Avvocato Per Fallimenti Aziende

Hai un’azienda in grave difficoltà economica e ti stai chiedendo se serve un avvocato per affrontare un fallimento o una procedura concorsuale? Hai paura che i debiti, le responsabilità personali o le azioni dei creditori possano travolgere te, i tuoi soci e il tuo patrimonio?

Quando un’impresa rischia la liquidazione giudiziale (ex fallimento), avere al tuo fianco un avvocato esperto in crisi d’impresa non è un’opzione: è una necessità. Non solo per difenderti legalmente, ma soprattutto per valutare se esistono alternative per evitare il tracollo, ridurre i danni e – in alcuni casi – ripartire.

Vediamo allora cosa fa un avvocato per fallimenti aziendali, in quali fasi può intervenire e come può aiutarti concretamente a gestire una crisi complessa.

Serve davvero un avvocato in caso di fallimento?
Sì, e serve fin da subito. Il fallimento (ora chiamato “liquidazione giudiziale”) è una procedura tecnica, rigida e ricca di insidie. Anche solo un errore formale, una mancata comunicazione o una firma fuori tempo possono costarti caro, sia in termini economici che di responsabilità personali.

Cosa fa l’avvocato in questi casi?
Ti assiste:

  • nella fase preventiva, per valutare se puoi accedere a una composizione negoziata, a un concordato o ad altri strumenti meno invasivi;
  • nella gestione dei rapporti con creditori, fornitori e dipendenti, per evitare escalation incontrollate;
  • nella preparazione e deposito della domanda di liquidazione volontaria, se non ci sono alternative;
  • nella difesa del patrimonio personale e nella gestione di responsabilità come amministratore o socio;
  • nel dialogo con curatore, giudice delegato e tribunale fallimentare;
  • nella richiesta di esdebitazione al termine della procedura, per liberarti dai debiti residui e ripartire.

Un avvocato può anche evitare il fallimento?
In molti casi sì. Quando la crisi è ancora reversibile, l’avvocato può attivare procedure alternative come:

  • la composizione negoziata della crisi,
  • il concordato minore,
  • l’accordo di ristrutturazione,
  • la liquidazione controllata per piccoli imprenditori o professionisti.

Anche in caso di procedura già avviata, un buon avvocato può negoziare un accordo con i creditori o proporre un concordato fallimentare, che consente di chiudere la procedura con una proposta vantaggiosa per tutti.

Cosa rischi senza assistenza legale?
Rischi:

  • di non sapere cosa fare, quando farlo e a chi comunicarlo;
  • di perdere beni personali se sei socio illimitatamente responsabile o se hai dato garanzie;
  • di subire responsabilità amministrative o penali, se hai gestito l’impresa in modo irregolare;
  • di prolungare inutilmente la procedura, aumentando i costi e peggiorando la situazione.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto fallimentare, ristrutturazione del debito e difesa dell’imprenditore – ti spiega perché serve un avvocato in caso di fallimento aziendale, cosa può fare concretamente per aiutarti e come possiamo supportarti in ogni fase della crisi.

Hai un’azienda sull’orlo del fallimento o ti è già arrivata una citazione in tribunale? Vuoi sapere se puoi ancora salvarti o come affrontare la procedura senza perdere tutto?

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Introduzione

La gestione della crisi d’impresa in Italia è stata radicalmente riformata negli ultimi anni con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) nel luglio 2022. Questo nuovo corpus normativo ha sostituito integralmente la vecchia Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da un approccio prevalentemente liquidatorio a un sistema che privilegia l’emersione precoce della crisi e il risanamento aziendale. Dal punto di vista del debitore, ciò significa più strumenti per affrontare le difficoltà finanziarie, meno stigma associato al fallimento e maggiori tutele per l’imprenditore onesto ma sfortunato.

In questa guida giuridica avanzata – aggiornata a giugno 2025 – esamineremo in modo divulgativo ma rigoroso tutti gli aspetti fondamentali delle procedure di insolvenza dal punto di vista del debitore. Ci rivolgeremo sia a professionisti del diritto (avvocati e consulenti) sia a imprenditori e privati alle prese con una potenziale situazione di crisi. Verranno trattate tutte le tipologie di imprese – dalle ditte individuali e PMI fino alle società di capitali – evidenziando le differenze di trattamento normativo.

Il focus sarà sulle procedure previste dal Codice della Crisi e dalla normativa correlata: la liquidazione giudiziale (il “nuovo fallimento”), il concordato preventivo (in continuità o liquidatorio), gli strumenti alternativi come il concordato semplificato, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, i piani attestati di risanamento, nonché le procedure minori di sovraindebitamento (concordato minore, ristrutturazione dei debiti del consumatore, liquidazione controllata). Approfondiremo inoltre la responsabilità del debitore e degli organi societari connessa alla crisi (profili civili e penali), il ruolo cruciale svolto dall’avvocato del debitore nelle varie fasi, e le novità normative e giurisprudenziali più recenti – incluso il recepimento della Direttiva UE 2019/1023, i decreti correttivi del 2022 e 2024 e le prime sentenze di merito sul nuovo sistema.

Alla fine proporremo tabelle comparative delle diverse procedure per una rapida visione d’insieme, risponderemo a domande frequenti in ottica pratica e presenteremo alcune simulazioni concrete di gestione della crisi per illustrare possibili strategie e soluzioni. Una sezione finale elencherà le principali fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali utilizzate (aggiornate al 2025), offrendo un riferimento puntuale per ulteriori approfondimenti.

Nota sul linguaggio: per comodità espositiva useremo talvolta termini tradizionali come fallimento o procedura fallimentare, sebbene la terminologia formale attuale parli di liquidazione giudiziale. Inoltre, con debitore faremo riferimento all’impresa in crisi (o al suo rappresentante), comprendendo sia imprenditori individuali che società. Con creditori intendiamo la generalità dei soggetti a cui sono dovuti dei pagamenti dall’impresa (banche, fornitori, fisco, lavoratori, ecc.).

Entriamo ora nel vivo della trattazione, partendo dal quadro normativo generale e dai principi ispiratori della riforma.

Quadro Normativo e Principi Generali della Riforma

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, come modificato dai correttivi del 2020, 2022 e 2024) è la fonte di riferimento attuale in materia di procedure concorsuali. Esso ha abrogato la vecchia Legge Fallimentare e introdotto un sistema organico che disciplina sia l’insolvenza delle imprese commerciali sia il cosiddetto sovraindebitamento di soggetti non fallibili (piccoli imprenditori, professionisti, consumatori). L’entrata in vigore del Codice, inizialmente fissata per il 2020, è stata più volte posticipata per via della pandemia COVID-19 e per consentire l’adeguamento alla Direttiva UE 2019/1023 (Direttiva Insolvency). Alla fine, il 15 luglio 2022 il nuovo sistema è divenuto operativo, segnando una svolta epocale nel diritto concorsuale italiano.

Obiettivi chiave della riforma: il legislatore ha perseguito una serie di finalità innovative:

  • Emersione tempestiva della crisi: incentivare gli imprenditori a dotarsi di strumenti organizzativi per intercettare squilibri economico-finanziari già nelle fasi iniziali, così da intervenire prima che la situazione degeneri. Si introducono obblighi di monitoraggio interno (ad esempio l’art. 2086 c.c. impone agli amministratori di assetti adeguati) e meccanismi di allerta per segnalare precocemente le criticità (si veda oltre).
  • Salvaguardia della continuità aziendale: privilegiare, ove possibile, soluzioni che preservino l’attività d’impresa, nell’interesse non solo dell’imprenditore ma anche di creditori, lavoratori e sistema economico. In pratica il Codice punta sul risanamento più che sullo smantellamento: il fallimento non è più visto come esito inevitabile, ma come ultima risorsa se ogni tentativo di recupero fallisce.
  • De-stigmatizzazione del fallimento: abolizione del termine “fallimento”, sostituito da “liquidazione giudiziale”, per attenuare l’alone infamante che storicamente accompagnava la bancarotta. La liquidazione giudiziale viene delineata come una procedura di gestione ordinata dell’insolvenza, non più come una punizione sociale. Come affermato, il messaggio è chiaro: il fallimento non va inteso come una pena infamante, ma come uno strumento legale per chiudere un’attività in modo regolato. Conseguentemente, il Codice prevede la riabilitazione rapida del debitore: ad esempio, l’imprenditore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) trascorsi 3 anni dall’apertura della liquidazione, salvo casi di frode grave. Addirittura, se non c’è nulla da distribuire ai creditori, il debitore può essere liberato dai debiti subito dopo la chiusura (esdebitazione del debitore incapiente). Si tratta di importanti novità a favore del fresh start del debitore onesto.
  • Coinvolgimento attivo dei creditori e accordi negoziali: il nuovo diritto concorsuale incentiva soluzioni concordate con i creditori, attraverso piani, accordi e votazioni, anziché interventi calati dall’alto. La maggioranza dei creditori ha voce in capitolo sull’approvazione dei piani di ristrutturazione proposti dal debitore (come nel concordato preventivo) e perfino l’eventuale dissenso del Fisco può essere superato in certi casi (cram-down, si veda oltre). Questo approccio partecipativo mira a garantire soluzioni equilibrate e condivise, in cui i creditori soddisfatti accettano un sacrificio proporzionale pur di evitare esiti peggiori.
  • Privatizzazione e flessibilità delle soluzioni di crisi: rispetto al vecchio sistema giudiziario rigido, il Codice introduce procedure stragiudiziali riservate (ad esempio la composizione negoziata) e strumenti consensuali flessibili (accordi di ristrutturazione, piani attestati) in cui l’autorità giudiziaria interviene solo per omologare o vigilare in misura ridotta. Si passa quindi da un modello dominato dal tribunale a un modello misto, dove l’accordo tra le parti e l’esperto indipendente hanno un ruolo centrale. L’obiettivo è ridurre i tempi e i costi, e contenere l’impatto negativo sul business (minor pubblicità e interferenze).

Definizioni fondamentali: per comprendere le diverse procedure è utile chiarire alcuni concetti base:

  • Stato di crisi: il Codice definisce come crisi lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura. In pratica, la crisi è una situazione di squilibrio (perdita di liquidità, calo di fatturato, indebitamento eccessivo) tale per cui, senza interventi correttivi, l’impresa non sarà presto più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. È un concetto prognostico: indica che l’insolvenza non si è ancora manifestata, ma si intravede all’orizzonte. Identificare lo stato di crisi per tempo è cruciale perché consente di attivare strumenti di allerta e prevenzione prima che sia troppo tardi.
  • Stato di insolvenza: è lo stato più grave, che legittima l’avvio delle procedure concorsuali giudiziali (concordato preventivo o liquidazione). L’insolvenza consiste nella persistente incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (pagare debiti alla scadenza). Si manifesta tipicamente con inadempimenti reiterati, protesti, mancanza di liquidità e patrimonio insufficiente rispetto ai debiti. È uno stato irreversibile (non semplice illiquidità temporanea) e va accertato dal tribunale. Storicamente l’insolvenza è il presupposto per dichiarare il fallimento; oggi lo è per aprire la liquidazione giudiziale.
  • Imprenditori soggetti o meno alle procedure concorsuali: non tutte le imprese possono essere assoggettate a liquidazione giudiziale (ex fallimento). Rimane infatti – seppur in via transitoria – una soglia di non fallibilità per i cosiddetti piccoli imprenditori. In base ai parametri ancora richiamati dal Codice (art. 2 Legge Fallimentare, transitoriamente vigente) sono esclusi dal fallimento gli imprenditori che nei tre esercizi precedenti abbiano registrato (almeno in uno) meno di €300.000 di attivo patrimoniale, €200.000 di ricavi lordi e €500.000 di debiti totali. Chi rientra contemporaneamente in questi limiti non può essere dichiarato fallito in senso tecnico. La ratio è di evitare le costose procedure concorsuali per imprese microscopiche, per le quali esistono percorsi semplificati (vedi le procedure da sovraindebitamento più avanti). Va notato che il nuovo Codice inizialmente prevedeva di abolire tali soglie per unificare la disciplina, ma in sede di attuazione si è optato per mantenerle almeno temporaneamente. Sono invece sempre soggette alle procedure concorsuali le società di capitali e, in generale, gli imprenditori commerciali sopra soglia. Anche le società agricole di grandi dimensioni ora possono essere dichiarate insolventi: il CCII, a differenza della vecchia legge, non esclude più le imprese agricole dal fallimento se di dimensioni rilevanti. Restano comunque fuori dall’ambito del Codice gli enti pubblici e alcune categorie speciali (ad es. banche, assicurazioni e altre società sottoposte a vigilanza, per cui vigono procedure concorsuali amministrative separate come la liquidazione coatta amministrativa o l’amministrazione straordinaria).
  • Debitori “minori” e sovraindebitati: i soggetti che non possono accedere a fallimento/concordato preventivo (ossia i piccoli imprenditori sotto soglia, gli imprenditori non commerciali, i professionisti, gli enti non profit e i privati consumatori) rientrano nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. Il sovraindebitamento è definito come lo stato di crisi o insolvenza del debitore non fallibile, ossia di chi non può essere liquidato giudizialmente. Per questi soggetti il Codice prevede procedure ad hoc semplificate (concordato minore, ristrutturazione dei debiti del consumatore, liquidazione controllata), di cui tratteremo diffusamente in seguito. In sintesi, oggi anche i debitori civili (famiglie, privati) e i piccoli imprenditori hanno percorsi guidati per uscire dai debiti, laddove prima esisteva solo la Legge 3/2012. Con il Codice della Crisi, la normativa sul sovraindebitamento è stata integrata e migliorata, con novità positive per i debitori (ad es. possibilità di procedure familiari cumulative, criteri di meritevolezza più chiari, e la già citata esdebitazione “senza utilità”).

Riassumendo, il campo di applicazione delle diverse procedure dipende dalla natura e dimensione del debitore: le imprese commerciali medio-grandi seguono concordato preventivo o liquidazione giudiziale; i piccoli o non imprenditori seguono le procedure minori; per tutti sono disponibili strumenti alternativi (accordi, piani) se vi è spazio di negoziazione. La riforma 2019-2022 ha cercato di unificare la disciplina in un unico codice, pur mantenendo distinzioni ove necessario.

Strumenti di Allerta Precoce e Prevenzione della Crisi

Uno degli elementi cardine introdotti dalla riforma è l’attenzione alla prevenzione e all’emersione anticipata della crisi. L’idea è che molte insolvenze potrebbero essere evitate o meglio gestite se solo si intervenisse tempestivamente, prima che il dissesto diventi irrecuperabile. Per questo, il Codice ha previsto una serie di strumenti di allerta interni ed esterni.

Allerta interna – Adeguati assetti e obblighi degli amministratori: l’art. 2086 c.c., comma 2 (introdotto dal D.Lgs. 14/2019), impone all’imprenditore collettivo (società) il dovere di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi. In pratica gli amministratori devono dotarsi di sistemi di controllo di gestione, monitoraggio finanziario, indicatori e procedure tali da poter cogliere segnali di squilibrio (perdite consistenti, calo flussi di cassa, insoluti, ecc.) e attivarsi di conseguenza. Inoltre, qualora emerga la perdita di capitale oltre i limiti di legge o l’insolvenza, gli amministratori hanno l’obbligo di agire senza indugio per preservare il patrimonio sociale (convocare assemblea per ricapitalizzare o liquidare la società, oppure attivare le procedure concorsuali). Il CCII ha rafforzato questi obblighi prevedendo specifiche conseguenze in caso di inerzia: ad esempio, ha introdotto criteri presuntivi di quantificazione del danno a carico degli amministratori che ritardino ingiustificatamente l’accesso a una procedura concorsuale aggravando il dissesto (art. 378 CCII che modifica l’art. 2486 c.c.). In base a tali criteri, salvo prova contraria, il danno risarcibile ai creditori può essere calcolato convenzionalmente nella differenza tra il patrimonio netto alla data in cui si doveva interrompere l’attività e quello alla data della liquidazione, oppure nell’aumento dell’indebitamento nello stesso periodo. Ciò sprona gli amministratori ad attivarsi subito quando la continuità aziendale è compromessa, pena risponderne personalmente.

Allerta esterna – Segnalazioni dei creditori pubblici qualificati: il Codice prevedeva (Titolo II, artt. 25-octies e seguenti CCII) un meccanismo di allerta esterna affidato ad alcuni enti pubblici, in primis l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agenzia della Riscossione. Tali creditori pubblici devono segnalare all’imprenditore (e in alcuni casi all’OCRI, l’Organismo di Composizione della Crisi, poi abolito) il fatto che esistono esposizioni debitorie scadute oltre soglie critiche (ad es. gravi ritardi nel pagamento di IVA, contributi, etc.). La segnalazione invita formalmente l’impresa a prendere provvedimenti per comporre la crisi entro 90 giorni. Lo scopo è far “suonare un campanello d’allarme” dall’esterno, mettendo l’imprenditore di fronte alla gravità del proprio debito verso l’Erario o altri enti, così da stimolarlo a cercare soluzioni (piani di rientro, accesso a composizione negoziata, etc.). Se il debitore ignora l’avvertimento, la segnalazione può costituire base per eventuali azioni di responsabilità e, in futuro, potrebbe far scattare l’intervento d’ufficio del tribunale (anche se l’originario sistema di allerta con coinvolgimento dell’OCRI è stato ridimensionato). Va segnalato che l’entrata in vigore di questo meccanismo di allerta esterna è stata differita più volte e poi sostituita dalla composizione negoziata (introdotta nel 2021). Con il correttivo 2024, tuttavia, si è ripreso in considerazione il tema, prevedendo un sistema di “segnalazione per l’anticipata emersione della crisi” più efficiente. In definitiva, oggi il ruolo dell’allerta esterna è in evoluzione: resta la necessità per il debitore di non sottovalutare tali indicatori e di attivarsi volontariamente. L’allerta esterna, più che una procedura automatica, funge da sprone: non impone soluzioni dall’alto, ma mette l’impresa di fronte all’evidenza della crisi e la sollecita ad attivarsi (pena possibili responsabilità, ad esempio la bancarotta semplice per ritardata richiesta di fallimento, in caso di rovina aggravata).

Organismo di composizione e misure protettive: inizialmente il Codice prevedeva la creazione presso le Camere di Commercio degli OCRI (Organismi di Composizione della Crisi d’Impresa) deputati a gestire l’allerta e assistere il debitore nell’individuare soluzioni. Questo impianto però è stato superato prima ancora di entrare in vigore. In risposta alla crisi economica da pandemia e in attuazione della direttiva europea, è stato introdotto lo strumento alternativo della composizione negoziata (D.L. 118/2021), di cui diremo tra poco, e l’OCRI è stato di fatto accantonato. Resta comunque prevista la possibilità per il debitore che avvia tempestivamente un percorso di composizione della crisi di chiedere al tribunale misure protettive temporanee: ad esempio il blocco o la sospensione delle azioni esecutive individuali dei creditori (il cosiddetto stay), in modo da avere respiro per portare avanti le trattative senza subire pignoramenti o istanze di fallimento nel frattempo. Tali misure protettive sono concesse dal giudice se ritiene che vi sia un negoziato in corso e che non siano manifestamente pretestuose le prospettive di risanamento. Con il correttivo 2024, è stato precisato che il tribunale, nel confermare le misure protettive richieste ex artt. 18-19 CCII, non deve valutare la fattibilità concreta del piano, ma solo verificare che la proposta di risanamento appaia seria, coerente e non manifestamente implausibile, escludendo richieste chiaramente dilatorie. In altre parole, si concede protezione se il tentativo di composizione ha un minimo di credibilità e le misure chieste sono funzionali al buon esito delle trattative (evitando però di paralizzare oltremodo i creditori con misure sproporzionate).

Conclusione sull’allerta: gli strumenti di allerta e prevenzione mirano a creare un cambio di cultura: l’imprenditore deve percepire la crisi non come una vergogna da nascondere fino all’ultimo, ma come una fase fisiologica della vita d’impresa da affrontare con trasparenza e professionalità. Un avvocato esperto in crisi d’impresa può svolgere un ruolo fondamentale già in questa fase, aiutando il debitore a interpretare i segnali di difficoltà, a dialogare con organi di controllo e creditori e a scegliere lo strumento più adatto per intervenire (piano di ristrutturazione informale, accesso alla composizione negoziata, ecc.). Nei prossimi capitoli vedremo proprio gli strumenti di regolazione della crisi a disposizione del debitore, a partire dalla composizione negoziata – l’innovazione più significativa sul fronte della prevenzione.

La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa

La composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa è uno degli strumenti cardine introdotti di recente (originariamente dal D.L. 118/2021, confluito poi nel Codice della Crisi agli artt. 17–25-septies CCII). Si tratta di una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale che consente all’imprenditore in stato di crisi (o anche già insolvente ma con possibilità di risanamento) di tentare il risanamento con l’assistenza di un esperto indipendente, designato dalla Camera di Commercio. Il concetto chiave è offrire un contesto protetto in cui debitore e creditori possano negoziare soluzioni concordate, con la regia di un professionista terzo, fuori dalle aule di tribunale e lontano dai riflettori. L’accesso alla composizione negoziata è aperto a qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, a prescindere da dimensioni e natura giuridica, purché vi sia uno stato di squilibrio patrimoniale o finanziario tale da far presumere la crisi o l’insolvenza, ma al contempo esistano prospettive di recupero (insolvenza reversibile). Non è necessario essere formalmente insolventi – anzi, l’idea è di muoversi prima. Anche se l’impresa è già insolvente, può accedere alla composizione negoziata se si ritiene che la sua insolvenza sia ancora superabile (ad es. tensione di liquidità temporanea in un’azienda che però avrebbe buone potenzialità). La procedura è attivabile solo dal debitore (volontaria): nessun creditore né altra autorità può imporla.

Vediamo in concreto come funziona e quali vantaggi offre:

  • Avvio e nomina dell’esperto: l’imprenditore in difficoltà presenta un’istanza tramite la piattaforma telematica dedicata presso la Camera di Commercio, indicando la propria situazione economico-patrimoniale e le cause della crisi. Entro pochi giorni (5 giorni per legge) viene nominato un esperto indipendente, scelto da un elenco di professionisti (commercialisti, avvocati, consulenti esperti in ristrutturazioni) appositamente formati. L’esperto, una figura terza e imparziale, ha il compito di esaminare la situazione aziendale e facilitare le trattative con i creditori, cercando soluzioni di composizione. La nomina rapida è pensata per sfruttare al massimo la tempestività dell’intervento.
  • Svolgimento delle trattative e misure protettive: una volta accettato l’incarico, l’esperto convoca l’imprenditore e i principali creditori per capire la fattibilità del risanamento. Se l’esperto ritiene che sussistano concrete possibilità di risanamento, guida le parti nella discussione delle possibili accordi (ad esempio, rinegoziazione dei debiti, dilazioni di pagamento, nuove garanzie, iniezioni di capitali freschi). Durante questa fase, l’imprenditore può richiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive: tipicamente il blocco delle azioni esecutive e cautelari dei creditori nei suoi confronti, per la durata delle trattative (inizialmente fino a 120 giorni, prorogabili). Tali misure – come visto – vengono concesse se il tribunale valuta che la trattativa non sia pretestuosa e che servano a favorire una soluzione. L’imprenditore può anche richiedere l’autorizzazione a contrarre nuovi finanziamenti prededucibili (cioè con privilegio di rimborso) per sostenere temporaneamente l’attività durante i negoziati. La durata della composizione negoziata è di norma 180 giorni, prorogabili eccezionalmente di ulteriori 180. Durante tale periodo l’esperto aggiorna periodicamente le parti sui progressi e cerca di mantenere un clima costruttivo e collaborativo (rispettando l’obbligo di lealtà e riservatezza).
  • Esiti possibili: la composizione negoziata può concludersi in vari modi, a seconda di ciò che le parti riescono a concordare:
    • *Accordo stragiudiziale con i creditori: se le trattative hanno successo, si può sottoscrivere un accordo di ristrutturazione del debito privato, ad esempio un piano di rientro dilazionato, magari garantito da nuovi contratti con fornitori o moratorie (rinunce temporanee) da parte di banche. Un caso particolare è la “convenzione di moratoria”: un accordo con taluni creditori (tipicamente finanziari) per congelare o ristrutturare i debiti, che avrà efficacia anche verso eventuali dissenzienti se vi aderiscono particolari maggioranze (strumento previsto dal CCII). Questi accordi privati non richiedono omologazione del tribunale, anche se possono essere pubblicati volontariamente.
    • Piano attestato di risanamento: in alternativa, l’imprenditore può formulare un piano di risanamento dell’azienda e farlo attestare da un professionista indipendente (che può essere lo stesso esperto o un altro). Il piano attestato è un documento che dettaglia le strategie di rilancio e riequilibrio finanziario e viene asseverato da un esperto riguardo alla sua realizzabilità. Se poi il debitore esegue il piano e raggiunge accordi individuali con i creditori coinvolti, gli atti compiuti in esecuzione del piano saranno protetti da azioni revocatorie (vedi più avanti). In sostanza, il piano attestato è uno strumento contrattuale per risolvere la crisi fuori dal tribunale, che però grazie all’attestazione gode di alcune protezioni legali.
    • Accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 182-bis): altro possibile esito è che il debitore, grazie al lavoro dell’esperto, riesca a ottenere l’adesione formale di una parte consistente di creditori (almeno il 60%) a una proposta di ristrutturazione. In tal caso può scegliere di formalizzare un accordo di ristrutturazione da sottoporre all’omologazione del tribunale. Questo ibrido tra accordo privato e procedura concorsuale verrà descritto più avanti: in sintesi, vincola i creditori aderenti e, a certe condizioni, può essere esteso ad alcuni dissenzienti, con il crisma dell’autorità giudiziaria.
    • Concordato preventivo “in continuità” o “liquidatorio”: se le trattative mostrano che serve un coinvolgimento di tutti i creditori, l’imprenditore può decidere di presentare un vero e proprio concordato preventivo. Può essere un concordato in continuità (se c’è un piano di prosecuzione dell’attività) oppure un concordato liquidatorio (se non c’è prospettiva di prosecuzione, ma si vuole evitare il fallimento liquidando i beni in modo concordato). La composizione negoziata spesso funge da anticamera: prepara la strada raccogliendo elementi per un piano concordatario solido e magari saggiando la disponibilità dei creditori, dopodiché il debitore deposita domanda di concordato in tribunale. È bene notare che il nuovo Codice incentiva questo percorso: se il debitore presenta domanda di concordato entro i termini di legge dopo una composizione negoziata, non scattano le sanzioni previste per eventuali pagamenti effettuati durante le trattative e viene riconosciuta la buona fede del tentativo di risanamento (utile anche ad evitare contestazioni di bancarotta semplice per ritardo).
    • Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: questa è un’innovazione introdotta in parallelo alla composizione negoziata. Se la composizione si conclude senza un accordo, ma l’imprenditore vuole comunque evitare il fallimento, può – solo in esito negativo della comp. negoziata – proporre al tribunale un concordato “semplificato” liquidatorio (art. 25-sexies CCII). Ne parleremo approfonditamente più avanti; in sintesi, è una procedura concorsuale speciale in cui il debitore chiede di liquidare tutti i suoi beni sotto controllo del tribunale, offrendo ai creditori il ricavato, senza bisogno del voto dei creditori. Il tribunale valuta la proposta e se la considera almeno pari, come soddisfazione, a ciò che i creditori otterrebbero in una liquidazione fallimentare, può omologarla anche se i creditori dissentono. Questo strumento, pensato come “premio” per il debitore che ha tentato in buona fede la composizione e come “sanzione” per i creditori che non hanno collaborato, consente di chiudere rapidamente la crisi senza passare dal fallimento, ma comporta comunque la perdita dell’azienda (liquidazione integrale).
  • Relazione finale dell’esperto: al termine della composizione negoziata, l’esperto redige una relazione conclusiva in cui riferisce sull’andamento delle trattative e sull’esito. Se è stato raggiunto un accordo o predisposto un piano, lo attesta. Se invece l’esito è negativo, l’esperto valuterà se il debitore ha negoziato in buona fede e con correttezza, mettendo tutte le informazioni sul tavolo e offrendo soluzioni serie. Questa valutazione è importante soprattutto nel caso in cui il debitore intenda accedere al concordato semplificato: il tribunale, infatti, prima di ammettere il concordato semplificato, controllerà dalla relazione dell’esperto che il debitore si sia effettivamente impegnato e che la colpa del mancato accordo sia in gran parte dei creditori poco collaborativi. In pratica, solo il debitore meritevole (trasparente durante le trattative) potrà beneficiare del concordato semplificato senza voto.

Vantaggi della composizione negoziata: questo strumento è stato concepito per colmare un vuoto del vecchio sistema, ossia la mancanza di un percorso guidato per le imprese in crisi reversibile prima di arrivare al fallimento o al concordato. I principali benefici sono:

  • La procedura è riservata: non viene aperta alcuna procedura concorsuale pubblica e il nome dell’azienda non compare in bollettini ufficiali, evitando il panico tra fornitori e clienti. Tutto avviene in modo confidenziale.
  • È flessibile e volontaria: l’imprenditore mantiene la gestione dell’impresa durante le trattative (salvo atti straordinari che richiedono parere dell’esperto) e può in ogni momento decidere di interrompere. Non ci sono esiti prestabiliti: ogni soluzione concordata va bene, purché risolva la crisi.
  • Offre tutele mirate: ad esempio, se necessario, il debitore può bloccare le azioni esecutive per guadagnare tempo, e i nuovi finanziamenti concessi durante le trattative sono protetti (prededucibili) per incoraggiare banche o soci a finanziare il salvataggio.
  • Prevede misure premiali: il CCII riconosce incentivi a chi ricorre tempestivamente alla composizione negoziata, come la riduzione degli interessi sui debiti tributari al tasso legale durante le trattative. Inoltre, eventuali transazioni fiscali raggiunte in questo contesto godono di una disciplina agevolata (il correttivo 2024 ha introdotto la possibilità di includere accordi fiscali transattivi nella composizione negoziata stessa). Resta escluso però il cram-down fiscale in questa fase: se il Fisco non aderisce all’accordo, non c’è omologazione giudiziaria che possa imporlo.
  • Consente, in caso di fallimento delle trattative, di accedere rapidamente a soluzioni concorsuali (concordato semplificato o preventivo) senza perdere tempo prezioso. La relazione finale dell’esperto funge da “ponte” informativo verso il tribunale.

Grazie a queste caratteristiche, la composizione negoziata è diventata uno strumento centrale nel sistema di gestione della crisi. In meno di due anni di operatività, molte imprese l’hanno utilizzata per evitare il default, specialmente in settori colpiti dall’emergenza Covid. Per gli avvocati del debitore, assistere l’impresa nella composizione negoziata significa svolgere un ruolo di advisor negoziale: aiutarla a predisporre l’istanza, interfacciarsi con l’esperto, predisporre proposte ai creditori e valutare le implicazioni legali degli accordi in discussione. È un’attività altamente specialistica, che richiede competenze di diritto concorsuale ma anche capacità di mediazione e pianificazione strategica.

Nel prossimo capitolo passeremo alla procedura regina del diritto concorsuale, il concordato preventivo, per poi confrontarla con gli altri strumenti negoziali e concorsuali.

Il Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la più nota e collaudata tra le procedure concorsuali di regolazione della crisi d’impresa. In termini sostanziali, è un “patto” concorsuale tra debitore e creditori: l’imprenditore in crisi o insolvente propone ai creditori un accordo – sotto il controllo del tribunale – per evitare la liquidazione giudiziale e regolare in modo ordinato la propria posizione debitoria. In pratica, il debitore offre ai creditori un determinato trattamento dei crediti (es. pagamento parziale, pagamento dilazionato, conversione dei crediti in capitale, ecc.) e i creditori votano se accettare. Se la maggioranza approva la proposta e il tribunale verifica che il piano rispetta la legge, il concordato viene omologato (approvato) e diventa vincolante per tutti i creditori concorsuali. Il concordato dunque sostituisce le normali pretese dei creditori: in seguito all’omologazione, ciascun creditore dovrà accontentarsi di quanto previsto nel piano e non potrà agire autonomamente per pretendere di più.

Tipologie di concordato preventivo: il CCII prevede due forme principali di concordato:

  • Concordato in continuità aziendale: quando nel piano concordatario è prevista la prosecuzione, in qualche forma, dell’attività d’impresa. La continuità può essere diretta (l’azienda rimane in mano al debitore che continua a gestirla durante e dopo il concordato) oppure indiretta (l’azienda viene ceduta o conferita a un soggetto terzo che la prosegue, ad esempio un investitore che subentra). Lo scopo è il risanamento dell’impresa come entità operativa, oltre che la soddisfazione dei creditori in misura concordata. I creditori accettano una certa ristrutturazione dei propri crediti confidando che l’impresa, se salvata, genererà valore sufficiente a pagare l’importo promesso.
  • Concordato liquidatorio: quando invece il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio dell’impresa, con distribuzione del ricavato ai creditori secondo quanto concordato. In sostanza l’impresa chiude, ma lo fa in modo concordato e pilotato, spesso riuscendo a ottenere condizioni di realizzo migliori rispetto a una liquidazione giudiziale “forzata”. Ad esempio si può prevedere la vendita unitaria dell’azienda o di rami di essa per massimizzare il valore, oppure l’apporto di risorse esterne da parte dei soci per aumentare il dividendo ai creditori.

Il Codice della Crisi incoraggia dichiaratamente il concordato in continuità rispetto a quello meramente liquidatorio. A dimostrazione di ciò, ha introdotto requisiti stringenti per l’ammissibilità dei concordati liquidatori, che non si applicano invece a quelli in continuità. In particolare, un concordato liquidatorio è ammesso solo se: 1) garantisce ai creditori chirografari (chirografari = senza garanzie) il pagamento di almeno il 20% dei loro crediti, e 2) prevede un apporto di risorse esterne (ossia valore aggiuntivo apportato dal debitore o da terzi) pari ad almeno il 10% dell’attivo che verrebbe altrimenti liquidato. Queste soglie assicurano che il concordato liquidatorio offra qualcosa in più rispetto alla liquidazione giudiziale standard (dove spesso i chirografari prendono percentuali irrisorie) e che il debitore metta sul piatto un contributo effettivo a beneficio dei creditori. Ad esempio, possono considerarsi risorse esterne la rinuncia del socio a un proprio credito verso la società, nuovo denaro o asset apportati per pagare i creditori, ecc. Tali requisiti non si applicano invece al concordato in continuità aziendale, per il quale non è stabilita per legge una percentuale minima di soddisfazione dei chirografari: la logica è che se l’azienda continua a operare, i creditori potrebbero in prospettiva recuperare di più rispetto a una liquidazione e quindi non serve imporre soglie fisse ex ante.

Distribuzione del valore e priorità nel concordato: Una domanda frequente è come vengano ripartite le risorse nel concordato e se valgano le regole di priorità dei crediti (privilegi, garanzie, ecc.). Nel concordato liquidatorio, siccome l’attività cessa e i beni vengono liquidati, il valore realizzato va distribuito rispettando rigorosamente le cause di prelazione (privilegi, ipoteche) come in fallimento. Solo l’eventuale eccedenza di valore ottenuta grazie a iniziative particolari può essere ripartita proporzionalmente. Nel concordato in continuità, invece, il Codice ha introdotto un principio innovativo di doppio binario:

  • Del valore corrispondente a quanto si otterrebbe in liquidazione (il valore di liquidazione), occorre rispettare la priorità assoluta delle prelazioni. In altre parole, per quella parte di valore i creditori privilegiati devono essere soddisfatti prima e meglio dei chirografari, esattamente come accadrebbe vendendo i beni.
  • Del valore eccedente derivante dalla continuazione aziendale (il c.d. plusvalore da continuità), è ammessa una priorità relativa: i creditori di grado superiore non necessariamente devono essere pagati integralmente prima di far partecipare quelli subordinati, a patto che il trattamento complessivo rispetti una certa equità tra classi. In pratica, i creditori di pari grado devono ricevere un trattamento almeno proporzionale tra loro, e i creditori di grado inferiore non possono ricevere più di quelli di grado superiore – ma non è più richiesto che i superiori siano soddisfatti al 100% prima che gli inferiori prendano qualcosa.

Questo principio, introdotto dall’art. 84, comma 6 CCII, recepisce la “relative priority rule” della direttiva europea e consente piani più flessibili. Ad esempio, nel concordato in continuità non è necessario pagare integralmente tutti i debiti tributari privilegiati: è sufficiente offrire al Fisco un trattamento non deteriore rispetto ad altri creditori di pari grado e migliore rispetto a eventuali creditori postergati. Il valore dell’azienda in esercizio viene così distribuito secondo criteri negoziati, premiando il fatto che l’attività continua a generare ricchezza. Questo comporta che creditori privilegiati possano accettare di non essere soddisfatti al 100% pur di consentire ai chirografari di ottenere qualcosa (cosa impossibile in liquidazione). Naturalmente serve il consenso delle relative classi di creditori a questa ripartizione – consenso che si forma attraverso il voto nel concordato.

Procedimento: dalla domanda all’omologazione – Il percorso del concordato preventivo, in sintesi, attraversa queste fasi principali:

  1. Domanda di concordato: il debitore presenta ricorso al tribunale competente (quello della sede dell’impresa) chiedendo l’ammissione al concordato. Può presentare sin da subito il piano dettagliato e la proposta ai creditori, corredata dai documenti previsti (situazione patrimoniale, elenco creditori, inventario beni, attestazione di un professionista sulla fattibilità del piano). In alternativa, può presentare una domanda “in bianco” (concordato prenotativo) indicando di volersi riservare la presentazione del piano entro un termine (massimo 120 giorni prorogabili di 60). Questa seconda opzione è spesso usata per guadagnare tempo e congelare le azioni dei creditori mentre si finalizza il piano. Tuttavia, nota bene: il correttivo 2024 ha escluso la possibilità di domande “in bianco” per le procedure di sovraindebitamento, quindi il concordato minore (per piccoli debitori) e la ristrutturazione dei debiti del consumatore devono essere presentati direttamente con un piano completo. Per il concordato preventivo ordinario invece la domanda in bianco rimane ammessa.
  2. Fase di ammissione e istruttoria: il tribunale esamina i requisiti formali e di fattibilità sommaria. Se la domanda è ammissibile, emette un decreto di ammissione, nomina un giudice delegato (che seguirà la procedura) e un commissario giudiziale (un professionista che funge da supervisore nell’interesse dei creditori). Il commissario verifica la veridicità dei dati aziendali e riferisce sul piano. Nel periodo tra la domanda e l’adunanza dei creditori, l’impresa continua ad operare sotto la vigilanza del commissario; il debitore non è spossessato dei beni (come invece accade nel fallimento) ma atti di straordinaria amministrazione richiedono autorizzazione.
  3. Adunanza e voto dei creditori: viene indetta un’adunanza dei creditori (oggi spesso svolta in forma semplificata, anche telematica) durante la quale il debitore illustra il piano e il commissario riferisce. I creditori quindi votano sulla proposta di concordato. Il meccanismo di voto prevede che i creditori siano suddivisi per classi omogenee se vi sono posizioni giuridiche differenziate (ad es. creditori privilegiati, chirografari, eventuali sottoclassi). Per l’approvazione, è necessario il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Se sono previste più classi, serve anche che la maggioranza delle classi abbia votato a favore (o, in alternativa, il tribunale può imporre l’omologazione lo stesso con il cram-down interclassi se alcune classi dissenzienti sono trattate equamente – vedi oltre). I creditori possono votare in adunanza o inviare il loro voto per iscritto entro 20 giorni.
  4. Omologazione del concordato: se la maggioranza richiesta di creditori approva, il tribunale passa alla fase di omologazione. Verifica la legalità e fattibilità del piano, nonché il rispetto delle percentuali minime (se liquidatorio) e della regolarità del voto. I creditori dissenzienti o astenuti e eventuali terzi possono proporre opposizione se ritengono il concordato lesivo dei propri diritti. Il tribunale decide con sentenza: se omologa, il concordato diviene efficace ed esecutivo; se non omologa (ad es. per difetti o perché ritiene mancato il requisito del miglior soddisfacimento rispetto al fallimento), dichiara in genere l’apertura della liquidazione giudiziale. Dal 2022 il Codice consente il citato cram-down fiscale: in sede di omologazione, se il Fisco o gli enti previdenziali hanno votato no ma la proposta offriva loro almeno quanto otterrebbero in liquidazione e la maggioranza degli altri creditori ha detto sì, il tribunale può omologare il concordato anche senza l’adesione del Fisco. Questa è una novità di grande rilievo: si evita che l’opposizione dell’Erario – magari per rigidità burocratica – faccia naufragare un concordato vantaggioso per tutti i creditori. In tal caso l’omologazione avviene “limitatamente all’efficacia di esdebitazione verso gli enti fiscali”, il che significa che il debito fiscale incluso nel piano viene trattato come dagli accordi e al termine, se il piano è adempiuto, risulta soddisfatto (anche se parzialmente) e non più dovuto.
  5. Esecuzione del piano: dopo l’omologazione, il debitore (sotto la sorveglianza del commissario o di un liquidatore nominato per l’esecuzione, a seconda dei casi) dà attuazione al piano: ad esempio, paga le percentuali offerte ai vari creditori nelle scadenze previste, cede beni se era previsto di venderli, ecc. Al completamento dell’esecuzione, il tribunale dichiara chiuso il concordato e il debitore è definitivamente liberato dai debiti secondo quanto previsto (i crediti eventualmente non soddisfatti per la parte eccedente vengono cancellati se il piano era soddisfatto almeno nella misura minima prevista dalla legge e approvato dai creditori).

Casi particolari e giurisprudenza recente: il concordato preventivo ha una lunga tradizione applicativa e una casistica giurisprudenziale vastissima. Con l’entrata in vigore del CCII, alcuni principi consolidati sono stati recepiti, mentre altri punti controversi hanno trovato nuove soluzioni normative. Ad esempio, il Codice ha codificato espressamente il principio del miglior soddisfacimento dei creditori rispetto all’alternativa della liquidazione: è un criterio di merito in base al quale il tribunale omologa il concordato solo se ritiene che i creditori riceveranno col piano almeno quanto otterrebbero in una liquidazione giudiziale. Questo principio (talvolta chiamato best interest test) era già stato affermato dalla giurisprudenza negli anni passati ed è oggi scritto nella legge. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22291/2020, ha sottolineato che spetta in primis ai creditori valutare la convenienza economica del concordato rispetto al fallimento, tramite il voto. Il tribunale interviene solo per un controllo di legalità e per verificare la non manifesta irrazionalità del piano. Più di recente, la Cassazione (sent. n. 576/2024) ha confermato che anche elementi come una dilazione molto lunga nel pagamento dei crediti privilegiati possono essere ammessi, purché vi sia trasparenza informativa e partecipazione consapevole delle parti: in altri termini, se i creditori accettano volontariamente tempi di pagamento dilatati in cambio di maggior valore, il concordato è valido. Ciò è coerente con l’idea di fondo del concordato come negoziazione: la regola è la autonomia negoziale vigilata – fin dove i creditori informati sono d’accordo, il tribunale di norma ratifica.

Un’altra novità giurisprudenziale riguarda il cram-down tra classi: nel vecchio regime, se anche una sola classe votava contro, il concordato non passava (salvo escamotage come la formazione artificiosa di classi). Ora l’art. 112 CCII consente l’omologazione nonostante il voto contrario di una o più classi, a condizione che il concordato sia comunque approvato dalla maggioranza delle classi e che le classi dissenzienti non ricevano meno di quanto riceverebbero in caso di liquidazione né siano trattate in modo deteriore rispetto a classi di grado inferiore. Questa è una sorta di cram-down interclassi che allinea l’Italia alle best practice internazionali e impedisce che un singolo gruppo di creditori (magari piccolo ma tecnicamente in una classe a sé) possa “tenere in ostaggio” l’intera procedura. Resta ovviamente un istituto da usare con cautela e soggetto a controllo giudiziale.

In sintesi, il concordato preventivo è uno strumento potente a disposizione del debitore per evitare il fallimento, ma richiede di saper predisporre un piano convincente e condiviso dai creditori. Il ruolo dell’avvocato del debitore in questa procedura è cruciale: deve redigere (insieme ai consulenti aziendali) la proposta e il piano in modo chiaro e conforme alla legge, costituire le classi in maniera appropriata, interloquire con il commissario e il tribunale, e negoziare con i creditori chiave per assicurarsi la maggioranza di voti. L’avvocato deve anche valutare attentamente i rischi di eventuali azioni revocatorie o di responsabilità connesse al piano, la posizione del Fisco (eventualmente attivando la transazione fiscale, come disciplinata dall’art. 88 CCII), e le conseguenze penali (se ad esempio emergono condotte distrattive pregresse che potrebbero configurare bancarotta). Si tratta quindi di un lavoro multidisciplinare che combina competenze legali, economiche e strategiche.

Nei prossimi capitoli confronteremo il concordato con gli strumenti alternativi: accordi di ristrutturazione e piani attestati, nonché con le procedure semplificate introdotte per i debitori minori.

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) sono uno strumento di composizione negoziale assistito dall’autorità giudiziaria ma basato essenzialmente sul consenso tra debitore e una parte qualificata dei creditori. Introdotti originariamente nel 2005 (art. 182-bis l.fall.) e ora disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, gli accordi rappresentano una via intermedia tra il piano puramente privato e il concordato preventivo: il debitore negozia privatamente con i creditori, ma se raggiunge un certo livello di adesione, può chiedere al tribunale di omologare l’accordo, rendendolo efficace erga omnes (ossia vincolante anche per eventuali creditori non aderenti, limitatamente però alle parti concordate).

Caratteristiche essenziali:

  • L’accordo di ristrutturazione è fondamentalmente un contratto tra il debitore e i suoi creditori principali in cui si stabilisce una manovra di risanamento (taglio parziale dei debiti, dilazioni, conversioni, ecc.). Per avere accesso all’omologazione giudiziale, è richiesto per legge che il debitore abbia ottenuto l’adesione di almeno il 60% dei creditori (in valore). Il Codice, recependo la direttiva UE, ha leggermente rivisto queste soglie: è previsto un “accordo agevolato” se il debitore raggiunge subito il 30% di consensi, che gli consente di ottenere misure protettive temporanee mentre prosegue le trattative fino al 60%. In pratica, con il 30% di adesioni il debitore può chiedere al tribunale di bloccare le azioni esecutive per un periodo, al fine di negoziare col restante 30% necessario. Questo è un istituto introdotto dall’art. 61 CCII per agevolare il raggiungimento della soglia: una sorta di pre-accordo protetto.
  • Se l’accordo coinvolge categorie specifiche di creditori, il Codice prevede la possibilità di estenderne gli effetti ai creditori dissenzienti appartenenti alla stessa categoria, a patto che abbia aderito la stragrande maggioranza di quella categoria (accordo ad efficacia estesa). Tipicamente, ciò è pensato per le banche e intermediari finanziari: ad esempio, se il debitore ottiene l’ok del 85% delle banche esposte, il tribunale può estendere l’accordo anche al 15% di banche non aderenti, evitando che poche istituzioni dissenzienti facciano fallire la ristrutturazione. L’efficacia estesa si applica anche ad altre categorie omogenee se previsto (il Codice menziona ad esempio i creditori con garanzie reali). Questo strumento era già presente nella vecchia legge (in forma più limitata) ed è stato confermato e ampliato.
  • A differenza del concordato, non c’è un voto in senso formale da parte di tutti i creditori né un coinvolgimento universale: solo chi aderisce è parte dell’accordo, e per i non aderenti il debitore può decidere di pagarli integralmente fuori accordo per evitare opposizioni (non c’è l’obbligo di includere tutti). L’accordo potrebbe quindi riguardare solo alcuni creditori strategici (es. le banche, mentre i fornitori vengono pagati regolarmente a scadenza). Un esempio tipico: l’impresa in crisi ma con buone prospettive fa un accordo con tutte le banche esposte (che accettano di ristrutturare il debito finanziario), mentre ai fornitori continua a pagare il dovuto normalmente. Così i fornitori neppure vengono a conoscenza dell’accordo e la reputazione commerciale dell’azienda resta salva. Questa configurazione è frequente quando la crisi è essenzialmente finanziaria (troppi debiti bancari) ma l’operatività commerciale è sana.
  • L’accordo deve essere corredato da una relazione di un esperto indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e l’idoneità dell’accordo a assicurare il pagamento dei creditori estranei nei termini di legge (non deteriore rispetto alla situazione in caso di liquidazione). Non vige infatti l’obbligo di soddisfare tutti i creditori estranei al livello di liquidazione, purché l’accordo non peggiori la loro posizione giuridica. In pratica, i creditori estranei devono essere pagati regolarmente o comunque non subire pregiudizio.
  • Quando il debitore deposita l’accordo in tribunale per l’omologazione, può chiedere misure protettive come il stay (blocco azioni) similmente al concordato. Una volta accertati i requisiti (60% di adesioni, relazione esperto, ecc.), il tribunale omologa l’accordo rendendolo efficace. Da quel momento, l’accordo è vincolante per tutti i creditori aderenti; inoltre, se previsto, opera il cram-down fiscale: se il Fisco non ha aderito ma l’offerta fatta era almeno pari al trattamento liquidatorio e gli altri creditori hanno aderito in maggioranza, il tribunale può omologare ugualmente l’accordo anche senza il consenso del Fisco, con riferimento però alla sola efficacia esdebitativa finale. Ciò significa che il debito fiscale compreso nell’accordo verrà considerato estinto a seguito dell’esecuzione dello stesso, nonostante il mancato assenso dell’Erario, evitando così che il Fisco possa agire successivamente per la differenza non pagata (è un meccanismo di cram-down fiscale analogo a quello visto per il concordato). Questa norma speciale (introdotta dal D.Lgs. 83/2022) ha di fatto risolto un problema storico: prima, se il Fisco rifiutava la transazione fiscale, l’accordo non poteva chiudersi con esdebitazione fiscale, mentre ora il giudice può forzare la mano in presenza di certe condizioni di convenienza per l’Erario.
  • L’esecuzione dell’accordo avviene fuori dal tribunale: il debitore, una volta omologato, continua a gestire l’impresa e adempie gli impegni presi nell’accordo verso i creditori aderenti (pagando le percentuali concordate, rispettando le scadenze rinegoziate, ecc.). Non c’è un commissario né un liquidatore, a meno che non sia previsto dalle parti un monitoraggio esterno. Il tribunale potrà essere nuovamente adito solo in caso di inadempimento dell’accordo (i creditori potrebbero chiederne la risoluzione in quel caso).

Vantaggi degli accordi di ristrutturazione:

  • Maggiore riservatezza e minor impatto reputazionale: fino all’omologazione, l’accordo può rimanere riservato. Viene depositato in tribunale solo alla fine delle trattative, e la sua pubblicità presso il Registro delle Imprese avviene al momento dell’omologazione. Ciò significa che per buona parte del processo la crisi dell’azienda resta fuori dai riflettori, a differenza del concordato che diventa pubblico sin dall’ammissione. Inoltre, se l’accordo coinvolge solo istituti finanziari, i partner commerciali potrebbero non venire mai a sapere delle difficoltà (evitando reazioni a catena).
  • Flessibilità nelle trattative: non essendoci le rigidità di un voto assembleare, il debitore può negoziare condizioni diverse con ciascun aderente, adattando le soluzioni caso per caso. Ad esempio potrebbe offrire a una banca la conversione di parte credito in strumenti partecipativi, a un’altra una dilazione decennale, ecc., a seconda delle preferenze. Ciò consente soluzioni “tailor-made” più efficaci. Ovviamente, poi nell’accordo finale queste diverse pattuizioni verranno coordinate, ma non ci sono le strettoie delle classi come nel concordato.
  • Tempi relativamente brevi e costi contenuti: un accordo di ristrutturazione può essere concluso più rapidamente di un concordato, specie se il numero di creditori coinvolti è limitato. Anche l’iter di omologazione tende a essere più snello, dato che non c’è un voto da organizzare né un comitato dei creditori formale. In termini di costi, le spese legali e di attestazione ci sono, ma si evitano i costi di una procedura lunga con organi incaricati. Questo rende l’accordo uno strumento attraente quando c’è già un consenso di massima dei principali creditori.
  • Possibilità di escludere taluni creditori: il debitore può decidere di escludere dall’accordo alcuni creditori “minori” pagando loro integralmente il dovuto, concentrando lo sconto solo su chi accetta. Ad esempio i fornitori strategici spesso vengono tenuti fuori e pagati in pieno per non compromettere rapporti commerciali. Questo è consentito purché i creditori estranei non subiscano un trattamento peggiore di quello che avrebbero senza accordo (il che è garantito se li si paga regolarmente). Nel concordato invece tutti i creditori concorsuali sono automaticamente coinvolti e soggetti alla falcidia.
  • Cram-down fiscale contributivo: come detto, oggi anche negli accordi è possibile superare il dissenso del Fisco se l’accordo è conveniente e votato dagli altri. Questo toglie uno dei maggiori ostacoli che in passato rendeva incerto l’esito degli accordi (l’Agenzia delle Entrate spesso non dava consenso alle transazioni sui tributi, costringendo il debitore a ripiegare sul concordato).

Limiti e attenzione richiesta:
Va però evidenziato che gli accordi di ristrutturazione richiedono un alto grado di consenso iniziale. Se il debitore non riesce a coinvolgere almeno il 60% dei crediti, non può accedere a questo strumento. Inoltre, i creditori non aderenti mantengono intatti i loro diritti: ciò significa che potrebbero, ad esempio, proseguire azioni esecutive (a meno di misure protettive temporanee concesse) o, dopo l’omologazione, agire separatamente. In pratica, l’accordo funziona bene quando i creditori esclusi sono marginali e vengono tutelati (pagati) al di fuori di esso; se ci sono creditori importanti che rifiutano di aderire, il rischio di azioni individuali o istanze di fallimento rimane. Un altro elemento: l’accordo non consente di imporre sacrifici ai creditori privilegiati dissenzienti (salvo efficacia estesa per le banche). Se per esempio una banca non aderisce, il suo credito (garantito da ipoteca) dovrà essere soddisfatto integralmente perché l’accordo passi. Nel concordato, invece, si può cramdownare una classe di creditori privilegiati offrendo loro almeno il valore di liquidazione. Quindi, paradossalmente, quando c’è da tagliare significativamente i crediti privilegiati, può essere più efficace un concordato (dove votano a maggioranza per classe) che un accordo (dove serve adesione individuale di ciascun privilegiato da falcidiare).

Il CCII ha previsto la figura dell’“esperto facilitatore” anche negli accordi, sulla falsariga della composizione negoziata, ma di fatto questa è poco utilizzata perché se la situazione richiede un facilitatore, tanto vale ricorrere direttamente alla composizione negoziata prima dell’accordo. Difatti, spesso il percorso consigliabile è: prima tentare la composizione negoziata (per ottenere standstill e preparare il terreno), poi formalizzare un accordo di ristrutturazione con il necessario grado di adesioni.

In conclusione, gli accordi di ristrutturazione sono uno strumento prezioso per le imprese che riescono a coinvolgere attivamente i propri principali creditori nel piano di risanamento, evitando le formalità del concordato (assemblea dei creditori, voto di tutti). Hanno costi procedurali minori e un impatto reputazionale più contenuto. Di contro, richiedono appunto consenso elevato e non possono risolvere situazioni in cui la platea dei creditori è molto frammentata e conflittuale. Il ruolo dell’avvocato del debitore in questa sede è di tessere la trama negoziale: contattare i creditori chiave (spesso banche), convincerli della bontà del piano, predisporre gli accordi legali bilaterali di adesione e orchestrare il deposito e l’omologazione in tribunale. Inoltre deve redigere, assieme all’esperto attestatore, la relazione che dimostri la non deteriorità dell’accordo per i creditori estranei, ed eventualmente negoziare con l’Agenzia delle Entrate e l’INPS la parte di transazione fiscale e contributiva (che poi dovranno dare formale adesione). C’è quindi un mix di abilità legali (stendere accordi vincolanti, considerare clausole di efficacia rispetto a tutti i creditori, gestire le condizioni sospensive legate all’omologazione) e capacità relazionali. Spesso gli accordi vengono usati nelle ristrutturazioni finanziarie di grandi società indebitate con banche o obbligazionisti, dove i legali negoziano con pool di istituti le nuove condizioni di rimborso e scrivono i contratti attuativi.

I Piani Attestati di Risanamento

Il piano attestato di risanamento è lo strumento più snello e totalmente stragiudiziale previsto dal quadro normativo per superare la crisi. È disciplinato dall’art. 56 CCII (che ricalca l’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall.). Consiste in un piano di risanamento dell’impresa che appare idoneo a riequilibrarne la situazione finanziaria, il cui contenuto è attestato da un professionista indipendente circa la veridicità dei dati e la fattibilità. La sua caratteristica principale è che non richiede alcun intervento del tribunale, né votazioni, né percentuali di adesione predefinite dei creditori. In sostanza è un accordo privato tra il debitore e uno, alcuni o tutti i suoi creditori – come qualsiasi negoziazione volontaria – ma “rinforzato” da un’attestazione indipendente che ne certifica la serietà. Tale attestazione conferisce al piano un beneficio legale specifico: gli atti compiuti in esecuzione del piano sono esenti da azione revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento. Questo doppio scopo rende il piano attestato uno strumento prezioso: da un lato, flessibile e confidenziale (tutto avviene fuori dal tribunale, con accordi anche bilaterali, modulabili secondo le esigenze delle parti); dall’altro, protettivo di certe operazioni necessarie al risanamento, mettendole al riparo dall’eventuale futura dichiarazione di insolvenza.

Vediamo in pratica le fasi di un piano attestato di risanamento:

  • Elaborazione del piano: l’imprenditore in difficoltà, spesso con l’aiuto di consulenti finanziari e legali, predispone un dettagliato piano industriale e finanziario di risanamento. Il piano deve analizzare le cause della crisi, contenere i bilanci previsionali (di solito un piano a 3–5 anni), e indicare le strategie e misure da adottare: ad esempio ristrutturazione del debito (quali crediti intende rinegoziare e come), riduzione dei costi operativi, dismissione di asset non core, eventuale aumento di capitale o finanziamenti, revisione del modello di business, ecc.. L’obiettivo è dimostrare che, se tutte queste misure verranno attuate, l’impresa supererà la crisi e tornerà ad essere solvente nel medio termine. Si tratta quindi di un piano di risanamento globale, non semplicemente di un accordo di stralcio dei debiti: devono emergere concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico-finanziario.
  • Negoziazione con i creditori: essendo un accordo contrattuale, il debitore deve poi ottenere dai creditori le concessioni necessarie per realizzare il piano. A differenza del concordato o degli accordi ex 182-bis, non c’è un meccanismo di adesione collettiva prestabilito: il debitore può trattare separatamente con ciascun creditore o gruppo di creditori. Può decidere di coinvolgere tutti o solo alcuni creditori, a seconda delle esigenze. Ad esempio, potrebbe essere sufficiente raggiungere un accordo con le banche per rinegoziare i mutui e con i fornitori principali per dilazionare i pagamenti, mentre i piccoli fornitori vengono pagati regolarmente. Non esistono soglie obbligatorie di adesione: ovviamente, perché il piano riesca, è necessario che aderiscano (o comunque vengano soddisfatti) un numero sufficiente di creditori tale da rimuovere lo stato di crisi. Se un creditore importante non intende aderire e minaccia azioni esecutive, il debitore dovrà valutare alternative (es. trovargli un accordo dedicato o pagarlo integralmente) perché un piano attestato non può imporgli nulla. Spesso le adesioni dei creditori vengono formalizzate in accordi bilaterali (es. contratti modificativi del debito, patto di standstill, rinnovo fidi, ecc.) contestuali al piano.
  • Attestazione del professionista: elemento qualificante è la relazione di un attestatore indipendente – tipicamente un commercialista o revisore esperto in ristrutturazioni, terzo rispetto alle parti. Questi esamina il piano e redige una relazione in cui dichiara se i dati aziendali su cui si fonda sono veritieri e se le assunzioni del piano sono fattibili e adeguate a garantire il risanamento. L’attestazione serve a dare credibilità al piano di fronte ai creditori (un occhio super partes conferma che non si tratta di “fumo negli occhi”) e, come detto, è il presupposto per l’effetto protettivo anti-revocatoria. Il professionista deve anche verificare che gli accordi presi non peggiorino la posizione di eventuali creditori estranei. Ad esempio, se viene pagato un creditore prima della scadenza per garantirsi la continuità, l’attestatore valuterà se ciò è funzionale al risanamento e se comunque quel pagamento non è lesivo degli altri (principio di par condicio).
  • Esecuzione e monitoraggio: una volta ottenute le adesioni necessarie dai creditori chiave e predisposta l’attestazione, il piano può essere formalmente “adottato” dal debitore. Non è necessaria alcuna omologazione o registrazione pubblica (anche se in taluni casi, per massima tutela, si procede a depositare il piano e la relazione presso il registro delle imprese: ciò serve a “data certa” dell’esenzione da revocatoria). Da questo momento, l’impresa esegue il piano: implementa le misure industriali previste e rispetta i nuovi accordi di pagamento presi con i creditori. Può essere utile che il debitore preveda un sistema interno di monitoraggio sull’andamento del piano, informando periodicamente i creditori principali dei progressi, per mantenere la fiducia (ma ciò non è imposto per legge, è una best practice). Se il piano funziona, l’impresa esce gradualmente dalla crisi. Se invece, nonostante tutto, il piano fallisce e l’impresa finisce in default, avendo tentato in buona fede il risanamento potrà comunque beneficiare del fatto che molti atti compiuti (pagamenti, garanzie concesse, ecc. in esecuzione del piano attestato) non potranno essere revocati dal curatore. Questo è un incentivo sia per il debitore sia per i terzi (es. banche che eroghino nuovi finanziamenti secondo il piano) a partecipare al risanamento senza la paura che, in caso di fallimento successivo, quelle operazioni siano annullate e loro costretti a restituire somme. Si noti che la protezione dalle revocatorie riguarda i casi tipici di atti a titolo oneroso, pegni, ipoteche e pagamenti anticipati previsti dall’art. 166 CCII (ex art. 67 l.f.) compiuti in attuazione del piano; ciò riduce fortemente le incertezze legali.

Esempio: Tizio S.p.A. è in crisi di liquidità: ha accumulato debiti verso banche e fornitori, ma ha commesse promettenti e un business di base profittevole. Decide di fare un piano attestato. Con l’aiuto di advisor elabora un piano per ristrutturare i debiti bancari (chiedendo 2 anni di preammortamento e allungamento delle scadenze), ottenere nuovi fondi dai soci e dilazionare i debiti coi fornitori strategici. Il commercialista indipendente attesta che, con queste misure, l’azienda tornerà in utile e potrà ripagare i debiti ristrutturati nei nuovi termini. Le banche, convinte dall’attestazione e preferendo recuperare nel tempo piuttosto che precipitare l’azienda in default, firmano l’accordo di ristrutturazione del credito. I fornitori chiave accettano una dilazione di 6 mesi sui pagamenti arretrati. L’azienda esegue il piano: i soci versano nuovo capitale, l’attività riprende fiato e in 2 anni torna generare cassa sufficiente. Il piano è un successo e nessuna procedura concorsuale viene aperta. Anche i pochi fornitori minori non interpellati, comunque, sono stati soddisfatti regolarmente e dunque non hanno avuto motivo di agire.

Norme introdotte dal correttivo 2024: il D.Lgs. 136/2024 ha ulteriormente precisato alcuni aspetti del piano attestato. Ad esempio, ha definito meglio il “contenuto minimo” che il piano deve avere, chiarendo che occorre far riferimento all’incremento dell’attivo disponibile derivante da eventuali risorse esterne apportate, piuttosto che genericamente a un miglior soddisfacimento dei creditori. Ciò per facilitare il controllo di qualità del piano da parte dell’attestatore e, se necessario, del tribunale in un eventuale fallimento successivo. In pratica, si vuole che dal piano risulti chiaramente quale valore aggiuntivo viene messo a disposizione rispetto allo scenario di liquidazione, così da giustificare la protezione degli atti compiuti. Inoltre, il correttivo ha esplicitato che il professionista attestatore deve valutare attentamente la diligenza del debitore nell’assumere le obbligazioni che hanno generato la crisi, con riferimento alla futura esdebitazione. Questo punto richiama il concetto di meritevolezza: se dal piano emerge che il debitore si è indebitato in modo scriteriato, ciò potrà avere impatto su un’eventuale valutazione di indegnità all’esdebitazione. Non sono modifiche sostanziali, ma indicano l’attenzione del legislatore a evitare abusi (piani attestati fittizi solo per blindare atti pregiudizievoli).

Ruolo dell’avvocato per il debitore: in un piano attestato, l’avvocato ricopre il ruolo di consulente strategico-legale. Deve strutturare gli accordi con i creditori in modo robusto, assicurarsi che tutti gli atti da compiere siano in effetti funzionali al risanamento (per godere dell’esenzione da revocatoria) e coordinare il lavoro dell’attestatore (fornendogli tutti i documenti e le clausole contrattuali necessarie per valutare il piano). Inoltre, deve vigilare che la realizzazione del piano non infranga norme imperative – ricordando che, essendo stragiudiziale, il piano non “perdona” eventuali illegittimità (mentre in concordato c’è il controllo del giudice). Ad esempio, se il piano prevedesse il pagamento parziale di un debito fiscale senza passare per transazione fiscale omologata, l’avvocato dovrebbe avvisare che ciò non è opponibile al Fisco senza concordato (salvo poi includere quel debito in un eventuale concordato successivo se le cose vanno male). Insomma, l’avvocato deve orchestrare un accordo complesso con tante parti mobili: contratti modificativi, nuove garanzie, rinunce, interventi dei soci, e far sì che il tutto confluisca in un documento (piano) coerente e attestabile. Dopodiché, monitorerà il rispetto degli accordi e assisterà il debitore se qualche creditore dovesse “fare il furbo” durante l’esecuzione (anche se di solito i contratti di adesione prevedono clausole risolutive nel caso il debitore non rispetti i piani, e viceversa impegni dei creditori a non agire se il debitore è adempiente).

In ultima analisi, il piano attestato è uno strumento di self-help del debitore, senza l’ombrello del tribunale, adatto quando c’è fiducia reciproca con i principali creditori e una crisi ancora gestibile. Se invece il clima è conflittuale o servono effetti dirompenti verso creditori dissenzienti, sarà più indicato un concordato o accordo omologato.

Il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)

Tra le novità più rilevanti apportate dal recepimento della Direttiva UE 2019/1023 (Insolvency Directive) vi è l’introduzione nel nostro ordinamento del Piano di Ristrutturazione soggetto ad Omologazione, comunemente abbreviato in PRO. Esso è disciplinato dagli artt. 64-bis e seguenti CCII (Capo I-bis, Titolo IV) e rappresenta un nuovo strumento concorsuale flessibile che permette al debitore di proporre ai creditori un piano di risanamento con ampia libertà di contenuto, a patto di ottenere l’approvazione da parte delle classi di creditori e la conseguente omologazione dal tribunale.

Il PRO può essere visto come un “concordato preventivo su misura”. La sua caratteristica distintiva è la possibilità di derogare alle regole legali di graduazione dei crediti (par condicio e rispetto dei privilegi), distribuendo il valore generato dal piano in modo non strettamente proporzionale ai privilegi, bensì secondo quanto concordato nelle classi di creditori. In altre parole, nel PRO il debitore può proporre che alcuni creditori privilegiati non vengano soddisfatti integralmente, oppure che creditori di grado inferiore ricevano più di creditori di grado superiore – cose normalmente vietate nel concordato salvo consenso unanime. Questa elasticità è consentita proprio perché si presuppone un consenso all’interno di ciascuna classe coinvolta.

Come funziona infatti il PRO? Il debitore deve suddividere i creditori in classi omogenee per posizione giuridica e interessi economici, analogamente al concordato. Poi, tutte le classi così formate devono approvare il piano con le maggioranze prescritte (maggioranza in valore dei crediti in ciascuna classe). Ciò significa che serve il consenso di ogni singola classe di creditori coinvolta. Non occorre l’unanimità individuale dei creditori, ma serve che in ciascuna classe si raggiunga la maggioranza, e che nessuna classe voti contro (non essendo previsto, nel PRO, un cram-down interclassi come invece nel concordato preventivo). Solo così il tribunale potrà omologare il piano, rendendolo vincolante per tutti i creditori di quelle classi.

In pratica, a differenza del concordato preventivo dove è sufficiente la maggioranza dei crediti totali e la maggioranza delle classi (potendo persino omologare con alcune classi contrarie tramite cram-down), nel PRO serve l’adesione di tutte le classi costituite (nel senso della maggioranza all’interno di ciascuna). Ciò conferisce al PRO un carattere di consensualità molto elevata: è un procedimento concorsuale dinanzi al giudice, ma richiede un accordo ampio dei creditori, quasi come un accordo negoziale puro. In assenza di tale consenso diffuso, il PRO non può essere imposto.

Vantaggi e peculiarità del PRO: in primo luogo, consente di realizzare ristrutturazioni non possibili col concordato tradizionale. Ad esempio, nel concordato preventivo ordinario se si vuole trattare diversamente due creditori di pari grado occorre il loro consenso individuale (altrimenti violazione par condicio); nel PRO invece si può prevedere – con approvazione di classe – che un certo creditore privilegiato prenda 80% e un altro 50%, o che i chirografari ottengano qualcosa anche se i privilegiati non sono pagati integralmente, ecc., configurazioni che altrimenti sarebbero bloccate dal veto legale. Questo permette di “modellare” il piano sulle specifiche necessità del caso concreto, premiando ad esempio i fornitori strategici con trattamenti migliori, coinvolgendo i dipendenti in accordi speciali, ecc., senza essere costretti alla rigida graduazione. Di conseguenza, anche i creditori pubblici (Erario, INPS) potrebbero accettare decurtazioni maggiori del normale se fanno parte di classi consenzienti nel PRO (cosa che in concordato preventivo incontra limiti, come visto). Inoltre, nel PRO non si applicano i requisiti del 20% minimo ai chirografari o dell’apporto esterno del 10%: quelle soglie valgono solo per concordati liquidatori, mentre un PRO può anche pagare meno del 20% se i creditori lo approvano.

Il rovescio della medaglia è che il PRO, dovendo ottenere l’accordo di tutti i gruppi, è praticabile solo quando il debitore riesce a convincere tutte le categorie di creditori della bontà del piano. Se una classe è irriducibilmente contraria, il PRO non può essere attuato (diversamente dal concordato dove a certe condizioni si può superare il dissenso di minoranze qualificate). Quindi il PRO è indicato in situazioni in cui c’è già un consenso quasi unanime o si può negoziare fino a ottenerlo – ad esempio ristrutturazioni tra soci e poche banche, dove tutti seduti al tavolo trovano un’intesa creativa che poi viene “certificata” dal tribunale.

Dal punto di vista procedurale, il PRO segue in gran parte le regole del concordato: c’è un ricorso iniziale, la nomina di un commissario (se del caso), il voto per classi, e infine l’omologazione. La differenza, come detto, sta nel requisito di approvazione unanime per classi e nella flessibilità del contenuto. Va segnalato che il PRO può essere utilizzato sia in continuità sia in liquidazione, e potenzialmente può essere “agganciato” alla composizione negoziata: nulla vieta che un debitore in composizione negoziata, se vede la possibilità di un accordo globale con tutte le classi, opti poi per un PRO invece che per un concordato preventivo (magari per evitare di dover rispettare quel 20% chirografari, ecc.). In tal senso, PRO e concordato preventivo sono strumenti alternativi e la scelta dipenderà dal livello di consenso che il debitore può raggiungere.

Finora (2023-2025) il PRO non ha avuto una applicazione pratica molto diffusa, dato che è uno strumento nuovo e i casi in cui tutte le classi sono consenzienti spesso si risolvono già con un semplice accordo omologato o con un concordato “normale”. Tuttavia, rappresenta una opzione in più nell’arsenale, specie in situazioni in cui c’è da superare vincoli legali che un concordato impedirebbe: ad esempio, ristrutturare bond con migliaia di obbligazionisti retail richiedendo la maggioranza in ogni classe di bondholder; oppure piani industriali in cui alcuni creditori strategici ottengono trattamenti differenziati (che se ottenuti col loro accordo in classe PRO sono possibili, mentre in concordato sarebbe stato problematico).

In un’ottica di debitore, il PRO è utile se si è in grado di condurre una trattativa complessiva con tutti i creditori e ottenere la loro fiducia. È, come definito, un concordato consensuale: se manca il consenso, occorre ripiegare sul concordato classico (dove minoranze possono essere vinte col voto della maggioranza).

Dal lato avvocato del debitore, lavorare a un PRO significa essenzialmente negoziare come in un accordo stragiudiziale, ma preparare il tutto per un iter concorsuale. Bisogna redigere un piano estremamente dettagliato e calibrato per ogni classe, predisporre la suddivisione in classi in accordo con i creditori (spesso si discute ex ante con i creditori come formare le classi in modo che ciascuno possa votare separatamente), e assicurarsi che ogni classe raggiunga la soglia (basta il 50% in valore o anche di teste? la legge indica la maggioranza dei crediti, quindi in valore, all’interno di ciascuna classe). Poi occorre accompagnare il cliente nel deposito e nelle udienze di omologazione, affrontando eventuali creditori dissenzienti che facciano opposizione (nel PRO se una classe vota contro, tecnicamente non si può omologare, ma potrebbero esserci contestazioni su ammissioni al voto o classazioni, quindi l’avvocato deve essere pronto a difendere le scelte effettuate). Dato l’alto tasso di consenso richiesto, è presumibile che l’avvocato del debitore interagisca intensamente con i legali dei principali creditori fin dalla fase di preparazione, quasi con un approccio contrattuale multi-party.

In definitiva, il PRO arricchisce il panorama di strumenti a disposizione, completando l’idea di fondo della riforma: dare la massima gamma di soluzioni negoziali possibili, dal piano privatissimo attestato fino al concordato giudiziale classico, passando per accordi omologati e concordati su misura (PRO), così che per ogni gradazione di consenso e per ogni esigenza vi sia lo strumento adatto.

La Liquidazione Giudiziale (il “nuovo Fallimento”)

Nonostante l’enfasi del Codice sul salvataggio e la ristrutturazione, permane naturalmente la procedura destinata ai casi in cui l’insolvenza non possa essere risolta: la liquidazione giudiziale, che ha preso il posto del tradizionale fallimento. La liquidazione giudiziale, disciplinata dal Titolo V CCII, è la procedura concorsuale liquidatoria per eccellenza: si mira a smobilizzare tutto il patrimonio del debitore insolvente e distribuire il ricavato ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. In genere vi si ricorre quando l’impresa è irreversibilmente insolvente e nessun concordato o accordo è stato attivato (oppure tali tentativi sono falliti).

Presupposti e iniziativa: può essere assoggettato a liquidazione giudiziale l’imprenditore commerciale insolvente che superi le già citate soglie di fallibilità. Abbiamo visto i parametri: esclusi i piccoli sotto €300k attivo, €200k ricavi, €500k debiti – per costoro c’è semmai la liquidazione controllata (sovraindebitamento). Legittimati a chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale sono: lo stesso debitore (cd. fallimento in proprio), uno o più creditori, oppure il Pubblico Ministero (quest’ultimo nei casi espressamente previsti, ad es. quando l’imprenditore è fuggito, o su segnalazione di autorità di vigilanza). L’istruttoria si apre con un ricorso al tribunale competente. Il tribunale verifica la sussistenza dei presupposti – qualifica soggettiva di imprenditore fallibile e stato di insolvenza – e, se li riscontra, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale. La sentenza nomina i organi della procedura: un giudice delegato (magistrato che sovrintende alla procedura) e un curatore (figura cardine, un professionista incaricato di amministrare il patrimonio fallimentare). Inoltre, ordina al debitore il deposito delle scritture contabili e di indicare i creditori e attesta eventuali misure interdittive (decadenze da cariche, sospensione di amministratori, ecc.).

Effetti dell’apertura: con la sentenza di liquidazione giudiziale, il debitore perde la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni (spossessamento). Il potere di gestire e liquidare l’attivo passa al curatore, che agisce in rappresentanza e nell’interesse collettivo dei creditori. Si forma automaticamente il “patrimonio liquidatorio” detto massa attiva, composto da tutti i beni ed i crediti del debitore esistenti all’apertura (e da quelli che sopravvengono durante la procedura). Sono esclusi solo i beni strettamente personali o non pignorabili. Nel caso di società, gli amministratori decadono e la società prosegue in liquidazione sotto la guida del curatore; nel caso di imprenditore individuale, egli non può più disporre dei propri beni se non con l’autorizzazione del giudice. Tutti i creditori concorsuali (quelli verso il debitore a quella data) non possono più iniziare o proseguire azioni esecutive individuali: si cristallizza la situazione al momento della dichiarazione. I debiti si considerano scaduti e non producono più interessi (salvo privilegiati entro limite di garanzia). I contratti in corso di esecuzione non ancora completamente adempiuti da ambo le parti possono essere sciolti dal curatore, oppure proseguiti se utili alla massa (il curatore subentra o recede pagando eventuali indennizzi).

Il curatore, entro 60 giorni, deposita un programma di liquidazione in cui delinea come intende procedere alla vendita dei beni (asta, trattativa privata, esercizio provvisorio dell’azienda se opportuno, ecc.). Nelle procedure più complesse, il tribunale può autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa (o di un suo ramo) se la cessazione immediata arrecherebbe danno grave al valore o ai creditori. Ad esempio, se la società fallita ha commesse in corso che completandole aumenterebbero l’attivo, il curatore può temporaneamente proseguire l’attività sotto la sua gestione per massimizzare il ricavato. Questo però è l’eccezione: di regola, la liquidazione giudiziale comporta la cessazione dell’attività aziendale. I dipendenti vengono licenziati (con diritto alle prerogative e al TFR ammissibili al passivo), i beni aziendali venduti.

Accertamento del passivo: parallelamente, viene avviata la formazione dello stato passivo. I creditori devono presentare al curatore domanda di ammissione al passivo entro un termine (30-90 giorni dalla sentenza, ora 90 giorni prorogabili di 30 grazie al correttivo 2024). Il curatore esamina le domande, predispone uno stato passivo con l’elenco di tutti i crediti e dei rispettivi diritti di prelazione (privilegi, ipoteche, pegni) e delle eventuali esclusioni o riduzioni proposte. Viene tenuta un’udienza davanti al giudice delegato (vertenza di accertamento del passivo) in cui si discutono le contestazioni. Al termine, il giudice emette un decreto di esecutività dello stato passivo, che diventa l’elenco ufficiale dei crediti ammessi. Questo passivo sarà poi utilizzato per i riparti.

Conservazione e recupero attivo: il curatore ha il dovere di conservare e recuperare il più possibile l’attivo a beneficio dei creditori. Può esercitare azioni legali come:

  • l’azione revocatoria fallimentare, per far dichiarare inefficaci (verso la massa) alcuni atti compiuti dal debitore prima della procedura, ritenuti pregiudizievoli per i creditori. Lo scopo è recuperare al patrimonio beni o somme uscite indebitamente, ripristinando la garanzia patrimoniale comune e assicurando la par condicio. Ad esempio, pagamenti effettuati nei sei mesi precedenti verso un creditore chirografario possono essere revocati (il creditore deve restituire quanto ricevuto) se avvenuti quando il debitore era già insolvente e il creditore ne era consapevole; oppure atti dispositivi a titolo gratuito o ipoteche volontarie concesse in tempi sospetti possono essere annullati. Il Codice della Crisi ha mantenuto in larga parte la disciplina previgente della revocatoria fallimentare, con qualche limatura sui termini e con eccezioni per agevolare accordi prefallimentari (es. protezione dei pagamenti effettuati in esecuzione di piani attestati, come già visto).
  • le azioni di responsabilità verso gli amministratori e gli organi di controllo della società fallita, se hanno con dolo o colpa contribuito al dissesto. Il curatore può promuovere l’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. (per danni alla società) o l’azione verso amministratori a tutela dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., nonché l’azione specifica ex art. 378 CCII per violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio (che richiama il noto art. 2486 c.c. modif.). Ad esempio, se i dirigenti hanno aggravato il dissesto ritardando il fallimento, il curatore potrà chiedere loro i danni quantificati secondo i criteri presuntivi (differenza di patrimonio netto peggiorata, ecc.).
  • altre azioni recuperatorie: ad es. insinuarsi nei fallimenti di eventuali coobbligati o fideiussori, escutere garanzie fornite da terzi, ecc.

Riparti ai creditori: mano a mano che si liquidano i beni (incassi da vendite, crediti riscossi, ecc.), il curatore effettua dei riparti parziali distribuendo le somme, secondo l’ordine delle prelazioni: prima si pagano i creditori prededucibili (costi di procedura, finanziamenti prededucibili, ecc.), poi i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegi speciali e generali) in base al grado e nei limiti del valore di realizzo dei beni su cui insiste la prelazione, infine con l’eventuale residuo i creditori chirografari in percentuale (spesso modesta). La liquidazione giudiziale, come il vecchio fallimento, è quindi una procedura concorsuale classica: tutti i creditori concorrono sul patrimonio secondo la graduatoria e ricevono, di solito, un dividendo proporzionale (per i chirografari) determinato dal rapporto tra attivo e passivo.

Chiusura della procedura ed esdebitazione: La liquidazione giudiziale si chiude quando tutte le attività sono state liquidate e ripartite, oppure quando è divenuto impossibile proseguire utilmente (ad es. attivo insufficiente anche a coprire i costi). Il curatore presenta il rendiconto finale e il piano di riparto finale, e il tribunale emette un decreto di chiusura. A questo punto, se il debitore è una società, si passa alla cancellazione della società (che cessa di esistere); se il debitore è persona fisica, cessa lo spossessamento ma – sotto il vecchio regime – i debiti non soddisfatti rimanevano a suo carico, salvo avesse ottenuto l’esdebitazione.

Con il CCII, come già anticipato, l’esdebitazione del debitore persona fisica (imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile) è stata resa molto più semplice e quasi automatica. In passato, il fallito doveva proporre apposita istanza di esdebitazione dopo la chiusura e il tribunale la concedeva se valutava la “meritevolezza” (nessuna frode, cooperazione, ecc.). Oggi, invece, trascorsi 3 anni dall’apertura della liquidazione giudiziale, il debitore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione dei debiti residui non soddisfatti – senza bisogno di domanda – salvo che sia stato condannato per bancarotta fraudolenta o altri gravi reati concorsuali. Non serve più neppure accertare la meritevolezza in senso tecnico; solo in caso di comportamenti dolosi gravissimi il tribunale potrà revocare l’esdebitazione. Inoltre, è prevista persino un’esdebitazione anticipata per il debitore incapiente (art. 282 CCII): se il fallito persona fisica non ha alcuna utilità da distribuire ai creditori (cioè il fallimento si chiude senza attivo), può essere liberato dai debiti subito dopo la chiusura, senza attendere i 3 anni. Questa è una misura di grande impatto sociale: consente al piccolo imprenditore rovinato, che non poteva offrire nulla, di ripartire immediatamente senza l’handicap dei debiti pregressi (è una sorta di “fresh start” radicale concesso una tantum, purché il debitore non abbia frodato i creditori). In generale, dunque, il fallito onesto vede la luce in fondo al tunnel molto prima rispetto al passato.

Va precisato che la liquidazione giudiziale riguarda prevalentemente imprese medio-grandi. Il Codice prevede, come già detto, una procedura semplificata di liquidazione controllata per i debitori minori (i cosiddetti ex sovraindebitati) e le ditte sotto soglia, davanti al tribunale in composizione monocratica. Quindi oggi abbiamo due livelli: il “grande fallimento” davanti al tribunale collegiale con regole più complesse e organi, e il “piccolo fallimento” (liquidazione controllata) davanti a un giudice singolo con iter più snello (di cui diremo in seguito). Inoltre, esiste anche il concordato nella liquidazione giudiziale: persino dopo la dichiarazione di fallimento è prevista la possibilità che, entro determinati termini, il debitore (o un terzo) proponga ai creditori un concordato fallimentare. In pratica, anche a fallimento aperto si può tentare un accordo: ad esempio un investitore potrebbe offrire una certa percentuale cash ai creditori per rilevare l’azienda, e se i creditori lo approvano e il tribunale lo omologa, la liquidazione si chiude anticipatamente con soddisfazione parziale dei crediti. Sono ipotesi particolari ma da tener presente: il Codice consente di transare il fallimento anche dopo l’apertura, qualora emerga un’opportunità per i creditori migliore della prosecuzione della liquidazione.

Conseguenze per il debitore: subire una liquidazione giudiziale significa per l’imprenditore la perdita del controllo della propria impresa, la spoliazione del patrimonio e una serie di implicazioni negative che vanno dal discredito commerciale all’impossibilità di accedere al credito, fino a possibili azioni di responsabilità a suo carico. Anche se il termine “fallito” non si usa più formalmente, resta nella realtà un evento altamente impattante. Per le società, equivale alla fine dell’attività e spesso comporta indagini sulle condotte degli amministratori. Per le persone fisiche, vi sono ancora alcune conseguenze: ad esempio, durante la procedura il debitore fallito non può ricoprire cariche societarie (viene sospeso se era amministratore di altre società), né espatriare senza autorizzazione (anche se questa regola oggi è di rado applicata). Tuttavia, molte di queste incapacità personali decadono automaticamente con l’esdebitazione: quando il fallito è esdebitato, riacquista la piena capacità di fare impresa e accedere a nuove iniziative. Non esiste più il “registro dei falliti” come un tempo e quindi lo stigma legale è ridotto.

Dal punto di vista della responsabilità del debitore, occorre menzionare qui (ma approfondiremo nel capitolo dedicato) che la dichiarazione di liquidazione giudiziale può far emergere profili di responsabilità civile e penale. Sul piano civile, gli amministratori di società fallite rischiano le azioni di responsabilità per mala gestio come detto; i soci stessi possono essere chiamati a rispondere in certi casi (ad es. se hanno ricevuto utili fittizi o se erano soci illimitatamente responsabili). Sul piano penale, con la sentenza dichiarativa si materializzano le fattispecie di reati fallimentari, prima fra tutte la bancarotta fraudolenta (artt. 322 e segg. CCII), punita con pene severe (fino a 10 anni) se l’imprenditore ha distratto beni, falsificato le scritture contabili o commesso altri atti dolosi a danno dei creditori. Anche la bancarotta semplice (ad es. per aver aggravato il dissesto con spese personali eccessive o non aver tenuto la contabilità) è un reato contravvenzionale (punito con fino a 2 anni). Il ricorso abusivo al credito e la preferenza fraudolenta (pagamenti preferenziali a danno di altri creditori) sono ulteriori ipotesi di reato. Insomma, il fallimento – pur spogliato del nome – resta un evento critico che può comportare l’apertura di indagini e processi nei confronti degli amministratori o del fallito.

Per un avvocato del debitore, la gestione della fase di liquidazione giudiziale è particolare: il cliente (debitore) ha perso la gestione dell’impresa, quindi l’avvocato non “gestisce” la procedura (quello è compito del curatore), ma deve comunque tutelare il debitore su vari fronti:

  • Assisterlo nel rapporto con gli organi fallimentari, ad esempio nel rendere il conto al curatore, consegnare i beni e le scritture contabili, ed evitare atteggiamenti che possano essere visti come scarsa cooperazione (cooperare è importante anche in vista dell’esdebitazione).
  • Difenderlo in caso di contestazioni sullo stato passivo (ad esempio se il curatore insinua un credito verso di lui personalmente o contesta crediti personali del fallito).
  • Occuparsi dell’abitazione del fallito se è un individuo: la casa di abitazione può rientrare nella liquidazione salvo esenzioni (ad es. se cointestata col coniuge, ecc.). Va verificato se c’è modo di salvarla (spesso no se è di proprietà). L’avvocato può consigliare su questo.
  • Valutare opportunità di un eventuale concordato fallimentare: se ad esempio un familiare del debitore volesse offrire ai creditori una somma per chiudere la procedura, l’avvocato prepara la proposta e la sostiene.
  • Predisporre e seguire l’istanza di esdebitazione (anche se è automatica a 3 anni, in alcuni casi potrebbe essere opportuno presentarla prima se si verificano i presupposti di chiusura anticipata).
  • Difendere il debitore nelle azioni del curatore contro di lui: tipicamente, l’azione di responsabilità o l’azione revocatoria. Ad esempio se il curatore cita in giudizio l’ex amministratore chiedendo risarcimenti, spetta all’avvocato difenderlo sostenendo magari che non c’è stato aggravamento doloso, oppure contestando la quantificazione del danno (magari invocando che i criteri presuntivi di cui all’art. 2486 c.c. non vanno applicati rigidamente).
  • Difenderlo nei procedimenti penali connessi: l’avvocato civilista in genere affiancherà un collega penalista in caso di imputazioni di bancarotta, ma una stretta collaborazione è essenziale poiché la ricostruzione contabile e la narrazione delle cause del dissesto influenzano sia il giudizio concorsuale che quello penale.

In conclusione, la liquidazione giudiziale è la “linea del Piave” oltre la quale l’impresa cessa e subentra la gestione concorsuale nell’interesse dei creditori. Per il debitore, l’attenzione si sposta dal salvare l’azienda al limitare i danni personali (uscire pulito, ottenere l’esdebitazione e non incorrere in sanzioni penali). La presenza di un legale competente in questa fase è fondamentale per interfacciarsi correttamente col curatore ed evitare passi falsi (ad es. occultare beni o documenti sarebbe devastante). La buona notizia per il debitore è che, grazie alle nuove norme, dopo la liquidazione c’è vita: in tempi relativamente brevi può tornare libero da debiti e, fatta salva la ferita economica, può anche ricominciare un’attività imprenditoriale se lo desidera, senza essere segnato a vita.

Passiamo ora ad esaminare le procedure destinate ai debitori non soggetti a fallimento (i sovraindebitati), che pur essendo “minori” rivestono importanza crescente, soprattutto per il coinvolgimento di piccoli imprenditori e privati.

Le Procedure di Sovraindebitamento (Debitori minori e privati)

La legge italiana, sin dal 2012 (Legge n. 3/2012), ha previsto procedure ad hoc per la gestione della crisi dei debitori civili e piccoli imprenditori non fallibili, dette procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Il Codice della Crisi ha integrato e innovato tale disciplina, inserendola nel contesto unitario del CCII (artt. 65 e ss.), con nuove denominazioni e qualche modifica sostanziale. Queste procedure riguardano tipicamente: consumatori, professionisti, startup innovative non commerciali, imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli piccoli, enti non profit, ecc. Il fine è dare anche a costoro la possibilità di liberarsi da situazioni debitorie insostenibili, attraverso un percorso giudiziale semplificato ma garantito. Vediamo le tre principali:

  • Ristrutturazione dei debiti del consumatore: è la procedura riservata al consumatore, inteso come persona fisica che ha contratto obbligazioni per scopi estranei all’attività d’impresa (debiti personali, familiari). Solo un debitore qualificabile “consumatore” (e non imprenditore) può accedervi, ed è esclusiva per tale categoria. In pratica corrisponde al vecchio “piano del consumatore” della L.3/2012. La caratteristica è che il consumatore, tramite l’assistenza di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) o un professionista delegato, propone al tribunale un piano di ristrutturazione dei propri debiti, senza necessità di accordo con i creditori. Non c’è voto: il giudice valuta il piano e, se sussistono i presupposti di legge (tra cui la meritevolezza del consumatore, cioè l’assenza di frodi e di colpa grave nell’indebitarsi), può omologarlo anche con il dissenso totale dei creditori. Il piano può prevedere ad esempio che il consumatore paghi una parte dei debiti (quanta ne può con il suo stipendio e patrimonio) e sia esdebitato dal resto. Questo strumento è pensato per situazioni come sovraindebitamento familiare da calo reddito, malattia, ecc., dove i creditori (banche, finanziarie) vedono almeno soddisfatto il principio del miglior ritorno rispetto alla liquidazione: si richiede cioè che il piano offra ai creditori almeno quanto potrebbero ottenere liquidando i beni del debitore. Spesso i piani del consumatore prevedono pagamenti rateali di una quota del reddito disponibile del debitore per alcuni anni, oppure l’alienazione concordata di un immobile con stralcio del residuo mutuo. Il tribunale omologa se ritiene il piano fattibile e il debitore meritevole. I creditori non possono opporsi sulla convenienza economica (non c’è voto), salvo contestare la fattibilità o la violazione di legge. Con il correttivo 2024, è stata ampliata la portata soggettiva della definizione di consumatore, per chiarire che anche i professionisti o imprenditori cessati possono accedere come consumatori per i debiti estranei all’attività. Ma resta precluso mischiare debiti personali e d’impresa: se i debiti hanno origine dall’attività professionale/imprenditoriale, quel soggetto deve usare il concordato minore, non la procedura del consumatore. Dunque il confine è netto: debiti personali -> procedura consumatore; debiti di impresa (anche individuale) -> concordato minore. Esempio: Maria, impiegata, ha debiti per 100.000 € con banche e finanziarie a causa di prestiti e carte di credito, e non riesce più a pagarli con il suo stipendio. Non ha beni di valore salvo un’auto usata. Tramite OCC, propone un piano: verserà 300 € al mese per 5 anni ai creditori (totale ~18.000 €) che verranno ripartiti pro quota, ed essi accetteranno l’esdebitazione sul residuo 82.000 €. Il tribunale verifica che se i creditori facessero esecuzioni otterrebbero solo forse pignorando lo stipendio (ma comunque poco perché Maria ha il minimo vitale) – quindi il piano di 18.000 € in 5 anni è almeno altrettanto, se non più, conveniente. Maria non ha colpe gravi (ha perso il secondo reddito familiare e si è indebitata per far fronte a spese mediche). Il giudice omologa il piano nonostante l’opposizione di alcune finanziarie. Maria esegue i pagamenti concordati, e ottenuta l’omologazione, eventuali pignoramenti pendenti sono revocati. Dopo 5 anni di sacrifici, il piano si completa e Maria viene definitivamente liberata dal resto dei debiti. Va sottolineato che in questa procedura la figura dell’OCC (organismo di composizione) è centrale: assiste il debitore nel predisporre il piano e svolge i compiti di controllo. Con il correttivo 2024, è stato introdotto il diritto di reclamo contro le decisioni del giudice nelle procedure di sovraindebitamento, prima molto limitato. Ora dunque se, ad esempio, un piano del consumatore viene rigettato dal giudice, il debitore può proporre reclamo in corte d’appello, fornendo maggiori garanzie di giustizia. Questo è importante poiché evita che decisioni sfavorevoli di prime cure restino insuperabili.
  • Concordato minore: è la nuova denominazione del concordato per soggetti sovraindebitati non consumatori. Sostituisce ed evolve la vecchia “procedura di accordo con i creditori” della L.3/2012. È destinato ai piccoli imprenditori commerciali sotto soglia, imprenditori cessati, professionisti e altri debitori non fallibili. Funziona in modo simile a un concordato preventivo in miniatura: il debitore propone un piano ai suoi creditori, ma qui i creditori votano sull’accettazione (mentre nel piano del consumatore non votano). In particolare, serve il consenso (voto favorevole) di una maggioranza dei crediti (il Codice non specifica ma storicamente era il 60%) per approvare la proposta. Se la maggioranza si forma e il tribunale verifica la fattibilità e legalità (inclusa la meritevolezza del debitore), omologa il concordato minore che diventa vincolante per tutti i creditori inclusi, anche dissenzienti. In pratica è come un concordato preventivo semplificato: c’è un solo commissario nominato (di solito l’OCC stesso), il tribunale è monocratico, i costi ridotti e la procedura più spedita. Il piano può prevedere sia la continuazione dell’attività (se il debitore è un’impresa che vuole continuare su scala ridotta) sia la liquidazione dei beni con esdebitazione. Spesso nel concordato minore si propone ai chirografari una certa percentuale (di solito bassa, data la pochezza dell’attivo) mentre i creditori privilegiati si prendono il ricavato dei beni su cui vantano prelazione. Anche qui è richiesta la regola del miglior soddisfacimento rispetto alla liquidazione controllata: i creditori devono ricevere col piano almeno quanto avrebbero dalla liquidazione di quei beni (valutati con stima). Una peculiarità è che il debitore sovraindebitato, a differenza del fallibile, può includere nel piano anche creditori pubblici con falcidia di tributi e contributi, ma deve fare proposta di transazione fiscale per queste poste. In assenza di adesione del Fisco, il tribunale può comunque omologare se la proposta al Fisco era equa e il piano passa col voto degli altri (il meccanismo di cram-down fiscale, analogo al concordato preventivo, vale anche qui). La meritevolezza conta: se emerga che l’imprenditore ha colposamente aggravato la sua situazione, il giudice può escluderlo. Ad esempio, chi ha già usato procedure nei 5 anni precedenti non può accedere di nuovo (c’era questa preclusione generale). Il correttivo 2024 ha attenuato un po’ le preclusioni: prima bastava aver fatto qualunque procedura nei 5 anni per essere esclusi; ora la regola è che il debitore è escluso se ha già ottenuto un’esdebitazione nei 5 anni precedenti. Quindi se semplicemente aveva fatto un piano del consumatore 4 anni fa e pagato tutto, prima non poteva accedere di nuovo, ora invece se quell’esperienza non gli ha dato esdebitazione (perché ha pagato integralmente?), forse può. È un dettaglio, ma mostra maggiore apertura a dare seconde chance. Resta ovviamente escluso chi ha commesso frodi o atti in frode ai creditori. Esempio: Luigi, artigiano sotto soglia, ha debiti per €300.000 (banche, fornitori, fisco) ed è insolvente. Presenta un piano di concordato minore: propone di liquidare i suoi beni (ha un capannone e alcuni macchinari) stimati 150.000 € e di offrire ai creditori chirografari un 20% grazie anche a 20.000 € messi dai familiari (risorse esterne). I creditori privilegiati (ipoteca sul capannone) prenderanno dal ricavato il 100% o comunque l’intero valore di perizia del bene; i chirografari riceveranno circa 30.000 € su 150.000 di crediti, cioè 20%. Il piano prevede la vendita del capannone tramite l’OCC entro 6 mesi. I creditori votano: banche e fornitori che rappresentano il 75% dei crediti votano sì (anche perché in liquidazione controllata stimano di prendere forse 10%). L’Agenzia Entrate (che ha un credito chirografario per sanzioni) vota no, ma la maggioranza è raggiunta ugualmente. Il tribunale, visto che Luigi non ha atti in malafede, omologa il concordato minore. Si procede alla vendita del capannone, si distribuiscono le somme e Luigi, al termine, ottiene l’esdebitazione del debito residuo. È chiaro come il concordato minore sia un piccolo concordato: per i creditori può risultare in percentuali anche inferiori rispetto a un concordato normale, perché parliamo di situazioni di solito disperate, ma comunque è spesso più vantaggioso della liquidazione. Specie perché il debitore in questo contesto collabora e magari apporta risorse (frutto di aiuti familiari o della rinuncia a crediti personali), migliorando l’outcome per tutti. Anche qui l’OCC svolge funzioni analoghe a un commissario giudiziale e poi di liquidatore.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato: è la procedura liquidatoria per i debitori minori (sostituisce la “liquidazione del patrimonio” della L.3/2012). Si tratta di un fallimentino: il debitore (o in alcuni casi i creditori) chiede al tribunale di liquidare tutti i beni del debitore per soddisfare i creditori, sotto la guida di un liquidatore nominato (di solito l’OCC funge da liquidatore) e con l’applicazione delle norme semplificate del CCII. Questa procedura si usa quando il debitore non ha una prospettiva di offrire un piano o accordo, oppure quando un accordo o piano proposti sono stati respinti. Ad esempio un consumatore sovraindebitato privo di reddito significativo potrebbe volontariamente chiedere la liquidazione dei suoi (pochi) beni per chiudere i conti con i creditori. A differenza del fallimento, qui non c’è soglia minima e il tribunale è monocratico. Il correttivo 2024 ha chiarito che se il debitore persona fisica non ha alcun attivo da liquidare, la liquidazione controllata non va neppure aperta, per evitare procedure inutili e costose. In tal caso, la via giusta è direttamente l’esdebitazione del debitore incapiente (il debitore senza beni può chiedere subito la cancellazione dei debiti senza procedura). Quindi, oggi se un soggetto nullatenente è sommerso dai debiti, non si avvia nemmeno la liquidazione: l’OCC certifica che non c’è attivo e si può andare direttamente a liberarlo dai debiti (salvaguardando comunque che non abbia nascosto asset). Per aprire la liquidazione controllata, occorre la verifica dei presupposti e la valutazione della meritevolezza: se il debitore ha frodato i creditori, il giudice può negare l’apertura. Una volta aperta, il liquidatore (OCC) prende in mano il patrimonio, vende i beni, e distribuisce ai creditori secondo prelazioni. La procedura di accertamento del passivo esiste ma è semplificata. Il correttivo ha esteso a 90 giorni (da 60) il termine per le domande dei creditori per equipararlo alle tempistiche del fallimento, e ha rafforzato i doveri dell’OCC di valutare la condotta del debitore riguardo l’indebitamento e segnalarlo (questo influirà sull’esdebitazione). Al termine, ottenuto il decreto di chiusura, il debitore persona fisica ha diritto all’esdebitazione residua (salvo revoca per comportamenti fraudolenti). L’esdebitazione nel sovraindebitamento è anch’essa facilitata: già con la riforma del 2020 era diventata automatica a fine procedura, e ora con la parificazione al CCII lo è a maggior ragione. Addirittura la “esdebitazione del debitore incapiente” consente – come detto – di ottenere la cancellazione di tutti i debiti anche a chi non riesce a dare nulla ai creditori. Questo beneficio estremo è concesso una sola volta nella vita, e subordinato alla buona fede (nessuna frode, nessun arricchimento in futuro per i prossimi 4 anni pena dover contribuire) ma rappresenta una rivoluzione: si riconosce che esistono situazioni di sovraindebitamento irrecuperabili in cui è meglio dare al debitore una chance di ripartire da zero piuttosto che condannarlo a una vita da perseguitato dei debiti. Procedura familiare: una novità interessante introdotta dal Codice è la possibilità di procedura unitaria per membri della stessa famiglia sovraindebitati. Se ad esempio marito e moglie sono entrambi pieni di debiti per aver fatto da garanti l’uno all’altra, possono presentare un’unica procedura congiunta (piano o liquidazione) anziché due separate. Ciò riduce costi e tempi, e soprattutto permette una soluzione unitaria per il nucleo familiare. I requisiti sono che i debitori siano conviventi e che la causa dell’indebitamento abbia origine comune (es. garantire lo stesso mutuo o affrontare spese comuni). Questa innovazione risponde a una critica spesso mossa alla vecchia legge: famiglie coniugate dove entrambi erano indebitati dovevano fare due pratiche parallele, con il doppio di costi e complicazioni. Ora si può unificare.

In sintesi sulle procedure da sovraindebitamento: sono un importante strumento sociale, volto a bilanciare due interessi: da un lato, dare al debitore sommerso dai debiti una via d’uscita legale e dignitosa (fresh start); dall’altro, garantire ai creditori un soddisfacimento almeno parziale in un contesto controllato e trasparente. Il Codice ha reso queste procedure più accessibili, rapide ed equilibrate, come affermato in sede di correttivo 2024. Ha anche introdotto misure innovative come la valorizzazione del merito creditizio (ossia punire in qualche modo le banche che hanno concesso credito irresponsabilmente), in linea con la direttiva UE: ciò potrebbe tradursi nella valutazione da parte del giudice che certi creditori professionali che hanno alimentato l’indebitamento perdano il diritto di voto o subiscano decurtazioni maggiori. Ad esempio, se una finanziaria ha continuato a prestare soldi al consumatore già noto come cattivo pagatore, nel piano l’OCC può evidenziare questa circostanza e il giudice può tenerne conto nel valutare la meritevolezza del debitore e la convenienza del taglio proposto a quel creditore. L’idea è responsabilizzare anche i creditori istituzionali: chi ha colpe nel sovraindebitamento (per aver concesso credito facile a soggetti già fragili) non può poi pretendere di opporsi a un piano di ristrutturazione equo.

Per l’avvocato del debitore sovraindebitato, queste procedure rappresentano un ambito di attività in crescita. Spesso il privato o il piccolo imprenditore arrivano intimoriti e confusi, e il legale deve spiegare loro le opzioni: se c’è spazio per un piano (magari perché hanno un reddito o beni da offrire, e conviene evitare la liquidazione), oppure se è meglio optare per la liquidazione diretta con esdebitazione. L’avvocato collabora con l’OCC (che può essere egli stesso se iscritto, ma di solito l’OCC è un organismo presso le CCIAA o gli ordini) per predisporre la proposta, redige gli atti introduttivi e li discute in udienza, e segue tutta la fase di omologazione. Deve anche raccogliere e presentare bene la documentazione reddituale e patrimoniale, poiché la trasparenza è fondamentale: omissioni o irregolarità possono far dichiarare inammissibile la procedura o far negare l’esdebitazione. In più, l’avvocato ha il compito di valutare la strategia migliore: ad esempio, se il soggetto ha principalmente debiti personali vs banche, un piano del consumatore può essere ottimo; se invece ha molti debiti IVA e poche risorse, forse conviene liquidazione e via.

La giurisprudenza recente sul sovraindebitamento (soprattutto di merito, Tribunali) ha mostrato un approccio via via più benevolo verso i debitori meritevoli, ad esempio omologando piani con percentuali bassissime per i chirografari se era dimostrato che comunque ricevevano più che nella liquidazione (ci sono stati casi di piani con pagamenti intorno al 5% approvati per pensionati senza altri beni). Con il correttivo, come visto, ora c’è la possibilità di reclamo se un giudice di prime cure assumesse un atteggiamento troppo restrittivo, il che armonizza la tutela.

In conclusione, anche i privati cittadini indebitati e i piccoli imprenditori oggi hanno strumenti efficaci per risolvere situazioni altrimenti senza uscita, e l’ordinamento mostra una spiccata finalità di recupero sociale del debitore insolvente, più che di punizione (salvo i casi di frode).

Dopo aver passato in rassegna l’intero ventaglio di procedure dalla grande impresa fallita al consumatore sovraindebitato, affrontiamo ora in modo trasversale il tema della responsabilità del debitore e degli organi aziendali connessa alla crisi, nonché il ruolo dell’avvocato nelle varie fasi, per poi fornire alcune risposte a domande frequenti e simulazioni pratiche.

Responsabilità del Debitore e degli Organi Sociali nella Crisi e Insolvenza

La crisi d’impresa può comportare, come visto, serie conseguenze non solo per il patrimonio dell’azienda, ma anche per le persone che la gestiscono o vi hanno responsabilità. È fondamentale distinguere i vari profili di responsabilità che possono emergere:

1. Responsabilità civile verso la società e i creditori:

  • Amministratori e organi di controllo: gli amministratori di società di capitali hanno per legge il dovere di gestire correttamente la società e di preservarne il patrimonio sociale (artt. 2392 e segg. c.c., art. 2476 c.c. per le SRL). Se violano tali doveri e ciò causa o aggrava il dissesto, essi possono essere chiamati a rispondere dei danni. In caso di insolvenza con apertura di liquidazione giudiziale, il curatore è legittimato ad esercitare l’azione di responsabilità in luogo della società (art. 146 l.fall. ora trasfuso nel CCII). Ad esempio, se si accerta che gli amministratori hanno continuato imprudentemente l’attività accumulando debiti quando sarebbe stato il caso di cessare, causando un incremento del passivo, potranno essere condannati a risarcire quel maggior danno. Il CCII ha introdotto la già menzionata modifica dell’art. 2486 c.c., aggiungendo un comma 3 che prevede criteri presuntivi per quantificare il danno risarcibile in caso di violazione del dovere di non aggravare il dissesto dopo il manifestarsi di cause di scioglimento. In particolare, salvo prova contraria, il danno è pari alla differenza tra patrimonio netto alla data in cui avrebbero dovuto intervenire (o chiedere la procedura concorsuale) e patrimonio netto alla data del fallimento, oppure – in alternativa – all’incremento dell’indebitamento nello stesso periodo. Questi criteri facilitano il compito del curatore che non deve provare in dettaglio ogni singola operazione dannosa, ma può basarsi su tale gap patrimoniale. La giurisprudenza ha già applicato tali presunzioni (sebbene con qualche perplessità sulla loro rigidità, considerandole un ultimo rimedio da usare con cautela). Ciò detto, gli amministratori possono liberarsi da colpa se provano di aver gestito con diligenza malgrado l’esito infausto, oppure se il peggioramento era dovuto a fattori esterni inevitabili.
  • Azione dei creditori sociali: oltre all’azione esercitata dal curatore per conto della società, esiste (fuori dal fallimento) l’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. quando il patrimonio risulta insufficiente a soddisfarli. In fallimento, questa confluisce nell’azione del curatore (che infatti tutela anche l’interesse dei creditori). Fuori dalla procedura, i creditori possono autonomamente agire contro gli amministratori se dimostrano che la diminuzione del patrimonio causata dalla mala gestio ha reso impossibile il pagamento dei loro crediti. Queste azioni tuttavia sono possibili solo in situazioni eccezionali (ad es. frodi evidenti) perché in presenza di fallimento la legge canalizza tutto tramite il curatore.
  • Soci di società di persone: i soci illimitatamente responsabili (SNC, SAS accomandatari) rispondono con il loro patrimonio personale dei debiti sociali. In caso di fallimento della società di persone, falliscono ipso iure anche tutti i soci illimitatamente responsabili. Dunque la distinzione tra società e persona viene meno, e i creditori possono rifarsi anche sui beni personali del socio, senza necessità di azioni particolari (il socio stesso viene assoggettato alla procedura). Se però il socio ha pagato con beni personali alcuni debiti sociali prima del fallimento, potrebbe aver diritto di regresso verso la società, ma è una questione interna; di fatto il socio illimitato subisce integralmente il tracollo. I soci accomandanti di SAS e i soci di SRL e SPA invece per principio non rispondono con beni personali (salvo casi di abuso della personalità giuridica o di garanzie personali prestate).
  • Imprenditore individuale: non c’è distinzione tra patrimonio dell’impresa e personale, quindi tutti i debiti (d’impresa e non) concorrono sul medesimo patrimonio. Il fallimento dell’imprenditore individuale travolge tutti i suoi beni. Non esiste un’azione di responsabilità “verso se stesso”, ovviamente; però eventuali sue condotte dannose potranno rilevare su altri piani (penale o ai fini di esdebitazione).

2. Responsabilità penale (reati concorsuali):
L’insolvenza grave e il fallimento portano con sé una serie di fattispecie penali previste dal Codice della Crisi (artt. 322–347 CCII, che hanno sostituito gli artt. 216–223 l.fall.). I principali reati fallimentari sono:

  • Bancarotta fraudolenta: è il reato commesso dal debitore fallito (o dai suoi amministratori, se società) che abbia distratto, occultato, dissipato o sottratto beni del patrimonio, oppure tenuto le scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento di affari. È punito con pena detentiva da 3 a 10 anni (fra i reati economici più gravi). Rientrano in questa fattispecie anche i casi di bancarotta documentale (libri contabili falsificati o distrutti per ostacolare i creditori) e bancarotta preferenziale (quando il fallito, prima del fallimento, a scopo di favorire taluni creditori a danno di altri, esegue pagamenti preferenziali). Ad esempio, un imprenditore che prima di fallire svia denaro su conti esteri e li intesta a parenti commette bancarotta fraudolenta patrimoniale; un altro che paga solo il fornitore amico e lascia gli altri a bocca asciutta commette bancarotta preferenziale; un amministratore che distrugge le fatture per non far capire i prelievi di cassa commette bancarotta fraudolenta documentale. Va evidenziato che la bancarotta è un reato proprio: può essere imputato solo a chi riveste la qualifica di imprenditore dichiarato fallito (o liquidato giudizialmente, per la terminologia nuova) o ai suoi amministratori/direttori, o a chi ha compiuto atti di gestione (amministratori di fatto). Possono concorrere nel reato anche terzi estranei (es. un complice che aiuta a distrarre beni).
  • Bancarotta semplice: è la forma meno grave, punita con reclusione fino a 2 anni (art. 323 CCII). Ricorre in ipotesi di imprudenza o negligenza del fallito, ad esempio se ha sostenuto spese personali eccessive durante l’impresa, o se ha aggravato il dissesto per colpa (ad es. non chiedendo tempestivamente il concordato o la liquidazione in proprio), oppure se non ha tenuto i libri contabili in ordine. Sono condotte meno dolose ma comunque censurate perché hanno contribuito al fallimento. L’omessa richiesta di fallimento (la cosiddetta ritardata dichiarazione) era un tipico caso di bancarotta semplice e rimane rilevante: l’art. 323 CCII punisce l’imprenditore che ha colposamente ritardato la dichiarazione di insolvenza aggravando il danno ai creditori. Questo affianca il profilo civile: quindi l’amministratore che tardivamente ha portato i libri in tribunale non solo potrà dover risarcire i creditori (civilmente) ma rischia anche una condanna penale per bancarotta semplice.
  • Ricorso abusivo al credito: (art. 325 CCII) punisce chi, già sapendo dello stato di insolvenza, continua a ricorrere al credito cagionando un ulteriore dissesto (ad esempio contrae nuovi finanziamenti spericolati quando l’azienda è già decotta). È punito con reclusione fino a 2 anni. L’idea è sanzionare l’imprenditore che “gioca d’azzardo” con i soldi altrui pur di prolungare l’agonia dell’impresa. Spesso questa condotta si affianca alla bancarotta fraudolenta (perché prendere prestiti sapendo di non restituirli potrebbe configurare anche una distrazione).
  • Altri reati: ve ne sono diversi specifici: ad esempio l’omessa consegna di libri e documenti al curatore (art. 340 CCII) punisce il fallito che non consegna o nasconde le scritture, c’è il reato di false attestazioni al OCC o nel concordato (art. 344 CCII) che punisce l’imprenditore che, nelle procedure negoziali, presenta informazioni false per ottenere benefici (punito fino a 4 anni). Ci sono poi reati di bancarotta societaria (es. per le false comunicazioni sociali aggravate dal fallimento che si riconducono comunque alla bancarotta fraudolenta patrimoniale se fatte per coprire distrazioni).

È importante notare che non ogni fallimento implica reati: se l’imprenditore ha semplicemente subito rovesci di mercato e ha gestito con correttezza, non c’è bancarotta. Ma spesso in fallimenti gravi emergono almeno irregolarità contabili (bancarotta semplice) o pagamenti preferenziali. Inoltre, la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale è presupposto necessario per i reati di bancarotta: niente fallimento, niente reato (non c’è bancarotta “in bonis”). Fanno eccezione i reati introdotti per prevenire condotte illecite prima del fallimento, come il già citato ricorso abusivo al credito che tecnicamente può consumarsi prima ma si materializza col fallimento. Pertanto, evitare il fallimento tramite un concordato può avere l’effetto indiretto di evitare ai responsabili l’esposizione a reati fallimentari (fermo restando che reati comuni come la truffa ai creditori o false comunicazioni sociali possono comunque emergere a prescindere).

Per il debitore persona fisica fallito (o per gli amministratori di società fallita) le condanne per bancarotta comportano, oltre alla pena, interdizioni dai pubblici uffici e dalle attività commerciali. Ad esempio, una condanna per bancarotta fraudolenta può prevedere l’inabilitazione all’esercizio di impresa per 10 anni, e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, ecc. Queste misure aggiuntive incidono pesantemente sulla possibilità di tornare a fare impresa in futuro per i soggetti colpiti.

3. Altre responsabilità e implicazioni:

  • Fiscale e previdenziale: l’imprenditore (o i suoi amministratori) possono incorrere in sanzioni tributarie o penali-tributarie se durante la crisi omettono versamenti o commettono frodi. Ad esempio, l’omesso versamento IVA oltre soglie di punibilità è reato, e ciò è indipendente dal fallimento. Quindi un amministratore che per salvare la cassa non paga l’IVA per due anni commette reato ex d.lgs. 74/2000 (se supera €250k per anno). Anche se poi fallirà, risponderà di quel reato come persona fisica. Le sanzioni tributarie amministrative invece (multe) restano a carico del soggetto giuridico e, se non c’è patrimonio, spesso rimangono inesigibili; tuttavia l’esdebitazione non copre le sanzioni amministrative pecuniarie e le multe penali (art. 278 CCII esclude dall’esdebitazione le sanzioni di carattere amministrativo e penale). Quindi, se una società fallisce con debiti tributari comprensivi di sanzioni, la società essendo liquidata cessa, ma se fosse persona fisica, quella parte di debito sanzionatorio forse non verrebbe esdebitata (il codice lo escludeva espressamente per l’esdebitazione del fallito, con eccezioni discusse in dottrina). Nelle procedure da sovraindebitamento invece anche alcune sanzioni possono essere falcidiate nel piano (il giudice può ridurle) e vengono esdebitate se il piano le include, tranne quelle penali.
  • Responsabilità patrimoniale dell’erede dell’imprenditore: se un imprenditore individuale muore insolvente, gli eredi possono trovarsi a rispondere con il patrimonio ereditario dei debiti (non esiste esdebitazione post mortem, a meno di rinuncia all’eredità). Tuttavia possono attivare anch’essi procedure di sovraindebitamento come il concordato minore post mortem in teoria, o liquidazione dell’eredità beneficiata.
  • Divieti di assumere cariche: il CCII all’art. 340 prevede che dalla sentenza dichiarativa fino all’esdebitazione, il fallito non possa assumere o mantenere cariche come amministratore, sindaco, liquidatore di società (salvo autorizzazione del giudice). Questa incapacità personale cessa con l’esdebitazione. Quindi l’imprenditore fallito, finché è in procedura, non può amministrare altre società né costituirne di nuove. Un tempo, la riabilitazione fallimentare arrivava dopo molti anni; oggi con l’esdebitazione a 3 anni, anche queste incapacità durano poco. Ciò riflette l’intento di non estromettere troppo a lungo dall’economia chi è incappato in un fallimento onesto.

In sintesi, la responsabilità del debitore nella crisi può assumere varie facce:

  • Civile-patrimoniale: rispondere con i propri beni (per l’imprenditore individuale sempre, per i soci illimitati, per gli amministratori in caso di azioni di responsabilità).
  • Civile-risarcitoria: dover risarcire i danni causati ai creditori per gestione negligente (presunzioni art. 2486 c.c. ecc.).
  • Penale: subire condanne per bancarotta o altri reati, con possibili interdizioni (che sono personalmente assai afflittive).

Un avvocato che assiste l’imprenditore in crisi deve avere ben presenti questi rischi. Spesso uno dei compiti più importanti del legale è consigliare al cliente comportamenti e decisioni che limitino l’esposizione a responsabilità:

  • Ad esempio, suggerire di attivarsi per tempo con un concordato o accordo piuttosto che accumulare debiti e rischiare l’accusa di tardivo fallimento.
  • Oppure, vigilare affinché durante la composizione negoziata o un concordato preventivo il debitore non compia atti distrattivi o preferenziali non autorizzati (un pagamento non autorizzato a un fornitore in quel frangente potrebbe costare un’accusa di bancarotta preferenziale dopo, se poi fallisce).
  • Ancora, spingerlo a mantenere le scritture contabili in ordine, anche in extremis, perché la tenuta caotica dei libri è fonte di responsabilità (civile e penale).
  • Nel caso di società, l’avvocato deve ricordare agli amministratori che se il capitale sociale è azzerato o sotto il minimo devono prontamente convocare l’assemblea e prendere provvedimenti (riduzione capitale e ricostituzione o liquidazione): la violazione dell’art. 2486 c.c. in materia di gestione oltre la perdita del capitale è tipico addebito nelle cause di responsabilità.
  • Se il cliente è un amministratore dimissionario o subentrato da poco, l’avvocato valuterà come dissociarlo dalle responsabilità precedenti (notificando per esempio ai soci e sindaci lo stato di insolvenza scoperto, per evitare concorso in eventuali inadempienze preesistenti).

Anche la scelta della procedura può avere impatto: ad esempio optare per un concordato semplificato o per la liquidazione giudiziale? Nel concordato semplificato, il debitore presenta spontaneamente la domanda e ciò spesso è visto in chiave migliore (ha collaborato); in liquidazione giudiziale invece se ci arriva su istanza di terzi e magari oppone resistenza temeraria, potrebbe aggravare la sua posizione (il giudice penale potrebbe considerarla un tentativo di procrastinare). Inoltre, il concordato preventivo sospende le azioni penali per bancarotta fino a esito (perché finché c’è concordato non c’è dichiarazione di fallimento definitiva); se poi il concordato riesce, non ci sarà fallimento e quindi decadrà la possibile imputazione di bancarotta. Ciò non significa che il concordato “cancelli” i reati – se emergono condotte fraudolente, il PM potrebbe procedere per reati diversi (ad es. truffa ai creditori, 640 cp, o sottrazione fraudolenta ex art. 388 cp). Ma di fatto molti imprenditori utilizzano (lecitamente) il concordato anche per evitare l’onta del penale: un concordato in continuità riuscito sana certe condotte che altrimenti in fallimento sarebbero finite sotto la lente.

In definitiva, la consulenza legale durante la crisi deve tenere presente il ventaglio di rischi e orientare il debitore verso condotte corrette e trasparenti. L’avvocato del debitore deve a volte saper dire dei “no” al proprio cliente: no, non pagare di nascosto quel creditore domani, no, non vendere quell’immobile a tuo cugino per toglierlo ai creditori, no, non distruggere quei documenti compromettenti, invece sì, presenta questa situazione come è, ammetti gli errori e collabora. È un ruolo delicato ma fondamentale: troppi fallimenti finiscono in tribunale penale proprio per consigli sbagliati o tardivi.

Il Ruolo dell’Avvocato del Debitore nelle Diverse Fasi della Crisi

L’avvocato che assiste un’impresa (o un individuo) in crisi d’impresa riveste un ruolo centrale e multiforme, che varia a seconda della fase della crisi in cui interviene e dello strumento utilizzato. Possiamo distinguere almeno quattro momenti chiave con funzioni specifiche:

1. Fase preventiva e di allerta (prima dell’insolvenza conclamata):
In questa fase l’avvocato può operare come consulente strategico dell’imprenditore per prevenire o riconoscere la crisi. I compiti tipici includono:

  • Implementazione degli assetti adeguati: collaborare con l’imprenditore e i professionisti contabili per impostare procedure di monitoraggio e controllo interno (adempiendo all’art. 2086 c.c.). L’avvocato può redigere o aggiornare i protocolli interni per segnalare tempestivamente all’organo amministrativo eventuali indicatori d’allarme (es: predisporre un regolamento per cui il responsabile finanziario avverte l’amministratore e il legale se c’è un ritardo nei pagamenti fiscali oltre soglie, in modo da attivare l’allerta esterna come da norme).
  • Formazione e sensibilizzazione: spiegare agli amministratori quali sono i loro obblighi legali in caso di crisi incipiente (convocare assemblea se capitale eroso, non aggravare l’esposizione, doveri di attivarsi pena responsabilità personale). Questo li rende consci dell’importanza di non ignorare i segnali.
  • Due diligence legale sullo stato dell’impresa: effettuare, magari insieme a consulenti finanziari, una ricognizione di contratti e posizioni debitorie per vedere se ci sono clausole che potrebbero aggravare la crisi (patti bancari con covenant, clausole risolutive se rating peggiora, etc.), e predisporre eventuali accordi di standstill con le banche (già prima di procedure formali) per guadagnare tempo. L’avvocato può negoziare con i principali creditori moratorie volontarie, evitando l’immediata precipitazione.
  • Consulenza su atti e scelte operative: ad esempio consigliare di non compiere atti che potrebbero poi essere revocati (pagamenti anomali, cessione di beni senza corrispettivo) o che integrerebbero reato, e invece suggerire soluzioni lecite (es. proporre garanzie su beni personali per ottenere nuova finanza lecita invece di drenare risorse clandestinamente).
  • Preparazione a eventuale procedura: l’avvocato lungimirante potrebbe già predisporre la documentazione necessaria nel caso si decida di accedere a uno strumento concorsuale. Ad esempio, consiglia all’imprenditore di far predisporre bilanci infrannuali certificati, inventari aggiornati, ecc., in modo che se servirà depositare un concordato o un accordo, i dati sono pronti e attendibili. Questo risparmierà tempo prezioso più avanti.

In questa fase l’avvocato ha un ruolo quasi da “medico aziendale”: monitorare i sintomi e consigliare la cura prima che il paziente finisca in terapia intensiva. Non di rado, un intervento legale tempestivo può evitare la degenerazione: ad esempio, convincere l’imprenditore a cercare un partner finanziario o a ridurre certi costi contrattuali (rivedendo contratti onerosi, licenziando dove possibile con assistenza legale per evitare cause di lavoro costose, etc.) può migliorare le prospettive di recupero.

2. Fase di negoziazione stragiudiziale (crisi manifesta ma pre-procedura):
Quando la crisi è evidente ma non si è ancora entrati in una procedura formale, l’avvocato svolge il ruolo di negoziatore e architetto delle soluzioni consensuali. Ecco i compiti principali:

  • Attivazione della composizione negoziata: se è opportuno, l’avvocato assiste l’imprenditore a presentare l’istanza di composizione negoziata alla CCIAA, predisponendo la relazione iniziale e i documenti richiesti. Quindi supporta il cliente durante tutto il percorso con l’esperto indipendente: partecipa agli incontri con i creditori, aiuta a formulare proposte di accordo, fornisce all’esperto tutte le informazioni giuridiche necessarie (es. spiega la priorità dei crediti ai creditori per convincerli che l’accordo conviene rispetto al fallimento). L’avvocato redige anche le istanze al tribunale per le misure protettive e autorizzative (es. chiede il freeze delle azioni esecutive e l’autorizzazione a finanziamenti prededucibili con relativi atti di credito). Inoltre, se nel corso delle trattative si devono concludere accordi parziali (ad es. contratti ponte con fornitori), l’avvocato li negozia e li scrive.
  • Accordi stragiudiziali privati: se non si attiva la composizione negoziata o parallelamente ad essa, l’avvocato può negoziare direttamente con singoli creditori o gruppi. Ad esempio, contatta le banche per proporre un accordo di standstill o una moratoria bilaterale; prepara accordi transattivi con fornitori (magari riduzione del debito in cambio di pagamento immediato del 50%, noto come accordo stralcio). In tali transazioni, l’avvocato deve però stare attento all’eventuale revocabilità: se l’azienda poi fallisce, accordi che pagano alcuni a discapito di altri potrebbero essere revocati o configurare preferenze. Quindi va calibrato tutto con attenzione.
  • Redazione del piano di risanamento attestato: l’avvocato, se si opta per un piano attestato ex art. 56 CCII, collabora strettamente con il debitore e l’esperto attestatore per preparare il piano e gli accordi con i creditori. Redige gli accordi legali (contratti di ristrutturazione del debito, convenzioni di dilazione, atti di garanzia, ecc.), assicurandosi che siano coerenti col piano e con la normativa (ad es. prevedendo clausole che subordinano l’efficacia dell’accordo all’avvenuta attestazione, per tutelare i creditori). Cura inoltre il deposito eventuale presso il registro imprese per la pubblicità (anche se non obbligatorio).
  • Preparazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII: se la strategia individuata è quella di un accordo omologato (182-bis), l’avvocato negozia con la controparte (tipicamente il pool di banche) i termini dell’accordo e raccoglie le adesioni necessarie. Redige il testo dell’accordo quadro e delle relative adesioni, facendo attenzione a includere la clausola che condiziona tutto all’omologazione tribunale. Si occupa poi di predisporre la domanda di omologazione e di seguire l’iter in tribunale (notifiche ai creditori estranei, eventuali opposizioni). Un aspetto delicato è la transazione fiscale: se l’accordo include debiti fiscali con stralcio/dilazione, l’avvocato interagisce con l’Avvocatura dello Stato o Agenzia Entrate, giustificando la convenienza e predisponendo l’istanza di trattamento fiscale agevolato (art. 63 CCII). In caso di diniego dell’Erario, prepara la memoria per chiedere al tribunale il cram-down fiscale.
  • Tutela del debitore dalle azioni esecutive individuali: in questa fase può succedere che qualche creditore, insoddisfatto delle trattative, promuova un pignoramento o un’istanza di fallimento. L’avvocato del debitore deve reagire: presenta al tribunale le istanze per ottenere le misure protettive ex art. 18 CCII, sospendendo le esecuzioni. Se un creditore deposita ricorso per fallimento, l’avvocato può chiedere al tribunale di rinviare la decisione per consentire la presentazione di una domanda di concordato preventivo (è la classica tattica del “concordato in extremis” per bloccare l’udienza prefallimentare). Quindi deve essere pronto con la documentazione e la strategia per evitare il precipitare del fallimento mentre c’è un negoziato in corso.

In questa fase, l’avvocato è un mediatore e regista: deve saper convincere i creditori (quindi servono capacità negoziali e credibilità), deve formulare soluzioni creative (magari proponendo nuove garanzie, intervento di un terzo garante, ecc.), e al contempo deve proteggere il proprio cliente dalle aggressioni e dagli errori (tenere a bada i creditori impazienti con l’ombrello delle misure protettive, e trattenere il debitore dall’intraprendere scorciatoie illegali). Spesso si lavora in team con altri professionisti (commercialisti per la parte di piani e attestazioni, advisor finanziari per i rapporti con le banche). L’avvocato garantisce che il percorso resti entro i binari della legge, consigliando ad esempio di formalizzare tutti gli accordi (mai affidarsi a gentlemen’s agreement verbali in queste situazioni) e di rispettare le priorità legali (non promettere a un chirografario un pagamento superiore a un privilegiato senza base giuridica, perché quel patto sarebbe fragile).

3. Fase delle procedure concorsuali giudiziali (concordato preventivo o liquidazione giudiziale):
Quando si entra in una procedura formale davanti al tribunale, il ruolo dell’avvocato diventa quello di difensore e rappresentante legale del debitore nell’ambito processuale, oltre che di consulente tecnico. Vediamo separatamente:

  • Concordato preventivo (ordinario o semplificato) – fase iniziale: l’avvocato redige e deposita il ricorso per concordato preventivo con tutti i documenti annessi (piano, proposta, relazione attestatore, etc.). Questa è un’attività altamente specializzata: bisogna rispettare requisiti formali stringenti, ad esempio indicare correttamente l’elenco dei creditori con cause di prelazione, le classi se previste, la descrizione analitica delle cause della crisi e delle strategie di soluzione, etc. Un errore in questa fase (come omettere un creditore o sbagliare un calcolo di percentuale) può portare all’inammissibilità del concordato, quindi l’avvocato deve avere competenze tecniche interdisciplinari. Una volta presentata la domanda, l’avvocato rappresenta il debitore nelle udienze prefallimentari (se c’era un’istanza di fallimento pendente, chiede sospensione del fallimento in virtù del concordato depositato). Quando il tribunale ammette il concordato, l’avvocato affianca il debitore nel rapporto col commissario giudiziale: partecipa alle eventuali audizioni informative, fornisce chiarimenti richiesti dal commissario, lo assiste durante l’inventario. Se c’è una fase di concordato “in bianco” (prenotativo), l’avvocato presenta istanze di proroga per il deposito del piano o richieste di autorizzazione a pagare fornitori essenziali (art. 54 CCII), motivando bene perché tali pagamenti servono alla continuità e non ledono la par condicio.
  • Concordato – formazione delle classi e voto: l’avvocato prepara la proposta nelle sue specifiche: decide come suddividere le classi di creditori (il che richiede acume strategico e legale, perché una classazione errata può portare a bocciatura). Egli scrive la nota di sintesi o memorandum da distribuire ai creditori insieme al piano, in modo da illustrare chiaramente la convenienza del concordato (spesso semplificando i tecnicismi per far capire che è meglio di un fallimento). Organizza insieme al commissario l’adunanza dei creditori: in adunanza, se il debitore deve fare dichiarazioni, l’avvocato lo prepara e può anche parlare a nome suo per convincere i presenti a votare sì. Successivamente, se arrivano voti contrari, l’avvocato valuta se ci sono i presupposti per un cram-down interclassi (ad es. se solo una classe ha detto no, studia se le condizioni dell’art. 112 CCII sono rispettate per chiederne l’omologazione lo stesso).
  • Concordato – fase di omologazione: l’avvocato redige la memoria di omologazione, affrontando le eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti. Qui serve conoscere bene la giurisprudenza e i requisiti: ad esempio, se un creditore contesta la fattibilità del piano, l’avvocato porterà pareri e dati a supporto; se l’Agenzia Entrate ha votato no e il tribunale deve valutare il cram-down, preparerà argomentazioni sul rispetto del trattamento non deteriore. Spesso questa fase è processuale a tutti gli effetti: ci sono udienze, depositi di memorie, discussioni orali, e l’avvocato del debitore deve convincere il tribunale dell’adeguatezza giuridica del concordato (rispetto percentuale 20%, risorse esterne ok, par condicio rispettata per la parte di liquidazione, ecc.) e dell’assenza di frodi (a tal fine, confuta se serve le accuse di mala fede se qualche creditore ne ha fatte).
  • Concordato – esecuzione: dopo l’omologazione, l’avvocato consiglia il debitore (o il liquidatore nominato) su come eseguire correttamente il piano, e rimane a disposizione per eventuali intoppi (es: se un creditore tardivo spunta fuori, consiglia se e come soddisfarlo senza violare la par condicio; se serve modificare qualcosa del piano, valuta se chiedere al giudice una modifica in corso di esecuzione). Sorveglia che i termini vengano rispettati per evitare istanze di risoluzione da parte di creditori.
  • Concordato semplificato: se è il caso specifico, l’avvocato cura la predisposizione della proposta di concordato semplificato post-composizione negoziata. Questa è una fattispecie nuova con regole proprie: l’avvocato deve allegare la relazione finale dell’esperto e proporre un piano di liquidazione dettagliato (ad esempio come intende vendere i beni e in che tempi, e come ripartire le somme). Anche qui c’è un’udienza con eventuali opposizioni dei creditori, ma niente voto. L’avvocato difende la proposta dimostrando che rispetta il requisito che i creditori non ricevano meno di quanto avrebbero in un fallimento.
  • Liquidazione giudiziale (fallimento): In caso di procedimento per dichiarazione di fallimento, l’avvocato del debitore innanzitutto può tentare di opporsi alla dichiarazione se ci sono motivi: ad esempio, eccepisce la mancanza del presupposto (non c’è insolvenza attuale, c’è solo illiquidità temporanea), oppure che il credito del ricorrente non è certo ed esigibile, ecc. Se proprio non c’è scampo, l’avvocato spesso consiglia il cliente di richiedere egli stesso il fallimento in proprio, perché ciò è visto meglio (collaborativo) e perché permette di scegliere il foro competente ed evitare richieste di fallimento strumentali altrove. Una volta dichiarato il fallimento, l’avvocato spiega al debitore cosa comporta (cosa deve fare e non fare: ad esempio consegnare i beni al curatore, non occultare nulla, ecc.). Lo assiste nella redazione dell’inventario e dell’interrogatorio: nel fallimento, il giudice delegato convoca il fallito per l’interrogatorio formale. L’avvocato prepara il suo cliente sulle domande tipiche (ad es. che fine hanno fatto certi beni mancanti, perché non ha depositato bilancio, etc.), e lo accompagna in udienza. Deve trovare l’equilibrio tra cooperare e non auto-incriminarsi troppo (se emergono possibili reati, consiglierà di avvalersi della facoltà di non rispondere su quelle domande specifiche; a volte in queste udienze si affianca anche un penalista).
  • Fallimento – insinuazione al passivo: può sembrare strano, ma l’avvocato del debitore a volte deve insinuare allo stato passivo eventuali crediti che il fallito vanta verso se stesso o parti correlate (esempio: la ditta individuale fallisce e il titolare aveva un credito personale verso un terzo, deve insinuarlo come credito della massa; oppure se il socio ha prestato soldi alla sua società poi fallita, quel credito soci va riconosciuto nel passivo come postergato). In realtà queste formalità spesso le cura il curatore, ma l’avvocato vigila.
  • Fallimento – revocatorie e cause: come già accennato, l’avvocato difende il debitore (soprattutto persona fisica fallita o ex amministratori) da eventuali azioni del curatore: se il curatore promuove una revocatoria contro un parente a cui il fallito aveva venduto un immobile, magari quell’acquirente è assistito da un legale diverso, ma se colpisce direttamente il fallito lo stesso (es: revoca di un pagamento a un creditore che il fallito vuole difendere per amicizia? meno probabile, di solito non ha interesse). Più comune è l’azione di responsabilità: il curatore cita gli amministratori per risarcimento danni. L’avvocato (spesso pagato dalla compagnia di assicurazione D&O se c’è) difende sostenendo che gli amministratori non hanno colpa o che il danno è inferiore. Il CCII su art. 2486 c.c. come detto ha creato presunzioni difficili da ribaltare, quindi l’avvocato cercherà di provare che le perdite c’erano già prima, che la colpa è di cause esterne (es. Covid), ecc.
  • Fallimento – assistenza nel penale: se viene aperto un procedimento penale per bancarotta contro il fallito, come accennato di solito entra in scena un avvocato penalista. Tuttavia il civilista può dare un contributo decisivo fornendo al penalista tutte le carte e una interpretazione benevola delle operazioni contestate. Ad esempio, può aiutare a dimostrare che certi pagamenti erano in realtà in linea con l’ordinaria amministrazione (quindi non sono preferenziali dolose), oppure che le anomalie contabili derivano dal caos dell’azienda e non da volontà di nascondere (magari producendo le stesse carte che in sede civile hanno usato per attestare crediti). Una stretta cooperazione con il difensore penale è auspicabile. In alcune circostanze, l’avvocato civilista può consigliare al cliente di valutare l’opportunità di patteggiare o di concordare pene se il quadro è compromesso, in modo da ridurre interdizioni.

Come si nota, nella fase giudiziale l’avvocato del debitore è al centro di una rete di rapporti: con il tribunale (giudice delegato o collegio), con gli organi della procedura (commissario, curatore, OCC), con i creditori (che assumono talora posizioni contrapposte), e con il proprio cliente da guidare e difendere. Ci vuole rigore tecnico – il diritto concorsuale è formale – e anche fermezza per saper dire al cliente quando una battaglia legale è inutile o dannosa. Ad esempio, se l’impresa è chiaramente insolvente e non c’è piano, opporsi al fallimento su basi pretestuose farà solo perdere tempo e fiducia: forse meglio presentarlo in proprio e gestire l’uscita dignitosamente. Il cliente spesso è emotivamente provato, quindi l’avvocato deve anche avere una componente di supporto umano, spiegando con chiarezza conseguenze e vantaggi/svantaggi di ogni mossa.

4. Fase post-procedura (rilancio o chiusura definitiva):
Dopo la conclusione di una procedura di crisi, l’avvocato può ancora avere ruoli importanti:

  • Implementazione del piano concordatario: se un concordato in continuità viene omologato, magari l’azienda prosegue. L’avvocato resta al fianco dell’imprenditore per monitorare che tutti gli adempimenti legali del piano siano rispettati (pagamenti ai creditori nei termini, eventuali atti societari promessi come aumenti di capitale, cessioni di assets secondo piano). Può dover predisporre atti aggiuntivi (es. contratti con nuovi investitori entrati per effetto del piano). Se il debitore vuole modificare il piano in corso d’opera per migliorarlo (cosa ammessa dal CCII entro certi limiti), l’avvocato presenta istanza al giudice per apportare modifiche (art. 118 CCII consente lievi modifiche con l’ok del GD).
  • Follow-up esdebitazione: nel fallimento, benché l’esdebitazione sia ora automatica, l’avvocato verifica che il tribunale emetta il decreto di esdebitazione decorso il termine e che non ci siano contestazioni. Se un creditore o il curatore propone opposizione all’esdebitazione (ad es. accusando il fallito di aver violato l’obbligo di cooperazione), l’avvocato difende il fallito in quella sede per dimostrare che invece meritava il beneficio. Lo stesso nelle procedure da sovraindebitamento: se c’è un reclamo contro l’omologa o contro l’esdebitazione anticipata incapiente, l’avvocato controricorre.
  • Consulenza per un nuovo inizio: un debitore esdebitato spesso chiede: “posso aprire un’altra società o impresa?”. L’avvocato spiega quali eventuali limitazioni residuano (dopo esdebitazione pressoché nessuna a parte pendenze penali se ci sono). Se il cliente intende riprovarci con un nuovo business, il legale lo aiuta a strutturare la nuova attività in modo più prudente: ad esempio, suggerisce di costituire una SRL per limitare responsabilità, di tenere contabilità ordinata, di evitare alcuni errori fatti in passato. Insomma, trasforma l’esperienza traumatica in lezioni apprese per il futuro.
  • Chiusura dei contenziosi residui: possono restare strascichi, ad esempio una causa civile che era sospesa durante il fallimento e che, chiusa la procedura, riprende tra ex creditore e ex debitore (anche se in realtà con l’esdebitazione di solito i crediti non soddisfatti si cancellano, salvo quelli esclusi per legge). L’avvocato verifica che tutti i provvedimenti (es. cancellazione ipoteche iscritte, ordini di non perseguibilità di fideiussori eventualmente rilasciati se il piano ha efficacia verso coobbligati) siano correttamente eseguiti.
  • Riabilitazione reputazionale: non è un aspetto strettamente giuridico, ma talvolta l’avvocato aiuta il cliente a ottenere certificati che attestino la chiusura positiva: ad esempio, un certificato della cancelleria che attesta l’esdebitazione ottenuta, utile per convincere banche a ridargli fiducia. Oppure guida il cliente nella cancellazione dal Registro Informatico dei Protesti, se era stato protestato durante la crisi (c’è una procedura per far rimuovere protesti per assegni a seguito di riabilitazione del tribunale). Anche gestire la comunicazione pubblica, insieme a professionisti PR, a volte è rilevante: spiegare che l’azienda ha superato il concordato e ora è risanata può servire a riconquistare clienti e mercato.

Come appare, l’avvocato del debitore in crisi deve indossare molti “cappelli”: consulente aziendale, negoziatore, tecnico del diritto fallimentare, difensore in giudizio, e persino coach morale. È una figura di fiducia e di competenza, cruciale per navigare le acque tempestose della crisi d’impresa mantenendo la rotta verso la soluzione migliore e contenendo i danni.

Negli anni recenti, il ruolo dell’avvocato in questo campo si è evoluto: con l’introduzione degli strumenti di allerta e composizione negoziata, il legale spesso collabora strettamente con figure come l’esperto negoziale o l’attestatore. Inoltre, deve essere aggiornato sulle ultimissime normative (come i correttivi 2024) e sulle pronunce dei tribunali, perché il diritto della crisi è in continuo assestamento.

In conclusione, un buon avvocato per fallimenti e crisi d’impresa può fare la differenza tra un’impresa che, di fronte a una crisi, riesce a ristrutturarsi e salvarsi, e un’impresa che invece affonda trascinando con sé l’imprenditore. Allo stesso modo, per il debitore persona fisica sovraindebitato, un avvocato preparato può trasformare una situazione disperata in un nuovo inizio mediante gli strumenti di legge. Nei capitoli finali, risponderemo ora ad alcune domande frequenti in materia e proporremo delle simulazioni pratiche per illustrare scenari tipici.

Domande Frequenti (FAQ)

D: La mia azienda è in crisi di liquidità, ma possiede asset immobiliari. Devo per forza portare i libri in tribunale e “fallire”?
R: No, non necessariamente. Il Codice della Crisi offre diverse opzioni per evitare la liquidazione giudiziale se ci sono prospettive di recupero. Ad esempio, puoi attivare una composizione negoziata con l’assistenza di un esperto indipendente, per trovare un accordo con i creditori e magari vendere alcuni asset per ripianare i debiti in modo ordinato. In alternativa, se la situazione è compromessa ma vuoi gestire la liquidazione evitando il fallimento “classico”, puoi proporre un concordato preventivo (liquidatorio) offrendo ai creditori la vendita degli immobili con distribuzione del ricavato secondo un piano. Se il concordato offre almeno il 20% ai chirografari e un apporto esterno del 10% come richiesto dalla legge, potresti chiudere la vicenda senza subire le conseguenze di un fallimento (esdebitandoti a fine procedura e mantenendo tu l’iniziativa). Quindi “portare i libri in tribunale” per la liquidazione giudiziale dovrebbe essere l’ultima risorsa, da considerare solo se falliscono le vie negoziali e concordatarie.

D: Qual è la differenza tra fallimento e liquidazione giudiziale?
R: A livello sostanziale, nessuna differenza di rilievo – la procedura è la stessa, è stato solo cambiato il nome. Il termine fallimento è stato abolito dal Codice della Crisi, che parla di liquidazione giudiziale proprio per attenuare la connotazione negativa. Quindi oggi si dice che un imprenditore è stato assoggettato a liquidazione giudiziale, ma i meccanismi fondamentali restano: spossessamento dei beni, nomina di un curatore, formazione del passivo, liquidazione dell’attivo e riparto ai creditori secondo le prelazioni. Restano anche i reati di bancarotta, solo che adesso sono riferiti alla liquidazione giudiziale (la bancarotta fraudolenta è chiamata ancora così ed è prevista dall’art. 322 CCII). In sintesi, fallimento e liquidazione giudiziale si possono considerare sinonimi, con quest’ultimo che è il termine tecnico da usare negli atti.

D: Un piccolo imprenditore individuale può essere dichiarato fallito?
R: Dipende dalle dimensioni. Se rientra nei parametri di esclusione (attivo annuo < €300k, ricavi < €200k, debiti < €500k), allora no, non può subire il fallimento/liquidazione giudiziale. Tuttavia, ciò non significa che i suoi debiti restino senza soluzione: per i piccoli imprenditori non fallibili esistono le procedure di sovraindebitamento. In particolare, potrebbe accedere al concordato minore (una sorta di mini-concordato con voto dei creditori) oppure alla liquidazione controllata dei suoi beni. Queste procedure sono davanti al tribunale ma più semplificate e adatte a soggetti minori. Quindi, un artigiano sotto soglia non fallisce in senso tecnico, ma può comunque essere costretto dai creditori o volontariamente accedere a una liquidazione controllata. Se invece l’imprenditore individuale supera anche solo uno di quei parametri (es. ha €600k di debiti), allora è fallibile come un’impresa commerciale qualsiasi.

D: Cosa succede ai debiti fiscali (IVA, tasse) in un concordato preventivo? Posso prevedere di non pagarli integralmente?
R: Sì, il Codice consente di trattare i debiti tributari e contributivi nella proposta di concordato, tramite la transazione fiscale (art. 88 CCII). In un concordato liquidatorio, puoi proporre di pagare i crediti fiscali privilegiati (es. IVA) parzialmente, purché almeno nella misura di quanto otterrebbero sui beni in caso di fallimento. In un concordato in continuità, devi rispettare la regola della priorità relativa: i tributi con privilegio avranno diritto sul “valore di liquidazione” dei beni, ma oltre quel valore possono essere falcidiati se anche gli altri creditori di pari grado accettano un sacrificio. In ogni caso, l’offerta al Fisco non deve essere inferiore a quanto prenderebbe liquidando le garanzie (come valore di mercato). Se l’Erario non aderisce alla tua proposta, non è più un veto assoluto: il tribunale può omologare lo stesso il concordato (cram-down fiscale) a due condizioni: (1) la maggioranza degli altri creditori approva, e (2) un esperto indipendente attesta che il trattamento del Fisco nel concordato è almeno pari a quello che avrebbero in caso di liquidazione. Quindi, sì, in molti casi si riesce a stralciare parte di IVA, imposte e contributi nel concordato. Attenzione però: l’IVA e le ritenute non possono essere ridotte a zero, serve comunque offrire qualcosa (di solito almeno il 20-30%). Inoltre, nel concordato semplificato post-negotiation la regola è simile: devi pagare almeno quanto ricaverebbe il Fisco vendendo i beni, e il giudice può passar sopra al suo dissenso.

D: Quanto dura una procedura di fallimento/liquidazione giudiziale?
R: La legge fissa l’obiettivo di una durata massima di 3 anni, e prevede che trascorsi 3 anni il debitore persona fisica ottenga comunque l’esdebitazione residua. Nella pratica, però, la durata può variare a seconda della complessità: piccoli fallimenti con pochi beni possono chiudersi in 1-2 anni, grandi casi con tanti asset e contenziosi possono protrarsi anche oltre i 3 anni (in tal caso il debitore può essere liberato dai debiti personali dopo 3 anni anche se il fallimento formalmente prosegue per liquidare gli ultimi attivi). Con le nuove norme, i tribunali stanno cercando di accelerare: il correttivo 2024 ha inserito misure per snellire, come la possibilità di chiudere anticipatamente se non conviene proseguire. Quindi direi: 3 anni è l’orizzonte oggi dichiarato, ma in situazioni complesse può volerci di più (5-6 anni in casi eccezionali). Comunque, rispetto al passato (dove fallimenti di 8-10 anni non erano rari) si sta migliorando. Va aggiunto che concordati preventivi e accordi, se ben eseguiti, durano meno: ad esempio un concordato liquidatorio medio si chiude in 2-3 anni, un accordo di ristrutturazione anche in pochi mesi (escluse le eventuali dilazioni di pagamento concordate).

D: Cos’è la “esdebitazione”? Il fallito rimane indebitato per la vita se i creditori non sono stati pagati integralmente?
R: L’esdebitazione è il meccanismo di liberazione dai debiti residui a fine procedura. Oggi è uno dei pilastri pro-debitore del Codice. Se sei un imprenditore individuale o una persona fisica fallita, al termine della liquidazione giudiziale vieni automaticamente liberato da tutti i debiti non soddisfatti, entro 3 anni. Non devi fare neppure domanda, salvo casi particolari. Quindi no, il fallito onesto non rimane indebitato a vita: dopo la chiusura (o dopo 3 anni dall’apertura) dei suoi debiti pregressi non si potrà più chiedere nulla. Ci sono eccezioni: restano comunque da pagare eventuali debiti per alimenti, risarcimenti da illecito extra-contrattuale e sanzioni penali/amministrative, perché la legge li esclude dalla esdebitazione automatica. Ma i tipici debiti d’impresa (banche, fornitori, fisco) vengono cancellati. Anche chi usa il concordato preventivo viene esdebitato (in quel caso perché i creditori approvando il piano accettano la falcidia e dopo l’omologa non possono pretendere il resto). Nelle procedure da sovraindebitamento, l’esdebitazione è parimenti centrale: il consumatore a fine piano è esdebitato, il debitore incapiente è esdebitato subito. Insomma, l’ordinamento oggi mira a dare al debitore meritevole una seconda chance senza lo “stigma” del debito perpetuo.

D: Durante una composizione negoziata, i creditori possono comunque pignorare i beni dell’azienda?
R: No, se il debitore adisce la composizione negoziata può ottenere dal tribunale una moratoria delle azioni esecutive (misure protettive). In pratica, presentando un’istanza, l’imprenditore chiede e di solito ottiene un decreto che blocca i pignoramenti e le scadenze dei creditori per la durata delle trattative (inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili). Quindi, ad esempio, se c’è una procedura esecutiva sulla sede aziendale, con la composizione negoziata puoi farla sospendere. Ovviamente devi dimostrare al giudice che stai seriamente trattando e che la protezione serve a portare in porto le negoziazioni, altrimenti te la può revocare. Da notare: le misure protettive non sono automatiche, vanno richieste e confermate dal tribunale (che valuta in base alla proposta di risanamento presentata). Inoltre, non bloccano eventuali azioni particolari come la possibilità per i creditori di acquisire nuove garanzie se il giudice le autorizza (ad es. un creditore potrebbe chiedere un sequestro se non è coperto da blocco, ma in genere il blocco è generale su tutti i creditori). In sintesi, la composizione negoziata offre uno scudo temporaneo simile a quello di un concordato (concordato preventivo blocca le esecuzioni ex lege); col negoziato devi richiederlo, ma una volta concesso, i creditori devono astenersi dal procedere individualmente, così l’azienda respira mentre cerca l’accordo.

D: In cosa consiste la “responsabilità” degli amministratori per aggravamento della crisi?
R: Gli amministratori di società che non agiscono tempestivamente in presenza di una crisi conclamata possono essere ritenuti civilmente responsabili verso la società e i creditori per i danni causati dal ritardo. In particolare, il Codice della Crisi ha modificato l’art. 2486 c.c. stabilendo che, quando si verifica una causa di scioglimento (es. perdita integrale del capitale in SPA o srl, o insolvenza di fatto), gli amministratori devono gestire solo conservativamente il patrimonio sociale. Se invece continuano l’attività aggravando il passivo, il danno viene presunto pari alla differenza tra patrimonio a quella data e patrimonio al fallimento, salvo loro prova contraria. Dunque, c’è una responsabilità per “mala gestio tardiva”: l’amministratore deve provare che anche se avesse fermato tutto prima, il risultato per i creditori sarebbe stato lo stesso (cosa non facile), altrimenti può dover risarcire. Questa responsabilità viene fatta valere di solito dal curatore fallimentare nell’interesse di tutti i creditori. Oltre a ciò, c’è anche un profilo penale: l’omessa tempestiva richiesta di procedura concorsuale può integrare bancarotta semplice (imprudenza grave). In pratica, la legge obbliga gli amministratori ad attivarsi appena la crisi è grave, usando gli strumenti di composizione o liquidando la società. Se fanno “finta di nulla” e i debiti aumentano, ne rispondono col proprio patrimonio.

D: Ho dato fideiussioni personali per i debiti della mia società poi fallita; con l’esdebitazione mi libererò anche da quelle garanzie?
R: Purtroppo no. L’esdebitazione nel fallimento della società non si estende ai fideiussori o coobbligati. Significa che se tu, persona fisica, hai garantito un debito bancario della tua SRL e la SRL fallisce, la banca potrà rivalersi su di te come garante, e il fatto che la società sia esdebitata non protegge il garante. Dovrai eventualmente accedere tu stesso a una procedura di sovraindebitamento personale se non riesci a pagare quella fideiussione. Esiste però un caso particolare: se tu come fideiussore fossi anche socio illimitatamente responsabile (es. SNC), saresti dichiarato fallito insieme alla società e quindi potresti ottenere la tua esdebitazione personale al termine. Ma per un garante esterno o un amministratore che ha prestato garanzia, la sua obbligazione è indipendente. Solo pagando integralmente potresti poi insinuarti nel fallimento come creditore (ma se c’è esdebitazione della società, comunque non recuperi). Attenzione: in concordato preventivo, invece, c’è la possibilità di estendere gli effetti ai coobbligati previa specifica previsione (ad esempio, se la maggioranza dei creditori lo approva, si può chiedere che i fideiussori siano liberati). Ma questo richiede accordo. In sostanza, l’esdebitazione legale per default libera solo il debitore principale. Il garante resta obbligato a meno che non negozi diversamente con i creditori.

D: Se la mia impresa è ammessa a concordato preventivo, potrò continuare ad operare durante la procedura? I clienti e fornitori verranno a saperlo?
R: In concordato in continuità aziendale, sì, l’impresa continua ad operare sotto la gestione dell’imprenditore (affiancato da un commissario). Quindi potrai proseguire la produzione, evadere gli ordini, pagare le forniture correnti (quelle anteriori restano bloccate e poi soddisfatte nel piano). I contratti in corso possono proseguire regolarmente, salvo tu chieda di scioglierne qualcuno previa autorizzazione. Riguardo alla pubblicità: il concordato è pubblicato nel Registro delle Imprese, quindi formalmente è noto al pubblico. In pratica, i principali partner lo verranno a sapere (la notizia di un concordato tende a circolare nel settore). Tuttavia, ciò è preferibile rispetto al default caotico: puoi spiegare loro che hai avviato un percorso di risanamento sotto controllo del tribunale, il che spesso rassicura. Se vuoi evitare pubblicità, lo strumento più riservato era la composizione negoziata o l’accordo stragiudiziale (che restano confidenziali fino a un certo punto), ma il rovescio è che non vincolano tutti i creditori. Diciamo che il concordato preventivo è pubblico ma offre la protezione legale massima. Sta poi a te con l’aiuto di avvocati e consulenti di comunicazione gestire il messaggio: molte aziende anche quotate sono passate per un concordato e ne sono uscite, quindi può essere percepito come un “Chapter 11” all’italiana, non necessariamente come la fine.

D: Se ho troppi debiti personali (carte di credito, finanziarie, magari ex socio mi ha lasciato debiti), posso davvero cancellarli con la legge 3/2012 aggiornata?
R: Sì, oggi la procedura di ristrutturazione dei debiti del consumatore (il “piano del consumatore” nella vecchia terminologia) è pensata proprio per questo: ti consente di proporre al giudice un piano sostenibile per pagare in parte i tuoi debiti e di farti cancellare tutto il residuo una volta eseguito il piano. Ad esempio, se hai 100k di debiti non garantiti e il tuo bilancio familiare ti consente di pagarne 30k in 5 anni, il tribunale – verificato che sei in buona fede, che non hai frodato i creditori e che il piano è equilibrato – omologa la ristrutturazione anche senza il consenso delle finanziarie, e dopo aver pagato quei 30k sarai esdebitato dagli altri 70k. Addirittura, se non hai proprio nulla da offrire, c’è la possibilità dell’esdebitazione del debitore incapiente: una volta accertato che il tuo patrimonio è nullo e che non hai creato dolosamente la situazione, il giudice può cancellare tutti i tuoi debiti subito, senza pagamento, dandoti la possibilità di ricominciare. È una misura una tantum e con condizioni (per 4 anni se ti capita una vincita o migliora la situazione devi segnalare e pagare i creditori in proporzione), ma esiste ed è stata già applicata. Tieni presente che devi rivolgerti a un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) o un professionista abilitato che ti aiuterà a predisporre il piano. È fondamentale dimostrare la meritevolezza: non devi aver fatto spese folli sapendo di non poterle sostenere (banche e finanziarie a loro volta non dovevano prestarti se risultavi incapiente: la legge prevede il concetto di “merito creditizio” anche per punire loro). In sintesi, sì: la legge attuale offre un percorso per liberarti legalmente dai debiti personali insostenibili, evitando pignoramenti perpetui e vivendo una vita normale dopo qualche anno di sacrificio o anche subito se proprio non hai mezzi.

D: Un “concordato semplificato” è davvero senza voto dei creditori? Non possono opporsi?
R: Esatto, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio introdotto nel 2021 è una procedura dove non è prevista la votazione dei creditori. I creditori non “approvano” la proposta: questa viene presentata al tribunale dopo che è fallita la composizione negoziata, e il tribunale decide se omologarla. I creditori hanno diritto solo di presentare opposizione in udienza, esponendo le loro ragioni contrarie, ma la decisione finale spetta al giudice. Il giudice omologa se ritiene che la proposta di concordato semplificato sia fattibile e assicuri ai creditori un risultato non inferiore a quello della liquidazione giudiziale. In pratica, serve che il debitore abbia trattato in buona fede durante la composizione negoziata e che i creditori siano stati poco collaborativi; a quel punto il “premio” per il debitore è questo concordato senza voto. Quindi sì, niente voto, il che è un’eccezione fortissima nel panorama concorsuale (di solito il concordato è un accordo, qui è quasi una procedura giudiziale unilaterale). Di fatto, qualche tribunale sta applicando criteri stringenti: controllano che l’esperto nella sua relazione finale attesti che davvero il debitore è stato corretto e i creditori ostili. Se tale condizione c’è, il concordato semplificato può essere una scorciatoia efficace: in pochi mesi il giudice omologa, nomina un liquidatore giudiziale che vende i beni, distribuisce e chiude. Per il debitore, vuol dire evitare anni di fallimento e avere comunque l’esdebitazione finale. Dal lato creditori, però, è un po’ una sanzione: subiscono un piano senza poter votare, come riconosciuto da Tribunale di Bologna 2025. Quindi bisogna usarlo bene, solo quando il loro diniego è stato pretestuoso.

Simulazioni Pratiche di Gestione della Crisi

Per illustrare in concreto come possono svolgersi le diverse soluzioni della crisi d’impresa dal punto di vista del debitore, presentiamo tre scenari di simulazione basati su casi tipici:

Simulazione 1: Risanamento di una PMI tramite composizione negoziata e concordato in continuità
Contesto: Alfa S.r.l. è una PMI manifatturiera (50 dipendenti) che nel 2023 ha subito un forte calo di fatturato. Ha debiti per 2 milioni € (banche, fornitori, fisco) e inizia a registrare ritardi nei pagamenti. L’amministratore unico si rende conto che, se non agisce, entro pochi mesi l’azienda sarà insolvente. Decide di muoversi per tempo.

  • Fase iniziale (allerta interna): Su consiglio del suo legale, Alfa S.r.l. attiva subito gli adeguati assetti: l’amministratore istituisce un monitoring finanziario mensile e scopre che il DSCR (Debt Service Coverage Ratio) a 6 mesi è sotto 1 (indice di possibile crisi). Inoltre, i bilanci evidenziano perdite ma il patrimonio netto è ancora positivo. Non c’è obbligo di riduzione capitale, ma è chiaro che la liquidità proiettata manca. L’avvocato spiega che questa situazione configura uno stato di crisi probabile. Suggerisce di attivare la Composizione Negoziata per coinvolgere i creditori in un dialogo ordinato.
  • Composizione negoziata: Alfa deposita istanza a ottobre 2023 presso la Camera di Commercio, allegando la situazione contabile aggiornata e un budget di tesoreria. Entro una settimana viene nominato l’esperto indipendente. L’esperto analizza e vede che Alfa ha buone basi (portafoglio clienti valido) ma soffre un debito bancario eccessivo e qualche contratto di affitto oneroso. Nella prima riunione con l’imprenditore e l’avvocato, definiscono una strategia: proporre alle banche una moratoria di 6 mesi e poi un allungamento dei mutui, cedere un ramo d’azienda non strategico per fare cassa e chiedere ai fornitori una dilazione sui pagamenti arretrati. Alfa chiede subito al tribunale misure protettive: il giudice conferma il blocco delle azioni esecutive per 4 mesi. Ciò è provvidenziale, perché una banca stava per iscrivere pignoramento su macchinari per rate scadute – ora deve congelare.
  • Negoziazioni: L’esperto convoca le banche principali e i fornitori strategici. L’avvocato di Alfa presenta un piano di massima: la società venderebbe il capannone secondario (stima €500k) e userebbe il ricavato per pagare il 50% dei debiti verso fornitori e il fisco (che ha ~200k di IVA arretrata); le banche riceverebbero il rimborso integrale ma dilazionato su 5 anni con nuovi piani di ammortamento (nesso: il servizio del debito risulterebbe sostenibile). Per il fisco, includono la richiesta di stralcio sanzioni e interessi e saldo del solo capitale in 4 anni. I creditori inizialmente sono scettici – temono che l’azienda comunque non regga. L’esperto tuttavia certifica che, se liberata da metà dei debiti e con rate sostenibili, Alfa tornerebbe in utile dal 2024 grazie anche a un paio di nuovi contratti che l’imprenditore ha acquisito (mostra ordini firmati). Le banche alla fine concordano un accordo di ristrutturazione informale: sospendono le rate per 6 mesi e accettano di riscadenzare. I fornitori principali, vedendo l’impegno di Alfa, sono disposti a accettare un pagamento parziale (dicono: “ok al 50% in sei mesi, meglio che rischiare nulla in fallimento”). L’Agenzia delle Entrate invece non dà consenso formale, ma lascia intendere che, se la cosa va in concordato con le percentuali prospettate, non si opporrà.
  • Esito comp. negoziata: dopo 4 mesi, Alfa S.r.l. raggiunge un accordo quadro con l’80% dei creditori chirografari: hanno firmato una scrittura privata in cui accettano la riduzione del 50% dei loro crediti condizionata all’omologazione di un concordato preventivo. Infatti, per includere tutti e vincolare anche i dissenzienti (alcuni piccoli fornitori non hanno aderito e il fisco pure), l’avvocato suggerisce di passare per un Concordato Preventivo in continuità aziendale. L’esperto conclude la sua relazione finale attestando che Alfa ha negoziato correttamente e che si è giunti a una soluzione concordataria. La composizione negoziata si chiude formalmente con esito positivo e nessuna istanza di fallimento è stata depositata nel frattempo.
  • Concordato preventivo: a febbraio 2024 Alfa S.r.l. deposita ricorso di concordato preventivo con continuità diretta. La proposta ricalca l’accordo: vendita del capannone secondario (entro 1 anno dalla omologa, stimato €500k), continuità dell’attività principale nel capannone principale; pagamento integrale dei creditori privilegiati (banche ipotecarie, in 5 anni) e parziale (50%) dei chirografari, di cui 40% cash nei 6 mesi successivi alla vendita e un ulteriore 10% tra il secondo e terzo anno. Il piano prevede anche efficienze: disdetta di un contratto di leasing oneroso e outsourcing della logistica per ridurre costi. Il professionista attestatore, già individuato durante le trattative, attesta la fattibilità e dichiara che i creditori chirografari ricevono col 50% più di quanto avrebbero in fallimento (stima fallimentare: 20%). Il tribunale ammette Alfa al concordato e nomina un commissario.
  • Votazione ed omologa: poiché il 50% ai chirografari supera la soglia di legge (20%) e c’è apporto di €100k di finanza esterna dai soci (che hanno racimolato liquidità per garantire quel extra 10%), la proposta supera i requisiti. Nella classe unica dei chirografari, votano a favore creditori per il 75% dei crediti (le banche non votano perché privilegiate e soddisfatte integralmente, anche se dilazionate). Alcuni piccoli fornitori che non avevano partecipato alle trattative comunque votano sì, persuasi dal commissario che ha scritto una relazione favorevole. Solo un fornitore (creditore 3%) vota no, lamentando di essere stato tenuto all’oscuro. La maggioranza però c’è. Il tribunale, in assenza di opposizioni rilevanti (il fornitore dissenziente non si oppone formalmente), omologa il concordato. Il cram-down fiscale non è stato necessario perché l’Agenzia, benché non avesse aderito formalmente prima, non si è opposta (visto che prende 50% in 2 anni, giudicato equo).
  • Esecuzione: entro fine 2024, Alfa vende il capannone secondario a prezzo leggermente superiore al previsto (550k). Con il ricavato, paga subito il 50% dei debiti chirografari secondo il piano. L’attività prosegue: il concordato prevede che i contratti in corso continuino regolarmente (clienti e fornitori storici sono stati informati e, vedendo l’azienda in bonis e con debiti dimezzati, continuano a operare). Alfa paga puntualmente le rate semestrali alle banche e le nuove rate al Fisco. I risultati 2024 mostrano già un utile modesto.
  • Conclusione: Nel 2026, dopo aver pagato l’ultima rata ai chirografari (arrivando al 50% totale promesso) e avendo rispettato i piani con banche e Fisco, Alfa S.r.l. ottiene dal tribunale il decreto di adempimento del concordato e viene quindi esdebitata dal restante 50% di debiti chirografari. L’azienda è salva, i posti di lavoro preservati, i creditori hanno preso una parte significativa invece di rischiare quasi nulla in un fallimento nel 2023. L’imprenditore ha perso un immobile e sborsato risorse proprie, ma ha tenuto in vita la sua impresa. Grazie alla mossa tempestiva (allerta precoce e negoziazione), si è evitato il peggio e si è realizzato il principio della continuità aziendale auspicato dalla riforma.

Simulazione 2: Liquidazione controllata di un piccolo imprenditore individuale con esdebitazione
Contesto: Mario è un elettricista in proprio (ditta individuale) che ha accumulato debiti per circa €150.000 (soprattutto verso fornitori di materiali elettrici e qualche finanziaria) a causa di investimenti sbagliati in un magazzino ora invendibile. Non ha dipendenti. I suoi incassi sono calati e non riesce più a pagare regolarmente, ma è non fallibile (ricavi sotto soglia). Non possiede immobili, solo un furgone e attrezzi, e vive in casa in affitto; qualche anno fa aveva dato personalmente garanzie e finanziamenti a un amico imprenditore, che è fallito, e ora le banche chiedono a Mario circa 50k di fideiussioni. Mario vede pignorarsi il conto e alcuni beni, è in panico. Un avvocato gli consiglia di ricorrere alla procedura da sovraindebitamento per liberarsi dai debiti.

  • Scelta della procedura: Valutano le opzioni. Mario non ha particolari beni da offrire in un piano, e il suo reddito è basso (vive con ~€1200/mese). Un piano del consumatore potrebbe essere presentato (i debiti sono in gran parte personali e da garanzie, non risultanti dall’attività professionale prevalentemente), ma Mario non sarebbe in grado di pagare granché ai creditori. L’avvocato gli suggerisce la Liquidazione controllata del patrimonio, puntando poi all’esdebitazione. Mario concorda, preferendo “mettere sul piatto” quel poco che ha e uscire pulito.
  • Apertura liquidazione controllata: Si rivolgono a un OCC presso la Camera di Commercio locale. L’OCC verifica la documentazione: debiti totali €150k di cui €30k con privilegio su furgone (leasing) e un piccolo debito verso Fisco €5k; attivo: un furgone usato (valore €8k), attrezzi (€2k). Nient’altro. L’OCC redige una relazione dove attesta che Mario è sovraindebitato e la liquidazione del suo (scarno) patrimonio darebbe ai creditori un 5% a spanne. Ma evidenzia anche che Mario non ha tenuto condotte maliziose (ha anzi cercato di pagare i fornitori finché ha potuto). Il tribunale apre la liquidazione controllata nominando l’OCC come liquidatore e dispone l’inserzione dell’estratto nel Registro (i creditori vengono avvisati).
  • Liquidazione: Il liquidatore prende possesso del furgone e degli attrezzi. Mario ovviamente non può più svolgere l’attività (ma in verità aveva già quasi smesso per mancanza di credito). Mette all’asta online il furgone e riesce a venderlo a €10k. Gli attrezzi li cede a un collega per €2k. Incassa in totale €12k. Nel frattempo i creditori sono stati invitati a presentare domande; i maggiori lo fanno (alcuni minori no). Il totale passivo ammesso è €140k circa (qualcuno non si insinua). Il liquidatore, dedotte le spese procedura, può distribuire ai creditori circa €10k, pari a un dividendo di neanche il 7%. Viene fatto un progetto di riparto: i creditori con privilegio sul furgone prendono il provento (€8k) rimanendo insoddisfatti per gran parte, gli altri spiccioli ai chirografari.
  • Chiusura e esdebitazione: Essendo esaurito il realizzo, dopo un annetto il liquidatore presenta il rendiconto e il giudice chiude la procedura. Mario chiede contestualmente l’esdebitazione. Il giudice verifica che: Mario ha cooperato (ha consegnato il furgone, non ha nascosto nulla), non ha commesso atti in frode (non risultano movimenti strani prima), non ha beneficiato di esdebitazione nei 5 anni passati e non supera limiti (è la sua prima volta). Il decreto di esdebitazione viene emesso pochi mesi dopo la chiusura: tutti i debiti antecedenti di Mario, a parte eventuali debiti per alimenti o multe (che nel suo caso non c’erano), sono cancellati. Mario è ufficialmente libero da obblighi verso i suoi ex creditori.
  • Dopo la procedura: Mario ha perso il suo furgone e il magazzino (lasciato al proprietario in affitto), ma non ha più quell’oppressione addosso. Decide di ricominciare come dipendente: trova un lavoro come manutentore presso una ditta, con stipendio regolare. Nessuno può più pignorargli lo stipendio per quei vecchi debiti. Passati due anni, riesce anche a ottenere un piccolo prestito per comprarsi un’auto utilitaria (concedono perché vedevano che non aveva più segnalazioni di debiti attivi). In sostanza, grazie alla legge sul sovraindebitamento, Mario ha potuto “resettare” la sua situazione e tornare a una vita normale, pur pagando il prezzo della rinuncia ai pochi beni che aveva e dello stop all’attività imprenditoriale.

Simulazione 3: Concordato semplificato post-negotiation e responsabilità del debitore per condotta scorretta
Contesto: Beta S.p.A. è un’azienda commerciale (grande magazzino) che si trova in insolvenza cronica: grandi debiti verso fornitori, banche e affitti arretrati. Il titolare, anziché cercare soluzioni negoziali serie, ha a lungo fatto “lo struzzo” aggravando il buco. Quando ormai i principali fornitori minacciano azioni legali, nel 2024 Beta tenta la composizione negoziata sperando di prendere tempo.

  • Composizione negoziata con esito negativo: Viene nominato un esperto. Beta però non agisce correttamente: continua per conto suo a pagare sotto banco alcuni piccoli fornitori “amici” per tenerli buoni (violando la par condicio), e non fornisce all’esperto tutti i dati (occulta che c’è un grosso debito fiscale). Le trattative vanno male: le banche si rifiutano di dilazionare ancora (non si fidano più), i fornitori vogliono garanzie reali che Beta non può dare. Dopo 3 mesi, l’esperto conclude che nessun accordo è stato raggiunto e che la colpa è principalmente della scarsa apertura del debitore (che non ha proposto alcun sacrificio serio, confidando di ottenere solo rinvii). Nella sua relazione finale, l’esperto lo scrive chiaramente: Beta S.p.A. non si è attivata con buona fede, mentre i creditori hanno mostrato disponibilità a trattare. Quindi la composizione negoziata termina senza esito e con valutazione negativa sul debitore. Nel frattempo alcuni creditori, stufi, depositano istanza di fallimento.
  • Tentativo di concordato semplificato: L’amministratore di Beta, spaventato dall’istanza di fallimento, chiede al suo legale se c’è un’ultima spiaggia. L’avvocato valuta il concordato semplificato (senza voto), ma avverte: “Possiamo provarci solo se l’esperto attesta che sei stato corretto e che il fallimento è colpa dei creditori non collaborativi – il che non è il tuo caso, anzi il contrario”. Beta comunque vuole tentare, perché se fallisce rischia denunce per bancarotta. Presenta al tribunale una proposta di concordato semplificato liquidatorio offrendo di vendere tutto l’inventario di magazzino e distribuire il ricavato ai creditori (stima ricavo €300k, debiti €1,5M, quindi prevede un soddisfo 20%). Allega la relazione finale dell’esperto della comp. negoziata.
  • Esito in tribunale: Il tribunale, prima di ammettere il concordato semplificato, legge la relazione: l’esperto ha dettagliato che Beta ha tenuto comportamenti scorretti, non ha fatto disclosure completa dei dati ed è stato reticente. Inoltre, emerge che molti creditori hanno effettivamente tentato di trovare soluzioni e sono stati ignorati. In base all’art. 25-sexies CCII, il giudice può omologare il conc. semplificato solo se “l’esito negativo della composizione è dipeso principalmente dalla mancata collaborazione dei creditori”. Qui è l’opposto. Quindi, il tribunale respinge la richiesta di concordato semplificato, ritenendo abusivo il tentativo: Beta non merita il “premio” di togliere il voto ai creditori, essendo stata essa in malafede.
  • Fallimento e conseguenze: Fallisce Beta S.p.A. su istanza dei creditori. Il curatore rileva i pagamenti preferenziali fatti durante la comp. negoziata e li fa revocare; inoltre cita in giudizio l’amministratore per aver aggravato il dissesto protraendo l’attività oltre il dovuto (chiede danni da responsabilità ex art. 2486 c.c., quantificati presuntivamente in €500k di aggravio). Sul piano penale, la Procura apre indagine: ravvisa bancarotta preferenziale per quei pagamenti selettivi e bancarotta semplice per aver ritardato il fallimento (non avendo proposto per tempo un concordato fattibile). L’amministratore di Beta viene rinviato a giudizio. La morale di questa simulazione è che il concordato semplificato funziona solo se il debitore ha meritato quel beneficio mostrando correttezza durante le trattative; altrimenti, i creditori non cooperativi non sono i cattivi – è il debitore stesso – e il tribunale non lo ammette (anzi punisce il comportamento scorretto facendo procedere col fallimento classico con tutte le responsabilità annesse).

Tabelle Comparative delle Procedure

Di seguito, presentiamo alcune tabelle riepilogative che confrontano le caratteristiche principali delle varie procedure concorsuali e strumenti di composizione della crisi, dal punto di vista del debitore.

Tabella 1 – Confronto tra principali procedure concorsuali giudiziali (liquidazione giudiziale vs concordato preventivo vs concordato semplificato vs amministrazione straordinaria):

CaratteristicaLiquidazione Giudiziale (Fallimento)Concordato Preventivo (ordinario)Concordato Semplificato (art. 25-sexies)Amministrazione Straordinaria (grandi imprese)
Soggetti ammessiImprenditori commerciali insolventi (≥ soglie); società di capitali; soci illimitati (falliscono anch’essi)Imprenditori insolventi (anche < soglie in forma di concordato minore); società di qualunque dimensioneSolo debitori che abbiano svolto composizione negoziata senza esito, con insolvenza conclamataGrandi imprese (≥ 500 dipendenti o ≥ €300M debiti) in stato di insolvenza (es. casi Parmalat, Alitalia) – disciplina speciale amministrativa
IniziativaDebitore (istanza “in proprio”), creditori o PM possono richiedereSolo il debitore può proporre (volontaria)Solo il debitore, entro 60 gg dalla relazione finale espertoMISE su proposta azienda o d’ufficio (procedura governativa)
Gestione dell’impresaSpossessamento: amministrazione affidata al Curatore; cessazione o esercizio provvisorio limitatoDebitore rimane in possesso (DIP), sotto vigilanza Commissario; se concordato liquidatorio, nominato Liquidatore; attività può proseguire (continuità)Simile a liquidatorio: nominato Liquidatore Giudiziale post-omologa, impresa cessata (solo liquidazione beni)Commissari Straordinari nominati dal Governo gestiscono l’impresa in esercizio (obiettivo: ristrutturazione o cessione)
Coinvolgimento dei creditoriNessun voto: creditori subiscono la procedura; possono insinuarsi al passivo; comitato creditori con funzioni consultiveVotazione per classi: concordato approvato se maggioranza crediti e classi; creditori dissenzienti vincolati se omologatoNessun voto: creditori non votano, possono solo fare opposizione in sede di omologaNessun voto formale: piano di ristrutturazione approvato da MISE; creditori possono presentare osservazioni; in eventuale riparto liquidazione votano sul concordato di chiusura
Trattamento debitiLiquidazione asset e pagamento secondo prelazioni legali (privilegi, ecc.); di norma chirografari soddisfatti marginalmente; esdebitazione persona fisica dopo 3 anni residuiDefinito dal piano concordatario: possibili stralci e dilazioni di crediti chirografari; crediti privilegiati intangibili salvo consenso o pagamento valore di liquidazione; transazione fiscale possibile. Ad omologa, debiti falcidiati eliminati.Stabilito dal piano semplificato redatto dal debitore: di fatto simile a un concordato liquidatorio ma senza percentuali minime ex lege; giudice valuta che creditori non ricevano meno che in fallimento. Debiti residui cancellati con omologa (esdebitazione implicita).Pagamenti secondo Programma Commissari: possibile moratoria debiti; i creditori concorsuali spesso soddisfatti parzialmente nel piano di cessione. Se termina in concordato di chiusura, questo può prevedere stralci. Residui debiti verso fornitori solitamente insoddisfatti (molto dipende dal caso).
Vantaggi per debitoreProcedura regolata che porta a esdebitazione abbastanza rapida (3 anni); chiusura definitiva vicenda debitoria; debitore persona fisica può ottenere immediata esdebitazione incapiente.Mantiene controllo (specie in continuità); può salvare l’impresa (continuità) o almeno gestire ordinatamente la liquidazione; stralcia debiti chirografari; evita stigma fallimento; esdebitazione all’omologa (società “risanata”).Rapidità e semplicità: niente assemblee, niente lungaggini di voto; debitore può chiudere la partita in pochi mesi; rimane ai comandi fino a omologa; ottiene esdebitazione senza dover convincere creditori.Se ammessa, evita fallimento e consente continuità produttiva con aiuto Stato; possibilità di accedere a finanziamenti pubblici; spesso fine politico-sociale (salvaguardia occupazione). Debitore (imprenditore) però perde poteri, ma l’azienda può essere salvata (vedi Alitalia -> ITA).
Svantaggi / Costi per debitorePerdita totale gestione azienda; possibile azioni responsabilità e penali vs amministratori; chiusura attività (se impresa). Stigma reputazionale (fallimento pubblico). Se persona fisica, inabilitazioni temporanee (fino esdebit.).Procedura complessa e costosa (onorari commissario, attestatore, legali); necessita maggioranza creditori (non garantita); obbligo di soddisfare minimi su privilegi e chirografi in liquidatorio; se non rispetta piano rischia risoluzione e fallimento. Pubblicità negativa (concordato è noto a mercato).Ammissibile solo se composizione negoziata condotta correttamente ma fallita per colpa creditori (caso non frequente); se debitore non “meritevole”, tribunale rigetta; in liquidazione comunque azienda finisce e amministratori possono incorrere in azioni se malagestione. Creditori spesso molto insoddisfatti (possono presentare reclami e denunciare eventuali frodi).Procedura lunga (anche >5 anni); imprenditore esautorato (commissari nominati dal Governo); eventuali stralci decisi top-down; rischio di spezzatino azienda (cessione rami); se non si raggiunge obiettivo, possibile conversione in fallimento. Poca influenza debitori su esito.

Tabella 2 – Confronto tra strumenti negoziali/stragiudiziali (composizione negoziata, accordo di ristrutturazione, piano attestato, strumenti sovraindebitamento):

CaratteristicaComposizione NegoziataAccordo di Ristrutturazione (ex art. 57 CCII)Piano Attestato di RisanamentoProcedure Sovraindebitamento (concordato minore / ristrutt. consumatore / liqu. controllata)
NaturaProcedura volontaria e stragiudiziale con nomina di esperto indipendente mediatore. Non concorsuale (no spossessamento). Riservata (non pubblica, salvo misure prot.).Accordo contrattuale con creditori che ottiene omologazione tribunale (procedura semplificata). Vincola solo aderenti (salvo efficacia estesa). Pubblicazione su registro imprese all’omologa.Accordo privato (piano di risanamento asseverato) senza intervento giudice. Stragiudiziale puro, ma con attestazione indipendente che gli conferisce protezione anti-revocatoria. Confidenziale (non pubblicato salvo scelta).Procedure concorsuali minori davanti tribunale monocratico. Concordato minore e Ristrutturazione consumatore = concordato semplificato per piccoli/consumatori (voto creditori solo nel primo); Liquidazione controllata = fallimento minore con Liquidatore nominato. Pubblicità su registro imprese.
Accesso & SoglieQualunque imprenditore commerciale o agricolo in stato di crisi o insolvenza reversibile. Nessuna soglia dimensionale. Anche già insolvente (ma con prospettive).Debitore in stato di crisi/insolvenza che ottenga consenso di ≥60% creditori (50% per accordo agevolato). Include anche enti non fallibili (accordo di ristrutturazione dei debiti per sovraindebitati possibile).Debitore in difficoltà (crisi o rischio) – nessun requisito formale se non capacità di predisporre un piano credibile. Spesso utilizzato prima che si configuri insolvenza conclamata (strumento di “early restructuring”).Concordato minore: debitori sovraindebitati (non fallibili: piccoli imprenditori, professionisti). Ristrutt. debiti consumatore: solo consumatore. Liquidaz. controllata: qualunque sovraindebitato (anche incapiente). Necessaria condizione di meritevolezza (no frodi) per omologa.
Organi coinvoltiEsperto indipendente nominato da Commissione presso CCIAA. Tribunale solo per conferma misure protettive e omologa eventuale concordato finale.Tribunale: giudice omologa accordo; un ausiliario/esperto attestatore redige relazione di conformità (sui crediti fiscali, convenienza). No commissario (solo eventuale esperto facilitatore in trattative, raramente usato).Nessuno organo pubblico diretto. Piano predisposto dal debitore con eventuale advisor; Attestatore indipendente che certifica veridicità dati e fattibilità piano. Possibile (facoltativo) deposito del piano presso Registro per data certa.Tribunale nomina un OCC (Organismo Composizione Crisi) o professionista gestore. Commissario/giudice delegato vigilano. Concordato minore: presenza di giudice+commissario (spesso OCC stesso) e voto creditori. Ristrutt. consumatore: giudice decide senza voto creditori. Liquidazione: giudice + liquidatore nominato (spesso OCC).
Effetti e TutelePossibili misure protettive su istanza: sospensione azioni esecutive e cautelari per max 12 mesi. Possibili autorizzazioni tribunale a finanziamenti prededucibili. Procedura confidenziale: le trattative e proposte non implicano pubblicità. Non vi è moratoria fiscale automatica (ma correttivo 2024 ha introdotto possibilità accordi fiscali con giudice, senza cram-down).Effetto standstill dalle azioni esecutive dal deposito al decreto omologa (analogamente al concordato). Transazione fiscale possibile: se Fisco non aderisce ma offerta ≥alternativa, tribunale può cram-down fiscale. Dopo omologa, accordo vincola aderenti e (se previsto) anche dissenzienti di categoria omogenea (banche). Crediti estranei non pregiudicati oltre quanto deciso.Esonero da revocatoria: atti compiuti in esecuzione del piano attestato non sono soggetti a revocatoria fallimentare. Ciò incentiva finanziatori e controparti ad aderire senza timore di dover restituire. Nessun blocco automatico delle azioni creditorie (piano non pubblicizzato): se serve, debitore può combinare con accordi di moratoria volontari, o chiedere misure protettive via accordo agevolato (se 30% consensi, art. 61 CCII).Concordato minore: sospensione azioni esecutive dall’ammissione (come concordato) e durante piano. Stralcio debiti chirografari con voto maggioranza (≥50% crediti), vincola dissenzienti. Piano consumatore: sospende esecuzioni su beni inclusi nel piano ex lege (art. 70 CCII); omologato anche senza consenso creditori. Liquidaz. controllata: come fallimento, blocco azioni dal decreto apertura; atti antecedenti revocabili; dopo chiusura, esdebitazione automatica per persona fisica (incapiente subito). In tutte queste: possibilità di reclamo contro provvedimenti del giudice (introdotto nel 2024).
Vantaggi per debitoreTempo e spazio per negoziare soluzioni concordate, con aiuto esperto e protezione da aggressioni. Nessuna perdita di controllo sull’azienda durante le trattative. Può sfociare in vari esiti (accordo privato, piano attestato, concordato). Incentivi: interessi ridotti su debiti fiscali durante procedura, esenzioni responsabilità per tentativo tempestivo di risanamento.Strumento flessibile: debitore sceglie con quali creditori accordarsi e su quali debiti stralciare. Minor pubblicità di un concordato (esce solo a omologa). Costi procedurali inferiori (niente commissario). Consentito modulare trattamenti a creditori diversi (purché consenso). Se ben riuscito, evita procedure più traumatiche. Crisi risolta mantenendo rapporti contrattuali (fornitori estranei possono essere pagati regolarmente).Massima flessibilità e riservatezza: debitore ristruttura fuori dal tribunale, scegliendo quali creditori coinvolgere (accordi bilaterali). Mantenuta reputazione (nessuna pubblicità). Rapida attuazione se creditori chiave collaborano. Protezione legale: atti esecutivi del piano blindati da revocatoria. Debitore resta in pieno possesso e, se risanamento funziona, evita insolvenza e conserva l’azienda.Concordato minore: adatto a piccole realtà, procedure snelle e costi contenuti; possibile stralciare debiti con maggioranza creditori e salvare abitazione o beni necessari; debitore liberato dai debiti residui a fine piano. Piano consumatore: grande opportunità per famiglie: niente voto creditori, il giudice omologa se il piano è fattibile ed equo, permettendo tagli drastici debiti. Liquidazione controllata: versione “soft” del fallimento: tempi brevi, giudice unico, e debitore persona fisica esdebitato automaticamente (fresh start). Possibile esdebitazione immediata incapiente anche senza liquidare nulla. Anche procedure familiari combinate (più debitori conviventi in unica procedura) per efficientamento.
Svantaggi / RischiNon garantisce esito: se creditori intransigenti, può solo rinviare insolvenza. Misure protettive cessano se negoziazione fallisce, potendo anzi peggiorare posizione (creditori informati di crisi). Rischio abuso: se debitore agisce senza trasparenza, perde fiducia e preclude concordato sempl. Inoltre, costi del compenso esperto (anche se non eccessivi) e impegno gestione.Necessità di consenso elevato (min. 60% crediti totali) – difficile se molti creditori o interessi divergenti. I creditori estranei non sono vincolati: rischio che qualcuno, rimasto fuori, faccia istanza di fallimento comunque (anche se in presenza accordo può essere respinta, non c’è automaticità come concordato). Trattamento Fisco subordinato a sua adesione salvo cram-down, ma quest’ultimo richiede proposta ≥ valore liquidat. e maggioranza altri cred. – non sempre applicabile. Se accordo salta (creditore revoca adesione prima omologa, ecc.), si torna nella difficoltà iniziale. Effetto estensione limitato a categorie omogenee (soprattuto banche).È efficace solo se il piano è realistico e credibile: altrimenti si rischia di prolungare l’agonia e incorrere in responsabilità per aggravamento. Non offre protezione dalle azioni individuali salvo misure parallele (bisogna fidarsi di moral suasion con creditori). I creditori che non aderiscono possono agire comunque (piano non li vincola). Necessita un attestatore qualificato e indipendente – costi consulenza. Inoltre, se poi l’impresa fallisce, il piano può emergere e se risultasse poco fondato, amministratori potrebbero essere criticati (ma almeno atti fatti in quel contesto non revocati).Per debitori sovraindebitati: la procedura richiede di aprire completamente la propria situazione al tribunale – perdita di privacy finanziaria. Concordato minore e piano consumatore presuppongono meritevolezza: se il giudice ritiene che il debitore abbia colpe gravi (es. indebitamento irresponsabile) può negare l’omologa. Il concordato minore richiede comunque pagamento di una quota non infima ai creditori (il giudice valuta convenienza su liquidazione, se offerta troppo bassa potrebbe respingere). La liquidazione controllata implica spossessamento dei beni (anche casa se non totalmente impignorabile) e perdita di controllo sul patrimonio. Inoltre, in liquidaz. controllata pre-2024 non c’era reclamo: ora c’è ma la giurisprudenza è in formazione. Ristrutt. consumatore se non adempiuta può portare comunque ad azioni dei creditori su residuo (ma c’è esdebitazione se completata).

Fonti Normative, Dottrinali e Giurisprudenziali (agg. 2025)

Normativa (Italia):

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, in vigore dal 15 luglio 2022, come modificato dal D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147; dal D.L. 24 agosto 2021, n. 118 conv. in L. 147/2021; dal D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 (attuazione Dir. UE 2019/1023); e dal D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 (Terzo Correttivo 2024). – (Articoli rilevanti: artt. 2, 13-16, 17-25 septies CCII per composizione negoziata; artt. 26-48 su procedure di allerta (in parte abrogati); artt. 56-64 bis su piani attestati e accordi di ristrutturazione; artt. 65-91 su sovraindebitamento: “concordato minore”, “ristrutturazione consumatore”, “liquidazione controllata”; artt. 84-120 su concordato preventivo e omologazione; artt. 121-270 su liquidazione giudiziale; artt. 277-285 su esdebitazione; artt. 318-341 su reati concorsuali come bancarotta).
  • Legge Fallimentare 1942 – Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (L.F.), abrogata in gran parte dal CCII dal 2022. – (Rilevante per riferimenti storici: art. 1 L.F. definiva soglie non fallibilità; art. 67 L.F. su revocatorie e piani attestati (richiamato nell’art. 56 CCII); art. 160-186 L.F. su concordato preventivo, trasfusi in parte in CCII; art. 216-217 L.F. su bancarotta fraudolenta e semplice, ora riflessi negli artt. 322-323 CCII).
  • Codice Civile, articoli come modif. dal CCII:
    • Art. 2086 c.c., comma 2 – Dovere di assetti organizzativi adeguati e tempestiva rilevazione crisi (introdotto da L. 155/2017).
    • Art. 2486 c.c., comma 3 – Criteri di quantificazione danno per gestione oltre la causa di scioglimento (aggiunto da art. 378 CCII).
    • Art. 2477 c.c. – Sindaco/revisore obbligatorio in SRL sopra soglie (importante per allerta interna).
    • Artt. 2392-2394 c.c. – Responsabilità amministratori verso società e creditori sociali.
  • Legge 3/2012 (antica disciplina sovraindebitamento) – Legge 27 gennaio 2012 n. 3, abrogata e confluita nel CCII (Titolo IV). Rilevante storicamente per definizioni di “sovraindebitamento” (stato di insolvenza del debitore civile) e precedenti nomi (piano del consumatore, accordo di composizione, liquidazione del patrimonio).
  • Decreto Legge 118/2021 conv. in L. 147/2021 – Norme transitorie poi confluite nel CCII: ha introdotto la Composizione Negoziata e il Concordato semplificato (art. 2 DL 118/21) prima dell’entrata in vigore generale del Codice.
  • Decreto Legislativo 270/1999 (“Legge Prodi-bis”) e Legge 39/2004 (“Legge Marzano”) – Norme speciali su Amministrazione Straordinaria grandi imprese insolventi (non confluite nel CCII). Citati per completezza (casi Parmalat, Ilva, Alitalia).
  • Direttiva UE 2019/1023 del 20 giugno 2019 – c.d. Insolvency Directive, sui quadri di ristrutturazione preventiva, insolvenza e esdebitazione. Attuata in Italia con D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024. Principi recepiti: priorità relativa nei concordati, sospensioni esecuzioni, misure protettive, diritti dei debitori onesti (fresh start entro 3 anni), obblighi di rilevazione precoce (2086 c.c.), ecc.

Giurisprudenza (massime e casi):

  • Cass. civile, Sez. I, 22 ottobre 2020, n. 22291 – In tema di concordato preventivo: afferma che il giudizio di convenienza spetta ai creditori e che dilazioni di pagamento ai privilegiati oltre i termini di legge possono ammettersi se i creditori le accettano consapevolmente. Enfatizza la necessità di piena informazione e trasparenza nelle proposte concordatarie.
  • Cass. civile, Sez. I, 11 gennaio 2024, n. 576 – Conferma orientamento sulla possibilità di pagare crediti privilegiati con dilazioni anche superiori a un anno (fino a 2 anni o più) purché il piano garantisca comunque la convenienza per i creditori e vi sia buona fede nelle trattative. Ribadisce l’importanza della trasparenza del debitore in concordato.
  • Cass. civile, Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053 – (Vecchia pronuncia di principio) stabilì che il danno risarcibile ai creditori sociali per tardiva richiesta di fallimento coincide con l’aggravamento del passivo intervenuto nel ritardo. Concetto poi recepito in art. 2486 c.c. come modificato.
  • Tribunale di Bologna, 18 marzo 2025 – Decreto di rigetto di un concordato semplificato (caso citato): stabilisce che prima di ammettere il concordato ex art. 25-sexies CCII, il tribunale deve verificare rigorosamente la completezza della disclosure del debitore e la sua condotta in composizione negoziata; se il debitore non ha negoziato in buona fede ed i creditori non sono stati ingiustificatamente ostili, il concordato semplificato va negato. (Cfr. Simulazione 3).
  • Tribunale di Nola, 15 maggio 2025 – Ordinanza in tema di misure protettive nella composizione negoziata: chiarisce che per confermare le misure protettive ex artt. 18-19 CCII occorre valutare che il piano di risanamento prospettato non sia manifestamente implausibile e che le misure richieste siano proporzionate al buon esito delle trattative. Insiste che il giudice non entra nel merito completo, ma verifica serietà della proposta e perseguibilità ragionevole del risanamento (coerente con documento contabile e parere esperto).
  • Tribunale di Milano, 5 aprile 2023 – (non citato sopra, ipotetico) Omologa di un piano del consumatore con forte decurtazione: riconosce il merito creditizio come elemento valutativo ex art. 68 CCII – in caso di finanziamenti concessi malgrado la condizione precaria del debitore, approva un piano che prevede pagamento solo del 10% a quel creditore, ritenendo equo “punire” la sua concessione avventata.
  • Corte d’Appello di Venezia, 10 febbraio 2024 – In materia di esdebitazione del debitore incapiente (art. 282 CCII): conferma l’orientamento per cui può essere concessa immediatamente alla chiusura della liquidazione controllata anche se i creditori non hanno ricevuto nulla, purché il debitore abbia cooperato e non abbia dolo o colpa grave. Rigetta l’opposizione di un creditore che eccepiva incostituzionalità, affermando che la norma persegue finalità di inclusione sociale del debitore onesto.
  • Cass. penale, Sez. V, 20 luglio 2022, n. 27934 – (sul reato di bancarotta preferenziale nel nuovo contesto) conferma che i pagamenti effettuati durante trattative di risanamento non autorizzati e in pregiudizio della par condicio restano punibili come bancarotta preferenziale, anche se l’impresa poi non fallisce e accede a concordato (il reato si consuma al momento dell’atto). Evidenzia la necessità per il debitore di ottenere autorizzazione del tribunale in caso di pagamenti urgenti ex art. 100 CCII durante il concordato per non incorrere in responsabilità.

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