Compriamo Società Con Debiti: A Chi Rivolgersi Per Vendere Una Azienda In Crisi?

Hai un’azienda in crisi e ti stai chiedendo se esiste qualcuno disposto ad acquistarla anche con i debiti? Hai provato a risanarla, ma i conti non tornano più, le banche non ti aiutano e i fornitori bussano alla porta? Se stai pensando di vendere la tua società indebitata, è fondamentale capire a chi rivolgerti, come funziona e come tutelarti.

Quando si parla di vendita di una società con debiti, molti pensano che sia impossibile. In realtà, esistono operatori, professionisti e investitori specializzati che valutano l’acquisto di aziende in difficoltà, anche gravemente esposte, purché ci siano ancora strutture, asset, licenze, avviamento o margini di ripartenza.

Ma davvero qualcuno compra società con debiti?

Sì. Non stiamo parlando di “salvatori” generici, ma di soggetti che vedono valore dove altri vedono solo passivo: riorganizzano, rilanciano, liquidano o trasformano. L’acquisto può avvenire tramite cessione delle quote oppure tramite cessione dell’intera azienda o di un ramo, a seconda della situazione.

Come funziona la vendita di una società con debiti?

Dipende dalla forma giuridica (SRL, SNC, SAS, ecc.) e dalla gravità della crisi. In genere:

  • si effettua una due diligence rapida, per valutare i debiti, i crediti e i rischi;
  • si stabilisce un prezzo simbolico o concordato in base agli attivi;
  • l’acquirente assume il controllo, e il venditore esce dalla gestione e, se ben assistito, anche dalle responsabilità future.

E i debiti? Chi li paga?

Dipende dagli accordi. In alcuni casi, restano in capo alla società; in altri, l’acquirente li tratta, li riduce o li estingue. Se la trattativa è gestita correttamente, il titolare uscente può essere sollevato da ogni obbligo personale, evitando rischi futuri.

A chi puoi rivolgerti per vendere un’azienda in crisi senza rischiare truffe o problemi legali?

Evita canali improvvisati. Servono professionisti esperti in:

  • diritto societario e fallimentare;
  • gestione di crisi d’impresa e operazioni straordinarie;
  • trattative con creditori e protezione del patrimonio personale.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi aziendali, vendite societarie e responsabilità d’impresa – ti spiega come funziona la vendita di una società con debiti, a chi rivolgerti per farlo in sicurezza e come possiamo aiutarti a uscire dalla crisi senza trascinarti dietro problemi personali o legali.

Hai una società con debiti che non riesci più a sostenere? Vuoi sapere se è possibile venderla e liberarti da responsabilità e preoccupazioni?

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Introduzione

Quando un’azienda si trova in difficoltà finanziaria o in vero e proprio stato di crisi/insolvenza, i suoi titolari possono valutare la cessione dell’attività come soluzione per evitare il collasso definitivo. Vendere un’azienda indebitata significa trasferire a terzi la titolarità o la gestione dell’impresa, nella speranza di salvare il valore residuo, soddisfare i creditori meglio che in una liquidazione e magari preservare posti di lavoro. Ma a chi ci si può rivolgere per vendere un’azienda in crisi? Quali strumenti offre l’ordinamento italiano per gestire questo processo in modo legale e protetto?

L’ordinamento prevede una serie di procedure concorsuali e accordi specifici per le imprese in difficoltà, introdotti o riformati dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, “CCII”), entrato pienamente in vigore nel 2022 e aggiornato fino al 2025. I principali strumenti comprendono:

  • Concordato preventivo – una procedura giudiziale in cui l’imprenditore propone ai creditori un piano di ristrutturazione, potendo includere la cessione dell’azienda o di suoi rami per soddisfare i debiti.
  • Piano attestato di risanamento – un piano stragiudiziale (fuori dal tribunale) per riorganizzare i debiti e risanare l’impresa, asseverato da un esperto indipendente.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti – un accordo negoziato con una parte qualificata dei creditori (di regola almeno il 60%), soggetto all’omologazione del tribunale, per ristrutturare l’esposizione debitoria. Ne esistono varianti “agevolate” e “ad efficacia estesa”.
  • Composizione negoziata della crisi – una procedura negoziale assistita da un esperto indipendente, introdotta nel 2021, che consente di trovare soluzioni (anche la vendita dell’azienda) con il supporto di un professionista terzo e sotto misure protettive autorizzate dal tribunale. In caso di esito negativo, può sfociare in un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio.
  • Liquidazione giudiziale – la procedura che ha sostituito il “fallimento”, in cui un curatore nominato dal tribunale liquida i beni (inclusa eventualmente l’azienda o i suoi rami) per pagare i creditori secondo la legge.
  • Cessione di azienda o di rami aziendali – il trasferimento “in blocco” dell’impresa o di sue parti a un acquirente. Può avvenire all’interno delle procedure di cui sopra (con autorizzazione del tribunale) oppure al di fuori di esse (per via privatistica), con diverse implicazioni quanto a debiti, contratti e rapporti di lavoro.

Questa guida esamina in dettaglio ciascuno di questi strumenti dal punto di vista del debitore che voglia vendere o trasferire la propria azienda in crisi. Verranno considerati tutti i principali tipi societari (SRL, SPA, SNC, SAS) e anche le imprese individuali, evidenziando eventuali differenze di regime. Inoltre, faremo riferimenti a vari settori economici – dal commercio all’edilizia, dalla manifattura ai servizi – per capire come le soluzioni possano differire in base alla natura dell’attività.

Ampio spazio sarà dato alle novità normative e alla giurisprudenza più recente (Corte di Cassazione, Tribunali specializzati in materia concorsuale, ecc.) aggiornata a giugno 2025. Alcune sentenze chiave saranno citate per chiarire punti controversi, ad esempio sulla responsabilità per i debiti aziendali dopo la cessione o sulle modalità di trasferimento dell’azienda in procedure concorsuali. Il linguaggio utilizzato è giuridico ma divulgativo, in modo da essere comprensibile non solo per gli addetti ai lavori (avvocati, commercialisti) ma anche per imprenditori e privati coinvolti in situazioni di crisi aziendale.

Dopo aver trattato gli strumenti giuridici e le procedure, verranno presentate simulazioni pratiche: casi di aziende in crisi e possibili soluzioni di vendita o trasferimento a terzi (dalla cessione delle quote sociali alla vendita di un ramo d’azienda, fino all’affitto d’azienda con opzione d’acquisto). Questi esempi numerici e narrativi illustreranno come applicare le norme alla realtà operativa.

Troverete anche tabelle riepilogative e schede comparative che confrontano le diverse soluzioni, aiutando a coglierne a colpo d’occhio le differenze (ad es. requisiti, maggioranze, effetti per i creditori, tempi, costi, ecc.).

Infine, una sezione di Domande e Risposte affronterà i quesiti più frequenti di chi – debitore o professionista – si chiede come procedere per vendere un’azienda indebitata: dalla responsabilità per i debiti pregressi, ai rischi di vendere “in nero” a terzi poco affidabili, alle garanzie da richiedere quando si trova un acquirente, ecc.

Prima di entrare nel vivo, è importante sottolineare due principi generali:

  • Obbligo di gestione prudente e doveri dell’imprenditore in crisi: l’art. 2086 c.c. impone all’imprenditore di adottare assetti adeguati e, in presenza di segnali di crisi, di attivarsi tempestivamente per prevenire l’insolvenza. Questo può significare anche valutare operazioni straordinarie come la cessione dell’azienda. Agire tempestivamente è cruciale: quanto più si attende, tanto minori saranno le risorse residue e le chance di soluzioni concordate.
  • Tutela dei creditori e legalità delle operazioni: vendere un’azienda indebitata non può significare sottrarre asset ai creditori o violare la par condicio. Le normative concorsuali e civilistiche (es. divieto di atti in frode ai creditori, reati di bancarotta) prevedono strumenti di controllo. È quindi fondamentale operare alla luce del sole, coinvolgendo professionisti specializzati (advisor finanziari, legali d’impresa, notai) e, quando necessario, l’Autorità giudiziaria, per assicurare che la cessione avvenga in modo regolare, con trasparenza e senza pregiudicare i diritti dei creditori residuali.

Passiamo ora ad esaminare i singoli strumenti previsti dall’ordinamento, iniziando dal concordato preventivo, per poi scorrere le altre opzioni. L’obiettivo è fornire una mappa completa per chi intende salvare il salvabile della propria impresa in crisi attraverso una cessione, individuando il percorso e gli interlocutori più appropriati a seconda dei casi.

1. Procedure concorsuali e accordi per imprese in crisi: panoramica operativa

In questa sezione analizziamo le principali procedure concorsuali e gli strumenti negoziali previsti dal Codice della Crisi per affrontare lo stato di crisi o insolvenza, con particolare attenzione a come ciascun strumento può facilitare la cessione dell’azienda o di rami di essa. Per ogni istituto verranno evidenziati: finalità, condizioni di accesso, svolgimento essenziale, effetti sui debiti e sui contratti, e ruolo di eventuali acquirenti terzi.

1.1 Concordato Preventivo

Definizione e finalità: Il concordato preventivo è una procedura concorsuale giudiziale, alternativa al fallimento (ora liquidazione giudiziale), in cui l’imprenditore in crisi propone ai creditori un piano di ristrutturazione dei debiti da sottoporre all’approvazione degli stessi (mediante voto) e all’omologazione del tribunale. Lo scopo principale è evitare la liquidazione distruttiva dell’impresa, consentendo una soluzione concordata che soddisfi i creditori in misura non inferiore a quanto otterrebbero da una liquidazione giudiziale. In caso di esito positivo, il concordato produce effetti vincolanti per tutti i creditori anteriori (inclusi i dissenzienti) e permette all’imprenditore di ottenere l’esdebitazione residua (lo stralcio delle passività eccedenti quanto pagato secondo il piano).

Tipologie di concordato: Il Codice della Crisi (art. 84 CCII) distingue due forme principali di concordato preventivo:

  • Concordato in continuità aziendale: quando l’attività d’impresa prosegue, sia nella forma della continuità diretta (l’imprenditore o la stessa società continua a gestire l’azienda durante e dopo il concordato) sia nella forma della continuità indiretta, in cui la gestione dell’azienda (o di un suo ramo) viene trasferita a un soggetto terzo nell’ambito del piano, ad esempio mediante vendita, affitto o conferimento a una newco. La continuità ha lo scopo di preservare il valore aziendale e “per quanto possibile, i posti di lavoro” (art. 84 co.2 CCII).
  • Concordato liquidatorio: quando il piano concordatario prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio dell’impresa, eventualmente tramite un curatore nominato (figura simile al fallimento). In questo caso tipicamente l’azienda viene venduta in blocco o frazionata a terzi, e il ricavato distribuito ai creditori.

Il Codice incentiva la continuità aziendale (specie se diretta) perché spesso offre una migliore soddisfazione dei creditori rispetto alla liquidazione atomistica e tutela l’indotto (dipendenti, fornitori). Tuttavia, per accedere al concordato, qualunque sia la tipologia, il piano proposto deve garantire ai creditori una utilità non inferiore a quella ricavabile dalla liquidazione giudiziale (principio del “valore di liquidazione”). Inoltre, i creditori devono ricevere un’utilità economica specifica e valutabile (es: pagamenti in denaro, strumenti finanziari, garanzie) secondo le cause di prelazione e l’ordine stabilito dalla legge.

Procedura e organi coinvolti: Il concordato si avvia con la domanda di concordato presentata dall’imprenditore in tribunale, corredata dai documenti di legge: relazione dettagliata sul piano, stato analitico delle attività e passività, elenco creditori, documenti contabili e la relazione giurata di un attestatore indipendente che certifichi veridicità dei dati e fattibilità del piano (art. 87 CCII). È ammessa la domanda di concordato “in bianco” (con riserva), ossia senza piano immediatamente allegato, depositando solo la domanda e riservandosi di presentare piano e documenti entro un termine fissato dal giudice (di regola 60-120 giorni). Questa opzione consente di bloccare temporaneamente le azioni esecutive dei creditori mentre si finalizza il piano.

Una volta depositata la domanda, il tribunale effettua un controllo preliminare formale e può concedere le misure protettive (stay delle azioni esecutive e cautelari dei creditori) durante la pendenza della procedura. Se la domanda è completa (o viene completata nei termini di legge), il tribunale ammette l’azienda alla procedura, nomina un giudice delegato e un commissario giudiziale (figura di vigilanza e ausilio tecnico). Segue la fase di voto dei creditori sul piano proposto: i creditori vengono suddivisi in classi secondo posizione giuridica omogenea se necessario (la formazione di classi nel concordato non è obbligatoria, ma frequente per gestire diversamente tipologie di crediti). I creditori votano (anche con modalità telematiche o per delega) e il concordato è approvato se ottiene il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. In genere si richiede il 50% +1 dei crediti votanti; tuttavia il Codice prevede una soglia del 60% in caso di concordato liquidatorio puro (ossia senza continuità). Se vi sono più classi, serve il sì di tutte o la maggior parte delle classi (in alcuni casi il tribunale può omologare anche con il dissenso di classi minoritarie, applicando un cram-down se le condizioni di legge sono soddisfatte, ma è una complessità oltre lo scopo di questa trattazione).

Approvato dai creditori, il piano passa al vaglio finale del tribunale che emette il decreto di omologazione se sussistono tutti i requisiti (fattibilità, rispetto delle norme imperative, esito positivo delle eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti, ecc.). Con l’omologazione, il concordato diviene efficace erga omnes. L’azienda debitore è tenuta ad eseguire il piano sotto la supervisione del commissario (che può diventare liquidatore se il piano è liquidatorio). Al completamento dell’esecuzione del concordato, la società ottiene l’esdebitazione per i debiti anteriori non soddisfatti (salvo quelli eventualmente esclusi per legge dall’effetto esdebitatorio, come le obbligazioni derivanti da dolo o certi debiti fiscali se non transatti).

Cessione d’azienda o di rami in concordato: Una domanda cruciale è come e quando sia possibile vendere l’azienda (o un suo ramo) nell’ambito di un concordato preventivo. Questa operazione si collega in particolare al concordato in continuità indiretta, dove la continuazione dell’attività avviene tramite un terzo cessionario.

  • Prima dell’omologazione: Già durante la procedura, prima ancora che il concordato sia omologato, il debitore può proporre e predisporre la cessione dell’azienda o di un ramo a un determinato acquirente. Tuttavia, poiché l’azienda è sotto tutela concorsuale, serve l’autorizzazione del tribunale (spesso su parere del commissario giudiziale) per compiere atti straordinari di alienazione. Il Codice della Crisi (riprendendo l’art. 163-bis della vecchia legge fallimentare) richiede che la vendita avvenga preferibilmente mediante procedura competitiva, a tutela dei creditori. In pratica, se nel piano concordatario l’imprenditore individua un acquirente per l’azienda (o uno dei suoi rami) – magari un soggetto disponibile a rilevare l’attività per un certo prezzo – il tribunale ordinerà di pubblicizzare l’offerta e permettere eventuali offerte concorrenti da parte di altri interessati, così da spuntare le migliori condizioni possibili. Solo se non pervengono offerte migliorative, l’azienda può essere assegnata all’originario offerente alle condizioni pattuite. Importante conseguenza giuridica: secondo la Cassazione, la vendita così attuata (anche se formalmente tramite atto negoziale privato) assume natura di vendita coattiva equiparabile a una vendita forzata, proprio perché avviene all’esito di un procedimento competitivo concorsuale. Ciò implica, ad esempio, che l’acquirente ottiene l’azienda libera dai vincoli e dalle formalità che graverebbero in una vendita volontaria, analogamente a quanto avviene nelle vendite fallimentari (non operano le garanzie per vizi occulti, si trasferiscono beni e contratti secondo normativa concorsuale, ecc.). La Suprema Corte ha infatti riconosciuto “natura di vendita esecutiva coattiva” al trasferimento di beni concordatari effettuato dopo esito negativo di gara e assegnazione all’offerente del piano.
  • Nel piano concordatario: Spesso la cessione dell’azienda viene inserita come elemento portante del piano concordatario. Ad esempio, la proposta prevede che, una volta omologato il concordato, l’azienda (o taluni asset strategici) saranno venduti all’offerente X per un prezzo Y, il quale costituirà la provvista per pagare i creditori secondo le percentuali concordate. In tal caso si parla di concordato con continuità indiretta attuata mediante cessione di azienda. L’acquirente può essere un competitor, un investitore finanziario, una newco creata ad hoc dagli stessi soci o da terzi, ecc. Dal punto di vista giuridico, la cessione viene conclusa dopo l’omologazione (a volte come condizione sospensiva dell’efficacia dell’omologa stessa). La struttura è spesso quella del cosiddetto “concordato con assuntore”, in cui un soggetto terzo (l’assuntore) si accolla l’onere di eseguire il concordato subentrando nei rapporti giuridici dell’impresa e acquisendone il patrimonio. In alternativa, può trattarsi di una vendita secca dell’azienda, con distribuzione del prezzo ai creditori secondo il piano. In entrambi i casi, il Codice (art. 114 CCII e segg.) richiede la massima trasparenza e salvaguardia del principio di miglior soddisfazione dei creditori. È importante notare che, se il concordato viene omologato e l’azienda ceduta secondo il piano, l’acquirente non risponde dei debiti pregressi dell’azienda cedente (salvo eventuali accordi diversi), poiché tali debiti restano trattati nel concordato stesso. Ad esempio, se l’azienda Alfa Srl va in concordato e vende il proprio ramo industriale a Beta Spa durante la procedura, Beta Spa acquista il ramo libero dai debiti pregressi di Alfa (a parte gli obblighi verso i dipendenti trasferiti, di cui diremo) e i creditori di Alfa saranno soddisfatti col prezzo incassato secondo le percentuali concordatarie. Questo meccanismo è chiaramente vantaggioso per l’acquirente (che ottiene un “going concern” depurato dalle passività) e per i creditori (che ottengono dal prezzo di cessione probabilmente più di quanto avrebbero ricavato da una liquidazione fallimentare atomistica). Non a caso, la continuità indiretta via cessione è una delle soluzioni più utilizzate nei concordati di medie imprese: l’imprenditore uscente sacrifica la proprietà dell’azienda ma ne salva la sostanza vendendola a chi può continuare l’attività, e con il ricavato paga i creditori in misura concordata.

Autorizzazioni e tutele specifiche: Il Codice della Crisi (art. 91 e 92 CCII) disciplina le operazioni straordinarie nel concordato. La cessione d’azienda prima dell’omologa richiede un decreto del tribunale che la autorizzi – su istanza del debitore – verificando che sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Se l’atto di cessione è approvato e inserito nel concordato, l’art. 114 CCII e seguenti stabiliscono la stabilità degli effetti: in caso di successivo fallimento (liquidazione giudiziale) dell’impresa cedente, la vendita effettuata in esecuzione del concordato omologato non è soggetta a revocatoria e rimane ferma. Questo elimina il rischio, per l’acquirente, che anni dopo un eventuale fallimento possa rimettere in discussione l’acquisto. Ad esempio, la Cassazione ha affermato che un concordato preventivo omologato, seguito da fallimento “omisso medio” (cioè dichiarato anni dopo per inadempimento del concordato quando ormai i termini erano scaduti), non può travolgere gli effetti esdebitatori e dispositivi già prodotti dall’omologa concordataria: i creditori non soddisfatti possono insinuarsi nel fallimento solo per la parte residua e rispettando l’esdebitazione intervenuta. Ciò conferma la generale regola che, se la cessione d’azienda è parte di un concordato omologato, non può essere attaccata successivamente.

Effetti su contratti e dipendenti: La cessione dell’azienda in concordato attiva le norme generali del trasferimento d’azienda ex art. 2558 c.c. (successione nei contratti in corso) e art. 2112 c.c. (successione nei rapporti di lavoro). In linea di massima, l’acquirente dell’azienda subentra ipso iure nei contratti aziendali pendenti (salvo quelli di carattere personale) e assume i dipendenti con tutti i loro diritti, a meno che intervengano particolari accordi sindacali. Su questo punto vi sono discipline speciali quando il trasferimento avviene in sede concorsuale: l’art. 47 L. 428/1990 prevede infatti che, se l’azienda è ceduta nell’ambito di un concordato con continuità (cioè per proseguire l’attività), non è possibile derogare alla tutela dei lavoratori prevista dall’art. 2112 c.c., se non con accordo sindacale finalizzato alla salvaguardia dell’occupazione. In altre parole, i dipendenti devono transitare al cessionario mantenendo il loro trattamento, tranne eventuali sacrifici concordati con i sindacati (ad esempio rinunce parziali a trattamenti economici) per evitare esuberi. Se invece il concordato è liquidatorio e l’attività non prosegue (cessa con la vendita), allora anche lì i lavoratori passano all’acquirente, ma con maggiore possibilità di accordi in deroga a 2112 c.c. durante la consultazione sindacale, in modo da modulare condizioni di lavoro o incentivare uscite volontarie. In sintesi: in concordato la regola generale è la piena tutela dei lavoratori trasferiti, salvo adattamenti consensuali. Comunque, dal punto di vista del venditore (debitore cedente), il trasferimento dei contratti di lavoro è un vantaggio perché l’azienda prosegue senza soluzione di continuità operativa, e i relativi debiti (es. TFR maturato, ferie non godute, ecc.) seguono il lavoratore presso il nuovo datore, oppure – se c’è accordo – vengono regolati in parte nel concordato (spesso il TFR maturato fino al trasferimento resta a carico del cedente ma pagato come creditore privilegiato).

Vantaggi e considerazioni finali sul concordato: Il concordato preventivo è uno strumento articolato ma potente. Per un imprenditore in crisi che voglia vendere l’azienda, esso offre il quadro legale più sicuro in cui farlo: ogni atto è autorizzato dal tribunale, i creditori sono coinvolti e approvano (il che evita contestazioni future), e l’operazione beneficia di esenzioni importanti (niente azioni esecutive durante la procedura; atti protetti da revocatoria successiva; possibili agevolazioni fiscali come vedremo oltre). Di contro, è una procedura complessa e costosa, richiede maggioranze qualificate e tempi non brevi (spesso 6-12 mesi almeno per arrivare all’omologa). Può fallire se i creditori votano contro o se il piano non è ben costruito. Dunque, va intrapresa solo con l’assistenza di professionisti esperti e con un progetto serio.

Esempio pratico (Schema): Immaginiamo Alfa S.r.l., azienda manifatturiera in crisi con debiti per 5 milioni €. Alfa presenta domanda di concordato preventivo in continuità indiretta proponendo di cedere il proprio ramo d’azienda produttivo a Gamma S.p.A. (competitor) che offre 1 milione € e l’assunzione di tutti i 50 dipendenti. Il tribunale ammette Alfa al concordato e autorizza – dopo adeguata pubblicità – la stipula di un contratto preliminare di cessione del ramo a Gamma, vincolato all’omologazione. Non emergono offerte concorrenti migliori, perciò Gamma rimane l’acquirente designato. Il piano di Alfa prevede che l’1 milione ottenuto da Gamma, insieme alla liquidazione di altri asset minori, consentirà di pagare il 40% dei debiti chirografari (i privilegiati 100%). I creditori, valutando che in fallimento prenderebbero forse il 20%, approvano il concordato. Il tribunale omologa. A questo punto Alfa e Gamma perfezionano la cessione: Gamma paga il prezzo in un conto dedicato, Alfa trasferisce il ramo d’azienda a Gamma e i dipendenti passano in Gamma mantenendo contratti e anzianità (previa comunicazione e accordo sindacale ex art. 47 L.428/90). Gamma può subito iniziare a produrre con l’azienda acquisita, senza doversi fare carico dei debiti pregressi di Alfa (che restano in capo ad Alfa e verranno pagati col ricavato). Alfa, dopo aver incassato il prezzo, lo utilizza per pagare i creditori secondo il piano e – a fine procedimento – ottiene l’esdebitazione del residuo 60% non pagato. I creditori chirografari hanno preso 40 centesimi per euro, il doppio di quanto stimavano in caso di fallimento: quindi non hanno interesse a impugnare. L’operazione è andata a buon fine: l’attività è salva sotto nuova proprietà, i creditori ottengono un soddisfacimento parziale ma ragionevole, i posti di lavoro sono stati preservati. Tutto questo è stato possibile all’interno di una procedura trasparente e controllata, che tutela tutte le parti coinvolte.

Rischi da evitare: Il concordato mal gestito può portare a responsabilità, anche penali. Ad esempio, non si devono favorire alcuni creditori a scapito di altri durante la procedura, a meno che ciò sia autorizzato: pagamenti preferenziali fuori piano possono integrare reato di bancarotta preferenziale (restano vietati se non autorizzati dal giudice). Ugualmente, falsificare il piano o i dati di bilancio per ottenere l’omologa è gravissimo: la Cassazione penale ha ribadito nel 2024 che la falsa attestazione del professionista sul piano è reato (art. 236-bis L.F., oggi art. 342 CCII). Anche l’imprenditore che fornisce dati artefatti può risponderne. Infine, se l’azienda non rispetta il piano dopo l’omologazione, il concordato può essere risolto su istanza dei creditori e portare al fallimento; ma se ciò avviene oltre determinati termini (generalmente un anno dalla scadenza delle obbligazioni concordatarie), il fallimento post-concordato non fa rivivere i debiti stralciati.

In conclusione, il concordato preventivo è spesso la via maestra per vendere un’azienda in crisi salvaguardando legalità e interessi collettivi. Bisogna però considerare i costi procedurali e la necessità di consenso dei creditori. Nei casi in cui questi ostacoli siano insormontabili (ad es. azienda troppo piccola per reggere i costi, o creditori già ostili a priori), occorre valutare alternative stragiudiziali o più snelle, come vedremo nei paragrafi seguenti.

1.2 Piano Attestato di Risanamento

Cos’è e a cosa serve: Il piano attestato di risanamento è uno strumento stragiudiziale di regolazione della crisi, disciplinato dall’art. 56 del Codice della Crisi (che ha riformulato l’istituto già previsto dall’art. 67, co.3, lett. d) della vecchia Legge Fallimentare). Consiste in un piano industriale e finanziario di risanamento che l’imprenditore in stato di crisi o insolvenza elabora e concorda privatamente con i propri creditori (anche solo con alcuni di essi, tipicamente i principali), finalizzato a ristrutturare l’indebitamento e riequilibrare la situazione economico-patrimoniale dell’impresa. La caratteristica chiave è che il piano deve essere “attestato” da un professionista indipendente: un esperto (es. commercialista, revisore o consulente con i requisiti di legge) redige una relazione in cui dichiara che i dati aziendali sono veritieri e che il piano è fattibile e idoneo a risanare l’impresa. L’attestazione funge da garanzia di serietà e fondatezza del piano sia per i creditori coinvolti sia eventualmente per terzi e autorità.

Il piano attestato, a differenza di concordati e accordi, non comporta un coinvolgimento diretto del tribunale: non è soggetto ad omologazione giudiziaria, non prevede il voto di tutti i creditori, e rimane essenzialmente nell’ambito dell’autonomia negoziale privata. Ciò lo rende molto flessibile e confidenziale: l’esistenza della crisi non viene pubblicizzata oltre i soggetti coinvolti, e l’azienda può evitare il “marchio” del concorso pubblico. D’altra parte, l’assenza di procedura giudiziaria implica che il piano vincola solo i creditori che vi aderiscono e non protegge automaticamente l’impresa da azioni esecutive o iniziative individuali di creditori estranei. In sintesi, il piano attestato è un “concordato stragiudiziale”: volontario, rapido, ma basato sul consenso dei singoli creditori rilevanti.

Quando utilizzarlo: Il piano attestato è indicato nelle situazioni di crisi reversibile, dove l’imprenditore ritiene di poter recuperare l’equilibrio finanziario negoziando con i creditori chiave. Tipicamente si utilizza quando si ha un numero contenuto di creditori principali (es. banche finanziatrici, fornitori strategici) disponibili a trattare. Il vantaggio è che non serve raggiungere la maggioranza legale (come nel concordato) né coinvolgere per forza tutti i creditori: basta trovare un accordo con chi conta (ad esempio la banca che ha il grosso del debito) e assicurarsi comunque che i creditori non aderenti non vengano pregiudicati (spesso infatti nel piano si paga integralmente chi non partecipa, per evitare opposizioni). Inoltre, il piano attestato può essere mantenuto riservato (anche se come vedremo conviene pubblicarlo nel Registro delle Imprese per attivare alcune tutele).

Struttura e contenuti: Non vi è uno schema rigido imposto dalla legge, ma in pratica un buon piano attestato di risanamento contiene almeno: analisi cause della crisi, piano industriale pluriennale con proiezioni economico-finanziarie, misure di ristrutturazione previste (es: nuovi finanziamenti, dismissione beni non strategici, conversione debiti in capitale, riduzione costi), accordi con i creditori (moratorie, dilazioni, stralci parziali), eventuale apporto di risorse da parte dei soci o investitori, e timeline di attuazione. Deve emergere chiaramente come si riporterà l’azienda in bonis. L’attestatore indipendente verifica la veridicità dei dati aziendali di partenza (bilanci, situazione debitoria etc.) e giudica se le assunzioni del piano sono plausibili e i flussi futuri sufficienti a sostenere l’impresa risanata. Ad esempio, se il piano prevede la cessione di un ramo d’azienda per ridurre i debiti, l’attestatore valuterà se c’è realmente un acquirente o se la stima del ricavato è realistica; se prevede nuovi finanziamenti, controllerà lettere d’intenti delle banche; e così via.

Cessione dell’azienda in un piano attestato: È pienamente possibile usare un piano attestato anche per vendere un’azienda in crisi. Ad esempio, l’imprenditore potrebbe concordare con un investitore l’acquisto dell’azienda (o di sue partecipazioni) e contestualmente con le banche creditrici un accordo per ripagarle (in tutto o in parte) col ricavato di quella cessione. Il piano attestato fungerebbe da ombrello legale per tale operazione: le parti si accordano privatamente, ma con la supervisione di un attestatore che certifica che la manovra è sufficiente a risanare l’esposizione debitoria e riequilibrare la situazione finanziaria.

Esempio: Beta S.p.A., impresa edile in crisi, elabora un piano attestato che prevede la cessione di alcuni cantieri e mezzi d’opera a un’altra società del settore per 2 milioni €, l’apporto di nuovi fondi dai soci per 500k €, e con queste risorse propone alle banche di rientrare del 80% dei loro crediti in 5 anni, mentre i fornitori chirografari accettano uno stralcio del 30%. Le banche, valutando che in alternativa otterrebbero forse meno (e magari per evitare un default che farebbe svalutare i loro crediti), aderiscono al piano; i fornitori principali pure, magari allettati dal mantenere la relazione commerciale. Gamma Srl (l’acquirente dei cantieri) ottiene a buon prezzo asset che le interessano, ma a condizione che Beta S.p.A. chiuda i debiti. L’attestatore verifica i valori (che il prezzo di 2 mln € sia congruo, che la stima di utile dei cantieri venduti sia realistica, etc.) e assevera il piano. Beta pubblica il piano attestato nel Registro Imprese per garantirsi le tutele di legge. A questo punto Beta esegue la cessione a Gamma, incassa i 2 mln e attua gli accordi con banche e fornitori. Se tutto va secondo i patti, Beta sarà risanata (meno debiti, attività ridotta ma sostenibile, patrimonio netto ripristinato grazie alle rinunce dei creditori). Tutto ciò senza passare per il tribunale.

Tutele giuridiche del piano attestato: Il legislatore, pur lasciando questo strumento fuori dalle procedure concorsuali formali, gli riconosce alcune importanti protezioni legali (anche per invogliarne l’uso onesto):

  • Esenzione da revocatoria fallimentare: gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione di un piano attestato non sono soggetti a revocatoria in caso di successivo fallimento dell’impresa (art. 56 co.3 CCII, riprendendo art. 67 L.F.). Ciò significa che, se nonostante il piano l’azienda dovesse fallire, il curatore non potrà impugnare le vendite, i pagamenti e gli altri atti compiuti in attuazione del piano, a condizione che esso sia stato effettivamente idoneo a risanare (qui l’attestazione è cruciale) e che abbia data certa anteriore. Ad esempio, se Beta S.p.A. dell’esempio sopra poi fallisse, la vendita dei cantieri a Gamma Srl non potrà essere revocata dal curatore se faceva parte del piano attestato pubblicato e asseverato – l’art. 56 lo protegge. Attenzione: questa protezione vale solo per gli atti “esecutivi” del piano. Non protegge atti estranei o antecedenti. E se il piano è solo simulato e non idoneo, la protezione può venire meno.
  • Detassazione delle sopravvenienze attive: uno dei problemi di ogni ristrutturazione privata è che la quota di debito che i creditori abbandonano (rinunciano a esigere) costituirebbe per l’azienda debitore una sopravvenienza attiva tassabile (un “guadagno” fiscale). Ciò rischia di generare un aggravio fiscale proprio mentre l’azienda risana. Per evitare questo, l’art. 88, comma 4-ter del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) esclude da tassazione le sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti in concordato preventivo omologato, accordo di ristrutturazione omologato o piano attestato di risanamento pubblicato al Registro Imprese. In pratica, se l’impresa segue legalmente una di queste vie, il “taglio” dei debiti non le viene conteggiato come reddito imponibile. La condizione per il piano attestato è la pubblicazione nel Registro delle Imprese, che serve a dare data certa e trasparenza. Dunque, per non pagare tasse sugli stralci concessi dai creditori, l’imprenditore deve depositare il piano attestato (che contiene l’attestazione) presso il registro delle imprese. Questo adempimento è ormai prassi e non viola particolarmente la riservatezza, perché i dettagli del piano restano interni agli atti depositati (è un prezzo da pagare per avere l’esenzione fiscale e la protezione dagli atti revocatori). Se l’azienda non lo facesse, rischierebbe di vedersi arrivare una pesante imposta sulle rinunce dei creditori. Ad esempio, se la banca condona 1 milione di debito e il piano non è pubblicato, quell’importo sarebbe tassato come ricavo straordinario con aliquota IRES e IRAP! Con la pubblicazione, invece, zero tasse su quell’importo condonato.
  • Esenzione da reati di bancarotta preferenziale: in generale, pagare fuori concorso alcuni creditori a scapito di altri può costituire reato di bancarotta preferenziale se poi si fallisce. La legge fallimentare prevedeva che i pagamenti eseguiti in un piano attestato non fossero punibili. Il CCII prosegue su questa linea, equiparando sotto vari profili il piano attestato ad altre soluzioni concorsuali in buona fede. Pertanto, un pagamento fatto a un creditore in attuazione del piano (es: l’azienda paga i fornitori strategici al 100% come da piano e non paga altri che hanno accettato lo stralcio) non è considerato un atto di preferenza dolosa se poi la società fallisce, perché rientrava in un piano di risanamento certificato. Anche qui è determinante la genuinità del piano: deve essere un vero risanamento, non un escamotage per favorire amici.

Limiti del piano attestato: Per contro, il piano attestato non offre un automatic stay: se ci sono creditori che non aderiscono e sono impazienti, possono comunque agire (decreto ingiuntivo, pignoramento) mentre si cerca l’accordo. L’imprenditore deve quindi gestire con abilità le trattative per evitare che qualcuno “rompa le righe”. In alcuni casi si può ricorrere a strumenti di tutela temporanea (ad esempio aprire nel frattempo una composizione negoziata con misure protettive, o presentare una domanda in bianco di concordato per bloccare il tempo necessario a finalizzare il piano privato – tecnicamente fattibile ma delicato). Un altro limite è che non esiste un effetto legale vincolante per i non aderenti: se un creditore minore non partecipa al piano, resta fuori e può esigere integralmente il proprio credito. Perciò spesso si decide di pagare integralmente i creditori estranei per tenerli buoni (come nell’esempio di “accordo agevolato” vedremo, c’è un parallelo). Il successo del piano attestato dipende dunque dalla disponibilità al dialogo dei creditori principali e dalla solidità economica delle misure: se l’azienda è troppo compromessa o se ci sono troppi creditori eterogenei con interessi divergenti, il piano attestato potrebbe non reggere (in tal caso si passa a soluzioni più cogenti come gli accordi di ristrutturazione o il concordato). Infine, vanno considerati i profili di responsabilità: l’attestatore risponde penalmente di false attestazioni (la Cassazione nel 2024 ha confermato condanne per falsi piani di risanamento), e l’imprenditore potrebbe rispondere di eventuali atti in frode se il piano nasconde intenti lesivi per taluni creditori. È sempre consigliabile la massima trasparenza con tutti i creditori, anche quelli minori, per evitare che uno di essi faccia poi istanza di fallimento lamentando di essere stato tenuto all’oscuro.

Piano attestato e vendita dell’azienda: Tornando all’ipotesi focale: vendere l’azienda con un piano attestato. Ci sono due possibilità:

  1. Vendita dell’intera azienda come operazione di risanamento: ad esempio i soci decidono di cedere il 100% delle quote sociali o l’intero complesso aziendale a un investitore, il quale subentra portando nuova finanza e rilanciando l’impresa, mentre i debiti pregressi vengono ridotti attraverso accordi transattivi con i creditori. In tal caso il piano attestato può descrivere l’operazione di cessione, l’ingresso del nuovo proprietario e come i fondi apportati serviranno a falcidiare i debiti. Questo scenario equivale in sostanza a una ristrutturazione societaria con cambio di controllo: il vecchio imprenditore esce, il nuovo entra e si accolla di fatto la sfida di risanare (ma con i debiti ridotti dagli accordi).
  2. Vendita di rami d’azienda o asset specifici per ridurre il debito: l’azienda cede determinati beni o linee di business per fare cassa e ridurre l’indebitamento, continuando magari l’attività core. Questo può avvenire del tutto fuori dai tribunali: si vende un ramo a Tizio (magari con l’obbligo di assumere i lavoratori di quel ramo), incassando un prezzo; poi si usano quei fondi per pagare parzialmente banche e fornitori secondo accordi individuali. Il piano attestato qui serve a dare un quadro unitario e assicurare i creditori che la dismissione di quell’asset è la mossa giusta e sufficiente a mettere in sicurezza ciò che resta dell’impresa.

Attenzione agli aspetti tecnici: La cessione di azienda in contesto stragiudiziale comporta comunque gli adempimenti civilistici ordinari: forma scritta dell’atto notarile, iscrizione nel registro imprese, rispetto dell’art. 2560 c.c. per quanto riguarda i debiti aziendali (ovvero il cessionario risponde di quelli risultanti dai libri contabili obbligatori, salvo patto con i creditori) – ma su questo torneremo nella sezione dedicata alla cessione d’azienda. Nella prassi di un piano attestato, se la cessione riguarda l’intera azienda a un soggetto terzo, è opportuno che tutti (o la stragrande maggioranza) dei creditori siano parte dell’accordo di risanamento, altrimenti l’acquirente potrebbe trovarsi l’azienda acquisita soggetta alle azioni di creditori estranei. Spesso l’acquirente stesso pone come condizione che si raggiungano accordi liberatori con almeno X% dei creditori entro una certa data (“closing condizionato”). Pertanto i professionisti orchestrano la firma contestuale: atto di cessione e atti di transazione con i creditori chiave, tutto avvolto dall’attestazione del piano a garanzia. L’esperto attestatore in questo scenario è un attore delicatissimo: deve mantenere indipendenza e scrupolo perché, se certifica un piano che in realtà è solo un travaso di azienda lasciando i debiti al vecchio proprietario destinato comunque al fallimento, potrebbe configurarsi un abuso. La Cassazione in passato ha ammonito che la mera presentazione di una domanda di concordato o l’esistenza di un piano non autorizzano il debitore a dissipare il patrimonio senza controllo. Quindi anche in un piano attestato bisogna che il valore di cessione sia equo e che i creditori ricevano un trattamento equo (o almeno non peggiore di alternative): altrimenti i creditori lesi potrebbero poi tentare di far dichiarare il fallimento e far valere la simulazione d’intenti.

In sintesi: Il piano attestato di risanamento è come un abito sartoriale per imprese in crisi: può includere la cessione dell’azienda in tutto o in parte, la rinegoziazione dei debiti e l’apporto di risorse nuove, il tutto senza ricorrere al tribunale, ma con il conforto di una perizia indipendente e di alcune protezioni normative (niente revocatoria, niente tasse sugli stralci). È indicato per situazioni non disperate e con interlocutori finanziari ragionevoli. Non offre la forza cogente di un concordato, ma evita la pubblicità e la rigidità di quest’ultimo. Dal punto di vista di “a chi rivolgersi per vendere l’azienda in crisi”, se si opta per un piano attestato la risposta è: rivolgersi a un advisor finanziario e legale esperto in ristrutturazioni, individuare un attestatore professionista indipendente (spesso scelto insieme alle banche) e trattare direttamente con i creditori e potenziali acquirenti, mantenendo il controllo del processo. L’Autorità giudiziaria qui non interviene (se non eventualmente a posteriori, ad es. se un creditore chiedesse comunque il fallimento: ma il piano attestato ben fatto serve proprio a evitare questo).

Chiude questa parte un rapido confronto con l’istituto successivo: gli accordi di ristrutturazione dei debiti. In effetti, il confine tra un piano attestato e un accordo ex art. 57 CCII può essere sottile: entrambi sono basati su accordi con i creditori, ma l’accordo di ristrutturazione richiede la forma dell’omologazione in tribunale (quindi un passaggio pubblico) e offre misure protettive legali, oltre ad essere efficace erga omnes per alcuni aspetti. Lo vediamo nel prossimo paragrafo.

1.3 Accordo di Ristrutturazione dei Debiti

Nozione e inquadramento: L’accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD) è uno strumento che si colloca a metà tra il piano attestato (privatistico) e il concordato preventivo (concorsuale). Introdotto originariamente nel 2005 (art. 182-bis L.F.) e ora disciplinato dagli artt. 57-64 CCII, l’accordo di ristrutturazione è un accordo negoziale tra l’imprenditore in crisi/insolvenza e una parte significativa dei suoi creditori, finalizzato a modificare le scadenze, l’ammontare o le condizioni dei debiti. Una volta raggiunto, l’accordo è sottoposto al tribunale per la omologazione, che gli conferisce efficacia legale generale.

In sostanza, si tratta di un contratto di risanamento col supporto del giudice: l’imprenditore negozia con i creditori il contenuto (può prevedere dilazioni di pagamento, rinunce parziali, conversione di crediti in capitale, cessione di beni ai creditori, ecc.), ma servono almeno determinati quorum di adesione per poter chiedere l’omologazione. La norma generale richiede l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali dell’impresa. Questo significa che, diversamente dal concordato che vincola anche i dissenzienti se c’è maggioranza, qui il debitore deve convincere una maggioranza qualificata (per valore) di creditori a firmare l’accordo. I creditori non aderenti restano fuori, in linea di principio: l’accordo omologato vincola i soli creditori aderenti, a meno di particolari meccanismi di estensione che vedremo (ad efficacia estesa).

Finalità e ratio: L’accordo di ristrutturazione mira a evitare la liquidazione giudiziale favorendo soluzioni concordate della crisi. Il legislatore italiano, già con la riforma del 2005, ha mostrato un favor verso soluzioni negoziali come questa, per salvaguardare la continuità aziendale quando possibile. Si è parlato di “concordato stragiudiziale legalizzato”: l’ARD, infatti, conserva molta autonomia privata (è negoziato liberamente, non c’è un commissario che impone scelte), però tramite l’omologazione acquisisce alcuni effetti concorsuali (come la protezione da azioni esecutive temporanea e talvolta l’imposizione ai dissenzienti di certe classi). È considerato dal prevalente orientamento giurisprudenziale una procedura concorsuale in senso lato, sebbene atipica, proprio perché interviene l’autorità giudiziaria a tutela dell’interesse generale dei creditori (soprattutto di quelli che non hanno firmato).

Principali tipologie di ARD nel CCII: Il Codice della Crisi ha ampliato la gamma di accordi di ristrutturazione, prevedendo tre varianti principali:

  1. Accordo di ristrutturazione “ordinario” (art. 57 CCII): richiede almeno il 60% dei crediti in adesione. Può essere accompagnato da misure protettive (cioè il debitore può chiedere al tribunale di sospendere per 120 giorni eventuali azioni esecutive dei creditori mentre perfeziona l’accordo). In sede di omologazione, il tribunale verifica che l’accordo non danneggi i creditori non aderenti, i quali devono ricevere almeno quanto riceverebbero in un fallimento (principio del “best interest test”). Serve la relazione di un attestatore indipendente anche qui, che asseveri che l’accordo è idoneo a garantire il pagamento integrale dei creditori estranei nei termini di legge e il riequilibrio finanziario. Se tutto è a posto, il tribunale omologa e l’accordo diventa efficace vincolando gli aderenti. I creditori estranei rimangono liberi di agire per conto loro, ma se – come spesso accade – sono stati pagati o garantiti, non hanno ragione di farlo.
  2. Accordo di ristrutturazione “agevolato” (art. 60 CCII): introdotto per facilitare l’accesso all’istituto, prevede un quorum di adesione ridotto al 30% dei crediti. Cioè basta avere il consenso di creditori per un terzo dell’esposizione debitoria. Questo però ha un prezzo: non si possono chiedere misure protettive e bisogna pagare integralmente e tempestivamente i creditori non aderenti. In pratica, l’accordo agevolato funziona così: il debitore stringe un accordo con pochi creditori principali (diciamo le banche che detengono il 30-40% del debito totale), per ridurre o riscadenzare i loro crediti; tutti gli altri creditori vengono messi fuori accordo e devono essere soddisfatti per intero, di solito prima o al momento dell’omologazione. Ciò implica che l’impresa deve avere risorse sufficienti (o ottenerle, ad esempio vendendo asset o con finanziamenti dei soci) per pagare il 100% di chi non firma. In cambio, quei creditori estranei non partecipano e non possono opporsi (perché vengono soddisfatti totalmente). Inoltre, senza misure protettive, l’impresa corre il rischio di azioni individuali fino all’omologa, ma in teoria i creditori estranei stanno per essere pagati comunque, quindi se comunicati adeguatamente, potrebbero attendere la scadenza dell’accordo. Questa forma è utile per imprese con pochi creditori esterni o con liquidità sufficiente per liquidare i piccoli creditori, concentrando la ristrutturazione sui pochi grandi (es. 2-3 banche). È più veloce e meno costosa perché evita anche l’udienza di conferma delle misure protettive e riduce il contenzioso.
  3. Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61 CCII): questa è una novità più recente, che consente – a certe condizioni – di imporre l’accordo anche ad alcuni creditori non aderenti appartenenti a determinate categorie omogenee. Funziona così: il debitore può suddividere i creditori per categorie (tipicamente, banche, obbligazionisti, fornitori, ecc.). Se all’interno di una categoria si raggiunge un’adesione di almeno il 75% dei crediti di quella categoria, l’accordo omologato può essere esteso anche al restante 25% dissenziente di quella stessa categoria. È un meccanismo di cram-down settoriale: ad esempio, se il 80% dell’esposizione verso le banche ha firmato l’accordo, la minoranza di banche contrarie viene comunque vincolata e non può chiamarsi fuori (purché siano rispettate certe tutele). Le condizioni per questa efficacia estesa includono: omogeneità delle categorie (non devono essere costruite ad arte per isolare dissenzienti, ma raggruppare creditori con posizione giuridica simile); rispetto del best interest test per i non aderenti (devono ricevere almeno quanto in un’alternativa liquidatoria); e originariamente si richiedeva continuità aziendale (cioè che l’impresa non cessasse l’attività), anche se una modifica del 2023-2024 ha ammesso efficacia estesa anche in piani liquidatori se oltre metà dei debiti sono verso intermediari finanziari. Inoltre, se l’accordo è stato preceduto da una composizione negoziata, i quorum richiesti scendono (basta il 60% per categoria invece del 75%): incentivo a usare prima la negoziazione assistita. L’efficacia estesa è pensata per contrastare i creditori hold-out, tipicamente una minoranza di banche o obbligazionisti che potrebbero bloccare un accordo pur avendo la maggioranza favorevole. Con questa norma, se la maggior parte è d’accordo, la minoranza deve adeguarsi. Va detto che ciò non avviene automaticamente: il tribunale, in sede di omologa, esercita un controllo particolarmente stringente su come sono state formate le classi e sul soddisfacimento dei crammati. Resta comunque uno strumento potente: in pratica, vincola anche i dissenzienti all’interno di ciascuna classe omogenea. Da notare: questa è l’evoluzione del vecchio accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari (ex art. 182-septies L.F.), che prima valeva solo per le banche; ora il meccanismo è generalizzato a ogni categoria di creditori (pur se nella pratica l’applicazione principale resta sul ceto bancario).

Procedimento e ruoli: Un ARD si attiva con la pubblicazione della proposta d’accordo e della documentazione (piano, elenco creditori, attestazione) nel Registro Imprese. Da quel momento il debitore può chiedere al tribunale le misure protettive (non se accordo agevolato, come detto) e avviare formalmente la raccolta delle adesioni. Il ruolo dell’attestatore è cruciale: deve attestare la fattibilità dell’accordo e che i creditori estranei riceveranno quanto avrebbero in liquidazione (art. 58 CCII). Non c’è una votazione in senso tecnico come nel concordato; c’è la contrattazione e la firma degli accordi da parte dei creditori. Una volta raggiunta la soglia richiesta di consensi, il debitore deposita la domanda di omologazione presso il tribunale. I creditori non aderenti possono presentare opposizione all’omologa (limitandosi a eccepire il difetto di requisiti o il pregiudizio per loro). Il tribunale fissa udienza e valuta: se tutto è regolare, omologa l’accordo rendendolo efficace. Da quel momento scattano anche le protezioni: come nel concordato, gli atti esecutivi dell’accordo omologato non sono soggetti a revocatoria e le eventuali decurtazioni di debito godono della detassazione (norme analoghe a quelle viste per il piano attestato). In più, i creditori aderenti non possono agire se rispettati i termini dell’accordo, e i creditori “crammati” (obbligati per estensione) sono vincolati anch’essi.

Cessione d’azienda e accordo di ristrutturazione: All’interno di un accordo di ristrutturazione, la vendita dell’azienda può comparire come parte delle operazioni concordate. Ad esempio, l’accordo potrebbe prevedere che l’imprenditore venderà un certo asset o ramo a un investitore e una parte del prezzo sarà destinata ai creditori firmatari. Oppure un accordo potrebbe essere finalizzato proprio alla vendita dell’intera società: in questo caso l’accordo funge quasi da garanzia per l’acquirente, perché consente di ristrutturare i debiti con la maggioranza dei creditori prima o contestualmente al passaggio di proprietà. Consideriamo un caso pratico: Gamma Srl (impresa commerciale) trova un investitore disposto a entrare come socio di maggioranza, ma questo pretende che i debiti bancari siano sistemati. Gamma allora negozia un ARD con le banche: su 10 milioni di debiti, l’investitore ne paga subito 6 (magari con un aumento di capitale) e le banche rinunciano a 4, oppure li trasformano in un finanziamento a lungo termine. Ottenute le firme dalle banche (che rappresentano il 70% dei crediti totali), Gamma deposita l’accordo e chiede omologa. I fornitori che stanno fuori (30% residuo) vengono pagati per intero grazie ai soldi freschi portati dall’investitore (questo sarebbe un mix tra accordo agevolato e ordinario). Il tribunale omologa. L’investitore a quel punto acquista le quote di Gamma Srl (o fa l’aumento di capitale concordato) sapendo che l’azienda è “pulita” e i patti coi creditori sono definitivi e vincolanti. Questo esempio mostra come l’ARD possa essere un efficace strumento per agevolare operazioni di M&A in situazioni di distress: di fatto crea un contesto ordinato in cui un terzo investitore può intervenire con la tranquillità che i debiti siano stati ridotti e disciplinati con la forza di legge.

Da notare: l’accordo omologato è per definizione pubblicato e conoscibile dai terzi, e con l’intervento del tribunale l’operazione di cessione d’azienda al suo interno acquista stabilità pari a quella nel concordato (anche qui vige l’art. 24 CCII che rende definitivi gli atti esecutivi dell’accordo in caso di successivo fallimento entro 2 anni, salvo dolo). Inoltre, grazie all’omologazione, persino il Fisco e gli enti previdenziali possono essere obbligati al piano: se è prevista una transazione fiscale (stralcio di sanzioni o interessi su debiti fiscali), l’accordo omologato la rende efficace, e dal 2022 si può anche omologare un accordo con cram-down fiscale (cioè nonostante il voto negativo dell’Erario) se il trattamento proposto è più conveniente del fallimento. Questo è un vantaggio rispetto al piano attestato, in cui invece le agenzie fiscali non sono vincolate se non firmano.

Confronto con il concordato: L’accordo di ristrutturazione è generalmente più snello e riservato del concordato: non coinvolge tutti i creditori (salvo efficacia estesa), non c’è voto generalizzato, di solito i tempi di omologa sono più brevi e c’è minore intrusività (il debitore rimane pienamente in carica senza commissari). Per contro, non offre l’esdebitazione totale automatica: se qualche creditore non ha aderito e non è crammato, resta creditore al 100%. Inoltre, se l’accordo non va a buon fine (debitor inadempiente), i creditori possono agire immediatamente, mentre in un concordato avrebbero dovuto chiedere la risoluzione giudiziale. Si capisce quindi che l’ARD funziona bene per imprese che possano raggiungere velocemente intese con i creditori principali, specialmente con le banche. Non a caso, uno dei suoi storici utilizzi è stato la ristrutturazione di esposizioni bancarie complesse, dove le banche stesse preferiscono trovare un accordo piuttosto che portare l’azienda a collasso. Oggi con l’efficacia estesa è diventato più simile a un mini-concordato inter nos, con la differenza che serve l’unanimità delle classi (cioè ogni classe deve avere almeno 75% pro accordo, non sono ammessi dissensi di classe come invece può accadere nel concordato con cram down). Quindi o tutti i tipi di creditori principali sono d’accordo, oppure scatta la necessità di convertire la procedura in un concordato preventivo (infatti il CCII prevede che se in ARD manca l’unanimità delle classi costituite, si può chiedere la conversione in concordato preventivo in continuità per ottenere il cram-down). Questo fa sì che il PRO (Piano di Ristrutturazione soggetto a Omologazione) di cui diremo subito, sia una sorta di cugino degli ARD per ottenere cram-down generali.

Accordo di ristrutturazione e vendita dell’azienda in crisi – conclusioni pratiche: Dal punto di vista di chi vuole vendere la propria azienda indebitata, l’ARD offre una piattaforma semi-flessibile dove negoziare con un potenziale acquirente e con i creditori insieme. Ci si deve rivolgere in questi casi a professionisti specializzati in restructuring (avvocati d’impresa, advisor finanziari) che possano condurre trattative parallele: da un lato con l’acquirente terzo, dall’altro con il pool di creditori per raggiungere le soglie di consenso. L’autorità giudiziaria entrerà in gioco solo al momento di omologare l’accordo, quindi con una funzione di controllo e legittimazione finale. Spesso, prima di arrivare all’accordo, è utile attivare la composizione negoziata (vedi par. 1.4) per avere la protezione temporanea e l’aiuto di un esperto: molti accordi di ristrutturazione nascono infatti all’interno o a valle di una composizione negoziata con creditori, dove si gettano le basi e poi si formalizza l’accordo da omologare.

1.4 Composizione Negoziata della Crisi e Concordato Semplificato

Caratteristiche generali: La composizione negoziata della crisi è uno strumento di allerta e soluzione precoce della crisi, introdotto nel 2021 (D.L. 118/2021) e confluito nel Codice della Crisi (artt. 12-25 CCII). Si tratta di una procedura volontaria e confidenziale in cui l’imprenditore in stato di crisi (anche pre-insolvenza conclamata) chiede l’aiuto di un esperto indipendente, nominato da un’apposita commissione presso la Camera di Commercio, per tentare una negoziazione con i creditori al fine di trovare soluzioni per il risanamento. La composizione negoziata è dunque un tavolo di trattative guidato: l’esperto non ha poteri autoritativi, ma facilita le discussioni tra debitore e creditori, formula ipotesi e sprona le parti a trovare un accordo. Il grande pregio di questa procedura è la flessibilità e la riservatezza (non è un processo pubblico, salvo alcune iscrizioni minime nel registro imprese come l’avvio e la eventuale applicazione di misure protettive).

Misure protettive: Già, perché l’imprenditore che avvia la composizione negoziata può chiedere al tribunale di concedere delle misure protettive (art. 18 CCII): in particolare, la sospensione delle azioni esecutive e cautelari dei creditori per la durata della negoziazione (inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili). Questo scudo consente di negoziare senza l’assillo di pignoramenti o istanze di fallimento (che rimangono sospese). Il tribunale concede tali misure se valuta che la prosecuzione dell’attività non pregiudichi indebitamente i creditori e che vi siano concrete possibilità di soluzione.

Esiti possibili: La composizione negoziata può concludersi in vari modi:

  • Con un accordo stragiudiziale con i creditori (es. accordi semplici, piani attestati).
  • Con un accordo di ristrutturazione (se si raggiungono le soglie, si può portare in omologa come da par. 1.3).
  • Con un concordato preventivo “ordinario” (se serve il coinvolgimento di tutti i creditori, l’imprenditore può optare per depositare un concordato, magari preconfezionato con i creditori principali).
  • Oppure, se non si trova soluzione, l’imprenditore può “alzarsi dal tavolo” e lasciar decadere la procedura, ma a quel punto dovrà valutare la liquidazione giudiziale se insolvente.
  • Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: questa è una novità collegata alla composizione negoziata. Se la negoziazione fallisce, ma l’imprenditore vuole evitare il fallimento liquidando comunque l’attività in modo ordinato, può proporre al tribunale un concordato semplificato (art. 25-sexies CCII). È “semplificato” perché non prevede il voto dei creditori: il tribunale valuta il piano liquidatorio proposto e, se lo reputa migliorativo rispetto al fallimento, lo omologa d’ufficio. Nel concordato semplificato i creditori possono fare osservazioni ma non hanno potere di veto formale. Si utilizza solo come extrema ratio quando la composizione negoziata non ha portato accordi, e serve per vendere in fretta gli asset evitando il fallimento.

Cessione d’azienda nella composizione negoziata: La cornice della composizione negoziata è ideale per discutere e realizzare la cessione dell’azienda o di rami a un soggetto terzo, in ottica di superare la crisi. Infatti, se c’è un potenziale acquirente interessato all’azienda in difficoltà, l’esperto può aiutare a definire le condizioni della vendita prima che si arrivi all’insolvenza conclamata, ottenendo magari il consenso dei creditori principali. Spesso la cessione dell’azienda è vista come un “strumento di risanamento” all’interno della negoziazione: vendendo l’azienda ad un soggetto più solido, si salvaguarda la continuità operativa, si incassa un corrispettivo da destinare ai debiti e si evita il tracollo. L’art. 22 CCII disciplina proprio questa situazione: durante la composizione negoziata, l’imprenditore può chiedere al tribunale di autorizzare specifici atti tra cui “la cessione dell’azienda o di rami di essa”. Il tribunale, su parere dell’esperto, verifica che la cessione sia funzionale al superamento dello squilibrio e tutela l’interesse dei creditori, e può autorizzare l’operazione.

Autorizzazione significa che la cessione avviene sotto l’egida dell’autorità e gode di benefici:

  • Il decreto di autorizzazione può prevedere che il cessionario (acquirente) non sia tenuto a farsi carico dei debiti aziendali anteriori non espressamente inclusi nell’accordo. In pratica, esonera l’acquirente da responsabilità di cui all’art. 2560 c.c. per i debiti non pagati dal cedente, proprio per incentivare l’operazione (salvo ovviamente i debiti per cui c’è accordo diverso).
  • Inoltre, se poi l’imprenditore dovesse finire in fallimento o concordato, la cessione autorizzata è protetta: l’art. 24 CCII la rende definitiva e non soggetta a revocatoria, come avviene per atti nei concordati (è considerata atto esecutivo di un tentativo di risanamento, quindi protetto).
  • Il tribunale deve però vigilare sul principio di competitività: anche nell’ambito negoziato si richiede che la selezione dell’acquirente sia avvenuta in modo trasparente e, ove possibile, competitivo. Questo per evitare svendite occulte. Ad esempio, la prassi è fare un avviso o coinvolgere più potenziali acquirenti con l’aiuto dell’esperto (questi può segnalare l’opportunità confidenzialmente a soggetti potenzialmente interessati, pur mantenendo la riservatezza).
  • L’esperto supervisore ha un ruolo chiave: deve assicurarsi che i creditori rilevanti siano informati e non contrari (se ad es. vendendo l’azienda si intacca la garanzia di una banca, questa dovrà essere d’accordo su come viene compensata).
  • Prima della cessione, se l’azienda ha dipendenti >15, va fatta la consultazione sindacale ex art. 47 L.428/90 anche qui.

In sintesi, la composizione negoziata è un contesto nel quale vendere l’azienda in maniera protetta ma rapida: è più celere e meno formale di un concordato, però grazie all’intervento del tribunale ai sensi dell’art. 22, ti dà quasi gli stessi vantaggi (atto autorizzato, esonero debiti per l’acquirente, irrevocabilità). E se la cessione riesce a sistemare la situazione (ad es. vendi l’azienda, paghi i creditori in parte con quel ricavato e magari chiudi l’attività residua), si può chiudere la composizione senza entrare in procedure concorsuali. Se invece, nonostante la vendita, rimangono debiti insoluti e serve chiudere formalmente, l’imprenditore può accedere al concordato semplificato.

Concordato semplificato (post composizione negoziata): Questo istituto (art. 25-sexies CCII) è peculiare: è riservato all’imprenditore che ha tentato la composizione negoziata senza successo e vuole comunque evitare la liquidazione giudiziale. Egli può presentare un piano che prevede la liquidazione del suo patrimonio residuo e la distribuzione ai creditori. Non c’è voto dei creditori, solo un eventuale reclamo in sede di omologa. È “semplificato” perché mira a velocizzare la liquidazione sotto controllo giudiziale quando ormai la negoziazione non ha portato accordi e l’unica via è liquidare comunque in modo ordinato. È comunque un concordato a tutti gli effetti (omologato da tribunale, con nomina di liquidatore per vendere i beni, etc.), solo che ha bypassato la fase di voto e ammissione ordinaria. Nel contesto della vendita di un’azienda, il concordato semplificato potrebbe essere usato per vendere l’azienda in un sol colpo: infatti l’art. 25-septies CCII prevede regole per la vendita dell’azienda nel concordato semplificato, con ruoli di eventuali ausiliari nominati e procedure competitive se c’è più di un offerente. È uno scenario limite: se durante la negoziata si palesa un compratore ma non c’è tempo/voglia di fare un accordo, si potrebbe ipotizzare di andare direttamente in concordato semplificato presentando al tribunale un piano che dice “cederò l’azienda a Tizio per X euro e distribuirò il ricavato pro-quota ai creditori”. Il tribunale, se convinto che Tizio è il migliore offerente (magari dopo una mini-gara in sede di procedimento), omologa e si procede. In pratica, il concordato semplificato funge da surrogato di un concordato liquidatorio classico ma senza voto e riservato. Va maneggiato con cura perché i creditori, pur non avendo voto, possono fare opposizione e il giudice deve comunque garantire che prendano almeno quanto in fallimento.

A chi rivolgersi nella composizione negoziata: Trattandosi di uno strumento relativamente nuovo e specialistico, l’imprenditore deve rivolgersi inizialmente alla Camera di Commercio (piattaforma telematica) o ad un professionista specializzato che lo assista nella presentazione dell’istanza. La commissione nominerà l’esperto da un elenco ministeriale (solitamente commercialisti, avvocati o consulenti del lavoro con formazione in crisi d’impresa). Quindi il “team” sarà: l’imprenditore, il suo consulente eventuale, e l’esperto indipendente nominato. In parallelo, se l’obiettivo è vendere l’azienda, conviene anche qui avere un advisor M&A che cerchi potenziali acquirenti o tratti con quello già noto. Molte volte, l’esperto nominato può egli stesso suggerire possibili soluzioni di cessione o contatti (nel rispetto della riservatezza).

Vantaggi e svantaggi: La composizione negoziata è volontaria e non coercitiva: i creditori non sono obbligati a nulla, però la presenza dell’esperto e la prospettiva di evitare un fallimento spinge spesso a comportamenti collaborativi. È meno costosa di un concordato (non c’è la massa di spese concorsuali, l’esperto ha un compenso predeterminato modesto). Permette di prendere tempo legalmente (con le misure protettive) e di fare due diligence sull’azienda in vendita con tranquillità. Uno svantaggio è che, se i creditori sono troppi o litigiosi, l’esperto non può obbligarli a concludere accordi – si rischia di perdere tempo e poi finire in tribunale comunque. Ma nulla vieta, come abbiamo visto, di passare ad un accordo di ristrutturazione o un concordato se serve.

Casi tipici di utilizzo: Molte PMI negli ultimi anni hanno usato la composizione negoziata per vendere l’azienda salvando la continuità: ad esempio, piccole cliniche private cedute a gruppi più grandi, aziende manifatturiere passate a competitor internazionali, catene commerciali con punti vendita ceduti ad altro brand. In questi casi, la negoziazione assistita è servita a mettere d’accordo banche, fornitori e nuovo investitore sul come ripartire i sacrifici. Spesso l’acquirente dice: “io metto sul piatto X euro, con cui pago integralmente i fornitori vitali e do un tot alle banche in saldo e stralcio”; i creditori valutano che quell’X è meglio di un incerto scenario di fallimento; l’esperto assevera il tutto e il giudice benedice la cessione con decreto di cui sopra.

In conclusione, la composizione negoziata rappresenta oggi un canale privilegiato per rivolgersi a professionisti e istituzioni per vendere un’azienda in crisi: è il contesto in cui il debitore può dire “Ho l’azienda in crisi, vorrei venderla per evitare il fallimento” e trovare dall’altra parte un meccanismo istituzionale di supporto.

1.5 Liquidazione Giudiziale (ex Fallimento) e altre procedure liquidative

Cos’è la liquidazione giudiziale: La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale che ha sostituito dal 15 luglio 2022 la procedura di fallimento (termine abolito formalmente). Rimane, nella sostanza, la procedura concorsuale di carattere liquidatorio destinata agli imprenditori insolventi, volta a liquidarne il patrimonio sotto la gestione di un curatore nominato dal tribunale, e distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole della par condicio e dei privilegi. In questa sede la citiamo non tanto come “strumento per vendere l’azienda in crisi” dal punto di vista del debitore (dato che è un procedimento concorsuale subìto su istanza di creditori o su iniziativa propria come liquidazione autocandidata), ma perché può capitare che la vendita dell’azienda avvenga proprio in sede di liquidazione giudiziale. In altre parole, il debitore può trovarsi a dover “vendere” indirettamente la propria azienda attraverso il fallimento, tramite il curatore che ne cede i beni o i complessi aziendali.

Quando scatta la liquidazione giudiziale: Se l’impresa è insolvente e nessuno strumento conservativo ha avuto successo (o non è stato nemmeno tentato), i creditori (o il pubblico ministero in certi casi) possono richiedere al tribunale la dichiarazione di liquidazione giudiziale. Ci sono criteri dimensionali: imprese molto piccole (sotto specifici limiti di attivo, ricavi e debiti: ad es. attivo < €300k, ricavi < €200k, debiti < €500k) sono escluse e semmai soggette a liquidazione controllata come vedremo brevemente. Per società di capitali e di persone di dimensione rilevante invece l’apertura di liquidazione giudiziale è la regola in caso di insolvenza conclamata.

Cessione dell’azienda in fallimento: Durante la liquidazione giudiziale, il curatore ha il compito di vendere i beni dell’impresa nel modo migliore. Può vendere singoli cespiti, lotti, ma anche l’azienda intera o rami di azienda se ciò consente di recuperare più valore. L’art. 212 CCII (già art. 105 L.F.) incoraggia la vendita dell’azienda in esercizio se possibile, così da massimizzare il valore e salvaguardare la continuità. Le vendite avvengono tramite procedure competitive (aste, gara tra offerte) sotto la supervisione del giudice delegato. Il curatore, ottenuta l’autorizzazione del comitato dei creditori e del giudice, pubblica un bando invitando possibili acquirenti.

Dal lato dell’acquirente, comprare un’azienda da una liquidazione giudiziale è spesso un affare appetibile perché:

  • L’acquisizione avviene libera dai debiti pregressi: il cessionario non risponde dei debiti anteriori, neanche di quelli risultanti dalle scritture (in deroga all’art. 2560 c.c.), perché la vendita concorsuale travolge i vincoli (salvo eccezioni come la solidarietà per debiti di lavoro ex art. 2112 se applicabile in continuità).
  • Non si applica l’art. 2112 c.c. in automatico se l’azienda è ceduta in contesto liquidatorio e l’esercizio non prosegue: in tali casi, il cessionario può negoziare ex novo con i dipendenti (spesso vengono riassunti solo in parte, con nuovi contratti). La legge italiana, in recepimento di quella UE, consente deroghe all’automatismo dell’art. 2112 nelle procedure concorsuali liquidatorie senza esercizio, mediante accordi sindacali che possono ridurre o azzerare la continuità dei rapporti di lavoro. Ciò attrae acquirenti perché possono rilevare l’azienda snellita dal personale in eccesso o rinegoziare condizioni (entro limiti di salvaguardia occupazionale concordata).
  • La vendita è definitiva: non è soggetta a revocatoria in futuro (essendo atto dell’organo concorsuale).
  • L’acquirente può spesso spuntare un prezzo interessante, specie se c’è poca concorrenza in asta. D’altro canto, deve darsi carico di rilanciare un’azienda reduce da un fallimento (quindi reputazione scossa, filiera da riconquistare, ecc.).

Dal punto di vista del debitore/imprenditore cedente, la vendita in sede fallimentare non è il massimo: egli perde qualsiasi controllo, ed essendo una liquidazione, l’impresa cessa nella sua persona giuridica originaria. Tuttavia, se la prospettiva è il dissesto, in certi casi può perfino essere consigliabile assecondare una soluzione di vendita tramite fallimento pilotato. Ad esempio: un imprenditore onesto capisce di non poter evitare il crack, allora collabora con il curatore per tenere in piedi l’esercizio provvisorio e trovare un compratore in tempi brevi. Il tribunale può autorizzare l’esercizio provvisorio (temporanea prosecuzione dell’attività da parte del curatore) proprio per vendere l’azienda come “azienda funzionante”, ottenendo di più che vendere macchinari rottamati. Perciò, a volte, “vendere l’azienda in crisi” significa anche consegnarla a un curatore fallimentare perché la ceda a qualcuno capace di farla ripartire: è una scelta dolorosa per l’imprenditore originario (che vede spossessarsi, magari rischia azioni di responsabilità), ma può salvare la sostanza dell’impresa sotto altra guida.

Liquidazione controllata e altre procedure minori: Accenniamo per completezza che, per imprese minori non soggette a fallimento (tipo ditte individuali sotto soglia o imprenditori agricoli), il CCII prevede la liquidazione controllata del sovraindebitato. Essa è analoga alla liquidazione giudiziale ma gestita in modo semplificato e con possibili esdebitazioni più ampie per la persona del debitore. Anche in quella sede un liquidatore nominato vende i beni e l’azienda, con logiche simili. Ci sono poi procedure speciali settoriali: per grandi imprese in crisi, l’amministrazione straordinaria (Legge Marzano, Prodi-bis) che però riguarda casi molto specifici (grandi aziende insolventi dove l’obiettivo è la ristrutturazione o cessione in blocco di gruppi industriali). In quell’ambito, la cessione delle aziende è decisa dal Commissario straordinario col decreto del Ministero, ma sono casi limitati (Alitalia, Ilva, ecc.) e oltre lo scopo di questa guida.

Conclusione sul punto: Se un imprenditore si trova alla fine inevitabile nella liquidazione giudiziale, a chi si deve rivolgere? Ormai il protagonista non è più lui, ma il curatore nominato. Tuttavia, può cooperare con quest’ultimo (tramite il suo avvocato) per facilitare la cessione dell’azienda. Ad esempio suggerendo potenziali acquirenti, fornendo informazioni, partecipando correttamente alle operazioni. È nel suo interesse: se la vendita va bene, i creditori prendono di più e magari rimane spazio per richiedere l’esdebitazione (la liberazione dai debiti residui) a fine procedura. Inoltre, condotte collaborative possono evitare contestazioni di bancarotta. Quindi, paradossalmente, anche nel fallimento il debitore può avere un ruolo – non decisionale, ma propositivo – nel vendere la “sua” azienda, seppur tramite il curatore.

2. Cessione di aziende in crisi: profili civilistici e tutela delle parti

In questo capitolo affrontiamo gli aspetti giuridici specifici della cessione di un’azienda (o di rami di azienda) quando l’impresa è in stato di crisi. Indipendentemente dal canale scelto (concordato, accordo, trattativa privata, ecc.), il trasferimento dell’azienda come complesso di beni pone questioni particolari: chi risponde dei debiti pregressi? cosa accade ai contratti in corso? qual è il destino dei lavoratori? come prevenire eventuali responsabilità per il venditore?

Partiamo dalla base: per “azienda” il codice civile (art. 2555 c.c.) intende il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Quindi cedere un’azienda significa trasferire in blocco quell’insieme unitario: beni materiali (macchinari, merci), immobili se inclusi, ma anche rapporti giuridici come contratti commerciali, autorizzazioni amministrative, proprietà intellettuali, e l’elemento umano (dipendenti). La legge, per favorire la circolazione dell’azienda come entità produttiva, predispone alcune norme specifiche (artt. 2556–2560 c.c., art. 2112 c.c.):

  • Forma e pubblicità (art. 2556 c.c.): la vendita di un’azienda richiede un atto scritto autenticato (atto notarile o scrittura autenticata) se l’azienda è commerciale. Inoltre dev’essere iscritta nel registro delle imprese per renderla opponibile ai terzi. Nel contesto di crisi, spesso l’atto di cessione è soggetto anche alle autorizzazioni concorsuali (vista la sezione 1, se avviene in concordato o comp. negoziata serve decreto).
  • Successione nei contratti (art. 2558 c.c.): l’acquirente subentra automaticamente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale, a meno che il contratto non preveda il contrario o il terzo contraente si opponga (ha 3 mesi per farlo). Ciò significa che, ad esempio, i contratti di fornitura, locazione d’immobile, contratti con clienti, ecc., continuano con l’acquirente come se nulla fosse cambiato. Nel caso dell’azienda in crisi, questo è vitale: l’acquirente di solito è interessato a proseguire i rapporti utili (affitto locali, contratti con clienti, ecc.), quindi gode di questa continuità legale.
  • Crediti e debiti (art. 2559-2560 c.c.): i crediti relativi all’azienda ceduta passano all’acquirente, salvo diverse intese (e con la formalità dell’annotazione cessionaria sui libri contabili per opporli ai debitori ceduti). Questo aiuta il cash flow di chi acquista (incasserà crediti verso clienti, etc.). I debiti invece seguono un regime diverso: l’art. 2560 c.c. distingue tra debiti anteriori risultanti dai libri contabili obbligatori e altri debiti. Il venditore di regola rimane obbligato per tutti i debiti aziendali pregressi. L’acquirente risponde in solido dei soli debiti risultanti dai libri contabili, salvo patto contrario con i creditori. Questa norma intende tutelare i creditori: se vendo la mia azienda con debiti, i creditori possono agire anche contro il compratore (che ha preso in carico l’azienda) per i debiti “ufficiali” emergenti dalle scritture. Tuttavia, come si concilia questo con le procedure concorsuali? In concordato o fallimento, ovviamente i debiti restano in capo alla massa, e l’acquirente concorsuale li prende liberi. Fuori da procedure, 2560 c.c. tende a evitare che venditore e acquirente facciano accordi segreti a danno dei creditori. Nel contesto di crisi, però, spesso l’acquirente vuole non caricarsi i debiti passati. È per questo che, come visto, normative speciali (art. 22 CCII, art. 2560 c.2 interpretato dalla giurisprudenza) offrono soluzioni: es. tribunale autorizza cessione senza accollo debiti, oppure i creditori rinunciano ai loro crediti (accettando un pagamento parziale).
  • Divieto di concorrenza (art. 2557 c.c.): il venditore di un’azienda deve astenersi per 5 anni dal compiere attività concorrente che ne svuoti l’avviamento ceduto. Questo solitamente non è un problema nel caso di crisi: anzi spesso il venditore esce dal mercato del tutto. Ma se l’acquirente teme che il vecchio imprenditore apra sotto falso nome una ditta concorrente, c’è tutela legale (e si può anche rafforzare contrattualmente).
  • Rapporti di lavoro (art. 2112 c.c.): norma fondamentale: in caso di trasferimento d’azienda, i dipendenti passano automaticamente alle dipendenze del cessionario, conservando tutti i diritti (retribuzione, anzianità, TFR, inquadramento). Il cedente e il cessionario sono entrambi responsabili in solido per i crediti che i lavoratori avevano al momento del trasferimento (ad es. stipendi arretrati). Tuttavia – come già menzionato – nelle procedure concorsuali liquidative, e in alcuni casi di concordato con continuità indiretta, l’art. 2112 può essere parzialmente derogato tramite accordi sindacali finalizzati a salvare l’occupazione. In pratica, se l’azienda è venduta in ambito concorsuale, si può contrattare con i sindacati per ridurre condizioni di lavoro o numero di addetti trasferiti, cosa che in una vendita “normale” sarebbe molto più difficile (il cessionario dovrebbe comunque prendere tutti i dipendenti e poi eventualmente licenziare con giusta causa economica). Nei settori in crisi, sovente l’accordo sindacale consente di trasferire solo parte della forza lavoro oppure di azzerare integrativi e premi per ripartire.

Responsabilità per debiti dell’acquirente: orientamenti giurisprudenziali recenti: Due pronunce di Cassazione del 2023 hanno chiarito aspetti cruciali sulla responsabilità del cessionario per i debiti aziendali:

  • Cass. civ. Sez. III, 22/11/2023 n. 32487: ha stabilito che i debiti inerenti a contratti aziendali in cui il cessionario è subentrato ex art. 2558 c.c., anche se maturati prima della cessione, non ricadono nella disciplina dell’art. 2560 co.2 c.c.. In altre parole, se il compratore prende in carico un contratto (ad es. una polizza assicurativa) e quel contratto ha generato debiti (premi non pagati) prima della cessione, quei debiti seguono il contratto e quindi diventano a carico del cessionario, senza bisogno di verificare se erano nei libri contabili. La logica: la responsabilità del cessionario, in tal caso, discende dalla successione nel contratto stesso, non dalle regole generali sui debiti di azienda. Questo è importante: l’acquirente non può dire “non pago i debiti pregressi di questo contratto perché non risultavano formalmente in contabilità”, se quel contratto (ad es. con un fornitore) lo ha preso in carico – allora deve onorarne anche gli arretrati. Quindi attenzione per l’acquirente: fare due diligence sui contratti per vedere se ci sono pendenze.
  • Cass. civ. Sez. III, 13/09/2023 n. 26450: ha affrontato il caso di un trasferimento di azienda meramente formale (società cedente e cessionaria di fatto riconducibili agli stessi soggetti). La Corte ha detto che 2560 co.2 c.c. si applica solo se c’è effettiva alterità tra cedente e cessionario. Se la cessione è solo un escamotage per spostare asset restando gli stessi proprietari (ad es. stessi soci, stessi amministratori), allora il cessionario risponde di tutti i debiti, anche non iscritti in contabilità. L’idea è: la norma che limita la responsabilità del cessionario ai soli debiti contabilizzati serve a tutelare un acquirente estraneo, che può fidarsi dei libri contabili; ma se l’acquirente è in realtà la stessa compagine che continua sotto altro nome, non c’è bisogno di tutelarla perché “già conosceva tutti i debiti” e non c’è alterità sostanziale. Questo principio è volto a impedire furbizie: non puoi fare una finta vendita alla tua stessa controllata per dire “i debiti che non ho registrato non li pago perché non risultano” – verresti considerato responsabile comunque. Per i debitori in crisi, questa pronuncia è un monito: cedere l’azienda a una società di comodo lasciando i debiti indietro non funzionerà se i soggetti sono riconducibili, perché i creditori potranno attaccare lo stesso anche il cessionario.

Vendita “esterna” vs “interna” e rischi di nullità/frode: Occorre distinguere quando la cessione avviene all’interno di una procedura (e allora è sorvegliata e difficilmente attaccabile salvo collusioni) da quando avviene al di fuori. Se un imprenditore tenta di vendere l’azienda privatamente a un terzo per disfarsi dei debiti senza passare per procedure, deve muoversi con estrema cautela per non incorrere in azioni revocatorie (se poi fallisce entro 2 anni, la vendita è atto a titolo oneroso che un curatore può revocare se fatto a prezzi non di mercato e con consapevolezza dello stato di insolvenza) o addirittura in responsabilità penale. Ad esempio, vendere l’azienda sottocosto ad un “prestanome” lasciando i creditori insoddisfatti può configurare bancarotta fraudolenta per distrazione. Ciò non significa che non si possa vendere l’azienda fuori da procedure: si può, ma serve trasparenza. Bisogna farlo preferibilmente con:

  • Perizia di stima del valore di mercato.
  • Pagamento del prezzo confluente ai creditori (magari attraverso un accordo contestuale con essi).
  • Coinvolgimento dei principali creditori nella definizione (o almeno notifica a loro, per esempio offrendo prelazione).
  • Evitare vendite a soggetti palesemente insolventi/inattendibili (il classico caso di cessione a un nullatenente poi irreperibile è visto come fraudolento).
    Se non si seguono queste cautele, il venditore rischia grosso: i creditori possono comunque chiederne il fallimento e far annullare la cessione come atto pregiudizievole, e in più il trasferimento spregiudicato configura elemento di reato. Ad esempio, vendere tutti i beni aziendali poco prima di fallire, incassare soldi e non destinarli ai creditori, è tipica bancarotta.

Affitto d’azienda come preludio alla cessione: Spesso nelle crisi si usa un contratto di affitto d’azienda per traghettare l’impresa verso la vendita. L’affitto permette a un terzo (affittuario) di gestire temporaneamente l’azienda pagando un canone, mantenendo l’azienda in esercizio, e poi magari prevedere un’opzione di acquisto (diritto di prelazione o opzione a fine locazione). Questa tecnica consente di “testare” l’acquirente: se è efficiente, l’azienda rimane sul mercato attiva e poi sarà più facile venderla. Inoltre, in procedure concorsuali, l’affitto d’azienda può evitare la dispersione nell’attesa della vendita definitiva. Dal punto di vista civilistico, l’affitto d’azienda comporta il passaggio dei dipendenti all’affittuario (in quanto trasferimento temporaneo di azienda) con applicazione art. 2112 c.c., mentre i debiti restano in capo al proprietario (per l’affitto c’è la solidarietà per i debiti del personale anteriori limitata al TFR in certi casi). L’affittuario deve gestire diligentemente e restituire l’azienda alla fine se non compra. Nelle crisi, spesso il contratto prevede che il canone d’affitto vada a costituire acconto sul prezzo di futura vendita. Ad esempio, in composizione negoziata, il tribunale può autorizzare l’affitto d’azienda come soluzione temporanea, con eventuale clausola di successiva cessione (e in caso di fallimento poi, quell’affitto permette di non interrompere l’attività e vendere meglio). L’immaginario “affitto con opzione di acquisto” funziona così: Tizio affitta la mia azienda per 1 anno, tiene i dipendenti, alla fine decide se compra al prezzo pattuito meno canoni già versati; se non compra, mi restituisce l’azienda (che a quel punto se io fallisco verrà liquidata, ma intanto ho guadagnato tempo o mantenuto valore). Questa formula è utile quando l’acquirente non è sicuro del tutto e vuole provare la redditività, oppure quando l’iter per una vendita immediata è lungo (es. attesa di autorizzazioni). Bisogna chiaramente disciplinare bene i termini per evitare contenziosi.

Chi compra aziende in crisi: Un breve cenno al “mercato” degli acquirenti:

  • Competitors strategici: aziende concorrenti o dello stesso settore che colgono l’occasione per acquisire una realtà in difficoltà, magari per espandere mercato, incorporare know-how o portafoglio clienti. Ad esempio, nel commercio una catena può rilevare i punti vendita di un concorrente fallito; nell’industria un player può acquisire l’impianto di un rivale insolvente.
  • Investitori finanziari specializzati (fondi di ristrutturazione): ci sono fondi d’investimento, società veicolo o gruppi di business angel che “comprano debiti” o aziende decotte per ristrutturarle e rivenderle. Spesso lavorano in tandem con procedure concorsuali, acquistando l’azienda a prezzo basso e assumendosi il turnaround.
  • MBO/MBI (management buy-out/in): a volte sono gli stessi manager o dipendenti dell’azienda in crisi che, supportati da investitori, rilevano l’impresa (MBO) o soggetti esterni manager che entrano (MBI). Ciò può avvenire specie in PMI dove c’è volontà interna di salvare il lavoro.
  • Società di “mergeri” di fine vita (anche dubbie): attenzione: esistono soggetti che pubblicizzano l’acquisto di società indebitate, spesso per pochi euro, promettendo di togliere il pensiero all’imprenditore. Molti di questi casi nascondono pratiche poco limpide: l’acquirente potrebbe essere un prestanome che porterà la società al fallimento aggravandone la situazione (magari commettendo reati), lasciando l’ex amministratore esposto a possibili azioni di responsabilità. È importante dunque, se si valutano offerte del genere, verificare l’affidabilità e il piano concreto dell’acquirente. Un professionista serio vi aiuterà a discernere tra un investitore credibile e un “sciacallo” che vuole approfittare. Come regola, diffidare di chi propone soluzioni miracolose tipo “cedici la tua srl coi debiti, pensiamo a tutto noi”: spesso il “pensare a tutto” può implicare far sparire documenti, non depositare bilanci e lasciare la società fantasma – condotte che possono ritorcersi contro l’ex amministratore o socio se configurano reati (ad es. bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto, o sottrazione di documenti contabili).

Schema riepilogativo – Effetti della cessione d’azienda su rapporti giuridici principali:

ProfiloRegola generale cessioneDeroghe/particolarità in crisi
Debiti aziendaliCedente resta obbligato. Cessionario risponde in solido solo per debiti risultanti da libri contabili obbligatori (art. 2560 c.c.).– In concordato/fallimento: cessionario non risponde dei debiti pregressi (acquista beni “puliti”). – Autorizzazione tribunale in comp. negoziata può esonerare cessionario da debiti antecedenti. – Debiti legati a contratti ceduti: cessionario ne risponde anche se anteriori (Cass. 32487/2023). – Cessione simulata (stessa compagine): cessionario risponde di tutti i debiti, anche non risultanti (Cass. 26450/2023).
Crediti aziendaliSi trasferiscono automaticamente al cessionario, salvo patto contrario (art. 2559 c.c.). Debitore ceduto liberato solo con consenso (art. 1260 c.c. ff.).– Nelle procedure, spesso i crediti sono incassati dalla massa fallimentare o concordataria e quindi eventuale patto di trasferimento avviene nell’ambito del piano. L’acquirente può acquisirli se previsto nel bando.
Contratti in corsoCessionario subentra nei contratti aziendali non personali (art. 2558 c.c.), salvo opposizione del terzo contraente entro 3 mesi.– Alcuni contratti possono prevedere clausole di cambio controllo (es. appalto pubblico) e necessitano consenso. – In concordato, possibile autorizzazione a scioglimento di alcuni contratti onerosi (art. 95 CCII) prima della cessione, per rendere l’azienda più appetibile.
DipendentiPassano automaticamente al cessionario mantenendo diritti, contratti collettivi, anzianità (art. 2112 c.c.). Cedente e cessionario solidalmente responsabili per i crediti di lavoro maturati prima della cessione.– Concordato continuità e accordi ristrutturazione con prosecuzione attività: applica art.2112, ma possibile accordo sindacale per modificare condizioni di lavoro in senso peggiorativo se finalizzato a salvare occupazione (nuovo art. 47, co.4-bis L.428/90). – Fallimento/concordato liquidatorio (cessata attività): cessionario libero di selezionare e negoziare nuove condizioni con dipendenti, previo confronto sindacale (art. 47, co.5 L.428/90). Il trasferimento avviene comunque, ma 2112 commi 1,3,4 possono essere derogati da accordo sindacale (licenziamenti/recessi incentivati possibili). – Fondo di garanzia INPS interviene per TFR e ultime 3 mensilità in caso di insolvenza cedente (quindi cessionario spesso prende dipendenti col loro TFR azzerato dall’intervento del Fondo, evitando oneri immediati).
Fisco e previdenzaIl cessionario risponde in solido col cedente di alcuni debiti tributari e contributivi ex art.14 D.Lgs. 472/1997, entro limitate soglie e salvo certificato liberatorio (in pratica, per evitare che cedendo l’azienda il fisco perda garanzie: è responsabilità per sanzioni e imposte non pagate limitata al valore dell’azienda).– In caso di cessione in procedure concorsuali, la responsabilità solidale fiscale non si applica (giurisprudenza la esclude se cessione autorizzata dal giudice concorsuale). Comunque, prudenti acquirenti richiedono certificato dei carichi fiscali pendenti prima della cessione: se l’Agenzia Entrate non risponde entro 40 giorni, il cessionario è esonerato da obblighi di pagamento dei debiti tributari del cedente oltre valore di quanto acquisito.

Questa tabella evidenzia perché per l’acquirente è molto preferibile comprare un’azienda in crisi attraverso un contesto concordatario o autorizzato, piuttosto che con una trattativa privata al di fuori: nel primo caso può ottenere liberatorie ampie dai debiti pregressi e flessibilità sui dipendenti, nel secondo caso si carica rischi di successione (salvo transazioni specifiche con i creditori).

Documentazione e due diligence: Chi vende la propria azienda in crisi dovrà preparare un memorandum informativo e consentire all’acquirente di fare una due diligence accurata. Nascondere problemi (es. cause legali pendenti, passività fuori bilancio, inquinamenti ambientali) è controproducente: emergeranno e comprometteranno la vendita, oppure, se scoperte dopo, genereranno contenzioso (nullità/annullamento per dolo, ecc.). Meglio mettere le carte in tavola e semmai riflettere quei rischi nel prezzo di vendita. Dal lato venditore-debitore, è bene anche ottenere eventuali liberatorie personali: ad esempio, se aveva firmato fideiussioni su mutui e l’azienda viene venduta a un terzo che se ne accolla il pagamento, occorre il benestare della banca per liberare l’ex socio garante (altrimenti la banca può escutere il vecchio garante anche post-cessione).

In ultimo, ricordiamo una cosa: la vendita dell’azienda in crisi non coincide automaticamente con la vendita della “società” (persona giuridica). Spesso, infatti, il compratore vuole l’azienda (asset) ma non la società in sé, per non assumersi potenziali passività nascoste (fiscali, legali) legate alla storia pregressa. Dunque è frequente che la struttura sia: la società Alfa Srl (indebitata) trasferisce l’azienda Beta (i suoi beni e contratti) a Gamma Spa; Alfa Srl resta come “scatola” con i debiti e poi verrà liquidata/fallita. In tal modo Gamma Spa non ha le responsabilità di successione universale. Questo però, come detto, dev’essere orchestrato legalmente (tramite concordato o accordi), altrimenti i creditori di Alfa contesterebbero l’operazione come lesiva. Alternativamente, se l’acquirente invece compra direttamente le quote o azioni della società debitrice, allora subentra nella compagine societaria ma la società rimane la medesima obbligata verso i creditori (che quindi non perdono diritti, però confidano che il nuovo proprietario apporti risorse). Tale soluzione (vendere le quote) è più semplice formalmente ma meno rassicurante per l’acquirente, che eredita tutto lo “scheletro” della società con possibili sorprese (è come prendere un vaso di Pandora). Perciò, vendere le quote sociali conviene se l’acquirente è disponibile a farsi carico di fare poi lui la pulizia (magari rinegoziando i debiti post-acquisizione) ed è spesso praticata quando il venditore non ha tempo/voglia di seguire procedure e l’acquirente è un soggetto specializzato disposto a correre i rischi (ad esempio società che comprano srl decotte per poi portarle in concordato semplificato da fuori, o per fonderle con altre, etc.).

Nel prossimo capitolo vedremo proprio alcune simulazioni pratiche di operazioni di cessione di aziende in crisi, per mettere insieme tutti questi concetti in scenari concreti.

3. Simulazioni pratiche: casi di aziende in crisi e modalità di vendita a terzi

In questa sezione presentiamo alcune casistiche esemplificative, ispirate a situazioni reali, di imprese in stato di crisi e delle possibili strategie di cessione. Ogni simulazione descrive lo scenario dell’azienda (forma giuridica, settore, entità dei debiti), le opzioni valutate, lo strumento scelto per la vendita e il suo esito. Scopo di queste simulazioni è mostrare in pratica come i diversi istituti e accorgimenti visti finora trovino applicazione, con numeri semplificati per chiarezza.

3.1 Caso Alfa S.r.l. – Concordato preventivo con continuità indiretta e cessione ramo d’azienda

Scenario: Alfa S.r.l. è una società a responsabilità limitata operante nel settore manifatturiero tessile (confezione abbigliamento). Ha 80 dipendenti e uno stabilimento di proprietà. A causa della perdita di mercati esteri e investimenti sbagliati, Alfa accumula debiti per 4 milioni € (1 mln con banche per mutui e fidi, 500k fornitori tessuto, 500k fornitori servizi, 300k debiti tributari tra IVA e INPS, il resto verso parti correlate e altri). L’attivo tra immobili e macchinari è modesto; l’unico grande valore è il “know-how” e la forza lavoro qualificata con commesse ancora in corso per clienti del lusso. Alfa è in stato di insolvenza: non paga più i fornitori da mesi e ha rate scadute col banco. Un concorrente internazionale, Beta S.p.A., fiuta l’opportunità di acquisire la base produttiva di Alfa (mano d’opera specializzata e contratti con brand importanti) per integrarla nel proprio gruppo.

Opzioni valutate: Alfa considera: (a) vendere l’intera società (quote) a Beta; (b) vendere l’azienda o un ramo a Beta; (c) tentare un risanamento autonomo. L’opzione (c) pare difficile per mancanza di capitali freschi. Beta inizialmente offre 1 milione € per rilevare il tutto, ma vuole un’azienda “pulita da debiti” e ridurre il personale a 50 unità. Acquistare le quote significherebbe per Beta restare con Alfa Srl e tutti i suoi debiti (non accettabile). Quindi Beta preferisce un asset deal: acquisterebbe o affitterebbe il ramo sano (macchinari, contratti di fornitura, dipendenti chiave) e lascerebbe i debiti in Alfa Srl. Alfa e Beta decidono di comune accordo di percorrere la via del concordato preventivo con continuità indiretta: in questo modo Beta può subentrare rilevando formalmente il ramo d’azienda e Alfa può liberarsi dei debiti residui. Coinvolgono consulenti legali in diritto concorsuale e il commercialista di Alfa per impostare la manovra.

Strumento adottato: Alfa presenta subito domanda di concordato “in bianco” al tribunale per congelare la situazione (evitando che i fornitori pignorino i conti). Ottiene misure protettive. Entro 4 mesi, deposita il piano concordatario: prevede la cessione del ramo produttivo (stabilimento, macchinari, contratti commerciali principali, 50 dipendenti su 80) a Beta S.p.A. per il prezzo di 1,2 milioni € (Beta nel frattempo, vista la situazione di concordato, ha alzato leggermente l’offerta e accettato di assumere 50 lavoratori). Gli altri 30 dipendenti saranno licenziati ma con accesso a CIGS e Naspi, e Beta si è impegnata a dare priorità se in futuro servono. Il piano propone di pagare integralmente i debiti privilegiati (banche prendono 100% su mutui assistiti da ipoteca sull’immobile, erario e INPS 100% su quote privilegiate) e di pagare i chirografari (fornitori) al 40%. Le risorse per far ciò: 1,2 mln € da Beta per il ramo + 0,3 mln dalla vendita dell’immobile (che Beta non vuole, verrà venduto separatamente ad un fondo immobiliare) + 0,2 mln liquidi in cassa generati dall’esercizio provvisorio. Totale 1,7 mln € da distribuire su circa 4 mln di debiti, di cui i privilegiati assorbono ~0,9 mln e i chirografari 0,8 mln (che su 2 mln di crediti chirografari fa circa 40%). Un professionista indipendente attesta che il piano è fattibile e che i creditori prendono più che in fallimento (in fallimento stimati 15-20%).

Procedura e outcome: Il tribunale ammette Alfa al concordato. Autorizza immediatamente la stipula di un contratto di affitto d’azienda a favore di Beta, per evitare che in attesa dell’omologa l’azienda si fermi. Beta inizia a gestire il ramo (produzione continua, clienti contenti, si evita la dispersione). Il contratto di affitto prevede un canone mensile 10k €, imputato poi a conto prezzo se si farà la cessione. Viene effettuata una procedura competitiva per la cessione del ramo: Beta è offerente “base”, il commissario pubblica un annuncio su quotidiani economici e porta telematica, eventuali terzi hanno 30 giorni per farsi avanti migliorando offerta. Nessuno presenta offerte (il settore è di nicchia e Beta era già il soggetto più ovvio). Quindi Beta rimane aggiudicataria per 1,2 mln €. I creditori di Alfa (soprattutto i fornitori) si accorgono che se Beta non comprasse, Alfa fallirebbe e loro prenderebbero forse il 5-10%. Votano a larga maggioranza al concordato (anche perché Beta in incontri informali garantisce continuità di ordini ad alcuni di loro). Il tribunale, verificato rispetto cause prelazione e mancanza di contestazioni sostanziali, omologa il concordato. Subito dopo, Alfa e Beta perfezionano l’atto di cessione del ramo dal valore di 1,2 mln: Beta paga la differenza tenendo conto dei canoni d’affitto già corrisposti (che erano 60k per 6 mesi, scalati dal prezzo, quindi versa ulteriori 1,14 mln). Con quei fondi Alfa in concordato paga i creditori secondo il piano: banche ipotecarie 100%, dipendenti TFR arretrati 100%, fisco 100% su IVA privilegiata, fornitori 40%. Dopo un anno, Alfa S.r.l. chiude la procedura e – a seguito di integrale esecuzione – viene cancellata (liquidata senza attivo residuo). I soci di Alfa escono di scena senza nulla (il capitale era stato eroso, niente rimborso per loro). Beta S.p.A. invece integra con successo il ramo acquisito: reimpiega 50 maestranze, porta a termine le commesse, e beneficia del fatto di aver ottenuto asset per un valore forse superiore a 1,2 mln, senza doversi sobbarcare i debiti di Alfa. I restanti 30 dipendenti di Alfa ricevono TFR dal Fondo di garanzia e trovano in parte impiego altrove (Beta ne riassume 5 di loro dopo 8 mesi, appena l’attività riprende fiato).

Considerazioni: Questo caso dimostra un concordato “win-win”: il debitore ha salvato sostanzialmente il business, pur perdendo la proprietà; i creditori hanno ottenuto più del minimo legale e in tempi brevi; l’acquirente ha espanso la sua attività acquisendo un ramo pulito dai debiti. Il costo è stato la riduzione di personale (comunque gestita con ammortizzatori sociali) e i fornitori hanno dovuto accettare un taglio (60% perso) ma era il male minore. Giuridicamente si sono attivati tutti i meccanismi di tutela: autorizzazione preventiva, gara, omologa. In assenza di tali meccanismi, se Alfa avesse venduto sottobanco il ramo a Beta lasciando i debiti, con ogni probabilità i creditori avrebbero fatto fallire Alfa e avrebbero forse tentato di far dichiarare inefficace o revocare la vendita (sostenendo che era a prezzo vile). Così invece è tutto legittimo e definitivo.

3.2 Caso Beta SNC – Accordo di ristrutturazione agevolato con cessione dell’azienda a terzi

Scenario: Beta SNC è una società in nome collettivo di due soci, operante nel settore edile (ristrutturazioni di edifici). Ha pochi dipendenti (5 operai) ma molte fideiussioni personali dei soci verso banche e fornitori. Debiti totali: ~800k € (300k banca per scoperto e mutuo, 200k fornitori materiali, 50k leasing macchinari, 100k debiti tributari, 50k altri). Attivo: attrezzature modeste, qualche credito da lavori non incassati (difficili da recuperare), nulla di immobile. L’impresa di fatto non ha più liquidità, è in crisi profonda e diversi creditori hanno messo in mora. Un competitor locale, Gamma Srl, propone di acquisire l’avviamento di Beta (in pratica, di rilevarne i contatti commerciali e assumere i 5 operai), perché nel territorio Beta era nota e ha alcuni contratti quadro ancora pendenti. Gamma però non vuole prendere i debiti pregressi. I soci di Beta, temendo il fallimento (che travolgerebbe anche loro personalmente data la SNC), cercano una soluzione concordata.

Opzione scelta: Visto che l’azienda Beta come insieme non ha un grande valore tangibile, e la gamma di creditori non è vastissima (banca, principali fornitori), si opta per un accordo di ristrutturazione dei debiti agevolato. Beta SNC assisterà Gamma Srl nell’acquisizione dei suoi elementi operativi, ma formalmente come farlo? Decidono di:

  • Trasferire i contratti d’appalto in corso e assumere i dipendenti: Gamma Srl stipula con Beta un contratto per subentrare nei lavori in corso (si configura come cessione di ramo d’azienda, visto che di fatto Beta cede la commessa e il team relativo).
  • Gamma versa a Beta un corrispettivo simbolico 50k € per queste commesse e attrezzature.
  • Con quei 50k (più 50k che i soci raccolgono vendendo un immobile personale), Beta cerca di soddisfare almeno in parte i creditori estranei all’accordo.
  • Viene negoziato un accordo con la banca (detentrice ~40% debiti) e i due fornitori principali (che insieme fan 20%): essi accettano di ridursi del 30% i loro crediti e di essere pagati il restante 70% in 2 anni grazie a garanzie personali aggiuntive di Gamma (Gamma si impegna verso la banca a rifinanziare Beta per quei pagamenti).
  • I restanti creditori (fornitori minori e Fisco): Beta intende pagarli integralmente subito, con i fondi disponibili. Si tratta di 150k € circa che verranno coperti da quei 100k (€50k di Gamma + €50k soci) più un piccolo finanziamento di Gamma Srl post-acquisizione.

I numeri: accordo coinvolge il 60% dei creditori (banca+principali fornitori) con stralcio 30%. Quorum sufficiente per accordo agevolato (basta 30%, qui c’è ben oltre). I creditori non aderenti (fisco 100k, piccoli fornitori 50k) saranno pagati integralmente alla data di omologa – condizione necessaria ex art. 60 CCII.

Procedura e esito: Beta SNC deposita domanda di omologazione accordo di ristrutturazione agevolato con attestazione di un esperto che dichiara che i non aderenti verranno soddisfatti per intero immediatamente e che l’accordo è sostenibile (in quanto Gamma Srl ha fornito lettera di impegno a supportare). Il tribunale non ha bisogno di misure protettive (Beta confida che i piccoli creditori non avviano azioni essendo in odore di pagamento completo). In udienza, i creditori aderenti confermano l’accordo. I creditori estranei in realtà nemmeno si oppongono perché ricevono quanto dovuto. Il tribunale omologa l’accordo. Appena omologato:

  • Gamma Srl perfeziona la cessione del “ramo” Beta: assume i 5 operai (continuando i cantieri), rileva attrezzi e automezzi (pochi).
  • Beta SNC incassa i 50k € e immediatamente vi aggiunge i 50k € dei soci e paga i creditori estranei al 100% (Agenzia Entrate e fornitori minori).
  • Resta l’accordo coi creditori aderenti: Beta, grazie anche a un contributo finanziario rateale di Gamma (che in pratica “sta comprando” l’avviamento), paga in 24 mesi il 70% a banca e fornitori principali come previsto. Gamma ha interesse a farlo per mantenere buon rapporto su piazza e perché magari ha contrattualmente previsto che se Beta inadempie, gamma risponde (sicuramente la banca avrà preteso anche la garanzia dei soci di Beta, ma qui i soci ormai dipendono da gamma quindi gamma di fatto li solleva).
  • Dopo due anni, Beta SNC ha chiuso tutti i pagamenti. La società a quel punto è vuota (ha ceduto attività, pagato debiti). I soci ne deliberano lo scioglimento e la cancellazione.
  • I soci hanno perso soldi (hanno messo 50k di tasca per chiudere), ma evitato la rovina totale: senza quell’accordo, la banca avrebbe escusso la fideiussione per intero 300k ad esempio. Inoltre, nessun fallimento li ha colpiti, il che li preserva da misure concorsuali personali.
  • Gamma Srl ha speso in totale 100k (50 corrispettivo + 50 sostegno indirettamente per pagare estranei), ma ha ottenuto i contratti di Beta e i suoi operai, espandendo il business. Con quei cantieri e nuovi che ha preso grazie alla reputazione di Beta, stima di ricavare utile sufficiente a giustificare l’operazione.
  • La banca ha accettato uno stralcio 30%, preferendo 210k su 300k subito e in 2 anni piuttosto che forse nulla se Beta falliva. I fornitori principali hanno salvato un cliente (Gamma promette di lavorare con loro in futuro) e incassato 70% invece di un incerto fallimento (dove edili di solito prendono il 0-10%).

Considerazioni: Questo esempio mette in luce un accordo di ristrutturazione agevolato: Beta ha ridotto i debiti con solo parte dei creditori (in valore oltre 60%) e ha liquidato tutti gli altri. L’azienda è stata ceduta a gamma al di fuori di un concorso formale (no fallimento, no concordato), ma con l’ombrello dell’omologazione che dà sicurezza giuridica. Se Beta fosse fallita, i soci sarebbero stati illimitatamente responsabili, probabilmente perdendo anche la casa; così invece, mettendo qualcosa e coinvolgendo un competitor, si sono salvati parzialmente. L’accordo è costato loro, ma evitato il default completo. Questo caso evidenzia anche il tema delle società di persone: i soci illimitatamente responsabili di Beta avevano ancora più incentivo a trovare un’intesa, perché in SNC il fallimento avrebbe travolto pure le persone fisiche. Strumenti come l’accordo di ristrutturazione li hanno aiutati a gestire la crisi senza arrivare a quel punto.

3.3 Caso Gamma S.p.A. – Composizione negoziata con cessione d’azienda e concordato semplificato finale

Scenario: Gamma S.p.A. opera nel settore commercio al dettaglio (catena di 10 negozi di elettronica). Ha 50 dipendenti, debiti per 5 milioni (soprattutto verso fornitori di elettronica e canoni di affitto arretrati, più 1 mln di debiti bancari). Purtroppo, il passaggio all’e-commerce l’ha sorpresa impreparata e accumula perdite. Gamma vorrebbe uscire dal mercato, ma i creditori incalzano e non può pagare TFR e debiti. Un potenziale acquirente, Delta Srl, giovane società specializzata in vendite online, è interessato a rilevare 3 dei 10 punti vendita di Gamma (quelli più centrali) per convertirli in showroom pick-up per i suoi prodotti. Delta però non vuole l’intera struttura di Gamma (scarsamente efficiente), né i suoi debiti.

Azione intrapresa: Gamma S.p.A. attiva la Composizione Negoziata della Crisi nominando un esperto indipendente. Ottiene misure protettive dal tribunale (blocco azioni esecutive). Con l’aiuto dell’esperto, contatta vari attori per piazzare gli asset:

  • Con Delta Srl negozia la vendita di 3 rami d’azienda (i negozi migliori, comprensivi dei relativi 15 dipendenti, merce in magazzino locale, contratti di affitto che Delta intende mantenere) per 500k €.
  • Con un altro operatore locale di franchising, discute di cedere altri 2 negozi più piccoli (non comprati ma presi in affiliazione).
  • Gli altri 5 negozi sono in zone periferiche e nessuno li vuole; Gamma pianifica di chiuderli e liquidare le scorte, licenziando 20 dipendenti (con l’esperto valuta l’uso di CIG e Naspi).
  • I restanti 15 dipendenti dei negozi ceduti a Delta e franchising passerebbero ai rispettivi cessionari ex art.2112.
  • Il prezzo complessivo atteso dalle cessioni è circa 600k (500k Delta + 100k altro per licenze e arredi).
  • Gamma ha anche un magazzino centrale con prodotti: decide di fare una vendita promozionale rapida per incassare liquidità prima di chiudere (incassa 300k).
  • Totale risorse stimate: 900k €.
  • Debiti totali sono 5 mln: chiaramente 900k non bastano a pagare tutto in pari grado. L’esperto vede che i fornitori potrebbero aspettarsi di prendere qualcosa, ma non 100%. Prova a mediare una soluzione: suggerisce a Gamma di considerare un concordato semplificato liquidatorio post negoziazione se accordi stragiudiziali non sono fattibili. Infatti, convincere i tanti fornitori in negoziazione uno ad uno pare arduo (Gamma ha 50 fornitori principali e decine minori).
  • Nessun accordo viene raggiunto con creditori durante la negoziazione (alcuni chiedono pagamento integrale, altri minacciano cause).
  • Tuttavia, grazie all’esperto, Gamma riesce a completare la vendita a Delta dei 3 rami e l’altra cessione minore, durante la pendenza della negoziazione con autorizzazione del tribunale ex art.22 CCII. Il tribunale di competenza autorizza la cessione ritenendola funzionale e essendo stato rispettato il principio di competitività (l’esperto aveva fatto contattare altri potenziali acquirenti, nessuno offriva di più di Delta). Nel decreto, il tribunale dispone che Delta non risponde dei debiti aziendali pregressi di Gamma e che il ricavato (600k) sia vincolato al soddisfacimento dei creditori Gamma secondo un futuro piano.
  • A questo punto, Gamma S.p.A. ha venduto i suoi asset significativi; l’attività residua è ferma. La composizione negoziata viene dichiarata conclusa senza accordo con i creditori. Gamma si ritrova con 900k di cassa (600k cessioni + 300k svendite), 5 mln di debiti e 20 dipendenti da licenziare.

Concordato semplificato: Per evitare la liquidazione giudiziale classica (fallimento), Gamma ricorre alla possibilità offerta dall’art. 25-sexies CCII di un concordato semplificato per la liquidazione. Presenta un ricorso in tribunale proponendo di distribuire ai creditori quei 900k incassati, che rappresentano circa il 18% dei debiti chirografari (i debiti privilegiati per fortuna non c’erano molti, se non qualche TFR per i licenziati e poco altro). Il piano di concordato semplificato allegato prevede:

  • Pagamento di: TFR residui e mensilità ai 20 dipendenti licenziati (150k, privilegio), soddisfatti per intero; Agenzia Entrate per IVA privilegiata 50k, intero; il restante ~700k da distribuire pro-quota ai fornitori e chirografari (che avevano 4 mln di crediti, dunque ~17,5% recupero).
  • Non c’è proposta di continuità, è pura liquidazione, ma già attuata in gran parte: il liquidatore nominato dovrà solo distribuire il denaro e chiudere eventuali contenziosi.
  • Il tribunale convoca i creditori per sentire eventuali opposizioni. Molti fornitori sono furibondi (prenderanno briciole), ma l’esperto nominato come ausiliario nel concordato testimonia che la vendita dei rami è avvenuta al meglio, e che in caso di fallimento i creditori avrebbero preso forse il 10% (meno, considerando i costi di procedura e il rischio ribassi su vendite).
  • Il tribunale omologa il concordato semplificato, rilevando che la procedura è stata correttamente preceduta da negoziazione, che i criteri legalità sono rispettati (best interest test: i creditori prendono il 18% vs 10% stimato in fallimento, quindi meglio).
  • Un liquidatore viene nominato per ripartire il patrimonio (900k). In pochi mesi i creditori ricevono il riparto finale del 17,5%.
  • Gamma S.p.A. viene cancellata. I suoi amministratori ottengono l’esdebitazione residua (anche se spa non la diresti, in realtà le società non necessitano esdebitazione in senso personale, semplicemente cessano di esistere con debiti insoddisfatti inesigibili).

Considerazioni: In questa simulazione, la combinazione composizione negoziata + vendite autorizzate + concordato semplificato ha consentito di:

  • Vendere rapidamente gli asset migliori (cosa che in un fallimento sarebbe stata più lenta e magari avrebbe fatto perdere il deal con Delta).
  • Assicurare a Delta l’azienda libera da debiti e con i lavoratori trasferiti in regola.
  • Liquidare poi il restante in modo ordinato, senza voto dei creditori (che oggettivamente avrebbero bocciato un concordato al 18% di soddisfo se avessero potuto votare).
  • I creditori chirografari hanno dovuto subire una falcidia pesante, ma il giudice ha potuto imporla data la mancanza di alternative migliori: se uno di essi provasse a lamentarsi, il fallimento gli avrebbe dato ancora meno. Questo è proprio lo scenario tipico in cui il concordato semplificato è utile: evitare i costi e i tempi di un fallimento quando l’attivo è già monetizzato e c’è solo da distribuire.
  • Dal punto di vista di “a chi rivolgersi”: Gamma ha dapprima coinvolto l’esperto nominato (quindi l’istituzione camerale), poi un eventuale commissario nel concordato semplificato (in realtà nominano direttamente il liquidatore dopo omologa). Ha anche coinvolto i sindacati per la mobilità dei 20 licenziati (come previsto, c’è stato accordo per la loro uscita con un piccolo incentivo a carico di Delta che li ha riassorbiti in parte).
  • Per Delta Srl è stato ottimo: ha preso 3 negozi, con dipendenti, a 500k €. In fallimento avrebbe potuto provare a comprarli forse a meno, ma avrebbe dovuto contrattare coi curatori e magari perdere tempo e personale. Così li ha avuti con un contratto in bonis.

Questa simulazione mette in luce che anche in situazioni estreme si può trovare un percorso guidato e legale per vendere il vendibile e chiudere. Certo, i creditori non sempre saranno felici, ma la legge bilancia l’interesse generale evitando soluzioni peggiori (il 18% è meglio di zero). Chi ha comprato ha ottenuto quello che voleva in tempi certi (6 mesi circa per tutto il percorso).

3.4 Caso Delta (ditta individuale) – Sovraindebitamento con liquidazione controllata e salvaguardia parziale dell’avviamento

Scenario: Delta è una ditta individuale (impresa individuale) operante nel settore servizi di pulizia. Ha debiti per 200k € (soprattutto leasing per macchinari di pulizia industriale e debiti verso fornitori di prodotti). Non ha dipendenti (usa spesso subappaltatori occasionali). Purtroppo, ha perso appalti e non riesce più a stare a galla, i creditori minacciano decreto ingiuntivo. Un concorrente, Epsilon Coop, sarebbe interessato a prendere alcuni contratti di Delta (pulizia di un grande condominio e di un ospedale minore) e magari qualche attrezzatura, ma formalmente non c’è un’azienda con dipendenti da trasferire. Inoltre, Delta è “persona fisica”, quindi non fallisce: rientra nelle procedure di sovraindebitamento (ora chiamate concordato minore o liquidazione controllata).

Opzione attuata: Delta si rivolge a un OCC (Organismo di Composizione Crisi) per gestire la sua situazione. Insieme decidono di presentare un concordato minore (procedura per piccoli imprenditori non fallibili) proponendo:

  • che Epsilon Coop subentri nei contratti principali e paghi un corrispettivo di 30k € per le attrezzature e il pacchetto clienti (di fatto una cessione di quell’avviamento residuo),
  • che Delta liquidi anche un magazzino di materiali per altri 10k,
  • così da offrire ai creditori circa 40k su 200k (20%). Non avendo beni personali di rilievo, questo è il meglio che può offrire.

Tuttavia, l’ospedale come committente preferisce indire una nuova gara piuttosto che trasferire il contratto a Epsilon (questioni burocratiche), quindi quell’accordo salta. Delta allora opta per la liquidazione controllata del sovraindebitato (ex L.3/2012, ora integrata in CCII): consegna i suoi beni (poche attrezzature e crediti) a un liquidatore nominato dal giudice, il quale vende all’asta le macchine di pulizia. Epsilon partecipa e acquista quei macchinari per 25k (li voleva, e contatta il condominio offrendo di proseguire il servizio con loro – ottiene quell’appalto). I creditori di Delta ricevono quel poco ricavato (25k) e poi Delta, dopo chiusura, chiede l’esdebitazione integrale dei debiti residui.

Considerazioni: Qui la vendita dell’azienda in crisi di fatto non è avvenuta come entità unitaria, perché essendo impresa individuale senza dipendenti, si è frammentata: il competitor ha preso i beni e poi il mercato libero gli ha permesso di prendersi i clienti (fuori procedura). I creditori non hanno recuperato quasi nulla, ma la legge per piccoli sovraindebitati consente comunque di liberarsi dai debiti residui se hanno cooperato. L’imprenditore Delta può magari farsi assumere da Epsilon come responsabile di cantiere (è ipotesi comune, l’ex piccolo imprenditore fallito che va a lavorare per chi gli ha preso il business).

Questo scenario, un po’ triste, evidenzia che per le ditte individuali spesso la “vendita” dell’attività coincide con svendere i beni e farsi assorbire dal più forte, perché non ci sono meccanismi societari da sfruttare. La composizione negoziata non è riservata alle imprese maggiori, anche un’impresa sotto soglia può teoricamente accedervi, ma di solito sono casi in cui ci sono comunque lavoratori o azienda strutturata. Per un microimprenditore, conviene spesso cedere quel che può e usare sovraindebitamento per chiudere i conti.

4. Aspetti specifici per forme societarie e settori economici

Come richiesto, dedichiamo ora un’analisi alle diverse tipologie di impresa (società di capitali, di persone, ditte individuali) e alle particolarità di alcuni settori economici rappresentativi (commercio, edilizia, manifattura, servizi). Queste variabili influenzano quale strumento scegliere e come impostare la vendita dell’azienda in crisi, nonché a chi rivolgersi.

4.1 Tipologie societarie e impatto sulla gestione della crisi

Società a responsabilità limitata (SRL) e Società per azioni (SPA): Le società di capitali, avendo personalità giuridica e autonomia patrimoniale perfetta, offrono un vantaggio fondamentale: i soci non rispondono dei debiti sociali (salvo garanzie personali prestate). Dunque, vendere un’azienda in crisi di una SRL/SPA tramite la cessione dei suoi asset o anche delle quote significa che i debiti restano confinati nella società. Gli acquirenti preferiscono spesso non comprare la società “intera” (quote/azioni) ma solo l’azienda, per non ereditare passività occulte. Strumenti più adatti: Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, composizione negoziata – tutte queste procedure riguardano la società in sé. I soci possono anche valutare di vendere direttamente le loro quote societarie a un soggetto terzo: questo è di fatto un passaggio di controllo, non modifica i rapporti coi creditori (la società resta obbligata). Una SRL in crisi a volte viene ceduta per 1 euro a un investitore che proverà a risanarla; attenzione però: se l’investitore è improvvisato o un prestanome, gli amministratori uscenti rischiano coinvolgimento in future procedure concorsuali (ad esempio, se lasciano la società a un nullatenente che la manda in bancarotta fraudolenta, il curatore potrebbe chiamare in causa anche i vecchi per concorso). Quindi, vendere le quote è consigliabile solo se l’acquirente è affidabile e ha un piano serio. Altrimenti meglio procedere ad una liquidazione trasparente con cessione di beni in concorso.

Società di persone (SNC, SAS): Qui la situazione è più delicata perché i soci (tutti nella SNC, solo gli accomandatari nella SAS) sono illimitatamente e solidalmente responsabili per le obbligazioni sociali. Ciò implica:

  • Se la società è insolvente, i creditori possono aggredire direttamente il patrimonio personale dei soci (dopo escussione del patrimonio sociale, ma spesso questo è minimo).
  • Vendere l’azienda della società di persone non libera i soci dai debiti già maturati: come visto, persino cedendo l’azienda, i creditori possono chiedere ai soci il pagamento dei debiti che erano in capo alla società.
  • Spesso la soluzione adottata è quella di trasformare la società di persone in società di capitali prima di qualunque operazione, per limitare la responsabilità futura. Tuttavia, la trasformazione effettuata in imminenza di insolvenza può essere considerata inopponibile ai creditori (art. 2500-octies c.c. tutela i creditori antecedenti).
  • Quindi, un socio di SNC/SAS in crisi che voglia “vendere” la sua impresa deve negoziare anche la posizione personale. Ad esempio: nella simulazione Beta SNC, i soci hanno partecipato all’accordo e messo risorse proprie. Non basta vendere l’azienda e scappare, perché i creditori inseguirebbero i soci per i debiti restanti.
  • Se si trovasse un acquirente interessato all’attività, una via è: costituire con l’acquirente una nuova SRL che rileva l’azienda, e contestualmente fare un accordo con i creditori in cui i soci di SNC pagano qualcosa anche personalmente (magari con la nuova SRL che aiuta). Spesso i creditori delle SNC vogliono garanzie aggiuntive dagli ex-soci.
  • Procedure concorsuali: Le SNC e SAS (non piccolissime) sono soggette a concordato preventivo e liquidazione giudiziale come le società di capitali. In caso di fallimento di una SNC/SAS, falliscono anche i soci illimitatamente responsabili. Dunque la posta in gioco è più alta: i soci tenderanno ad attivarsi presto per evitare il fallimento personale. Il concordato preventivo è utilizzabile ma peculiare: i creditori sociali sono anche creditori personali dei soci, quindi i soci normalmente devono includere nel piano un apporto esterno (spesso si impegnano a contribuire con patrimonio personale) per convincere i creditori.
  • Nell’ottica di vendita dell’azienda di una SNC, la strada ottimale è negoziare un accordo di ristrutturazione: vincolare la maggioranza dei creditori e pagare i restanti integralmente. Così i soci evitano il fallimento.
  • Cessione quote: cedere le quote di una SNC è possibile tecnicamente (cambiano i soci) ma i nuovi soci rispondono per le obbligazioni future, mentre i soci uscenti restano responsabili per quelle pregresse (fino a pubblicazione della cessazione in CCIAA e anche dopo, per quelle sorte prima). Difficilmente qualcuno acquista quote di una SNC indebitata, se non per trasformarla in Srl (ma avrebbe comunque i debiti da gestire).
  • Quindi, a chi rivolgersi: soci di SNC in crisi faranno bene a contattare specialisti in procedure di sovraindebitamento (possono anche accedere a concordato minore o liquidazione controllata in quanto imprenditori minori se sotto soglie, estinguendo la società; oppure usare accordi di ristrutturazione con efficacia estesa). Un bravo professionista concorsuale troverà come includere i soci nella trattativa (spesso dovranno cedere beni personali).

Imprese individuali: Come visto nel caso Delta, l’imprenditore individuale coincide con la persona fisica. Non c’è separazione di patrimoni: tutti i suoi beni, aziendali e personali, rispondono. E lui stesso è il titolare di autorizzazioni, contratti, ecc. Vendere un’azienda individuale significa vendere quel complesso, ma i debiti restano personali del titolare. A differenza di una società di capitali che, una volta venduta l’azienda e ripartito l’attivo, può anche fallire e scomparire esdebitandosi, la persona rimane debitore a vita finché non dichiara la propria insolvenza in tribunale e ottiene l’esdebitazione. Dunque:

  • L’imprenditore individuale in crisi può rivolgersi all’OCC (Organismo Composizione Crisi) della sua provincia per valutare un Piano del consumatore (se i debiti sono per metà privati) o un concordato minore (se prevalentemente dell’impresa).
  • In tali procedure, come conclusione, può essere concesso l’esdebitamento: liberazione dei debiti residui.
  • La vendita dell’azienda può essere parte di queste soluzioni: tipicamente, si propone di vendere l’unica azienda e usare il ricavato per pagare i creditori in percentuale, chiedendo la cancellazione del restante.
  • Settori come il commercio al dettaglio, artigianato, servizi personali (tipici delle ditte individuali) non vedono spesso “grandi acquirenti” per l’azienda in blocco. È più facile che si vendano i beni e la clientela si disperda o venga presa da competitor senza formalità. Ad esempio un negozio al dettaglio di abbigliamento in crisi: se cede il ramo, l’acquirente prende merce e arredo e magari assume i commessi, ma i debiti col grossista restano al vecchio proprietario. È complicato, ma se il negoziante fa una liquidazione del magazzino e paga quel che può, dopodiché chiude e chiede l’esdebitazione, è un epilogo plausibile.
  • Di solito, l’avviamento di microimprese è indissolubilmente legato alla persona del titolare (es: un idraulico in proprio). Non c’è un asset vendibile separatamente. Quindi l’elemento “cessione” riguarda perlopiù attrezzature, eventuale lista clienti, e non di rado l’imprenditore finisce per diventare collaboratore del concorrente che gli ha comprato il furgone e i contatti.

Cooperative e imprese sociali: Non esplicitamente richieste, ma val la pena menzionare che le cooperative seguono procedure concorsuali simili (liquidazione coatta amministrativa o concordato). Vendere l’azienda di una cooperativa in crisi può avvenire con autorizzazioni ministeriali. Ad esempio cooperative edilizie insolventi vendono cantieri e terreni tramite la LCA o il concordato. I soci cooperatori di norma perdono le quote ma non rispondono dei debiti (se coop a resp. limitata). In settori come servizi sociali, spesso si fa subentrare un’altra coop negli appalti (con consenso dell’ente appaltante) e trasferimento dei lavoratori, mentre la coop originaria liquida il resto.

Conclusione sulle forme giuridiche: In generale, le società di capitali offrono più strumenti e margini di manovra (concordato, accordi, ecc.) e la vendita dell’azienda può essere più agevole perché non porta strascichi su persone fisiche. Società di persone e imprese individuali richiedono un approccio integrato che consideri anche il destino personale dei titolari.

Riepilogo in tabella:

Forma giuridicaProcedura tipicaResponsabilità debitiConsiderazioni per cessione
SPA / SRLConcordato preventivo; accordo ristr.; comp. negoziata; liquidazione giudiziale se fallimento.Soci limitatamente responsabili (perdono al più capitale).Cessione azienda possibile con scarico debiti sul concorso. Vendita quote fattibile ma acquirente prende società con passività (raro a meno che pianifichi ristrutturazione). A chi rivolgersi: advisor concorsuali, tribunale per procedure.
SNC / SASConcordato preventivo (soci illimitati partecipano); accordo ristrutturazione (spesso agevolato); sovraindebitamento se sotto soglia; fallimento con estensione ai soci.Soci illimitatamente responsabili (SAS: accomandanti no, accomandatari sì).Vendita azienda efficace solo se accompagnata da accordi con creditori che liberino i soci. Necessario coinvolgimento personale dei soci (anche con patrimonio privato) in trattative. A chi rivolgersi: OCC per eventuale concordato minore, professionisti per accordi ad hoc, tribunale se concordato/fallimento.
Ditta individualeConcordato minore (ex piano consumatore/accordo L.3/2012); liquidazione controllata; esdebitazione successiva.Imprenditore = debitore con tutti i suoi beni.Non esiste persona giuridica separata. Cessione azienda = cessione beni, contratti e avviamento a terzi, ma debiti restano personali. Spesso occorre liquidare e poi ottenere esdebitazione. A chi rivolgersi: OCC per procedure sovraindebitamento.
CooperativaConcordato preventivo; liquidazione coatta amm.; accordi.Soci in genere no debito (se coop a resp. lim.).Cessione azienda soggetta ad autorizzazioni vigilanza. Dipendenti spesso soci, serve loro consenso. A chi rivolgersi: Ministero sviluppo econ. per LCA, o tribunale per concordato.

4.2 Caratteristiche di alcuni settori economici

Commercio (vendita al dettaglio/ingrosso): Settore caratterizzato da margini ristretti, alta concorrenza, contratti di locazione commerciali, rimanenze di magazzino. Quando un’impresa commerciale è in crisi:

  • Spesso l’attivo principale è il magazzino merci e l’avviamento legato alla posizione (location del negozio, clientela fidelizzata).
  • Vendere un’azienda commerciale in crisi può significare trovare un acquirente disposto a subentrare nel punto vendita (quindi rilevare contratto di locazione, arredi, merce residua, eventuale licenza se esiste).
  • Ad esempio, un supermercato in crisi può essere ceduto a una catena concorrente che subentra col proprio marchio: in tal caso occorre il consenso del locatore (per cessione affitto) e la gestione dei dipendenti (spesso trasferiti con art.2112 c.c.).
  • I creditori tipici sono fornitori di merci (spesso tutelati da riserva di proprietà per le forniture recenti, o da accordi di riassortimento).
  • Gli strumenti: se è un singolo negozio, solitamente si cerca una cessione di ramo d’azienda in trattativa privata, eventualmente in pre-concordato. Se è una catena, si può fare un concordato con affitto rami e successiva cessione (come visto in Gamma S.p.A.).
  • A chi rivolgersi: In questo settore, oltre ad avvocati e commercialisti, un ruolo chiave possono averlo le associazioni di categoria (Confcommercio, Confesercenti) che possono aiutare a trovare potenziali acquirenti (magari un altro associato interessato a espandersi). Inoltre spesso hanno convenzioni con OCC per sovraindebitamento.
  • Elemento di attenzione: i contratti di franchising se l’azienda è un punto vendita in franchising. Il franchisor di solito ha diritto di veto sul cambio di gestione. Quindi vendere l’azienda comprende ottenere l’assenso del franchisor e il subentro del franchisee acquirente.
  • Caso pratico: catena abbigliamento in concordato cede 30 negozi: per ciascuno serve ok del proprietario del centro commerciale e, se in franchising, ok del marchio.
  • Nel commercio, l’elemento tempo è cruciale: se si attende troppo, i magazzini perdono valore (moda stagionale, elettronica obsoleta). Dunque le procedure devono essere rapide. Composizione negoziata e concordato in bianco vengono in soccorso per congelare il tempo mentre si cerca acquirente.

Edilizia e costruzioni: Settore con dinamiche peculiari:

  • Il valore principale spesso è nei cantieri/progetti in corso, magari immobili in costruzione, e nei titoli autorizzativi (permessi, concessioni) e contratti di appalto.
  • Vendere un’azienda edile in crisi può significare far subentrare un’altra impresa nella commessa d’appalto (serve la stazione appaltante se pubblica) o vendere uno sviluppo immobiliare incompiuto a un developer solido.
  • La legge prevede per appalti pubblici la possibilità di cessione del contratto in alcune condizioni (es: fallimento appaltatore, concordato, con autorizzazione ente).
  • Frequenti le procedure concorsuali in edilizia: concordati preventivi di società di costruzione con continuità indiretta (qualcuno acquisisce il cantiere e lo finisce, per consegnare case ai promissari acquirenti). Il Codice della crisi consente la prededuzione di crediti per chi subentra nei contratti d’appalto in continuità.
  • Settore cooperativo edilizio: qui normative speciali, ma non entriamo troppo.
  • Attenzione a fideiussioni e polizze: nel costruire immobili, di solito l’impresa rilascia polizze decennali, fideiussioni sugli acconti. Se l’azienda viene ceduta, occorre regolare il trasferimento di queste garanzie (spesso il cessionario deve emetterne di nuove).
  • A chi rivolgersi: Oltre a consulenti legali, nel caso di immobili spesso ci si rivolge a società di advisory immobiliari per valutare i cantieri e trovare investitori, e a notai per predisporre atti complessi (ad es. cessione d’azienda comprensiva di terreni, volture di concessioni, etc.). Tribunali hanno sezioni specializzate per concordati edilizi (specie per tutela acquirenti di case in costruzione).
  • Il settore edile inoltre vede spesso l’intervento delle banche in posizione di creditrici ipotecarie: qualsiasi piano di cessione azienda deve passare dal loro accordo (transazione del debito, nuova finanza). Quindi accordi di ristrutturazione con banche predominano in questo settore.
  • Esempio: impresa edile insolvente con 3 cantieri: concordato con continuità indiretta dove 3 diverse imprese prendono ciascuna un cantiere, completano le opere per gli acquirenti finali sotto vigilanza del tribunale. Tale scenario è delicato e va orchestrato con avvocati e tecnici (ingegneri che valutano avanzamento lavori, etc.).

Manifattura (produzione industriale):

  • Valori in macchinari, know-how, rete commerciale.
  • Spesso c’è un capannone e macchinari ipotecati. Vendere l’azienda di una manifattura di solito significa cedere il complesso industriale e i brevetti/clienti a un concorrente o investitore (vedi caso Alfa Srl).
  • Problematiche: ambientali (chi compra una fabbrica vuole accertarsi di non ereditare passività ambientali: un sondaggio del terreno, bonifiche in caso di sostanze pericolose – a volte richiede accordi con enti pubblici per non far ricadere su acquirente responsabilità ante).
  • Dipendenti e sindacati: aziende manufatturiere spesso medio-grandi, sindacati coinvolti in trasferimento (procedura L.428/90 art.47, come già trattato con 2112).
  • Settore soggetto a crisi di impresa di grandi dimensioni → strumenti speciali come amministrazione straordinaria (Legge Marzano) per aziende >200 dipendenti: qui l’approccio è diverso (commissari e piani di vendita, come Ilva, Alitalia). Questi casi coinvolgono il Mise, bando internazionale per cessione.
  • Nelle PMI manifatturiere, classico scenario: concordato preventivo in continuità o liquidatorio con cessione.
  • A chi rivolgersi: banche d’affari specializzate in M&A se dimensione mediana (possono trovare compratore estero, ad es.), consulenti del lavoro per gestire esuberi e ammortizzatori, e come sempre legali concorsuali. Non di rado regioni o enti pubblici possono aiutare (p.es. fondo per salvaguardia dei livelli occupazionali che coadiuva la cessione).
  • Esempio storico: nelle crisi del settore metalmeccanico (manifattura), regioni hanno favorito worker buyout (dipendenti che comprano e formano cooperativa – legislazione speciale consente prelazione e fondi per ciò).
  • Fornitori e filiera: vendere un’azienda manifatturiera in crisi comporta anche considerare i fornitori strategici, perché se l’azienda viene venduta, i fornitori che vedevano i loro crediti decurtati possono interrompere forniture al nuovo soggetto. Quindi spesso l’acquirente negozia con i fornitori la continuità (magari li paga di più di quanto avrebbero preso in concordato, in cambio di rapporti futuri).
  • Questo settore genera contenziosi su brevetti e know-how: se l’azienda ha brevetti dati in garanzia (pledge a banche) vanno liberati o inclusi. Idem contratti in corso (forniture lunghe).
  • Sovente, i piani attestati di risanamento trovano applicazione in manifattura, perché se c’è fiducia tra impresa e alcune banche/fornitori, preferiscono un piano privato che eviti la nomea di insolvenza pubblica (temono perdere ordini se la crisi diventa pubblica).
  • Ex. di giurisprudenza: Cass. 14713/2019 citata prima stabilì criteri su interesse creditori in concordato industriale.

Servizi (aziende di servizi, consulenza, IT, cooperative sociali):

  • Spesso hanno pochi asset materiali; valore nei contratti e nel personale qualificato.
  • Vendere un’azienda di servizi è spesso questione di far passare i contratti e le risorse umane a un nuovo soggetto. Quindi la continuità è prevalentemente contrattuale.
  • Se i contratti contengono clausole di change of control o di gradimento (spesso nelle consulenze i clienti possono recedere se cede il contratto), la cessione va pianificata con loro.
  • Esempio: società di informatica in crisi, con contratti annuali con clienti: quell’avviamento può essere venduto a competitor, ma serve convincere i clienti a restare. Frequentemente, vendere tali aziende in crisi avviene con acquihire: l’acquirente assume i dipendenti (che hanno il know-how) e i clienti li seguono. La società in crisi poi chiude. Non c’è una cessione d’azienda formalizzata magari, ma un trasferimento “di fatto” (questo è un punto grigio: se fatto in frode potrebbe essere contestato, ma se la società in crisi non formalizza nulla, i creditori restano con nulla. Ecco perché legalmente sarebbe meglio formalizzare come cessione di ramo, per proteggere acquirente, ma acquirente potrebbe preferire fare tabula rasa).
  • Procedure concorsuali possibili: Concordato se grande (es: grandi società di servizi facility), accordi di ristrutturazione se predominano banche fornitrici e Fisco.
  • Per cooperative sociali (servizi educativi, pulizie) – se in crisi – cessione dei rami (es: appalto scolastico) a cooperative subentranti, con tutela ex 2112 per i lavoratori.
  • Professionisti e studi associati: Non esattamente società commerciali, ma per completezza, la “vendita” di studi professionali in crisi segue regole proprie (non soggetti a fallimento, si può cedere clientela se consenziente, etc.). Non entro nel dettaglio non richiesto.

Tavola comparativa settori vs. strumenti:

SettoreBeni principaliStrumenti tipiciNote sulle vendite
CommercioMagazzino merci; locazioni; licenze.Sovraindebitamento (piccoli negozi); Concordato (catene); Composizione negoziata (es. franchising multisede).Spesso cessione di rami (punti vendita) nel contesto di concordati. Essenziale consenso locatori/franchisor. Rapidità per evitare obsolescenza merce.
EdiliziaCantieri, immobili in costruzione; attrezzature; appalti.Concordato preventivo con continuità indiretta (subentro altri costruttori); Accordi ristrutturazione (banche); LCA (coop edilizie).Vendita complessa: autorizzazioni e polizze da trasferire. Importante coinvolgere committenti (es. enti pubblici) e assicurazioni.
ManifatturaStabilimenti, macchinari, brevetti; stock prodotti; forza lavoro specializzata.Concordato preventivo (molti casi famosi); Amministrazione straordinaria (grandi imprese >200 lav.); Piani attestati (spesso preferiti per evitare pubblicità).Cessione di azienda possibile a competitor (anche via affitto poi vendita). Attenzione a passività ambientali e contratti fornitori. Sindacati da coinvolgere per 2112.
ServiziContratti di appalto/servizio; attrezzature leggere (veicoli, PC); dipendenti know-how.Concordato minore (molte PMI di servizi non fallibili); Accordi ristrutturazione se debiti finanziari; liquidazione controllata (es. cooperativa sociale).Valore intangibile: vendita consiste in far subentrare altri nei contratti, spesso tramite consenso clienti più che atto formale. Dipendenti passano al cessionario con 2112 se c’è cessione formale di ramo. Se no, rischio migrazione informale e contestazioni di cessio illecito.
Retail food (particolare)Autorizzazioni sanitarie; merce deperibile; marchio locale.Concordato (es. catene supermercati), accordi con fornitori.Vendita a concorrenti comune. Temi di antitrust locale talora (accorpamenti di supermercati). Necessario accordo su fideiussioni leasing di locali.
Tech/StartupIP (proprietà intellettuale), software, team; spesso pochi debiti ma cash burning.Di rado procedure concorsuali tradizionali (spesso chiudono prima esaurendo capitale); eventualmente accordi con pochi creditori.“Acquisition” di asset come brevetti e assunzione team da parte di big player è prassi. Non è vendita d’azienda formalmente, ma economicamente sì (asset deal). Creditori (investitori) spesso subordinati, perdono quasi tutto.

Naturalmente, ogni azienda fa storia a sé; la tabella e i commenti sopra generalizzano. Il settore influenza chi potrà essere l’acquirente e quali condizioni vanno soddisfatte. Ad esempio:

  • Nel sanitario (cliniche private): acquirenti devono avere autorizzazioni ministeriali; la Regione deve approvare passaggio di accreditamenti.
  • Nel trasporto pubblico: serve placet di enti locali per trasferire concessioni.
  • Settore agricolo: imprese agricole non fallibili, si vendono a porte chiuse o con procedure sovraindebitamento. Spesso terreni ipotecati, creditori privilegiati.
  • Settore alimentare: problemi di merce deteriorabile, si deve vendere subito (vedi casi noti di aziende alimentari salvate da competitor per evitare sprechi).
  • Settore energetico: normative su concessioni, necessità di autorizzazioni per cedere impianti (GSE etc).

In conclusione, la due diligence legale e regolatoria è imprescindibile in base al settore. Un avvocato specializzato nel settore può essere necessario oltre all’esperto di crisi. Ad esempio, per vendere un’azienda farmaceutica in crisi servono consulenti legali in diritto farmaceutico (autorizzazioni AIFA, GMP compliance, ecc.), oltre ai concorsualisti.

5. Domande Frequenti (FAQ) sulla vendita di un’azienda in crisi

In questa sezione rispondiamo alle domande più comuni che imprenditori indebitati e i loro consulenti si pongono riguardo alla cessione di un’azienda in difficoltà e agli strumenti disponibili.

Domanda: La mia società ha molti debiti. Posso venderla “così com’è” a qualcuno e liberarmi dei problemi?
Risposta: Vendere l’azienda o le quote della società è possibile, ma attenzione: i debiti non si cancellano automaticamente. Se vendi le quote della tua SRL, la società (sotto nuovo proprietario) rimane debitrice verso i creditori. Tu personalmente sarai uscito dalla compagine, ma se avevi dato garanzie personali (fideiussioni, avalli), ne resti obbligato. Inoltre, un compratore serio vorrà ristrutturare quei debiti, non semplicemente accollarseli. Se invece vendi proprio l’azienda (beni e attività) separatamente, i debiti restano nella vecchia società che poi dovrà affrontarli (liquidazione o procedura concorsuale). I creditori potrebbero opporsi se l’operazione li pregiudica. Dunque, la vendita “così com’è” a terzi senza coinvolgere i creditori raramente risolve tutto – di solito dev’essere inserita in un piano concordato con i creditori (concordato, accordo di ristrutturazione, etc.), altrimenti rischi azioni legali dopo. In sintesi, sì, puoi vendere l’azienda indebitata, ma devi farlo nell’ambito di una procedura regolare per liberarti efficacemente dei debiti residui.

Domanda: A chi posso rivolgermi per trovare un acquirente per la mia azienda in crisi?
Risposta: Diverse figure possono aiutarti. In primo luogo, un advisor finanziario o un commercialista esperto in crisis & turnaround può analizzare la tua azienda e individuare possibili compratori strategici (concorrenti, fornitori interessati, investitori specializzati). Anche un avvocato d’affari con contatti nel settore può sondare potenziali acquirenti. Le associazioni di categoria a cui aderisci (es. industriali, artigiani, commercianti) spesso hanno sportelli crisi che mettono in contatto imprese in difficoltà con investitori (o comunque segnalano opportunità ad altri associati). Se attivi una composizione negoziata, l’esperto nominato può darti indicazioni e talvolta ha egli stesso una rete di contatti di potenziali investitori interessati. In caso di procedure concorsuali, il tribunale stesso pubblica bandi e avvisi di vendita (ma meglio muoversi prima autonomamente). In alcuni settori esistono anche società specializzate nell’acquisire aziende decotte per ristrutturarle (fondi di investimento “distressed”): tramite il tuo consulente finanziario puoi rivolgerti a queste realtà. Infine, non trascurare la cerchia locale: un competitor o un partner locale potrebbe essere il candidato ideale – con tatto e tramite advisor puoi approcciarlo. Ricorda che discrezione e trasparenza controllata sono importanti: far sapere troppo presto al mercato che vendi perché hai debiti può indebolirti; meglio farlo tramite professionisti che mantengano la riservatezza fino a accordi avanzati.

Domanda: Che differenza c’è tra vendere le quote di una società e vendere l’azienda o un suo ramo?
Risposta: Vendere le quote (o azioni) significa trasferire la proprietà della persona giuridica (società). La società rimane la stessa: stessi debiti, stessi contratti, solo con un nuovo proprietario (socio). Per i creditori, non cambia il debitore, quindi non hanno bisogno di acconsentire; però la società continua a doverli pagare integralmente salvo diversi accordi. Vendere l’azienda invece significa trasferire fuori dalla società il complesso dei beni organizzati per l’attività. La società cedente di fatto “si spoglia” di avviamento, beni, contratti, e riceve un prezzo (che idealmente userà per pagare i creditori). Il compratore dell’azienda ne prosegue l’attività. Qui i creditori originari hanno diritto di essere tutelati: alcuni debiti possono seguire l’azienda (v. art. 2560 c.c.), i lavoratori passano al nuovo datore (art. 2112 c.c.), e se qualcosa nei loro diritti viene leso senza accordo, possono agire contro il cedente (e in parte contro cessionario per alcuni debiti). Riassumendo: vendita di quote = trasferisci la società con dentro attivo e passivo (debiti restano in capo a lei, quindi l’acquirente se li accolla indirettamente); vendita di azienda/ramo = trasferisci solo l’attivo (e taluni contratti) a un terzo, i debiti rimangono in capo alla società cedente che in genere poi viene liquidata o porta i libri in tribunale. La scelta dipende dall’interesse del compratore: spesso preferisce asset deal (azienda) per prendere solo ciò che vale e lasciare i debiti; talvolta però quote deal (società intera) conviene se vuole licenze o rapporti che non sarebbero trasferibili se non con continuità soggettiva (es. concessioni ottenute intuitu personae dalla società). In entrambi i casi, se sei tu il venditore, i debiti pregressi rimangono un problema tuo/società: con la vendita di quote devi assicurarci che l’acquirente li gestirà (se fallisce la società dopo avergli venduto, i creditori possono tentare azioni di responsabilità contro di te se emergono condotte pregresse scorrette); con la vendita di azienda devi ricorrere a procedure concorsuali o accordi per regolare quei debiti residui, sennò ti faranno fallire la società e rischi nullità della vendita.

Domanda: I creditori devono acconsentire alla vendita dell’azienda in crisi?
Risposta: Dipende. Se operi tramite procedura concorsuale (concordato preventivo, accordo omologato), l’autorizzazione dei creditori è implicita nell’approvazione del piano o nell’omologazione. Ad esempio, nel concordato il giudice autorizza la cessione e i creditori votano il piano che la prevede, quindi sono considerati consenzienti. Fuori da procedure, formalmente per vendere l’azienda non serve il consenso individuale di ogni creditore, ma i creditori possono opporsi ex post: possono chiedere revocatoria dell’atto se li pregiudica, entro 2 anni se poi c’è fallimento, o sostenere che la vendita è in frode e chiederne l’inefficacia. Inoltre, alcuni creditori specifici devono acconsentire:

  • Se ci sono banche con pegno/ipoteca sull’azienda (ad es. su crediti, su macchinari): vanno interpellate perché la vendita sposta i beni e loro garanzie. Spesso pretendono il rimborso contestuale o rinnovo garanzia sull’acquirente.
  • Locatore dell’immobile: la cessione d’azienda implica quella del contratto di affitto; il locatore può opporsi entro 3 mesi se ha giustificato motivo (nel concordato invece no se tribunale autorizza, ma in via stragiudiziale sì).
  • Clienti/committenti: se hai contratti importanti con clausole anti-cessione, devi ottenere il loro benestare per trasferirli.
  • Dipendenti: non individualmente, ma tramite consultazione sindacale se >15 dipendenti (obbligatoria per legge).
    In generale, conviene coinvolgere attivamente i creditori principali nella definizione della vendita: proporre ad es. “cedo l’azienda a Tizio che apporta X soldi, con cui vi pago tot percentuale, vi sta bene?” – se accettano, poi formalizzi in un accordo. Se tenti di vendere senza dir nulla, rischi cause successive. Quindi, di fatto i creditori rilevanti devono acconsentire o almeno essere soddisfatti a sufficienza, altrimenti la vendita non risolve la crisi.

Domanda: Che succede ai debiti tributari (Erario, INPS) se vendo l’azienda?
Risposta: I debiti fiscali e contributivi restano in capo al soggetto originario (società o imprenditore) – l’Agenzia delle Entrate e l’INPS continueranno a pretenderli da te o dalla tua società. Tuttavia, in certi casi il compratore può avere responsabilità solidale:

  • L’art.14 D.Lgs. 472/97 dice che chi acquista un’azienda risponde in solido col venditore per imposte e contributi dovuti fino alla concorrenza del valore dell’azienda acquistata (con alcune esclusioni, es. sanzioni escluse oltre il tributo) salvo che ottenga il certificato dei carichi pendenti e questo attesti nulla o l’amministrazione non risponda in tempo. In pratica, per tutelare Fisco ed enti, il cessionario può essere coinvolto, ma la norma ha limiti – ad esempio non si applica per debiti oltre il valore di cessione, e spesso sanzioni no.
  • Nelle cessioni in procedure concorsuali autorizzate dal giudice, per prassi Equitalia/Agenzia non riesce poi ad aggredire il cessionario, perché l’atto è equiparato a vendita coattiva (come fosse asta fallimentare), su cui l’art.14 citato non incide.
  • Quindi, se vendi fuori procedure, il compratore vorrà quel certificato fiscale (che tu devi chiedere all’AdE almeno 20gg prima dell’atto). Se emergono debiti, potrà pretendere che col prezzo pagato ne estingui alcuni o ne rispondi. Se fai un concordato o accordo con transazione fiscale, lì definisci come trattare il debito tributario (es. stralcio sanzioni, dilazione, cram down su voto AdE).
    In sintesi: il Fisco e l’INPS vorranno comunque essere pagati secondo le leggi ordinarie o concorsuali – la vendita dell’azienda di per sé non li blocca. Dovrai includerli nella trattativa generale: ad esempio, con l’acquirente stabilire che una parte del prezzo è destinata a pagare IVA e contributi dovuti (magari beneficiando della dilazione 5 anni prevista nei concordati con transazione fiscale). Oppure usare istituti come la transazione fiscale (art.63 CCII) in un accordo di ristrutturazione, per regolare quei debiti. Evita di pensare di poter vendere e non considerare il Fisco: l’Agenzia Entrate Riscossione può dopo la vendita aggredire i beni residui (se restano) o i soci garanti. Fortunatamente, se applichi gli strumenti di legge, i debiti fiscali possono essere stralciati o dilazionati legalmente (e comunque le sopravvenienze attive da stralcio nel piano attestato non sono tassate, come visto).

Domanda: Posso vendere l’azienda “per 1 euro” a un prestanome nullatenente e lasciarla fallire con lui?
Risposta: Questa è una mossa estremamente pericolosa e scorretta. Vendere l’azienda (o la società) a un soggetto privo di reali capacità, col solo scopo di far ricadere su di lui/esso il fallimento e liberartene, è spesso considerato fraudolento. Il tribunale e il curatore fallimentare guarderanno oltre la facciata: se cedi a una persona senza competenze e che non paga nulla, è un indizio forte di dolo. Puoi essere accusato di bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni aziendali (specie se la vendita a 1 euro è considerata simulata o a prezzo irrisorio) e di avere aggravato il dissesto. Ci sono vari casi giudiziari di imprenditori condannati perché hanno passato la società a un prestanome (il classico “figura nullatenente” magari straniero) poco prima del crac. La Cassazione penale vede queste operazioni come volontà di sottrarre l’azienda ai creditori e proseguire magari l’attività occultamente. Inoltre, vendere a 1 euro non risolve le tue garanzie personali: se avevi fideiussioni, resti obbligato. E non libera neanche da eventuali responsabilità verso erario (potresti avere cartelle a tuo nome se ditta indiv. o socio illimitato). Quindi, no, non affidarti a soluzioni “prestanome”. Piuttosto, se vuoi uscire dall’impresa, fallo in modo regolare: con accordo tra creditori, con concordato cedendo l’azienda a un soggetto serio, o anche portando in fallimento ma collaborando col curatore. Consegnare tutto a un terzo farlocco rischia di moltiplicare i tuoi guai (penali e patrimoniali). Diffida anche di chi ti offre servizi dubbi tipo “ci intestiamo la tua società e la puliamo dei debiti”: spesso sono truffatori o comunque non eliminano le responsabilità pregresse (anzi, possono peggiorare la situazione con omessi adempimenti e sparizione di documenti, esponendoti a bancarotta documentale). Meglio affrontare la crisi a viso aperto con i mezzi legali appropriati.

Domanda: Cosa succede ai dipendenti se vendo l’azienda? Possono opporsi?
Risposta: I dipendenti seguono la disciplina del trasferimento d’azienda (art. 2112 c.c.): in generale, non possono opporsi individualmente alla cessione (non possono rifiutare il passaggio, salvo dare dimissioni se non vogliono lavorare col nuovo datore). I loro contratti di lavoro passano automaticamente all’acquirente, con le stesse condizioni. Il venditore e l’acquirente sono obbligati a rispettare la procedura di informazione e consultazione sindacale (se l’azienda ha più di 15 dipendenti, art. 47 L.428/90), coinvolgendo le rappresentanze dei lavoratori almeno 25 giorni prima dell’atto: in quella sede i sindacati possono discutere le condizioni del passaggio e proporre accordi migliorativi o di salvaguardia dell’occupazione. Durante una crisi, spesso il tema è esuberi: l’acquirente magari non può assorbire tutti i dipendenti. In alcune procedure concorsuali, come abbiamo visto, è possibile un accordo sindacale per derogare parzialmente a 2112 c.c., ossia trasferire solo una parte dei dipendenti o modificare alcune condizioni, al fine di salvare almeno parte dei posti di lavoro. Senza procedura concorsuale, fuori dall’insolvenza, invece il principio generale è che tutti i lavoratori passano al cessionario con gli stessi trattamenti; eventuali licenziamenti per esubero li può fare solo dopo il passaggio e con le tutele di legge (procedura collettiva). I lavoratori come individui non hanno potere di veto sulla cessione (non è richiesto il loro consenso individuale per trasferire il contratto), ma collettivamente i loro rappresentanti possono cercare di contrattare condizioni (es. l’acquirente garantisce il mantenimento del contratto collettivo in essere per un anno, o paga un incentivo all’esodo per chi non verrà mantenuto). Dunque, se vendi l’azienda in crisi, devi prevedere di interagire con i sindacati, se presenti, e possibilmente con gli enti (potrebbero attivarsi ammortizzatori sociali come CIGS per crisi, contratti di solidarietà, etc., a mitigare impatto). Per i dipendenti non c’è scelta sul cambio datore, ma hanno diritto all’informazione e a vedere tutelati i loro diritti maturati (che l’acquirente dovrà rispettare, oppure in concorso eventuali TFR arretrati verranno pagati dal Fondo di garanzia e non gravano sul nuovo). In definitiva: i dipendenti passano all’acquirente, non perdono anzianità o stipendio, e non possono impedire il trasferimento, però vanno coinvolti correttamente nel processo per evitare conflitti e per garantire la continuità lavorativa (un lavoratore insoddisfatto può licenziarsi e far perdere valore all’azienda ceduta, quindi conviene cercare il loro consenso morale, anche se non giuridico).

Domanda: Dopo aver venduto l’azienda e chiuso la procedura di crisi, i debiti residui verso fornitori che non ho pagato sono cancellati?
Risposta: Dipende dal tipo di procedura e dall’esito. Se hai fatto un concordato preventivo omologato e l’hai eseguito regolarmente, i debiti anteriori rimasti insoddisfatti sono cancellati (esdebitazione) per la società. Attenzione: l’esdebitazione per le società è “indiretta” (non prevista espressamente come per le persone fisiche, ma di fatto, una volta eseguito il concordato, i creditori rinunciano alla parte eccedente). Se invece la società poi fallisce, quell’effetto può venir meno però solo per crediti non concorsuali. Comunque, direi: sì, nel concordato i debiti residui vengono stralciati in forza dell’omologazione e del piano eseguito. Se hai fatto un accordo di ristrutturazione e l’hai adempiuto, i creditori aderenti hanno rinunciato alle parti eccedenti, quindi sei libero da quelle; i creditori estranei dovrebbero essere stati pagati integrale o comunque li hai gestiti (se qualcuno non è stato toccato dall’accordo e non l’hai pagato, potrebbe ancora pretendere, ma per definizione in un accordo ben fatto i “residui” non ci sono, si è definito tutto). Nel piano attestato, se hai eseguito tutto e i creditori hanno accettato rinunce, sei a posto, salvo che quelli fuori piano potrebbero ancora reclamare (il piano attestato non vincola i non aderenti). In un fallimento (liquidazione giudiziale), dopo la chiusura puoi chiedere l’esdebitazione personale (se sei imprenditore individuale o socio fallito) e quella cancella i debiti residui verso creditori concorsuali. Se la tua società viene liquidata e cancellata, di fatto cessa di esistere e i crediti non soddisfatti restano senza soggetto debitore (non è esdebitazione in senso tecnico, ma i creditori sociali non possono più agire contro la società estinta; alcuni pensano possano agire contro i soci prendendo il bilancio finale di liquidazione, ma se era a responsabilità limitata e li hai informati, no). In sovraindebitamento (concordato minore o liquidazione controllata), la legge prevede l’esdebitazione del debitore persona fisica al termine, con alcune eccezioni (debiti alimentari, da dolo, sanzioni penali, etc.). Quindi, conclusione: se l’operazione di salvataggio è condotta con uno strumento giuridico appropriato e portata a termine con successo, i debiti residui vengono annullati legalmente e tu o la tua società ne siete liberati. Se invece vendi l’azienda fuori da procedure senza accordi e poi non paghi il resto, quei debiti rimangono e i creditori potranno ancora agire (contro la società rimasta vuota, portandola a fallimento, e/o contro di te socio illimitato o garante). Quindi, per stare tranquillo che i debiti residui siano cancellati, assicurati di chiudere la crisi con un’omologazione o un provvedimento finale di esdebitazione.

Domanda: Quanto tempo ci vuole per completare la vendita di un’azienda in crisi attraverso un concordato o accordo?
Risposta: I tempi possono variare molto a seconda della complessità e dello strumento, ma proviamo a dare un’indicazione:

  • Concordato preventivo: preparazione del piano e documenti può richiedere 2-3 mesi; la procedura dall’ammissione al voto e omologa almeno 4-6 mesi (se va liscia). Totale, realisticamente 6-12 mesi per completare tutto e rendere effettiva la cessione con omologa. In casi complessi con molte opposizioni si può andare oltre l’anno. C’è però la possibilità di affittare l’azienda subito dopo l’ammissione (dunque magari entro 2-3 mesi blocchi l’acquirente operativo), e poi la vendita finale al momento dell’omologa. Quindi l’effetto pratico di passaggio gestione può essere rapido (qualche mese), ma la procedura legale completa dura di più.
  • Accordo di ristrutturazione: negoziare con i creditori e attestare l’accordo può prendere 2-4 mesi; il tribunale di solito omologa entro 2 mesi dalla presentazione se non ci sono opposizioni forti. Quindi direi 4-6 mesi è un orizzonte plausibile se c’è accordo liscio. Se i creditori sono litigiosi, può allungarsi (possono fare reclamo in Cassazione, ma in genere in 6-8 mesi si chiude). Essendo su base volontaria, a volte molto più veloce di un concordato (perché niente voto generale).
  • Composizione negoziata + eventuale concordato semplificato: la negoziazione dura al massimo 6 mesi (prorogabile di 6, ma l’obiettivo è stringere in pochi mesi). Se porta a cessione e si risolve, bene; se serve il concordato semplificato, quello viene approvato in 1-2 mesi dal ricorso. Diciamo 6-9 mesi totali. C’è da dire che la composizione negoziata consente di attivare subito misure protettive, quindi protegge immediatamente e si cerca di finalizzare entro pochi mesi la vendita.
  • Liquidazione giudiziale (fallimento): dipende dal curatore e dal mercato: vendere un’azienda tramite asta può richiedere mesi o anni (a volte più esperimenti d’asta). Il fallimento medio in Italia dura 5-7 anni, ma la cessione di rami d’azienda di solito avviene entro il primo anno (chi è interessato si fa avanti presto). Poi i creditori aspettano riparti. Non è l’ideale se serve rapidità per salvare il valore.
  • Piano attestato: teoricamente è il più rapido perché essendo extra-giudiziale, i tempi li decidono le parti. Potresti confezionare un piano in 2 mesi e iniziare ad eseguirlo subito dopo attestazione, quindi vendere l’azienda anche in quel lasso di tempo (il vincolo è convincere e contrattualizzare con creditori e acquirente). Può essere molto veloce (alcuni piani attestati si fanno in poche settimane per operazioni urgenti), ma devi avere tutti d’accordo informalmente.
    In generale, i tempi minimi raramente scendono sotto i 3-4 mesi, perché trovare acquirente, fare due diligence, negoziare accordi, predisporre atti e autorizzazioni richiede almeno così. Tempi massimi: se la cosa si protrae oltre 1-2 anni, il rischio è che il valore dell’azienda crolli, dunque raramente conviene far durare molto. Molti concordati che vanno in omologa dopo 18 mesi poi trovano che l’acquirente non è più interessato… Quindi il consiglio è di muoversi il più celermente possibile.

Domanda: Quali sono i costi da aspettarsi per queste procedure? Vale la pena o finisco per pagare più di quanto risolva?
Risposta: Ci sono costi professionali e procedurali. Ad esempio:

  • Concordato preventivo: devi pagare il professionista attestatore, i consulenti che aiutano a redigere piano (commercialista, legale), il commissario e liquidatore hanno diritto a compenso (stabilito dal tribunale, pagato dalla massa, ma comunque pesa), spese di giustizia (marche, contributo unificato di alcune migliaia di euro), eventuali perizie. In un concordato medio questi costi possono essere dal 5% al 15% dell’attivo aziendale, a seconda della complessità. Se l’azienda è piccola, questi costi fissi diventano proporzionalmente alti. Lo Stato non anticipa nulla (tranne casi di gratuito patrocinio che qui non applicabile a società). Quindi sì, costa.
  • Accordo di ristrutturazione: costa un po’ meno perché c’è solo l’attestatore e l’avvocato, non c’è commissario né votazioni, e l’iter in tribunale è semplificato. Ma servono comunque consulenze e attestazione. Diciamo costi per professionisti, qualche decina di migliaia di euro (varia moltissimo).
  • Composizione negoziata: l’esperto nominato ha un compenso piuttosto contenuto (fissato per legge in base a success fee e tempo, il più delle volte qualche migliaio di euro). E poi paghi i tuoi consulenti che ti assistono (legale, aziendalista). Niente spese di tribunale salvo eventuale concordato semplificato poi (dove comunque niente commissario, solo liquidatore).
  • Sovraindebitamento: l’OCC chiede un compenso (spesso qualche % sui debiti o sull’attivo liquidato). Anche qui, fattura relativamente modesta se debiti piccoli.
  • Vendita azienda in sé: notaio per atto (pochi spiccioli in confronto al resto), eventualmente imposte di registro se ci sono immobili (ma in concordato vendite esenti da tasse di bollo, registro, ipocatastali per legge, art. 150 CCII prevede varie esenzioni). Attenzione: se vendi fuori procedure, dovrai pagare tasse su eventuali plusvalenze; se vendi in concordato, c’è esenzione da alcune imposte (plusvalenza da concordato non tassata, come citato).
    In percentuale, direi: se l’attivo venduto è sostanzioso (milioni), i costi concorsuali sono giustificati. Se parliamo di piccole aziende con attivo < 200k, potrebbe non valere la pena un concordato da decine di migliaia di euro di spese – in questi casi si va su soluzioni minori (sovraindebitamento, liquidazione diretta).
    Vale la pena? Se la vendita concordataria consente di salvare azienda e farti uscire dai debiti con responsabilità limitata, direi di sì, è un investimento per un fresh start. Se i costi rischiano di erodere tutto il ricavato, allora a volte si preferisce evitare procedure e lasciare che i creditori prendano i beni tramite esecuzioni (ma in quel caso rischi più guai).
    Nota: spese come compenso commissario o liquidatore in concordato sono privilegiate e vanno pagate prima di qualsiasi riparto ai creditori, come costo della procedura.
    Molte Camere di Commercio offrono primi colloqui di consulenza gratuiti con esperti della crisi (nell’ambito delle misure di allerta), quindi almeno l’orientamento iniziale non costa.
    In sintesi: c’è un costo significativo, ma l’alternativa – caos di pignoramenti, perdita disordinata di valore, possibili azioni di responsabilità – spesso è peggiore. Bisogna fare analisi costi-benefici con l’aiuto del professionista.

Come si può notare dalle risposte, la materia è complessa ma con i giusti strumenti (legali e di consulenza) è possibile trasformare una situazione di crisi in una soluzione ragionevole, magari dolorosa (perdita dell’azienda o parte di essa, sacrificio per creditori e soci), ma ordinata e legalmente protetta. Ogni caso va valutato singolarmente; per questo ribadiamo l’importanza di coinvolgere consulenti esperti in diritto della crisi il prima possibile.

6. Conclusione e fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali

In conclusione, affrontare la vendita di un’azienda in crisi richiede un approccio integrato: giuridico, finanziario e umano. Dal punto di vista del debitore, le leggi oggi offrono molti percorsi per prevenire la dispersione del valore aziendale e risolvere le situazioni debitorie in modo equo e predeterminato. Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza – aggiornato dalle riforme recenti – è il riferimento centrale, con strumenti ad hoc (concordato, accordi, composizione negoziata) che abbiamo esaminato dettagliatamente e comparativamente.

È fondamentale “giocare secondo le regole” e non improvvisare scorciatoie per evitare che la crisi si aggravi in un contenzioso legale senza fine. Ogni soggetto coinvolto – imprenditore, creditori, acquirente, lavoratori – ha interessi legittimi da tutelare, e le procedure concorsuali servono proprio a bilanciare questi interessi nella maniera più efficiente possibile.

Ci auguriamo che questa guida approfondita – pur nella sua lunghezza – abbia chiarito a chi si trova in tali frangenti a chi rivolgersi (professionisti e istituzioni) e quali opzioni valutare per vendere un’azienda in crisi, con particolare riguardo ai vantaggi e implicazioni di ciascuna. Il panorama normativo è complesso ma offre soluzioni flessibili, e la giurisprudenza recente fornisce orientamenti utili su questioni specifiche (ad es. responsabilità del cessionario per debiti pregressi, natura delle vendite concordatarie, ecc.), che abbiamo citato per dare riferimenti concreti.

Chiudiamo con una raccolta non esaustiva ma significativa delle fonti normative, degli approfondimenti dottrinali e delle sentenze menzionate o utilizzate nel testo, per chi volesse ulteriormente approfondire singoli aspetti.

Fonti Normative Principali Utilizzate

  • Codice Civile:
    • Art. 2086 c.c. – Dovere di adeguati assetti e gestione della crisi dell’imprenditore.
    • Art. 2112 c.c. – Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda.
    • Art. 2555 c.c. – Nozione di azienda.
    • Art. 2558 c.c. – Successione nei contratti aziendali.
    • Art. 2560 c.c. – Debiti relativi all’azienda ceduta (responsabilità del cessionario per debiti risultanti dalle scritture contabili).
    • Art. 2560 c.c. & 2558 c.c. – (Interpretati insieme dalla Cassazione per distinguere debiti generali vs debiti da contratti).
    • Art. 47 L. 428/1990 – (Legge sui licenziamenti) Obbligo di comunicazione e consultazione sindacale nel trasferimento d’azienda. Modificato dal D.Lgs. 14/2019 art.368 per introdurre commi 4-bis e 5 che regolano deroghe a 2112 c.c. in concordato e liquidazione.
    • Artt. 2740-2741 c.c. – Principio di responsabilità patrimoniale e par condicio (richiamati in PRO: piano di ristrutturazione soggetto a omologazione può derogare a par condicio con consenso unanime classi).
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n.14) – come aggiornato dai correttivi D.Lgs. 147/2020, 83/2022, 136/2024. Disposizioni rilevanti citate:
    • Art. 15 CCII – Obbligo segnalazione stato crisi (collega con 2086 c.c.).
    • Art. 54-64 CCII – Accordi di ristrutturazione dei debiti (art.57 definizione, 60 accordi agevolati soglia 30%, 61 accordi ad efficacia estesa soglia 75% per categorie, 63 transazione fiscale).
    • Art. 56 CCII – Piani attestati di risanamento (richiede piano idoneo a risanamento, attestazione).
    • Art. 84 CCII – Concordato preventivo: requisiti generali, continuità vs liquidatorio, utilità non inferiore a liquidazione.
    • Art. 84 co.2 CCII – Distinzione continuità diretta/indiretta, tutela posti di lavoro.
    • Art. 94-95 CCII – Possibilità di scioglimento dei contratti pendenti in concordato (accennato per contratti onerosi).
    • Art. 163 CCII – (Vecchio art. 161 L.F.) Domanda di concordato con riserva.
    • Art. 163-bis L.Fall. (antecedente CCII) – Offerte concorrenti per cessione beni in concordato. Nel CCII, corrispondenti norme art. 91 (procedure competitive). Cassazione 4652/2025 ha interpretato 163-bis L.F. in vigenza CCII.
    • Art. 22 CCII – Composizione negoziata: poteri tribunale, autorizzazione atti straordinari tra cui cessione azienda (come modificato da D.Lgs.136/2024 che ha introdotto commi su tutela lavoro etc. ).
    • Art. 24 CCII – Effetti degli atti compiuti in composizione negoziata: stabilità e esenzione da revocatoria se fatti secondo piano attestato dell’esperto.
    • Art. 25-sexies CCII – Concordato semplificato per liquidazione patrimonio (post composizione negoziata, senza voto creditori).
    • Art. 25-septies CCII – Norme specifiche su vendita beni (anche azienda) nel concordato semplificato, ruolo ausiliario.
    • Art. 64-bis CCII (introdotto da D.Lgs.83/2022) – Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): condizioni accesso (imprese non minori, insolvenza ok), classi obbligatorie e unanimità classi.
    • Art. 88 co.4-ter TUIR (DPR 917/86)* – Esenzione da tassazione delle sopravvenienze attive derivanti da concordati omologati, accordi ristrutturazione omologati e piani attestati pubblicati.
    • Art. 14 D.Lgs. 472/1997 – Responsabilità solidale acquirente azienda per sanzioni tributarie: citato come lacunoso e oggetto di dottrina.
    • D.L. 118/2021 conv. L.147/2021 – Introduzione composizione negoziata e concordato semplificato.
    • D.Lgs. 83/2022 – Attuazione Direttiva UE 2019/1023: ha modificato CCII introducendo PRO e efficacia estesa etc.
    • D.Lgs. 136/2024 – Terzo correttivo CCII: modifiche a composizione negoziata (commi su lavoro) e altre, rubrica titolo V ecc.
    • Legge Fallimentare (RD 267/1942) – Per alcuni riferimenti storici: art. 67 L.F. (esenzione revocatoria piani attestati); art. 105 L.F. (vendita dell’azienda in fallimento, ripreso in CCII art.212); art. 182-bis L.F. (accordi ristrutturazione). Le pronunce di Cassazione citate a volte fanno riferimento ancora a articoli L.F. perché il caso era anteriore alla CCII, ma i principi restano applicabili.
  • Direttive e regolamenti UE:
    • Direttiva (UE) 2019/1023 – Sui quadri di ristrutturazione preventiva: recepita in D.Lgs.83/2022, ha ispirato composizione negoziata e PRO. Principio citato ad es. tutela nuove finanze e protezione atti necessari al piano (art.24 CCII).
    • Reg. UE 848/2015 (Insolvency) – Non trattato direttamente qui, perché scenario domestico, ma sullo sfondo per riconoscimento procedure all’estero eventualmente.

Giurisprudenza (Sentenze) Rilevanti Citate

  • Cass. civ. Sez. I, 21 Febbraio 2025 n. 4652Concordato preventivo, vendita beni a offerente del piano dopo gara deserta, natura di vendita coattiva: ha stabilito che la vendita di beni in concordato a favore dell’offerente individuato nel piano (dopo esperimento infruttuoso di offerte concorrenti ex art.163-bis L.F.) è equiparabile ad una vendita esecutiva coattiva, avvenendo in esito a gara indetta nella procedura. Questo la sottrae a azioni revocatorie e conferma che l’acquirente acquista a titolo definitivo come nelle esecuzioni forzate.
  • Cass. civ. Sez. I, 6 Giugno 2024 n. 15862Effetti del concordato preventivo omologato su successiva dichiarazione di fallimento (cd. “omisso medio”): ha chiarito che se un concordato è omologato e decorre il termine per richiederne la risoluzione, un eventuale fallimento successivo non può travolgere gli effetti definitivi del concordato. In particolare il creditore che ha promosso il fallimento anni dopo non può pretendere di far revocare l’esdebitazione già maturata con l’omologazione. (Commento in StudiolegaleBianucci e IlCaso.it).
  • Cass. civ. Sez. III, 22 Novembre 2023 n. 32487Cessione di azienda e debiti da contratti ceduti: ha sancito che i debiti inerenti a contratti aziendali nei quali il cessionario subentra ex art.2558 c.c., sebbene maturati prima della cessione, non rientrano nel regime dell’art.2560 co.2 c.c. (quindi non è richiesta l’iscrizione in contabilità ai fini della responsabilità del cessionario). Tali debiti “seguono” il contratto trasferito e sono a carico del cessionario in virtù della continuità del rapporto.
  • Cass. civ. Sez. III, 13 Settembre 2023 n. 26450Trasferimento solo formale dell’azienda e responsabilità del cessionario: ha affermato che l’art.2560 co.2 c.c. (responsabilità cessionario per debiti risultanti dai libri) si applica solo se vi è effettiva alterità tra cedente e cessionario. In caso di cessione meramente formale a soggetto giuridico ma con stessa compagine e amministratori, il cessionario risponde dei debiti anteriori anche non risultanti dai libri, poiché manca l’esigenza di tutela dell’acquirente inconsapevole. (Fattispecie: stessi soci rimasti, quindi ritenuto un mero schermo).
  • Cass. pen. Sez. V, 23 Febbraio 2024 n. 13016Reato di falso in attestazioni concordato: ha confermato la punibilità ai sensi dell’art. 236-bis L.F. (ora art. 342 CCII) per il professionista attestatore che fornisca informazioni false o ometta di rilevare elementi rilevanti nella relazione di fattibilità. La riformulazione del reato nel CCII non esime da responsabilità penale le attestazioni fraudolente. (Questa sentenza ribadisce deterrenza verso attestatori compiacenti).
  • Cass. pen. Sez. III, 20 Febbraio 2020 n. 13628Concordato preventivo e omesso versamento di ritenute/IVA: ha statuito che la mera presentazione della domanda di concordato non scrimina di per sé l’imprenditore che omette di versare tributi dovuti (ad es. IVA, ritenute), salvo vi sia uno specifico provvedimento autorizzativo del giudice che lo consenta. In assenza di ciò, persiste il rilievo penale degli omessi versamenti, in quanto la domanda di concordato non equivale ad apertura di una procedura esonerativa come il fallimento. (Quindi attenzione a non sospendere pagamenti fiscali unilateralmente solo perché si è in pre-concordato).
  • Cass. civ. Sez. Lavoro, 29 Gennaio 2025 n. 2054Trasferimento d’azienda e accordi sindacali pregressi: ordinanza che ha affermato che l’azienda cessionaria beneficia degli effetti di un accordo collettivo aziendale stipulato dalla cedente, in virtù della continuità dei rapporti di lavoro. (Nella fattispecie, Cass. 2054/2025 ha stabilito che l’accordo sindacale di secondo livello vigente presso la cedente continua ad applicarsi presso il cessionario). Ciò a conferma che il cessionario subentra in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, inclusi i patti sindacali, salvo diverso accordo.
  • Cass. civ. Sez. I, 24 Dicembre 2024 n. 34372Concordato preventivo: assenza di contestazione diritto di voto di creditore: (citata in IlCaso, attinente a effetti su voto di creditori non espressi) – Riguarda tecnicismi sul voto, ma non rilevante direttamente per la vendita aziende, la cito per completezza come presente in risultati ricerca.
  • Tribunale di Piacenza, Decreto 1 Giugno 2023Autorizzazione cessione azienda in composizione negoziata: massima pubblicata. Ha sottolineato che la vendita anticipata ex art.22 CCII funge da cessione competitiva “pre-concorsuale”; il tribunale verifica che sia funzionale alla continuità e al miglior soddisfacimento dei creditori, e impone il rispetto del principio di gara (es. pubblicazione avviso 20gg). Questo decreto conferma l’approccio prudente all’art.22: anche se è extragiudiziale, si impone trasparenza come in un concordato.
  • Tribunale di Milano, Decreto 12 Agosto 2023Cessione di rami d’azienda in composizione negoziata: ha autorizzato la cessione di rami richiedendo il coinvolgimento dell’esperto e delle parti, col parere positivo dell’esperto come fondamentale; inoltre ha ribadito che occorre sentire i creditori “rilevanti” e valutare congiuntamente i requisiti di legge (continuità e vantaggio per creditori). (Ciò implica che prima di autorizzare, il tribunale milanese vuole prova che i principali creditori concordano con l’operazione).
  • Tribunale di Parma, Decreto 4 Novembre 2022Affitto d’azienda in composizione negoziata e successiva vendita: ha autorizzato la vendita di un’azienda precedentemente affittata disponendo una procedura competitiva con pubblicazione di 20 giorni e il vincolo di depositare il prezzo su conto dedicato. Motivo: mitigare il rischio di perdita di valore in caso di ritardo e assicurare confronto collo scenario liquidatorio. Questo offre un modello di best practice per vendite in comp. negoziata: prima affitto per salvare continuità, poi vendita con gara rapida e trasparente.
  • Cass. civ. Sez. Unite, 27 dicembre 2016 n. 26988 (non citata sopra ma base giuridica): su effetti estinzione società di capitali e debiti insoddisfatti (ha detto che i creditori insoddisfatti possono agire contro soci solo fino a concorrenza delle somme ricevute in liquidazione). Utile per capire che se società di capitali si estingue, i debiti residui si considerano inesigibili salvo mala fede.
  • Corte di Giustizia UE:
    • Sentenza “Smallsteps” (C-126/16, 22/6/2017) – su trasferimento d’azienda in procedure concorsuali: ha tracciato confine su quando si può derogare a tutela 2112 c.c. (ha ispirato le modifiche normative italiane). Indica che se procedura mira a liquidare beni sotto autorità e in caso di insolvenza, si possono escludere tutele. Nostro legislatore col 368/2019 ha cercato di allinearsi.

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