Quando Si Configura Il Reato Di Esterovestizione?

Hai una società con sede all’estero o stai pensando di trasferirla fuori dall’Italia per motivi fiscali? Ti stai chiedendo quando questa scelta può diventare un problema legale e in quali casi si rischia di incorrere nel reato di esterovestizione?

Attenzione: non sempre trasferire la sede legale di una società all’estero comporta vantaggi reali. Se non è una scelta concreta e operativa, ma solo una manovra per pagare meno tasse in modo fittizio, l’Agenzia delle Entrate può contestare l’operazione e accusare la società e gli amministratori di esterovestizione.

Vediamo allora quando si configura questo reato, cosa comporta e come difendersi legalmente.

Cos’è l’esterovestizione?
L’esterovestizione si verifica quando una società risulta formalmente residente all’estero, ma in realtà ha la sede dell’amministrazione o dell’attività principale in Italia. In pratica, è una società “vestita” da straniera ma che opera effettivamente in Italia, eludendo così la tassazione nazionale.

Quando si configura il reato?
Il reato si configura quando:

  • La sede legale è collocata all’estero, ma le decisioni gestionali e amministrative vengono prese in Italia;
  • L’attività economica è esercitata prevalentemente in Italia;
  • I soci o amministratori sono residenti in Italia e gestiscono l’impresa come se fosse italiana.

L’intento è quello di ottenere vantaggi fiscali indebiti, pagando imposte più basse all’estero pur mantenendo l’attività in Italia.

Quali sono le conseguenze legali?
Se viene accertata l’esterovestizione:

  • L’Agenzia delle Entrate può riqualificare la residenza fiscale della società come italiana;
  • Può emettere avvisi di accertamento per evasione fiscale;
  • Gli amministratori possono essere perseguiti per reati tributari, con gravi sanzioni pecuniarie e, in certi casi, responsabilità penale.

Come difendersi da un’accusa di esterovestizione?
È fondamentale:

  • Dimostrare la reale operatività estera della società;
  • Conservare documenti che provano la sede effettiva all’estero (uffici, dipendenti, attività svolte);
  • Verificare la coerenza tra sede legale, amministrativa e luogo di effettiva gestione.

In caso di contestazione, è possibile:

  • Presentare memorie difensive o interpelli all’Agenzia;
  • Attivare una procedura di accertamento con adesione, per evitare sanzioni pesanti;
  • Ricorrere in giudizio, con l’assistenza di un avvocato esperto in fiscalità internazionale e contenzioso tributario.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità estera, diritto tributario e difesa dell’imprenditore – ti spiega quando si configura il reato di esterovestizione, quali sono i segnali di rischio e cosa possiamo fare per aiutarti a tutelare la tua posizione.

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Quando si configura il reato di esterovestizione?

L’esterovestizione è il termine con cui si indica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di un soggetto (tipicamente una società) allo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali. In altre parole, un’impresa viene “vestita da straniera” pur essendo in realtà gestita e operante in Italia, nel tentativo di sfuggire al fisco nazionale. Si tratta di una forma di evasione/elusione fiscale internazionale, perché dissocia la residenza formale (all’estero) da quella sostanziale (in Italia) al solo fine di beneficiare di una tassazione più favorevole.

Quando l’esterovestizione configura un reato? – Diventa penalmente rilevante (quindi un reato tributario) quando attraverso tale artificio si sottraggono al fisco italiano imponibili significativi, integrando in particolare il delitto di omessa dichiarazione dei redditi ex art. 5 D.Lgs. 74/2000 (se la società esterovestita, pur dovendo, non presenta la dichiarazione in Italia). Non ogni esterovestizione è reato in automatico: per la rilevanza penale occorrono determinate condizioni, come vedremo, tra cui un intento fraudolento di evasione e il superamento di soglie di imposta evasa fissate dalla legge. Tuttavia, anche quando non scatta il penale, l’esterovestizione comporta comunque gravissime conseguenze fiscali e amministrative.

In questa guida forniremo un approfondimento avanzato e aggiornato a giugno 2025 sul fenomeno dell’esterovestizione dal punto di vista del contribuente (il “debitore” d’imposta), analizzando normativa italiana recente, criteri di residenza fiscale, presunzioni anti-elusive, nonché le sanzioni (tributarie e penali) e le difese possibili in caso di accertamento. Ci avvarremo delle più autorevoli pronunce giurisprudenziali aggiornate e di esempi pratici (anche con riferimento ai principali Paesi esteri coinvolti), con un linguaggio giuridico ma divulgativo. Troverete inoltre tabelle riepilogative, una sezione di domande e risposte frequenti (FAQ) e simulazioni di casi pratici, il tutto per comprendere quando e perché la “vestizione estera” di una società supera il limite della pianificazione fiscale lecita e integra invece un illecito tributario.

Definizione e inquadramento del fenomeno

Per comprendere quando scatta il reato, partiamo dalla definizione. In termini generali, l’esterovestizione è la dissociazione tra residenza fiscale formale e residenza effettiva di un’impresa, attuata al fine di eludere il fisco italiano. Solitamente si realizza tramite trasferimento fittizio della sede legale o fiscale verso un Paese a bassa tassazione (un paradiso fiscale) mentre la società continua ad avere in Italia il proprio centro decisionale o la sua attività principale. In pratica l’azienda crea all’estero una “scatola vuota” – ad esempio un ufficio di comodo o solo un indirizzo legale – mentre la vera attività economica e gestionale rimane in Italia. Così si cerca di evitare la tassazione italiana sugli utili, dichiarando i redditi solo nello Stato estero prescelto, dove la fiscalità è più vantaggiosa.

Questa operazione è illegale: costituisce un abuso degli strumenti giuridici di libertà d’impresa e di stabilimento, volto unicamente a eludere obblighi tributari. La normativa antielusiva italiana infatti considera residente in Italia, e quindi imponibile, una società esterovestita quando sussistono determinati collegamenti effettivi col territorio nazionale (a dispetto della forma estera). Inoltre, come anticipato, se l’espediente comporta evasione oltre soglie rilevanti, scatta anche il diritto penale tributario.

Va distinto il concetto di esterovestizione dalla legittima internazionalizzazione o dal trasferimento reale di una sede all’estero. Costituire o spostare un’azienda all’estero non è di per sé vietato – rientra anzi nella libertà di stabilimento garantita a livello UE. Un imprenditore può decidere liberamente di collocare la propria società dove ritiene più opportuno e godere dei regimi fiscali più convenienti purché l’insediamento all’estero sia effettivo e non artificioso. Non c’è abuso se la società opera davvero nello Stato estero, con un’attività economica reale svolta stabilmente in loco. Al contrario, c’è esterovestizione illecita se l’entità estera è solo una costruzione di puro artificio, priva di genuina realtà economica e creata al solo scopo di ottenere benefici fiscali indebiti. Come affermato dalla Corte di Cassazione, in linea con i principi UE sull’abuso del diritto, “non è necessario indagare l’esistenza di ragioni economiche extra-fiscali; occorre verificare se il trasferimento all’estero vi sia stato realmente oppure no”, cioè se l’operazione sia meramente artificiosa, consistendo “nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica”.

In sintesi: l’esterovestizione è una frode fiscale basata su una falsa esterizzazione di un soggetto che in sostanza rimane italiano. Si configura tipicamente quando: (a) una società ha sede legale all’estero ma gestione amministrativa o attività economica prevalente in Italia; (b) tale assetto fittizio è adottato con finalità di evasione/elusione del fisco italiano. Nel prosieguo vedremo i criteri giuridici per accertare questi elementi, le presunzioni predisposte dalla legge per individuare le esterovestizioni e come si svolge un accertamento in materia.

Normativa italiana sulla residenza fiscale e anti-esterovestizione

Per stabilire se una società è esterovestita – dunque di fatto residente in Italia nonostante l’apparenza estera – occorre far riferimento ai criteri di residenza fiscale previsti dall’ordinamento italiano e alle norme antielusive specifiche. Di seguito analizziamo: (1) i criteri generali di collegamento che rendono un ente fiscalmente residente in Italia, (2) le presunzioni legali introdotte per contrastare l’esterovestizione, e (3) recenti novità normative (riforma 2023) e di prassi sul punto.

Criteri generali di residenza fiscale delle società

L’art. 73 del TUIR (D.P.R. 917/1986) stabilisce i criteri per individuare la residenza fiscale di società ed enti. Fino al 2023, tali criteri erano: sede legale in Italia, sede dell’amministrazione in Italia oppure oggetto principale in Italia, presenti per la maggior parte del periodo d’imposta. Era sufficiente il riscontro di anche uno solo di questi elementi (per oltre 183 giorni l’anno) perché la società fosse considerata residente in Italia, con tassazione mondiale dei redditi. La legge privilegiava dunque criteri sostanziali (luogo di amministrazione effettiva, luogo di svolgimento dell’attività economica) rispetto al solo criterio formale della sede legale. In sintesi, una società con sede legale all’estero ma direzione effettiva o attività prevalente in Italia è comunque considerata residente fiscalmente in Italia e qui tassata sui redditi ovunque prodotti. Ciò ovviamente può creare situazioni di doppia residenza fiscale, risolte tramite le Convenzioni contro le doppie imposizioni applicando il tie-breaker del luogo di direzione effettiva (art. 4(3) Modello OCSE).

Dal 1° gennaio 2024 è entrata in vigore una riforma di tali criteri, introdotta dal D.Lgs. 27 dicembre 2023 n. 209 (attuativo della delega per la revisione della fiscalità internazionale). Le nuove regole (in linea con gli standard OCSE) mantengono inalterato il principio ma ridefiniscono i parametri: ai sensi del rinnovato art. 73, co.3 TUIR, sono considerati residenti in Italia le società che per oltre metà dell’anno hanno la sede legale nel territorio dello Stato, oppure la sede di direzione effettiva o la sede della gestione ordinaria in via principale in Italia. In pratica, i tradizionali concetti di “sede dell’amministrazione” e “oggetto principale” sono stati sostituiti da due nozioni più precise: la sede di direzione effettiva (luogo in cui vengono assunte in modo continuativo e coordinato le decisioni strategiche riguardanti l’ente) e la sede della gestione ordinaria (luogo in cui si compiono quotidianamente le attività di gestione corrente dell’ente). Rimane fermo che basta uno solo di questi collegamenti (legale, direzione effettiva o gestione principale) per la maggior parte dell’anno perché scatti la residenza fiscale italiana. Si elimina invece, per le società commerciali, il riferimento alla “sede dell’amministrazione” formale e all’“oggetto principale” come tali, concentrandosi sull’effettività della direzione e dell’attività. (Nota: per enti non commerciali restano criteri specifici ex art. 73 commi 4 e 5 TUIR; per le società di persone valgono criteri analoghi, v. art. 5 co.3 TUIR).

Possiamo sintetizzare i principali criteri di collegamento per la residenza fiscale delle società nella tabella seguente:

Tabella 1 – Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)

Criterio di collegamentoDescrizione
Sede legale in ItaliaLa sede legale (risultante da atto costitutivo/statuto) è fissata in Italia.
Sede di direzione effettiva in Italia (già “sede dell’amministrazione”)Il luogo in cui si svolge in concreto la direzione strategica e la gestione principale dell’ente è in Italia. In altri termini è il place of effective management, da cui promanano le decisioni operative riguardanti l’intera società.
Sede della gestione ordinaria in Italia (già “oggetto principale”)Il luogo in cui si esercita prevalentemente l’attività corrente dell’ente è in Italia. Corrisponde al luogo dove si compiono in modo continuativo gli atti di gestione quotidiana e si svolge la principale attività economica della società.
Durata > 183 giorniI criteri suddetti devono sussistere per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno 183 giorni/anno, circa 6 mesi).
EffettiSe ricorre almeno uno dei suddetti criteri per oltre metà anno, la società è considerata fiscalmente residente in Italia. Di conseguenza sarà soggetta a IRES (attualmente 24%) sui redditi ovunque prodotti (principio worldwide) e alle altre imposte dovute in Italia come un soggetto residente.

Importanza pratica: questi criteri di collegamento sono la base sulla quale si fonda l’identificazione delle esterovestizioni. Un’azienda formalmente estera ma che di fatto ha in Italia la propria sede effettiva o la principale attività soddisfa i requisiti per essere considerata residente fiscale italiana. L’Amministrazione finanziaria può dunque accertare che, al di là delle apparenze formali, quella società era tenuta a dichiarare in Italia i propri redditi e a pagarvi le imposte.

Tuttavia, accertare la “sede effettiva” non è sempre agevole: spesso richiede un’analisi caso per caso degli elementi di fatto (dove si riunisce il management? dove sono ubicati gli uffici operativi? chi prende le decisioni chiave? ecc.). Ecco perché il legislatore ha introdotto alcune presunzioni legali per agevolare e rendere più oggettivo questo compito, in situazioni tipiche di esterovestizione.

Presunzioni legali anti-esterovestizione (art. 73, comma 5-bis TUIR)

Oltre ai criteri generali visti sopra, esistono norme antielusive mirate che individuano, in presenza di certi requisiti, una presunzione di residenza in Italia di società formalmente estere. La principale è contenuta nell’art. 73 comma 5-bis TUIR, introdotto nel 2006 (DL 223/2006) e poi confermato e modificato nel tempo (da ultimo L. 208/2015). Questa disposizione stabilisce che, salvo prova contraria, si considera situata in Italia la sede dell’amministrazione (cioè la direzione effettiva) delle società ed enti che detengono partecipazioni di controllo in società residenti in Italia, qualora ricorra almeno una delle seguenti condizioni:

  • la società estera è controllata, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia (ai sensi dell’art. 2359 c.c.);
  • il consiglio di amministrazione (o altro organo gestionale equivalente) della società estera è composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia.

In parole più semplici, la presunzione scatta quando abbiamo una società estera che funge da holding di società italiane (detiene partecipazioni di controllo in società residenti) e al contempo o è controllata da soggetti italiani o è amministrata per lo più da italiani. In tale scenario, la legge presume che la società estera sia in realtà amministrata dall’Italia, quindi la considera residente in Italia ai fini fiscali, salvo che il contribuente fornisca prova contraria. Si tratta di una presunzione legale relativa, che comporta un’inversione dell’onere della prova: inizialmente il Fisco può dedurre la residenza italiana sulla base di quegli elementi formali (controllo e amministratori), e sarà poi il contribuente a dover confutare la natura artificiosa dello schema, dimostrando che la società estera ha una sostanza economica reale all’estero e una gestione effettiva lì.

Ambito tipico: questa norma mira a colpire soprattutto le holding esterovestite, ossia società costituite all’estero da soggetti italiani e messe a capo di società italiane al solo scopo di delocalizzare fittiziamente gli utili. Ad esempio, un imprenditore italiano crea una holding in Lussemburgo o Malta che possiede al 100% l’azienda operativa italiana; la holding all’estero è però solo un guscio (nessuna struttura, nessun dipendente, funzioni decisionali sempre svolte in Italia). Ebbene, se il CdA della holding è pieno di residenti italiani e se l’imprenditore italiano ne detiene il controllo, l’art. 73(5-bis) consente di dare direttamente per assodata la residenza in Italia di quella holding, senza dover dimostrare ulteriormente dove siano prese le decisioni. La Relazione ministeriale che introdusse la norma evidenziò proprio l’esigenza di facilitare il compito del verificatore in tali casi, evitando che strutture esterovestite di difficile investigazione (holding di comodo, società di gestione di beni immateriali all’estero, ecc.) sfuggano facilmente grazie alla difficoltà di prova. La presunzione fornisce indici certi e immediati per far scattare l’accertamento, valorizzando la sostanza sulla forma in linea col principio generale anti-elusivo “substance over form”.

Va sottolineato che questa presunzione non copre tutte le ipotesi di esterovestizione. Fuori dai casi specifici del comma 5-bis, l’Agenzia Entrate mantiene comunque il potere di accertare una residenza effettiva in Italia basandosi sui criteri ordinari, anche per società estere che non rientrano nello schema di holding controllata da italiani. In tali situazioni “residue”, però, il carico probatorio ricade interamente sull’Amministrazione finanziaria, che dovrà raccogliere elementi concreti per dimostrare la fittizia localizzazione all’estero e l’effettiva direzione dall’Italia. In altre parole, se una società estera non possiede partecipazioni in società italiane (es. è una società operativa all’estero) oppure non è controllata/amministrata da italiani, non si applica la presunzione automatica di cui sopra. Ciò però non significa che non possa comunque essere considerata residente in Italia: semplicemente l’Agenzia dovrà provare caso per caso che la sede effettiva è in Italia (senza aiuti presuntivi legali).

Un importante chiarimento di prassi recente su questo punto è venuto dalla Agenzia delle Entrate – Risposta a interpello n. 27/E del 2022, che ha delimitato la portata della presunzione di cui al co.5-bis. In quel caso si discuteva di una società estera partecipata al 51% da una società italiana, con nel CdA due amministratori di cui uno residente in Italia. L’Agenzia ha chiarito che l’art. 73(5-bis) non si applica se la società estera non funge da holding e non detiene partecipazioni in società italiane. La norma infatti è pensata per le esterovestizioni “a cascata” (esterovestizione di una capogruppo estera su controllate italiane); se invece la società estera controllata da italiani non controlla a sua volta società italiane, l’Agenzia non può presumere automaticamente la residenza in Italia solo perché vi sono italiani nel controllo o nel board. In tal caso si ricade nell’accertamento ordinario: il Fisco dovrà provare la sede effettiva in Italia e l’intento elusivo caso per caso. Questo spiega perché in alcuni accertamenti recenti, laddove la società estera non aveva partecipazioni italiane dirette, l’Amministrazione ha dovuto mettere insieme indizi concreti piuttosto che fare leva sul 5-bis.

Esempio: Tizio possiede il 100% di una società estera Alfa (in Romania) e personalmente svolge attività in Italia; Alfa però non possiede società italiane. Se l’Agenzia sospetta che Alfa sia una mera schermatura per redditi di Tizio prodotti in Italia, non può usare la presunzione art.73(5-bis) (manca il requisito della partecipazione in soggetti italiani). Dovrà invece provare che Alfa ha sede di direzione in Italia in base ai fatti (es. amministratori italiani, attività svolta in Italia, ecc.) e contestare eventualmente l’esterovestizione con gli strumenti ordinari.

Un’ulteriore presunzione legale relativa è prevista dall’art. 73 comma 5 TUIR (come riformulato dalla novità 2023) per contrastare trasferimenti fittizi della sede all’estero: essa stabilisce (semplificando) che se un soggetto sposta la residenza in Stati con regime fiscale privilegiato, l’Amministrazione può presumere che non vi sia stato un effettivo trasferimento e che il soggetto sia rimasto residente in Italia, salvo prova contraria. Questa regola, in vigore anche per analogia nelle annualità precedenti, riguarda in particolare trust e istituti esteri, ma il principio generale è applicabile anche ai casi di trasferimento all’estero di società italiane verso paesi “black list”. In tali ipotesi, l’onere di dimostrare la genuinità dell’espatrio fiscale è a carico del contribuente, sollevando il fisco dall’onere di provare che il soggetto è rimasto in Italia. Si pensi a una s.r.l. italiana che delibera di trasferire la sede legale alle Isole Cayman: il fisco italiano, anche in assenza di art. 73(5-bis), potrà presumere che la società sia ancora residente in Italia fino a prova contraria, data la natura spiccatamente fiscale del trasferimento.

In sintesi sulle presunzioni: la legge italiana predispone alcuni “segnali di allarme” – controllo italiano su holding estera di società italiane, trasferimenti verso paradisi fiscali – che invertono l’onere della prova a carico del contribuente. Se rientrate in questi scenari, l’azienda deve premunirsi di documentare approfonditamente la propria operatività estera genuina, poiché il fisco partirà presumendo l’esterovestizione. Fuori da tali casi, l’Agenzia Entrate potrà comunque contestare l’esterovestizione utilizzando tutti gli indizi fattuali disponibili, ma dovrà convincere i giudici offrendo prova sufficiente della sede effettiva in Italia e dell’artificiosità dell’entità estera.

Indicatori e indizi di esterovestizione

Al di là delle presunzioni legali, esistono numerosi indicatori fattuali che, se riscontrati durante un’indagine, suggeriscono che una società estera sia in realtà esterovestita. Gli elementi presuntivi più comuni emersi dalla prassi e dalla giurisprudenza includono:

  • Sede legale all’estero ma attività in Italia: la società risulta registrata in un altro Stato, ma la sua attività economica concreta si svolge prevalentemente in Italia (produzione, uffici operativi, clienti principali, ecc.);
  • Assenza di struttura estera: la società estera non ha una struttura organizzativa reale nel Paese di costituzione – ad es. nessun dipendente locale, nessun ufficio dedicato (magari solo un indirizzo presso uno studio di consulenza), nessun costo significativo sostenuto all’estero per l’attività;
  • Gestione dall’Italia: le decisioni direttive e strategiche riguardanti la società apparentemente estera sono in realtà assunte in Italia (magari dagli stessi soci/imprenditori italiani tramite la controllante nazionale). In concreto, “gli impulsi gestionali partono dall’Italia” – ad es. gli amministratori esteri fungono da meri prestanome mentre il controllo effettivo è esercitato da persone in Italia;
  • Contabilità e amministrazione centralizzate in Italia: se la contabilità aziendale, la tesoreria, o altre funzioni amministrative della società estera sono curate in Italia (magari direttamente dalla società madre italiana o dal commercialista italiano), è un forte indizio che la sede amministrativa effettiva sia in Italia;
  • Operazioni infragruppo anomale: la società estera effettua quasi esclusivamente transazioni con la casa madre o altre imprese italiane del gruppo, magari con margini ridotti o artificiosi, tali da spostare utili verso la giurisdizione estera. Questo suggerisce una funzione artificiale di puro veicolo fiscale (es. rivendere beni prodotti in Italia applicando un piccolo ricarico all’estero, per spostare profitti). Tali schemi possono configurare anche transfer pricing o elementi di dichiarazione infedele se i prezzi non sono di mercato;
  • Capitale e investimenti insufficienti: l’entità estera non dispone di capitali propri adeguati o di investimenti compatibili con l’attività dichiarata. Ad esempio, una società che dichiara di gestire marchi internazionali ma non ha spese in ricerca, pubblicità o personale all’estero per tale gestione è sospetta;
  • Contratti e clienti gestiti dall’Italia: se i contratti con fornitori o clienti teoricamente della società estera vengono in realtà negoziati e conclusi da personale in Italia, o se i clienti nemmeno sono a conoscenza dell’entità estera interposta (interagendo sempre con la struttura italiana), si rafforza l’idea che l’estero sia una facciata;
  • Stabile organizzazione occulta in Italia: talvolta l’esterovestizione si accompagna al fenomeno della stabile organizzazione occulta: la società estera opera sul territorio italiano tramite una sede fissa non dichiarata (uffici, agenti, magazzini), senza però dichiararla al fisco. Questo è un illecito parallelo (violazione art.162 TUIR) e sovente i due aspetti si sovrappongono. È importante distinguere i concetti: esterovestizione significa soggetto estero in realtà residente nel suo complesso; stabile organizzazione occulta significa soggetto estero non residente ma con una base imponibile non dichiarata in Italia. Tuttavia, in sede di indagine, gli indizi possono essere simili (presenza di uffici, attività economica in Italia) e l’autorità potrebbe contestare in via subordinata l’uno o l’altro. Come nota dottrina, i due fenomeni sono incompatibili tra loro in teoria (una società non può essere contemporaneamente considerata residente in Italia e non residente con stabile organizzazione), ma a volte la giurisprudenza li ha confusi. In sede penale questa distinzione è rilevante per individuare il soggetto attivo del reato e la quantità di reddito evaso (esterovestizione implica evasione su tutto il reddito mondiale; stabile organizzazione occulta implica evasione sui redditi della branch). Ai fini pratici, se emergono elementi di presenza economica stabile in Italia (uffici, personale, attrezzature) riconducibili alla società estera, il fisco può alternativamente (o cumulativamente) contestare l’esterovestizione o l’esistenza di una stabile organizzazione non dichiarata.

Gli indizi sopra elencati vengono tipicamente raccolti attraverso verifiche fiscali (tax audit), ispezioni della Guardia di Finanza, richiesta di documentazione, scambio di informazioni con l’estero, ecc. Nessun elemento singolo è di per sé definitivo, ma una convergenza di più indizi può persuadere i verificatori – e in seguito i giudici tributari – che l’entità estera sia solo un simulacro. Ad esempio, se durante un controllo si scopre che la società estera non ha uffici propri, che i suoi documenti sono redatti al computer dalla sede italiana (traccia informatica), che non figura personale assunto all’estero, e magari vi sono email che mostrano come ogni decisione venga presa dall’Italia, allora il mosaico è chiaro: l’azienda estera è esterovestita.

Va detto che uno degli indici più evidenti è proprio l’assenza di una struttura estera apprezzabile: Cassazione ha definito “esterovestita” la società estera «priva di una propria struttura organizzativa, che non ha mai sostenuto costi per personale né per l’attività quotidiana, il cui amministratore unico era un professionista locale (consulente spagnolo) ma che utilizzava per la contabilità programmi di proprietà della controllante italiana». In tal caso, al di là delle motivazioni formali addotte (nel caso di specie, era stata creata per commercializzare olio in Spagna), la sostanza rivelava chiaramente un’esterovestizione e i giudici hanno ritenuto responsabile il legale rappresentante della società italiana controllante, considerandolo amministratore di fatto della società estera e dunque punibile per il reato di omessa dichiarazione.

In conclusione, sul piano amministrativo, non occorre provare un “disegno fraudolento” soggettivo: basta evidenziare che la residenza estera è solo cartolare, mentre tutti i fatti economici indicano l’Italia. La Cassazione tributaria ha più volte affermato che la contestazione di esterovestizione non presuppone la dimostrazione di un vantaggio fiscale indebito ulteriore o di un particolare intento di elusione, essendo sufficiente accertare la fittizietà della localizzazione estera in base ai criteri formali e sostanziali. Ciò significa che, in sede tributaria, una volta provato che la società avrebbe dovuto essere considerata residente, si può ricalcolare l’imposizione in Italia, anche se l’azienda sostiene di non averlo fatto in buona fede. Diverso – vedremo – è il livello di prova richiesto in sede penale, dove serve anche la prova del dolo specifico di evasione.

Profili penalistici: quando l’esterovestizione diventa reato

Passiamo ora al piano penale, ovvero a quando e a quali condizioni l’esterovestizione integra un reato tributario a carico dei responsabili. In Italia, i reati fiscali sono disciplinati dal D.Lgs. 74/2000. L’esterovestizione in sé non è tipizzata come reato autonomo, ma può dare luogo a diversi delitti tributari, principalmente:

  • Omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 D.Lgs. 74/2000) – è il reato che tipicamente si configura quando una società esterovestita non presenta in Italia le dichiarazioni fiscali dovute, occultando così i redditi al Fisco. Si tratta di un reato omissivo proprio: punisce chi, essendovi obbligato, omette di presentare la dichiarazione annuale al fine di evadere le imposte. La pena edittale prevista (aggiornata dopo la riforma 2019) è la reclusione da 2 a 5 anni, purché l’ammontare dell’imposta evasa superi la soglia di €50.000 per ciascun periodo d’imposta. Questa soglia si riferisce a ciascuna imposta (es. IRES o IVA) evasa annualmente. Se la società esterovestita non ha presentato dichiarazione dei redditi in Italia e, ricalcolando il dovuto, emergono imposte evase per oltre 50.000 € annui, allora gli amministratori (di diritto e di fatto) risponderanno di tale reato. È proprio l’ipotesi in cui cade chi, tramite esterovestizione, occulta integralmente i redditi all’estero. Da notare che la natura “propria” del reato implica che può commetterlo solo chi aveva l’obbligo giuridico di dichiarazione: se la società fosse realmente non residente, quell’obbligo non sussiste. Dunque, il punto cruciale per la configurabilità del reato è stabilire che in realtà la società era tenuta a dichiarare (perché effettivamente residente in Italia). La Cassazione ha più volte ribadito questo concetto di “reato a soggettività ristretta”: solo chi è obbligato a presentare la dichiarazione può ometterla colpevolmente. Ne consegue che, se effettivamente la direzione effettiva non è in Italia, non vi è obbligo dichiarativo e quindi nessun reato. Viceversa, se la società era esterovestita (doveva dichiarare in Italia) e non l’ha fatto, il fatto è penalmente rilevante. Il dolo richiesto è il dolo specifico di evasione: cioè l’intento di evadere le imposte mediante l’omissione. Nel caso dell’esterovestizione, questo intento è intrinseco allo schema: creare una società all’estero proprio per non dichiarare in Italia implica l’intenzione di sottrarsi al fisco.
  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) – può configurarsi quando l’esterovestizione si manifesta non come totale omissione, ma ad esempio attraverso operazioni con l’estero volte a ridurre indebitamente l’imponibile dichiarato. Ad esempio, se la società italiana presenta sì la dichiarazione, ma gonfia i costi tramite fatture infragruppo verso una consociata estera fittizia, oppure sottovaluta i ricavi deviandoli alla società estera (transfer pricing non corretto). In questi casi potrebbe delinearsi il reato di dichiarazione infedele, che punisce chi, al fine di evadere, indica in dichiarazione elementi attivi inferiori al reale o elementi passivi fittizi, oltre una certa soglia. Per l’art.4 la soglia attuale è imposta evasa > €100.000 (e ricavi non dichiarati > 10% di quelli dichiarati, o > €2 milioni) – soglie che raramente vengono raggiunte da singole operazioni, motivo per cui nell’ambito esterovestizione è più comune l’omissione totale. La pena prevista per dichiarazione infedele, dopo le modifiche del 2019, è reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi. Nelle esterovestizioni classiche la dichiarazione infedele può presentarsi qualora, ad esempio, l’impresa italiana deduca costi inesistenti derivanti da rapporti fittizi con la società estera (es. pagamento di royalties o servizi mai resi effettivamente). In tal caso il soggetto sta presentando una dichiarazione mendace. Tuttavia, come detto, il modus operandi più frequente è l’omissione totale (la società estera non dichiara nulla in Italia), sicché il reato tipico resta l’art.5.
  • Altri reati fiscali eventualmente connessi: in casi più articolati, potrebbero ravvisarsi dichiarazione fraudolenta mediante artifici o uso di fatture false (art.3 e 2 D.Lgs.74/2000) se l’esterovestizione è accompagnata da false rappresentazioni contabili, doppie scritture, documenti falsi per sviare i controlli. Ad esempio, creare documentazione falsa di una sede estera o simulare contratti per giustificare spostamenti di utili potrebbe essere qualificato come frode fiscale in aggiunta. Inoltre, quando lo schema evasivo è portato avanti da più persone in modo organizzato, può scattare l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’evasione (art. 3 L. 146/2006, se transnazionale). Queste ipotesi aggravate sono però riservate a casi di estrema gravità (grandi evasori seriali, network internazionali di società schermo). La stragrande maggioranza dei casi di esterovestizione rientra nell’alveo dell’omessa dichiarazione e, talvolta, dell’infedele dichiarazione.

Quando esattamente scatta il reato? – Come già suggerito, due condizioni fondamentali devono ricorrere per trasformare l’esterovestizione in un illecito penale:

  1. Obbligo dichiarativo violato: è necessario che la società fosse giuridicamente obbligata a presentare dichiarazione in Italia (cioè fosse, sostanzialmente, residente fiscale italiana). Se l’impresa era effettivamente estera (sede effettiva all’estero), nessun obbligo e nessun reato. Questo aspetto costituisce spesso la linea di difesa in giudizio: dimostrare che la residenza estera era reale esclude sia il debito d’imposta che il reato. La Cassazione ha fissato chiaramente il principio: “l’obbligo di presentare la dichiarazione da parte di società con sede legale estera operante in Italia non sussiste quando la sede di direzione effettiva non è in Italia”. Dunque, il reato di omessa dichiarazione “si atteggia come tipico reato omissivo proprio” che può essere commesso solo da chi aveva il preciso obbligo di dichiarare e non l’ha fatto. Questo principio è stato affermato, tra l’altro, in Cass. pen. Sez. III n.1811/2014 (caso Pinhas) e Cass. n.26728/2015. Nel caso Dolce & Gabbana (che esamineremo a breve) la difesa vinse proprio dimostrando che la società estera in Lussemburgo aveva sufficiente sostanza da non poter essere considerata un puro schermo: quindi nessun obbligo dichiarativo italiano per quella società, ergo nessun reato per gli stilisti.
  2. Dolo specifico di evasione e soglie di punibilità: come tutti i reati tributari ex D.Lgs.74/2000, occorre la volontà di evadere le imposte (non basta un errore o negligenza). Nel caso di esterovestizione questa intenzione è praticamente connaturata: costituire una società all’estero e non dichiarare nulla in Italia è di regola una scelta deliberata per non pagare le tasse italiane. Quindi il dolo specifico generalmente è ravvisato se viene provata la fittizietà della sede estera. Le soglie di punibilità (50.000 € per l’omessa, etc.) servono a evitare di penalizzare condotte di scarso impatto: sotto tali importi l’illecito resta amministrativo (sanzioni pecuniarie) ma non penale. Sopra, scatta la rilevanza penale. Attenzione: la soglia di €50.000 è annua per imposta. Dunque se, ad esempio, un soggetto omette per 3 anni e ogni anno evade 40.000 €, non si configura reato (singolarmente sotto soglia) ma solo violazioni amministrative ripetute. Se invece in un anno evade 60.000 € IRES, scatta il penale per quell’anno. In caso di pluriennale esterovestizione, spesso l’accusa contesterà più anni di omessa dichiarazione (un reato per ogni anno super-soglia).

È interessante notare che l’ordinamento prevede anche cause di non punibilità in ambito tributario, ad es. l’integrale pagamento dei debiti tributari prima del dibattimento (art. 13 D.Lgs. 74/2000) estingue i reati di omessa e infedele dichiarazione. Ciò significa che, qualora il contribuente ravveda la situazione e versi tutte le imposte dovute (con sanzioni e interessi) spontaneamente o a seguito di accertamento, può evitare la condanna penale. Questo incentiva le regolarizzazioni. Anche la scelta del patteggiamento viene agevolata se avviene il pagamento. In pratica, risolvere il contenzioso tributario versando il dovuto può “salvare” sul piano penale, sia eliminando il reato (se in tempo) sia almeno evitando pene detentive attraverso riti alternativi. Torneremo su questo nel parlare delle strategie difensive.

Chi risponde del reato? – In caso di esterovestizione societaria, i soggetti penalmente responsabili sono le persone fisiche che hanno commesso o concorso nel reato. Tipicamente:

  • Gli amministratori di diritto della società esterovestita (es: il direttore o amministratore ufficiale della società estera, se è persona italiana consapevole dello schema).
  • Gli amministratori di fatto o i soggetti che effettivamente hanno diretto dall’Italia la società schermo. Ad esempio, l’imprenditore italiano che controlla la società estera e ne prende di fatto le decisioni può essere considerato il gestore di fatto e risponderà come tale. La Cassazione nel caso sopra citato della società spagnola ha ritenuto colpevole il legale rappresentante della controllante italiana, in qualità di amministratore di fatto dell’entità spagnola.
  • Eventuali consulenti o intermediari che abbiano partecipato attivamente al disegno fraudolento potrebbero essere chiamati a rispondere in concorso, specie se l’esterovestizione fa parte di un piano deliberato di evasione orchestrato da più persone.

Va precisato che, se la società estera ha un amministratore locale che è un mero prestanome inconsapevole, costui potrebbe andare esente (per difetto di dolo) se prova di essere stato tenuto all’oscuro e senza ruoli operativi. Invece, l’amministratore di diritto italiano che ha accettato la carica formale pur sapendo di un uso evasivo della società, non può chiamarsi fuori: la Cassazione ha chiarito che “la semplice accettazione della carica implica doveri di vigilanza; il prestanome che accetta il rischio di fare da schermo risponde quantomeno a titolo di dolo eventuale”. Dunque non è un’attenuante essere testa di legno: chi accetta di figurare come amministratore di una società estera usata per evadere, si assume il rischio e ne risponde penalmente. Lo ha affermato di recente Cass. pen. n.11558/2023.

Differenze standard di prova penale vs. prova tributaria: è fondamentale comprendere che nei processi penali vige il principio oltre ogni ragionevole dubbio e il favor rei. Pertanto, elementi che in ambito tributario bastano a far scattare un accertamento (es. indizi di gestione italiana) potrebbero non bastare per una condanna penale, se lasciano margini di dubbio. La Cassazione penale, specie dal caso Dolce & Gabbana in poi, ha mostrato un orientamento garantista: per condannare per esterovestizione serve provare che la società estera era un mero schermo, priva di reale autonomia, e che gli imputati avevano piena consapevolezza e volontà di tale artificio fraudolento. Se invece c’è anche solo qualche parvenza di operatività reale all’estero, i giudici penali tendono ad escludere il dolo. In altri termini, in penale l’asticella è più alta: occorre dimostrare l’artificiosità assoluta della struttura estera e l’occultamento doloso dei redditi. Se rimane in piedi qualche attività genuina estera, può scattare l’assoluzione per insufficienza di prove sul dolo.

Questo spiega perché in alcuni casi una società viene considerata residente in Italia a fini fiscali (e quindi deve pagare tasse, magari con sanzioni amministrative), ma i suoi amministratori vengono assolti in sede penale dall’accusa di omessa dichiarazione. Le diverse soglie di certezza e onere probatorio generano talvolta esiti difformi. Più avanti vedremo esempi concreti tratti dalla giurisprudenza.

Giurisprudenza: casi pratici e orientamenti delle corti

Nel corso degli anni, numerose pronunce – soprattutto della Corte di Cassazione – hanno delineato i contorni applicativi dell’esterovestizione, sia sul piano tributario che su quello penale. Analizziamo i casi più significativi e i principi di diritto emersi, utili per capire quando viene riconosciuta l’esterovestizione e con quali effetti.

Caso Dolce & Gabbana (Corte Cass. pen. 43809/2015)

Uno dei casi più celebri è quello dei stilisti Dolce & Gabbana, riguardante la cessione dei marchi del gruppo a una società di diritto lussemburghese (Gado Sarl) con conseguente canalizzazione all’estero dei ricavi da royalties. L’operazione fu contestata come esterovestizione dalla Procura di Milano già nel 2007, ipotizzando che la Gado in Lussemburgo fosse una scatola vuota creata al solo scopo di evitare le tasse italiane sulle sfruttamento dei marchi. In primo grado i due stilisti furono condannati per omessa dichiarazione, ma la vicenda arrivò in Cassazione la quale – con sentenza depositata nel 2015 – annullò senza rinvio le condanne, assolvendo gli imputati perché il fatto non sussiste.

La motivazione della Cassazione (Sez. III pen., sent. n. 43809 del 24/10/2015) richiamò concetti chiave: pur riconoscendo che ci si trovava in presenza di una controllata estera con funzioni di gestione di beni immateriali del gruppo italiano, i giudici affermarono che non era stata provata la natura di costruzione puramente artificiosa della società lussemburghese. In particolare, la Corte sostenne che:

  • Non è sufficiente, per dichiarare l’esterovestizione, dimostrare che “gli impulsi gestionali partivano dall’Italia” (cioè che la controllante italiana influiva sulle decisioni): se così fosse, ogni gruppo multinazionale con sede di gruppo in Italia sarebbe a rischio, ma ciò contrasterebbe col principio di libertà di stabilimento. Bisogna invece accertare che la controllata estera sia una costruzione di puro artificio, ovvero una semplice casella postale o schermo senza reale attività.
  • Nel caso concreto, la presenza in Lussemburgo di un vero ufficio, di alcuni membri del management effettivamente residenti lì, lo svolgimento di assemblee sul posto, l’attivazione di consulenze locali su proprietà industriale, erano indici di sostanza economica non trascurabili. Inoltre, elemento decisivo, in parallelo il processo tributario si era concluso a favore dei contribuenti: la Commissione Tributaria Regionale aveva annullato gli avvisi di accertamento riconoscendo che la sede effettiva della società era in Lussemburgo.
  • In virtù di tali circostanze, la Cassazione ritenne mancasse la prova certa del disegno fraudolento. Vi era dubbio sulla totale artificiosità dell’operazione, quindi – applicando il beneficio del dubbio penale – gli imputati andavano assolti perché non si poteva affermare con certezza il dolo di evasione. In sintesi, anche un minimo di operatività reale all’estero fu sufficiente a far cadere l’accusa penale, evidenziando come il giudice penale richiede un “quid pluris” di evidenza per condannare rispetto al giudice tributario.

Il principio enucleato dal caso D&G è che “per il penale serve un’esterovestizione dai connotati manifestamente artificiosi; se c’è incertezza e qualche parvenza di genuinità, vale il favor rei”. Questo orientamento ha fatto scuola. Dopo la pronuncia, varie inchieste simili sono state ridimensionate o archiviate in fase preliminare quando emergevano elementi sostanziali a favore dei contribuenti.

Altre pronunce di merito e legittimità (2015–2023)

  • Cassazione penale n. 19007/2015 (caso società spagnola) – Citata in precedenza, riguarda una società spagnola interamente controllata da un’italiana, senza dipendenti né struttura, amministrata da un consulente spagnolo ma di fatto gestita dall’Italia. La Cassazione confermò che quella era un’esterovestizione pura e che l’amministratore della controllante italiana ne rispondeva ex art.5 D.Lgs.74/2000. Interessante l’obiter dictum: il fatto che la società fosse stata creata anche per finalità (apparentemente) commerciali – vendere olio di qualità inferiore in Spagna – non esclude l’esterovestizione se poi la gestione reale è in Italia. In sostanza, non basta addurre uno scopo economico generico: se mancano i presupposti di autonomia all’estero, resta una sede fittizia.
  • Procedimento di Macerata 2015 (società spostata a Madeira) – Caso citato nella dottrina. Un’azienda di Civitanova Marche aveva trasferito la sede legale a Madeira (Portogallo), mantenendo attività in Italia; la GdF contestò omessa dichiarazione per esterovestizione. Ebbene, nel 2015 la Procura stessa chiese l’archiviazione alla luce dei principi del caso D&G: si riscontrò che la società di Madeira non era un semplice schermo (aveva parte del management e riunioni in Portogallo, etc.) e già i giudici tributari avevano dato ragione al contribuente confermando la residenza estera. Questo esempio dimostra l’impatto deterrente della sentenza D&G: le procure valutano con maggior cautela le accuse penali di esterovestizione, soprattutto quando il contribuente ottiene decisioni favorevoli in sede tributaria. Un esito positivo nel contenzioso tributario (annullamento degli avvisi) diviene un potente argomento difensivo in penale, in quanto mina la certezza sull’elemento oggettivo del reato (residenza in Italia) e quindi sul dolo.
  • Cassazione pen. n. 20856/2018 – Questa sentenza della Cassazione, sezione III penale, è importante perché sottolinea fortemente l’aspetto dell’obbligo dichiarativo. Abbiamo già citato un estratto: la Corte vi affermò che l’obbligo di presentare dichiarazione sussiste anche per una società formalmente estera quando in Italia si svolgono la gestione amministrativa, le decisioni strategiche, industriali e finanziarie, e la programmazione degli atti necessari a realizzare l’oggetto sociale. Il luogo di adempimento dei contratti o di esecuzione dei servizi (magari all’estero) è irrilevante, se poi tutto il cervello dell’impresa è in Italia. Ciò ribadisce il concetto di “sede di direzione effettiva” come discriminante. Inoltre, la sentenza sottolinea che il dolo specifico di evasione è intrinseco nell’esterovestizione stessa: creare un meccanismo per sottrarsi all’obbligo dichiarativo è di per sé indice dello scopo di evasione. In sintesi Cass. 20856/18 conferma che società esterovestita = obbligo dichiarativo violato = reato, salvo prova contraria.
  • Cassazione trib. nn. 11709 e 11710/2022, ordinanza 23225/2022 – Queste pronunce, confermate poi dall’ordinanza n.23225 del 25/07/2022, riguardano il versante tributario e affermano un principio già accennato: la contestazione di esterovestizione non richiede la prova di un’elusione fiscale ulteriore o di un fine esclusivo di vantaggio fiscale. In altri termini, per la Cassazione tributaria 2022, è sufficiente che siano integrati i presupposti oggettivi di residenza in Italia (sede effettiva in Italia) per legittimare l’accertamento, anche se l’operazione di localizzazione all’estero non è accompagnata da ulteriori artifici o anche se l’impresa sostiene che vi fossero ragioni economiche. Questo filone giurisprudenziale enfatizza il concetto di substance over form: una volta accertata la sostanza italiana, l’intento evasivo si presume dalla manifesta incongruenza tra forma e realtà. Ad esempio, Cass. ord. 4463/2022 e 8297/2022 hanno ribadito che la collocazione fittizia della residenza all’estero implica di per sé un abuso, ma (nota bene) richiede in ogni caso di provare l’esistenza del vantaggio fiscale come scopo della manovra. Sembra dunque esserci un fine equilibrio: non serve provare dettagliatamente ogni aspetto del disegno evasivo, ma bisogna quantomeno dimostrare che dall’operazione derivava un beneficio fiscale indebito (il che solitamente è palese: meno tasse pagate all’estero). Questa dicotomia appare più formale che sostanziale, perché in pratica identificare la fittizietà coincide col rilevare il vantaggio fiscale (altrimenti non si spiegherebbe la fittizietà). In sostanza, la giurisprudenza tributaria 2022-2023 conferma l’approccio anti-elusivo rigido: non occorre che il Fisco provi la “volontà fraudolenta” dell’impresa; basta che provi che la residenza estera dichiarata non corrisponde alla realtà economica, e l’accertamento è legittimo.
  • Cassazione pen. n. 12084/2023 – Sentenza penale recente (marzo 2023) menzionata in dottrina. Riguarda un sequestro preventivo di beni in un’indagine per omessa dichiarazione basata su esterovestizione (artt. 5 e 11 D.Lgs.74/2000). La Cassazione ha confermato il sequestro, ritenendo fondati gli indizi di fittizietà della società estera e configurabile il reato. Non abbiamo il testo integrale, ma si deduce che qui gli elementi probatori fossero solidi: probabilmente la società estera era del tutto priva di struttura e l’evasione ingente (oltre soglia), tanto da giustificare misure cautelari reali. Questo dimostra che, quando il quadro indiziario è robusto (esterovestizione “plateale”), la Cassazione penale non esita a convalidare provvedimenti restrittivi, segno che ravvisa gravemente il fumus del reato. In tali casi, se l’iter prosegue, è plausibile si arrivi anche a condanne, a differenza dei casi borderline come D&G.

Quadro d’insieme: l’evoluzione giurisprudenziale mostra una sorta di doppio binario:

  • Giudici tributari (Commissioni Tributarie, Cass. sezione civile): tendenzialmente danno ragione al Fisco quando questo porta evidenze concrete di esterovestizione (assenza di sostanza estera, gestione italiana). Non richiedono di provare la “mala fede” in senso psicologico: la ricostruzione obiettiva dei fatti basta a configurare l’abuso, con conseguente riliquidazione delle imposte dovute. In altre parole, se la società appare chiaramente gestita dall’Italia ed era stata collocata in uno schermo estero, gli accertamenti vengono confermati, a prescindere dalle giustificazioni addotte dal contribuente (salvo che questi riesca a ribaltare gli indizi con prove contrarie forti di attività reale all’estero).
  • Giudici penali (Cass. penale): pur non negando la linea dura contro l’evasione, mostrano un approccio più garantista: per condannare richiedono un quadro probatorio “ancor più stringente”. Sono “inclini ad assolvere se ravvisano elementi che rendono non totalmente fittizia la localizzazione estera”. In pratica, se rimane qualche dubbio, la bilancia pende verso l’imputato (in dubio pro reo). L’esterovestizione penale richiede quindi casi lampanti, dove la società estera è una scatola vuota al 100% e gli amministratori hanno chiaramente occultato redditi.

Questo sdoppiamento porta, come detto, a situazioni peculiari: una società può essere considerata residente in Italia ai fini fiscali (pagando le imposte evase con sanzioni), ma i suoi dirigenti non essere punibili penalmente per mancanza di prova oltre ogni dubbio del loro dolo. È accaduto appunto con Dolce & Gabbana, ed è concettualmente possibile in altri casi simili.

Accertamenti fiscali per esterovestizione: fase amministrativa e difesa del contribuente

Dal punto di vista pratico, cosa succede se il Fisco sospetta un’esterovestizione? E come può difendersi il contribuente (il “debitore” d’imposta)? In questa sezione esaminiamo il procedimento di accertamento e forniamo linee guida su come affrontare una contestazione di residenza fittizia all’estero, con consigli basati sulla normativa e sull’esperienza di casi concreti.

Procedimento di accertamento e conseguenze fiscali

Un’indagine per esterovestizione inizia di solito con attività di intelligence dell’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate) o della Guardia di Finanza. I segnali d’allarme possono giungere da varie fonti: ad esempio, dati dell’Anagrafe tributaria (soggetti italiani che detengono società estere), informazioni scambiate con autorità estere (scambio automatico di informazioni finanziarie, registro titolari effettivi, etc.), o semplicemente l’analisi delle dichiarazioni dei redditi di persone fisiche che improvvisamente spariscono dal fisco italiano perché dichiarano di essersi trasferite all’estero tramite società.

Quando prende corpo il sospetto, il Fisco può attivare una verifica fiscale. Nel caso di società esterovestite, spesso la verifica riguarda i soci o la società italiana collegata. La Guardia di Finanza può svolgere accessi, ispezioni e controlli in Italia per raccogliere documentazione (es. email, contratti, libri contabili se esistono sedi secondarie in Italia, ecc.). Può anche avvalersi degli strumenti di cooperazione internazionale per acquisire informazioni dal Paese estero (ad esempio, chiedere all’autorità estera conferma su dipendenti iscritti, sedi, bilanci, ecc.).

Una volta raccolti sufficienti elementi, l’Agenzia delle Entrate notifica un processo verbale di constatazione e poi un avviso di accertamento contestando formalmente l’esterovestizione. In pratica l’accertamento ridetermina la posizione fiscale come se la società fosse stata residente in Italia:

  • Viene richiesto il pagamento dell’IRES sui redditi non dichiarati (aliquota 24% sugli utili globali, per ciascun anno non prescritto). Se si tratta di una società di persone o assimilata, le imposte vengono imputate per trasparenza ai soci italiani.
  • Può essere richiesto l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) se applicabile all’attività in questione, sempre sui redditi non dichiarati.
  • Si aggiungono le sanzioni amministrative per omessa dichiarazione (o infedele dichiarazione, a seconda dei casi). Le sanzioni tributarie previste dal D.Lgs. 471/1997 per omessa dichiarazione vanno dal 120% al 240% dell’imposta dovuta, con un minimo di €250. In caso di dichiarazione infedele, dal 90% al 180% della maggiore imposta. In pratica, nelle esterovestizioni contestate come omessa dichiarazione, ci si attesta tipicamente intorno al 150% – 180% dell’imposta evasa per anno. Ciò significa che, ad esempio, se per un anno si ritiene evasa IRES per €100.000, la società dovrà pagare quei €100.000 + una sanzione di circa €150.000 (oltre interessi).
  • Interessi di mora sono dovuti su tutte le somme non versate, calcolati dal momento in cui le imposte erano esigibili (di norma dalla data in cui si sarebbe dovuta presentare la dichiarazione per l’anno in questione). Gli interessi possono far lievitare ulteriormente il debito, specie se passano diversi anni prima dell’accertamento.
  • Recupero IVA: se la società estera ha effettuato operazioni in Italia senza applicare IVA (supponendo di non doverlo fare perché non residente), l’Agenzia potrebbe contestare anche l’omessa applicazione dell’IVA italiana su quelle operazioni, considerando la società come soggetto passivo nazionale. Ad esempio, se ha venduto beni in Italia senza addebito IVA perché formalmente esportava alla società estera, in realtà c’era cessione interna soggetta a IVA.
  • Altre imposte indirette: talvolta l’esterovestizione si collega a risparmi su imposte come registro, successione, ecc. (es. trasferimento di asset via estero). L’accertamento potrebbe colpire anche questi aspetti, ad esempio chiedendo l’imposta di registro evasa se un immobile italiano è stato venduto tramite società estera simulando un trasferimento internazionale.

In parallelo, se l’importo evaso supera le soglie penali, l’Agenzia segnala la notitia criminis alla Procura della Repubblica. Quindi il contribuente potrebbe trovarsi ad affrontare due fronti: il contenzioso tributario (in Commissione Tributaria) e un procedimento penale (indagini preliminari per reato tributario). La comunicazione di reato scatta in genere con la chiusura della verifica o emissione dell’avviso, ed è obbligatoria per il Fisco. Pertanto, in caso di contestazione di esterovestizione è altamente probabile (anzi quasi certo, se vi è imposta evasa > soglia) che parta anche un procedimento penale per omessa dichiarazione. La Procura potrà a sua volta disporre sequestri preventivi a garanzia del credito erariale (confisca per equivalente), come visto in Cass. 12084/2023 dove fu confermato un sequestro di 4,5 milioni di euro.

Entità del danno e periodi accertabili: l’Agenzia delle Entrate può normalmente accertare entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui andava presentata la dichiarazione (ordinario) – esteso a otto anni in caso di omessa dichiarazione. Dunque, se una società era esterovestita e non ha mai dichiarato nulla in Italia, il fisco può riprendere fino a 8 annualità a ritroso. Ad esempio, se nel 2025 contesta esterovestizione dal 2017 in poi, potrebbe emettere avvisi per 2017-2018-2019-2020-2021-2022 (otto anni se non dichiarati). È evidente come il debito tributario potenziale sia enorme, considerando imposte cumulate, sanzioni e interessi su tanti anni. Si può facilmente arrivare a dover pagare più del doppio di quanto originariamente non pagato. Inoltre, in caso di condanna penale, possono aggiungersi sanzioni accessorie come l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche (per gli amministratori condannati).

Riassumendo i rischi per il contribuente esterovestitore:

  • Recupero imposte non versate (IRES, IVA, IRAP, ecc.) con effetto retroattivo sugli anni accertati.
  • Sanzioni tributarie molto elevate, fino al 180% dell’imposta evasa per ciascun anno (omessa dichiarazione).
  • Interessi legali/moratori su tutti gli importi evasi.
  • Rischio penale: processo per omessa dichiarazione (reclusione potenziale 2-5 anni); eventuali aggravanti se frodi complesse.
  • Sequestro preventivo/confisca: blocco di beni personali o sociali fino a concorrenza delle imposte evase (spesso viene aggredito il patrimonio degli amministratori/soci, soprattutto se la società estera non è raggiungibile).
  • Danni reputazionali e civili: l’azienda può vedere compromessi i rapporti con partner commerciali; se l’esterovestizione ha coinvolto vendite di asset, l’acquirente può essere chiamato come responsabile d’imposta (ad es. se comprò un immobile con schema estero, potrebbe dover pagare imposta registro evasa).
  • Costi difensivi: vanno messi in conto spese legali e consulenziali sia per il ricorso tributario sia per l’eventuale procedimento penale, che possono protrarsi per anni.

È dunque evidente che difendersi efficacemente da una contestazione di esterovestizione è cruciale per l’imprenditore coinvolto, per evitare conseguenze devastanti.

Strategie difensive e onere della prova: come tutelarsi

Dal punto di vista del debitore (contribuente) accusato di esterovestizione, la difesa si gioca sia sul piano preventivo (predisporre elementi a supporto della reale esterità fin dall’inizio) sia sul piano contenzioso (una volta ricevuto l’accertamento, contestarlo in giudizio con prove e argomentazioni solide). Vediamo le principali linee d’azione difensive:

1. Predisporre sin dall’inizio una sostanza estera genuina: la miglior difesa è evitare di trovarsi in situazione di esterovestizione conclamata. Se un imprenditore decide di aprire una società all’estero, deve impostarla correttamente, dotandola di adeguata sostanza economica nel paese scelto. Ciò significa: affittare un ufficio vero, assumere eventualmente personale locale, aprire conti bancari in loco, mantenere la documentazione e la contabilità localmente, tenere le riunioni societarie nel paese estero, ottenere una residenza fiscale estera riconosciuta (certificato dall’autorità locale). Insomma, agire come una qualunque società davvero operativa in quel Paese. Inoltre, evitare schemi troppo artificiali: ad esempio, se il 100% del fatturato continua a provenire dall’Italia e nulla dal paese estero, sarà difficile difendere la scelta. Meglio sviluppare un vero mercato estero o diversificare le attività. In sintesi, substance, substance, substance! Documentare e strutturare la presenza estera in modo che, qualora il Fisco indaghi, trovi effettivamente un’azienda funzionante e non un guscio vuoto.

2. Onere probatorio e raccolta di prove contrarie: se l’accertamento è già partito, il contribuente deve raccogliere e presentare prove tangibili che smentiscano la tesi dell’Amministrazione, ovvero che dimostrino la reale operatività all’estero e l’assenza di direzione in Italia. Possibili prove utili (da produrre in sede di contraddittorio con l’Ufficio, in allegato al ricorso tributario, e anche in sede penale se serve) includono:

  • Documentazione di locali e personale all’estero: contratti di affitto o proprietà di uffici all’estero, bollette e utenze intestate alla società nel paese estero, fotografie dei locali, contratti di lavoro di dipendenti locali, buste paga, spese operative sostenute in loco (ricevute di fornitori, acquisti, ecc.). Tutto ciò mostra che la società esiste fisicamente e ha costi e struttura nel paese dichiarato. Esempio: se è una società UK, esibire un contratto di locazione di un ufficio a Londra, con relative fatture di elettricità, e magari contratti di 2-3 impiegati con indirizzo nel Regno Unito.
  • Verbali societari e prove di governance estera: presentare i verbali delle assemblee dei soci e delle riunioni del CdA tenutesi all’estero, con indicazione dei luoghi e firmatari. Meglio ancora, allegare biglietti aerei, ricevute di viaggio che mostrino che gli amministratori italiani si recavano effettivamente all’estero per partecipare a tali riunioni. Ciò contrasta l’idea che le decisioni fossero prese comodamente in Italia.
  • Testimonianze di terzi: raccogliere dichiarazioni giurate o lettere da parte di clienti, fornitori o partner esteri che attestino di aver sempre interagito con la sede estera e non con quella italiana. Ad esempio, un fornitore tedesco dichiara: “ho venduto prodotti alla società X e ho sempre trattato con il loro ufficio in Slovenia, i referenti erano lì”. Oppure clienti che confermano di aver visitato gli uffici esteri. Tali testimonianze possono essere allegate nel contenzioso tributario (magari come perizie giurate) e chieste in sede penale come prove testimoniali.
  • Consulenze e perizie tecniche: può essere utile far redigere una perizia da un professionista locale che certifichi la conformità della società alle normative locali e la presenza di sostanza economica. Ad esempio un commercialista del luogo attesta che la società ha svolto regolarmente attività X in quel Paese, pagando le imposte lì e operando con determinati mezzi. Benché non “prova” in senso stretto, dà autorevolezza alla tesi difensiva.
  • Argomentazioni giuridiche e precedenti: il difensore fiscale solleverà ogni vizio procedurale possibile (es. se l’accertamento è carente di motivazione, o se non è stato dato giusto contraddittorio, ecc.). Nel merito, citerà la giurisprudenza più favorevole al contribuente per alzare l’asticella probatoria a carico del Fisco. Ad esempio, si potrà richiamare il principio (ribadito nel caso D&G) secondo cui bisogna provare la costruzione puramente artificiosa e non basta evidenziare convenienza fiscale. Oppure sottolineare che l’esistenza di qualche ragione extra-fiscale (anche minima) va considerata. In caso di società in ambito UE, si invocherà il rispetto della libertà di stabilimento e la giurisprudenza europea (es. Cadbury Schweppes): la circostanza che una società sia creata in uno Stato membro a fini fiscali non costituisce di per sé abuso, se vi è un minimo di attività reale. Questo per persuadere i giudici tributari a essere più rigorosi nel valutare l’abuso, e i giudici penali a dubitare del dolo.
  • Confutazione specifica degli indizi del Fisco: è importante prendere ciascun elemento contestato dall’Ufficio e fornire una spiegazione o prova contraria. Ad esempio, se l’Agenzia scrive “la società non aveva dipendenti esteri”, si può replicare “non ne aveva perché non servivano: l’attività è svolta tramite contratti di outsourcing locale, ecco copia dei contratti con la società di servizi locale che fornisce personale”. Oppure se contestano “nessun ufficio proprio”, rispondere “l’azienda utilizzava un business center attrezzato, ecco il contratto di domiciliazione e foto della postazione”. In pratica, neutralizzare uno a uno gli indizi con spiegazioni documentate.
  • Documentazione internazionale: se c’è una Convenzione contro le doppie imposizioni con il Paese estero, procurarsi il certificato di residenza fiscale estero rilasciato dall’autorità locale e presentarlo. Questo attesta che, secondo l’altro Stato, la società è ivi residente. Si può allora invocare l’art. 4(3) del trattato: se Italia e lo Stato X rivendicano entrambi la residenza, il tie-breaker del trattato assegna la residenza al luogo di direzione effettiva. Attenzione però: se la direzione effettiva è in Italia, il certificato estero serve a poco, perché le autorità estere spesso lo rilasciano in base alla sede legale (non investigano dove sia la gestione effettiva). In trattati più moderni, dove il tie-breaker è demandato ad accordo fra Stati, si potrebbe chiedere l’attivazione della Mutual Agreement Procedure (MAP) per risolvere il conflitto di doppia residenza. Questo è un processo diplomatico tra autorità fiscali: se c’è margine, la difesa può guadagnare tempo o trovare un compromesso attraverso di esso.
  • Procedure deflative e pagamento: valutare sempre se conviene trovare un accordo col fisco. Ad esempio, aderire a un accertamento con adesione (negoziando importi minori) o sfruttare eventuali definizioni agevolate (come condoni, rottamazioni). Pagare il dovuto (anche in parte) può avere ricadute positive sul penale: se si paga tutto prima del processo, come detto, l’art.13 D.Lgs.74/2000 può estinguere i reati di omessa/infedele. Anche pagare durante il processo riduce la gravità e può orientare verso la sospensione condizionale in caso di condanna, o verso patteggiamenti più miti. Dunque, la difesa tributaria dovrebbe essere coordinata con quella penale: ad esempio, può essere opportuno chiudere il contenzioso in via transattiva e saldare il debito fiscale, per poi chiedere in sede penale il proscioglimento per avvenuto pagamento (se nei termini) o quantomeno una pena attenuata e sospesa.

In generale, il contribuente accusato di esterovestizione deve assumere un atteggiamento proattivo nella difesa. Non limitarsi a negare, ma fornire al giudice una narrazione alternativa credibile e supportata da prove: “È vero, abbiamo scelto di stabilirci in X per il regime fiscale, ma non era solo uno schermo: guardate, abbiamo uffici, personale, operazioni reali in X. La direzione effettiva è lì, non in Italia, lo dimostrano questi fatti…”. Se questa narrazione regge, quantomeno si instilla il dubbio e si può spuntare un esito favorevole in sede penale (assoluzione) e magari anche tributaria (annullamento totale o parziale degli avvisi).

Viceversa, se effettivamente la società era poco più che un fantasma all’estero, la strategia difensiva migliore può essere tentare di transigere col fisco limitando i danni economici, e invocare attenuanti in sede penale (ad esempio sostenere l’assenza di precedenti, la resipiscenza con pagamento del dovuto, etc., per contenere la pena).

Caso di persone fisiche: come visto brevemente, l’esterovestizione riguarda soprattutto società, ma c’è un caso analogo per individui: il trasferimento fittizio della residenza all’estero di una persona fisica. La legge (art. 2, co. 2-bis TUIR) prevede che se un cittadino italiano si trasferisce in un Paese a fiscalità privilegiata (paradiso fiscale) e si iscrive all’AIRE, scatta una presunzione che non abbia perso la residenza italiana, salvo prova contraria. Quindi, ad esempio, un contribuente che sposta formalmente la residenza a Monaco o Dubai, ma di fatto continua a vivere gran parte dell’anno in Italia, potrà essere considerato residente italiano e tassato su tutti i suoi redditi mondiali (oltre ad eventuali controlli col redditometro sul tenore di vita). Le difese per le persone fisiche consisteranno nel provare di aver trasferito il centro degli interessi vitali all’estero (dimora abituale, famiglia, attività lavorativa all’estero). L’Agenzia è divenuta molto attenta a questi casi, specie di VIP, sportivi, influencer che risultano residenti in paesi esotici ma trascorrono molto tempo in Italia. Anche qui, la logica è uguale: forma vs sostanza. Se la sostanza contraddice la forma, scatterà l’accertamento (e potenzialmente, pure reati come omessa dichiarazione del reddito personale). Dunque le strategie difensive per individui sono analoghe: fornire prove di vita all’estero (bollette, affitti, spese con carta di credito all’estero, scuola dei figli all’estero, etc.) e smontare le pretese del Fisco caso per caso.

Esempi pratici di esterovestizione (simulazioni)

Per dare un’idea concreta di come si manifesta l’esterovestizione e come viene valutata, presentiamo qui alcuni scenari tipici con esito ipotetico, richiamando in parte casi reali:

Esempio 1: La “UK Limited” del consulente italiano – Mario, consulente informatico in Italia, costituisce una Ltd in Inghilterra e fa risultare che le sue consulenze sono fornite dalla società inglese. I clienti (italiani) pagano le fatture alla Ltd; Mario si fa poi girare i soldi con vari stratagemmi. In Italia non dichiara più nulla (formalmente è dipendente o collaboratore della Ltd). La società ha sede legale in un ufficio virtuale a Londra, ma Mario vive e lavora da Milano. Nessun dipendente in UK, nessun ufficio reale. Questo è un caso classico di esterovestizione. Indicatori: attività (consulenze) svolte in Italia, clienti italiani; la Ltd è un guscio senza struttura in UK. Esito probabile: l’Agenzia accerta che la sede effettiva della Ltd è in Italia (Mario stesso ne è l’amministratore di fatto operando da qui). Tassazione di tutti i compensi in Italia come redditi della società (IRES) e probabilmente anche riqualificazione in redditi di Mario direttamente (in quanto eventuale dividendi occultati). Sanzioni amministrative per omessa dichiarazione (anni non dichiarati) e avvio di procedimento penale per Mario come amministratore di fatto col reato di omessa dichiarazione sopra soglia (se i compensi superano 50k annui). Mario potrà difendersi solo dimostrando che la società UK aveva una qualche attività reale in UK – scenario difficile dato che tutto avveniva in Italia. Probabilmente la sua scelta era basata sulla (falsa) convinzione che bastasse aprire una Ltd per “pagare tasse in Inghilterra” e nulla in Italia; in realtà così facendo ha integrato un illecito. Esito penale probabile: condanna, salvo patteggiamento; l’esterovestizione è manifesta e difficilmente potrà invocare attenuanti se non il pagamento integrale del dovuto.

Esempio 2: Holding in Lussemburgo di un gruppo italiano – La famiglia Rossi possiede un gruppo industriale in Italia. Nel 2018 crea una holding in Lussemburgo, che acquisisce le quote delle società operative italiane. La holding ha come amministratore un fiduciario lussemburghese, ma il CdA include i due figli Rossi residenti a Milano. Non ha uffici né dipendenti propri, si appoggia allo studio del fiduciario. Scopo: incassare i dividendi delle controllate italiane al netto della ritenuta in convenzione (5% invece che tassazione integrale se fossero persone fisiche). La holding teoricamente gestisce anche i marchi del gruppo, ma in loco non svolge attività particolare. Scenario: Questa è esattamente la situazione mirata dall’art. 73 co.5-bis TUIR. La società estera controlla società italiane, ed è controllata a sua volta da italiani + amministrata in maggioranza da italiani. Presunzione: la holding è presunta residente in Italia. La famiglia Rossi potrebbe tentare di portare prove contrarie (ad esempio mostrando che la holding investe anche in altre società estere, che prende decisioni in Lussemburgo tramite il fiduciario ecc.), ma dati gli elementi, la presunzione è forte. Esito fiscale: l’Agenzia considera la holding fiscalmente residente in Italia sin dall’origine. Ciò comporta che i dividendi ricevuti dovevano essere soggetti a tassazione integrale in capo alla holding (IRES) e non solo con ritenuta. Vengono quindi richieste imposte su tutti i dividendi percepiti e non tassati, con sanzioni e interessi. Esito penale: se le somme sono ingenti, i membri del CdA (in particolare i figli Rossi) rischiano l’accusa di omessa dichiarazione per non aver dichiarato i redditi della holding in Italia. Potranno difendersi sostenendo che la holding aveva ragion d’essere (gestione partecipazioni) e qualche attività reale (es. delibere fatte in Lussemburgo). A seconda delle prove, potrebbero ottenere l’assoluzione penale se dimostrano un minimo di sostanza (come capitato in casi simili, vedi D&G), ma sul piano fiscale probabilmente dovranno comunque pagare le imposte evase. In definitiva, la famiglia avrebbe potuto ottenere gli stessi benefici fiscali con strumenti leciti (ad es. usando una holding italiana con participation exemption al 95% sui dividendi): creando invece uno schermo estero senza funzione genuina, si sono esposti a sanzioni e reati.

Esempio 3: Trasferimento delocalizzato vs. fittizio – Due imprenditori, Alfa e Beta, entrambi di Padova, decidono di trasferire le loro aziende manifatturiere in due modi diversi:

  • Alfa sposta davvero l’intera produzione in Slovenia: apre uno stabilimento lì, assume 50 operai sloveni, chiude la sede italiana e vende solo all’estero. Mantiene in Italia solo una piccola unità commerciale.
  • Beta invece costituisce una società in Slovenia ma lascia la produzione in Veneto, limitandosi a far fatturare le vendite dalla società slovena. I macchinari restano in Italia in uso a una consociata di comodo, la gestione di fatto è italiana.
    Nel caso di Alfa, non c’è esterovestizione: il trasferimento è sostanziale. La società di Alfa, pur essendo controllata da un italiano, ha realmente sede di gestione e attività principale in Slovenia (fabbrica e dipendenti lì). Dunque, anche se il fisco italiano guarderà con attenzione (magari perché Alfa vive ancora in Italia), difficilmente potrà contestare residenza italiana all’azienda: gli elementi oggettivi indicano l’estero. Alfa dovrà comunque stare attento a eventuali stabili organizzazioni in Italia se ha rimasto qualche ufficio commerciale, ma può regolarle. Beta invece è un caso di esterovestizione palese: la società slovena è una mera conduit per evitare le imposte italiane, mentre l’attività resta in Italia. Esito Beta: l’Agenzia contesterà residenza in Italia e pretenderà IVA e imposte non versate in Italia sulle vendite, con sanzioni. Beta subirà con ogni probabilità un procedimento penale (importi grandi, fabbrica nascosta = frode). Lezione: trasferire davvero un business è lecito (Alfa), simulare di farlo restando in Italia è reato (Beta).

Esempio 4: Persona fisica – l’influencer a Dubai – Un famoso influencer italiano, residente fiscalmente in Italia fino al 2023, si trasferisce a Dubai per sfuggire al fisco. Si iscrive all’AIRE e dichiara residenza negli Emirati. Tuttavia trascorre in Italia ~200 giorni l’anno facendo eventi, sponsorizzazioni e mantenendo qui la famiglia. Continua a possedere una casa in Italia dove vive per lunghi periodi. Non dichiara più nulla al fisco italiano dal 2024, sostenendo di essere residente a Dubai (dove peraltro non paga imposte su quanto guadagna). Cosa succede: L’Agenzia delle Entrate, vedendo il personaggio ancora molto attivo in Italia, avvia verifiche. In base all’art. 2 co.2-bis TUIR, presume che l’influencer sia ancora residente in Italia (presunzione per trasferimenti in paradisi fiscali). Confronta i dati: l’influencer appare in decine di eventi in Italia sui social, i contratti pubblicitari sono gestiti da agenzie italiane, ecc. Viene quindi emesso accertamento per “fittizia emigrazione”: gli si imputano in Italia tutti i redditi del 2024 non dichiarati (compensi da sponsor, ecc.), con sanzioni per omessa dichiarazione. Difesa influencer: per evitare questo, dovrebbe dimostrare di aver realmente spostato il centro vitale a Dubai (ad es. mostrando che passa più tempo lì che in Italia, che la sede della sua attività mediatica è lì, etc.). Se non ci riesce, dovrà pagare imposte e sanzioni italiane su quanto guadagnato. Penalmente, se i redditi evasi superano €50.000/anno (cosa probabile data la fama), rischia il reato di omessa dichiarazione come persona fisica. Dovrebbe allora affrettarsi a pagare il dovuto (magari aderendo a accertamento) per sfruttare l’esimente penale del pagamento integrale. Morale: trasferirsi in paesi offshore sotto i riflettori senza tagliare i ponti con l’Italia è estremamente rischioso; il fisco italiano ormai monitora assiduamente queste situazioni.

Esempio 5: Struttura estera borderline – Un gruppo italiano di e-commerce apre una filiale a Dublino (Irlanda) dove il regime fiscale è più leggero. Costituisce lì una società che gestisce il sito web e fattura le vendite europee. In Irlanda la corporate tax è 12.5%. La società irlandese ha effettivamente un ufficio con 5 dipendenti dedicati a IT e marketing. Però, molte decisioni strategiche su pricing e sviluppo prodotto continuano ad essere prese dalla casa madre italiana, e gran parte dei prodotti venduti sono stoccati in Italia. Questo caso è più sfumato. La società irlandese non è fittizia al 100% (ha struttura e personale), ma potrebbe essere considerata “pilotata” dall’Italia. L’Agenzia potrebbe provarci, soprattutto se intercetta comunicazioni dove i manager italiani dirigono quelli irlandesi. La difesa del gruppo consisterebbe nel dimostrare l’autonomia operativa della società irlandese per le sue funzioni (es. evidenziare che ha un proprio management locale che prende le decisioni operative di marketing per quell’area). Se la prova evidenzia troppa influenza italiana, il fisco potrebbe contestare o un’esterovestizione (sede effettiva in Italia) o quantomeno una stabile organizzazione della società irlandese in Italia (per via dei magazzini e logistica in Italia). Esito possibile: si potrebbe arrivare a un compromesso in contenzioso, con riconoscimento di una stabile organizzazione in Italia tassata per la parte di attività svolta qui, ma non l’azzeramento totale dell’entità irlandese. Ciò per dire che esistono zone grigie dove non è tutto bianco o nero – qui la sostanza economica è mista tra due paesi. In questi casi, l’esito dipende molto dalla qualità delle evidenze e anche dalle procedure di risoluzione dei conflitti internazionali (potrebbe intervenire l’autorità irlandese contestando una doppia imposizione).

Conclusioni operative: chiunque operi tramite società estere collegate all’Italia deve valutare attentamente il rischio esterovestizione. Domande da porsi: Ho una struttura reale all’estero? Le funzioni decisionali dove si svolgono? Potrei dimostrare a un verificatore che la mia società estera non è un semplice schermo? In caso di dubbio, è opportuno correre ai ripari: ad esempio, aumentare la sostanza all’estero oppure, se il gioco non vale la candela, riportare l’attività in Italia e sanare il passato (magari mediante adesione o ravvedimento, se possibile). Consulenti esperti possono simulare uno stress test della situazione, individuando eventuali criticità. Il punto di vista del debitore deve essere lungimirante: prevenire è meglio che curare, perché una volta scattato l’accertamento, come abbiamo visto, le conseguenze sono severe.

Domande frequenti (FAQ) sull’esterovestizione

D1: L’esterovestizione è sempre un reato?
R: No, non sempre. L’esterovestizione in senso lato è un fenomeno fiscale: può essere semplicemente contestata con sanzioni amministrative (tasse evase + multe) se gli importi sono modesti o se manca il requisito penale. Diventa un reato solo quando scatta una specifica fattispecie penale, tipicamente l’omessa dichiarazione ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000. Ciò richiede che vi sia un obbligo di dichiarare in Italia violato deliberatamente e che l’imposta evasa superi la soglia di punibilità (50.000 € annui). Quindi, una piccola esterovestizione che evade pochi soldi non è reato (resta illecito amministrativo); viceversa un’esterovestizione significativa configura reato. Inoltre, se la società estera è effettivamente indipendente (non c’è obbligo dichiarativo in Italia), non vi è reato perché manca l’elemento materiale. In sintesi: esterovestizione = reato solo se effettivamente era dovuta una dichiarazione in Italia (sede effettiva qui) e l’evasione supera le soglie. Altrimenti, è un illecito civile/tributario ma non penale.

D2: Quali norme italiane regolano la residenza fiscale e l’esterovestizione?
R: I riferimenti principali sono:

  • Art. 73 TUIR (DPR 917/86): definisce i criteri di residenza fiscale per società ed enti (sede legale, sede direzione effettiva, sede attività principale). Questo è il fulcro per valutare se una società estera va considerata fiscalmente italiana.
  • Art. 73, commi 5 e 5-bis TUIR: contengono le presunzioni anti-esterovestizione. Il comma 5-bis in particolare presume residenti le società estere controllate da italiani e con partecipazioni di controllo in società italiane (holding esterovestite).
  • Art. 2, co.2-bis TUIR: presunzione analoga per persone fisiche trasferite in paradisi fiscali (fittizia emigrazione).
  • D.Lgs. 74/2000, art. 4 e 5: definiscono i reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione che si applicano in caso di esterovestizione penalmente rilevante.
  • Legge 24 dicembre 2019 n.157 (decreto fiscale 2019): ha inasprito le pene per l’omessa dichiarazione (portandole a reclusione 2-5 anni).
  • Legislazione antiriciclaggio e monitoraggio fiscale (es. quadro RW per attività estere): impone ai residenti di dichiarare partecipazioni e investimenti esteri, spesso le esterovestizioni emergono anche da lì.
  • Giurisprudenza (Cassazione e corti tributarie): pur non essendo “norme”, di fatto con le loro sentenze hanno chiarito come interpretare le norme sopra. Ad es. Cass. 43809/2015 (Dolce & Gabbana) sul confine abuso/reato, Cass. 20856/2018 sul dolo implicito, Cass. 23225/2022 sull’irrilevanza di provare l’intento elusivo ulteriore.

D3: È lecito trasferire la sede all’estero per risparmiare sulle tasse?
R: Sì, è lecito se il trasferimento è reale ed effettivo, no se è fittizio. Questo è in linea col principio di libertà di stabilimento garantito dall’UE. Costituire una società in un paese a fiscalità inferiore è permesso, a condizione che l’impresa vi operi davvero e non sia solo un “guscio” per aggirare le regole. La Corte di Giustizia UE (caso Cadbury Schweppes) ha sancito che creare una società in un altro Stato membro per usufruire di normative fiscali più vantaggiose non costituisce di per sé abuso, purché la società svolga un’attività economica effettiva lì. Quindi, se un’azienda sposta davvero strutture, personale e decisioni all’estero (ad esempio aprendo una filiale produttiva in Portogallo, con genuina attività locale), può beneficiare del regime fiscale di lì e pagare meno imposte in modo legittimo. Viceversa, se “trasferisce” solo la targa aziendale lasciando tutto il resto in Italia, allora non è un vero trasferimento ma un’esterovestizione illecita. In breve: pianificazione fiscale internazionale lecita – sì, se c’è sostanza; evasione tramite esterovestizione – no, verrà sanzionata.

D4: Quali sono le sanzioni amministrative in caso di esterovestizione accertata?
R: Le sanzioni tributarie prevedono il recupero di tutte le imposte dovute in Italia come se la società fosse stata dichiarata residente qui, più le seguenti sanzioni pecuniarie:

  • Omessa dichiarazione dei redditi: sanzione dal 120% al 240% dell’imposta evasa (minimo €250) per ogni anno non dichiarato. In pratica viene applicata quasi sempre intorno al 150-180% dell’imposta evasa. Ad esempio su €100k evasi, sanzione €150k-180k.
  • Dichiarazione infedele (se contestata invece che omessa): sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta.
  • Omessa dichiarazione IVA: analogamente, sanzione 120%–240% dell’IVA evasa.
  • Altre sanzioni: se ad es. non è stata presentata la dichiarazione di inizio attività IVA in Italia, c’è sanzione fissa; se non si sono tenute scritture in Italia, altre sanzioni minori. Inoltre, in caso di stabile organizzazione occulta, sanzioni per omessa dichiarazione dei redditi della stabile org.
    Gli interessi di mora (tasso legale) si aggiungono a tutte le somme. Non ci sono sanzioni “personali” pecuniarie a carico degli amministratori in sede tributaria (le sanzioni tributarie restano a carico del contribuente-società, salvo responsabilità solidale in alcuni casi), però l’amministrazione può perseguire il socio amministratore per il pagamento se la società estera non è escutibile, specie se viene dimostrato che società e socio coincidevano sostanzialmente (responsabilità patrimoniale estesa). In sintesi, finanziariamente l’impatto è pesantissimo: tra imposte e sanzioni si può dover pagare oltre il doppio di quanto non versato originariamente.

D5: Cosa rischiano penalmente gli amministratori/soci in caso di esterovestizione?
R: Sul piano penale, i rischi principali sono:

  • Accusa di omessa dichiarazione dei redditi (art.5 D.Lgs.74/2000) a carico degli amministratori (di diritto e di fatto) della società esterovestita. Comporta, in caso di condanna, la reclusione da 2 a 5 anni. Il numero di capi d’imputazione dipende dagli anni contestati (es. omessa dichiarazione 2018, 2019, 2020… ciascuna reato). In caso di patteggiamento o attenuanti, la pena può essere ridotta, ma il reato è comunque considerato grave (non è contravvenzione, è delitto).
  • Accusa di dichiarazione infedele (art.4), meno frequente in queste situazioni, punita con reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi. Potrebbe profilarsi per chi ha simulato costi o sottostimato redditi attraverso l’estero, invece di omettere del tutto.
  • Misure cautelari reali: sequestri preventivi sui beni del valore equivalente alle imposte evase (per garantire la futura confisca). Quindi conti correnti, immobili, auto degli indagati possono essere bloccati durante l’indagine.
  • Eventuale custodia cautelare: di solito per reati fiscali la custodia (arresti) è poco applicata, a meno che non vi siano anche reati associativi. Ma in casi estremi (evasioni molto ingenti, pericolo di fuga) potrebbe essere valutata. Più comuni sono misure interdittive (divieto di esercitare attività d’impresa temporaneamente).
  • Sanzioni penali accessorie dopo condanna: ad esempio, interdizione dagli uffici direttivi di imprese o società per una durata, se condannato un amministratore. Ciò significa che per un certo periodo non potrà ricoprire cariche in società.
    Da ricordare che se l’imputato paga integralmente il debito tributario (imposte + sanzioni) prima della dichiarazione dibattimentale, il reato di omessa o infedele dichiarazione è estinto per legge (causa di non punibilità). Questa è una chance importante per evitare condanne: spesso la difesa punta a risolvere la parte tributaria proprio per beneficiare di questa causa di non punibilità. Infine, se vi è condanna, in genere per soggetti incensurati e se la pena è contenuta entro 2 anni (patteggiamento), può essere concessa la sospensione condizionale e quindi evitare il carcere, pur restando la fedina segnata dal reato.

D6: Come si difende efficacemente un imprenditore accusato di esterovestizione?
R: In buona parte ne abbiamo parlato: la difesa efficace consiste nel dimostrare che la società estera aveva una reale operatività e autonomia all’estero, e che quindi non andava considerata residente in Italia. Ciò implica raccogliere tutte le prove concrete: contratti di affitto uffici esteri, personale locale, foto dei locali, ricevute di meeting all’estero, testimonianze di partner commerciali esteri, ecc. – per provare che non era una “scatola vuota”. Inoltre, contestare i rilievi del Fisco punto per punto con spiegazioni plausibili supportate da documenti (es. “non avevo dipendenti perché esternalizzavo a ditte locali, ecco le fatture”). Utilizzare la giurisprudenza a proprio favore: citare le sentenze come Dolce & Gabbana che dicono che non basta la convenienza fiscale, serve provare l’artificiosità totale. Se applicabile, invocare la libertà di stabilimento UE: “la mia società maltese ha diritto di esistere, ecco qui che effettivamente svolge attività a Malta”. Sul piano strategico, a volte conviene transigere col fisco – ad esempio con un accertamento con adesione – pagando magari meno del richiesto, e così far venir meno parte dell’evasione contestata (riducendo sotto soglia penale certi anni). Pagare il dovuto è quasi d’obbligo se si vuole evitare guai penali: se si può, meglio saldare tutto e chiudere il penale senza processo (art.13 D.Lgs.74). In sintesi: fornire quante più evidenze di sostanza estera, contestare eventuali errori procedurali dell’accertamento, negoziare col Fisco se possibile, e in parallelo predisporre una robusta linea difensiva anche sul fronte penale (con coordinamento tra fiscalista e penalista). E, ancor meglio, agire ex ante: se sai che la tua struttura estera è debole, corri ai ripari prima che arrivi la Finanza, magari rinforzandola o cessandola per tempo e regolarizzando spontaneamente il passato (esiste il ravvedimento operoso che permette di sanare alcune violazioni con sanzioni ridotte, se fatto prima di controlli).

D7: Quali paesi esteri vengono più spesso usati (e scoperti) per esterovestire?
R: L’esperienza italiana ha visto tanti casi con Svizzera e San Marino (soprattutto prima che migliorasse lo scambio di informazioni), poi Lussemburgo, Montecarlo, Panama e paradisi caraibici, Slovenia, Romania, Bulgaria e in generale paesi dell’Est Europa (negli anni 2000, molte PMI italiane aprivano società in Slovenia/Romania per ridurre il carico fiscale e contributivo). Più di recente vanno di moda Dubai/Emirati per persone fisiche facoltose, e Malta, Cipro, Irlanda per società digitali o di gioco online. Anche il Regno Unito (in passato, prima della Brexit) era gettonato per la facilità di aprire LTD e l’assenza di obblighi di capitale sociale, infatti molti casi di piccole esterovestizioni riguardavano UK Ltd con attività effettiva in Italia. In generale, qualsiasi paese a fiscalità privilegiata o con regime societario leggero può essere utilizzato. Però attenzione: l’Agenzia ha un occhio di riguardo proprio verso i paesi notoriamente “offshore”. Se un imprenditore sceglie una giurisdizione come Panama o Isole Vergini, parte già col sospetto addosso. È più credibile, se proprio uno vuole ottimizzare fiscalmente, scegliere un paese “normale” come può essere la Spagna, la Portogallo o l’Irlanda, dove c’è sì un vantaggio ma non troppo sfacciato, e magari esistono anche ragioni di business (mercati emergenti, manodopera qualificata, ecc.). La black list dei “paradisi fiscali” ministeriale (DM 4/5/1999) indica i paesi considerati a regime fiscale privilegiato – trasferirvi la sede fa scattare automaticamente le presunzioni anti-elusive (sia per società che per persone fisiche). Quindi i paesi più usati per esterovestizioni di solito coincidono con quelli black list (tipo Montecarlo, Bahamas, Hong Kong prima degli accordi, ecc.) ma includono anche alcuni white list se offrono vantaggi (Lussemburgo, Irlanda, Malta, Svizzera – ora scambi ma fiscalità vantaggiosa in certi casi). Con l’aumentare degli accordi internazionali di trasparenza, molti paradisi tradizionali sono meno sicuri: oggi chi esteroveste punta a paesi dove c’è sì scambio info, ma contano sul fatto che l’Italia non arrivi a contestare se c’è un minimo di sostanza. Tuttavia, come visto, anche per Malta o Madeira (portogallo) la Cassazione ha vigilato.

D8: In cosa differiscono esterovestizione e stabile organizzazione occulta?
R: Sono due concetti diversi:

  • Esterovestizione: riguarda la residenza complessiva di un soggetto. Si afferma che una società formalmente estera è in realtà residente in Italia (quindi andava tassata su tutto il reddito mondiale in Italia). È un fenomeno “all or nothing”: o la società è considerata italiana a tutti gli effetti, oppure no.
  • Stabile organizzazione occulta: riguarda un’impresa estera che rimane estera, ma che svolge attività in Italia attraverso una sede fissa non dichiarata. In questo caso, non si finge che la società sia italiana, ma si sostiene che abbia un “branch” non dichiarato in Italia. Ciò implica tassare in Italia solo i redditi attribuibili a quella stabile organizzazione (non il reddito mondiale). Ad esempio, una società USA non ha sede effettiva in Italia (la direzione rimane negli USA), però ha di fatto un ufficio commerciale stabile a Milano non dichiarato al fisco: quell’ufficio costituisce stabile organizzazione, quindi la società USA deve pagare imposte in Italia sui profitti generati dall’attività di quell’ufficio.
    Le due situazioni sono mutuamente esclusive: se dichiaro la società residente in Italia (esterovestita), non ha senso parlare di sua stabile organizzazione in Italia (sarebbe parte di sé stessa). Viceversa, se riconosco che è estera ma con branch, non la tratto da residente su tutto. Tuttavia, come rilevato da alcuni autori, certe pronunce hanno fatto confusione, usando elementi della stabile organizzazione per argomentare l’esterovestizione. In pratica, cercavano di provare che la società era fittizia menzionando che c’era una sede di direzione in Italia (che però è proprio il concetto di stabile org). Questo ha portato a critiche perché mischia i piani.
    Implicazioni penali: se è contestata esterovestizione, il reato è in capo ai responsabili della società estera (che viene trattata come italiana). Se invece è contestata solo stabile organizzazione occulta, il soggetto attivo del reato potrebbe essere il referente italiano della stabile org (es. il branch manager) se omissione dichiarativa sui redditi di branch. E la quantità di reddito evaso differisce: l’omessa dichiarazione della società esterovestita riguarda tutti i redditi (molto alta), l’omessa dichiarazione della branch occulta riguarda i soli redditi di branch, spesso più limitati. Quindi è un aspetto importante in processi penali.
    In sintesi, l’esterovestizione è un fenomeno di evasione “globale” (fittizio trasferimento di residenza), la stabile organizzazione occulta è un’evasione “parziale” (occultamento di una base imponibile nel paese). Spesso vengono contestati in alternativa: se non si riesce a provare l’esterovestizione totale, il Fisco almeno vuole tassare la parte italiana come stabile org. In ogni caso, entrambi sono illeciti tributari, ma la difesa potrebbe usare la distinzione per ridurre il danno: convincere che al limite c’era una stabile org, non la residenza intera (così si tassa solo una frazione di utili, e penalmente potrebbe configurarsi reato solo per quell’omissione parziale).

D9: Conviene aprire una società all’estero? Come evitare problemi con l’Italia?
R: Dipende. Se ci sono ragioni di business valide (mercato estero, manodopera, logistica) oltre al vantaggio fiscale, può avere senso – ma occorre farlo bene. Se l’unica motivazione è fiscale e l’attività rimane sostanzialmente in Italia, allora non conviene affatto: i rischi legali e i costi successivi supereranno i risparmi di breve termine. Per evitare problemi, bisogna:

  • Scegliere giurisdizioni cooperative e con fiscalità non troppo squilibrata: Meglio un paese UE con tasse moderate (es. Irlanda al 12.5%, Portogallo 21%) che un paradiso puro a zero tasse. I paradisi sono sorvegliati speciali.
  • Strutturare reale sostanza estera: uffici, dipendenti, amministratori locali qualificati. Non usare solo prestanome: se metti un fiduciario locale, assicurati che fornisca reale gestione quotidiana.
  • Separare le attività: non gestire dall’Italia ciò che formalmente è estero. Evita ad esempio di firmare contratti in Italia a nome della società estera, o di avere tutte le operazioni commerciali condotte da personale in Italia. Se la società estera ha bisogno di un supporto dall’Italia, formalizzalo (es. un contratto di service management tra società, con corrispettivo a valore di mercato) e limitane la portata.
  • Documentare tutto: tieni traccia di viaggi, meeting, decisioni prese all’estero. Fai verbali dettagliati delle assemblee e CdA fuori dall’Italia. Archivia email e corrispondenze che mostrino l’operatività locale. In caso di controllo, questo materiale può salvarti.
  • Consulenza legale preventiva: consultare fiscalisti esperti di internazionale prima di muoversi, per conformare la struttura alle normative e magari ottenere un interpello se opportuno. Ad esempio, l’interpello 27/E/2022 citato ha aiutato un contribuente delineando quando non si applica la presunzione. Un interpello preventivo all’Agenzia può dare certezza sul trattamento (sempre che si esponga tutto con trasparenza).
  • Non esagerare con l’ottimizzazione: se spingi troppo (zero costi in Italia, tutti i profitti in un’isola caraibica), attiri controlli. Magari paga qualche tassa in Italia se ci sta: ad esempio, se hai una società estera che vende in Italia, dichiara in Italia una stabile organizzazione con un margine ragionevole. Così mostri buona fede e riduci il rischio di contestazioni grosse.
  • Monitorare evoluzione legale: le leggi cambiano (come visto con D.Lgs. 209/2023) e la cooperazione internazionale aumenta. Ciò che ieri passava, domani potrebbe emergere. Quindi aggiornarsi e, se necessario, ristrutturare l’assetto.

In definitiva, aprire società estere conviene solo se c’è anche una logica economica, non solo fiscale. Altrimenti, l’esterovestizione appare una “scorciatoia” che però può portare a un vicolo cieco pieno di guai legali. Come dicono gli esperti: “diffidate di chi propone soluzioni facili con società estere prive di reale costrutto: le conseguenze possono essere reati penali”. Insomma, no substance, no benefit – se manca la sostanza, niente benefici ma solo rischi.


Fonti utilizzate: vedi sezione seguente

Fonti e riferimenti normativa e giurisprudenza

  • Codice tributario italiano: D.P.R. 22/12/1986 n.917 (TUIR) – art. 2 (residenza persone fisiche), art. 73 commi 3, 5, 5-bis (residenza enti e presunzioni).
  • D.Lgs. 10/03/2000 n.74 – artt. 4, 5 (reati di dichiarazione infedele e omessa); art.13 (causa di non punibilità per pagamento).
  • Decreto-legge 26/10/2019 n.124 conv. L.157/2019 – inasprimento pene reati tributari (art.39 DL 124/2019 ha elevato la pena art.5 a reclusione 2-5 anni).
  • D.Lgs. 27/12/2023 n.209 – riforma fiscalità internazionale 2023, nuovi criteri residenza art.73 co.3 TUIR. Circolare Agenzia Entrate n.20/E del 4/11/2024 esplicativa.
  • Convenzione modello OCSE art. 4(3) (tie-breaker residenza) e art. 5 (definizione stabile organizzazione).
  • Sentenze Corte di Cassazione (sez. trib. e pen.):
    • Cass. pen. Sez. III n.1811/2014 (principio: no obbligo dichiarativo se sede effettiva all’estero).
    • Cass. pen. Sez. III n.26728/2015 (conferma principi su art.5 D.Lgs.74).
    • Cass. pen. Sez. III n.43809/2015 (caso Dolce & Gabbana) – annullamento condanne, criteri accertamento artificiosità.
    • Cass. pen. n.19007/2015 – esterovestizione società spagnola, condanna amm. di fatto.
    • Cass. pen. n.20856/2018 – obbligo dichiarazione anche per società formalmente estera con gestione in Italia.
    • Cass. trib. nn.11709 e 11710 del 2022; ord. Cass. n.23225/2022 – principi: contestazione esterovestizione prescinde da prova elusione ulteriore.
    • Cass. trib. n.8297/2022 – onere di provare scopo vantaggio fiscale (abuso).
    • Cass. trib. n.23150/2022 – ribadisce che residenza fiscale dipende da criteri formali/sostanziali, non da finalità elusive.
    • Cass. pen. n.11558/2023 – su dolo specifico omessa dichiarazione (accettazione rischio da parte prestanome equivale a dolo eventuale).
    • Cass. pen. n.12084/2023 – conferma sequestro per omessa dichiarazione via esterovestizione (segnalato in dottrina).
  • Giurisprudenza UE: Corte di Giustizia CE, causa C-196/04 Cadbury Schweppes – abuso libertà di stabilimento: costruzioni puramente artificiose prive di effettività economica possono essere contrastate; creare società in altro Stato per regime fiscale vantaggioso di per sé non è abuso.
  • Prassi amministrativa:
    • Circolare AdE 28/E/2006 – introduttiva art.73(5-bis), spiega ratio anti-holding elusive.
    • Risoluzione/risposta AdE 27/E/2022 – ambito applicazione art.73(5-bis): non applicabile se società estera non è holding di partecipazioni italiane.

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