La tua impresa è in difficoltà e non riesci più a pagare fornitori, banche o il fisco? Temi il fallimento ma vuoi provare a salvare l’attività?
Oggi l’ordinamento italiano mette a disposizione diversi strumenti di composizione della crisi che consentono all’imprenditore di affrontare in modo ordinato l’insolvenza, evitare procedure traumatiche e provare a risanare l’impresa, anche con il supporto dei creditori.
Cosa si intende per strumenti di composizione della crisi?
Si tratta di procedure negoziate, giudiziali o stragiudiziali che permettono all’imprenditore in difficoltà di:
– Individuare precocemente i segnali di crisi
– Coinvolgere i creditori in un piano di ristrutturazione
– Continuare l’attività sotto protezione
– Ottenere eventualmente l’esdebitazione
La scelta dello strumento dipende dallo stato dell’impresa (squilibrio, crisi o insolvenza conclamata) e dagli obiettivi (ristrutturazione, liquidazione controllata, protezione del patrimonio).
Quali sono i principali strumenti previsti dal Codice della Crisi?
- Composizione negoziata della crisi
– Procedura volontaria e riservata
– Attivabile anche in fase precoce
– Con assistenza di un esperto terzo
– Possibilità di blocco delle azioni esecutive e protezione temporanea - Concordato preventivo
– Procedura giudiziale
– Può prevedere la continuità aziendale o la liquidazione
– Richiede l’approvazione dei creditori
– Consente di evitare il fallimento se approvato dal tribunale - Accordi di ristrutturazione dei debiti
– Accordo stragiudiziale con una parte significativa dei creditori
– Omologabile dal tribunale
– Utilizzabile anche per imprese non in stato di insolvenza - Piano attestato di risanamento
– Piano predisposto con l’ausilio di un professionista indipendente
– Non richiede omologazione
– Rende gli atti e i pagamenti “protetti” da revocatorie - Liquidazione giudiziale (ex fallimento)
– Ultima ratio quando l’impresa è insolvente
– Il patrimonio viene gestito da un curatore
– L’imprenditore può poi accedere all’esdebitazione - Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio
– Strumento pensato per le microimprese
– Più snello, attivabile dopo il fallimento della composizione negoziata
Perché è importante scegliere lo strumento giusto?
Ogni procedura ha regole, costi, effetti e rischi diversi. Una scelta sbagliata può:
– Peggiorare la situazione finanziaria
– Far perdere tempo prezioso
– Esporre l’imprenditore a responsabilità personali
– Compromettere il futuro dell’attività
Come ti aiutiamo noi dello Studio Monardo?
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Introduzione
Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 14/2019, detto “CCII”), entrato in vigore definitivamente il 15 luglio 2022, ha riformato la disciplina italiana delle procedure concorsuali. Esso ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) introducendo un sistema organico e unitario per gestire le situazioni di crisi o insolvenza di qualsiasi debitore (sia esso imprenditore – anche agricolo o “minore” – professionista o consumatore). Il Codice, aggiornato e integrato da vari interventi correttivi fino al 2024, recepisce anche la Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva.
L’obiettivo primario della riforma è duplice: prevenire per quanto possibile il dissesto irreversibile, facilitando il risanamento e la continuazione dell’attività d’impresa, e al contempo assicurare una gestione ordinata ed efficiente degli insolvenzi tramite procedure di liquidazione non punitive. In quest’ottica, il legislatore ha introdotto nuovi strumenti di allerta precoce e soluzioni negoziate, accanto ai procedimenti giudiziali tradizionali. Il punto di vista del debitore è centrale: la normativa incoraggia l’imprenditore in difficoltà ad attivarsi tempestivamente (“iniziative senza indugio” ex art. 3 CCII) per comporre la crisi, con il supporto di esperti e con varie agevolazioni e protezioni, al fine di evitare esiti distruttivi come la liquidazione giudiziale (il “fallimento” nella terminologia previgente).
Prima di esaminare i singoli strumenti di composizione della crisi oggi disponibili, è utile chiarire alcuni concetti chiave introdotti dal Codice:
- Stato di crisi: indica una situazione di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza. Per le imprese, la crisi si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. In altre parole, l’azienda fatica a generare liquidità sufficiente per onorare i debiti nei mesi a venire.
- Stato di insolvenza: è la situazione più grave in cui il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, come dimostrato da inadempimenti o altri fatti esteriori (es. protesti, pignoramenti). L’insolvenza denota quindi una conclamata incapacità di pagare i debiti alle scadenze.
- Sovraindebitamento: è lo stato di crisi o insolvenza riguardante i debitori non fallibili, cioè consumatori, professionisti, piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli, start-up innovative e ogni altro soggetto escluso dalle ordinarie procedure concorsuali. In sostanza, il sovraindebitato è colui che non può accedere al concordato preventivo o alla liquidazione giudiziale per ragioni di dimensione o qualifica, ma ha comunque bisogno di strumenti per regolare la propria posizione debitoria.
Il Codice della crisi disciplina un insieme articolato di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza a disposizione del debitore (su sua richiesta) per affrontare la situazione. Tali strumenti includono misure sia negoziali (basate su accordi volontari con i creditori) sia giudiziali (procedure concorsuali innanzi al tribunale). In base al grado di difficoltà in cui si trova l’impresa o il debitore, cambiano gli strumenti attivabili: ad esempio, in fase di crisi incipiente si privilegiano soluzioni preventive e stragiudiziali come la composizione negoziata, mentre in caso di insolvenza conclamata restano praticabili solo procedure liquidatorie. Nel prosieguo, verranno analizzati tutti gli istituti principali, con un focus sulle fasi giudiziali e con taglio operativo avanzato, ma in linguaggio il più possibile chiaro.
Panoramica degli strumenti di composizione della crisi
Di seguito elenchiamo sinteticamente gli strumenti di composizione/regolazione della crisi previsti dall’ordinamento italiano vigente, distinguendo tra quelli destinati alle imprese commerciali (soggette alle procedure concorsuali ordinarie) e quelli riservati ai debitori non fallibili (sovraindebitati). Successivamente ciascun istituto sarà approfondito singolarmente.
- Composizione negoziata della crisi – Procedura volontaria stragiudiziale assistita, introdotta nel 2021 e ora parte del Codice (artt. 12-25 CCII), in cui l’imprenditore in condizioni di squilibrio può, con l’ausilio di un esperto indipendente, negoziare con i creditori soluzioni per il risanamento dell’azienda. È uno strumento preventivo attivabile già nello stato di crisi probabile, prima dell’insolvenza conclamata.
- Piano attestato di risanamento – Strumento privatistico di risanamento (art. 56 CCII, già art. 67 L.F.) basato su un piano industriale finanziario predisposto dal debitore e asseverato da un professionista indipendente. Non prevede omologazione giudiziale, ma se il piano viene eseguito correttamente consente di escludere eventuali atti esecutivi dalle revocatorie fallimentari. Serve a ristrutturare il debito con accordi individuali, mantenendo la riservatezza.
- Accordi di ristrutturazione dei debiti – Sono accordi negoziati con i creditori che coinvolgono una parte significativa degli stessi e vengono omologati dal Tribunale (artt. 57-64 CCII). A differenza del piano attestato (totalmente stragiudiziale), qui vi è l’intervento dell’autorità giudiziaria a conferire efficacia erga omnes all’accordo. Ne esistono varie tipologie: l’accordo ordinario richiede il consenso di almeno il 60% dei crediti; l’accordo agevolato richiede il 30% ma a condizioni più onerose; l’accordo ad efficacia estesa consente di imporre gli effetti anche a creditori dissenzienti di una certa categoria, se nell’ambito di tale classe il 75% (o 60% in alcuni casi) ha aderito. Gli accordi di ristrutturazione sono strumenti flessibili per evitare il concordato preventivo o la liquidazione, quando si riesce a coinvolgere attivamente i creditori chiave nel salvataggio dell’impresa.
- Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) – Introdotto in attuazione della direttiva UE, è una procedura ibrida concorsuale negoziale (Capo I-bis, art. 64-bis e ss. CCII) in cui il debitore propone un piano suddividendo i creditori in classi, e lo sottopone direttamente all’omologazione del Tribunale, anche senza il formale accordo preventivo di tutte le classi. Il PRO condivide molti tratti col concordato preventivo (ad es. suddivisione in classi e voto) ma offre maggiore libertà al debitore nel trattamento dei crediti (può derogare alle regole di par condicio e alle cause di prelazione, se approvato). Si configura come un “concordato semplificato” volontario: infatti consente, se tutte le classi votano a favore a maggioranza, di omologare un piano anche liquidatorio senza rispettare i limiti (ad es. pagamento minimo 20% ai chirografari) che sarebbero richiesti in un concordato preventivo liquidatorio. Il PRO è riservato agli imprenditori commerciali in crisi o insolvenza (esclusi i soggetti minori).
- Concordato preventivo – È la procedura concorsuale giudiziale per eccellenza (artt. 84-120 CCII), erede del precedente concordato preventivo della Legge Fallimentare. Consiste in un piano proposto dal debitore insolvente o in crisi, sottoposto al voto di tutti i creditori e all’omologazione del Tribunale. Può essere in continuità aziendale (se prevede la prosecuzione dell’attività, direttamente dal debitore o tramite cessione/transito a terzi) oppure liquidatorio (se prevede la liquidazione del patrimonio senza prosecuzione dell’impresa). È uno strumento articolato che implica il rispetto delle cause di prelazione, il soddisfacimento minimo dei creditori chirografari in caso di liquidazione (20% salvo eccezioni) e l’eventuale apporto di finanza esterna (almeno 10% dell’attivo in più, nei concordati liquidatori). Il concordato preventivo richiede normalmente l’adesione (voto favorevole) della maggioranza dei crediti ammessi al voto in ogni classe; in mancanza, la proposta non può essere omologata (il CCII – differentemente da altri ordinamenti – non consente un cram-down interclassi generalizzato, salvo quanto visto per il PRO). Esistono vari sotto-istituti: il concordato “in bianco” o “con riserva” (art. 44 CCII) consente al debitore di depositare una domanda prenotativa per ottenere misure protettive immediate e poi presentare il piano definitivo entro termini fissati; il concordato con continuità indiretta permette la vendita dell’azienda o di rami di essa in esecuzione del concordato; la transazione fiscale e contributiva (artt. 63 e 88 CCII) consente di includere nel piano il trattamento dei debiti tributari e previdenziali, prevedendone anche il pagamento parziale/dilazionato – l’omologazione è possibile anche in caso di voto contrario del Fisco, purché la proposta garantisca il soddisfacimento non inferiore a quello ottenibile in liquidazione (una forma di cram-down limitato riservato ai crediti erariali e INPS). Infine, un caso particolare è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII): si tratta di una procedura speciale, attivabile solo all’esito infruttuoso di una composizione negoziata (vedi infra), che consente al debitore di chiedere comunque al Tribunale l’omologa di un concordato liquidatorio senza passare per il voto dei creditori. Nel concordato semplificato, i creditori non votano ma possono opporsi all’omologazione; il Tribunale omologa solo se ritiene la proposta più conveniente della liquidazione giudiziale. Questo strumento, pensato come “extrema ratio”, è stato applicato con grande cautela dalla giurisprudenza: ad esempio, il Tribunale di Bergamo ha negato l’accesso a un concordato semplificato quando risultava invece praticabile un accordo di ristrutturazione con transazione fiscale, sottolineando che il concordato semplificato va ammesso solo se tutti gli altri strumenti risultano impraticabili.
- Liquidazione giudiziale – È la procedura liquidatoria concorsuale per eccellenza, che ha preso il posto del fallimento (artt. 121-270 CCII). Viene aperta dal Tribunale su ricorso del debitore o di un creditore o d’ufficio, quando l’impresa si trova in stato di insolvenza attuale. Comporta la nomina di un curatore e di un giudice delegato, l’accertamento del passivo e la liquidazione di tutti i beni del debitore per ripartirne il ricavato ai creditori secondo le cause di prelazione. Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale rappresenta l’esito più gravoso, poiché conduce alla spossessamento del patrimonio e, per le società, normalmente alla cessazione dell’attività e all’estinzione. Tuttavia, il Codice introduce alcuni elementi “umani” di alleggerimento: ad esempio, l’esdebitazione (cioè la liberazione dai debiti residui) del fallito – già prevista dalla legge fallimentare – diventa più accessibile e automatica dopo la chiusura della liquidazione (decorso un triennio), senza necessità di una separata istanza. Inoltre, viene prevista la possibilità di esdebitazione del debitore incapiente anche senza alcun riparto, una tantum nella vita (di ciò si dirà a breve). La liquidazione giudiziale rimane comunque un evento da evitare finché esistono prospettive di risanamento, ed è per questo che il Codice incentiva i debitori a utilizzare per tempo gli strumenti di composizione meno distruttivi.
- Strumenti di sovraindebitamento (per debitori non fallibili) – Per i piccoli imprenditori sotto soglia, i professionisti, le start-up innovative, gli enti non commerciali e in generale tutti i soggetti esclusi dalla liquidazione giudiziale (come definiti dall’art. 1, c.1 lett. c) CCII), il Codice prevede procedimenti ad hoc, in parte derivati dalla Legge 3/2012. In particolare:
- Il Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (già “piano del consumatore”) è una procedura rivolta alle persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei ad attività d’impresa. Consiste in una proposta di pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti, formulata in base alle reali capacità reddituali del debitore, senza necessità di accordo con i creditori. Il piano infatti non richiede il voto dei creditori aderenti: è il Tribunale a valutare la fattibilità e la meritevolezza della proposta e ad omologarla, rendendola vincolante. È uno strumento pensato per il consumatore sovraindebitato in buona fede che voglia evitare aggressioni (esecuzioni, pignoramenti) e ottenere a termine l’esdebitazione, pur pagando i creditori in misura commisurata al proprio reddito disponibile. Ad esempio, un privato cittadino oberato da prestiti e carte di credito può proporre un piano di rientro sostenibile nell’arco di alcuni anni, mantenendo per sé il minimo vitale e destinando ai creditori la parte restante del reddito. Se il Tribunale approva, i creditori sono obbligati ad accettare l’adempimento secondo il piano e a rinunciare alle azioni esecutive individuali. (Nel 2023 la Corte di Cassazione ha chiarito che può accedere al piano del consumatore solo chi ha prevalentemente debiti personali: un ex imprenditore con debiti “promiscui” in parte personali e in parte d’impresa dovrà eventualmente segregare le posizioni, potendo beneficiare del piano consumatore solo per i debiti estranei all’attività professionale).
- Il Concordato minore (già “accordo di composizione della crisi”) è l’equivalente del concordato preventivo per i debitori non fallibili – tipicamente piccoli imprenditori, professionisti, ditte individuali sotto soglia, ecc. – i quali non possono accedere al concordato preventivo ordinario. La procedura è simile a un concordato: il debitore propone ai creditori un piano, che però per essere approvato richiede un quorum ridotto (almeno il 50% dei crediti). I creditori votano sulla proposta e, se si raggiunge la maggioranza semplice (in valore) favorevole, il Tribunale omologa il concordato minore rendendolo vincolante anche per i dissenzienti. Come nel concordato preventivo, sono possibili sia soluzioni in continuità (prosecuzione dell’attività) sia soluzioni liquidatorie, e si possono prevedere anche falcidie di crediti privilegiati purché ricorrano le condizioni di legge. Il vantaggio per il debitore “minore” è di poter accedere a una procedura concorsuale snella e tarata su realtà di dimensioni ridotte (spesso con l’ausilio di un OCC – Organismo di Composizione della Crisi), evitando la liquidazione immediata e potendo anch’egli ottenere l’esdebitazione a completamento. Da notare che il CCII ha abbassato il quorum rispetto al passato (nel vecchio “accordo” serviva il 60% dei crediti): ora basta la metà, per favorire la riuscita di queste composizioni.
- La Liquidazione controllata del sovraindebitato (già “liquidazione del patrimonio” ex L.3/2012) è la procedura liquidatoria riservata ai debitori non fallibili. Può essere avviata su richiesta del debitore stesso incapace di formulare un piano sostenibile, oppure su conversione di un precedente piano/concordato minore andato in fallo. Nella liquidazione controllata, il patrimonio del debitore viene liquidato sotto il controllo di un gestore nominato dal tribunale (spesso un professionista designato dall’OCC) e il ricavato distribuito ai creditori. Anche se dolorosa (il debitore perde i beni non indispensabili), questa procedura offre due importanti benefici dal suo punto di vista: in primo luogo, sospende e accoglie in un’unica sede tutte le esecuzioni (evitando il caos di pignoramenti multipli); in secondo luogo, una volta terminata la liquidazione, il debitore persona fisica è ammesso di diritto all’esdebitazione per i debiti incapienti rimasti. Il Codice prevede che la liquidazione controllata debba durare al massimo 3 anni, accelerando il “fresh start” del debitore. In aggiunta, come accennato, è stata introdotta la possibilità per il debitore persona fisica meritevole ma completamente incapiente (privo di beni liquidabili e di redditi aggredibili) di ottenere ugualmente l’esdebitazione immediata (esdebitazione del debitore incapiente o “esdebitazione senza utilità”). Questo istituto, previsto dall’art. 283 CCII, consente al debitore onesto e sfortunato di liberarsi da tutti i debiti anche senza alcun pagamento ai creditori, a condizione che non vi siano atti in frode e che nei 4 anni successivi egli comunichi l’eventuale sopravvenienza di utilità rilevanti (oltre il 10% del debito) da destinare ai creditori. Tale esdebitazione “a costo zero” è ammessa una sola volta nella vita e costituisce una novità di grande rilievo sociale, mirando a concedere un vero nuovo inizio alle persone sovraindebitate croniche.
Come si vede, l’ordinamento italiano oggi dispone di una gamma completa di strumenti per la composizione della crisi, che vanno dall’assistenza negoziale prenegoziata fino alle procedure concorsuali classiche. Nel seguito, approfondiremo le caratteristiche di ciascuno dei principali strumenti elencati – soprattutto quelli riguardanti le imprese – con particolare attenzione alle modalità operative, ai requisiti, alle fasi procedurali e all’evoluzione giurisprudenziale più recente.
Di seguito, prima di procedere all’analisi dettagliata, proponiamo una tabella riepilogativa che confronta in sintesi i vari strumenti di composizione della crisi dal punto di vista del debitore, evidenziandone la natura, le condizioni di accesso e gli effetti principali.
Strumento | Natura | Chi può accedervi | Condizioni / Quorum | Autorità coinvolta | Esito per il debitore |
---|---|---|---|---|---|
Composizione negoziata (artt. 12-25 CCII) | Stragiudiziale assistita | Imprenditori (anche non fallibili) in squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, con prospettiva di risanamento | Stato di crisi o insolvenza probabile; nomina di un esperto indipendente; nessun quorum rigido (accordi volontari) | Camera di Commercio (nomina esperto); Tribunale solo per misure protettive eventuali | Risanamento consensuale o, se fallisce, possibile accesso a concordato semplificato; protezione temporanea dalle azioni esecutive durante le trattative. |
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) | Stragiudiziale puro | Imprese (fallibili o non) in crisi reversibile | Piano fattibile attestato da esperto indipendente; nessun consenso minimo richiesto dei creditori (accordi individuali) | Nessuna omologazione giudiziale (solo deposito volontario al Registro Imprese per pubblicità) | Continuazione dell’attività con ristrutturazione informale del debito; atti esecutivi funzionali al piano protetti da revocatoria. |
Accordo di ristrutturazione – ordinario (art. 57 CCII) | Negoziato + Omologato (concorsuale “atipico”) | Imprese (solo debitori assoggettabili a concorsuale) in crisi o insolvenza non acuta | Accordo con ≥ 60% dei crediti; pagamento integrale dei non aderenti entro 120 gg dall’omologa; possibile richiesta di misure protettive (stay) durante omologa. | Tribunale (omologa; nomina eventualmente un ausiliario per verif. attestazione); attestazione di un esperto indipendente sul piano concordato con i creditori. | Risanamento concordato con la maggioranza qualificata dei creditori; vincola anche i dissenzienti (se omologato) e sospende le azioni esecutive in corso; evita il fallimento con maggiore autonomia privata rispetto al concordato preventivo. |
Accordo di ristrutturazione – agevolato (art. 60 CCII) | Negoziato + Omologato | Imprese in crisi o insolvenza (fallibili) | Accordo con ≥ 30% dei crediti; niente misure protettive richieste; pagamento integrale e immediato (entro l’omologa) dei creditori estranei. | Tribunale (omologa; controllo requisiti) | Procedura più rapida (no fase di stay); debiti non ristrutturati estinti subito; consente di coinvolgere solo un nucleo ristretto di creditori principali (es. banche) liquidando gli altri. |
Accordo di ristrutturazione – ad efficacia estesa (art. 61 CCII) | Negoziato + Omologato | Imprese in crisi o insolvenza (fallibili) | Suddivisione dei creditori in categorie omogenee; in ciascuna categoria adesione ≥ 75% (ridotta a 60% se la società ha tentato una composizione negoziata precedente). Effetti estesi ai dissenzienti della categoria se omologa approvata. Necessario pagamento integrale estranei entro 120 gg come per accordo ordinario. | Tribunale (omologa; verifica corretto classamento e percentuali) | Possibilità di cram-down mirato su categorie di creditori (spec. finanziari) non aderenti, superando veti minoritari; maggiore complessità (necessaria omogeneità classi e percentuali elevate). |
Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) (artt. 64-bis/ter CCII) | Concorsuale (procedura unitaria) | Imprenditori commerciali fallibili in crisi o insolvenza (no piccoli o consumatori) | Proposta unilaterale di piano con classi di creditori. Approvazione richiesta: maggioranza in tutte le classi votanti (maggioranza del valore dei crediti per classe). Deroghe consentite a par condicio e prelazioni se piano approvato. No obbligo di soddisfare minimi del concordato (se liquidatorio nessun % minima ai chirografari). | Tribunale (controllo di ammissibilità; nomina ausiliari se del caso; omologa finale). Norme del concordato in quanto compatibili (commissario giudiziale non sempre richiesto). | Strumento flessibile che consente di trattenere parte del valore creato dal piano anche se non si paga tutto a tutti (previa omologa). Può realizzare ristrutturazioni profonde e soddisfare solo parzialmente i creditori, a condizione che ciascuna classe approvi. Se una classe nega, il PRO non va in porto (non è previsto cram-down interclasse completo). Vantaggio: se approvato, può evitare la liquidazione anche con sacrifici distribuiti in modo non strettamente proporzionale tra i creditori. |
Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII) – continuità o liquidatorio | Procedura concorsuale giudiziale | Imprenditori commerciali fallibili in stato di crisi o insolvenza | Proposta di concordato con dettagliato piano, attestato da un professionista sulla fattibilità. Ammissibilità deliberata dal Tribunale (decreto di apertura). Voto dei creditori per classi (se classi previste) o in massa: serve maggioranza >50% del credito ammesso in ogni classe (o dei crediti totali se classi non obbligatorie). Omologazione con eventuale cram-down del Fisco/INPS se dissenzienti ma trattati almeno come in liquidazione. Requisiti speciali: se liquidatorio puro, garantire almeno 20% ai chirografari e apportare il 10% di attivo aggiuntivo (risorse esterne); se in continuità, azienda in esercizio durante la procedura e piano di risanamento aziendale credibile. | Tribunale e Corte d’Appello (controllo e omologa); Commissario giudiziale nominato che vigila durante la procedura; eventuale giudice delegato per l’adunanza dei creditori. | Sospensione delle azioni esecutive (stay) sin dal ricorso; possibilità di scioglimento/continuazione contratti con autorizzazione; in caso di omologazione, adempimento del piano sotto vigilanza e successiva esdebitazione residua per l’imprenditore individuale. Se non omologato, il debitore viene normalmente dichiarato in liquidazione giudiziale (salvo proporre soluzioni alternative in extremis). Strumento complesso ma completo per ristrutturare grandi esposizioni, salvando l’impresa (concordato in continuità) oppure liquidando in modo ordinato l’attivo ma evitando gli effetti penalizzanti del fallimento per l’imprenditore onesto. |
Concordato semplificato per liquidazione (art. 25-sexies CCII) | Procedura concorsuale speciale (post-composizione negoziata) | Imprenditore che abbia esperito senza successo la composizione negoziata (attestazione finale dell’esperto di trattative svolte in buona fede ma esito negativo) | Proposta unilaterale di concordato liquidatorio entro 60 giorni dalla relazione finale dell’esperto. Nessun voto dei creditori previsto; deposito del piano e apertura procedimento davanti al Tribunale. I creditori possono solo fare opposizione all’omologa, anche indicando un miglior offerente sul patrimonio. Il Tribunale omologa se ritiene il piano vantaggioso rispetto alla alternativa liquidazione giudiziale. | Tribunale (valutazione stringente su correttezza trattative precedenti e convenienza del piano per i creditori; nomina eventuale C.T.U. per valutazioni). | Consente al debitore di evitare il fallimento nonostante il fallimento delle trattative, liquidando i beni volontariamente sotto controllo del Tribunale e chiudendo la vicenda concorsuale più rapidamente. Tuttavia è strumento di ultima istanza: i Tribunali ammettono il concordato semplificato solo se nessun altro accordo o procedura minore era praticabile. Dopo l’omologa, il patrimonio è liquidato dal liquidatore nominato e il debitore ottiene l’esdebitazione nei termini di legge. |
Liquidazione giudiziale (ex fallimento) | Procedura concorsuale liquidatoria | Imprenditori commerciali fallibili insolventi (su ricorso di debitore, creditori o pm) | Insolvenza accertata dal Tribunale. Sentenza di apertura che nomina il curatore e apre lo spossessamento. Procedura non volontaria (salvo il debitore possa anticipare con ricorso proprio per evitare iniziative disordinate). | Tribunale (dichiarativa e vigilanza generale); Giudice Delegato (direzione procedura); Curatore fallimentare (gestione attivo/passivo); Comitato creditori. | L’impresa cessa l’attività salvo esercizio provvisorio autorizzato per vendita conveniente. Vendita di tutti i beni e riparto ai creditori secondo i privilegi. Effetti per il debitore: perdita amministrazione dei beni; per le società, estinzione finale. Per la persona fisica, possibilità di esdebitazione dei debiti insoddisfatti al termine (previa verifica di condotte cooperative e buona fede). Procedura lunga e complessa, ma che rappresenta la tutela residuale per i creditori quando ogni tentativo di risanamento è fallito. |
Concordato minore (artt. 74-83 CCII) | Procedura concorsuale semplificata (sovraindebitamento) | Debitori non fallibili (imprenditori minori, professionisti, consumatori con debiti professionali, ecc.) in crisi o insolvenza | Proposta di piano con eventuale classe unica di creditori chirografari. Voto dei creditori richiesto: ≥ 50% del totale crediti. Necessaria attestazione di fattibilità da parte di OCC o professionista nominato. Omologazione anche senza voto favorevole dell’Erario se il trattamento non è inferiore a quanto otterrebbe in liquidazione (transazione fiscale sovraindebitamento, art. 80). | Tribunale (omologa); Organismo di Composizione della Crisi – OCC (ausilio al debitore nella predisposizione del piano e relazione sulla fattibilità/meritevolezza). | Il piccolo debitore può proporre un taglio e ristrutturazione dei debiti evitando la liquidazione personale. Mantenimento dell’attività (per es. l’artigiano può proseguire la bottega) se il piano lo prevede. Alla fine, dopo l’esecuzione del piano, i debiti restanti sono cancellati (esdebitazione). Strumento più accessibile del concordato preventivo (quorum ridotto, minori formalità) pensato per dare una seconda chance agli imprenditori minori. |
Piano del consumatore (art. 65 CCII) | Procedura di ristrutturazione judicial (sovraindebitamento) | Consumatore in stato di sovraindebitamento (persona fisica che ha debiti per esigenze personali, non legati ad attività professionale) | Proposta di piano di pagamento parziale e sostenibile in base al reddito familiare. Nessun voto richiesto dai creditori: valutazione di meritevolezza e convenienza affidata al Tribunale (che verifica che il debitore non abbia colpa grave nel sovraindebitamento e che il piano offra ai creditori almeno quanto un’alternativa liquidatoria). OCC coinvolto per relazione particolareggiata sulla situazione e sulle cause indebitamento. | Tribunale (omologa, eventualmente dopo convocazione creditori per raccogliere osservazioni); OCC (ausilio al debitore nella raccolta documenti e predisposizione piano, relazione sulla condotta del debitore). | Il consumatore ottiene un blocco delle azioni esecutive una volta ammesso il procedimento e, se il piano è omologato, potrà soddisfare i creditori secondo le proprie possibilità (ad es. pagando una rata mensile per alcuni anni). Al termine, avrà diritto all’esdebitazione integrale dei debiti residui. Strumento chiave per liberare le famiglie dal peso di debiti insostenibili (mutui, prestiti, bollette arretrate, ecc.), evitando pignoramenti di stipendi o perdite della casa quando è possibile un rientro parziale ragionevole. (Nota: Cass. n.22699/2023 ha precisato che il piano consumatore è riservato a chi ha debiti di natura personale; chi ha debiti anche d’impresa può accedervi solo per la parte personale, altrimenti dovrà ricorrere al concordato minore). |
Liquidazione controllata (artt. 268-277 CCII) | Procedura concorsuale liquidatoria (sovraindebitamento) | Debitori non fallibili insolventi (consumatori, imprenditori minori, ecc. – inclusi eredi di imprenditori deceduti beneficiati, enti non commerciali, soci illimitatamente resp. di società non fallibili) | Ricorso volontario del debitore sovraindebitato (o su conversione di altra procedura di composizione fallita). Insolvenza accertata dal Tribunale. Nomina di un gestore-liquidatore. Liquidazione di tutti i beni non essenziali con alcune tutele (impignorabilità di beni di minimo vitale, ecc.). Durata massima 3 anni per completare il realizzo. | Tribunale (apertura e chiusura procedura; nomina gestore; omologazione piano di riparto finale); OCC (di regola il gestore è un professionista dell’OCC). | Similarmente alla liquidazione giudiziale, il patrimonio viene liquidato a beneficio dei creditori. Effetti per il debitore: al termine ottiene automaticamente l’esdebitazione dei debiti insoddisfatti. Inoltre può chiedere subito l’esdebitazione “senza utilità” se non ha nulla da liquidare (utile per debitore nullatenente in buona fede). La liquidazione controllata offre dunque al debitore onesto un percorso di uscita dal sovraindebitamento con tempi certi, anche se comporta la perdita dei propri beni (salve le eccezioni di legge). |
(Legenda: per “imprenditore fallibile” si intende l’imprenditore commerciale sopra le soglie di cui all’art. 2 L.F. – attivo > €300k, ricavi > €200k, debiti > €500k – requisiti mantenuti dal CCII. Gli imprenditori sotto queste soglie e gli altri soggetti indicati rientrano nei “non fallibili”).
Come evidenziato dalla tabella, la scelta dello strumento dipende molto dalla situazione soggettiva del debitore (dimensioni, natura giuridica, qualificazione come consumatore o meno) e dallo stato della crisi (probabilità di risanamento vs insolvenza conclamata). In linea generale, un imprenditore commerciale di medie-grandi dimensioni potrà accedere a tutto il ventaglio: strumenti stragiudiziali (piano attestato, accordi) se la crisi è ancora gestibile consensualmente, oppure concordato preventivo e infine liquidazione giudiziale se l’insolvenza è irreversibile. Un piccolo imprenditore individuale invece, se non supera le soglie di fallibilità, dovrà orientarsi sulla composizione negoziata (che è aperta a tutti) e poi eventualmente sui procedimenti di sovraindebitamento (concordato minore o liquidazione controllata), poiché non potrebbe essere ammesso al concordato preventivo ordinario. Un privato consumatore, dal canto suo, dispone essenzialmente del piano del consumatore o in ultima analisi della liquidazione controllata (oltre alla possibilità estrema dell’esdebitazione senza utilità).
Nei prossimi paragrafi esamineremo i singoli strumenti in dettaglio, partendo da quelli negoziali e di allerta precoce, per poi passare alle soluzioni concorsuali giudiziali, con riferimenti a prassi applicative e sentenze recenti che hanno interpretato le nuove norme.
La Composizione negoziata della crisi d’impresa
La composizione negoziata è un istituto di recente introduzione (introdotto col D.L. 118/2021, conv. L. 147/2021, e ora disciplinato dagli artt. 12-25 CCII) concepito per aiutare l’imprenditore in difficoltà a prevenire l’insolvenza attraverso una trattativa assistita con i creditori. Si tratta di una procedura volontaria e confidenziale, attivata su istanza del debitore tramite una piattaforma telematica gestita dalle Camere di Commercio. Non è una procedura concorsuale in senso stretto, bensì un percorso di soluzione stragiudiziale della crisi, sebbene integrato da alcuni interventi del Tribunale (ad esempio per concedere misure protettive o autorizzare atti straordinari).
Presupposto: Può accedere alla composizione negoziata qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualunque dimensione (dall’impresa grande alla piccola non fallibile) che si trovi in condizioni di squilibrio economico-finanziario tali da far prevedere una crisi o insolvenza imminente, ma che abbia ancora ragionevoli prospettive di risanamento. In pratica, l’azienda dev’essere in difficoltà ma salvabile. Non occorre essere già insolventi; anzi, l’accesso in fase precoce di “crisi probabile” è auspicato. Non vi sono soglie quantitative di debito per attivarla, né settori esclusi (possono richiederla anche imprenditori agricoli e sotto-soglia, che sono esclusi dalle procedure concorsuali ordinarie).
Nomina dell’esperto: Una volta presentata l’istanza tramite la piattaforma telematica, un’apposita commissione nomina un esperto indipendente (iscritto in un apposito albo) con competenze in materia di ristrutturazioni aziendali. L’esperto, accettato l’incarico, diviene il “regista” neutrale del negoziato: il suo compito è esaminare la situazione economico-patrimoniale dell’impresa e facilitare le trattative tra il debitore e i creditori, nella ricerca di una soluzione concordata. L’esperto deve agire con imparzialità e riservatezza, e redige inizialmente una prima valutazione in cui dichiara se a suo avviso esistono concrete prospettive di risanamento. Solo se l’esperto conferma che l’impresa può essere risanata (anche parzialmente) ha senso proseguire: in caso contrario, la procedura può concludersi anticipatamente.
Trattative e doveri di buona fede: Durante la composizione negoziata, l’imprenditore rimane alla guida della propria azienda (non c’è spossessamento), ma deve gestire l’attività in modo da non pregiudicare le trattative. I creditori sono invitati dall’esperto al tavolo negoziale e hanno il dovere giuridico di partecipare con correttezza e buona fede. Ciò significa che devono fornire le informazioni richieste e valutare seriamente le proposte, senza atteggiamenti ostruzionistici pretestuosi. Da parte sua, il debitore deve rappresentare fedelmente la propria situazione e formulare proposte concrete, mettendo tutti i dati sul tavolo. La giurisprudenza ha enfatizzato questi obblighi: ad esempio, il Tribunale di Firenze (provv. 31 agosto 2022) ha negato l’accesso al concordato semplificato post-negoziazione proprio perché dalle dichiarazioni dell’esperto risultava che le trattative precedenti non erano state condotte in modo sufficientemente approfondito e trasparente con tutti i creditori. In altre parole, per poter beneficiare appieno degli effetti della composizione negoziata (e dei possibili sbocchi successivi), il debitore deve dimostrare di aver esplorato le soluzioni in modo serio e collaborativo con i creditori interessati.
Misure protettive: Uno degli incentivi principali per il debitore è la possibilità di richiedere al Tribunale, durante la composizione negoziata, l’applicazione di misure protettive del patrimonio. In pratica, l’imprenditore può ottenere un decreto che sospende o vieta temporaneamente azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori (pignoramenti, sequestri), nonché blocca eventuali istanze di fallimento (liquidazione giudiziale) contro di lui. Lo stay iniziale dura fino a 4 mesi, estensibili su richiesta fino a 12 mesi massimo, purché le trattative proseguano con serietà (il Tribunale verifica periodicamente lo stato delle negoziazioni sulla base delle relazioni dell’esperto). Durante questo periodo di respiro, l’impresa può anche essere autorizzata dal giudice a contrarre finanziamenti prededucibili (cioè con diritto di priorità di rimborso) per far fronte alla gestione corrente, o a cedere rami d’azienda, oppure a sciogliersi da contratti in corso d’esecuzione o ottenerne la sospensione, se ciò è funzionale a evitare un aggravarsi della crisi (artt. 18-20 CCII). Va notato che, sebbene la composizione negoziata sia stragiudiziale, il ricorso alle misure protettive la giudizializza parzialmente: sarà quindi opportuno richiederle solo se strettamente necessario, poiché attivano il controllo del Tribunale sin dalle fasi iniziali.
Soluzioni attuabili: La composizione negoziata, più che una soluzione in sé, è un contenitore all’interno del quale le parti possono liberamente concordare vari tipi di accordi o piani di ristrutturazione. Il Codice elenca alcuni possibili esiti delle trattative (art. 23 CCII) che, se raggiunti, consentono di chiudere con successo la procedura negoziata:
- un contratto con uno o più creditori che sia idoneo ad assicurare la continuità aziendale per almeno 2 anni. Questo può essere, ad esempio, un nuovo accordo di finanziamento con una banca, o un patto di dilazione del debito con fornitori strategici, o un accordo transattivo con un importante creditore che minacciava azioni legali. L’esperto, a fine trattative, redigerà una relazione finale attestando che tale contratto garantisce la continuità per un periodo congruo (≥24 mesi) e ciò attribuirà al contratto stesso particolari effetti protettivi previsti dall’art. 25-bis CCII (le cosiddette “misure premiali” – ad esempio riduzioni di interessi e sanzioni su debiti fiscali, accesso a rateazioni fiscali straordinarie fino a 6 anni, ecc.). In sostanza, il legislatore incentiva con benefici fiscali gli accordi raggiunti in composizione negoziata volti a proseguire l’attività. Va sottolineato che questo “contratto di risanamento” non richiede il coinvolgimento di tutti i creditori né omologazione: può riguardare anche un singolo creditore fondamentale. È però una soluzione non definitiva se restano altri debiti fuori accordo – potrà essere un tassello di un risanamento più ampio.
- una convenzione moratoria con i creditori. Si tratta di un accordo (tipicamente con banche o altri finanziatori) in cui una maggioranza di essi concorda di moratoriare i crediti (posticipare scadenze, non agire esecutivamente) per dare tempo all’impresa di riorganizzarsi. La convenzione moratoria, se sottoscritta dai creditori che rappresentano almeno il 75% dei crediti di quella categoria, può essere estesa dal giudice anche ai dissenzienti della stessa categoria (art. 23 co. 2 lett. a, richiamante l’art. 182-septies L.F.). Ad esempio, se l’80% delle banche creditrici aderisce alla moratoria, l’effetto del congelamento delle pretese può essere reso vincolante anche sulla banca dissenziente per lo stesso periodo. Questo strumento è quindi un accordo di standstill collettivo, utile quando la crisi pare temporanea e serve solo tempo senza manovre sul capitale. È simile all’accordo ad efficacia estesa ma limitato a dilazioni di pagamento e sospensione di azioni.
- un accordo sottoscritto dall’esperto ex art. 23 co.1 lett. c), corrispondente nella sostanza a un piano attestato di risanamento “rinforzato”. In pratica, le parti possono costruire un piano di ristrutturazione dell’azienda, con eventuali sacrifici di alcuni creditori consensienti, e chiedere all’esperto di attestare nella sua relazione finale che tale accordo è idoneo a risanare l’impresa e riequilibrarne la situazione finanziaria. Se l’accordo viene pubblicato nel Registro delle Imprese unitamente alla relazione dell’esperto, esso produce gli effetti protettivi dell’art. 67, comma 3, lett. d) L.F. (ora art. 56 CCII), ossia la non assoggettabilità a revocatoria degli atti eseguiti in adempimento di esso. In sostanza, è un piano attestato elaborato però all’esito della negoziazione, con il sigillo di terzietà dato dall’esperto della composizione (diverso dall’attestatore interno al piano). Ciò offre maggiore credibilità e tutela sia al debitore sia ai creditori aderenti.
- infine, la conclusione della composizione negoziata con accesso a una procedura concorsuale. Se le trattative portano a delineare una soluzione più strutturata che necessita di forza legale erga omnes, il debitore può, con l’assistenza dell’esperto, predisporre l’accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII da omologare, oppure un piano di concordato preventivo da sottoporre ai creditori. In tal caso la composizione negoziata funge da trampolino per accedere direttamente, in maniera preparata, alla procedura formale. Un vantaggio normativo: se l’imprenditore deposita il ricorso per concordato preventivo o per omologa di un accordo entro 60 giorni dalla fine della negoziazione, gode di alcune facilitazioni, ad esempio procedure più snelle di ammissione e il mantenimento di eventuali misure protettive già concesse (art. 24 CCII). Inoltre, è previsto – come già accennato – il caso particolare del concordato semplificato post-negoziazione: quando l’esperto attesta che nessun accordo è praticabile, il debitore può comunque chiedere al Tribunale di omologare un piano liquidatorio unilaterale (senza voto) per chiudere la crisi. Questa è l’ultima spiaggia se tutte le proposte negoziali sono fallite.
Esiti possibili e giurisprudenza: Dall’avvio dell’istituto (Novembre 2021) ad oggi, molte imprese hanno tentato la via della composizione negoziata. Gli esiti sono stati vari: alcuni hanno trovato investitori o accordi chiave (ad es. nuove finanze dai soci, accordi con banche) che hanno permesso il risanamento fuori dai tribunali; altri hanno usato la procedura per confezionare un successivo concordato preventivo “prenegoziato”, approvato con successo dai creditori; altri ancora non sono riusciti a raggiungere un’intesa e sono sfociati in liquidazioni o concordati semplificati. La giurisprudenza recente ha tracciato linee guida importanti: come visto, tribunali come Firenze, Bergamo, Udine hanno sottolineato che il concordato semplificato è un extrema ratio da concedere solo se le trattative sono state condotte lealmente e tutte le altre soluzioni (accordi di ristrutturazione, piani attestati, cessioni di azienda) si sono rivelate impraticabili. Il Tribunale di Udine (decr. 24 gennaio 2023) ha anche richiesto, in un caso di concordato semplificato, che il debitore desse prova concreta della fattibilità del piano depositando ante omologa somme di denaro presso un notaio a garanzia degli importi promessi ai creditori. Questo per dire che i giudici scrutinano attentamente la condotta del debitore in composizione negoziata: chi utilizza lo strumento in modo strumentale o superficiale (magari solo per congelare le azioni esecutive, senza genuino tentativo di accordo) rischia di vedersi negare i benefici successivi. Di contro, imprese che hanno mostrato impegno e hanno coinvolto attivamente i creditori spesso sono riuscite a evitare il fallimento grazie a questo percorso, beneficiando anche delle misure premiali fiscali previste (riduzione interessi e sanzioni se l’accordo di ristrutturazione o il piano attestato conseguente viene registrato, ecc.).
In conclusione, la composizione negoziata si configura come uno strumento moderno di crisi “assistita”, ispirato alle migliori pratiche internazionali di restructuring precoce. Dal punto di vista dell’imprenditore-debitore, essa offre un ambiente protetto per rinegoziare il debito senza l’onta immediata di una procedura concorsuale pubblica, mantenendo il controllo dell’azienda e magari trovando soluzioni su misura insieme ai creditori più coinvolti. È fondamentale però affrontarla con trasparenza e professionalità, avvalendosi di consulenti esperti e collaborando con l’esperto nominato, affinché possa realmente costituire un’alternativa efficace al default. Se ben sfruttata, la composizione negoziata può salvare aziende ancora vitali e preservare valore economico e posti di lavoro, in linea con lo spirito “conservativo” del nuovo Codice della crisi.
(Esempio pratico: Alfa S.r.l., piccola impresa manifatturiera, nel 2023 registra un calo di fatturato e accumula debiti verso fornitori e banche. Teme di non poter pagare le rate dei finanziamenti nei prossimi mesi. Gli amministratori decidono di attivare la composizione negoziata. Viene nominato un esperto, il dott. X, che analizza i dati di Alfa e vede possibilità di recupero se l’azienda ottiene liquidità e dilazioni. Si avviano trattative: tre banche finanziatrici accettano di moratoriare i mutui per 12 mesi e di concedere nuova finanza assistita da garanzia pubblica; alcuni fornitori strategici accettano uno sconto del 20% sui loro crediti e pagamento dilazionato in 6 mesi; nel contempo i soci di Alfa apportano nuovi capitali freschi. L’esperto assevera che con questi accordi Alfa può proseguire l’attività (continuità ≥ 2 anni) e tornare redditizia. Si redige quindi un accordo di ristrutturazione firmato dal 70% dei creditori chirografari e lo si deposita in Tribunale per l’omologa, usufruendo della corsia preferenziale post-composizione negoziata: in poche settimane l’accordo viene omologato e diventa vincolante anche per i pochi creditori dissenzienti. Alfa S.r.l. evita così il fallimento, risana il proprio bilancio e dopo due anni esce definitivamente dalla crisi, beneficiando anche della riduzione di interessi sui debiti fiscali maturata grazie all’accordo.)
Il Piano attestato di risanamento
Tra gli strumenti “tradizionali” di composizione negoziale della crisi, il piano attestato di risanamento occupa un posto peculiare. Esso infatti non comporta né un accordo formalizzato con i creditori né alcun intervento del Tribunale, ma si basa unicamente sull’autonomia privata del debitore, coadiuvato da un professionista indipendente che ne attesta la credibilità. Già previsto dalla legge fallimentare (art. 67, co. 3, lett. d) L.F.) e ora recepito dall’art. 56 CCII, il piano attestato è sostanzialmente un piano di risanamento aziendale “asseverato” che il debitore può predisporre unilateralmente per superare la crisi.
Cos’è: In concreto, l’imprenditore elabora – con l’aiuto di consulenti aziendali e finanziari – un piano industriale e finanziario pluriennale contenente le misure previste per riequilibrare la situazione (es. ristrutturazione del debito, dismissioni di asset non strategici, aumento di capitale, nuove linee di credito, riduzione costi, ecc.). Il piano deve mostrare che, seguendo tali misure, l’impresa potrà ripagare i debiti e tornare in bonis entro un certo orizzonte temporale. Questo piano viene sottoposto a un professionista indipendente (revisore, commercialista, ecc. con requisiti di indipendenza analoghi a quelli dell’attestatore di concordato) il quale redige una relazione di attestazione che ne verifica la veridicità dei dati e la fattibilità (verosimiglianza del risultato di risanamento). Da qui il nome piano “attestato”.
Efficacia legale: Il piano attestato, di per sé, non vincola i creditori – infatti non è richiesto alcun loro consenso formale. Tuttavia, la sua importanza risiede nel fatto che se l’impresa successivamente cade in fallimento (liquidazione giudiziale), gli atti dispositivi e i pagamenti effettuati in esecuzione del piano attestato non potranno essere dichiarati inefficaci/revocabili dal curatore (ex art. 56 CCII, ricalcando l’art. 67 L.F.). In pratica il legislatore premia l’imprenditore che ha tentato di risanarsi seguendo un piano serio certificato da un esperto, proteggendo quegli atti (ad es. pagamenti fatti a certi creditori, vendita di cespiti per ottenere liquidità, costituzione di garanzie a nuovi finanziatori, ecc.) dall’azione revocatoria fallimentare. Ciò rimuove un forte deterrente che altrimenti graverebbe sui creditori: se un creditore viene pagato prima degli altri secondo il piano, quel pagamento non verrà ripreso dal curatore se il piano fallisce a posteriori. Attenzione: la protezione opera solo per atti coerenti e necessari all’attuazione del piano, compiuti dopo che il piano sia stato formalmente attestato e (preferibilmente) pubblicato nel registro imprese. Pagamenti o garanzie estranee al piano restano revocabili secondo le norme ordinarie.
Uso pratico: Il piano attestato è uno strumento impiegato soprattutto quando l’impresa ha pochi creditori strategici e ritiene di poter raggiungere con ciascuno un accordo bilaterale senza necessità di una procedura collettiva. Tipicamente viene usato nei cosiddetti risanamenti “in bonis”: la società è in difficoltà ma non vuole attivare procedure concorsuali pubbliche per timore di perdere la fiducia di fornitori, clienti o del mercato. Allora negozia individualmente con le banche una ristrutturazione dei mutui, con taluni fornitori piani di rientro, con i soci un apporto di capitale – assembla tutte queste misure in un piano organico e lo fa attestare. Non essendoci un’omologazione, la riuscita dipende al 100% dall’esecuzione concreta: se i creditori chiave collaborano come previsto (ad esempio erogando nuova finanza, concedendo dilazioni, ecc.) l’azienda si risana. In caso contrario, il piano rimane lettera morta. Per questo, spesso la predisposizione di un piano attestato è accompagnata dalla firma di contratti/accordi con i principali creditori: pur non richiesti dalla legge, è ovvio che senza l’accordo dei creditori coinvolti il piano non può funzionare. Si preferisce però non passare per il tribunale onde evitare pubblicità negativa.
Confronto col concordato e gli accordi: Il piano attestato, a differenza dell’accordo di ristrutturazione e del concordato, non offre uno “scudo” generale dalle azioni esecutive dei creditori. I creditori, se non soddisfatti o non parte del piano, possono comunque agire (pignorare, fare istanza di fallimento, ecc.). Non c’è infatti la possibilità di chiedere misure protettive automatiche. Quindi questo strumento è indicato se il debitore ha ancora la situazione sotto controllo e prevede di poter reggere senza la tutela di uno stay giudiziario (spesso i creditori coinvolti nel piano accettano spontaneamente di non agire, ma i terzi non coinvolti potrebbero creare problemi). L’altro lato della medaglia è che il piano attestato è molto flessibile e discreto: non richiede pubblicazione (se non facoltativa) e non deve rispettare le rigide regole di par condicio e trattamento paritario – il debitore può pagare qualcuno prima di altri se ciò è funzionale al risanamento (cosa che in concordato non sarebbe ammessa se non con complesse classi). È quindi uno strumento ideale per crisi minori o quando c’è unanime consenso informale tra i principali creditori.
Procedura: Non c’è un “procedimento” formale. Di solito, per dare data certa al piano, il debitore opta per depositare la attestazione e una sintesi del piano al Registro delle Imprese (adempimento introdotto nel Codice della crisi, anche per garantire trasparenza verso terzi interessati). Questo non rende il documento pubblico integrale, ma serve a marcare il tempo a partire dal quale decorre la protezione anti-revocatoria. Il ruolo del professionista attestatore è cruciale: egli risponde anche penalmente se attesta falsamente la fattibilità di un piano (ci sono stati casi giudiziari rilevanti di attestazioni “compiacenti” poi sanzionate). Una solida attestazione dà credibilità al piano agli occhi dei creditori.
Novità: Il CCII non ha modificato la sostanza dell’istituto rispetto alla legge precedente, ma ha comunque integrato il piano attestato nel sistema generale, prevedendo ad esempio che esso possa essere un esito della composizione negoziata (art. 23 co.1 lett. c, come visto). Inoltre, restano applicabili le linee guida sviluppate dalla prassi: ad es. il CNDCEC (commercialisti) ha emanato indirizzi su come redigere i piani e sulle assumption da verificare.
Esempio: Beta S.p.A., azienda di moda, registra un calo di vendite e accumula €5 milioni di debiti con fornitori e banche. La proprietà crede nel rilancio lanciando una nuova linea di prodotti. Beta elabora un piano a 5 anni in cui i soci apportano €1 milione, la banca principale converte metà esposizione in un prestito a 7 anni, i fornitori accettano un pagamento al 80% del dovuto in 12 mesi, e l’azienda cede un marchio secondario per fare cassa. Un commercialista indipendente attesta che il piano è fattibile e che Beta tornerà redditizia dal prossimo anno. Beta deposita l’attestazione al Registro imprese e inizia ad eseguire il piano. Tutto avviene in modo riservato: i dipendenti e il pubblico non vengono a sapere formalmente nulla. Dopo 1 anno Beta è risanata: debiti ridotti e attività rifocalizzata. Se invece Beta fallisse durante il periodo, il curatore non potrebbe revocare i pagamenti fatti a fornitori secondo il piano né l’ipoteca concessa alla banca per il nuovo prestito: ciò tutela quei creditori che hanno creduto nel risanamento.
In definitiva, dal punto di vista del debitore il piano attestato rappresenta la strada meno invasiva e più autonoma per affrontare la crisi. Richiede però una credibilità elevata (il “patto” è tutto basato sulla fiducia che il piano funzioni) e non offre protezioni immediate contro aggressioni di eventuali creditori ostili. È spesso il primo tentativo di risanamento: se funziona, tanto meglio; se fallisce, il debitore potrà ancora ripiegare su strumenti più incisivi (accordi omologati o concordati) ma avrà quantomeno guadagnato tempo e forse limitato i danni con la protezione anti-revoca.
Accordi di ristrutturazione dei debiti
Gli accordi di ristrutturazione sono strumenti di composizione della crisi di natura negoziale ma con riconoscimento giudiziale, introdotti per la prima volta nel 2005 (art. 182-bis L.F.) e oggi disciplinati dagli artt. 57-64 CCII. Rappresentano una sorta di via di mezzo tra il piano attestato “privato” e il concordato preventivo “pubblico”: si basano infatti su un accordo contrattuale tra debitore e una parte qualificata dei creditori, ma acquistano efficacia erga omnes solo dopo l’omologazione da parte del Tribunale. L’idea di fondo è permettere all’imprenditore di evitare il fallimento attraverso una soluzione concordata, anche se non tutti i creditori sono d’accordo, purché vi sia un consenso sufficiente (la legge fissa un quorum) e siano tutelati adeguatamente gli interessi dei dissenzienti.
Requisiti di accesso: Può proporre un accordo di ristrutturazione qualsiasi imprenditore soggetto alle procedure concorsuali (quindi un debitore “fallibile” in senso lato, inclusi gli imprenditori agricoli sopra soglia, ora ammessi anch’essi). Deve trovarsi in stato di crisi o insolvenza (anche già insolvente dunque) ma voler evitare il concordato preventivo. Non può invece usare questo istituto un debitore non fallibile: i piccoli o i consumatori, come visto, hanno il “concordato minore” analogo ma con regole proprie.
Accordo e maggioranza: L’accordo di ristrutturazione ordinario richiede che il debitore abbia ottenuto l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali. Si computano i crediti per valore. Non occorre il consenso di tutti i creditori, ma almeno i 3/5. Tipicamente il debitore negozia con i creditori principali (banche, fornitori maggiori, fisco eventualmente) e li convince a sottoscrivere un accordo che prevede per ciascuno un certo trattamento (es.: pagamento parziale del 80% entro tot mesi, conversione di parte del credito in quote societarie, ecc.). I creditori minori o non aderenti in genere vengono pagati integralmente entro breve termine (120 giorni dall’omologazione), così da “tirarli fuori” dal perimetro della ristrutturazione. Questa è condizione di legge: i creditori estranei devono essere soddisfatti per intero entro 120 giorni dalla scadenza o dall’omologa, a garanzia che l’accordo non pregiudichi chi non firma. In pratica quindi, il piano alla base dell’accordo deve prevedere risorse sufficienti per liquidare integralmente i non aderenti (oppure il loro credito non deve essere toccato dall’accordo). Chi aderisce invece accetta una riduzione o dilazione del proprio credito secondo i termini negoziati.
Procedimento di omologazione: L’accordo, accompagnato da una relazione di un attestatore indipendente che certifica che esso è idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei non aderenti nei termini di legge e la sostenibilità dell’accordo stesso, viene sottoposto al Tribunale competente per l’omologazione. Il Tribunale verifica il rispetto dei requisiti formali (percentuale di adesioni raggiunta, correttezza dell’informazione ai creditori, assenza di frodi) e sostanziali (fattibilità del piano, attuazione del pagamento integrale degli estranei, ecc.). Se tutto è in regola, omologa l’accordo con decreto. Da quel momento l’accordo diviene vincolante per tutti i creditori aderenti (ovviamente) e anche per quelli estranei, ma solo nel senso che questi ultimi – se integralmente pagati come promesso – non potranno agire esecutivamente; in pratica l’accordo funziona come un “concordato parziale”: i non aderenti ricevono il 100% e restano fuori. I loro crediti vengono soddisfatti e cessano di esistere, quindi non c’è più un conflitto con chi ha accettato un sacrificio. I dissenzienti che invece avevano diritto solo a un pagamento parziale perché rientranti tra i firmatari mancanti restano una categoria quasi teorica, perché se dovevano subire perdite l’accordo non poteva essere loro esteso senza adesione. Dunque nell’accordo ordinario classico, chi non firma viene pagato per intero.
Durante il periodo dalla presentazione dell’accordo al tribunale fino all’omologazione, il debitore può chiedere misure protettive (stay) analoghe a quelle del concordato: sospensione dei pignoramenti, ecc. La prassi vuole che il debitore lo faccia per evitare corse dei creditori in quella fase. Tuttavia, se chiede lo stay, non può beneficiare della versione “agevolata” al 30% (che appunto lo vieta).
Vantaggi e limiti: Dal lato del debitore, l’accordo di ristrutturazione è vantaggioso perché: (i) evita la dichiarazione di fallimento e l’ingresso in procedure più complesse; (ii) è relativamente più rapido e snello di un concordato (non c’è voto di tutti i creditori, non c’è commissario giudiziale, l’udienza è solo eventuale se ci sono opposizioni all’omologa); (iii) consente maggiore riservatezza (anche se l’omologa è pubblica, il numero di soggetti coinvolti è minore). Inoltre, consente di modellare il trattamento dei creditori in modo flessibile: alcuni soddisfatti integralmente subito, altri con stralcio. Di contro, il limite principale è la necessità di convincere il 60% dei creditori: se la platea è molto frammentata, può essere difficile. Inoltre, a differenza del concordato, non è possibile imporre coattivamente sacrifici ai creditori dissenzienti: questi o li paghi per intero fuori dall’accordo, oppure devi farli aderire. Ecco perché il CCII ha introdotto varianti come l’accordo ad efficacia estesa, per aggirare ostacoli legati a minoranze bloccanti in certe categorie.
Accordo agevolato (30%): Se l’imprenditore ritiene di non poter raggiungere il 60%, può optare per la forma agevolata, con quorum del 30%. In questo caso però deve rinunciare alle misure protettive (quindi accetta il rischio che nel frattempo qualche creditore non aderente agisca) e deve pagare immediatamente e integralmente i creditori estranei all’omologazione, cioè al momento dell’omologa devono risultare soddisfatti. In pratica, l’accordo agevolato si può usare quando c’è un gruppo relativamente ristretto di creditori disponibili a trattare (che però rappresentano almeno il 30% del debito), e il debitore ha liquidità o supporto per liquidare tutti gli altri sul mercato. È uno strumento utile se, ad esempio, un paio di banche che rappresentano il 30-40% del debito sono disposte a ristrutturare i loro crediti, mentre il resto (fornitori, fisco ecc.) viene saldato cash tramite magari una nuova finanza o vendite di beni. Così il tribunale può omologare l’accordo anche con solo un terzo dei crediti consensienti, sapendo che gli altri non subiscono danni (perché pagati). Si chiama “agevolato” perché effettivamente riduce l’asticella di consenso, ma è chiaro che può farlo solo a fronte di maggiore onere finanziario immediato per il debitore e della mancanza di protezioni (il che richiede che i creditori estranei collaborino almeno informalmente non aggredendo nel frattempo – tipicamente se sanno che a breve saranno pagati, attendono).
Accordo ad efficacia estesa: Il CCII (recependo il precedente art. 182-septies L.F. e la direttiva europea) prevede che in certi casi l’accordo possa essere esteso ai creditori finanziari dissenzienti. In particolare, l’art. 61 CCII consente, se i creditori vengono suddivisi in categorie omogenee (banche, obbligazionisti, fornitori ecc.), e se in una data categoria il 75% (o il 60% se c’è stato accesso alla composizione negoziata) di crediti ha aderito, di chiedere al Tribunale di estendere gli effetti dell’accordo anche al restante 25%/40% dissenziente di quella categoria. Questa possibilità originariamente riguardava solo le banche e gli intermediari finanziari, ma col recepimento della direttiva si è ampliata anche ad altre categorie omogenee purché di posizione giuridica equivalente. È un meccanismo di cram-down settoriale: ad esempio, se il debitore convince il 80% delle banche a una certa ristrutturazione del credito (tasso ridotto, allungamento, rinuncia a quota interessi), il giudice può imporla anche alle banche che non hanno firmato, evitando che una minoranza di banche “holdout” faccia saltare l’operazione. Tuttavia, restano esclusi dall’estensione alcuni creditori privilegiati particolari e in generale i creditori non finanziari (nell’interpretazione originaria erano solo finanziari; oggi si valuta caso per caso l’omogeneità). Anche qui, i creditori estranei (fuori da tutte le categorie o di categorie non coinvolte nell’accordo) vanno pagati integralmente.
Transazione fiscale: Un capitolo importante negli accordi è la possibilità di includere i debiti fiscali e previdenziali. Col CCII l’istituto della transazione fiscale (già noto nel concordato) è ammesso anche negli accordi di ristrutturazione (art. 63 CCII): significa che il debitore può chiedere all’Agenzia delle Entrate e all’INPS di aderire all’accordo accettando un pagamento parziale dei tributi o contributi dovuti. Se tali enti non aderiscono, il debitore può comunque ottenere l’omologazione forzata dell’accordo cram-down su di essi, ma solo nel caso di accordo ad efficacia estesa e se i crediti tributari/previdenziali rappresentano meno del 30% dei crediti totali (situazione in cui interviene l’art. 63 co.3 CCII). Fuori da questi casi, il dissenso del Fisco preclude l’omologa (ad es., in un accordo ordinario se l’Erario non firma e non viene pagato integralmente come estraneo, non si può omologare salvo attestazione che prende almeno quanto in fallimento, analogamente al concordato). La disciplina è abbastanza tecnica ma in sostanza cerca di bilanciare due esigenze: coinvolgere anche il Fisco nelle ristrutturazioni (evitando il veto assoluto) ma garantire comunque che non sia trattato peggio del dovuto.
Opposizioni e omologa: Dopo il deposito dell’accordo con tutta la documentazione (elenco completo creditori, attestazione, ecc.), i creditori non aderenti e qualsiasi interessato possono presentare opposizione in Tribunale, adducendo motivi per cui l’accordo non dovrebbe essere omologato (ad es. perché la percentuale di adesioni è calcolata male, o perché un creditore estraneo non è tutelato adeguatamente, o per ragioni di dolo/frodi). Se non vi sono opposizioni, il Tribunale può omologare direttamente. Se ci sono, fissa udienza e le discute, decidendo poi con decreto motivato. Contro il decreto di omologa o di diniego è ammesso reclamo.
Effetti: L’omologazione rende l’accordo vincolante tra le parti secondo i suoi termini. In più, scattano alcuni effetti “protettivi”: i creditori aderenti non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (sono vincolati all’attesa dei pagamenti previsti dall’accordo); i creditori estranei, se integralmente soddisfatti entro i termini, non hanno più nulla da pretendere dal debitore. Gli eventuali creditori privilegiati non aderenti (che per legge vanno pagati integralmente salvo diversa adesione) potranno comunque agire trascorsi i 120 giorni se non ricevono quanto dovuto. Inoltre, dalla pubblicazione dell’accordo omologato, si applicano norme favorevoli al debitore come la non punibilità per bancarotta preferenziale dei pagamenti eseguiti in adempimento dell’accordo e la non revocabilità di atti compiuti in esecuzione di esso (in analogia al piano attestato).
Statistiche e utilizzo pratico: Gli accordi di ristrutturazione sono stati utilizzati in diverse importanti ristrutturazioni di imprese italiane (specie medio-grandi) come alternativa al concordato, soprattutto quando c’era la possibilità di coinvolgere attivamente le banche. Ad esempio, molti accordi ex art. 182-bis sono stati conclusi nel settore immobiliare durante gli anni di crisi, dove poche banche finanziatrici detenevano la gran parte dei crediti e preferivano concordare un piano di rientro piuttosto che aprire procedure concorsuali. Si è anche visto un crescente utilizzo dell’accordo ad efficacia estesa per forzare l’accordo su tutte le banche di un pool quando la stragrande maggioranza è d’accordo e solo qualcuna resiste. La riforma 2022-2024 ha ampliato la flessibilità dell’istituto (introducendo l’accordo al 30%, quello esteso, e il PRO come ulteriore variante giudiziale). Ciò rende gli accordi estremamente adattabili: dal piccolo accordo confidenziale con pochi creditori (es: accordo agevolato con due banche, mentre gli altri debiti vengono pagati subito) fino al mega accordo multisettoriale con classi e centinaia di creditori (dove magari si preferisce direttamente optare per un concordato preventivo se i numeri sono grandi, ma in teoria possibile).
Giurisprudenza aggiornata: Il Consiglio Nazionale del Notariato ha di recente analizzato le novità apportate dal correttivo 2024 sugli accordi, evidenziando ad esempio come nell’accordo agevolato la condizione del pagamento “immediato” degli estranei implichi che tale pagamento avvenga al più tardi contestualmente all’omologazione (non sono ammessi i 120 giorni). Inoltre, sul fronte giurisprudenziale, si segnala una pronuncia del Tribunale di Milano (ottobre 2022) che, nel primo caso di accordo ad efficacia estesa, ha ritenuto legittimo imporre l’accordo a una minoranza di banche dissenzienti, considerando provato che non fossero pregiudicate rispetto all’alternativa liquidatoria. La Cassazione, dal canto suo, continua a inquadrare gli accordi di ristrutturazione come procedura concorsuale in senso ampio, confermando che il decreto di omologa ha natura assimilabile a una sentenza concorsuale (ai fini ad esempio delle impugnazioni straordinarie).
Debitore e accordo – considerazioni finali: Per un imprenditore, scegliere l’accordo di ristrutturazione significa puntare su una soluzione concordata e meno conflittuale della crisi. È indicato quando si ha il supporto convinto di alcuni creditori strategici (per esempio, le banche che da sole detengono già 60-70% dei crediti) e si vuole evitare il clamore di un concordato con chiamata di tutti i creditori. Di solito i creditori aderenti preferiscono un accordo perché hanno maggiore voce in capitolo nella negoziazione (non subiscono la decisione a maggioranza come nel concordato, ma sono essi stessi la maggioranza che decide) e perché l’iter è più rapido. Dal lato del debitore, però, c’è l’onere di negoziare individualmente con i creditori uno per uno – il che può essere faticoso e lungo. E rimane sempre il rischio di un “holdout” (creditore che non aderisce e magari ha il potere di bloccare se non pagato per intero). Pertanto spesso l’accordo funziona bene in situazioni concentrate (pochi creditori rilevanti, crisi finanziaria ma non industriale) e meno quando la massa creditoria è vasta ed eterogenea (dove conviene il concordato).
(Esempio: Gamma S.p.A. ha 10 fornitori piccoli e 3 banche importanti, debiti totali €10M. Decide un accordo 182-bis: le 3 banche (70% del debito) aderiscono accettando di ridurre i loro crediti del 20% e di trasformare la restante esposizione in un mutuo a 5 anni; i 10 fornitori (30% del debito) verranno tutti pagati integralmente entro 60 giorni dall’omologa, utilizzando la liquidità ricavata dalla vendita di un capannone. Si presenta l’accordo con attestazione, nessun fornitore si oppone (aspettano di essere pagati) e le banche ovviamente neppure (hanno firmato). Il tribunale omologa. Gamma in pochi mesi esce dalla crisi pagando i fornitori ed eseguendo il piano con le banche. Nessun annuncio pubblico di concordato, nessuna perdita di fornitori – per loro è come se nulla fosse, hanno ricevuto i loro soldi. Questa è la situazione ideale di un accordo di ristrutturazione.)
Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO)
Tra le novità più rilevanti introdotte in Italia per allinearsi alla direttiva europea sui quadri di ristrutturazione vi è il Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, abbreviato comunemente in PRO. Si tratta – come visto in panoramica – di uno strumento che si avvicina molto al concordato preventivo, ma con alcune differenze sostanziali che ne fanno una procedura autonoma, disciplinata dal Capo I-bis, art. 64-bis e seguenti CCII.
Caratteristiche: Il PRO consente al debitore (imprenditore commerciale fallibile, esclusi gli imprenditori minori) di sottoporre direttamente ai creditori un piano di ristrutturazione dei debiti suddividendo i creditori in classi omogenee e chiedendo al Tribunale di omologarlo a seguito di approvazione a maggioranza da parte delle classi stesse. In pratica, funziona molto simile a un concordato: va presentata domanda al tribunale, con un piano, una relazione attestativa di un professionista e l’indicazione delle classi di creditori e del trattamento proposto per ciascuna. Il tribunale, verificata l’ammissibilità, convoca i creditori in classi per l’espressione del voto (anche qui è possibile il voto per via telematica o scritto come nel concordato). La maggioranza richiesta è però peculiare: deve esservi il voto favorevole di tutte le classi costituite (in ciascuna deve votare sì la maggioranza in valore dei crediti votanti). Quindi, se una sola classe vota no (maggioranza contraria), il piano non può essere omologato. Questo è un elemento di rigidità rispetto al concordato preventivo: nel concordato tradizionale, se una classe vota no ma il tribunale ritiene comunque soddisfatti certi requisiti di legge, potrebbe anche forzare l’omologa (c.d. cram down interclasse previsto dall’art. 112 CCII in certe circostanze, se almeno una classe consenziente c’è). Nel PRO invece sembra richiesto il consenso di tutte le classi – in ciò appare più simile a un accordo, ma con la differenza che il consenso è espresso col meccanismo del voto in sede concorsuale e non con firma contrattuale. Questa caratteristica è stata criticata come eccessivamente stringente, ma va letta alla luce di una maggiore libertà che il PRO concede, ora vediamo quale.
La peculiarità principale del PRO è infatti la possibilità di derogare alle regole ordinarie di graduazione e par condicio tra creditori. In un concordato o accordo ordinario, il debitore deve rispettare l’ordine delle cause di prelazione (non può, ad esempio, pagare un chirografario e lasciare insoddisfatto un privilegiato di grado superiore se quest’ultimo non acconsente). Nel PRO invece, previo consenso delle classi, si può fare: il piano può prevedere distribuzioni di risorse non proporzionali e anche il debitore può trattenere per sé parte di valore in eccesso. In sostanza, la legge consente, se tutti i creditori concordano classe per classe, di violare l’art. 2740-2741 c.c. (responsabilità patrimoniale e par condicio). Ad esempio, è ipotizzabile un PRO in cui il debitore liquida tutti i beni, però i creditori chirografari accettano di ricevere solo il 50% del dovuto, lasciando l’altro 50% al debitore stesso per consentirgli di mantenere la propria abitazione o di ripartire: cosa che in un concordato liquidatorio classico sarebbe impossibile (l’attivo dovrebbe andare tutto ai creditori). Nel PRO questo può avvenire – ovviamente se i creditori stessi approvano tale trattamento, magari perché convinti che in alternativa in fallimento riceverebbero ancora meno e preferiscono “premiare” il debitore meritevole. Questa estrema flessibilità distributiva è mutuata da modelli anglosassoni (dove le classi negoziano il trattamento e possono anche acconsentire a less-than-absolute-priority). Naturalmente c’è un limite: i crediti dei lavoratori dipendenti devono essere soddisfatti integralmente entro 30 giorni dall’omologa, quindi su stipendi, TFR etc. non si transige. Per il resto, c’è ampio spazio alla creatività.
Differenze col concordato: Riassumendo, il PRO si differenzia dal concordato preventivo tradizionale principalmente perché: (1) non impone soglie minime di soddisfacimento ai creditori chirografari o privilegiati degradati, nemmeno se liquidatorio (nel concordato liquido ci sono 20% e 10% apporto); (2) consente di violare la par condicio e la regola di absolute priority con il consenso delle classi; (3) non prevede di default la nomina di un commissario giudiziale (può essere nominato dal tribunale se serve, ma non è obbligatorio se il tribunale ritiene la vigilanza non necessaria); (4) richiede l’unanimità (per classi) di fatto; (5) non genera procedura penale per bancarotta se le cose vanno male: infatti il PRO non è considerato “procedura concorsuale” ai fini penali (art. 236 CCII), quindi ad esempio gli amministratori non rischiano bancarotta semplice se poi finisce in liquidazione – dettaglio non da poco. In pratica è come se il PRO fosse un concordato su base contrattuale: tutti devono essere d’accordo, in cambio il debitore ha carta bianca su come disegnare il piano.
Applicazioni pratiche: Il PRO è stato introdotto col D.Lgs. 83/2022 (in vigore da novembre 2022) e quindi è nuovo. Le prime applicazioni giurisprudenziali (2023) hanno riguardato casi dove magari solo una classe era presente (es. tutti chirografari) – qui il PRO diventa quasi identico a un accordo di ristrutturazione. In altri casi con più classi, ha consentito di superare rigidità: ad esempio un Tribunale ha omologato un PRO in cui i soci immettevano finanza fresca e concordavano con i creditori di riprendersi in cambio una parte dei ricavi futuri dell’azienda – cosa difficilmente inquadrabile in un concordato ordinario.
Va detto che la necessità di voto favorevole di tutte le classi rende il PRO vulnerabile a piccoli dissensi. Se c’è rischio di una classe ostile, forse conviene un concordato classico con sperare nel cram-down di tribunale (se almeno un’altra classe approva). Il PRO appare quindi calibrato per situazioni dove il debitore ha bisogno di flessibilità massima e i creditori sono complessivamente d’accordo sulla manovra, ma occorre la formalità di un’omologazione per renderla vincolante e protetta.
Dal punto di vista dell’imprenditore, il PRO è un’opportunità interessante perché: se riesce a convincere tutte le classi, può letteralmente scrivere le regole a suo favore (esempio estremo: trattenere un asset per sé, pagare in modo differenziato i creditori, ecc.) – cosa che altrove non potrebbe fare. In più, non avere i vincoli penali e certi costi di procedura (commissario) è un sollievo. D’altra parte, costruire un PRO è operazione molto sofisticata: serve trattare con i creditori quasi come per un accordo stragiudiziale, prima di presentare il piano, per assicurarsi che voteranno sì. Di solito infatti il debitore presenterà il PRO già con il sostegno dei maggiori creditori (magari frutto di una composizione negoziata precedente, tant’è che spesso si abbina).
Integrazione con altri istituti: Il CCII consente di convertire un concordato preventivo pendente in un PRO o viceversa, se durante la procedura le cose cambiano (art. 90 CCII). Questo è pensato per dare flessibilità: se in un concordato classico tutte le classi erano consenzienti e si poteva dare qualcosa in più al debitore, allora conviene passare a PRO; se in un PRO una classe improvvisamente crea problemi, forse conviene “declassare” a concordato e provare il cram-down. Insomma, è un ventaglio di possibilità.
Conclusione: Il PRO rappresenta il tentativo italiano di dotarsi di un “scheme of arrangement” o accordo di ristrutturazione giudiziale moderno. Il debitore ne trae vantaggio se ha leva negoziale con i creditori (perché li convince tutti), altrimenti rischia di essere uno strumento poco utile. Comunque, la sua presenza nell’ordinamento dà un ulteriore segnale di favor verso la ristrutturazione consensuale: in qualche modo, spinge debitore e creditori a trovare un accordo sostenuto dal tribunale ma cucito su misura da loro stessi.
(Esempio: Delta S.r.l. ha 2 classi di creditori: una banca garantita (privilegiata) e vari fornitori chirografari. Debiti totali €1M. L’attivo di Delta se liquidato sarebbe €600k. Nel PRO, Delta propone: vendiamo tutto, ricaviamo €600k; di questi, €400k andranno alla banca (che ha credito €500k, dunque prende l’80%) e €100k andranno ai fornitori (che hanno credito €500k, dunque prendono il 20%); i restanti €100k li teniamo noi soci per finanziare una nuova start-up e come incentivo a ristrutturare. Normalmente i fornitori avrebbero diritto residuale a €100k su 500k (20%) in fallimento – qui ottengono uguale 20%; la banca avrebbe preso probabilmente €500k su 500k essendo garantita dall’attivo? Dipende, ma qui accetta una falcidia perché i soci l’hanno convinta che con 80% ora recupera più in fretta e senza spese, etc., inoltre i soci magari gli danno un micro-equity nella nuova start-up. Tutti votano a favore nelle due classi. Il tribunale omologa: non c’è violazione di par condicio perché la legge lo consente essendo tutti d’accordo. I fornitori non obiettano che la banca prenda più di loro perché comunque quello è il massimo ricavato possibile; la banca consente ai soci di tenere 100k perché vede un vantaggio reputazionale o extraconcorsuale. Ecco un PRO atipico andato a buon fine.)
Il Concordato preventivo
Il concordato preventivo è probabilmente lo strumento più conosciuto (anche mediaticamente) di composizione della crisi d’impresa. Esso esiste da molti decenni nell’ordinamento italiano, ma il CCII lo ha in parte rivisitato. Per il debitore, il concordato preventivo rappresenta la possibilità di evitare la dichiarazione di fallimento attraverso una procedura giudiziale concorsuale in cui propone formalmente ai creditori un soddisfacimento, in forma transattiva, dei loro crediti. Se la maggioranza dei creditori accetta la proposta e il tribunale la giudica conforme alla legge, il concordato viene omologato e si attua, liberando l’imprenditore dall’insolvenza e dai debiti residui.
Tipologie: Il CCII distingue principalmente due forme:
- il concordato in continuità aziendale (art. 84 co.2 CCII), quando il piano prevede la prosecuzione dell’attività in capo al debitore stesso oppure mediante cessione o conferimento dell’azienda ad un soggetto terzo che la continui. La continuità può essere “diretta” (stessa azienda/debitore che prosegue) o “indiretta” (la continuità è assicurata da un acquirente o affittuario dell’azienda). Questo concordato privilegia la salvaguardia dei valori produttivi e dei posti di lavoro: i creditori vengono soddisfatti progressivamente con i flussi generati dall’impresa in esercizio.
- il concordato liquidatorio (art. 84 co.3 CCII), quando il piano prevede invece la mera liquidazione del patrimonio del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza mantenere in vita l’azienda. È di fatto una liquidazione volontaria sotto controllo del tribunale, ma con la differenza rispetto al fallimento che è proposta e gestita dal debitore stesso e gli consente di ottenere l’esdebitazione immediatamente all’omologa (per l’imprenditore individuale) anziché dover aspettare la fine della procedura.
Condizioni di ammissibilità: Il concordato può essere chiesto dall’imprenditore in proprio quando si trova in stato di crisi o insolvenza. Va depositata una domanda corredata dal piano, dalla proposta, dai documenti contabili e dalla relazione di un attestatore indipendente che certifichi veridicità dei dati aziendali e fattibilità del piano (art. 87 CCII). È ammessa anche la domanda “in bianco” (concordato con riserva, art. 44 CCII) ove l’imprenditore presenta solo la richiesta per ottenere subito protezione e poi entro 60-120 giorni deposita il piano dettagliato. Il tribunale, ricevuta la domanda (completa), se la ritiene ammissibile emette un decreto di apertura del concordato, nomina un commissario giudiziale (figura di controllo che monitorerà la gestione e riferirà ai creditori e al giudice) e fissa l’adunanza dei creditori per il voto.
- Requisiti speciali: Se il concordato è liquidatorio, la legge impone che la proposta garantisca ai creditori chirografari (non privilegiati) il pagamento di almeno il 20% dei loro crediti, salvo che tutti i creditori rinuncino a questa soglia. Inoltre deve esserci un apporto di risorse esterne (denaro o beni nuovi immessi dal debitore o da terzi) tale da aumentare di almeno il 10% l’attivo da distribuire. Queste soglie servono a evitare concordati liquidatori “troppo poveri” e senza sacrifici del debitore, che sarebbero sostanzialmente dei fallimenti mascherati. Se tali soglie non sono rispettate, il tribunale non ammette il concordato (salvo il caso del concordato semplificato post-negoziazione, che come detto è un’eccezione a queste regole).
- Nel concordato in continuità, invece, non vi è soglia di pagamento minimo generalizzata (si presume che la continuità dia comunque più valore ai creditori di una liquidazione). Ma vi sono obblighi di mantenere l’azienda in esercizio, e se la continuità è indiretta (cioè vendita dell’azienda), bisogna avere un’offerta vincolante prima dell’omologa. Inoltre, nel concordato in continuità il CCII ha integrato le previsioni della direttiva insolvency: ad esempio, è possibile per il debitore ottenere finanziamenti interinali o funzionali alla continuità con la priorità di rimborso (finanza prededucibile) con autorizzazione del tribunale; è possibile, con autorizzazione, pagare fornitori essenziali prima dell’omologa per assicurare la prosecuzione (c.d. critical vendors).
Classi e voto: Il debitore può suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi omogenei (obbligatorio se vuol trattare diversamente creditori di grado uguale, o se ci sono creditori con garanzie sub-valore). Ogni classe vota separatamente sull’accettazione del concordato. La regola è che il concordato è approvato se viene raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe (maggioranza semplice >50% in valore) oppure, se le classi non sono previste, se ottiene il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi complessivamente (stesso quorum >50%). I creditori privilegiati di solito non votano se sono soddisfatti integralmente; votano invece se il piano prevede di non pagarli al 100% (devono accettare la falcidia). I crediti pubblici (Erario, INPS) votano anch’essi se oggetto di stralcio (transazione fiscale nel concordato). Cram-down interclassi: se una classe vota contro ma il concordato è approvato da altre classi che rappresentano la maggioranza dei crediti e quella dissenziente viene comunque soddisfatta in misura non inferiore al valore di liquidazione, il tribunale può ugualmente omologare il concordato (superando quindi il dissenso di quella classe). Questa regola, introdotta con il CCII (art. 112), attua parzialmente la direttiva e impedisce che una classe “irrilevante” possa bloccare tutto: serve però che almeno un’altra classe di pari rango abbia detto sì e che i dissenzienti siano trattati in modo equo. Ad esempio, se la classe chirografari ha detto sì al 40%, la classe privilegiati degradati (se esiste) ha detto no, ma questi degradati comunque prendono in concordato tanto quanto prenderebbero in fallimento, il tribunale potrebbe omologare lo stesso. Il tema è tecnico ma in sostanza c’è un certo margine per il giudice di imporre il concordato a una minoranza, se è nell’interesse di tutti.
Omologazione: Dopo il voto, se la proposta è stata approvata dalle maggioranze richieste, il tribunale fissa udienza per l’omologazione. I creditori dissenzienti o rimasti estranei possono fare opposizione sollevando contestazioni (es: contestare la fattibilità del piano, la regolarità del voto, o lamentare lesione del loro trattamento). Il tribunale valuta tutto e, se ritiene il piano conforme alla legge, fattibile e conveniente per i creditori (nel senso che il ricavato promesso è almeno quanto otterrebbero nella liquidazione giudiziale), emette decreto di omologa. Da quel momento il concordato diviene obbligatorio per tutti i creditori anteriori (anche per chi ha votato contro o non ha votato) e il debitore deve eseguire il piano sotto la vigilanza degli organi nominati (commissario o eventuale liquidatore se previsto dal piano). Se invece le maggioranze non sono raggiunte o il tribunale nega l’omologa, di regola dichiara il fallimento (liquidazione giudiziale) del debitore su istanza dei creditori.
Effetti per il debitore: L’apertura del concordato comporta immediatamente la tutela del patrimonio: per legge (art. 54 CCII) dal deposito della domanda e poi con il decreto di apertura, i creditori per crediti anteriori non possono iniziare né proseguire azioni esecutive o cautelari, i giudizi pendenti vengono sospesi, ecc. L’impresa può continuare la gestione ordinaria; per gli atti straordinari però serve l’autorizzazione del giudice (e il parere del commissario giudiziale). Il debitore conserva l’amministrazione dei beni (non c’è spossessamento come nel fallimento), ma sotto osservazione. Una volta omologato e completato il piano, il debitore persona fisica è liberato dai debiti residui secondo quanto previsto (esdebitazione di diritto per i chirografari soddisfatti parzialmente). Per le società, il concordato chiude la procedura e consente di proseguire l’attività se in continuità, oppure di estinguersi se il piano ne prevedeva lo scioglimento post-liquidazione.
Aggiornamenti giurisprudenziali: La Suprema Corte negli ultimi anni ha prodotto molte pronunce in tema di concordato. Ad esempio, Cass. 8500/2021 (SS.UU.) ha definitivamente chiarito che il giudice non può sindacare la fattibilità economica del piano (se i creditori lo accettano, il giudice non deve entrare nel merito delle scelte imprenditoriali), potendo però valutare la fattibilità giuridica (ossia l’assenza di violazioni di legge). Ciò significa che non è compito del tribunale dire se il piano di risanamento “funzionerà” o meno dal punto di vista economico, ma solo verificare che sia stato fornito ai creditori un quadro informativo completo per decidere. Un’altra pronuncia (Cass. 17186/2023) ha ribadito che nel concordato in continuità l’azienda deve essere effettivamente in esercizio al momento della domanda – altrimenti non si può proporre come continuità un’azienda già ferma (in tal caso sarebbe un liquidatorio mascherato, non ammesso).
È stata affrontata anche la questione del patto di compensazione: Cass. 09/10/2023 n.28232 ha ritenuto che in concordato, se vige un patto di compensazione tra banca e correntista, la banca può operare la compensazione anche durante il concordato preventivo, in quanto quei crediti e debiti traggono origine da un unico rapporto negoziale e non viola la par condicio. Insomma, molti aspetti tecnici vengono continuamente chiariti dalla Cassazione man mano che il CCII viene applicato.
Il concordato preventivo nella percezione comune: Per il debitore, chiedere un concordato preventivo è un passo serio e impegnativo: significa ammettere pubblicamente la crisi, sottoporsi a controllo giudiziario e all’esame di tutti i creditori, ed è spesso vissuto come ultima chance prima del fallimento. Tuttavia, con la riforma c’è stato un cambio di paradigma: oggi si cerca di considerare il concordato (specie quello in continuità) non come un fallimento ritardato, ma come uno strumento ordinario di ristrutturazione, al pari delle procedure di altri paesi (si pensi al Chapter 11 statunitense). Il successo di un concordato in continuità (con l’azienda salvata) è un esito win-win: l’imprenditore mantiene l’attività (pur ridimensionata magari), i creditori ottengono spesso più di quanto avrebbero preso in liquidazione, i dipendenti conservano il lavoro. Non a caso, il Codice prevede anche incentivi fiscali: ad esempio, i creditori che aderiscono a concordati e accordi possono recuperare l’IVA sui crediti stralciati subito all’omologa, senza attendere invano (art. 88 TUIR menzionato in art. 25-bis CCII).
(Esempio: Epsilon S.p.A., catena di negozi, ha debiti 5 milioni e attività che se liquidate frutterebbero forse 2 milioni. Propone un concordato in continuità: chiude alcuni punti vendita non redditizi, mantiene i 5 migliori; i creditori chirografari riceveranno il 30% dei loro crediti in 4 anni, pagato coi flussi di cassa futuri; i creditori privilegiati (banche con ipoteca) verranno pagati integralmente ma dilazionato in 8 anni; i soci rinunciano a crediti verso la società e conferiscono altri 200k euro; un nuovo investitore entra nel capitale con 500k. Il piano viene votato e approvato dall’80% dei crediti. L’omologa arriva e per i successivi 4 anni Epsilon esegue i pagamenti secondo il piano sotto vigilanza del commissario. Dopo 4 anni, Epsilon ha ridotto il debito, consolidato il business profittevole ed esce dalla procedura. Se non avesse tentato il concordato, molto probabilmente sarebbe fallita e i creditori avrebbero preso forse il 10-15%. Invece grazie al concordato c’è stata continuità aziendale e un recupero migliore per tutti.)
Il concordato minore (procedura da sovraindebitamento)
Come già anticipato nella panoramica, il concordato minore è la procedura concorsuale semplificata riservata ai debitori non fallibili (professionisti, ditte sotto soglia, imprenditori agricoli, start-up, consumatori con debiti “professionali” ecc.). È regolato dagli artt. 74-83 CCII e di fatto ricalca la struttura di un concordato preventivo ma con alcune importanti differenze volte a renderlo più accessibile e veloce.
Chi può accedere: Tutti i soggetti definiti “non assoggettabili a liquidazione giudiziale” (ex art. 1 c.1 lett. c) CCII), purché in stato di crisi o insolvenza. Tipicamente: l’imprenditore commerciale sotto le soglie di fallibilità (cioè <€300k attivo, <€200k ricavi, <€500k debiti), l’imprenditore agricolo a prescindere dalle dimensioni (che per legge non fallisce), il professionista, l’associazione, la start-up innovativa ecc. Anche il consumatore può accedere al concordato minore, ma solo se ha anche debiti di natura professionale o d’impresa che escludono il puro piano del consumatore – in tal caso è un debitore “promiscuo” che viene trattato come imprenditore minore. Per queste figure, il concordato minore è lo strumento per proporre ai creditori una soluzione concorsuale evitando la liquidazione controllata.
Condizioni: La proposta può prevedere sia la continuazione dell’attività (se il debitore ne ha una) sia la liquidazione di alcuni beni. Ad esempio, un artigiano potrebbe proporre di continuare la bottega e pagare i creditori in 5 anni coi proventi futuri, oppure vendere un macchinario e pagare tutti parzialmente. Importante, come per il piano del consumatore, è valutata la meritevolezza: il debitore non deve aver causato la crisi con colpa grave, malafede o frodi. Se emergono atti in frode, il concordato minore può essere rigettato.
Quorum di adesione: Serve il voto favorevole dei creditori che rappresentano almeno il 50% dei crediti totali. Quindi maggioranza semplice (non qualificata come era in passato al 60%). Questo quorum si calcola sul totale dei crediti ammessi al voto (esclusi eventuali privilegiati soddisfatti integralmente, che non votano). Non si fa di solito la suddivisione in classi (tranne casi eccezionali di tipologie differenti di creditori, ma nella prassi raramente i sovraindebitati hanno decine di creditori tali da dover creare classi). Il meccanismo di voto è semplificato: spesso avviene in forma scritta o con modalità telematiche, ed è gestito dall’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) che è di supporto. Se la maggioranza (metà del debito) dice sì, il piano è approvato.
Ruolo dell’OCC: L’OCC è un organo (di norma istituito presso gli Ordini professionali o enti pubblici) preposto ad assistere il debitore sovraindebitato. Viene nominato dal giudice all’apertura della procedura un gestore della crisi (spesso un commercialista dell’elenco OCC) che funge da commissario giudiziale. Aiuta il debitore a predisporre il piano, raccoglie le adesioni, verifica l’elenco creditori e prepara una relazione di attestazione della fattibilità e sulla condotta del debitore (analoga a quella dell’attestatore nel concordato). L’OCC è quindi fondamentale e fa da tramite col tribunale.
Omologazione e possibili opposizioni: Se la maggioranza c’è, il tribunale procede all’omologazione, salvo eventuali opposizioni di creditori dissenzienti. Un creditore dissenziente può lamentare ad es. che il piano lo danneggia rispetto a un’alternativa liquidatoria. In tal caso il giudice valuta: se il piano assicurà al dissenziente almeno quanto avrebbe ottenuto dalla liquidazione del patrimonio del debitore, può comunque omologarlo nonostante il suo dissenso (questo è il cram-down previsto dall’art. 80 CCII per sovraindebitamento, simile a quello del concordato preventivo) – incluso il cram-down sul Fisco: il tribunale può omologare anche senza l’adesione dell’Erario se i tributi sono trattati almeno quanto il realizzo da liquidazione. Dunque non c’è diritto di veto per nessuno, minoranze incluse, se la proposta è equa. Se invece emergono frodi o il piano è manifestamente non fattibile, l’omologa è negata e su istanza può aprirsi la liquidazione controllata.
Effetti dell’omologa: Il concordato minore omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori, anche quelli che non hanno aderito. Il debitore deve eseguire il piano sotto la sorveglianza dell’OCC (che può essere nominato liquidatore per eventuali beni da vendere). Al termine, se ha adempiuto correttamente la percentuale prevista, ottiene l’esdebitazione del restante. Se invece il debitore non rispetta gli impegni, su segnalazione dell’OCC il tribunale può risolvere il concordato e aprire la liquidazione controllata (con però l’ovvia conseguenza che il debitore perde i benefici e i creditori torneranno per quanto possibile a rivalersi sul patrimonio residuo).
Differenze rispetto al piano del consumatore: Il concordato minore si distingue dal piano del consumatore perché qui i creditori votano. Quindi c’è un aspetto negoziale/collettivo. Nel piano del consumatore decide tutto il giudice, i creditori sono passivi (possono solo eventualmente comparire per fare osservazioni). Nel concordato minore invece i creditori hanno voce e spesso c’è interazione: magari il debitore, tramite OCC, tratta con la maggioranza per farsi sostenere la proposta. Inoltre, il concordato minore – a differenza del piano del consumatore – può riguardare anche soggetti non persone fisiche (società semplici, associazioni, ecc.), quindi ha uno spettro più ampio.
Un esempio tipico: piccolo imprenditore individuale con debiti 200k (fornitori, banche, fisco) e patrimonio modesto. Propone: vendo il magazzino beni (valore 50k) e vi do subito quello, il resto dei crediti ve lo pago al 40% in 4 anni col mio reddito da lavoro, altrimenti se mi liquidate forzatamente prendereste 25k. I creditori, valutato che la proposta del 40% è meglio di niente, accettano (poniamo l’adesione arriva al 60% dei crediti). Il giudice omologa. Il debitore paga regolarmente il 40%; alla fine ottiene la cancellazione del residuo 60%. Ha evitato pignoramenti e magari salvato l’abitazione se era fuori dal piano (nel concordato minore si può anche prevedere che certi beni non essenziali non vengano toccati – i creditori accettano perché preferiscono prendere un 40% e lasciare al debitore la casa, piuttosto che costringere a vendere casa e magari prendere il 50% ma dopo anni di aste).
Giurisprudenza: Essendo derivato dalla vecchia legge 3/2012, molta giurisprudenza di legittimità su quell’ambito continua a valere. Ad esempio, Cass. 18609/2022 ha stabilito che l’accordo (concordato minore) può includere anche debiti futuri se determinabili, e che i soci illimitatamente responsabili possono essere parte della procedura. Recentemente, una pronuncia del Tribunale di Napoli (gennaio 2025) ha per la prima volta omologato un piano del consumatore con debiti misti, grazie al “Correttivo Ter” del 2024 che ha chiarito come gestire le posizioni promiscue: in pratica, un ex artigiano con debiti per attrezzi (professionali) e debiti personali, ha potuto presentare due piani congiunti, uno come consumatore per la parte personale e uno come concordato minore per la parte professionale, in un unico procedimento coordinato. Ciò denota la tendenza a interpretare in modo elastico le norme per favorire soluzioni integrate e non spezzettare la crisi del soggetto.
In sintesi, dal punto di vista di un piccolo debitore, il concordato minore è uno strumento potentissimo perché permette anche a chi non ha risorse per pagare integralmente i creditori di trovare un compromesso collettivo, ottenendo uno sconto significativo del debito e ripartendo. Non va abusato: richiede buona fede e trasparenza (chi ha frodato i creditori non può aspettarsi di farla franca con un concordato minore), ma per il debitore onesto in difficoltà è un’ancora di salvezza spesso preferibile alla liquidazione.
(Esempio reale: un coltivatore diretto con debiti verso fornitori agrari e banca propone un concordato minore: cede un trattore non indispensabile e con quel ricavato offre il 30% sui debiti, da pagarsi in 2 anni. I creditori sanno che se lo portano in liquidazione, tra esenzioni di legge e scarsa liquidità otterrebbero forse il 10%. Quindi approvano. Il giudice omologa. L’agricoltore mantiene il terreno e continua l’attività senza l’assillo dei debiti pregressi, pagando il 30% pattuito. I creditori incassano più di quanto avrebbero altrimenti, senza dover inseguire un’esecuzione individuale incerta. Tutti escono ragionevolmente soddisfatti.)
Liquidazione giudiziale e Liquidazione controllata – aspetti comparati
Abbiamo già descritto singolarmente la liquidazione giudiziale (ex fallimento) per i soggetti fallibili e la liquidazione controllata per i non fallibili. Qui riassumiamo le differenze chiave e le implicazioni per il debitore, per completezza:
- Chi la subisce: La liquidazione giudiziale colpisce le imprese commerciali sopra soglia in stato di insolvenza, su iniziativa di creditori o anche del debitore (che però raramente chiede di essere “fallito”, salvo in casi di scelta strategica per evitare responsabilità). La liquidazione controllata è di solito volontaria (il debitore sovraindebitato la chiede perché non vede alternative), anche se i creditori possono sollecitare la conversione di un piano fallito in liquidazione controllata. Dunque, paradossalmente, la procedura liquidatoria è spesso scelta dal piccolo debitore come male minore, mentre è subita controvoglia dal grande debitore.
- Organi: In liquidazione giudiziale c’è un curatore, un giudice delegato, un comitato dei creditori; in liquidazione controllata c’è un liquidatore (spesso l’OCC), un giudice ma procedure più snelle (spesso niente comitato creditori perché pochi creditori). Per il debitore persona fisica, entrambe prevedono poi l’istanza di esdebitazione finale (ma nel CCII quella del sovraindebitato è automatica).
- Effetti personali: La sentenza di liquidazione giudiziale comporta per il debitore imprenditore una serie di incapacità (non può stare in società, perde l’amministrazione beni, se persona fisica subisce possibili restrizioni come il ritiro del passaporto ecc.). La liquidazione controllata pure comporta la perdita dell’amministrazione dei beni (anche il privato cede gestione all’OCC) ma in modo meno stigmatizzante – non c’è iscrizione nel casellario giudiziale, ad esempio, mentre la dichiarazione di fallimento sì aveva implicazioni. Il CCII elimina comunque il disonore del termine fallito.
- Durata: Fallimenti complessi possono durare molti anni. Il Codice cerca di chiuderli entro 3-5 anni ma non è tassativo. La liquidazione controllata ha per legge un orizzonte di 3 anni massimo, dopo di ché comunque il debitore esce esdebitato (ciò crea un forte incentivo a sbrigarsi per il liquidatore).
- Esdebitazione: Nel fallimento, l’imprenditore persona fisica deve chiedere l’esdebitazione a fine procedura (ora unificata nella procedura, ma può essergli negata se non ha collaborato lealmente o se ha commesso irregolarità gravi). Nel sovraindebitamento, come detto, l’esdebitazione è ex lege e c’è addirittura quella immediata per incapienti.
Per un debitore, finire in liquidazione giudiziale significa aver perso la partita: l’azienda è spazzata via e se persona fisica rischia di essere perseguitato dai residui debiti (anche se c’è l’esdebitazione possibile). Finire in liquidazione controllata è un po’ meno traumatizzante: è spesso una scelta consapevole di “vendere tutto e chiudere”, con la prospettiva certa di pulire i debiti dopo poco. In entrambi i casi comunque il patrimonio viene aggredito e dunque sono procedure da evitare se c’è una benché minima speranza di soluzione alternativa.
Domande frequenti (FAQ)
D: Qual è la differenza tra “crisi” e “insolvenza” ai fini delle procedure?
R: Il Codice definisce stato di crisi una situazione di difficoltà in cui l’insolvenza non si è ancora manifestata ma è probabile in futuro (tipicamente insufficienza prospettica di liquidità). L’insolvenza invece è l’incapacità ormai attuale di pagare regolarmente i propri debiti, evidenziata da inadempimenti o altri fatti esteriori. La distinzione è importante perché alcuni strumenti si attivano già in fase di “crisi” (es. composizione negoziata, misure di allerta interne), mentre le procedure concorsuali giudiziali richiedono spesso l’insolvenza conclamata (es. liquidazione giudiziale) o almeno lo stato di crisi qualificata (concordato). In pratica: crisi = difficoltà incipiente, insolvenza = fallimento imminente o in atto.
D: Un imprenditore piccolo può accedere al concordato preventivo ordinario?
R: No, se l’imprenditore rientra tra i “non fallibili” (imprenditore commerciale sotto soglie di legge, imprenditore agricolo, ecc.), non può essere ammesso al concordato preventivo tradizionale né subire fallimento. Per lui il Codice prevede le procedure di sovraindebitamento, in particolare il concordato minore che è l’equivalente su misura (con quorum del 50% e iter semplificato). Ad esempio, un artigiano individuale con 100 mila euro di debiti userà il concordato minore, non il concordato preventivo. Viceversa, un imprenditore “sopra soglia” deve usare concordato preventivo (o accordi di ristrutturazione) – per definizione non può accedere al concordato minore riservato ai piccoli.
D: Se ho sia debiti personali che da attività d’impresa, posso fare il piano del consumatore?
R: No, il piano del consumatore puro è riservato a chi ha debiti “da consumatore” cioè contratti per scopi estranei ad attività imprenditoriali o professionali. Chi ha una situazione mista (es. un professionista che ha debiti per l’attività e debiti personali) dovrà probabilmente ricorrere al concordato minore, che copre tutto. La Cassazione ha chiarito che la qualifica di “consumatore” dipende dalla natura dei debiti: se prevalgono quelli d’impresa, non si può chiedere un piano come consumatore. Tuttavia, recenti correttivi consentono in alcuni casi di presentare una procedura unificata dove coesistono un piano per la parte consumer e un concordato minore per la parte business, ma si tratta di soluzioni innovative adottate dalla giurisprudenza più recente. In generale, chiunque abbia anche solo una piccola partita IVA di solito viene instradato verso il concordato minore/accordo di ristrutturazione dei debiti.
D: Che vantaggi ha la composizione negoziata rispetto a fare subito un concordato preventivo?
R: La composizione negoziata è volontaria, riservata (non iscrive la crisi nei registri ufficiali se non si vogliono misure protettive) e consente di tentare un risanamento senza le formalità di una procedura concorsuale, mantenendo pieno controllo dell’azienda. Si può ottenere un congelamento temporaneo delle azioni dei creditori e trattare nuovi accordi assistiti da un esperto. In caso di esito positivo, si può evitare del tutto il tribunale (se si raggiunge un accordo stragiudiziale) oppure approdare a un concordato “già cucito” con elevate chance di approvazione. In pratica è un tentativo a costo relativamente basso e reversibile: se fallisce, si è sempre in tempo a fare un concordato preventivo o altra procedura, con anche il vantaggio di aver approfondito i numeri con l’esperto. Entrare subito in concordato preventivo invece significa pubblicità immediata (che può allarmare fornitori e banche), costi elevati (commissari, burocrazia) e nessuna garanzia che i creditori approvino. Quindi, la composizione negoziata può essere vista come un pre-concordato consensuale: proviamo in bonis a trovare intesa, se non riesce c’è sempre il piano B (concordato). Va detto però che se l’insolvenza è già conclamata e grave, la composizione negoziata potrebbe rivelarsi una mera perdita di tempo – in quei casi conviene attivare direttamente la procedura concorsuale per bloccare i creditori con certezza.
D: Cos’è il concordato “in bianco” o “prenotativo” e quando conviene usarlo?
R: Il concordato con riserva (cosiddetto “in bianco”) è la facoltà per il debitore di depositare un ricorso di concordato senza allegare subito il piano dettagliato, ottenendo però immediatamente le protezioni (automatic stay). Deve poi depositare piano, proposta e documenti entro un termine (di solito 60-120 giorni). È utile quando l’imprenditore si rende conto di dover entrare in concordato per bloccare i creditori (ad esempio sta per esserci un’asta immobiliare, o i fornitori minacciano azioni), ma non ha ancora pronto il piano completo. Presentando la domanda in bianco, “prenota” il concordato e ferma il tempo, potendo continuare l’attività e predisporre con calma la proposta. Durante questo periodo il tribunale può nominare un commissario “monitor” e imporre obblighi (tipo riferire su atti di gestione). È uno strumento molto usato per guadagnare tempo ed evitare iniziative aggressive. Ovviamente non può diventare un modo per procrastinare all’infinito: se il piano poi non arriva o è irricevibile, si torna al punto di partenza (anzi peggio, perché magari i creditori sono ancora più aggressivi). Dunque conviene usarlo se si è effettivamente intenzionati e quasi pronti a un concordato, ma serve solo un po’ di respiro per finalizzare dettagli o ottenere l’assenso di qualche creditore chiave.
D: L’Agenzia delle Entrate o altri enti pubblici possono bocciare da soli un accordo o concordato?
R: Storicamente il Fisco aveva spesso un potere di veto, perché non poteva essere obbligato ad accettare falcidie di tributi senza il suo consenso. Oggi la situazione è cambiata: sia nel concordato sia negli accordi, se l’Erario (o l’INPS) rifiuta la proposta ma un esperto indipendente attesta che la proposta di pagamento verso di loro è almeno pari a quanto incasserebbero in caso di fallimento, il tribunale può omologare anche contro il parere dell’ente. Questo è il cosiddetto cram-down fiscale. Quindi l’Agenzia Entrate non ha più veto assoluto. Tuttavia, bisogna soddisfare quella condizione (offrire almeno il valore di liquidazione) – il che spesso nei fatti significa offrire qualcosa, non zero. Inoltre, per i tributi IVA e ritenute la legge vieta comunque di non pagarne almeno il 20% (non si può azzerare l’IVA totalmente). Negli accordi di ristrutturazione, la transazione fiscale è ammessa solo se l’accordo viene omologato, e anche lì l’ente dissenziente può essere bypassato entro certi limiti. Quindi, in sintesi: il voto contrario del Fisco può essere superato dal giudice in molte circostanze, per evitare irrazionali bocciature. Restano però casi in cui l’ente può opporsi validamente – ad esempio se la proposta è troppo bassa rispetto al dovuto e un perito dice che in fallimento incasserebbe di più (magari perché ci sono asset capienti), allora l’opposizione del Fisco farà fallire la proposta.
D: Cosa succede se il debitore non rispetta il piano concordatario o l’accordo?
R: Se un concordato preventivo omologato non viene eseguito regolarmente, qualsiasi creditore può chiedere la risoluzione del concordato (art. 121 CCII). Il tribunale, verificato l’inadempimento (deve essere grave, almeno il 10% di mancato pagamento), dichiara risolto il concordato – il che di norma porta all’apertura della liquidazione giudiziale (fallimento) del debitore. Il debitore quindi perde i benefici e i creditori tornano a rivalersi sul patrimonio residuo, tenendo conto di quanto eventualmente già incassato in concordato. Anche per gli accordi di ristrutturazione, se il debitore non paga i creditori estranei nei 120 giorni o non rispetta i termini verso gli aderenti, i creditori possono farne dichiarare la risoluzione (l’accordo omologato è come un contratto, e l’inadempimento fa venir meno gli effetti protettivi, consentendo ad esempio ai creditori estranei di attivarsi). In tal caso spesso si finisce comunque in fallimento, a meno che il debitore non corra subito ai ripari con un nuovo concordato o altro. Per il concordato minore e le procedure di sovraindebitamento, vale simile: l’OCC segnala l’inadempimento e il giudice può dichiarare risolto l’accordo/concordato minore, aprendo la liquidazione controllata. Quindi per il debitore è fondamentale proporre piani realistici e sostenibili: se promette troppo e poi non riesce a mantenere, torna al punto di partenza (anzi, peggio, perché avrà perso tempo e magari venduto già dei beni). Va detto che il Codice consente anche modifiche dei piani in corso d’opera con l’accordo dei creditori, proprio per evitare risoluzioni: se sopravviene un imprevisto (si pensi al Covid durante un concordato in corso), il debitore può chiedere al giudice di modificare i termini con nuova votazione, invece di fallire direttamente. Ad esempio, DL 118/2021 ha introdotto norme transitorie per rimodulare concordati omologati colpiti dalla pandemia.
D: Quali sono le novità più recenti (2024-2025) che un avvocato deve sapere in materia di crisi?
R: Oltre all’entrata in vigore del Codice nel 2022, ci sono stati due interventi correttivi importanti: il D.Lgs. 83/2022 (attuativo direttiva UE) e il D.Lgs. 136/2024 (“Correttivo ter”). Questi hanno introdotto:
- il PRO (piano di ristrutturazione omologato) già discusso,
- l’accordo agevolato al 30% e l’accordo esteso al 75%,
- il concordato semplificato post-negotiation (che prima non c’era affatto nella vecchia legge),
- hanno semplificato l’accesso all’esdebitazione per il fallito (ora quasi automatica) e formalizzato l’esdebitazione del debitore incapiente nel 2020/2021,
- hanno modificato la transazione fiscale (ora con cram-down del dissenso),
- e reso permanenti alcuni strumenti introdotti temporaneamente (come la composizione negoziata stessa). Inoltre, dal 15 luglio 2022 sono scattati gli obblighi di assetti organizzativi adeguati per le imprese ex art. 3 CCII: l’organo amministrativo deve attrezzarsi per monitorare la crisi (indici, segnali). Sul fronte giurisprudenziale, notiamo pronunce di merito che applicano le nuove norme: es. il Tribunale di Milano a fine 2023 ha applicato per la prima volta il cross-class cram down di cui all’art. 112 CCII, omologando un concordato nonostante il voto contrario di una classe di chirografari, poiché un’altra classe di chirografari l’aveva approvato e i dissenzienti erano comunque trattati in modo non deteriore rispetto alla liquidazione (caso innovativo perché in passato bastava il no di una classe chirografaria per bloccare). Anche la Cassazione 2024 n.34158 ha chiarito aspetti sul piano del consumatore riguardo la moratoria dei pagamenti di alcuni crediti (stabilendo che è ammissibile inserire nel piano una moratoria di 6-12 mesi per i creditori se serve a migliorarne la soddisfazione). Insomma, è un cantiere ancora in evoluzione: gli operatori del diritto devono tenere d’occhio sia le fonti normative secondarie (Linee guida del CNDCEC, decreti ministeriali come quello sugli indicatori della crisi aggiornato a 2023) sia le sentenze pilota dei tribunali specializzati in crisi d’impresa.
D: Dal punto di vista del debitore, quali sono i fattori critici di successo per superare la crisi con questi strumenti?
R: Innanzitutto tempestività: rivolgersi agli strumenti prima che la situazione sia irrecuperabile. Molte imprese falliscono perché attendono troppo. Il CCII spinge gli amministratori ad attivarsi ai primi segnali, magari con la composizione negoziata. Secondo, trasparenza e buona fede: i giudici e i creditori sono molto più disponibili a concordare soluzioni se il debitore dimostra onestà, fornisce informazioni corrette e non ha distratto asset. Al contrario, scoprire che il debitore ha fatto “il furbo” (vendite occultate, preferenze indebite a qualche creditore, ecc.) fa crollare la fiducia e spesso preclude soluzioni concordate. Terzo, competenza tecnica: predisporre piani realistici e ben articolati, con l’ausilio di professionisti (commercialisti, legali) esperti di crisi. Un piano raffazzonato o irrealistico verrà bocciato. Quarto, coinvolgimento dei creditori chiave: è importante nelle fasi di negoziazione individuare quali creditori hanno più potere di veto o interesse (banche, grande fornitore, fisco) e dialogare con loro per costruire una proposta che possano supportare. Quinto, rispetto delle regole procedurali: affidarsi a OCC e commissari, seguire pedissequamente le indicazioni del tribunale. Un errore formale (ad es. omissione di un credito, mancato deposito di documenti) può complicare l’iter. In sintesi, giocare d’anticipo, giocare pulito e giocare bene accompagnati – così aumentano di molto le chance che il debitore superi la crisi e si rimetta in carreggiata senza perdere tutto.
Fonti (normative e giurisprudenziali)
- Camera di Commercio di Torino – Strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (scheda informativa aggiornata al 28/12/2023)
- Definizioni di strumenti di regolazione e sovraindebitamento (richiamato nella scheda CamCom Torino)
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Affrontare un momento di crisi aziendale non significa arrendersi.
L’ordinamento italiano mette a disposizione diversi strumenti di composizione della crisi, pensati per aiutare imprenditori, artigiani, professionisti e società a ristrutturare il debito, proteggere l’attività e ripartire.
Ecco i principali strumenti previsti dalla legge:
- Composizione negoziata della crisi
- Accordo di ristrutturazione dei debiti
- Concordato preventivo semplificato o ordinario
- Piani attestati di risanamento
- Liquidazione controllata per imprenditori sotto soglia
- Piano del consumatore e ristrutturazione dei debiti per privati
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🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato specializzato nella gestione della crisi d’impresa
✔️ Iscritto come Gestore della crisi presso il Ministero della Giustizia
✔️ Consulente per imprese individuali, PMI e liberi professionisti
Conclusione
Scegliere lo strumento giusto per la composizione della crisi è il primo passo per tornare a guardare al futuro.
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