La Mia Attività Va Male E Sta Fallendo: Cosa Fare

Hai un’attività che non genera più profitti, i debiti aumentano e ti sembra che la situazione ti stia sfuggendo di mano? Teme di dover chiudere tutto, ma non sai da dove iniziare o come proteggerti?

Quando un’impresa o una partita IVA entra in crisi, l’errore peggiore è aspettare troppo. Anche se l’attività va male o è già ferma, ci sono strumenti legali che ti permettono di chiudere in modo ordinato, ridurre i debiti, evitare pignoramenti e proteggere ciò che resta del tuo patrimonio.

Come capire quando la crisi è diventata insostenibile?

– Non riesci più a pagare fornitori, dipendenti o tasse
– Le entrate non coprono più le uscite
– I debiti si accumulano e ricevi solleciti o atti giudiziari
– Non hai più liquidità per investire, rilanciare o anche solo sostenere le spese minime

Se ti ritrovi in una o più di queste situazioni, è il momento di agire.

Cosa puoi fare se la tua attività sta fallendo?

  1. Valutare subito lo stato di crisi
    Con un’analisi professionale puoi capire:
    – Se è ancora possibile salvare l’attività
    – Se conviene chiudere e proteggere il patrimonio
    – Quali sono le tue responsabilità legali e come limitarle
  2. Accedere a uno strumento di gestione della crisi
    La legge prevede diverse soluzioni, anche per chi non può fallire: – Composizione negoziata della crisi: per tentare un accordo con i creditori, sospendendo pignoramenti e fermando il crollo
    Concordato minore: per le partite IVA individuali o le piccole imprese che vogliono chiudere in modo controllato
    Liquidazione controllata: per chi non riesce più a pagare e vuole liberarsi dai debiti in modo trasparente, con la possibilità di esdebitazione
    Piano del consumatore: se hai debiti misti (personali e da attività), puoi rientrare pagando solo una parte, in base a ciò che puoi realmente sostenere
  3. Proteggere i beni personali
    Se agisci in tempo, puoi:
    – Evitare pignoramenti su casa, conto corrente o veicoli
    – Bloccare fermo amministrativo e ipoteche
    – Dimostrare di aver agito con responsabilità, limitando i rischi futuri

Cosa succede se non fai nulla?

– La tua posizione si aggrava con interessi, sanzioni e spese legali
– Rischi che siano i creditori a chiedere la chiusura forzata dell’attività
– Potresti essere chiamato a rispondere personalmente dei debiti, se emergerà una gestione non diligente
– Ogni bene può essere aggredito da azioni esecutive

Come ti aiutiamo noi dello Studio Monardo?

Ti affianchiamo da subito per analizzare la tua situazione e decidere se tentare un salvataggio o avviare una chiusura protetta. Ti guidiamo nella scelta dello strumento giusto e gestiamo per te i rapporti con i creditori, il Tribunale e le autorità fiscali. Lavoriamo per difenderti, alleggerire i tuoi debiti e permetterti di ripartire.

La tua attività sta andando male e temi il peggio? Vuoi evitare di perdere tutto e sapere se esiste ancora una soluzione?

In fondo alla guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo il tuo caso, valuteremo ogni possibilità concreta e costruiremo insieme il percorso migliore per uscire dalla crisi, in modo legale e protetto.

Introduzione

Quando un’attività imprenditoriale inizia a mostrare segni di grave difficoltà finanziaria, è fondamentale conoscere quali strumenti giuridici l’ordinamento italiano mette a disposizione per gestire la crisi ed evitare (o affrontare ordinatamente) il fallimento dell’impresa. Dal punto di vista del debitore – sia esso un imprenditore individuale, il titolare di una piccola impresa, l’amministratore di una società o anche un privato sovraindebitato – è essenziale agire con tempestività e consapevolezza dei propri diritti e obblighi.

Negli ultimi anni il quadro normativo italiano in materia di insolvenza è stato completamente riformato. In particolare, dal 15 luglio 2022 è entrato in vigore il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019), che ha sostituito la vecchia “legge fallimentare” del 1942. Questa riforma, più volte corretta e integrata (si pensi al D.Lgs. 83/2022 che ha attuato la direttiva UE 2019/1023, e al D.Lgs. 136/2024, c.d. “Correttivo ter”), ha introdotto nuovi istituti per il risanamento aziendale e ha modificato profondamente quelli esistenti. Ad esempio, il tradizionale fallimento è stato ridenominato “liquidazione giudiziale”, segnando anche lessicalmente la volontà di superare lo stigma del termine “fallito”. Parallelamente, sono state introdotte procedure di allerta precoce della crisi e strumenti di composizione negoziale e giudiziale del dissesto, in un’ottica di maggiore tutela della continuità aziendale e di fresh start per l’imprenditore onesto.

Dal punto di vista pratico, il debitore in difficoltà deve tenere a mente alcuni principi chiave: (a) organizzare la propria impresa con sistemi adeguati a cogliere per tempo i segnali di crisi (obbligo imposto ora anche dal codice civile e dal Codice della Crisi, con doveri di “adeguati assetti” ex art. 2086 c.c.); (b) non ignorare eventuali segnalazioni di allerta da parte dei creditori pubblici qualificati (come Agenzia Entrate o INPS) in caso di ritardi nei versamenti fiscali o contributivi; (c) collaborare con gli organi di controllo interni (sindaci, revisori): questi non sono “nemici” ma alleati nell’individuare i problemi e, se ascoltati, possono aiutare a evitare responsabilità anche personali più gravi; (d) non attendere passivamente che i creditori presentino istanza di fallimento, ma attivarsi volontariamente appena compaiono segnali di insolvenza incipiente. In altre parole, anticipare la crisi consente al debitore di scegliere strumenti di regolazione meno traumatici e più efficaci, mentre agire tardi riduce le opzioni e aumenta i rischi (incluso il rischio di condotte di mala gestio che possano dar luogo a responsabilità civili o penali).

Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – fornirà un quadro avanzato ma divulgativo di tutte le principali procedure previste dall’ordinamento italiano per fronteggiare la crisi e l’insolvenza di un’attività economica, con particolare attenzione alla posizione del debitore. Saranno illustrate sia le soluzioni negoziali (stragiudiziali e giudiziali) per ristrutturare i debiti ed evitare la liquidazione, sia le procedure liquidatorie vere e proprie, qualora il salvataggio non sia possibile. Non mancherà uno sguardo agli aspetti fiscali e previdenziali (ad es. il trattamento dei debiti verso Erario e INPS nelle varie procedure) e alle più recenti pronunce giurisprudenziali in materia, con riferimenti normativi puntuali.

Panoramica delle opzioni in caso di crisi d’impresa

L’ordinamento prevede un ventaglio di soluzioni graduali per affrontare la crisi d’impresa, dalle misure preventive interne sino alla liquidazione finale. La scelta dipende dal grado di difficoltà in cui versa l’attività e dalle prospettive di risanamento. Ecco i principali strumenti con le loro caratteristiche essenziali (si farà riferimento agli istituti introdotti o modificati dal nuovo Codice della Crisi):

StrumentoNatura (tipo di procedura)Finalità (obiettivo)Consenso dei creditori
Allerta e adeguati assettiMisure organizzative interne e segnalazioni esterne (Agenzia Entrate, INPS, ecc.)Intercettare precocemente la crisi e permettere interventi tempestivi (prevenzione)N/A (obblighi gestionali interni; eventuali segnalazioni non richiedono consenso)
Composizione negoziataProcedura stragiudiziale assistita (volontaria e riservata, con nomina di un esperto)Ricercare un risanamento consensuale dell’impresa mediante accordi con i creditori, evitando procedure concorsuali più invasiveConsenso volontario dei creditori alle proposte negoziate (non c’è un voto formale; l’accordo è di natura contrattuale)
Piano attestato di risanamentoAccordo privato con attestazione di un professionista indipendente (art. 56 CCII)Ristrutturazione extragiudiziale dell’indebitamento con protezione dagli effetti sfavorevoli (es. esenzione da revocatoria fallimentare)Consenso integrale dei creditori coinvolti nel piano (è un accordo contrattuale, quindi vincola solo chi lo sottoscrive)
Accordo di ristrutturazioneAccordo con creditori omologato dal tribunale (procedura giudiziale semplificata)Ristrutturazione parzialmente consensuale con efficacia estesa anche ai creditori dissenzienti in certi casi e con protezioni legali (es. sospensione azioni esecutive, esenzioni da revocatoria)Consenso di creditori titolari di almeno 60% dei crediti totali. Vincola solo i creditori aderenti, salvo alcune estensioni settoriali (es: accordi finanziari) in cui, con 75% di adesioni, l’accordo può essere esteso a tutti i creditori di quella categoria. L’omologazione rende l’accordo efficace erga omnes rispetto ai partecipanti.
Concordato preventivoProcedura concorsuale giudiziale (su domanda del debitore, con controllo del tribunale)Regolazione della crisi tramite un piano concordato con i creditori, al fine di evitare la liquidazione giudiziale. Può perseguire il risanamento in continuità (prosecuzione dell’attività, diretta o tramite cessione a terzi) oppure la liquidazione dell’attivo in modo concordato con i creditori.Richiede il voto favorevole dei creditori secondo le maggioranze di legge (maggioranza dei crediti per classi/categorie) e la omologazione del tribunale. Il tribunale può anche omologare il concordato nonostante il voto contrario di alcuni creditori (c.d. cram-down, applicabile ad es. se una classe dissenziente è trattata in modo non deteriore).
Concordato “semplificato” (liquidatorio post-composizione negoziata)Procedura concorsuale speciale introdotta nel 2021 (art. 25-sexies CCII)Liquidazione rapida e semplificata del patrimonio quando la composizione negoziata non ha avuto esito positivo. Serve ad evitare la liquidazione giudiziale, offrendo ai creditori una distribuzione controllata dell’attivo secondo la proposta del debitore, ma con iter accelerato.Non è previsto il voto dei creditori: il piano è sottoposto direttamente al giudice per l’omologazione, valutata la sua fattibilità e convenienza, senza passare dall’assemblea dei creditori. (Si tratta dunque di un concordato senza voto, deciso dal tribunale su proposta del debitore al termine della composizione negoziata).
Piano di ristrutturazione omologato (PRO)Procedura concorsuale flessibile introdotta dal 2022 (recepimento direttiva UE)Consentire ristrutturazioni mirate e complesse tramite un piano con classi di creditori, anche in deroga ad alcune regole ordinarie (es. non è richiesto il pagamento minimo del 20% ai chirografari neppure se il piano è liquidatorio). È uno strumento ibrido tra accordo e concordato, molto flessibile nei contenuti.Necessaria l’approvazione di tutte le classi di creditori votanti (maggioranza all’interno di ciascuna classe) e successiva omologazione del tribunale. In pratica, occorre il consenso di ogni classe, ma non necessariamente di ogni singolo creditore: se tutte le classi votano sì a maggioranza interna, il piano vincola tutti i creditori di ciascuna classe omologata.
Liquidazione giudizialeProcedura concorsuale liquidatoria disposta dal tribunale (d’ufficio o su istanza, in caso di insolvenza conclamata)Liquidare il patrimonio dell’impresa insolvente e distribuire il ricavato ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione, chiudendo definitivamente l’attività. È l’equivalente del vecchio “fallimento” ed interviene come extrema ratio quando ogni tentativo di risanamento è fallito o impossibile.N/A: non c’è voto dei creditori (la procedura è d’ufficio, gestita dal curatore nominato dal tribunale). I creditori possono solo insinuare i loro crediti e partecipare al riparto secondo le regole concorsuali, ma non votano un piano (salvo possano essere chiamati ad approvare eventuali concordati nella liquidazione – v. § su concordato nella liquidazione giudiziale).

(Nota: Oltre a queste, esistono procedure speciali per categorie particolari, ad es. la liquidazione coatta amministrativa per banche, assicurazioni e altri enti regolati, o l’amministrazione straordinaria per le grandi imprese in stato di insolvenza con rilevanza sociale. Tali procedure esulano da questa trattazione, incentrata sulle aziende “ordinarie” e sui debitori civili.)

Come si vede dalla panoramica, l’ordinamento privilegia approcci graduali: prima si incoraggia il risanamento (attraverso piani negoziati o procedure concorsuali minori), poi – solo se il risanamento fallisce – si procede alla liquidazione. Nei capitoli seguenti analizzeremo in dettaglio ciascuna di queste soluzioni, con un livello di approfondimento avanzato ma mantenendo un linguaggio chiaro. In ogni sezione saranno riportati riferimenti normativi chiave (articoli del Codice della Crisi – CCII – e del codice civile) e, dove opportuno, le ultime sentenze rilevanti per l’interpretazione delle norme. Saranno inoltre proposte tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione finale di domande e risposte per chiarire i dubbi più frequenti dal punto di vista del debitore.

Allerta precoce e prevenzione della crisi

Uno degli aspetti innovativi del Codice della Crisi è l’enfasi sulla emersione tempestiva delle difficoltà aziendali, al fine di evitare che uno stato di crisi degeneri in vera e propria insolvenza irreversibile. Due sono i fronti su cui si gioca la partita della prevenzione: interno (organizzazione aziendale e doveri dell’imprenditore) ed esterno (segnalazioni di soggetti qualificati).

1. Adeguati assetti e doveri dell’imprenditore: L’art. 2086 c.c., come modificato dal D.Lgs. 14/2019, impone all’imprenditore collettivo (società) di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa, “ai fini della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale”. Analogamente, l’imprenditore individuale deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere le iniziative necessarie” (art. 3 CCII). In pratica, amministratori e titolari hanno l’obbligo legale di monitorare costantemente gli indici di sostenibilità dei debiti e la presenza di eventuali segnali di difficoltà (ad es.: significativi ritardi nei pagamenti di fornitori, stipendi, rate di mutuo, imposte, ecc.). Trascurare tali obblighi può esporre gli organi gestori a responsabilità: il Codice della Crisi ha introdotto una presunzione di danno da “wrongful trading” (mala gestio) a carico degli amministratori che aggravano il dissesto protraendo attività imprudenti dopo il manifestarsi di perdite rilevanti. L’art. 378 CCII infatti modifica l’art. 2486 c.c. prevedendo criteri presuntivi per liquidare il danno da gestione abusiva dopo lo scioglimento della società: in assenza di prove contrarie, il prejudice subito dai creditori è quantificato almeno nella differenza tra attivo e passivo aumentata delle perdite maturate dopo che gli amministratori avrebbero dovuto attivarsi. Ciò significa che, dal punto di vista del debitore, è altamente consigliabile affrontare per tempo la crisi, anche per evitare di incorrere in sanzioni risarcitorie personali in caso di successivo fallimento.

Inoltre, all’interno dell’impresa, gli organi di controllo (collegio sindacale, revisori) hanno il dovere di vigilare sull’adeguatezza degli assetti e possono sollecitare gli amministratori ad attivarsi. Se gli amministratori omettono di prendere provvedimenti nonostante la situazione lo richieda, i sindaci hanno ora facoltà di informare il tribunale e possono persino presentare istanza per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. Il messaggio per l’imprenditore in difficoltà è chiaro: meglio giocare d’anticipo, prima che siano altri (sindaci o creditori) a prendere l’iniziativa.

2. Segnalazioni esterne (allerta): Il Codice della Crisi aveva originariamente previsto un sistema istituzionale di allerta tramite organismi speciali (OCRI) attivati su segnalazione di determinati creditori pubblici e camere di commercio. Tuttavia, questa parte della riforma è stata posticipata più volte e di fatto abbandonata. In luogo dell’OCRI, il legislatore ha puntato su strumenti meno coercitivi e più volontari, come la composizione negoziata (di cui diremo a breve). Ciò nonostante, rimangono operative le “segnalazioni dei creditori pubblici qualificati”: enti come l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della Riscossione sono tenuti per legge a inviare al debitore (e all’eventuale organo di controllo) un avviso quando rilevano esposizioni debitorie scadute oltre soglie rilevanti (es.: ritardi >90 giorni nel versamento di contributi per importi sopra una certa soglia; debiti fiscali scaduti oltre 90 giorni sopra determinati importi, ecc.). Queste comunicazioni (tramite PEC o raccomandata) hanno lo scopo di “sollecitare” il debitore a prendere provvedimenti. Pur non essendoci più l’automatismo di un procedimento d’allerta formale davanti ad un organo pubblico, il ricevimento di tali avvisi non va ignorato: dal punto di vista del debitore responsabile, una segnalazione di questo tipo dovrebbe spingerlo immediatamente a consultare un professionista e valutare l’accesso a una procedura di composizione della crisi. In ogni caso, tali segnalazioni non costituiscono di per sé apertura di una procedura concorsuale; solo se il debitore resta inerte e la situazione peggiora, i creditori potranno eventualmente chiedere essi stessi l’apertura della liquidazione giudiziale.

Riassumendo, la fase di allerta e prevenzione è cruciale: un imprenditore informato e diligente:

  • Implementa sistemi di controllo di gestione per intercettare squilibri finanziari appena si manifestano (ad esempio monitoraggio di cash-flow prospettico a 6-12 mesi, indicatori come DSCR, ecc.).
  • Coinvolge immediatamente consulenti o professionisti appena si profilano tensioni di liquidità, per studiare possibili piani di risanamento.
  • Dialoga apertamente con i propri soci, sindaci e principali creditori, invece di nascondere le difficoltà. Spesso i fornitori strategici o le banche, se interpellati in tempo con un piano credibile, possono collaborare (ad es. dilazionando pagamenti) per evitare guai peggiori.
  • Valuta l’accesso agli strumenti di composizione stragiudiziale, come la composizione negoziata, prima che la situazione diventi ingovernabile.

Nei paragrafi successivi vedremo quali sono questi strumenti operativi a disposizione del debitore e come funzionano, iniziando proprio dalla composizione negoziata della crisi, concepita per affrontare in modo consensuale le difficoltà prima di arrivare alle procedure concorsuali giudiziali.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

La composizione negoziata è una delle novità più importanti introdotte di recente (dapprima col D.L. 118/2021, poi confluita nel Codice della Crisi agli artt. 17–25 septies CCII) per aiutare le imprese in difficoltà. Si tratta di una procedura volontaria, riservata e non giudiziaria, attivabile solo su iniziativa dell’imprenditore, finalizzata a favorire le trattative tra il debitore e i suoi creditori grazie all’assistenza di un esperto indipendente nominato da un’apposita commissione della Camera di Commercio. L’obiettivo è di individuare una soluzione concordata che consenta la continuità aziendale o, quantomeno, una gestione ordinata della crisi, evitando l’aggravarsi della situazione e scongiurando il ricorso a procedure concorsuali più drastiche (come il concordato o la liquidazione giudiziale).

Accesso e requisiti: Può richiedere la composizione negoziata qualsiasi imprenditore – commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione – che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che fanno presumere uno stato di crisi o di insolvenza “reversibile” (ovvero ancora risanabile). Non è necessario essere già insolventi in senso tecnico; anzi, l’idea è proprio di muoversi prima che l’insolvenza diventi conclamata. È ammessa però anche l’impresa già formalmente insolvente, purché vi siano concrete prospettive di recupero (es.: carenza temporanea di liquidità a fronte di un business comunque redditizio). La procedura è volontaria: solo il debitore può attivarla, mai i creditori né il tribunale. Questa volontarietà e riservatezza la distinguono nettamente dal concordato preventivo (che invece è pubblico sin dal deposito della domanda, con possibili effetti negativi sulla reputazione dell’impresa).

Procedura (in breve): L’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita da Unioncamere). Deve allegare una serie di documenti – ultimi bilanci, situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata, elenco creditori, relazione sulle cause della crisi e sulle possibili strategie di risanamento, ecc. – e compilare un questionario di autodiagnosi sullo stato dell’azienda. La piattaforma guida l’utente anche attraverso un semplice test sulla ragionevole perseguibilità del risanamento, fornendo un esito indicativo sulla possibilità di recupero (questo test, previsto dalla norma, non è vincolante ma serve da supporto decisionale). Una volta caricata la domanda, entro pochi giorni viene nominato dalla Camera di Commercio un Esperto indipendente (scelto da un elenco di professionisti qualificati in materia di ristrutturazione). L’Esperto, verificata la propria indipendenza (assenza di conflitti di interesse), accetta l’incarico e convoca l’imprenditore per iniziare le trattative con i creditori.

Le trattative si svolgono in modo riservato: l’avvio della composizione negoziata non viene pubblicato nei registri pubblici, per tutelare l’impresa dal panico di mercato. Ciò incoraggia gli imprenditori ad utilizzare lo strumento, sapendo di poter tentare un risanamento senza immediati riflessi negativi su fornitori, clienti o banche (al contrario di quanto avviene con un’istanza di concordato preventivo, che è pubblica e spesso provoca reazioni a catena). Su richiesta del debitore, tuttavia, il tribunale può concedere misure protettive durante le trattative (ad es. sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori), e in tal caso l’esistenza della procedura dev’essere pubblicata per conoscenza dei terzi. In generale, l’Esperto svolge un ruolo di mediatore: analizza la situazione dell’impresa, individua possibili soluzioni e facilita il dialogo tra debitore e creditori. Le parti restano libere di accettare o meno le proposte; l’Esperto non ha poteri decisori ma può formulare egli stesso proposte o piani sulla base delle informazioni raccolte. La durata della procedura è inizialmente di 3 mesi, prorogabile su richiesta motivata (di solito fino a un massimo di altri 3 mesi), durante i quali si cerca di raggiungere un accordo.

Esiti possibili: La composizione negoziata è un contenitore flessibile che può condurre a diversi risultati, a seconda di come evolvono le negoziazioni:

  • Accordo stragiudiziale semplice: se debitore e alcuni creditori trovano un’intesa (ad esempio una rischedulazione dei debiti, nuovi finanziamenti, riduzione di alcuni crediti), possono formalizzare un accordo privato. Tale accordo non richiede omologazione giudiziaria; resta un contratto bilaterale o plurilaterale. Se coinvolge tutti o quasi tutti i creditori, di fatto l’impresa può risanarsi senza attivare altre procedure. Per dare maggior efficacia a un accordo parziale, spesso si prevede comunque il ricorso a uno degli strumenti seguenti (accordo ex art. 182-bis o concordato).
  • Piano attestato di risanamento: le trattative possono sfociare nella predisposizione di un piano di risanamento (art. 56 CCII) accompagnato dall’attestazione di un esperto indipendente circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Un piano attestato è essenzialmente un accordo privato tra il debitore e uno o più creditori (tipicamente le banche), con la particolarità che – se soddisfa i requisiti di legge e viene pubblicato nel registro delle imprese – offre al debitore una protezione in caso di successivo fallimento: i pagamenti e le garanzie concessi in esecuzione del piano non potranno essere soggetti a revocatoria fallimentare (ossia non verranno “annullati” dal curatore). È uno strumento utile quando la crisi è affrontabile coinvolgendo solo alcuni creditori principali, e si vuole evitare una procedura formale.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti: se si raggiunge il consenso di una parte consistente dei creditori (almeno il 60% dei crediti), il debitore può optare per un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis (ora artt. 57-64 CCII), da sottoporre all’omologazione del tribunale. Come vedremo più avanti, l’accordo di ristrutturazione è più “robusto” giuridicamente di un semplice piano attestato: l’omologazione gli conferisce efficacia esecutiva e alcune protezioni (ad esempio la moratoria delle azioni esecutive, e la possibilità di estendere gli effetti anche ai creditori dissenzienti in certi settori, come quelli finanziari, se si raggiunge il 75% di adesioni). Durante la composizione negoziata, l’Esperto può aiutare a raccogliere le adesioni necessarie e a strutturare l’accordo da presentare poi al giudice per l’omologa. Da notare che il Correttivo ter 2024 ha reso più flessibile questo strumento, introducendo gli “accordi di ristrutturazione agevolati” con soglia di adesione ridotta al 30% in presenza di talune condizioni (ad esempio se l’imprenditore è sotto soglia dimensionalmente) – novità normativa che mira a incoraggiare l’utilizzo dello strumento anche da parte di piccole imprese. (Vedi § dedicato agli Accordi di ristrutturazione).
  • Concordato preventivo: se emerge un piano più complesso che richiede il coinvolgimento collettivo di tutti i creditori con votazione, il debitore può presentare un ricorso per concordato preventivo in tribunale. La composizione negoziata può fungere da anticamera informale: l’Esperto, se intravede la necessità di un concordato, lo segnala. In alcuni casi, l’impresa depositerà un concordato “in bianco” (riservandosi di presentare il piano definitivo entro termini di legge) al fine di ottenere immediatamente le protezioni concorsuali e poi finalizzare le trattative iniziate in sede negoziata. Importante: il Codice prevede che il relatore/attestatore del concordato non possa essere lo stesso Esperto della composizione negoziata per garantire imparzialità.
  • Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: questa è una opzione speciale disponibile solo se la composizione negoziata fallisce nel suo scopo principale di risanamento. Introdotta nel 2021 (in piena pandemia) e confermata nel Codice, consente al debitore di proporre al tribunale una rapida liquidazione dei propri beni a beneficio dei creditori, senza passare per il voto di questi ultimi. Può ricorrervi l’imprenditore che, pur non essendo riuscito a trovare un accordo, durante le trattative ha individuato una soluzione liquidatoria (ad esempio ha trovato un soggetto disponibile ad acquistare l’azienda o alcuni beni a un certo prezzo). Il tribunale, verificati i presupposti e sentiti i creditori, può omologare il concordato semplificato e nominare un liquidatore che eseguirà rapidamente il programma di liquidazione. Questa procedura eccezionale serve ad evitare la liquidazione giudiziale quando c’è almeno una proposta concreta sul tavolo dopo la composizione negoziata. Approfondiremo i dettagli più avanti (§ Concordato semplificato).
  • Archiviazione: se nessuna delle soluzioni sopra funziona e le trattative non portano ad accordi utili, la composizione negoziata si conclude con un nulla di fatto. Il debitore a quel punto deve valutare altre strade: in assenza di prospettive di risanamento, spesso l’unica via rimasta sarà la liquidazione giudiziale (sia chiesta dal debitore stesso per chiudere in modo ordinato, sia eventualmente subìta su istanza dei creditori). L’Esperto redige una relazione finale sull’esito delle trattative. Da notare che la relazione dell’Esperto è riservata e non può essere utilizzata in sede di eventuale successivo fallimento per addebitare al debitore condotte di aggravamento del dissesto, a meno che il debitore vi consenta – questo per incentivare il ricorso allo strumento senza timore di autodenunce.

In sintesi, la composizione negoziata è un ombrello protettivo temporaneo che aiuta l’imprenditore a esplorare soluzioni di risanamento in maniera confidenziale e con la regia di un professionista esperto. Dal punto di vista del debitore, i vantaggi sono la riservatezza, il controllo della procedura (che resta nelle sue mani, non essendo sostituito da organi concorsuali) e la possibilità di ottenere misure protettive (stay delle azioni esecutive) e finanza prededucibile (nuovi finanziamenti durante la procedura che saranno privilegiati) per sostenere l’attività nel frattempo. Va però considerato che la composizione negoziata richiede un grande impegno: l’imprenditore deve mettere a disposizione informazioni dettagliate e trasparenti, sostenere i costi dei professionisti che lo assistono e accettare il confronto con i creditori sulle cause della crisi. Se il debitore non collabora in buona fede, la procedura è destinata a fallire.

Esempio pratico: Beta S.r.l., piccola azienda commerciale, inizia ad accumulare ritardi nei pagamenti ai fornitori e all’Erario. Il titolare capisce che, senza un intervento, la situazione precipiterà. Decide quindi, su consiglio del commercialista, di attivare la composizione negoziata. Viene nominato un Esperto che, esaminati i conti, convoca i principali fornitori e la banca finanziatrice. Durante vari incontri, Beta S.r.l. propone un piano: i fornitori accettano un pagamento dilazionato del 50% dei loro crediti in 2 anni, la banca concede una moratoria di 6 mesi sulle rate del mutuo e l’Agenzia delle Entrate (coinvolta tramite una transazione fiscale in questa fase – possibilità introdotta dal 2023) accetta di stralciare sanzioni e interessi dilazionando l’IVA arretrata. L’Esperto attesta che l’accordo è equo e conveniente per tutti rispetto all’alternativa del fallimento. Si formalizza così un accordo di ristrutturazione dei debiti con adesione dell’80% dei creditori totali. Il tribunale omologa l’accordo e Beta S.r.l. può continuare l’attività, rispettando il piano di pagamenti concordato. In mancanza di questa procedura, probabilmente alcuni creditori avrebbero agito esecutivamente costringendo l’impresa al fallimento.

La composizione negoziata rappresenta dunque la prima linea di difesa per un imprenditore in crisi, da attivare tempestivamente. Vediamo ora gli strumenti successivi, a partire dagli accordi di ristrutturazione e dai piani attestati (strumenti spesso collegati all’esito della composizione stessa).

Piani attestati di risanamento

Il piano attestato di risanamento (disciplinato dall’art. 56 CCII, già art. 67 co. 3 lett. d legge fall.) è lo strumento più “leggero” e interamente stragiudiziale previsto per superare la crisi d’impresa. Esso consiste, in sostanza, in un piano aziendale di risanamento concordato con i creditori (o almeno con quelli principali) e asseverato da un professionista indipendente (attestatore). Il piano deve avere l’obiettivo di portare l’impresa fuori dallo stato di crisi (riportandola in bonis) e deve essere “idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e a garantire il riequilibrio della sua situazione finanziaria” (così il testo di legge). L’attestatore – un soggetto con i requisiti di indipendenza previsti dall’art. 2 CCII, tipicamente un commercialista o revisore esperto in crisi – deve verificare la veridicità dei dati aziendali e giudicare fattibile il piano, rilasciando apposita relazione.

Caratteristiche principali:

  • È un accordo di natura contrattuale: non coinvolge il tribunale né richiede omologazione. Ciò significa che vi partecipano solo i creditori che volontariamente aderiscono al piano. Per sua natura, richiede dunque il consenso integrale di tutti i creditori dei quali si vuole regolare la posizione. Se anche un solo creditore significativo non aderisce, il piano resta efficace solo tra le parti consenzienti e quel creditore potrà comunque agire per conto proprio (eventualmente causando il fallimento). Quindi, il piano attestato è utile quando c’è unità di intenti con tutti (o la gran maggioranza) dei creditori chiave.
  • Esonero da revocatoria: il vantaggio primario offerto da un piano attestato pubblicato (registro imprese) è che, in caso di successivo fallimento, gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano non potranno essere revocati dal curatore (art. 56 co.3 CCII). Questo scudo evita che i creditori rinuncino ad accordarsi per timore che i pagamenti ricevuti vengano poi “ripresi” in un eventuale fallimento successivo. Ad esempio, se la banca accetta di “spalmare” un debito e nel frattempo il debitore le paga alcune rate come da piano, quei pagamenti non saranno soggetti a revocatoria fallimentare anche se l’impresa fallisse più tardi – a condizione che il piano fosse idoneo e attestato. Ciò incentiva i creditori ad aderire.
  • Flessibilità di contenuto: non essendo una procedura concorsuale, il piano attestato può prevedere qualsiasi misura ritenuta utile: dilazioni di pagamento, riduzioni (stralci) consensuali di parte dei debiti, conferimenti di nuovi capitali, cessioni di asset non strategici per fare cassa, rinegoziazione di contratti, ecc. Non ci sono vincoli di legge su percentuali minime di soddisfacimento (come invece nel concordato liquidatorio, v. oltre). L’importante è che il piano appaia ragionevolmente realizzabile e vantaggioso per i creditori rispetto all’alternativa del fallimento.
  • Efficacia soggettiva limitata: come detto, vincola solo chi partecipa. Se qualche creditore resta fuori, si creerà una situazione di squilibrio: il piano potrebbe anche riuscire (se i non aderenti sono marginali), ma resta il rischio che un creditore non aderente inizi azioni legali o istanze di fallimento. Spesso, per ovviare, si coinvolgono almeno temporaneamente tutti tramite misure protettive del concordato “in bianco” mentre si esegue il piano, ma entriamo in meccanismi complessi. In generale, il piano attestato funziona bene se i creditori non aderenti sono irrilevanti o vengono comunque soddisfatti regolarmente.

Quando usarlo: Il piano attestato è indicato in situazioni di crisi non ancora troppo diffuse nella platea dei creditori, ad esempio: forti debiti verso banche e fornitori principali, ma un buon accordo con essi può riportare l’azienda in carreggiata. Se l’impresa ha invece molti piccoli creditori difficili da raccogliere in accordo, occorrerà un concordato. Dal punto di vista del debitore, il piano attestato è attraente perché evita la pubblicità e la rigidità delle procedure concorsuali: l’azienda continua ad operare normalmente, il piano può restare confidenziale (salvo la pubblicazione in registro imprese, che però non rende pubblico ogni dettaglio). D’altro canto, manca la “forza di legge” di un’omologazione: tutto dipende dalla tenuta degli accordi bilaterali.

Esempio: Gamma S.p.A., azienda manifatturiera, ha debiti per 5 milioni con due banche e pochi fornitori. La crisi deriva da un investimento sbagliato, ma la gestione corrente è in utile. Gamma negozia con le banche una moratoria di 2 anni sul rimborso del capitale, e intanto i soci apportano nuovi fondi per 1 milione da usare per pagare i fornitori e ridurre parte dell’esposizione bancaria. Si redige un piano di risanamento su 5 anni, asseverato da un esperto che conferma la sostenibilità di Gamma. Tutti i creditori coinvolti sottoscrivono il piano. Viene depositata l’attestazione e il piano è pubblicato ex art. 56 CCII, così da attivare la protezione anti-revocatoria. Gamma esegue il piano, torna redditizia e rimborsa gradualmente i debiti secondo i nuovi accordi.

In conclusione, il piano attestato di risanamento è uno strumento snello e potente per imprese con struttura di debito concentrata, permettendo di evitare formalità concorsuali. Va però maneggiato con cura: la buona fede, la trasparenza e la competenza dell’attestatore sono fondamentali; attestare un piano irrealistico espone a gravi conseguenze (anche penali, per l’attestatore).

Accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD)

Gli accordi di ristrutturazione disciplinati dagli artt. 57–64 CCII (e 182-bis L.F. previgente) rappresentano uno strumento “ibrido” tra il piano puramente negoziato e la procedura concorsuale vera e propria. In sostanza, si tratta di accordi che il debitore conclude con una parte significativa dei creditori (almeno il 60% dei crediti) e che vengono poi omologati dal tribunale. L’omologazione conferisce all’accordo una serie di effetti benefici:

  • Forza esecutiva ed esenzioni da revocatoria: l’accordo omologato ha efficacia di titolo esecutivo e i pagamenti/garanzie concessi in esecuzione di esso non sono soggetti a revocatoria fallimentare, analogamente a quanto avviene per il piano attestato. Inoltre, dal deposito della domanda di omologazione, il debitore può ottenere dal tribunale la sospensione delle azioni esecutive individuali (la protective stay fino a 120 giorni).
  • Possibile estensione ai creditori dissenzienti (“cram-down parziale”): di regola, l’accordo di ristrutturazione vincola solo i creditori che vi aderiscono. Tuttavia, la legge prevede alcune eccezioni settoriali. Ad esempio, se l’accordo raggiunge il 75% dei crediti finanziari (banche), si può chiedere al tribunale di estenderne gli effetti anche alle banche dissenzienti (c.d. accordo ad efficacia estesa). Simile meccanismo è previsto per i crediti verso fornitori strategici, se si raggiunge una soglia qualificata. Queste norme consentono di evitare che pochi dissenzienti facciano saltare la ristrutturazione. Il nuovo Codice ha ulteriormente ampliato queste possibilità di cram-down settoriale.
  • Trattamento dei creditori esclusi: i creditori estranei all’accordo restano liberi di agire, ma l’impresa spesso chiede contestualmente l’apertura di un concordato preventivo “in bianco” per congelare la situazione verso di essi mentre perfeziona l’accordo con la maggioranza. In alternativa, il nuovo Codice consente di presentare un piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO) in parallelo per coinvolgere classi di creditori non aderenti (strumento avanzato di cui si dirà dopo).

Requisiti: per utilizzare un ARD occorre che il debitore sia in stato di crisi o insolvenza (anche qui l’accordo rientra negli “strumenti di regolazione della crisi/insolvenza” del CCII). Bisogna depositare in tribunale l’accordo firmato con almeno il 60% dei crediti, unitamente a una relazione di un esperto attestatore che certifichi che l’accordo assicura il regolare pagamento dei creditori estranei (quelli non aderenti) nei 120 giorni dalle scadenze originarie (o dall’omologazione se posteriori). Questo serve a tutelare i dissenzienti: in pratica l’esperto deve garantire che i non aderenti non verranno pregiudicati (devono essere pagati integralmente alle scadenze, salvo diversa pattuizione individuale).

Iter: se la documentazione è completa, il tribunale fissa un’udienza per l’omologazione. I creditori aderenti e l’azienda sostengono l’accordo, mentre eventuali creditori estranei o dissenzienti possono proporre opposizione (eccependo ad es. che la loro posizione non è tutelata a dovere). Il tribunale valuta la convenienza e fattibilità dell’accordo e, se tutto è in ordine, lo omologa rendendolo vincolante tra le parti. Da notare che, a differenza del concordato, non c’è votazione formale: o i creditori hanno firmato, oppure no. L’asticella del 60% si calcola sul totale dei crediti; non esistono classi né necessità di maggioranze per categorie (questo rende l’ARD più semplice da concludere se si hanno pochi creditori di peso che raggiungono quella percentuale).

Transazione fiscale e contributiva negli accordi: Una delle novità introdotte dal Codice (e da D.Lgs. 83/2022) è la possibilità di includere nell’accordo anche il trattamento dei debiti fiscali e contributivi attraverso una transazione fiscale. In passato, l’Erario e gli enti previdenziali erano spesso l’anello debole: se non aderivano all’accordo, il piano saltava. Oggi il debitore può proporre all’Agenzia delle Entrate e all’INPS il pagamento parziale e/o dilazionato dei loro crediti nell’ambito dell’accordo. Se ottiene la loro adesione, bene; in caso contrario, è prevista la possibilità di omologazione forzosa anche senza consenso di Agenzia Entrate/INPS, a certe condizioni – analogamente a quanto avviene nel concordato (su cui v. infra). In particolare, l’art. 63 CCII consente la transazione fiscale negli accordi e il cram-down fiscale: qualora il Fisco non aderisca ma l’accordo sia approvato dai creditori in percentuale sufficiente ed offra al Fisco almeno quanto otterrebbe in una liquidazione fallimentare, il tribunale può omologare ugualmente l’accordo. Questo è un enorme passo avanti, poiché evita che un veto ingiustificato del Fisco blocchi soluzioni convenienti per tutti (in passato molte ristrutturazioni naufragavano per il “no” dell’Erario). La Cassazione aveva già anticipato questo orientamento in varie pronunce di legittimità, riconoscendo il potere del tribunale di superare il diniego dell’ente pubblico se l’offerta al Fisco era più vantaggiosa della liquidazione. Tali principi sono ora normativizzati nel CCII. Ad esempio, Cass. Sez. Unite 8504/2021 ha stabilito che il debitore ha diritto a una tutela giurisdizionale sulla proposta di transazione fiscale, demandando al giudice concorsuale (non tributario) la competenza sulle contestazioni. Più di recente, Cass. civ. 27782/2024 ha confermato che l’omologazione del concordato (e analogamente di un accordo) può essere concessa nonostante il voto contrario del Fisco, purché l’offerta soddisfi il criterio di convenienza comparativa.

Vantaggi per il debitore: l’accordo di ristrutturazione è meno oneroso del concordato sotto vari profili: non c’è una procedura competitiva, non serve creare classi di voto, i tempi tendono ad essere più rapidi e l’impresa non subisce lo spossessamento (mantiene l’amministrazione ordinaria e straordinaria, salvo diversa pattuizione). Inoltre può rimanere riservato fino all’omologazione (a parte le comunicazioni ai creditori coinvolti), limitando l’impatto reputazionale. È particolarmente indicato quando si riesce a coalizzare la maggioranza dei crediti attorno a un piano, ma c’è necessità di “forzare” un po’ la mano ai pochi dissenzienti e di godere di uno stay legale. Se invece i creditori contrarie fossero molti o rappresentassero più del 40%, bisognerà optare per un concordato (che vincola anche le minoranze).

Limiti e cautele: come ogni accordo volontario, richiede negoziazione e compromessi. Ciascun creditore aderente firmerà presumibilmente perché convinto di ottenere dall’accordo più di quanto otterrebbe dal fallimento del debitore. L’attestatore svolge un ruolo chiave nel rassicurare sia i partecipanti sia il giudice che i non aderenti non verranno danneggiati. È fondamentale, dal lato del debitore, presentare un piano serio e realistico, supportato da proiezioni finanziarie attendibili, per convincere abbastanza creditori ad aderire. Se il debitore fornisce informazioni fuorvianti o incomplete, rischia non solo il fallimento dell’accordo ma anche di compromettere la fiducia dei creditori e del tribunale (con possibili conseguenze negative in successive procedure).

Esempio: Delta S.p.A. ha 100 creditori, per 10 milioni di debiti totali. Di questi, 7 milioni sono dovuti a 5 banche e 2 fornitori strategici; il restante 3 milioni è frammentato tra 90 piccoli fornitori. Delta elabora, con un advisor, un piano di ristrutturazione: propone alle banche e ai due fornitori grandi di soddisfarli al 80% in 5 anni (nuovo finanziamento di soci incluso), mentre ai piccoli chirografari offre il pagamento integrale ma dilazionato in 2 anni. Le banche e i fornitori strategici, che rappresentano il 70% dei crediti, aderiscono formalmente all’accordo. Per i 90 piccoli creditori (30% dei crediti) Delta preferisce non cercare adesione individuale (troppo complesso), ma siccome promette di pagarli integralmente, l’attestatore certifica che sono tutelati. Si deposita l’accordo con l’80% di adesioni complessive. Nessuno dei piccoli creditori fa opposizione perché confidano di essere pagati interamente. Il tribunale omologa l’accordo. Delta ottiene la moratoria delle azioni esecutive e rispetta il piano, pagando i piccoli nei tempi promessi e rimborsando parzialmente i grandi secondo le nuove intese.

In questo esempio, grazie all’ARD, Delta S.p.A. ha evitato il fallimento e mantenuto i rapporti con i fornitori chiave. Se però non fosse riuscita a raccogliere almeno il 60% di consensi, avrebbe dovuto procedere col concordato preventivo, di cui ci occupiamo ora.

Concordato preventivo

Il concordato preventivo è storicamente la procedura principe per tentare di risolvere la crisi o insolvenza con il coinvolgimento di tutti i creditori e sotto il controllo del tribunale, evitando la soluzione liquidatoria fallimentare. Nel nuovo Codice della Crisi è disciplinato agli artt. 84–120 CCII. Si tratta, in sostanza, di una procedura concorsuale a domanda del debitore, il quale propone un piano per il soddisfacimento dei creditori (in misura parziale, differita o anche integrale ma secondo nuove regole) e lo sottopone al voto dei creditori stessi e poi al giudizio di omologazione del tribunale. Se il concordato va a buon fine, il debitore evita la dichiarazione di liquidazione giudiziale (fallimento) e regola la propria crisi secondo le modalità concordate; se invece la proposta viene bocciata o non omologata, solitamente si apre la strada al fallimento.

Il Codice della Crisi distingue principalmente tra:

  • Concordato in continuità aziendale, quando nel piano è prevista la prosecuzione dell’attività imprenditoriale (in proprio, o tramite cessione/affitto dell’azienda a un terzo che la mantiene in funzione) – art. 84 co. 3 CCII.
  • Concordato liquidatorio, quando il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio per pagare i creditori – art. 84 co. 4 CCII.

Questa distinzione è importante perché le condizioni di ammissibilità e le regole di trattamento dei creditori differiscono in parte. Approfondiamo i due tipi:

Concordato in continuità aziendale

Nel concordato in continuità, l’obiettivo è ristrutturare il debito e riorganizzare l’impresa, preservandone la vita futura. Ciò può avvenire mediante:

  • Continuità diretta: il debitore rimane alla guida dell’azienda e prosegue l’attività durante e dopo il concordato, apportando magari dei correttivi (taglio di rami d’azienda non redditizi, riduzione costi, nuovi investimenti, ecc.).
  • Continuità indiretta: l’azienda (o parti di essa) viene trasferita a un soggetto terzo (es. vendita o affitto d’azienda) che la proseguirà. Tipicamente, un investitore può intervenire acquisendo l’azienda decotta, garantendo un certo valore per l’attivo.

Caratteristiche del piano in continuità: Deve contenere una descrizione dettagliata delle strategie di risanamento industriale e finanziario: ad esempio, piani industriali pluriennali, accordi con nuovi soci o partner, eventuale ricapitalizzazione, cessione di asset non strategici, taglio di personale in esubero (nel rispetto delle norme sul lavoro, con autorizzazione del tribunale ex art. 189 CCII), ecc. È richiesta obbligatoriamente la relazione di un professionista indipendente attestatore, che certifichi la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano (art. 87 CCII). Nel concordato in continuità puro non vi sono soglie minime di soddisfacimento per i creditori chirografari imposte ex lege (a differenza del liquidatorio, come vedremo). L’idea è che se l’azienda sopravvive, i creditori potranno avere benefici anche indiretti (es: mantenimento di un rapporto commerciale). Tuttavia vige la regola della “capienza”: nessun creditore può ricevere meno di quanto otterrebbe in caso di liquidazione giudiziale (principio assoluto di convenienza: art. 112 CCII). Questo viene valutato confrontando i dividendi proposti col c.d. valore di liquidazione (quanto ricaverebbero i creditori dallo scenario fallimentare alternativo). Inoltre, vige il principio di parità di trattamento all’interno delle classi e di rispetto delle cause di prelazione (salvo specifiche deroghe autorizzate, es. per nuova finanza).

Voto dei creditori: Il debitore deve suddividere i creditori in classi se necessario (obbligatorio se ci sono creditori con posizione giuridica ed economica differenziata; es.: banche ipotecarie, fornitori chirografari, ecc., nonché i lavoratori per TFR che sono privilegiati, ecc.). Ogni classe vota separatamente. Serve il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto (esclusi privilegiati integralmente pagati e altri non votanti) e in ogni caso almeno la maggioranza delle classi (se classi >1). Se una classe vota no ma il tribunale ritiene che sia trattata equamente e che abbia comunque un beneficio rispetto alla liquidazione, può applicare il cram-down (omologazione nonostante il dissenso di una classe; servono però almeno due classi favorevoli e che la classe dissenziente non riceva meno del 20% del suo credito, oppure il 10% in caso di classi di garanzia reale, ex art. 112 co. 2 CCII). Quindi il meccanismo di voto è complesso, ma mira a bilanciare maggioranza e tutela delle minoranze.

Trattamento dei creditori privilegiati: In continuità, i creditori privilegiati (es. banche con ipoteca, Fisco per IVA, dipendenti per stipendi) dovrebbero essere pagati integralmente, ma la legge consente che vengano anche pagati parzialmente o dilazionati, purché ricevano almeno quanto il valore attuale delle garanzie sottostanti. Ad esempio, una banca ipotecaria con garanzia su immobile può accettare di prendere il 80% in 5 anni, se l’attestatore mostra che in fallimento quell’immobile le darebbe forse il 70%. La parte di credito privilegiato “scoperta” (che non trova capienza nel valore del pegno/ipoteca) viene degradată a chirografaria e tratta come tale nel concordato (art. 109 CCII). I crediti muniti di privilegio generale (es. privilegiati del Fisco e contributi INPS su tutto il patrimonio) possono essere dilazionati entro un termine congruo (massimo 5 anni per privilegiati ex art. 86 CCII), purché la dilazione non li pregiudichi.

Transazione Fiscale nel concordato: Punto cruciale per i piani in continuità (e anche liquidatori) è la gestione dei debiti fiscali e contributivi. Il nuovo Codice ha innovato radicalmente la materia: oggi il debitore può proporre il pagamento parziale (falcidia) e/o dilazionato di IVA e ritenute fiscali, oltre che di tutti gli altri tributi e contributi. Questa è una differenza enorme rispetto al passato, quando IVA e ritenute erano impagabili parzialmente (bisognava soddisfarle integralmente, pena inammissibilità). Ora invece, tramite la transazione fiscale (art. 63 CCII), l’Agenzia Entrate può accettare una percentuale sul dovuto fiscale. Condizione: l’Erario e gli enti previdenziali devono aderire alla proposta, oppure – se non aderiscono – il piano deve garantire loro almeno il valore di realizzo in caso di fallimento. In quest’ultimo caso, il tribunale può omologare il concordato nonostante il voto contrario del Fisco (c.d. cram-down fiscale). Questo meccanismo, dapprima introdotto col DL 125/2020 e ora a regime, consente di superare l’eventuale diniego “ingiustificato” dell’Erario: se la proposta è equa e più vantaggiosa per il Fisco rispetto alla liquidazione, il concordato può essere approvato comunque. In pratica, lo Stato viene trattato al pari degli altri creditori: non ha più un potere di veto assoluto. Cassazioni degli ultimi anni hanno legittimato questa soluzione (v. Cass. 18/10/2024 n. 27782; Cass. 30/12/2021 n. 35954 in linea con la citata SU 8504/2021). Dunque il debitore in concordato può proporre, ad esempio, di pagare l’IVA al 30% in 5 anni, se dimostra che in fallimento l’Erario prenderebbe meno (ovviamente serve l’attestazione di convenienza e il rispetto dell’ordine dei privilegi). Va segnalato che il Correttivo 2024 (D.Lgs. 136/2024) ha chiarito che il voto contrario del Fisco equivale a “mancanza di adesione” ai fini del cram-down, eliminando dubbi interpretativi. Inoltre, ricorda la giurisprudenza, eventuali tributi maturati dopo la domanda di concordato (e.g. nuova IVA corrente) non entrano nella transazione e vanno pagati regolarmente, poiché il piano copre solo il pregresso.

Condizioni di ammissibilità speciali: Nel concordato in continuità puro non c’è l’obbligo di soddisfare i chirografari con una percentuale minima fissata ex lege. L’idea è che se c’è continuità, anche una soddisfazione bassa può essere accettabile se è il massimo realisticamente ottenibile (purché meglio del fallimento). Il Codice prevede però che se un concordato “misto” ha anche parti liquidatorie, per quelle parti si applicherebbe la regola del 20% (v. infra). È un tema tecnico: basti dire che se il piano prevede la cessione di beni, bisogna fare attenzione a offrire ai creditori un bonus sufficiente. Ma se l’azienda viene mantenuta in esercizio generando valore futuro, quel valore in sé giustifica anche percentuali più basse sul pregresso.

Vantaggi e rischi (per il debitore): Il concordato in continuità, se approvato, consente di preservare la vita dell’impresa, salvando posti di lavoro e avviamento, cosa che una liquidazione azzererebbe. Dà accesso a strumenti come la finanza interinale (il tribunale può autorizzare nuovi finanziamenti prededucibili per far girare l’azienda durante la procedura) e prevede la protezione dai creditori sin dal deposito (automatic stay delle azioni esecutive). Tuttavia, è una procedura complessa e impegnativa: l’imprenditore viene affiancato da un commissario giudiziale nominato dal tribunale, che vigila durante la fase di esecuzione del concordato (fino all’omologa). Anche dopo l’omologa, l’impresa resta sotto osservazione: se non rispetta il piano, il concordato può essere revocato e si aprirà la liquidazione giudiziale. Inoltre, l’esposizione mediatica è elevata (clienti e fornitori vengono a sapere della procedura). Dal punto di vista “umano”, il debitore deve accettare di perdere parte del controllo: ogni atto di straordinaria amministrazione in pendenza di concordato richiede autorizzazione. Tuttavia, mantiene la gestione ordinaria e, soprattutto, mantiene la speranza di proseguire l’attività al termine del concordato, se il piano avrà successo.

Esempio pratico (continuità): Alfa S.p.A., azienda manifatturiera con 100 dipendenti, ha debiti per 10 milioni di euro (8 milioni verso banche con ipoteca su immobili, 2 milioni verso fornitori chirografari). L’impresa è sovraindebitata ma ha ancora buone prospettive di mercato. Alfa presenta un concordato in continuità con un piano quinquennale: cede un immobile non strategico e ottiene un nuovo investitore che immette liquidità nel capitale. Il piano propone di pagare integralmente in 5 anni le banche ipotecarie (rinegoziando i mutui) e di soddisfare i fornitori chirografari al 40% in 4 anni. Tutti i dipendenti sono mantenuti in servizio e i loro crediti (stipendi arretrati, TFR) verranno saldati entro 1 anno dall’omologa. Un professionista indipendente attesta che il piano è fattibile e migliore del fallimento (in una liquidazione i fornitori avrebbero forse il 10%, qui avranno il 40%). I creditori vengono divisi in classi: classe A banche ipotecarie, classe B fornitori chirografari, classe C dipendenti (soddisfatti integralmente quindi esclusi dal voto). Si procede al voto: entrambe le classi A e B approvano (banche e fornitori riconoscono che è meglio ricevere qualcosa e mantenere la relazione commerciale futura, piuttosto che andare in fallimento). Il tribunale verifica la regolarità e la convenienza e omologa il concordato. Alfa S.p.A. prosegue l’attività: grazie ai fondi dell’investitore e alla vendita dell’immobile, in pochi anni esce dalla crisi, salva tutti i posti di lavoro e i fornitori recuperano parte dei loro crediti e mantengono un cliente.

Questo esempio mostra come il concordato in continuità possa realizzare una win-win: l’impresa sopravvive e i creditori ottengono più di quanto avrebbero ottenuto dalla morte dell’impresa stessa.

Concordato liquidatorio

Il concordato liquidatorio è invece utilizzato quando non vi sono prospettive di salvare l’azienda come attività funzionante, ma si vuole evitare la liquidazione giudiziale convenzionale attraverso una liquidazione concordata e più efficiente dei beni. In pratica, il debitore mette a disposizione tutto il proprio patrimonio (e spesso risorse esterne aggiuntive) e propone ai creditori di soddisfarli con quanto se ne ricaverà, secondo determinate percentuali e modalità. È una sorta di liquidazione contrattata: i creditori accettano di risolvere la crisi prendendo ciò che c’è, anziché passare per la liquidazione giudiziale (che comporta costi maggiori e tempi lunghi).

Condizioni di ammissibilità (nuove regole): Poiché il concordato liquidatorio implica che i creditori rinuncino a parte dei loro crediti senza la prospettiva di continuità, la legge fissa alcuni paletti per garantire loro un “vantaggio” rispetto al fallimento, pena l’inammissibilità della proposta (art. 84 co. 4 CCII):

  • I creditori chirografari devono poter ricevere almeno il 20% del loro credito, salvo che tutti i creditori (o quelli che ricevono meno) rinuncino espressamente a tale soglia. In altre parole, la proposta deve prevedere un dividendo minimo del 20% ai chirografari. Questo per evitare concordati “liquidatori” con percentuali irrisorie che sarebbero equivalenti a un fallimento. La soglia può essere derogata solo con il consenso dei singoli creditori a ricevere meno (il tribunale valuterà comunque che non vi siano effetti pregiudizievoli verso altri).
  • Deve essere assicurato un apporto di risorse esterne (denaro fresco o asset non compresi nell’attivo) pari ad almeno il 10% dell’attivo dell’impresa. Ciò significa che i creditori devono ricevere un plus rispetto a ciò che già c’è nell’impresa. Tipicamente, questo apporto viene dai soci (rinuncia a crediti, nuovi fondi) o da terzi (es: un familiare che offre una somma). Se manca, la proposta non è ammissibile, poiché altrimenti i creditori non avrebbero incentivo a preferire il concordato al fallimento (dove comunque si liquidano i beni esistenti). Questa clausola del 10% è un’ulteriore garanzia introdotta dal nuovo Codice.

Struttura del piano liquidatorio: Prevede la vendita di tutti i beni dell’impresa: immobili, macchinari, magazzino, crediti, partecipazioni… di solito sotto la supervisione di un liquidatore nominato dal tribunale (che può essere anche lo stesso debitore autorizzato a liquidare sotto controllo). La differenza rispetto alla liquidazione giudiziale sta nel fatto che c’è un piano approvato: spesso il debitore ha già individuato acquirenti per alcuni asset (es. un ramo d’azienda venduto a Tizio per €X da realizzare subito dopo l’omologa), oppure stabilisce regole di liquidazione più snelle di quelle fallimentari (ad esempio vendite in blocco, tempi certi). Inoltre, i creditori accettano in anticipo un certo trattamento: ad esempio, i chirografari prendono il X% (se si ricava di più, può esserci clausola di distribuzione aggiuntiva). Tutto ciò può portare a ricavare e distribuire più valore e più rapidamente che nel fallimento standard, dove le vendite giudiziarie spesso deprezzano il valore e i tempi si allungano.

Voto e classi: Anche nel liquidatorio si formano classi se opportuno. Qui spesso c’è una classe unica di chirografari (tutti trattati uguale) e classi distinte di privilegiati se non sono pagati al 100%. Il meccanismo di voto è come sopra: maggioranza del totale crediti e delle classi. Una differenza: se il debitore offre a tutti i chirografari almeno il 30% e i privilegiati sono soddisfatti secondo legge, e nessun creditore vota contro, il concordato può essere omologato anche senza votazione formale (casi rari, ma è previsto art. 109 CCII). Di fatto, se c’è unanimità, il giudice può evitare la procedura di voto.

Effetti particolari: Con l’omologa del concordato liquidatorio, l’impresa viene liquidata ma evita il fallimento formale. Questo ha vari vantaggi: ad esempio, gli amministratori non subiranno le sanzioni accessorie del fallimento (come l’inabilitazione all’esercizio d’impresa), non saranno dichiarati falliti in estensione gli eventuali soci illimitatamente responsabili, ecc. Inoltre, gli atti compiuti in esecuzione del concordato non sono soggetti a revocatoria fallimentare, dando certezza agli acquirenti dei beni. Dal punto di vista del debitore persona fisica (es. imprenditore individuale), l’omologa di un concordato liquidatorio avrà effetti liberatori analoghi all’esdebitazione: dopo aver eseguito le obbligazioni assunte, potrà ottenere la discharge dei debiti residui senza bisogno di passare per il fallimento e l’istanza di esdebitazione. In sostanza, è un modo più “onorevole” di chiudere la propria attività pagando i debiti per quanto possibile e voltare pagina.

Esempio: Zeta SNC, impresa edile, è insolvente senza speranza di continuità: niente commesse all’orizzonte e debiti elevati. Presenta un concordato liquidatorio: i soci offrono 50.000 € di denaro proprio (apporto esterno), un terzo acquirente è pronto a comprare i macchinari per 100.000 €, e si conta di vendere i terreni per 200.000 € entro 1 anno. Il piano stima un attivo totale di €350.000. I creditori privilegiati (banche con ipoteca) saranno pagati 100% (sfruttando i 200.000 dei terreni), i chirografari riceveranno un 20% dai restanti 150.000 €. La percentuale offerta ai chirografari è esattamente il minimo di legge (20%). Il tribunale ammette la procedura verificando l’apporto esterno del 10% (50k su 500k di attivo pre-apporto = 10%). I creditori votano e il concordato passa. Il liquidatore nominato vende i beni secondo il piano, distribuisce il ricavato e la procedura si chiude senza aprire alcun fallimento.

Concordato misto e altre varianti: Spesso i concordati reali non sono “puri”: ad esempio, un’azienda potrebbe cedere solo una parte di attività e proseguire con un core business ridimensionato (continuità parziale + liquidazione di asset). In tali casi, si applicano in parte le regole della continuità e in parte quelle del liquidatorio (es. se la parte liquidatoria supera certi parametri, bisogna assicurare il 20% su quella parte). Il Codice consente anche concordati con intervento di terzi assuntori (un terzo che si accolla l’onere di eseguire il piano). Inoltre, c’è la figura del “concordato nella liquidazione giudiziale”: se dopo la dichiarazione di fallimento (liquidazione giud.) un terzo o lo stesso debitore offrono un piano ai creditori, questo concordato post-fallimentare può essere proposto e, se approvato, chiude anticipatamente la liquidazione. Tuttavia, rientra già nella fase successiva (liquidatoria) e qui lo citiamo solo per completezza.

Concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio

Tra le innovazioni portate dal D.L. 118/2021 (decreto “Crisi Covid”) c’è il cosiddetto concordato semplificato (art. 25-sexies CCII). Esso, come anticipato, è uno strumento utilizzabile unicamente in coda alla composizione negoziata, in caso di esito infruttuoso di quest’ultima. Lo scopo è offrire al debitore un’ultima chance di liquidazione concordata veloce quando le trattative private non hanno portato a un risanamento, ma hanno comunque individuato una possibile via liquidatoria preferibile al fallimento.

Caratteristiche peculiari:

  • Nessun voto dei creditori: a differenza del concordato preventivo ordinario, qui i creditori non sono chiamati ad esprimersi con voto. Il debitore, terminata la composizione negoziata senza accordo, può depositare direttamente una proposta di concordato semplificato allegando un piano di liquidazione dei beni. La proposta viene comunicata ai creditori i quali possono solo far pervenire osservazioni od opposizioni, ma non c’è un’assemblea né una votazione. Sarà il tribunale a valutare la proposta e decidere se omologarla, dopo aver sentito il parere del commissario giudiziale che viene comunque nominato. Questa assenza di voto mira a risparmiare tempo ed evitare che pochi creditori ostruzionisti impediscano una soluzione comunque migliorativa rispetto al fallimento.
  • Presupposto obbligato: è necessario aver esperito una composizione negoziata senza successo. La norma richiede che l’Esperto abbia dichiarato nella relazione finale che le trattative non hanno raggiunto un accordo (altrimenti il debitore dovrebbe aver concluso un accordo o altro). Inoltre deve emergere che esiste comunque una proposta di regolazione possibile (magari suggerita dallo stesso Esperto). Non si può accedere al concordato semplificato se prima non si è passati dalla composizione negoziata. Questo ne restringe l’ambito applicativo.
  • Oggetto della liquidazione: il debitore deve mettere a disposizione tutto il patrimonio come nel concordato liquidatorio, con eventuali apporti di terzi già individuati. Spesso la proposta includerà l’offerta di un acquirente per qualche cespite, così da dare concretezza (es: Tizio acquisterà l’azienda per €X, che verranno distribuiti).
  • Ruolo del tribunale: il giudice, ricevuta la domanda, nomina un commissario giudiziale che esamina la proposta. Non essendoci il voto dei creditori, l’omologazione è una valutazione tecnica: il tribunale deve verificare che il piano sia fattibile, che i creditori non ricevano meno di quanto otterrebbero altrimenti (principio di convenienza) e che non vi siano atti contrari alla legge. Se ritiene questi requisiti soddisfatti e le eventuali opposizioni dei creditori non fondate, omologa il concordato semplificato. Dopodiché viene nominato un liquidatore che procede a vendere i beni e a distribuire il ricavato.
  • Tutele per i creditori: sebbene non votino, i creditori non sono privi di tutela. Possono proporre opposizione all’omologazione se la proposta li danneggia (ad es. contestando le stime o la legittimità di certi atti). Inoltre, anche nel concordato semplificato, vale la regola che i creditori devono ricevere almeno il valore di liquidazione. In pratica, il tribunale funge da garante degli interessi dei creditori, valutando d’ufficio la correttezza del piano.

Utilità dal lato del debitore: il concordato semplificato è concepito come un salvagente finale. I vantaggi sono: rapidità (si salta tutta la fase del voto), semplicità procedurale, e minor costo rispetto a un concordato ordinario. Per il debitore, significa chiudere la crisi in tempi brevi, con costi ridotti e (se persona fisica) poter poi accedere alla liberazione dai debiti residui. Per i creditori, sebbene non votino, spesso è comunque preferibile incassare in pochi mesi qualcosa piuttosto che affrontare anni di fallimento. È chiaro però che, non prevedendo voti, questo istituto può essere applicato solo in situazioni in cui c’è sufficiente fiducia che la proposta sia equa, altrimenti i creditori farebbero fuoco e fiamme in opposizione. Ad oggi è stato usato di rado, ma il legislatore lo mantiene come opzione. Il Correttivo 2024 ha apportato alcune modifiche minori (es. semplificazioni documentali) per renderlo più accessibile.

Esempio: Epsilon S.r.l. tenta una composizione negoziata, ma i creditori finanziari non accettano dilazioni e non si trova un accordo. Tuttavia, durante le trattative, emerge un potenziale acquirente per l’intero magazzino e i macchinari di Epsilon, disposto a pagarli €300.000. L’Esperto conclude che non c’è accordo per risanare Epsilon, ma suggerisce di considerare questa offerta per soddisfare almeno parzialmente i creditori. Epsilon allora, chiusa la composizione senza successo, deposita subito una proposta di concordato semplificato offrendo ai creditori quei €300.000 (più altri €50.000 che i soci mettono) in liquidazione di tutto il patrimonio. Stima un dividendo del 30% ai chirografari. Il tribunale nomina il commissario; nessun creditore si oppone perché percepiscono che in fallimento forse avrebbero preso meno e dopo anni. Il giudice omologa rapidamente. Un liquidatore incassa i €350.000, paga le spese e ripartisce il resto ai creditori in pochi mesi. Epsilon viene cancellata senza passare per la liquidazione giudiziale.

Concordati preventivi (ordinari o semplificati) e accordi di ristrutturazione rappresentano le soluzioni concorsuali per imprese soggette al fallimento. Ma cosa accade se il debitore è un soggetto non fallibile o se il dissesto coinvolge persone fisiche non imprenditori? In tal caso entrano in gioco le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, di cui parleremo nella prossima sezione.

Procedure di sovraindebitamento per debitori non fallibili

Non tutte le attività in crisi sono soggette alle procedure sopra descritte. In Italia, storicamente la “fallibilità” ha riguardato gli imprenditori commerciali sopra certe soglie dimensionali. I soggetti esclusi (detti appunto non fallibili o sovraindebitati) comprendevano: i consumatori (persone fisiche che hanno debiti privati, non da attività d’impresa), i professionisti, gli imprenditori agricoli, le start-up innovative, gli enti non profit e le piccole imprese sotto determinate soglie di legge. Per costoro, sin dal 2012, esisteva una normativa speciale (legge 3/2012) che prevedeva procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Dal 2022, tale normativa è stata assorbita nel Codice della Crisi (Titolo IV CCII), con diverse novità migliorative. Il principio di base rimane: offrire anche ai debitori “civili” o minori un percorso per gestire il proprio sovraindebitamento e ottenere infine una esdebitazione (cancellazione dei debiti residui), analogamente a quanto avviene per l’imprenditore fallito.

Le procedure previste ora sono essenzialmente tre: ristrutturazione dei debiti del consumatore, concordato minore e liquidazione controllata del sovraindebitato, cui si aggiunge l’innovativa possibilità di esdebitazione del debitore incapiente (cd. “esdebitazione senza utilità”). Vediamole in sintesi dal punto di vista del debitore.

Ristrutturazione dei debiti del consumatore

È la procedura riservata alla persona fisica consumatore, intesa come debitore che ha contratto obbligazioni per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (art. 2 CCII). Quindi il consumatore può anche essere un lavoratore dipendente, un pensionato, un disoccupato, ecc., oppure un imprenditore cessato la cui debitoria residua è prettamente personale. Importante: se una persona fisica ha debiti in parte come consumatore e in parte derivanti da impresa, non può accedere a questa procedura ma dovrà usare il concordato minore (vedi oltre).

La ristrutturazione dei debiti del consumatore consiste in un piano proposto dal debitore per regolare i propri debiti sulla base della sua effettiva capacità di pagamento. In pratica, il consumatore propone di pagare in un certo modo (rate, percentuali) ciò che può, tenendo conto di ciò che ragionevolmente gli resta al netto delle esigenze di sostentamento proprie e della famiglia. Possono essere previsti anche apporti di terzi (es. un familiare si offre di contribuire). Il piano va presentato al tribunale con l’assistenza di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) o di un professionista nominato (c.d. gestore della crisi). Il gestore aiuta a elaborare il piano e redige una relazione sulla meritevolezza del debitore e sulla fattibilità della proposta. Già, perché per accedere a queste procedure il debitore deve superare un vaglio di meritevolezza: non deve aver causato il proprio sovraindebitamento con dolo o colpa grave, né aver fatto atti in frode (es. regalare beni per sottrarli ai creditori). Inoltre, non deve aver già usufruito di esdebitazione nei 5 anni precedenti. Il concetto è di riservare l’istituto ai debitori “onesti ma sfortunati”.

Approvazione ed omologazione: Nella ristrutturazione del consumatore, non è previsto il voto dei creditori (analogamente al concordato semplificato): decide il giudice. Questi, valutate le opposizioni eventuali dei creditori, omologa il piano se ritiene che: (a) il debitore meriti l’esdebitazione (nessuna condotta maliziosa); (b) il piano assicura ai creditori una soddisfazione non inferiore a quella ricavabile dalla liquidazione del suo patrimonio (principio di convenienza); (c) i creditori privilegiati che non consentono esplicitamente a essere trattati diversamente sono pagati almeno per il valore di realizzo delle garanzie. Se queste condizioni sono soddisfatte, il piano viene approvato dal tribunale e diventa vincolante per tutti i creditori. Il debitore dovrà quindi eseguire i pagamenti promessi (tipicamente versare mensilmente una parte del proprio reddito disponibile per tot anni in un fondo gestito dall’OCC). Al termine, il giudice dichiara l’esdebitazione per le eventuali somme ancora non pagate: il debitore viene liberato dai debiti residui (salvo quelli non falcidiabili per legge, es: mantenimento coniuge, alcune multe, ecc.).

Vantaggi: per un debitore persona fisica sommerso dai debiti, questa procedura offre la possibilità concreta di un fresh start. Egli paga quanto può in base alle proprie risorse, e viene liberato dal resto. Può così continuare a vivere dignitosamente, senza l’angoscia di debiti impagabili a vita. Un aspetto importante introdotto dal Codice è la considerazione del “merito creditizio” dei finanziatori: in sede di omologa, il giudice può ridurre maggiormente i crediti di banche/finanziarie che hanno concesso prestiti spropositati rispetto alla capacità del debitore. In altri termini, la legge “punisce” quei creditori che hanno favorito il sovraindebitamento concedendo credito irresponsabilmente, riducendo l’ammontare che possono reclamare (concetto di origine anglosassone, reckless lending). Questa è una tutela in più per il debitore onesto ma vittima di facilità di credito.

Esempio: Un impiegato divorziato con due figli ha accumulato €100.000 di debiti tra carte di credito e prestiti personali (le finanziarie glieli hanno concessi anche se il suo stipendio era modesto, aggravando la situazione). Ora non riesce più a pagare. Presenta un piano offrendo di pagare €400 al mese per 5 anni, ovvero €24.000 in totale, che rappresenta tutto il suo surplus oltre le spese di mantenimento familiare. Il giudice verifica che in una liquidazione del suo (scarno) patrimonio i creditori prenderebbero forse €10.000, quindi il piano è migliorativo. Inoltre rileva che alcune finanziarie hanno concesso prestiti a tassi alti e senza adeguate verifiche (cattivo merito creditizio). Omologa dunque il piano, riducendo un po’ il credito di quelle finanziarie come “sanzione”. Il debitore versa regolarmente i €400/mese per 5 anni tramite l’OCC. Al termine, €76.000 di debito rimangono insoddisfatti: il giudice li cancella dichiarando l’esdebitazione. L’uomo può ripartire da zero.

Concordato minore

Il concordato minore è la procedura analoga al concordato preventivo, ma destinata ai debitori non fallibili diversi dal consumatore. In pratica: piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori cessati (trascorsi i termini per fallirli), start-up innovative, professionisti, agricoltori, ecc. – purché abbiano debiti che non derivano in prevalenza da obblighi personali di consumo. Il concordato minore sostituisce il vecchio “accordo di composizione” della legge 3/2012, arricchendolo di una disciplina più organica mutuata dal concordato preventivo.

In cosa consiste: È simile a un concordato preventivo, con un piano che può essere in continuità o liquidatorio, soggetto a voto dei creditori e omologa del tribunale. Si differenzia però per alcune semplificazioni e adattamenti:

  • Possono accedervi anche soggetti che non sono imprenditori commerciali (es. professionisti) e perfino ex imprenditori cancellati (che non sono stati dichiarati falliti entro l’anno dalla cessazione).
  • Non c’è soglia minima del 20% per i chirografari imposta ex lege (anche qui, se c’è continuità, il piano può prevedere percentuali basse purché migliori della liquidazione; se è liquidatorio puro si applicano analogamente principi di garanzia visti per il concordato preventivo).
  • Il piano deve assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili (es. stipendio per la parte minima vitale) e dei debiti per mantenimento e alimenti. Inoltre, se il debitore è una società di persone, la proposta può riguardare anche il patrimonio dei soci illimitatamente responsabili.
  • Classi e voto: Il concordato minore va in votazione se i creditori sono più di uno. Serve la maggioranza semplice dei crediti ammessi al voto. Se c’è un unico creditore, basta il suo assenso scritto. Non è obbligatorio formare classi a meno di situazioni eterogenee particolari.
  • Ruolo OCC/Gestore: Nella fase di preparazione, un gestore della crisi (di solito nominato dall’OCC) aiuta il debitore a predisporre la proposta e la relazione. Durante la procedura, viene nominato un Commissario Giudiziale (spesso coincide col gestore).
  • Effetti: L’ammissione al concordato minore comporta la sospensione delle azioni esecutive e la possibilità di ottenere provvedimenti urgenti dal tribunale. All’omologa, il debitore ottiene l’effetto esdebitativo una volta eseguiti gli obblighi del piano.

In sostanza, il concordato minore è molto vicino a un concordato preventivo in termini di struttura, ma adattato a realtà più piccole e con l’intervento dell’OCC. L’ambito soggettivo è: piccoli imprenditori sotto soglia di fallibilità (le soglie ex art. 2 LF erano < €300k attivo, < €200k ricavi, < €500k debiti, almeno due su tre), professionisti, ditte agricolole, enti non profit, ecc. Anche il debitore che ha chiuso l’attività da oltre un anno rientra qui (se entro un anno avrebbero potuto dichiararlo fallito; trascorso l’anno, è sovraindebitato comune). Importante: il Correttivo 2024 ha chiarito che un imprenditore cessato può accedere alla liquidazione controllata (e quindi anche al concordato minore) fino a 1 anno dalla cessazione dell’attività, uniformando tale termine a quello della liquidazione giudiziale. Dunque, se Tizio chiude la ditta individuale, per un anno i creditori possono chiederne il fallimento; ma Tizio può in quello stesso anno proporre un concordato minore anziché aspettare il fallimento. Prima del correttivo v’era incertezza su questo punto, ora risolta per equità.

Esempio: Un piccolo artigiano edile, non fallibile per dimensioni, ha debiti per €400.000 (banche e fornitori). La ditta non è più operativa, ma l’artigiano lavora come dipendente altrove ora. Propone un concordato minore liquidatorio: offre ai creditori il ricavato dalla vendita di due immobili ereditati (valore €150.000) più €50.000 che un parente mette a disposizione. Totale attivo €200.000, con cui stima di pagare il 50% ai creditori chirografari. I creditori votano (raggiungendo il 75% di consensi perché banche e fornitori principali sono favorevoli) e il tribunale omologa. Il liquidatore nominato vende gli immobili, distribuisce €200.000 (detratte le spese) ai creditori, che quindi ottengono circa la metà dei loro crediti. Il residuo viene cancellato con esdebitazione.

Il concordato minore è quindi lo strumento concorsuale per il piccolo imprenditore o professionista sovraindebitato che vuole un accordo collettivo con i creditori analogo al concordato preventivo, senza passare dal fallimento.

Liquidazione controllata del sovraindebitato

La liquidazione controllata (artt. 268-277 CCII) è, semplificando, l’equivalente del fallimento per i sovraindebitati non fallibili. È l’ultima ratio quando non si vuole o non si può proporre un piano/accordo, oppure quando tali piani falliscono. Può essere richiesta dallo stesso debitore sovraindebitato per liberarsi dei debiti mediante liquidazione del proprio patrimonio, oppure dai creditori (in caso di inadempimenti o revoca di piani precedenti). Si apre davanti al Tribunale in composizione monocratica (a differenza del fallimento che è in composizione collegiale) ed è gestita da un liquidatore nominato dal giudice.

Procedimento: Il debitore presenta ricorso di liquidazione, elencando tutti i beni posseduti. Se il tribunale accerta l’insolvenza e la completezza delle informazioni, dichiara aperta la liquidazione controllata. Da quel momento il debitore è spossessato dei suoi beni (diventano parte della massa liquidatoria gestita dal liquidatore). Il liquidatore ha compiti simili a quelli di un curatore fallimentare: inventario dei beni, avviso ai creditori, formazione dello stato passivo (elenco dei crediti ammessi), vendita dei beni (con le modalità più opportune, anche telematiche), e distribuzione del ricavato secondo i privilegi. La differenza è che, essendo spesso patrimoni modesti, il tutto è più semplificato e rapido (il Codice auspica una chiusura entro 3 anni). Durante la liquidazione, il debitore persona fisica può conservare una parte di reddito necessario al sostentamento suo e della famiglia (c.d. residuo impignorabile). Inoltre, non si applicano alcune conseguenze del fallimento: ad es. il debitore non subisce limitazioni ai diritti civili (non c’è interdizione come nel fallimento, perché qui non c’è infamia storica del “fallito”).

Esdebitazione: Una volta esaurita la liquidazione (venduti i beni e distribuiti i soldi, chiusa la procedura), il debitore può ottenere dal tribunale l’esdebitazione dei debiti rimasti insoddisfatti. Grande novità: il Codice prevede che non serva neppure un’apposita istanza per ottenerla – in assenza di comportamenti scorretti, la liberazione dai debiti residui diventa automatica a fine procedura. Il giudice verifica solo eventuali cause ostative (es. frodi) e dichiara inesigibili i debiti residui. L’esdebitazione potrà essere negata se il debitore è stato sleale (occultamento di beni, violazione obblighi di collaborazione, etc.) o se nei 5 anni precedenti aveva già avuto altra esdebitazione. Ma in generale, l’idea della riforma è di rendere il fresh start più agevole e non opporsi se il debitore ha messo sul piatto tutto il possibile. Difatti, la durata massima di 3 anni della liquidazione e l’automatismo dell’esdebitazione sono pensati per evitare che il sovraindebitato resti impigliato troppo a lungo in procedure senza sbocco.

Liquidazione “minore” vs. liquidazione giudiziale: Le differenze riguardano soggetti coinvolti e procedure, ma concettualmente sono simili: entrambe spogliano il debitore dei suoi beni per soddisfare i creditori. La liquidazione controllata non ha il rigore formale del fallimento (no udienze collegiali per ogni decisione, ecc.) ed è affidata anche a professionisti iscritti come gestori della crisi presso gli OCC. Inoltre, i costi sono contenuti (spesso a forfait secondo i parametri ministeriali). I creditori nella liquidazione controllata presentano le loro domande di ammissione al passivo come in fallimento e ricevono i riparti. Al termine, i creditori non soddisfatti dovranno rinunciare a pretendere oltre, salvo il debitore sia escluso dall’esdebitazione per qualche motivo.

Esdebitazione del debitore incapiente (“senza utilità”)

Un’ultima importantissima innovazione del Codice (art. 283 CCII) è la possibilità di esdebitazione di diritto anche per il debitore persona fisica che non ha nulla da offrire ai creditori. Si tratta del cosiddetto “esdebitazione del debitore incapiente”, o volgarmente “saldo e stralcio a zero”. In passato, se un debitore nullatenente non poteva offrire neanche un euro, non c’era procedura: rimaneva a vita con i debiti. Ora invece può chiedere al tribunale di essere liberato dai debiti pur non pagando nulla, a condizione che: (a) sia una persona meritevole (no frodi, no colpa grave nel sovraindebitarsi); (b) non abbia davvero alcun patrimonio liquidabile (al massimo cose di modico valore); (c) negli ultimi 4 anni abbia cercato di attivarsi per produrre reddito e pagare qualcosa, ma senza successo; (d) non abbia beneficiato di misure simili in passato (esdebitazione già avuta). In pratica è un condono giudiziale per chi è totalmente incapiente. I creditori possono opporsi se scoprono che ha nascosto beni. Se entro i 4 anni successivi alla liberazione il debitore ottiene nuovi beni (es. vince alla lotteria), i creditori potranno aggredirli (c’è una “tagliola” quadriennale). Trascorso tale periodo, il “perdono” diventa definitivo. Questa misura è stata prevista per dare una via d’uscita anche ai casi disperati, coerentemente con la logica europea di seconda chance. Ovviamente i tribunali la applicano con grande rigore, per evitare abusi. Ma è un segnale di civiltà: l’insolvency law non serve a punire il debitore, bensì a equilibrare la posizione di creditori e debitori e favorire il rilancio economico degli ex indebitati onesti.

Esempio: Una persona disoccupata, senza beni né reddito, con €50.000 di vecchi debiti di prestiti, può chiedere al giudice l’esdebitazione da incapiente. Dimostra di aver cercato lavoro, di non aver nulla da liquidare e che il sovraindebitamento è dipeso da eventi sfortunati (perdita lavoro, malattia). Il tribunale libera questa persona dai debiti senza pretendere alcuna quota, riconoscendo la sua incapienza. Tre anni dopo, trovando un lavoro stabile, quella persona riprende una vita normale e può anche ottenere credito in futuro.

Profili fiscali e previdenziali nella crisi d’impresa

Quando un’attività “va male” spesso vi sono di mezzo anche debiti fiscali (IVA, imposte dirette) e debiti contributivi (versamenti INPS, INAIL). Questi debiti presentano peculiarità nella crisi, perché lo Stato e gli enti previdenziali godono di privilegi e di normative specifiche. Dal punto di vista del debitore, è fondamentale capire come possono essere gestiti: se e in che misura si possono stralciare, come evitarne le conseguenze penali, e cosa accade se non vengono pagati.

Privilegi e rango: I crediti dell’Erario per imposte e dell’INPS per contributi vantano generalmente privilegio generale sui beni mobili del debitore e, in caso di iscrizione a ruolo, anche privilegio sui beni immobili (equiparato a ipoteca in certa misura). In qualsiasi procedura concorsuale, questi crediti privilegiati vanno soddisfatti prima dei chirografari. Tuttavia, spesso sono “chirografari di fatto” per la parte non coperta da beni su cui esercitare privilegio (es.: l’IVA ha privilegio sui mobili, ma se l’azienda non ha abbastanza beni mobili, una parte del credito IVA resta scoperta e degrada a chirografo).

Transazione fiscale e contributiva: Come dettagliato in precedenza, oggi sia nel concordato preventivo che negli accordi di ristrutturazione il debitore può proporre una transazione fiscale per pagare in modo ridotto o dilazionato le somme dovute al Fisco e agli enti previdenziali. Questo strumento è disciplinato dagli artt. 63–64 CCII. I punti chiave per il debitore:

  • Si può proporre di abbattere la quota di imposta o contributo (falcidia) e/o dilazionarla (fino a 5 anni circa, estensibili a 10 in casi eccezionali). Anche l’IVA e le ritenute, un tempo intoccabili, possono essere ridotte. Sono esclusi solo pochi tributi imposti da vincoli UE (dazi doganali e una minima parte dell’IVA verso UE).
  • Deve essere garantito che lo Stato/INPS non ricevano meno di quanto otterrebbero dal fallimento. Ciò richiede un confronto: l’attestatore stima il dividendo in caso di liquidazione e certifica che la proposta è almeno pari o migliorativa per il Fisco.
  • Serve un’adesione formale dell’Agenzia Entrate e dell’INPS. Ma, come visto, se ingiustificatamente negano l’adesione, il tribunale può procedere comunque all’omologa (cram-down fiscale). Nell’accordo di ristrutturazione, serve che senza la loro adesione manchi la percentuale legale (cioè il loro mancato consenso impedisca di raggiungere il 60%); nel concordato, basta che gli altri creditori siano favorevoli e la proposta sia equa. Cassazione e legislatore hanno allineato la giurisprudenza in tal senso.
  • Durante le trattative di composizione negoziata, dal 2023 è stata introdotta la possibilità di una transazione fiscale “anticipata”: l’art. 23 CCII come modificato consente che l’Esperto negoziale ottenga dalla sola Agenzia Entrate (non INPS) un accordo di trattamento fiscale limitato ai tributi erariali. Però i contributi e i tributi locali restano esclusi in quella sede.

Rottamazioni e sanatorie: Al di fuori delle procedure concorsuali, il debitore può cercare soluzioni con il Fisco tramite strumenti di definizione agevolata (quando previsti dalle leggi di bilancio). Ad esempio, le varie “rottamazione delle cartelle” hanno permesso in passato di pagare i ruoli fiscali senza sanzioni e interessi. Queste misure, però, hanno finestre temporali limitate e presuppongono che l’azienda riesca a onorare il debito (anche se ridotto) entro termini fissati. In una situazione di insolvenza conclamata, spesso il debitore non è in grado di aderirvi, oppure l’importo, ancorché sgravato, resta troppo alto senza un taglio del capitale. Le procedure concorsuali offrono dunque maggiore flessibilità, perché consentono di ridurre il capitale (cosa che le rottamazioni statali generalmente non fanno, salvo per sanzioni/interest). Ad esempio, in concordato oggi si può proporre di pagare solo il 30% dell’IVA; lo Stato in rottamazione finora ha chiesto sempre il 100% dell’IVA (tagliando solo sanzioni).

Debiti verso l’Erario e rischio penale: Un tema delicato per il debitore è il rischio di rilevanza penale di alcuni debiti fiscali e contributivi. In particolare:

  • Omesso versamento di IVA oltre la soglia di €250.000 annui e omesso versamento di ritenute oltre €150.000 annui integrano reato tributario (artt. 10-bis e 10-ter D.Lgs. 74/2000). Se l’impresa non paga l’IVA o le ritenute per importi sopra tali soglie, l’amministratore rischia una condanna penale. L’apertura di un concordato preventivo non estingue di per sé questi reati (non c’è una causa di non punibilità automatica); tuttavia, la Cassazione penale ha ritenuto che l’omologazione di un concordato con pagamento parziale dell’IVA possa incidere sulla valutazione del dolo: se c’è un concordato in corso che prevede di pagare almeno in parte l’IVA, potrebbe essere esclusa la volontà di sottrarsi definitivamente al pagamento. Ad ogni modo, il debitore deve essere consapevole che non versare IVA e ritenute è pericoloso. Meglio includere tali debiti in un piano e regolarizzarli piuttosto che lasciarli fuori.
  • Omesso versamento di contributi previdenziali: se l’omissione supera €10.000 annui, scatta il reato ex art. 2 L. 638/1983. Anche qui, attivarsi in una procedura e inserire un piano di pagamento può mitigare le conseguenze, ma non annulla l’illecito (a differenza di quanto avviene per esempio col pagamento integrale prima del giudizio, che estingue il reato). Quindi il debitore che vede che non riuscirà a pagare i contributi deve considerare seriamente le procedure per evitare accumulo di debiti penalmente rilevanti.
  • Bancarotta e reati concorsuali: se poi l’impresa viene dichiarata fallita (liquidazione giudiziale), gli amministratori possono incorrere nei reati di bancarotta (fraudolenta, preferenziale, semplice) a seconda di come hanno gestito il pre-fallimento. Ad esempio, distrarre beni dalla società a danno dei creditori è bancarotta fraudolenta patrimoniale; favorire qualche creditore pagando solo lui poco prima del fallimento è bancarotta preferenziale. Anche non aver tenuto le scritture contabili regolarmente è bancarotta semplice documentale. Questi reati comportano pene severe e l’inabilitazione all’esercizio di impresa. Pertanto, dal punto di vista del debitore, è imperativo evitare comportamenti illeciti durante la crisi: mai nascondere beni, mai falsificare i bilanci, non dissipare attivi in operazioni azzardate. È preferibile consegnarsi a una procedura concorsuale trasparente che rischiare accuse penali successivamente.

In sintesi, gli aspetti fiscali e contributivi nella crisi devono essere gestiti con attenzione strategica: sfruttare le possibilità offerte dalle transazioni fiscali nei piani, tenere d’occhio le soglie penalmente rilevanti e (se possibile) porvi rimedio, e considerare il coinvolgimento degli enti pubblici nei negoziati sin dall’inizio (spesso l’Agenzia Entrate ha sezioni dedicate alle trattative pre-concorsuali). Le ultime riforme hanno reso lo Stato un creditore “come gli altri” nelle procedure, togliendogli privilegi di veto, ma rimane un interlocutore fondamentale data la dimensione che spesso i debiti tributari assumono.

Debiti previdenziali e lavoratori: Un’ulteriore nota sul fronte contributivo: il mancato pagamento dei contributi per i dipendenti non solo è un debito privilegiato, ma attiva anche meccanismi di tutela esterni. Ad esempio, se un’azienda fallisce lasciando stipendi e TFR non pagati, interviene il Fondo di Garanzia INPS che anticipa ai lavoratori TFR e ultime mensilità (entro certi massimali), poi surrogandosi nel credito in procedura. Dal punto di vista del datore di lavoro insolvente, c’è una sorta di “responsabilità morale” nel considerare i dipendenti: utilizzare il concordato o la liquidazione può far sì che il Fondo INPS paghi i lavoratori, evitando a questi ultimi un danno e al contempo trasferendo il debito all’INPS (che ha tempi di recupero più lunghi e non soffre come una famiglia senza stipendio). Inoltre, in concordato in continuità, la legge prevede la possibilità di accedere a ammortizzatori sociali (es. Cassa Integrazione Straordinaria per crisi) per alleviare l’impatto sui lavoratori durante la ristrutturazione. Insomma, anche questi aspetti vanno valutati col supporto di consulenti del lavoro nelle situazioni di crisi.

Conseguenze per il debitore dopo la procedura e “fresh start”

Dal punto di vista del debitore, attraversare una procedura di insolvenza è certamente difficile, ma l’ordinamento prevede al termine di essa una serie di meccanismi per consentirgli di voltare pagina. Abbiamo già toccato l’esdebitazione, cioè il beneficio della liberazione dai debiti residui non soddisfatti:

  • Nell’accordo di ristrutturazione e nel concordato, l’esdebitazione è sostanzialmente implicita nell’adempimento del piano omologato: se il debitore esegue tutto ciò che ha promesso (paga le percentuali previste, cede i beni come stabilito), è liberato dall’obbligo verso i creditori concorsuali per la parte eccedente (art. 280 CCII). In caso di inadempimento, invece, i creditori riacquistano i loro diritti per intero salvo dedurre quanto incassato.
  • Nella liquidazione giudiziale (fallimento), l’imprenditore persona fisica può chiedere l’esdebitazione al termine, se ha collaborato e non ci sono condotte fraudolente. Il Codice ha semplificato questa procedura, prevedendo tra l’altro che la pendenza di procedimenti penali per bancarotta non impedisce l’esdebitazione civile (si valuterà poi in sede penale la rilevanza). L’esdebitazione del fallito è divenuta quasi la regola se il fallito non è colpevole di gravi irregolarità.
  • Nella liquidazione controllata, come visto, l’esdebitazione è quasi automatica dopo 3 anni. E anche il debitore incapiente può ottenerla senza alcun pagamento.

Questi istituti riflettono un cambio di filosofia: punire a vita il debitore insolvente non giova a nessuno. Meglio reinserirlo nell’economia legale, libero dai vecchi debiti, purché abbia fatto tutto il possibile per soddisfarli con il patrimonio disponibile. Naturalmente restano escluse dall’esdebitazione alcune obbligazioni di carattere personale (multe per sanzioni penali, debiti alimentari, risarcimenti da illecito extra contrattuale dovuti a condotte dolose, ecc.).

Un’altra conseguenza da considerare è la responsabilità patrimoniale residua di eventuali garanti: se un imprenditore ha ottenuto credito bancario con garanzia personale di un familiare, la procedura di insolvenza dell’impresa non libera automaticamente il garante. Anzi, la banca potrà escutere il fideiussore per la parte non pagata in procedura. Vi sono casi però in cui anche i garanti possono essere coinvolti nelle soluzioni: ad esempio, una moglie garante potrebbe essere co-debitrice in un piano di sovraindebitamento familiare. Oppure i garanti che pagano subentrano surrogandosi e possono a loro volta presentare domanda di esdebitazione personale se si sovraindebitano. Insomma, il quadro può complicarsi, ma è bene ricordare che liberarsi dei debiti dell’azienda non sempre significa liberare i coobbligati esterni.

Infine, il profilo reputazionale e professionale: un tempo il fallimento comportava per l’imprenditore il discredito sociale, l’incapacità di ottenere nuovo credito, e addirittura sanzioni civili (es. divieto di ricoprire cariche per alcuni anni). Il nuovo Codice ha attenuato questi effetti: ad esempio, l’inabilitazione dell’imprenditore fallito non è più automatica, viene valutata caso per caso e spesso evitata nelle insolvenze “oneste”. Il registro dei falliti è abolito. Ciò non toglie che, ovviamente, una procedura concorsuale lasci tracce (nei sistemi di informazione creditizia, sulle visure camerali, ecc.). Tuttavia, grazie all’esdebitazione, un soggetto potrà dire formalmente di non avere più debiti e potrà teoricamente riprendere l’attività (o intraprenderne di nuove) senza il fardello del passato. Dal 2017 c’è anche una norma che consente al fallito che ottiene l’esdebitazione di ottenere la cancellazione dalle banche dati pregiudizievoli (CRIF e simili) per facilitare l’accesso a nuovo credito. In pratica, la legge incoraggia un approccio meno punitivo e più riabilitativo.

Domande frequenti (FAQ)

D: La mia azienda è piccola, posso comunque essere dichiarato fallito?
R: Dipende. La vecchia legge fallimentare escludeva dal fallimento i “piccoli imprenditori” (sotto certe soglie di attivo, ricavi e debiti). Il Codice della Crisi mantiene criteri simili: le imprese molto piccole non sono soggette a liquidazione giudiziale, ma alle procedure di sovraindebitamento. Ad esempio, una ditta individuale con pochi dipendenti e debiti modesti probabilmente rientra tra i non fallibili. In tal caso, i creditori non possono chiederne il fallimento, ma possono eventualmente attivare la liquidazione controllata. Comunque, attenzione: se l’impresa supera anche di poco le soglie, il fallimento è possibile. Inoltre, entro un anno dalla cessazione dell’attività, l’imprenditore può ancora essere dichiarato fallito. Dopo l’anno, invece, potrà accedere solo alle procedure da sovraindebitamento (concordato minore, liquidazione controllata).

D: Ho chiuso la mia società e l’ho cancellata dal registro imprese. Così evito il fallimento?
R: La cancellazione di una società non è una bacchetta magica. È vero che la legge presume che, trascorso 1 anno dalla cancellazione, la società non possa più essere dichiarata fallita e i creditori non possano chiederne il fallimento. Tuttavia, possono chiederlo entro l’anno dalla cancellazione se l’insolvenza preesisteva. Inoltre, la chiusura non protegge gli amministratori da possibili azioni di responsabilità o da un eventuale fallimento in estensione (per le società di persone) o di soci occulti. Senza contare che se la società cancellata aveva ancora debiti, i creditori potranno perseguire i soci nei limiti di quanto incassato in liquidazione o illimitatamente (per SNC/SAS). Infine, l’ex amministratore o imprenditore cancellato potrà comunque essere coinvolto in procedure di sovraindebitamento personali. Quindi, chiudere la società può complicare un po’ le cose ai creditori, ma non li priva dei loro diritti sostanziali. E l’anno di “immunità” va maneggiato con cura: se risulta che la cancellazione è stata fatta in frode (per sottrarsi ai creditori), si rischiano guai maggiori, anche penali.

D: Che differenza c’è tra fallimento (liquidazione giudiziale) e liquidazione controllata?
R: Il fallimento (oggi chiamato liquidazione giudiziale) è la procedura concorsuale liquidatoria riservata agli imprenditori commerciali di dimensioni non piccole. La liquidazione controllata è la procedura simil-fallimentare per i debitori non soggetti a fallimento (consumatori, piccoli imprenditori, ecc.). La logica è la stessa: un organo nominato dal tribunale liquida i beni del debitore e paga i creditori secondo i privilegi. Cambiano alcuni dettagli procedurali (es. nel fallimento il tribunale è collegiale, nella liquidazione controllata è monocratica; nel fallimento c’è il comitato dei creditori, nella liquidazione controllata no formale comitato; nel fallimento ci sono alcune norme penali specifiche – es. bancarotta – che tecnicamente non si chiamano allo stesso modo per la liquidazione controllata, anche se gli illeciti analoghi possono esserci). In entrambi i casi, al termine il debitore persona fisica può chiedere l’esdebitazione. Dunque, per il debitore onesto la conseguenza finale è simile: perdita dei beni ma liberazione dai debiti.

D: Ho debiti fiscali molto alti, posso non pagarli integralmente e sperare nel perdono?
R: Sì, attraverso un concordato preventivo o un accordo ristrutturazione con transazione fiscale. La legge oggi consente di trattare IVA, Irpef, Irap, contributi, etc., alla pari degli altri debiti, anche con falcidia (riduzione). Se presenti un piano di concordato in cui offri al Fisco, ad esempio, il 30% dilazionato, e dimostri che in caso di fallimento prenderebbe meno, il tribunale può omologare anche se l’Agenzia Entrate è contraria. Naturalmente devi comunque destinare al Fisco tutto ciò che ragionevolmente puoi destinare, tenendo conto dei privilegi: non è un condono arbitrario, devi rispettare la regola della convenienza per l’Erario. Se invece la domanda sottintende “posso sperare che lo Stato mi cancelli il debito senza fare nulla?”, la risposta è no, a meno di improbabili leggi di perdono totale (che non ci sono se non in casi eccezionali per micro-importi). Devi attivarti tu con una procedura concorsuale o una definizione agevolata prevista dalla legge.

D: Ho garantito con una fideiussione il mutuo della mia società che sta fallendo. Cosa mi succede come garante?
R: Purtroppo, la banca potrà rivalersi su di te come garante. La procedura concorsuale della società non libera automaticamente i garanti (a meno che nel concordato della società non sia previsto esplicitamente che l’intervento dei garanti esonera dal perseguirli – cosa rara e che comunque richiede consenso della banca). In genere, la banca alla fine del fallimento, visto che recupererà solo una parte del credito dalla società, verrà a chiedere a te garante la differenza. Tu come garante diventi quindi debitore a titolo personale. A questo punto, se l’importo è alto e tu non riesci a pagarlo, purtroppo potresti dover considerare le procedure per sovraindebitamento come persona fisica (ad es. un concordato minore o un piano del consumatore se il debito era per scopi personali, ma in questo caso hai firmato per la società quindi saresti fuori ambito consumatore). Insomma, finirai coinvolto tuo malgrado. Purtroppo molte persone scoprono di essere insolventi proprio perché escusse come garanti di società fallite. La legge consente anche di fare una procedura familiare se, ad esempio, più membri della famiglia sono garanti indebitati dallo stesso evento. In ogni caso, sappi che la tua posizione di garante non è protetta dalla procedura della società. Dovrai muoverti in parallelo per trovare un accordo con la banca o per attivare una tua procedura di insolvenza personale.

D: Cosa rischio a livello penale se la mia azienda fallisce?
R: Se hai tenuto una condotta corretta, nulla penalmente. Il fallimento di per sé non è reato. Diventa reato (bancarotta) se emergono condotte fraudolente o gravemente imprudenti antecedenti. Ad esempio, se hai sottratto beni dall’azienda per non farli trovare ai creditori (bancarotta fraudolenta patrimoniale) o hai falsificato le scritture contabili (bancarotta fraudolenta documentale), o ancora se hai pagato alcuni creditori preferendoli ad altri in malafede mentre l’azienda era già insolvente (bancarotta preferenziale), allora potresti subire un procedimento penale. Anche l’aver aggravato il dissesto con spese folli o gioco d’azzardo può configurare bancarotta semplice. Le pene variano da pochi mesi (per la bancarotta semplice) fino a oltre 6-8 anni per la bancarotta fraudolenta. Bisogna sottolineare che l’apertura di un concordato preventivo invece evita il fallimento e quindi anche la procedibilità per bancarotta: se la procedura finisce bene, non ci sarà dichiarazione di fallimento e quindi niente reati di bancarotta (perché questi si configurano solo se c’è una sentenza di fallimento). In caso di concordato che poi viene annullato e si va a fallimento, allora si rivalutano le condotte. In pratica: se sei onesto, collabora col curatore o commissario, consegna libri contabili e non preoccuparti. Se sai di aver commesso irregolarità gravi, preparati a doverle spiegare; in taluni casi, il risanamento via concordato aiuta a evitare la stigmatizzazione, ma se hai fatto reati non c’è scudo. Va menzionato che alcuni reati tributari (come non pagare l’IVA oltre soglia) non vengono meno con il fallimento e potresti essere perseguito per quelli separatamente, anche se la tua ditta è fallita. La Cassazione penale però ha riconosciuto che l’omologazione di un concordato con transazione fiscale può escludere il dolo di evasione. Ogni caso è a sé: è materia da avvocato penalista fallimentare, ma il consiglio generale è non compiere atti illegali in crisi e privilegiare la trasparenza nelle procedure concorsuali.

D: Quanto costa e quanto dura una procedura concorsuale?
R: I costi e i tempi variano molto a seconda della procedura e della complessità. Un concordato preventivo può durare qualche mese per arrivare all’omologa (diciamo 6-12 mesi in media), ma poi l’esecuzione del piano può richiedere anni (anche 5 anni di pagamenti ai creditori). Un accordo di ristrutturazione può essere omologato in 4-6 mesi se tutto fila liscio. Un fallimento (liquidazione giudiziale) può durare diversi anni (la legge auspica 3 anni, ma molti casi vanno oltre, 5-7 anni non sono rari) a seconda dell’attivo da liquidare e delle liti eventuali. Le nuove norme cercano di stringere i tempi (ad es. per la liquidazione controllata del sovraindebitato si indica 3 anni max). Quanto ai costi: le procedure concorsuali hanno costi di giustizia (marche da bollo, contributo unificato) generalmente non elevatissimi (qualche migliaio di euro al massimo per le più grandi). Il peso vero sono i compensi dei professionisti: commissari, curatori, OCC, attestatori. Questi compensi sono regolati da tariffe di legge, spesso percentuali sul valore della massa attiva o dei crediti. Ad esempio, un curatore fallimentare riceve una percentuale sul realizzo. Un attestatore concordato ha parcella libera (ma soggetta ad approvazione del tribunale). L’OCC spesso ha un tariffario ministeriale specifico. Diciamo che per un piccolo sovraindebitamento il costo dell’OCC può essere anche attorno a €2-5mila, mentre un concordato di media dimensione può generare decine di migliaia di euro di compensi professionali. Tuttavia, questi costi sono pagati dalla massa attiva (cioè sono detratti dal patrimonio disponibile) come crediti prededucibili. Il debitore non deve anticipare cifre enormi – eccetto l’attestatore, che di solito chiede un acconto – poiché la maggior parte dei compensi viene liquidata a fine procedura col ricavato. Se la procedura non produce attivo, alcuni compensi possono anche ridursi. In sintesi: sì, le procedure costano, ma a volte è l’unica via per liberarsi di debiti insostenibili. Spesso, soprattutto per i consumatori, gli OCC modulano i costi in base alle possibilità (c’è un fondo di solidarietà per coprire in parte le spese di procedura dei più poveri). Conviene comunque chiedere sempre un preventivo ai professionisti coinvolti e valutare costi/benefici prima di procedere.

D: Dopo il concordato o la liquidazione, posso aprire una nuova attività o fare l’amministratore?
R: Sì, nella maggior parte dei casi. Se hai chiuso un concordato preventivo con successo, non hai alcuna preclusione legale a riprendere l’attività o aprirne un’altra. Anzi, sei un imprenditore “riabilitato”. Certo, alcune banche o fornitori potrebbero essere cauti nel darti fiducia inizialmente sapendo del tuo passato, ma legalmente non c’è divieto. Se invece sei passato per un fallimento (liquidazione giudiziale), occorre distinguere: prima del 2022, il fallito subiva automaticamente l’interdizione ad esercitare un’impresa commerciale per 5 anni e non poteva assumere cariche direttive; oggi questa interdizione non è più automatica, il giudice la può applicare con la sentenza di fallimento solo se ritiene il soggetto non meritevole (art. 317 CCII). Se non l’ha applicata, potresti anche subito aprire un’attività (in pratica però durante il fallimento non puoi perché sei spossessato; ma dopo la chiusura sì). Se invece ti è stata applicata un’inabilitazione, dovrai aspettare il termine. L’esdebitazione del fallito, una volta ottenuta, comporta ipso iure la cessazione di ogni effetto penale o civile accessorio del fallimento (quindi anche eventuali interdizioni vengono meno). Quindi, ottenuta l’esdebitazione, torni come nuovo anche formalmente. Nel sovraindebitamento, non c’è mai interdizione. Quindi un professionista che ha fatto un concordato minore o un consumatore che ha avuto un piano omologato può tranquillamente continuare la sua attività professionale.

D: Il mio fornitore/cliente è in fallimento: io che sono suo debitore devo pagare lo stesso?
R: Se tu devi soldi a un soggetto fallito, devi pagarli al curatore (non più al soggetto fallito). Appena il curatore saprà del tuo debito, ti invierà richiesta. Se non paghi, può farti causa. Se invece sei creditore verso un soggetto fallito, devi insinuare il tuo credito nel fallimento per poter sperare di prendere qualcosa. Nel concordato, analogamente, se devi soldi all’azienda in concordato devi pagare secondo istruzioni (di solito al commissario se nominato, o comunque secondo il piano). Se sei suo creditore, devi seguire la procedura di voto/insinuazione. Attenzione a non pagare al fallito somme dovute: se ad esempio erroneamente paghi una fattura al fallito dopo il fallimento, rischi di doverla ripagare al curatore (il primo pagamento è inefficace). Quindi, appena sai che un tuo partner commerciale è in procedura, informati tramite il tribunale o il curatore su come regolare i reciproci conti.

Conclusione

Affrontare il fallimento o la crisi di un’attività è un compito arduo, ma la legge offre oggi numerosi strumenti per gestire in modo ordinato il dissesto e persino per evitarne gli esiti più nefasti. Dal punto di vista del debitore, la chiave è conoscere per tempo le opzioni e farsi assistere da professionisti competenti (avvocati, commercialisti, OCC) per scegliere la strada giusta: che sia un accordo stragiudiziale mirato, un concordato per salvare l’azienda o, nei casi estremi, una liquidazione controllata con fresh start personale. I tribunali italiani, specie dopo la riforma, sono orientati a favorire soluzioni di risanamento quando possibili e a dare al debitore onesto la possibilità di ripartire pulito dai debiti entro un tempo ragionevole.

Per i privati imprenditori e professionisti questo significa che il “fallimento” non è più la fine definitiva: se ben gestito, può diventare un processo di ristrutturazione o, male che vada, un percorso di liquidazione ma con prospettiva di riabilitazione. Per gli avvocati che assistono i debitori, è essenziale padroneggiare questi strumenti normativi avanzati e le più recenti sentenze per tutelare al meglio i loro clienti, navigando tra le procedure in modo strategico (magari iniziando con una composizione negoziata, poi valutando un accordo o un concordato a seconda delle reazioni dei creditori). Per gli imprenditori stessi, è importante abbandonare il tabù del fallimento e considerare queste procedure come parte fisiologica del rischio d’impresa: a volte, imboccare per tempo la strada di un concordato o di un accordo può salvare l’azienda o limitare i danni, mentre l’ostinazione a procrastinare può solo peggiorare la situazione.

In conclusione, se “la mia attività va male e sta fallendo”, cosa fare? La risposta che emerge da questa guida è: non rimanere isolato nel panico, ma agire informato. Analizza la gravità della crisi, coinvolgi subito consulenti esperti in crisi d’impresa, valuta se esistono margini di risanamento e scegli lo strumento adatto – fosse anche la liquidazione – per chiudere la vicenda nel modo meno doloroso possibile. Ogni caso è unico, ma la legge ormai copre “tutti i casi” con una procedura appropriata, dal piccolo debitore incapiente alla grande azienda in amministrazione straordinaria. Sapere di avere diritti, di poter negoziare con i creditori (persino con il Fisco), di poter contare su giudici terzi che valutano la bontà dei piani, e infine di poter ottenere il perdono dei debiti onestamente inesigibili, dà al debitore una prospettiva di speranza e di uscita dal tunnel.

Fonti e riferimenti normativi

  1. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022, come modificato dal D.Lgs. 83/2022 (attuazione direttiva UE 2019/1023) e dal D.Lgs. 136/2024 (cd. “Correttivo ter”).
  2. Cass. Sez. Unite 25/03/2021 n. 8504 – Principio di cram-down fiscale: il tribunale fallimentare può omologare il concordato con transazione fiscale nonostante il diniego del Fisco, attesa la competenza esclusiva del giudice concorsuale sulla proposta.
  3. Cass. Civ. 18/10/2024 n. 27782 – Conferma omologazione forzata nonostante voto contrario Agenzia Entrate, se trattamento proposto è almeno pari alla liquidazione.
  4. Cass. Pen. 31/10/2024 n. 44519 – Pronuncia in tema di reati concorsuali/fallimentari, utile per comprendere coordinamento tra concordato e responsabilità penale (es., bancarotta documentale o preferenziale).
  5. Tribunale di Trani 28/11/2023 – Giurisprudenza di merito
  6. Linee guida CNDCEC sulla composizione negoziata (2021) – per dettagli operativi (piattaforma, checklist autodiagnosi, test ragionevole perseguibilità).
  7. Legge 3/2012 (abrogata) – storica base del sovraindebitamento, citata per continuità concettuale.

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