se viene raggiunto un certo quorum di partecipazione. Precisamente, in ciascuna classe deve aver votato almeno la metà dei crediti ammessi; se questo quorum è raggiunto, i crediti che non hanno votato si considerano come “sì”. Questo incentivo evita che l’inerzia di creditori poco interessati blocchi tutto. Si noti che i creditori privilegiati possono votare solo se il piano prevede per loro una qualche alterazione dei diritti (es: rinuncia parziale al privilegio). I creditori estranei (non votanti) se privilegiati e pagati integralmente restano fuori dal voto (ma vincolati dall’omologa comunque per la parte eventuale chirografa dei loro crediti).
- Cram-down tra classi: Se tutte le classi votano sì, il concordato è considerato approvato. Se una o più classi votano no, il debitore può chiedere ugualmente l’omologazione, attivando il meccanismo di cram-down (o ristrutturazione trasversale dei debiti). Ciò è possibile a condizione che: (1) almeno una classe di creditori con diritto di voto abbia approvato; (2) i creditori dissenzienti siano trattati nel piano nel rispetto della priorità relativa e degli altri requisiti dell’art. 112 CCII. La priorità relativa significa che nessuna classe inferiore ottiene più di una classe superiore dissenziente – in pratica i dissenzienti devono ricevere almeno quanto qualsiasi altra classe di rango pari o inferiore. Se questa condizione è soddisfatta (più altre di equilibrio del piano), il tribunale può omologare il concordato anche in presenza di classi contrarie. Questo consente di superare il veto di minoranze qualificate se il piano nel complesso è equo e bilanciato.
- Omologazione e adempimento: Una volta approvato dai creditori (o superata la bocciatura parziale via cram-down), la palla passa al Tribunale per l’omologazione. Il giudice verifica la regolarità della procedura, la legittimità del contenuto del piano e la sua fattibilità (se le proiezioni appaiono realistiche, se ci sono le risorse promesse, ecc.). Verifica anche il rispetto delle cause di non omologazione: ad esempio che i creditori abbiano informativa completa, che il debitore non abbia commesso atti frodatori in danno dei creditori (atti in frode comportano rigetto dell’omologa). Se tutto a posto, il Tribunale emette il decreto di omologazione. Da quel momento, il piano concordatario diventa obbligatorio per tutti i creditori concorsuali (anche quelli che non hanno votato o che hanno votato contro). Il tribunale nomina, se previsto dal piano, il liquidatore giudiziale (di solito solo nei casi in cui ci sono beni da liquidare o azienda da cedere) o comunque conferma il commissario come organismo di vigilanza per monitorare l’esecuzione del piano. L’impresa deve ora eseguire puntualmente gli impegni presi: in un concordato in continuità, ciò significa implementare il piano industriale e via via pagare i creditori nelle misure e tempi stabiliti. Se ad esempio il piano prevedeva di proseguire l’attività per 5 anni e pagare i chirografari al 40% in rate annuali, l’azienda dovrà conseguire i risultati attesi e effettuare i pagamenti annuali, sotto la vigilanza del commissario (che diventa attestatore del corretto adempimento). Eventuali scostamenti richiedono autorizzazione del giudice. Se il debitore manca di adempiere il piano senza giustificazione, i creditori possono chiedere la risoluzione del concordato e la società a quel punto può finire in liquidazione giudiziale.
Il concordato in continuità è spesso considerato il massimo sforzo di risanamento: preserva il valore aziendale (gli asset usati per produrre reddito, non svenduti), mantiene i posti di lavoro e può permettere ai creditori di ottenere soddisfazioni anche maggiori col tempo. Tuttavia è un percorso impegnativo: l’impresa deve dimostrare di avere un piano serio e di poterlo realizzare. La meritocrazia del sistema sta nel fatto che se la continuità non genera almeno quanto la liquidazione, il concordato non sarà omologato (c’è la regola del “best interest of creditors”: ciascun creditore deve ricevere non meno di quanto avrebbe in liquidazione). Inoltre, dal 2022, per evitare abusi, la legge richiede che nel concordato in continuità i creditori pubblici (Fisco, INPS) ottengano almeno quanto gli altri chirografari e almeno il 20% del loro credito se falcidiati; altrimenti, se votano no, il tribunale non potrà omologare (a meno di condotte migliori).
Concordato liquidatorio
Il concordato liquidatorio è quel concordato in cui l’azienda cessa l’attività e la soddisfazione dei creditori avviene attraverso la liquidazione del patrimonio del debitore. In pratica, si chiude la società e si vendono i beni, ma lo si fa sotto l’egida di un concordato invece che nel fallimento. Perché un creditore dovrebbe preferirlo al fallimento? Perché nel concordato liquidatorio si offre in genere una soddisfazione migliore e più rapida e magari qualche apporto esterno aggiuntivo (mentre nel fallimento classico i tempi sono lunghi e l’attivo spesso si depaupera).
- Condizione di ammissibilità speciale: Il CCII (art. 84) ha introdotto una regola per evitare concordati liquidatori troppo penalizzanti per i creditori. È richiesto un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il 10% quello che andrebbe ai chirografari in un fallimento. In altre parole, se dai beni della società i creditori chirografari avrebbero preso, stima ipotetica, il 20%, il concordato liquidatorio deve offrire almeno il 22%. Tale incremento di solito deriva dai soci o da terzi che immettono denaro fresco per rendere la proposta allettante (spesso per evitare responsabilità personali o per riacquistare parti dell’azienda). Se non c’è questo minimo vantaggio per i chirografari, il concordato è inammissibile. L’idea è: se non offri nulla in più del fallimento, tanto vale fare il fallimento. La norma prevede comunque soglie minime assolute: storicamente la legge fallimentare richiedeva almeno il 20% ai chirografari per concordati liquidatori; il CCII con i correttivi ha modulato la regola su quell’incremento del 10%. Quindi un debitore deve strutturare la proposta includendo quell’extra.
- Svolgimento del piano liquidatorio: Nel piano di concordato liquidatorio l’imprenditore descrive come intende liquidare i beni e ripartire il ricavato. Può prevedere la vendita in blocco dell’intera azienda (magari con un acquirente già individuato), oppure la vendita di singoli asset tramite procedure competitive, o l’incasso di crediti, ecc. Spesso viene allegato un elenco dei beni e stime del loro valore, e in alcuni casi c’è già un accordo vincolante con un acquirente (come una binding offer che diventerà efficace se il concordato è omologato). I creditori possono essere suddivisi in classi e votano come nel caso generale. Anche qui, i privilegiati potrebbero dover rinunciare a qualcosa: ad esempio capita che privilegiati accettino di cedere parte del loro privilegio a beneficio dei chirografari, altrimenti questi ultimi non raggiungerebbero il minimo di legge. Questo perché se tutti i beni fossero assorbiti dai privilegiati, il 10% extra ai chirografari non ci sarebbe; allora si trova un compromesso (i privilegiati prendono un po’ meno e lasciano un “residuo” per i chirografari).
- Figura del liquidatore: In sede di omologa del concordato liquidatorio, il tribunale nomina normalmente un liquidatore giudiziale (spesso coincide col commissario o con persona indicata dal debitore se ha fiducia), che avrà il compito di attuare il piano di liquidazione. Quindi sarà il liquidatore a vendere i beni secondo le modalità previste (asta, trattativa, etc.) sotto la supervisione del giudice delegato, e poi a distribuire il ricavato ai creditori secondo l’ordine stabilito nel piano (che deve rispettare i privilegi). Questo garantisce imparzialità: una volta che l’impresa esce di scena (cessata l’attività), un terzo si occupa di realizzare l’attivo e pagare.
- Confronto con il fallimento: Un buon concordato liquidatorio offre ai creditori un tempo più breve per vedere soldi e spesso qualche soldo in più rispetto a un fallimento. Inoltre evita le incognite del fallimento (azioni risarcitorie, ecc.) e consente una gestione più controllata dal debitore (che negozia le condizioni). Dal lato debitore, c’è anche il vantaggio di poter chiudere la vicenda in modo ordinato e spesso con costi minori rispetto a un lungo fallimento (anche se vanno pagati commissario e liquidatore anche qui). Per contro, se l’impresa ha pochi beni facilmente liquidabili e i creditori non si fidano del debitore, a volte preferiscono il fallimento, magari sperando di perseguire gli amministratori per responsabilità personali. Quindi la convenienza del concordato liquidatorio dipende: se c’è fiducia e un chiaro vantaggio economico (grazie all’apporto esterno e al risparmio di tempo), allora i creditori voteranno sì; altrimenti potrebbero bocciarlo nella speranza di ottenere di più altrove (benché rischioso).
Checklist – Concordato preventivo (continuità o liquidatorio):
- Valutare la continuità: Prima di tutto, decidere se l’azienda può essere risanata continuando l’attività, o se è destinata a chiudere. Se c’è chance di rilancio, impostare un concordato in continuità (diretta o indiretta); se no, puntare a un liquidatorio dignitoso. Ciò guida l’intero piano.
- Domanda “in bianco” se serve tempo: Se la situazione è urgente (pignoramenti in corso) ma servono settimane per definire meglio il piano o per negoziare con investitori, depositare un ricorso di concordato con riserva. Ottenuto lo stay immediato dal tribunale, usare il tempo concesso (di solito 60-120 gg) per affinare la proposta e raccogliere adesioni.
- Documentazione e attestazione: Organizzare tutti i documenti obbligatori. La relazione dell’attestatore è cruciale: scegliere un professionista di comprovata indipendenza e competenza, perché il giudice darà molto peso al suo giudizio di fattibilità. Se possibile anticipare la stesura del piano all’attestatore per feedback.
- Ammissione e rapporto col Commissario: Dopo la presentazione, c’è un periodo di osservazione fino all’adunanza di voto. Collaborare col commissario nominato, fornirgli tutte le informazioni richieste e non compiere atti straordinari senza autorizzazione. Costruire fiducia anche col commissario può aiutare nel suo parere finale ai creditori.
- Classi e strategia di voto: Se i creditori hanno interessi diversi, creare classi omogenee (es. banche separate da fornitori). Ciò evita che un piccolo fornitore mandi in tilt l’accordo di grandi banche, ad esempio. Considerare come raggiungere la maggioranza in ogni classe: se c’è una classe problematica, magari offrire a quella qualcosa in più per ottenerne il sì. Ricordare di incoraggiare attivamente i creditori a votare (il commissario sollecita, ma anche il debitore può contattarli).
- Chiarimenti ai creditori: Spesso è utile tenere riunioni informali con i principali creditori per spiegare il piano (oltre alla relazione commissariale). Far capire che il concordato conviene a tutti. Se emergono dubbi o lamentele (es. “perché prendiamo solo 30%?”), spiegare con numeri cosa accadrebbe in fallimento (magari 10%) e offrire garanzie aggiuntive se possibili.
- Transazione fiscale: Fare estrema attenzione ai crediti Erario/INPS. La legge impone che il trattamento offerto rispetti certe soglie (come detto, integrare IVA/ritenute e almeno 20% sugli altri tributi se falcidiati). Se non lo fa, l’agenzia Entrate voterà no e l’omologa sarà impossibile. Quindi, prevedere nel piano risorse sufficiente per soddisfare questi crediti secondo legge (il che può richiedere finanza esterna mirata).
- Omologazione: All’udienza di omologa, presentarsi con la dimostrazione che il piano è in corso di attuazione e fattibile. Se alcuni creditori hanno fatto opposizione, preparare risposte (ad es. far testimoniare l’attestatore sulla correttezza del piano). Spesso le opposizioni vertono su valore di liquidazione o su atti in frode: contestarle con perizia e prove.
- Esecuzione del piano: Dopo omologa, adempiere rigorosamente. Nel concordato in continuità, di solito l’azienda esce dalla procedura e torna in bonis sotto vigilanza del commissario (divenuto “organismo di vigilanza”). Ogni anno si farà rapporto ai creditori. Qualunque deviazione dev’essere autorizzata dal giudice. Nel concordato liquidatorio, collaborare col liquidatore per vendere i beni al meglio; se i soci o parti correlate intendono ricomprare asset, fare in modo che avvenga con trasparenza e a prezzi di mercato in procedure competitive per evitare contestazioni.
Un concordato preventivo, se concluso con successo, libera il debitore dall’incubo dei debiti residui (non soddisfatti): costoro non potranno pretendere oltre a quanto preso in concordato, grazie all’effetto esdebitatorio dell’omologazione (art. 114 CCII). Restano però obbligati gli eventuali coobbligati e fideiussori (ad esempio, se una società ha fatto concordato pagando 40%, il socio garante potrebbe essere escusso dai creditori per il restante 60%, a meno che anche lui non acceda a procedura di sovraindebitamento o transazione). Nel caso di società, dopo l’esecuzione del concordato, se l’azienda ha proseguito, si continua l’attività con una struttura finanziaria più leggera; se invece era liquidatorio, la società sarà poi cancellata dal registro una volta ultimati i pagamenti.
Strumenti per il sovraindebitamento (piccoli imprenditori e privati)
Finora abbiamo trattato strumenti orientati principalmente alle imprese soggette alle procedure concorsuali maggiori. Tuttavia, esiste un intero capitolo di misure per i debitori non fallibili – i casi di sovraindebitamento in senso tecnico – che include i privati consumatori, i professionisti, le startup innovative, gli imprenditori agricoli e in generale i piccoli imprenditori sotto soglia (quelli che non superano i limiti dimensionali per fallire). Il CCII ha organicamente riunito e modificato la vecchia legge 3/2012 su questi istituti. Dal punto di vista del debitore, è importante conoscere queste opzioni qualora l’attività sia svolta in forma individuale o in piccola scala, oppure per i casi di garanti personali che restano esposti dopo il risanamento dell’impresa.
Le procedure di sovraindebitamento principali ora sono tre:
- Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (artt. 67-73 CCII): riservato ai consumatori, cioè persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale/professionale. Il consumatore può proporre un piano di pagamento, anche parziale, ai creditori, senza necessità di voto da parte loro: decide il giudice se omologarlo in base alla fattibilità e alla meritevolezza del debitore. È l’evoluzione del vecchio “piano del consumatore”. Non coinvolge debiti dell’attività di impresa (se il consumatore aveva qualche debito di impresa limitato, può includerli, ma in generale è pensato per debiti personali: mutuo casa, credito al consumo, ecc.). Il giudice valuta la meritevolezza: il debitore non deve aver assunto debiti con colpa grave o frode sapendo di non poterli pagare. Se omologato, il piano vincola tutti i creditori (anche dissenzienti) e viene eseguito sotto controllo OCC (Organismo Composizione Crisi).
- Concordato minore (artt. 74-83 CCII): è la procedura di composizione rivolta ai debitori non fallibili diversi dal consumatore. In pratica sostituisce il vecchio “accordo di composizione” e si chiama minore per distinguerlo dal concordato preventivo maggiore. Possono accedervi: piccoli imprenditori sotto soglia (attivo ≤ €300k, ricavi ≤ €200k, debiti ≤ €500k), imprenditori agricoli di qualunque dimensione (esplicitamente ammessi e anche oltre soglia, come confermato dalla giurisprudenza), professionisti, artisti, start-up innovative, enti non commerciali (associazioni, fondazioni) e ex imprenditori cessati (anche se la società è già cancellata, la persona che aveva ditte individuali può accedere per i debiti residui). Il concordato minore funziona molto similmente a un concordato preventivo: c’è un piano, classi, un voto dei creditori (qui serve il consenso del 60% dei crediti, salvo cram-down), l’intervento di un giudice che omologa, e un OCC o commissario che monitora. Anche qui può essere in continuità (se il piccolo imprenditore vuole proseguire l’attività) o liquidatorio (con chiusura e vendita beni), ma se è liquidatorio puro occorre l’apporto di risorse esterne apprezzabili come nel concordato preventivo. La differenza chiave è la meritevolezza: il concordato minore richiede che il debitore non abbia commesso atti in frode ai creditori (es. sottrazione di beni, dissimulazione di debiti) e non abbia violato gli obblighi informativi, pena l’inammissibilità. La meritevolezza qui è valutata in termini di condotta, analogamente al piano del consumatore ma con criteri leggermente diversi (focus su assenza di dolo o colpa grave nell’aggravamento del debito). Se il concordato minore viene omologato, i creditori sono vincolati e il debitore paga quanto stabilito; a esito, ottiene l’esdebitazione dai debiti residui non soddisfatti, salvo eccezioni di legge.
- Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII, ex liquidazione del patrimonio): è l’equivalente del fallimento per i soggetti sovraindebitati. Se il debitore non è in grado di proporre un piano o un concordato minore sostenibile, può (o i creditori possono) richiedere la liquidazione giudiziale dei suoi beni residui. Un liquidatore nominato dal tribunale vende tutto il possibile e ripartisce il ricavato ai creditori. È una procedura concorsuale a tutti gli effetti ma “minore”. La differenza dal fallimento classico è che dura al massimo 3 anni (salvo proroga), dopodiché il debitore persona fisica può ottenere l’esdebitazione anche se i creditori non sono stati integralmente soddisfatti. Inoltre, con il correttivo 2024, è possibile aprire la liquidazione controllata anche dopo la cessazione dell’attività, senza il limite annuale che prima c’era per gli ex imprenditori. Ciò facilita l’accesso alla procedura per chi magari ha chiuso la ditta da tempo ma ha ancora debiti personali.
Un istituto innovativo introdotto nel 2020 e confermato nel CCII è la Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII) – talvolta detta “esdebitazione a zero”. È pensato per la persona fisica sovraindebitata che non ha alcun patrimonio liquidabile e nessuna capacità di rimborso (il nullatenente onesto). In tal caso, il debitore può chiedere al tribunale di essere liberato dai debiti senza alcuna soddisfazione ai creditori, praticamente subito. Il tribunale valuta la meritevolezza e concede l’esdebitazione una tantum nella vita. Ad esempio, il Tribunale di Oristano, con decreto 29/07/2024, ha concesso l’esdebitazione ex art. 283 a un debitore privo di beni, ritenendo soddisfatti i requisiti. Questa è la realizzazione massima del principio della “fresh start” per i casi umani più disperati: ovviamente i creditori in questi casi non ricevono nulla, perciò è riservata a situazioni limite e condizionata a non aver sfruttato maliziosamente il credito.
Perché queste procedure sono rilevanti nell’ottica aziendale? Perché spesso l’imprenditore individuale o i soci garanti di società si trovano ad affrontare il dopo crisi anche sul piano personale. Ad esempio, se una Srl accede a concordato e paga al 40%, la banca può rifarsi sul patrimonio personale del socio fideiussore per il restante 60%. In tal caso, quel socio persona fisica potrebbe accedere a un concordato minore o liquidazione controllata per i suoi debiti personali residui. Oppure il piccolo imprenditore non fallibile (sotto soglia) che ha debiti aziendali può risolverli con un concordato minore invece di restare a vita inseguito dai creditori. Quindi conoscere e combinare gli strumenti societari con quelli personali fa parte di una strategia integrata di uscita dal sovraindebitamento.
Meritevolezza e giurisprudenza: Un concetto chiave nelle procedure da sovraindebitamento è la meritevolezza. Significa che il debitore deve aver avuto una condotta corretta e leale. Non è richiesto che non abbia commesso errori, ma che non abbia agito con dolo o colpa grave nel contrarre debiti sproporzionati o nel disperdere attivo. Ad esempio, il Tribunale di Matera 11/03/2025 ha ammesso un imprenditore agricolo di grandi dimensioni al concordato minore ritenendo irrilevante il superamento delle soglie perché la natura agricola lo escludeva dal fallimento, ma ha indagato sulla condotta e l’ha ritenuta meritevole poiché la crisi era dovuta a eventi esterni (calamità, prezzi di mercato) e non a frodi. Altro esempio: Cass. 27562/2022 (post CCII) ha chiarito che per l’esdebitazione del sovraindebitato non serve aver pagato una percentuale minima ai creditori, confermando che anche chi paga zero può essere liberato se soddisfa i requisiti (venendo meno il vecchio dibattito se servisse un “quid” ai creditori). Ciò sposa la logica della fresh start totale in certi casi.
In sintesi, dal punto di vista del debitore, se siete un piccolo imprenditore oberato dai debiti, potete ricorrere a queste procedure per risolverli in maniera legalmente organizzata anziché subire infinite esecuzioni. Il concordato minore permette di continuare a lavorare (se l’attività è sostenibile) riducendo i debiti, oppure di chiudere consegnando i beni ma liberandosi del peso residuo. Il consumatore sovraindebitato può evitare pignoramenti su stipendio/casa attraverso un piano ad hoc riducendo le rate debitorie, con l’avallo del giudice. E chi è nullatenente può perfino avere una “grazia” dallo Stato liberatoria.
Cenni sulla liquidazione giudiziale (fallimento) e sull’esdebitazione
Lo scopo di tutti gli strumenti fin qui descritti è evitare la liquidazione giudiziale (il fallimento). Tuttavia, è bene che il debitore abbia consapevolezza di cosa accade se nessuna strada di risanamento va in porto. La liquidazione giudiziale viene aperta dal tribunale su istanza di uno o più creditori (o del debitore stesso in caso di insolvenza conclamata) quando l’impresa si trova in stato di insolvenza irreversibile, ovvero è incapace di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Una volta dichiarata, la gestione passa al curatore fallimentare, l’imprenditore perde l’amministrazione e disposizione dei suoi beni, e si procede a liquidare tutto a beneficio dei creditori. I debiti sono accertati nello stato passivo, i beni venduti, e il ricavato distribuito secondo prelazioni. Al termine, la società fallita viene cancellata. Per l’imprenditore persona fisica (o il socio illimitatamente responsabile), la legge oggi prevede che possa ottenere l’esdebitazione di diritto dopo la chiusura del fallimento, anche senza soddisfare integralmente i creditori, purché abbia cooperato e non ci siano ragioni ostative (frode, bancarotta, etc.). Col CCII e i correttivi, l’esdebitazione è diventata più accessibile: ad esempio, non c’è più bisogno di fare apposita domanda, viene concessa dal giudice con decreto a fine procedura salvo opposizione di creditori; inoltre è ottenibile entro 3 anni (per i sovraindebitati, come detto) o 5 anni (nel fallimento ordinario delle imprese maggiori) in tempi relativamente rapidi. Resta la regola “una volta nella vita” per le persone fisiche.
Di fatto, quindi, se proprio l’attività non è salvabile e si finisce in liquidazione, il punto di vista del debitore è cercare di massimizzare la collaborazione con gli organi fallimentari, evitare comportamenti che possano portare a conseguenze penali o preclusive (ad esempio occultare beni, preferire alcuni creditori fuori regole, ecc.), e puntare ad ottenere l’esdebitazione per poter ripartire pulito. La Corte di Cassazione ha affermato che per l’accesso all’esdebitazione non serve aver pagato neanche una soglia minima ai creditori – segno che la finalità di dare al debitore onesto un fresh start prevale sul principio della responsabilità patrimoniale illimitata. Certo, l’esdebitazione non copre debiti di mantenimento, debiti da risarcimento danni per illecito extracontrattuale o multe, ma copre la generalità dei debiti civili e commerciali.
Idealmente, il debitore preferirebbe evitare di arrivare a tanto: un fallimento ha comunque conseguenze negative (es. possibili azioni di responsabilità contro amministratori e soci, restrizioni temporanee come l’inabilitazione all’esercizio di impresa, stigma reputazionale, etc.). Ma sapere che esiste un’uscita onorevole anche dal fallimento (l’esdebitazione) può servire come “paracadute mentale” e spinta a collaborare. Ad esempio, un amministratore che capisce di non poter salvare la società in concordato, può scegliere di non accanirsi e chiedere l’autofallimento, far procedere il curatore e attendere l’esdebitazione personale, piuttosto che incorrere in condotte abusive che gli costerebbero guai peggiori.
Rilancio dell’attività dopo la ristrutturazione
Dal punto di vista del debitore, riuscire a gestire i debiti è solo metà dell’opera: l’altra metà è rilanciare l’attività in modo da tornare a generare reddito ed evitare di ricadere nell’indebitamento. Le procedure concorsuali in continuità hanno proprio questo scopo intrinseco, ma anche dopo un concordato liquidatorio l’imprenditore (persona fisica) potrebbe voler avviare una nuova iniziativa imprenditoriale sfruttando l’esperienza accumulata (senza più il fardello dei debiti passati).
Ecco alcuni elementi chiave per un rilancio efficace, dal punto di vista del debitore risanato:
- Nuovo piano industriale: Che sia dentro un concordato in continuità, o all’uscita da un accordo ristrutturazione, occorre un business plan aggiornato e realistico. La crisi probabilmente ha insegnato quali erano i punti deboli (costi eccessivi, segmento di mercato non redditizio, dipendenza da pochi clienti, etc.). Il piano di rilancio deve fare tesoro di queste lezioni: focalizzarsi sulle linee di business profittevoli, tagliare definitivamente attività marginali, introdurre innovazioni di prodotto o di processo se necessario. In altre parole, gettare basi più solide per la generazione di utili.
- Ricostituzione del capitale circolante: Dopo una ristrutturazione, l’azienda può trovarsi con bassa liquidità operativa (magari ha usato tutta la cassa per pagare i creditori nel concordato). È importante reperire fondi per il capitale circolante post-crisi. Ciò può avvenire tramite finanziamenti bancari (molte banche, una volta omologato un concordato, tornano a farsi avanti per sostenere l’impresa “risanata”, spesso erogando nuovi fidi in prededuzione), oppure tramite i soci che forniscono nuova finanza. Anche programmi pubblici di sostegno (es. fondi regionali, garanzie statali come il Fondo PMI) possono aiutare a ottenere credito. L’accesso al credito dovrebbe gradualmente migliorare mano a mano che l’impresa dimostra di aver invertito la rotta (un consiglio: mantenere rapporti chiari con gli istituti, far vedere i risultati periodici).
- Marketing e clienti: Spesso durante la crisi la reputazione commerciale dell’azienda può aver sofferto. È essenziale fare un lavoro di ricostruzione dei rapporti coi clienti e fornitori. Comunicazione trasparente: se avete fatto un concordato, spiegate ai partner che l’azienda ha risolto i problemi e ora è in condizione di onorare regolarmente gli impegni. Fornire garanzie di affidabilità (ad esempio, pagamenti anticipati per qualche tempo ai fornitori per riconquistare fiducia). Dal lato dei clienti, un rilancio potrebbe necessitare di investimenti in marketing, restyling del brand se la crisi ha colpito l’immagine, e magari diversificazione del portafoglio clienti per ridurre rischi futuri.
- Efficientamento e controllo di gestione: Dopo l’uscita da una crisi, l’impresa dovrebbe implementare robusti sistemi di controllo di gestione e monitoraggio finanziario per evitare di ripetere errori. Adottare strumenti di budgeting, KPI mensili, sistemi di allerta interni (es. se il DSCR scende sotto 1 per tot mesi, scatta un piano interno di correzione). Anche migliorare la governance (coinvolgere un consiglio di amministrazione con membri esperti indipendenti, o un collegio sindacale attento se non c’era) può aiutare a navigare meglio.
- Crescita ponderata: Il rilancio non significa per forza ritornare a crescere a tutti i costi. Dopo una ristrutturazione, l’azienda dovrebbe puntare a una crescita sostenibile, evitando di prendere subito altri grandi rischi. Ad esempio, evitare l’indebitamento eccessivo: se si presentano opportunità di investimento, considerare equity o partnership invece di nuovo debito, per non ricadere nella trappola dell’over-leverage.
- Supporto professionale continuo: Spesso le aziende risanate continuano ad avvalersi di advisor o manager specializzati per un periodo, proprio per assicurare che il piano di rilancio sia attuato correttamente. Non è disonorevole chiedere consulenza anche dopo la procedura: un occhio esterno può aiutare a mantenere la disciplina finanziaria.
- Aspetti legali residui: Dopo una procedura, possono rimanere strascichi legali (es: contenziosi pendenti con qualche creditore non chiusi, o cause di responsabilità). Gestirli tempestivamente con transazioni se possibile, per togliere zavorre. Se il concordato prevedeva dei contenziosi attivi (crediti legali) farli seguire con impegno perché ogni incasso extra aiuta il rilancio.
In breve, il post-crisi è un periodo delicato tanto quanto la crisi: il successo a lungo termine dipende dal fatto che il debitore abbia imparato la lezione e adotti un approccio più prudente e consapevole nella gestione aziendale. Molte imprese famose sono passate attraverso ristrutturazioni e ne sono uscite più forti – ma molte altre ricadono in default se non cambiano le prassi. Dunque, dal punto di vista dell’imprenditore, il concordato o l’accordo non è “la fine del problema” ma l’inizio di una nuova fase da gestire con rigore.
E se invece l’attività è cessata e il debitore vuole voltare pagina? In tal caso, l’obiettivo è sfruttare l’esdebitazione per ripartire senza debiti. Un ex imprenditore potrà avviare una nuova impresa, magari in un settore diverso o con una formula societaria differente, facendo tesoro degli errori. Da notare che la legge non impedisce a chi ha avuto un fallimento di tornare a fare impresa (salvo la temporanea inabilitazione per pene accessorie in caso di reati fallimentari gravi). Quindi l’ordinamento offre una seconda chance: usarla con saggezza è responsabilità del debitore.
Domande Frequenti (FAQ)
D: Cosa si intende esattamente per autofinanziamento aziendale in contesto di crisi?
R: L’autofinanziamento in senso stretto è la capacità dell’azienda di finanziarsi con risorse generate internamente – ad esempio utili non distribuiti, accantonamenti, vendite di cespiti – piuttosto che con capitale di terzi. Nel contesto di crisi, “autofinanziarsi” significa mettere in atto tutte le leve interne (risparmi di costi, realizzo attivi, contributi dei soci) per reperire liquidità con cui fronteggiare i debiti, riducendo la dipendenza da nuovi prestiti esterni (che spesso sono preclusi o sconsigliabili in situazione di insolvenza). In pratica, significa “fare da sé”: stringere la cinghia, mobilitare il proprio patrimonio, investire del proprio per uscire dai guai, prima di chiedere soldi fuori. Ad esempio, rinunciare ai dividendi (gli utili restano in azienda), o i soci che immettono nuovo capitale, sono forme di autofinanziamento. Anche trattare dilazioni coi fornitori senza ricorrere a banche è autofinanziarsi (si ottiene credito commerciale invece che bancario). Insomma, è l’arte di generare cassa in casa per pagare i debiti.
D: Ho debiti con l’erario molto elevati che non posso pagare interamente. Posso ottenere uno sconto su tasse e contributi?
R: Sì, ma non tramite accordi privati diretti. Il Fisco non può per legge fare sconti individuali sulle imposte dovute, se non nelle forme generalizzate previste (condoni, rottamazioni). Fuori da queste, l’unico modo per ridurre la pretesa fiscale/contributiva è utilizzare una procedura concorsuale con transazione fiscale: ad esempio un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione omologato in cui chiedi di pagare, poniamo, il 50% del debito tributario. Il tribunale potrà omologare questa proposta anche se l’Erario vota contro, a certe condizioni (offrire almeno il minimo di legge su IVA, ritenute e una percentuale minima sugli altri tributi). Questa facoltà si chiama cram-down fiscale: recentemente rafforzata, ma con limiti (non applicabile se il debito fiscale è oltre 80% totale, ecc.). Quindi, in concreto: puoi rateizzare o aderire a una rottamazione per prendere tempo e ridurre sanzioni; poi avviare un concordato dove proponi il taglio delle imposte. Se il piano è serio e dai al Fisco più di quanto recupererebbe in un fallimento, hai buone chance che il taglio venga approvato dal giudice nonostante il diniego iniziale del Fisco (la Cassazione conferma questa possibilità). Tieni presente però che IVA e ritenute (soldi dovuti da te ma “di terzi”, come l’IVA incassata o le ritenute dei dipendenti) – salvo casi di sovraindebitamento del consumatore – vengono solitamente esclusi dallo stralcio: dovrai pagarli integralmente, magari dilazionati, perché la legge li considera intangibili salvo eccezioni.
D: La mia è una piccola impresa familiare che non potrebbe accedere al fallimento. Ho molti debiti personali misti (bancari, fornitori, privati). Posso usare il concordato minore? Come funziona il voto in questo caso?
R: Sì, se rientri nella categoria dei debitori non fallibili (ad es. ditta individuale sotto soglia, artigiano, o anche professionista), puoi proporre un concordato minore. Funziona in modo simile a un concordato grande: devi presentare un piano, e i creditori votano sulla tua proposta. Nel concordato minore serve ottenere il 60% dei crediti a favore (non per classi, qui è per valore complessivo, salvo che tu non crei classi anche nel minore). C’è però un filtro di ammissione: il giudice verifica la tua meritevolezza (ad esempio che non hai frodato i creditori nascondendo beni o contratto debiti irresponsabilmente). Se sei stato leale e la crisi non è colpa di malafede grave, allora verrai ammesso. I creditori poi votano: se raggiungi 60% di consensi, il piano viene omologato e anche i dissenzienti saranno vincolati. Se non raggiungi 60% ma almeno una maggioranza accettabile, il tribunale potrebbe comunque omologare con cram-down, a condizione di non penalizzare ingiustificatamente i dissenzienti (concetto di best interest e rispetto delle cause legittime di prelazione analogamente al concordato maggiore). Una differenza: nel concordato minore c’è sempre un OCC (organismo di composizione crisi) o commissario che ti assiste e riferisce. E non puoi accedervi se sei un consumatore (in tal caso, c’è il piano del consumatore che non richiede voto, o la liquidazione). Dato che la tua è impresa familiare, non persona consumer, il concordato minore pare appropriato. Prepara bene il piano, coinvolgi l’OCC e sii trasparente. In caso di esito positivo, pagherai quanto stabilito (anche parzialmente, esempio 30% ai chirografari) e poi sarai liberato dai debiti residui come in un concordato.
D: Che differenza c’è tra un piano attestato di risanamento e un accordo di ristrutturazione dei debiti? Quando conviene l’uno rispetto all’altro?
R: Entrambi sono strumenti per evitare il fallimento in modo negoziale, ma hanno differenze sostanziali. Il piano attestato (art. 56 CCII) è un atto unilaterale dell’azienda, asseverato da un esperto indipendente, che viene negoziato privatamente con i creditori senza coinvolgimento del tribunale. Offre protezione solo a posteriori (no revocatoria sui pagamenti eseguiti secondo piano), ma non vincola i creditori dissenzienti: devi avere il consenso di tutti quelli rilevanti, altrimenti qualcuno fuori accordo può farti saltare l’operazione. Invece l’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII) è formalizzato e soggetto a omologazione del tribunale. Richiede di avere almeno il 60% di crediti consenzienti, ma consente di chiudere il cerchio anche se una minoranza non firma (purché li paghi per intero fuori accordo nei termini di legge). Con l’omologa, l’accordo acquista efficacia legale generale (con alcuni meccanismi si può anche estenderlo a dissenzienti di certe categorie). Dunque: il piano attestato conviene se hai un numero limitato di creditori che cooperano e vuoi massima riservatezza e semplicità (niente tribunale), e se ti serve soprattutto la protezione anti-revocatoria per operazioni di risanamento (es. nuovi finanziamenti o pagamenti preferenziali). È indicato in situazioni in cui la crisi è gestibile volontariamente (es. accordo con le banche già trovato) e vuoi evitare i tempi di omologa. L’accordo di ristrutturazione conviene se hai un quadro più complesso, dove magari non tutti i creditori sono d’accordo, ma hai il sostegno della maggioranza qualificata. In più, l’ARD ti permette di includere transazione fiscale e forzare l’Erario se necessario, cosa che con solo piano attestato non potresti (il Fisco non aderisce salvo rari casi). Inoltre, con l’ARD puoi chiedere le misure protettive del tribunale durante le trattative (blocco dei creditori) mentre col piano attestato no – a meno di combinare con composizione negoziata. In sintesi: Piano attestato = extragiudiziale puro, flessibile ma richiede consenso quasi totale; Accordo ex art.57 = semigiudiziale, un po’ più lungo/formale ma utile a imporre la ristrutturazione anche a minoranze e crediti pubblici, con il sigillo del tribunale.
D: Se la mia azienda fa un concordato preventivo e paga una percentuale ai creditori, io come garante personale (fideiussore) devo comunque aiutarla o posso liberarmi della garanzia?
R: La tua garanzia rimane valida a meno che non si ottenga un accordo specifico con i creditori garantiti. Il concordato preventivo (o accordo) libera l’azienda dai debiti residui, ma non libera i coobbligati o i garanti (art. 123 L.F. / 285 CCII) – è un principio generale: la liberazione del debitore principale per effetto di procedura non si estende ai terzi garanti. Quindi, se sei un socio che ha firmato fideiussioni bancarie, e nel concordato la banca riceve il 50%, potrà legalmente esigere da te il restante 50% in base alla fideiussione, a meno che nel concordato stesso la banca rinunci espressamente anche verso i garanti (cosa rarissima senza contropartita) o che tu abbia un accordo personale con la banca. Spesso, in negoziazione, i soci garanti partecipano al risanamento mettendo nuova finanza proprio per convincere le banche ad accettare e magari a liberare le garanzie. Ad esempio, i soci possono offrire un pagamento extra in concordato destinato alle banche, a patto che queste esonerino i garanti: ciò può essere inserito nel piano (le banche votano sì e rinunciano escussione fid., ricevendo però quell’extra). Se ciò non avviene, dopo il concordato la banca potrà farti decreto ingiuntivo per la parte non pagata dall’azienda. Tu, come persona fisica, potresti a quel punto accedere a tua volta a una procedura di sovraindebitamento (es. concordato minore o liquidazione personale) per gestire quel debito. Quindi in sede di concordato dell’azienda valuta bene il tema garanzie: talvolta conviene far intervenire i garanti nel piano (con contributi finanziari) per chiudere il cerchio. In altri casi, i garanti sperano di salvarsi perché magari la banca ottiene soddisfazione sufficiente e non li escute; ma è rischioso fare affidamento su questo. La legge, ripeto, protegge i creditori garantiti: possono escutere i garanti per la parte falcidiata. Unico caso dove la garanzia “si riduce” automaticamente è la fideiussione omnibus con clausola di revival: lì se il credito principale è ridotto per legge, c’è dibattito ma in linea di massima la garanzia persiste per la parte non soddisfatta. Quindi prudenza: il garante non è salvo solo perché l’azienda ha fatto concordato.
D: Quali sono i rischi per gli amministratori se non attivano alcuna procedura e la società va in liquidazione giudiziale?
R: I rischi sono significativi. Se gli amministratori tardano indebitamente a rilevare la crisi e a intervenire, possono incorrere in responsabilità civile verso i creditori sociali per aggravamento del dissesto (azione da parte del curatore fallimentare per responsabilità da tardiva richiesta del fallimento). Inoltre, durante il fallimento, il curatore esaminerà gli atti compiuti negli ultimi anni: se emergono pagamenti preferenziali o distrazioni di beni, potrà agire con azioni revocatorie (contro i terzi beneficiari) e potenzialmente segnalare condotte che integrano reati fallimentari. Per gli amministratori di società fallite, i possibili reati vanno dalla bancarotta semplice (ad esempio per aver aggravato il dissesto con incompetenza o violando obblighi contabili) alla bancarotta fraudolenta (occultamento di beni, falsificazione di scritture, pagamenti preferenziali dolosi), fino ad altri reati tributari connessi (dichiarazione fraudolenta, omessi versamenti, ecc.). Le pene in caso di bancarotta fraudolenta sono pesanti (fino a 6-10 anni di reclusione). Non attivare procedure può inoltre far perdere le misure premiali: il CCII prevede attenuanti di pena se l’imprenditore ha tempestivamente tentato una composizione negoziata o concordato. Quindi restare inerti espone a punizioni più severe. Invece, se l’amministratore attiva subito uno strumento idoneo (es. concordato) e collabora, potrebbe beneficiare di esenzioni (ad es. interessi e sanzioni ridotti su debiti tributari) e di non punibilità per bancarotta semplice in caso di esito positivo (c’è una causa di non punibilità se il danno ai creditori è lieve o se è approvato un concordato con certa percentuale). In sintesi: il rischio principale è dover rispondere di mala gestio aggravante e di condotte penalmente rilevanti. Meglio prevenire: usare gli assetti organizzativi adeguati per rilevare subito la crisi e non indugiare a cercare soluzioni. L’inerzia e l’occultamento peggiorano sempre la posizione dell’amministratore.
D: Ho sentito parlare di “fresh start”: significa che dopo la procedura sarò libero da tutti i debiti?
R: Sì, il principio della fresh start è proprio quello: dare al debitore onesto ma sfortunato la possibilità di ripartire da zero senza debiti residui. Nel concordato preventivo, ad esempio, una volta omologato e poi eseguito il piano, l’azienda è libera dai debiti anteriori non soddisfatti (i creditori hanno accettato la falcidia e non possono chiedere altro). Nelle procedure di sovraindebitamento e nel fallimento, c’è l’esdebitazione: per la persona fisica, dopo la chiusura della liquidazione o l’esecuzione di un piano, il giudice la dichiara esdebitata e i crediti chirografari pregressi sono cancellati in quanto inesigibili. Restano escluse poche categorie (alimentari, risarcimenti per il dolo, sanzioni penali/amministrative). Quindi, in pratica, sì: se completi correttamente la procedura, i debiti che erano oggetto della stessa e che non sono stati pagati vengono cancellati. Ad esempio, un consumatore che paga 30% ai creditori in 4 anni, a fine piano ottiene decreto di esdebitazione per il 70% restante. Oppure un imprenditore fallito senza attivo ottiene l’esdebitazione di diritto dopo 3-5 anni e i creditori non possono più perseguitarlo. Questa è la “seconda opportunità” sancita anche a livello europeo. Attenzione: il fresh start è una tantum (non è che si possano accumulare debiti infinite volte e scaricarli sempre, la legge lo concede una volta, salvo casi eccezionali). E bisogna meritarselo: comportarsi correttamente nella procedura, non fare i furbi. Ma sì, l’obiettivo finale per il debitore è quello: liberarsi dei debiti e poter tornare a vivere/fare impresa senza il peso del passato.
D: La mia Srl è in crisi ma vorrei evitare una procedura formale per non danneggiare la reputazione. Ha senso provare prima a negoziare privatamente con i creditori?
R: Assolutamente sì, provare la via stragiudiziale è spesso il primo passo consigliabile. Se pensi che la tua reputazione possa risentirne, tieni presente che aprire un concordato è un atto pubblico che può diffondere la notizia di difficoltà; invece, trattare privatamente (piani di rientro, accordi transattivi) mantiene la cosa più riservata. Ora, devi valutare la fattibilità: se hai relativamente pochi creditori principali, e magari rapporti di fiducia con loro, c’è la chance di trovare un accordo senza tribunale (vedi le sezioni su piano di rientro e saldo-stralcio sopra). In più, oggi c’è la composizione negoziata che è un ibrido: non è pubblicissima (anche se c’è iscrizione al Registro Imprese, ma molti non la notano) e ti consente di negoziare con l’aiuto di un esperto confidenzialmente. Potresti usare quella per evitare di andare subito a concordato: l’esperto contatta i creditori, e magari convincete tutti a un accordo stragiudiziale certificato. Molte crisi si risolvono così, e all’esterno nessuno sa i dettagli. Quindi, ha senso tentare la soluzione stragiudiziale purché tu non perda tempo prezioso: se vedi che non funziona (qualche creditore non ci sta e minaccia azioni), allora non esitare a passare a una procedura prima che la situazione peggiori. In sintesi: sì, approccio graduale. Ad esempio, proponi dilazioni, cerca di ottenere standstill di 2-3 mesi; se vedi che l’accordo generale è a portata, bene. Se vedi che uno ti fa partire un pignoramento, forse è ora di chiedere misure protettive e presentare un ricorso “prenotativo” di concordato per congelare il quadro. La reputazione si danneggerebbe molto di più con un fallimento disordinato che con un concordato ben gestito, ricorda. Comunque, il tentativo iniziale discreto con i creditori è sempre opportuno, anzi spesso i creditori stessi apprezzano la franchezza e la volontà del debitore di trovare una soluzione bonaria.
D: Durante un concordato o accordo posso continuare a gestire l’azienda? O rischio di perdere il controllo?
R: Dipende dallo strumento scelto:
- Nella composizione negoziata, mantieni pienamente la gestione ordinaria e straordinaria (l’esperto consiglia ma non ha poteri gestori). Quindi nessuna perdita di controllo.
- Nel piano attestato e negli accordi stragiudiziali, ugualmente resti al comando (non c’è neppure un organo esterno).
- Nell’accordo di ristrutturazione omologato, durante la negoziazione e l’omologa rimani al timone; il tribunale non nomina nessuno se non su richiesta per misure protettive (può nominare un commissario ad acta in casi di abuso, ma è raro). Quindi, in pratica, anche lì tu gestisci e poi esegui l’accordo una volta omologato.
- Nel concordato preventivo, formalmente resti l’organo amministrativo dell’azienda durante la procedura, ma sei sotto vigilanza del commissario giudiziale: gli atti di ordinaria amministrazione li fai tu, quelli di straordinaria devi farli autorizzare (es. vendere un bene, accendere un mutuo). Quindi hai un po’ le “briglie” addosso. Ma non perdi il controllo in senso assoluto (non arriva un curatore a sostituirti, a meno che tu non violi le regole, in tal caso il tribunale potrebbe revocare l’ammissione e dichiarare il fallimento con curatore). Anche dopo l’omologa, se il piano è in continuità, tu continui a gestire e il commissario vigila in background. In un concordato liquidatorio, invece, all’omologa arriva un liquidatore giudiziale a vendere i beni, quindi lì di fatto perdi la gestione dell’impresa (che comunque sarebbe cessata).
- Nella liquidazione giudiziale (fallimento), ovviamente perdi del tutto la gestione: subentra il curatore immediatamente.
Quindi, se il tuo timore è di essere spodestato, sappi che nessuno strumento di risanamento ti toglie immediatamente dal controllo salvo il concordato liquidatorio (ma lì hai deciso tu di liquidare) o un eventuale commissariamento per atti in frode. Il legislatore vuole anzi che l’imprenditore collabori attivamente al risanamento (principio di autogestione assistita nel concordato). Dunque puoi tranquillizzarti: continuerai a guidare la tua azienda durante il percorso, affiancato però da supervisori (commissario, giudice delegato) nel concordato. Solo in caso di insuccesso (fallimento) la gestione ti viene sottratta.
D: La mia società è molto indebitata ma ha ancora un buon mercato: meglio provare un concordato in continuità o è preferibile vendere subito l’azienda e pagare i debiti col ricavato?
R: Dipende da diversi fattori. Se la società ha un “buon mercato” significa che l’attività ha valore. Due strade:
- Concordato in continuità: tieni l’azienda operativa, magari ristrutturi l’organizzazione, trovi nuova finanza e usi gli utili futuri per pagare creditori in percentuale. I vantaggi sono che se tutto va bene, l’azienda sopravvive e tu ne mantieni la proprietà (se i soci attuali restano) e la gestione. I creditori potrebbero anche ottenere di più col tempo che da una vendita immediata a prezzo di crisi. Svantaggi: è complesso, lungo, e devi davvero essere capace di risanare e generare utili futuri (non scontato). Inoltre richiede convincere i creditori a avere pazienza.
- Vendita immediata (ad esempio vendi l’azienda a un concorrente o investitore): potrebbe essere fatta anche all’interno di un concordato liquidatorio ben congegnato. In effetti, un concordato liquidatorio spesso prevede la vendita dell’azienda in esercizio prima della chiusura. Se hai già un acquirente disposto a rilevare l’azienda, potresti proporre ai creditori: “cedo l’azienda a Tizio per X euro, questi soldi li distribuisco a voi, è più di quanto avreste in fallimento, concordate?”. Questo sarebbe un concordato liquidatorio con continuazione indiretta (l’azienda continua ma in mano d’altri). I vantaggi: i creditori incassano subito (o in tempi brevi) e l’azienda ha continuità sotto nuova guida – spesso salvando posti di lavoro. Tu però come socio perdi la proprietà (l’azienda passa all’acquirente).
Quindi la scelta dipende: se come imprenditore sei ancora convinto di poter risanare e vuoi mantenere la società, tenta la continuità. Se invece vedi che l’azienda avrebbe più valore in mani altrui (perché magari un competitor può integrarla meglio) o non ti senti di protrarre la gestione rischiosa, allora la cessione potrebbe dare un esito più sicuro. C’è una terza via: il concordato in continuità indiretta, dove vendi l’azienda a un investitore all’interno del concordato ma la società debitore continua finché non cede e poi paga i creditori col ricavato – un mix. Spesso usato: l’investitore paga un prezzo che va nel piano concordatario.
In generale, i creditori guardano al valore attuale: se la vendita immediata rende tot e il concordato in continuità promette di più ma con rischio, devi convincerli che conviene aspettare. E tu devi crederci davvero. Quindi valuta: hai capitali, management e mercato per farcela? Se sì, la continuità (il tribunale la preferisce se realistica, perché preserva impresa). Se no, meglio vendere in modo ordinato e chiudere. Ricorda solo: vendere “fuori da procedure” può essere rischioso (revocatoria, contestazioni sul prezzo, ecc.), perciò spesso conviene comunque incastonare la vendita in un concordato o accordo, per essere protetto e per far ratificare il tutto ai creditori e giudice. Un caso reale: molte aziende indebitate si salvano vendendo il ramo sano a un competitor e mettendo i creditori chirografari in concordato sulla cassa ricavata: è un concordato liquidatorio tipico.
In sintesi, la scelta è strategica: continuità se hai prospettive di risanamento attivo (e vuoi restare in gioco), liquidazione/cessione se è meglio far subentrare qualcuno pagando i debiti con il prezzo. Spesso la seconda opzione è più concreta se c’è già un compratore. Se invece non c’è, magari tentare la continuità attira investitori più avanti quando vedranno l’azienda risanata. È un dilemma classico del turnaround.
D: Posso applicare più strumenti insieme? Ad esempio un accordo di ristrutturazione per le banche e un concordato per il resto?
R: In linea teorica sì, in pratica bisogna orchestrarlo con attenzione. Il CCII consente la combinazione di strumenti in alcuni casi: per esempio, puoi presentare un concordato preventivo riservato ad alcuni creditori e un accordo di ristrutturazione per altri – ma nella pratica di solito si tiene un’unica procedura. Tuttavia, potresti sfruttare la flessibilità in questo modo: negozi privatamente con le banche un risanamento (magari formalizzato in un piano attestato o accordo stragiudiziale), e parallelamente fai un concordato per gli altri creditori. Però attenzione: se fai il concordato, devi includere tutti i creditori chirografari in esso, a meno che qualcuno venga pagato fuori integralmente. Potresti ad esempio pagare integralmente le banche fuori concordato (seguendo l’accordo privato) e falcidiare solo i fornitori via concordato; ma se l’accordo con le banche prevede anch’esso una falcidia, non puoi tenerle fuori dal concordato se sono chirografarie perché ne risulterebbe un pagamento preferenziale fuori dal piano – a meno che l’accordo con loro sia già eseguito prima (ad es. le banche le sistemi con un piano attestato completato prima di chiedere il concordato per il resto, ma tempi stretti). Più fattibile è: fai un accordo di ristrutturazione omologato con banche e fornitori maggiori, e lasci fuori alcuni creditori minori che paghi per intero nei 120 giorni (come previsto) – in tal caso eviti il concordato del tutto.
Oppure: se hai un gruppo di società, una può fare accordo e l’altra concordato, coordinandoli (ci sono le procedure di gruppo adesso che lo consentono in parte).
In generale comunque il CCII punta a un percorso unico perché ogni procedura ha effetti sui creditori. Quindi, usare due procedure diverse rischia conflitti (tempistiche, doppi costi).
Un caso comune di doppio strumento era prima: concordato preventivo per l’azienda e piano del consumatore per il garante persona fisica – due procedure distinte ma complementari. Questo ancora si può fare: la società in concordato e il socio in sovraindebitamento personale, ad esempio.
Quindi la risposta: sì, puoi combinare, ma è complesso e serve ottima consulenza legale per non creare incertezze. Spesso è meglio usare un solo contenitore e dentro di esso differenziare trattamenti (tipo fare classi nel concordato: classi banche 100% secondo accordo loro, classi fornitori 30%, etc. – e quell’accordo con banche lo recepisci come contenuto di classe). Questo è fattibile: concordato con classi in cui una classe banche accetta le condizioni X già concordate prima in un accordo standstill magari.
In conclusione, più che due procedure parallele, conviene una procedura sola multiforme (grazie alle classi o transazione fiscale interna). Altrimenti rischi inefficienze e possibili sovrapposizioni. Consulta un esperto per il tuo caso concreto.
Fonti e riferimenti (normativa, giurisprudenza, dottrina)
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, entrato in vigore il 15 luglio 2022, e successive modifiche (D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83; D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 “Correttivo ter”). – Articoli citati: artt. 2 (definizioni di crisi e insolvenza), 3 (assetti adeguati e obbligo di intervento), 25-bis (misure premiali), 44 (concordato con riserva), 56 (piano attestato di risanamento), 57-64 (accordi di ristrutturazione dei debiti e transazione fiscale), 63-bis/64 (accordi ad efficacia estesa), 84 (requisiti concordato preventivo), 87 (contenuto piano concordatario), 88 e 112 (trattamento crediti fiscali e cram-down nel concordato), 90-91 (concordato in continuità e liquidatorio), 94-102 (voto e omologa concordato), 112-114 (omologazione e effetti), 121 (esdebitazione post concordato), 268-277 (liquidazione controllata), 278-284 (esdebitazione del sovraindebitato).
- Legge Fallimentare previgente – Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267 e s.m.i. – Articoli di riferimento storico: art. 160, 161, 182-bis, 182-ter, 67 co.3 lett. d), 216, 217 (discipline ora trasfuse nel CCII). – Utilizzata per concetti base e raffronti storici.
- Codice Civile, art. 2086 (dovere di assetti adeguati e rilevazione tempestiva della crisi) e art. 2467 c.c. (postergazione dei finanziamenti soci in s.r.l.). – Spiega la subordinazione dei crediti dei soci in caso di crisi e la necessità di ricapitalizzazione.
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 19 – Rateizzazione dei debiti tributari iscritti a ruolo. Consente fino a 72 rate (automatico sotto €60.000) o 120 rate straordinarie con prova difficoltà.
- Testo Unico Imposte sui Redditi (TUIR), D.P.R. 917/1986, art. 88, comma 4-quater – Esenzione da tassazione delle sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti accordata nell’ambito di concordati preventivi, accordi di ristrutturazione omologati o piani attestati pubblicati.
- Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e Consiglio (sulle ristrutturazioni e sull’insolvency) – Recepita nel CCII. Principio della seconda opportunità per gli imprenditori onesti (fresh start) e strumenti di allerta precoce.
- Corte Costituzionale, sentenza 6 dicembre 2019 n. 245 – Ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 7 L. 3/2012 nella parte in cui escludeva la falcidia dell’IVA nei piani del consumatore, ritenendo ammissibile invece il taglio dell’IVA se il piano concorsuale è più vantaggioso del fallimento. Fondamentale per consentire transazione IVA anche nei sovraindebitati.
- Cassazione Civile, Sez. Unite, 25 gennaio 2019 n. 8500 – Chiarisce i requisiti di non fallibilità dei piccoli imprenditori (soglie art. 1 L.F.) e la loro rilevanza. Utile per definire l’ambito del “concordato minore”.
- Cassazione Civile, Sez. I, 24 dicembre 2024 n. 34377 (Pres. Ferro, Rel. Terrusi) – Caso: accordo di ristrutturazione con transazione fiscale. Massima ufficiale: il debitore che chiede omologa con cram-down fiscale deve rispettare i termini di adesione dell’Erario e attendere la loro scadenza (90 giorni dalla pubblicazione) prima di presentare domanda. – Conferma obbligo di coordinare tempi di adesione Fisco e opposizione in omologa, recependo art. 63 CCII novellato dal correttivo.
- Cassazione Penale, Sez. III, 21 dicembre 2024 n. 44519 – Accordo di ristrutturazione del debito tributario e confisca penale. Stabilisce che l’accordo ex art. 182-bis L.F. (ora 63 CCII) incide sul quantum debeatur verso il Fisco, dunque riduce il “profitto del reato” di omesso versamento IVA e impone di ridurre in pari misura la confisca per equivalente già disposta. – Rilevante per collegamenti tra procedure concorsuali e sanzioni penali tributarie (effetto novativo parziale dell’accordo sui debiti fiscali).
- Cassazione Civile, Sez. I, 20 settembre 2022 n. 27562 – Accesso all’esdebitazione post-fallimentare. Ha affermato che per concedere l’esdebitazione al fallito non è richiesta una soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari, superando vecchi orientamenti restrittivi. – Conferma l’automaticità/ampiezza del fresh start nel CCII.
- Tribunale di Matera, 11 marzo 2025 – In tema di concordato minore di imprenditore agricolo sopra soglia. Ha ammesso la procedura ritenendo inapplicabili i limiti dimensionali per l’imprenditore agricolo (art. 2 c.1 lett. c CCII) e ribadendo la necessità di valutare la meritevolezza caso per caso. – Esprime principi su soggettività nel sovraindebitamento e su definizione di “meritevole” in concordato minore.
- Normativa emergenziale e settoriale: richiamata nel contesto:
- DL 118/2021 conv. L. 147/2021 (ha introdotto composizione negoziata, concordato semplificato),
- DL 137/2020 conv. L. 176/2020 (cram-down fiscale nelle procedure minori),
- Legge 3/2012 (vecchia legge sovraindebitamento, abrogata dal CCII ma utile per casi pregressi),
- DL 34/2020 e DL 73/2021 (dilazioni fiscali Covid, sospensioni),
- Legge 197/2022 (Budget 2023, ha modificato primo correttivo CCII),
- Varie “Rottamazioni” (DL 193/2016, DL 148/2017, DL 119/2018, DL 34/2019, fino alla “Rottamazione-quater” in Legge 197/2022 art. 1 commi 231-252).
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