Hai sentito parlare di aziende che si occupano del ritiro di società in crisi e ti stai chiedendo come funzionano, cosa fanno davvero e se possono aiutarti a liberarti dai problemi della tua impresa in difficoltà?
Quando una società è sommersa dai debiti e non ha più prospettive di risanamento, molti imprenditori cercano soluzioni rapide per chiudere tutto ed evitare ulteriori danni. È qui che intervengono alcune realtà che offrono il cosiddetto “ritiro” della società: una formula commerciale che promette di prendere in carico imprese in perdita, indebitate o inattive, per alleggerire l’amministratore dalle responsabilità.
Ma cosa fanno realmente queste aziende?
In genere, si propongono di acquisire la tua società, spesso per una cifra simbolica, e subentrano nella compagine sociale con nuovi soci e amministratori. L’obiettivo dichiarato è quello di gestire loro la chiusura, la liquidazione o la messa in regola della società, permettendoti di uscire di scena rapidamente.
Sembra semplice… ma è davvero sicuro?
Attenzione: non sempre queste operazioni sono trasparenti o prive di rischi. Se la società ha debiti verso l’erario, fornitori o dipendenti, o ha omesso dichiarazioni fiscali e obblighi contabili, il solo “ritiro” formale non ti libera automaticamente dalle responsabilità. In particolare, l’ex amministratore può essere chiamato a rispondere di:
– omissioni fiscali o contributive pregresse;
– atti di mala gestio (gestione dannosa);
– mancata chiusura corretta dei bilanci o altre violazioni societarie.
Esistono alternative legali al ritiro?
Sì. Se la tua società è realmente in crisi, puoi valutare soluzioni più sicure e trasparenti come:
– la liquidazione volontaria controllata, con chiusura ordinata della società;
– la richiesta di liquidazione giudiziale (ex fallimento), se ci sono i presupposti di insolvenza;
– o, nei casi previsti, l’accesso a procedure di sovraindebitamento anche per le microimprese.
E se hai già ceduto la società a una di queste aziende?
È importante verificare subito la correttezza dell’operazione, per evitare di restare esposto a futuri accertamenti fiscali, penali o civili. Spesso è possibile intervenire in tempo per rimediare o rientrare nel controllo della situazione prima che degeneri.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto societario, crisi d’impresa e responsabilità degli amministratori – ti spiega cosa c’è dietro le offerte di ritiro delle società in crisi, quali rischi comportano e come possiamo aiutarti a gestire davvero e legalmente l’uscita dalla tua impresa indebitata.
Hai una società in crisi e stai valutando il ritiro da parte di terzi? Vuoi sapere se ci sono soluzioni più sicure e legittime per chiudere la tua attività senza rischi personali?
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Introduzione
Il ritiro volontario di una società in crisi consiste nell’uscita spontanea dal mercato e dalla vita attiva dell’impresa da parte dei suoi soci o amministratori, prima che intervengano misure coattive dei creditori o dell’autorità giudiziaria. In altre parole, si tratta di chiudere o cedere l’azienda in difficoltà su iniziativa del debitore, anziché subire un fallimento o altra procedura concorsuale. Questo tema riveste grande importanza per imprenditori, professionisti e privati coinvolti in imprese in dissesto, poiché consente di limitare i danni economici e reputazionali, pianificando l’uscita in modo controllato e rispettoso delle norme. La guida che segue, aggiornata a giugno 2025, analizza in dettaglio le opzioni di ritiro volontario dal punto di vista del debitore (soci e amministratori), considerando tutti i tipi societari (S.r.l., S.p.A., società di persone, cooperative, ecc.), con linguaggio tecnico-giuridico ma divulgativo. Saranno esaminati i riferimenti normativi (Codice Civile, Codice della Crisi d’Impresa – D.Lgs. 14/2019 e s.m.i. – e relative disposizioni, nonché giurisprudenza di Cassazione e Tribunale aggiornata al 2025) e i profili operativi, fiscali e patrimoniali delle principali soluzioni disponibili. Verranno inoltre presentate tabelle riepilogative, FAQ (domande frequenti) e casi pratici per rendere più chiara l’applicazione concreta di ciascuna soluzione. L’obiettivo è offrire una guida avanzata che permetta a debitori e consulenti di orientarsi tra le varie scelte possibili – vendita dell’azienda in crisi a terzi, liquidazione volontaria, ecc. – valutandone implicazioni legali, economiche e strategiche.
Quadro normativo generale
Il contesto normativo italiano sul ritiro volontario delle società in crisi si colloca all’intersezione tra il Codice Civile (che disciplina cause di scioglimento, liquidazione e responsabilità patrimoniali) e il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) introdotto con D.Lgs. 14/2019, pienamente in vigore dal 2022. Quest’ultimo ha sostituito la legge fallimentare del 1942, innovando profondamente la materia dell’insolvenza. In linea generale, il legislatore della riforma ha perseguito l’obiettivo di favorire soluzioni anticipatorie e negoziali della crisi anziché il ricorso ex post al fallimento. Principi chiave del CCII sono infatti: incentivare l’emersione tempestiva delle difficoltà, valorizzare l’autonomia privata nelle soluzioni (procedure stragiudiziali semplificate) e salvaguardare la continuità aziendale ove possibile. Tuttavia, quando la continuità non è più sostenibile e l’imprenditore decide di ritirarsi, occorre procedere rispettando i vincoli posti sia dal Codice Civile che dalle norme speciali concorsuali.
Scioglimento e liquidazione nel Codice Civile: Gli articoli 2484–2496 c.c. (per le società di capitali) regolano le cause di scioglimento e la liquidazione. Le società S.p.A., S.a.p.A. e S.r.l. si sciolgono al verificarsi di determinate cause legali, tra cui la deliberazione dei soci di scioglimento anticipato (scioglimento volontario). Ulteriori cause di scioglimento automatico includono ad esempio: il decorso del termine sociale, il conseguimento o la sopravvenuta impossibilità dell’oggetto sociale, l’impossibilità di funzionamento o continuata inattività dell’assemblea, la perdita del capitale oltre il minimo legale (salvo ricapitalizzazione). A queste, il CCII ne ha aggiunta un’altra: l’apertura di una procedura concorsuale (liquidazione giudiziale o liquidazione controllata) comporta ipso iure lo scioglimento della società. Nelle società di persone (S.n.c., S.a.s.), le cause di scioglimento sono in parte analoghe (decorso termine, volontà dei soci, conseguimento oggetto, impossibilità di conseguimento, venir meno di un socio nelle società personali se non diversamente stabilito, ecc., ex art. 2272 c.c.), con particolarità dovute alla natura personale del vincolo (ad esempio, morte o recesso di un socio). Le cooperative seguono le norme delle società di capitali per lo scioglimento volontario, ma in caso di insolvenza sono soggette in genere a liquidazione coatta amministrativa disposta dall’autorità di vigilanza (art. 2545-terdecies c.c.) anziché al fallimento ordinario.
Obblighi degli amministratori e ruolo dei liquidatori: Non appena si verifica una causa di scioglimento, gli amministratori devono accertarla senza indugio e iscriverla al Registro Imprese (art. 2484, co.3 c.c.). Da tale momento la società assume la denominazione “in liquidazione” e gli amministratori devono astenersi dal compiere nuove operazioni eccedenti la mera conservazione del patrimonio. L’assemblea dei soci (o i soci delle società di persone) provvede alla nomina del liquidatore o dei liquidatori, definendone i poteri (art. 2487 c.c.). Nelle S.r.l. di piccole dimensioni, in alcune ipotesi di scioglimento “automatico” (es. perdita capitale sotto minimo), il Ministero dello Sviluppo Economico ha chiarito che è possibile attuare lo scioglimento con procedura semplificata, senza atto notarile, tramite dichiarazione dell’organo amministrativo. In caso di deliberazione volontaria dei soci (causa di scioglimento ex art. 2484 n.6 c.c.), resta invece necessaria la verbalizzazione notarile. I liquidatori, una volta nominati ed iscritti, subentrano agli amministratori nella gestione sociale con il compito esclusivo di liquidare l’attivo, pagare i debiti sociali e ripartire l’eventuale residuo tra i soci. Essi hanno il dovere di gestire la liquidazione nell’interesse dei creditori e dei soci, rispettando la par condicio creditorum (pari trattamento dei creditori di pari grado) e l’ordine dei privilegi nell’estinzione dei debiti. La legge (art. 2495 c.c.) stabilisce che, una volta approvato il bilancio finale di liquidazione e cancellata la società, i creditori non soddisfatti possono agire verso i soci (entro i limiti di quanto da questi riscosso in liquidazione) e in via illimitata verso i liquidatori, qualora il mancato pagamento sia dovuto a colpa di questi ultimi. Approfondiremo tra breve queste responsabilità.
Codice della Crisi e procedure concorsuali: Dal punto di vista del debitore (società e suoi esponenti), è fondamentale tenere presente come il CCII interagisce con le scelte di ritiro volontario. Il CCII offre vari strumenti per affrontare la crisi, dal piano attestato di risanamento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, fino al concordato preventivo (che può essere in continuità aziendale o liquidatorio) e alla liquidazione giudiziale (il “nuovo” fallimento). L’accesso a tali procedure può avvenire anche volontariamente su istanza del debitore (ad esempio presentando domanda di concordato o di liquidazione giudiziale), ma queste opzioni esulano dall’ambito del ritiro volontario puro in senso stretto, in quanto comportano l’intervento dell’autorità giudiziaria e dei creditori in un processo formale. In questa guida, dunque, ci concentreremo sulle soluzioni extragiudiziali o volontarie – cessione o liquidazione spontanea – che il debitore può adottare prima o in alternativa al fallimento, pur segnalando quando necessario le interazioni con le procedure concorsuali (ad esempio, la possibilità che un creditore insoddisfatto richieda comunque il fallimento entro certi termini, o l’opportunità di ricorrere a soluzioni negoziate offerte dal CCII). Da notare che il CCII conferma per le imprese sotto-soglia (c.d. imprese minori che non superano determinati parametri di attivo, ricavi e debiti) l’esenzione dalla liquidazione giudiziale: tali imprese, se in crisi, non sono assoggettabili a fallimento ma possono accedere alle procedure di sovraindebitamento (come la liquidazione controllata o il concordato minore). Anche questo aspetto sarà toccato, ad esempio nel caso delle società di persone o delle piccole S.r.l.
In sintesi, il quadro normativo vigente impone agli amministratori diligenza e tempestività nel fronteggiare la crisi: l’art. 2086 c.c., modificato dal D.Lgs. 14/2019, obbliga l’imprenditore collettivo ad adottare assetti organizzativi idonei a rilevare precocemente lo stato di crisi e a gestirlo. Se nonostante ciò la crisi degenera in insolvenza conclamata (incapacità di pagare regolarmente i debiti), sorge il dovere di valutare le soluzioni concorsuali o il ritiro dal mercato. Le scelte di cessione o liquidazione volontaria vanno dunque ponderate anche alla luce di questi obblighi: ad esempio, cedere la società a terzi non solleva gli amministratori dalla responsabilità per eventuali ritardi nell’aver affrontato la crisi (bancarotta semplice per tardiva richiesta di insolvenza), né li esonera da possibili azioni per atti distrattivi commessi prima della cessione. È perciò cruciale attuare il ritiro in modo conforme alla legge e trasparente, minimizzando i rischi di successive sanzioni o contestazioni.
Opzioni di ritiro volontario per il debitore in crisi
Dal punto di vista del debitore (siano essi i soci proprietari della società o i suoi amministratori), le principali opzioni di ritiro volontario in presenza di una crisi d’impresa sono due:
- Cessione della società in crisi a terzi – Si tratta di vendere l’azienda o le partecipazioni sociali (quote/azioni) a un soggetto terzo, trasferendo quindi a quest’ultimo la titolarità dell’impresa e la gestione dei suoi debiti. In pratica, i vecchi soci escono dalla compagine sociale cedendo le proprie quote/azioni, oppure cedono l’intera azienda (il complesso aziendale) a un’altra società o imprenditore. Questa soluzione viene spesso presentata come “passare la patata bollente” a qualcuno disposto a farsi carico della società decotta, e in Italia esiste un vero e proprio mercato di acquirenti specializzati in società in dissesto, come vedremo. La cessione può essere motivata sia dalla speranza di salvare l’azienda tramite nuovi capitali o competenze (turnaround), sia semplicemente dal desiderio dei vecchi soci di liberarsi dal “problema” e limitare le proprie perdite.
- Liquidazione volontaria dell’azienda – Consiste nel decidere di sciogliere anticipatamente la società e procedere alla sua liquidazione extracontestuale, cioè al realizzo dell’attivo e al pagamento dei debiti residui per quanto possibile, fino a chiudere l’impresa. In questo scenario, i soci rinunciano a proseguire l’attività e attivano la procedura di liquidazione prevista dal Codice Civile, sotto il proprio controllo (nomina di uno o più liquidatori di fiducia). L’obiettivo è chiudere la società in modo ordinato, pagando i creditori con le risorse disponibili e poi cancellando l’ente dal Registro delle Imprese. Ciò differisce dal fallimento perché l’iniziativa e la gestione restano in mano ai privati (soci e liquidatori) e non intervengono curatori o giudici, salvo che i creditori insoddisfatti successivamente provochino una procedura concorsuale.
Oltre a queste due macro-opzioni, esistono varianti e strumenti complementari che il debitore potrebbe valutare. Ad esempio, prima di una cessione o liquidazione volontaria, si può tentare una ristrutturazione informale del debito (negoziando accordi a saldo e stralcio con i creditori) oppure utilizzare strumenti del CCII come la composizione negoziata della crisi con l’ausilio di un esperto indipendente. Queste iniziative possono facilitare un esito migliore: ad esempio, trovare un investitore in una composizione negoziata che acquisisca l’azienda solvibile dopo un taglio dei debiti, oppure liquidare l’azienda volontariamente dopo aver ridotto l’esposizione debitoria tramite accordi transattivi. Tali percorsi, tuttavia, esulano dal ritiro volontario in senso stretto, in quanto non risolvono di per sé la crisi ma ne preparano la soluzione finale (cessione o liquidazione). Nella presente guida ci concentreremo quindi sulle due opzioni principali (vendita e liquidazione), analizzandone modalità, effetti giuridici, fiscali e rischi. Ogni opzione verrà esaminata nelle sue declinazioni in base al tipo di società considerato, segnalando le differenze procedurali e normative per S.r.l., S.p.A., cooperative e società di persone.
Di seguito, per ciascuna soluzione presentiamo i dettagli operativi e normativi, includendo tabelle di sintesi e riferimenti puntuali a norme e pronunce giurisprudenziali. Cominciamo con la cessione dell’azienda in crisi a terzi, soluzione spesso proposta come via d’uscita “rapida” per i soci di società indebitate. Successivamente, nel capitolo seguente, affronteremo la liquidazione volontaria e il confronto con le procedure concorsuali.
Cessione della società in crisi a terzi (vendita di aziende in dissesto)
La cessione di una società in crisi consiste nel trasferire la proprietà e il controllo dell’azienda – e con essa il suo carico di debiti – a un soggetto acquirente. In pratica, i soci uscenti stipulano un contratto di vendita a favore di un nuovo soggetto (persona fisica o, più spesso, un’altra società) che subentra come proprietario. Tale cessione può assumere diverse forme tecniche:
- Vendita delle partecipazioni sociali: i soci vendono le proprie quote (se S.r.l.) o azioni (se S.p.A.) al compratore. L’entità giuridica dell’azienda non cambia: è la stessa società che continua ad esistere, ma con una nuova compagine sociale. Tutti i rapporti giuridici (debiti verso banche, fornitori, Fisco, contratti in corso, ecc.) restano in capo alla società ceduta, che ora è controllata dall’acquirente. Questa è la modalità più frequente, specialmente per S.r.l., perché evita di dover trasferire singoli beni e contratti: si trasferisce “in blocco” l’ente societario con tutto il suo patrimonio attivo e passivo.
- Cessione dell’azienda o di un ramo d’azienda: la società in crisi, con il consenso dei soci, vende il complesso aziendale (cioè tutti o gran parte dei beni, contratti e rapporti aziendali) a un altro soggetto, tipicamente un’altra società. In questo caso è l’azienda intesa come bene ad essere trasferita, non necessariamente la società come entità giuridica. Spesso questa operazione si accompagna poi alla liquidazione o all’abbandono della società cedente, che rimane vuota dei suoi asset ma con i debiti. La vendita d’azienda è più complessa perché richiede di rispettare specifiche norme (art. 2556 c.c., forma contrattuale pubblica/autenticata; art. 2112 c.c. per la tutela dei dipendenti con passaggio automatico all’acquirente; art. 2560 c.c. per la responsabilità dell’acquirente verso i debiti aziendali risultanti dalle scritture contabili). Va sottolineato che vendere l’azienda senza trasferire i debiti può configurare un atto in frode ai creditori, se fatto in prossimità dell’insolvenza senza adeguato corrispettivo – torneremo su questo aspetto critico analizzando la giurisprudenza in materia di bancarotta.
- Fusioni o operazioni straordinarie: in taluni casi la “cessione” può avvenire con un’operazione societaria più complessa, ad esempio una fusione per incorporazione in un soggetto terzo che si fa carico del patrimonio della società in crisi, oppure una scissione in cui la parte “sana” dell’azienda viene scorporata lasciando i debiti nella società originaria (che poi si liquida). Queste operazioni, tuttavia, richiedono tempi e costi maggiori e tipicamente coinvolgono l’autorità giudiziaria se l’azienda è già in dissesto (ad esempio, fusione approvata in concordato preventivo). Nella dimensione extragiudiziale, di solito la via preferita resta la compravendita classica (quote o azienda).
Chi sono gli acquirenti di società in crisi? Sul mercato italiano esistono operatori specializzati che acquistano società indebitate. Si tratta di figure eterogenee: in alcuni casi società di investimento o turnaround che vedono potenzialità di recupero dell’impresa (ad esempio, fondi specializzati nel rilevare aziende decotte per ristrutturarle); in altri casi, concorrenti o partner dell’azienda in crisi, interessati ad acquisirne l’avviamento, i clienti o specifici asset (macchinari, know-how) senza farsi carico del passato; in altri ancora, purtroppo, soggetti poco trasparenti (i cosiddetti “prestanome” o “teste di legno”) che rilevano società fallite o prossime al fallimento per fini non sempre leciti, come tentare di evitare azioni di responsabilità contro i vecchi amministratori o drenare quel poco che resta dell’attivo. Annunci pubblicitari espliciti non mancano: ad esempio, una società di consulenza pubblicizza “Acquistiamo società in crisi (con tutti i debiti e i problemi) e vi permettiamo di ripartire da zero”, evidenziando come i vecchi soci possano cedere l’intero pacchetto con il passivo e riavviare un’attività nuova “senza i debiti”. Questo slogan, sebbene allettante, va analizzato criticamente: trasferire i debiti non equivale a cancellarli, e liberarsi di una società indebitata potrebbe esporre i cedenti a responsabilità se l’operazione non è condotta in modo corretto. Approfondiremo a breve i profili di rischio e le criticità giuridiche di queste cessioni.
Prima di esaminare tali rischi, definiamo gli elementi tecnici e legali della cessione di società in crisi, distinguendo fra cessione di partecipazioni sociali e cessione di azienda nella tabella seguente:
Nota: la tabella sopra mette in luce una differenza cruciale: vendere le quote significa trasferire l’intera società (debiti inclusi) all’acquirente, mentre vendere l’azienda comporta in genere che i debiti rimangano a carico del venditore (salvo accordi specifici). Pertanto, se l’intento dei soci è liberarsi dei debiti, la cessione delle partecipazioni è lo strumento che effettivamente trasferisce il fardello passivo sull’acquirente (poiché la società continua ad essere debitrice ma con altri proprietari). La cessione d’azienda, al contrario, richiede attenzione: spesso viene utilizzata in contesti di concordato preventivo o accordi di ristrutturazione, dove il ricavato dalla vendita va ai creditori. Una cessione d’azienda fatta fuori dalle procedure e senza soddisfare i creditori potrebbe essere revocata o integrare reati (perché priva i creditori delle garanzie patrimoniali, lasciando la società vuota e insolvente).
Modalità operative e prassi delle aziende acquirenti
Sul piano pratico, la cessione di una società in crisi richiede alcuni passi operativi fondamentali:
- Due diligence e accordo preliminare: l’acquirente interessato (se serio) effettuerà almeno una verifica minima dello stato dell’azienda: entità dei debiti, pendenze legali, situazione fiscale, stato di libri contabili, eventuali cause in corso. Data la particolarità del caso (azienda insolvente o quasi), spesso il venditore fornisce all’acquirente un quadro trasparente della crisi. Le parti possono sottoscrivere un accordo preliminare o term sheet, dove il compratore accetta di rilevare l’azienda con tutti i suoi pesi, spesso a prezzo simbolico (es. 1 euro) o comunque molto basso. In alcuni casi, è il venditore che paga l’acquirente per farsi carico della società (ad esempio, cedendo un bene personale, o lasciando liquidità in cassa) – pratica talora necessaria per incentivare qualcuno a rilevare un’impresa con patrimonio netto negativo.
- Atto di cessione e subentro: si procede poi al contratto definitivo nella forma richiesta. Per S.r.l., come visto, serve l’atto notarile di cessione quote. Contestualmente, spesso l’assemblea dei soci revoca e nomina il nuovo organo amministrativo (designato dall’acquirente) e trasferisce formalmente le azioni o quote all’acquirente. Al momento del closing, quindi, la governance passa in mano al compratore. Se invece si cede l’azienda, servirà un atto notarile con inventario dei beni ceduti; l’acquirente può contestualmente assumere alcuni debiti (es. mutui, leasing) tramite accollo, oppure può pagare un prezzo che il venditore userà per pagare i debiti più urgenti.
- Gestione dei debiti post-cessione: qui si vedono due possibili approcci da parte degli acquirenti di società in crisi:
- Approccio “risanatore”: il compratore inietta risorse nell’azienda, negozia con i creditori una ristrutturazione del debito (ad esempio, proponendo il saldo di una percentuale, magari tramite un concordato preventivo in continuità se necessario), e tenta di rilanciare l’attività. Questo avviene se l’acquirente intravede un valore residuo nell’impresa (tecnologia, mercato, ecc.). Spesso include anche l’immissione di nuovi capitali per ripianare almeno in parte i debiti e riportare l’impresa in bonis. Alcune società specializzate seguono questo modello: comprano aziende in crisi, investono nuovi capitali per creare liquidità e transare i debiti, riportandole in attivo. Un esempio è quando un concorrente acquista la società in crisi, ne paga i debiti strategici (fornitori chiave, dipendenti) e integra la struttura nella propria, salvando know-how e clientela.
- Approccio “liquidatorio” o opportunistico: il compratore non intende proseguire seriamente l’attività, ma solo liquidare quel poco che resta o trarre un vantaggio collaterale. Può succedere che l’acquirente venda i beni rimasti (macchinari, marchi) e poi lasci fallire la società, oppure che sfrutti la società per altre operazioni (ad esempio, una “scatola vuota” dove far confluire altri affari, forse indebiti). In alcuni casi l’acquirente spera di utilizzare eventuali perdite fiscali pregresse per compensare utili di altre sue attività (anche se, come detto, la legge limita l’uso delle perdite in caso di cambio di controllo e inattività pregressa). Un caso particolare è il Progetto Fenice menzionato da alcuni consulenti: finanziatori rilevano la società ormai decotta, la portano a fallimento controllato e contestualmente finanziano una newco dove l’attività riparte dalle ceneri della vecchia. In tale scenario, i creditori della vecchia società restano insoddisfatti, ma l’acquirente (o altri investitori) traggono profitto dall’avviamento e dai beni salvati trasferendoli alla nuova impresa. Questa pratica sfuma nel lecito solo se i valori di cessione sono congrui: altrimenti, travasare l’avviamento dalla vecchia società alla nuova senza compenso configura distrazione di beni a danno dei creditori.
In Italia, la giurisprudenza ha osservato entrambe le casistiche. Cassazione Penale ha chiarito che l’alienazione delle partecipazioni sociali (vendita di quote/azioni) di per sé non costituisce distrazione punibile, nemmeno se l’operazione è solo fittizia, perché le quote sociali sono beni del socio, non della società fallita. In altri termini, un amministratore che vende le proprie quote a un prestanome non commette bancarotta fraudolenta per distrazione solo per questo, dato che dal patrimonio sociale non esce formalmente nulla. Questo non significa però che ogni cessione sia lecita: restano possibili altri profili di reato, ad esempio la bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto o la concorso in bancarotta se c’è collusione con il nuovo acquirente per frodare i creditori.
Un principio importante stabilito dalla Cassazione (sent. n. 44663/2021) è che non integra bancarotta per distrazione la cessione di partecipazioni societarie effettuata al loro valore effettivo di mercato, anche se tale valore è di molto inferiore a quello nominale o storico. Ciò accade tipicamente quando un settore è in crisi: la società valeva 1 milione al momento del conferimento, ma oggi – travolta dalla crisi – le quote possono valere simbolicamente 1 euro. Se quel euro riflette il vero valore residuo, la vendita a 1 euro non è una distrazione fraudolenta. In tal caso, i giudici guardano substance over form: il valore reale, se congruamente determinato, giustifica anche un corrispettivo simbolico senza considerarlo atto doloso.
Di contro, il trasferimento di tutti o principali beni aziendali a terzi senza congruo corrispettivo è stato ripetutamente qualificato come bancarotta fraudolenta per distrazione. Una recentissima Cassazione (sent. n. 17807 del 12/05/2025) ha ribadito che “tutte le operazioni economiche che, esulando dagli scopi dell’impresa, determinano un depauperamento del patrimonio e mettono in pericolo le ragioni dei creditori integrano il reato ex art. 216 L.F.”. In quella vicenda, l’amministratore aveva stipulato un contratto di affitto d’azienda e successiva cessione di beni a un’altra società, trasferendo di fatto un capannone e vari automezzi senza alcun corrispettivo a favore della società poi fallita. Addirittura alcuni beni in leasing erano stati ceduti chiedendo all’acquirente di farsi carico delle rate, ma questi non le pagò mai. La Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale: l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, ovvero la volontarietà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia dei creditori, non servendo nemmeno la coscienza di uno stato d’insolvenza attuale. In pratica, svuotare l’azienda dei suoi beni a favore di un terzo (spesso collegato) senza adeguato prezzo è quasi automaticamente una distrazione illecita, punibile anche se l’amministratore sostiene di voler salvare l’impresa altrove.
È importante sottolineare anche la responsabilità di chi cede la società a un prestanome per liberarsene. Se la società viene portata al fallimento dal nuovo amministratore “testa di legno”, il vecchio amministratore potrebbe rispondere per concorso in bancarotta, qualora sia provato che ha scientemente affidato la società a persona incapace o compiacente per sottrarsi ai doveri verso i creditori. La Cassazione (sent. 12949/2020) ha affermato che l’amministratore di diritto risponde se consapevole che l’amministratore di fatto (che subentra) compirà atti distrattivi, essendo sufficiente anche il dolo eventuale – la generica consapevolezza e accettazione del rischio. Ciò significa che i soci/amministratori uscenti devono essere diligenti nella scelta dell’acquirente: cedere la società a un soggetto nullatenente o palesemente inattendibile potrebbe far presumere la volontà di favorire future distrazioni, con possibili guai penali.
Profili giuridici: effetti legali della cessione per debitore e acquirente
Vediamo ora i principali effetti giuridici di una cessione d’azienda in crisi per le parti coinvolte:
- Effetti per i soci cedenti (debitore): con la vendita delle quote/azioni, i soci uscenti escono dalla società e perdono la qualità di imprenditori (non sono più né soci né amministratori). Dal momento del trasferimento, essi in linea di principio non rispondono più dei debiti sociali futuri che la società contrarrà, né delle obbligazioni pregresse, trattandosi di società di capitali con autonomia patrimoniale perfetta. Eccezione: se avevano prestato garanzie personali (fideiussioni, avalli) per debiti sociali, queste garanzie permangono anche dopo la cessione – ad es. un socio che aveva garantito un mutuo bancario della società resterà obbligato verso la banca, a meno che non ottenga dalla banca liberatoria. Inoltre, i soci cedenti possono essere chiamati a rispondere se hanno distratto o occultato beni sociali prima della cessione (come visto, responsabilità penale e anche azioni di responsabilità civili). Infine, se la cessione avviene a titolo oneroso, i soci cedenti percepiscono un corrispettivo: se la società era in forte passivo, spesso il prezzo è zero o simbolico; se invece c’è un prezzo, va considerato che incassare utilità dai beni sociali in presenza di debiti può esporre i soci a revocatorie o azioni dei creditori. Tuttavia, l’art. 2495 c.c. (in caso di liquidazione) condiziona la responsabilità dei soci a quanto percepito in sede di liquidazione; nel caso di semplice cessione senza liquidazione, non c’è un’analoga norma, ma un curatore fallimentare potrebbe teorizzare che il prezzo pagato ai soci andava alla società (specie se i soci vendono sotto valore e intascano liquidità che avrebbe dovuto soddisfare creditori). Per prudenza, in cessioni di crisi raramente i soci intascano molto.
- Effetti per la società ceduta: la società continua ad esistere e mantiene intatti tutti i suoi rapporti giuridici. Cambiano gli amministratori (nominati dal nuovo proprietario) e l’assetto di controllo, ma i contratti in essere proseguono (salvo clausole di change of control in alcuni contratti che diano facoltà di recesso alla controparte). I debiti restano a carico della società; i creditori potrebbero vedere con sospetto l’ingresso di nuovi soci (es. la banca può chiedere il rientro immediato di fidi se c’è un cambio di controllo non gradito). La società potrebbe cambiare denominazione, sede, oggetto se i nuovi soci lo decidono, ma resta comunque responsabile di tutto il pregresso. In caso di successivo fallimento della società (ora gestita dai nuovi proprietari), la procedura riguarderà sempre la società medesima; tuttavia, il curatore fallimentare potrebbe indagare sulle operazioni avvenute prima della cessione, e come detto chiamare in causa gli ex amministratori se ravvisa irregolarità. Per la società, un potenziale effetto positivo è se l’acquirente apporta risorse: ad esempio, la ricapitalizza o finanzia pagamenti di debiti urgenti, evitando il default immediato. Potrebbe essere necessaria, in particolare per le S.p.A., una ricapitalizzazione contestuale se il patrimonio era negativo: ricordiamo che la perdita di capitale sotto zero è causa di scioglimento, quindi il nuovo socio dovrà deliberare un aumento di capitale o comunque ricostituire il capitale minimo (anche solo portandolo a €10.000 per S.r.l.) per evitare l’obbligo di liquidazione. In periodo COVID il legislatore ha sospeso fino al 2025 l’obbligo di scioglimento per erosione capitale, permettendo anche a società azzerate di continuare temporaneamente. Questo ha favorito molte cessioni “tampone”: aziende con patrimonio netto negativo cedute senza immediata ricapitalizzazione, contando sulla norma emergenziale che consente di procrastinare il ripiano delle perdite. Tale sospensione però terminerà al ripristino delle regole ordinarie (dopo il 2025), e comunque non esime i nuovi amministratori dal gestire prudentemente la società nel frattempo.
- Effetti per i creditori: formalmente, i creditori non possono opporsi alla cessione di quote o azioni, poiché è un atto che riguarda la sfera dei soci, non un trasferimento di beni sociali. Un fornitore o la banca non hanno voce in capitolo se i soci della S.r.l. Alfa vendono le loro quote a Tizio: il debitore (società Alfa) rimane lo stesso. Tuttavia, i creditori sono ovviamente interessati all’affidabilità del nuovo proprietario. Non di rado, subito dopo aver ceduto l’azienda, i vecchi soci comunicano ai creditori di “rivolgersi al nuovo amministratore” per i pagamenti: questo può allarmare banche e fornitori, inducendoli a iniziare azioni legali (ingiunzioni, pignoramenti) temendo di non essere pagati. In sede giudiziaria, i creditori potrebbero tentare di dimostrare che la cessione era un atto in frode: ma ripetiamo, trasferirsi le quote non è di per sé un atto dispositivo del patrimonio sociale, dunque gli strumenti tipici (come l’azione revocatoria fallimentare) non sono applicabili direttamente alla vendita delle partecipazioni (diverso sarebbe se si trattasse di cessione di beni). I creditori possono però vigilare e, se la società cessa i pagamenti, chiederne il fallimento tempestivamente, magari coinvolgendo i vecchi amministratori in un’azione di responsabilità. Un creditore rilevante, l’Erario, potrebbe segnalare operazioni anomale: ad esempio, l’Agenzia Entrate potrebbe iscrivere ipoteca o pegno sui beni sociali se teme spostamenti post-cessione. Se la cessione è fatta all’interno di una procedura di composizione negoziata o concordato, i creditori hanno un ruolo attivo (devono approvare o quanto meno essere soddisfatti secondo le regole concorsuali).
- Effetti per l’acquirente: il nuovo proprietario acquisisce potenzialmente anche problemi latenti: oltre ai debiti noti, ci possono essere debiti occulti (passività potenziali, cause legali pendenti, contenziosi fiscali) che emergeranno poi. Per cautelarsi, solitamente l’acquirente negozia clausole di manleva o garanzia con i venditori, ma nei casi di aziende decotte spesso i venditori rifiutano ogni garanzia (non vogliono mantenere vincoli dopo l’uscita). In pratica, l’acquirente consapevole di rilevare un’impresa in stato pre-fallimentare di solito non ottiene garanzie e paga un prezzo simbolico proprio perché accetta il rischio. Dal punto di vista legale, l’acquirente dovrà procedere con tutti gli adempimenti societari: depositare la sua partecipazione, nominare nuovi amministratori, eventualmente modificare statuto, e soprattutto affrontare la posizione debitoria della società. Se la strategia è risanatoria, potrà valutare un accordo generale con i creditori o un concordato preventivo. Se invece la strategia è liquidatoria, potrebbe lasciar morire la società (non pagare nessuno e attendere le mosse dei creditori). Un rischio per l’acquirente opportunista è di incorrere in conseguenze penali: se infatti egli stesso compie operazioni distrattive (svuota i conti, cede gli ultimi cespiti a sé stesso, ecc.) e la società fallisce, sarà lui a risponderne penalmente come amministratore del fallito. La Cassazione punisce severamente i “traghettatori” che ricevono la società per poi farle commettere bancarotta: ad esempio, la figura del “testa di legno” può essere condannata per bancarotta fraudolenta se emergono atti di distrazione, anche se orchestrati dai precedenti soci – a tal proposito la Corte ha chiarito che i giudici devono valutare con rigore l’onere di motivazione per condannare la testa di legno complice dei vecchi soci. Dunque l’acquirente non è al riparo: se viene usato come prestanome e consente atti illeciti, ne risponderà.
Profili fiscali della cessione di società in crisi
La dimensione fiscale di una cessione di società in crisi presenta alcune particolarità:
- Tassazione per i venditori: Come indicato in tabella, se i soci persone fisiche vendono le proprie partecipazioni, potrebbero teoricamente realizzare una plusvalenza tassabile (capital gain). Nella realtà di un’azienda in crisi, spesso il prezzo di cessione è nullo o irrisorio, quindi non vi è guadagno fiscale: anzi, i soci potrebbero realizzare una minusvalenza (perdita) dal loro investimento, che però per le persone fisiche non è deducibile (lo sarebbe solo per imprese che cedono partecipazioni non PEX o per minusvalenze su partecipazioni qualificate da compensare con plusvalenze). Se il socio venditore è una società di capitali, e la partecipazione era detenuta da almeno 12 mesi ed era qualificata come immobilizzazione finanziaria, potrebbe rientrare nell’esenzione PEX (Participation Exemption) al 95%: ma dato che il valore è basso, l’effetto fiscale è spesso trascurabile. Per il venditore, l’aspetto più importante è se incassa denaro o altri beni in cambio della cessione: tali somme, se distolte dall’utilizzo per pagare i creditori sociali, potrebbero essere oggetto di contestazione. Ad esempio, un socio che ottenesse €100.000 per cedere la società e se li tenesse mentre la società ha debiti non pagati per quell’importo, rischia azioni revocatorie o responsabilità extracontrattuale verso i creditori (anche se formalmente la società e i creditori sono soggetti distinti, i creditori potrebbero provare collusione). Da un punto di vista strettamente fiscale, l’incasso del corrispettivo genera plusvalenza soggetta al 26% (se persona fisica): ma se la società è in perdita, di solito il corrispettivo è modesto e comunque molti soci preferiscono rinunciare a qualsiasi incasso per non aggravare i rischi.
- Tassazione per l’acquirente: L’acquisizione di quote o azioni non è di per sé deducibile per il compratore. Se l’acquirente è una società, iscriverà la partecipazione al costo di acquisto (spesso simbolico) e in futuro, se genererà utili, potrà beneficiare di eventuali perdite fiscali pregresse della società acquisita. Su questo punto occorre ricordare la normativa anti-elusiva del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi): l’art. 84 TUIR stabilisce che le perdite fiscali pregresse di una società possono essere riportate a nuovo solo se la società ha mantenuto un test di vitalità (cioè un certo livello di ricavi e spese per lavoro nei due esercizi precedenti) e non cambia l’attività principale. Se, come spesso accade, la società in crisi è inattiva o con ricavi minimi, le sue perdite decadono in caso di cambio di controllo. Dunque l’acquirente non può illudersi di comprare la società solo per utilizzare perdite come “scudo fiscale”, a meno che non siano rispettate le condizioni di legge (ad esempio, la società abbia ancora un minimo di fatturato al momento del passaggio e si prosegua la stessa attività). Inoltre, l’acquirente, rilevando la società, eredita tutte le posizioni fiscali: debiti IVA, debiti per imposte, potenziali sanzioni. Questi debiti restano a carico della società stessa, ma se la società non li pagherà, l’Agenzia Entrate Riscossione potrà aggredire i beni sociali o, post-fallimento, insistere sul recupero nel concorso. Se i debiti fiscali sono ingenti, spesso i funzionari delle Entrate vedono di cattivo occhio la cessione e possono intensificare i controlli: è noto che l’Amministrazione finanziaria presta attenzione ai casi di “cessione di società con soli debiti tributari”, ipotizzando a volte reati tributari (occultamento o sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex D.Lgs. 74/2000 art.11). In sostanza, un trasferimento di società piena di debiti fiscali a un nullatenente, seguito dall’inadempimento delle imposte, potrebbe integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, con coinvolgimento di cedenti e cessionari. È dunque essenziale valutare anche questo rischio: ad esempio, non svuotare i conti prima della cessione per non pagare l’IVA, o non trasferire le quote il giorno prima che scada un pagamento fiscale ingente senza informare il fisco.
- Imposte indirette sulla cessione: La vendita di quote o azioni sconta solo €200 di registro (atto soggetto a registrazione in termine fisso). Non c’è IVA né altre imposte (le transazioni di partecipazioni sono “finanziarie” esenti IVA). La vendita di azienda, come già accennato, sconta l’imposta di registro proporzionale e, se comprende immobili, anche imposte ipocatastali. Dal punto di vista economico, questo significa che cedere le partecipazioni è fiscalmente meno oneroso che cedere l’azienda (nessuna imposta proporzionale). Per questo, quando possibile, anche i compratori preferiscono rilevare l’azienda tramite l’acquisto delle quote societarie, evitando di pagare imposte di trasferimento. Tuttavia, se l’acquirente è interessato solo ad alcuni asset, potrebbe preferire comprare solo l’azienda/ramo e lasciare i debiti al venditore.
- Operazioni agevolate per l’uscita dei soci: Va segnalato che la Legge di Bilancio 2025 (L. 30 dicembre 2024 n. 207) ha reintrodotto l’assegnazione agevolata dei beni ai soci fino al 30 settembre 2025. Questa norma consente alle società di assegnare o cedere beni immobili o mobili registrati ai soci pagando un’imposta sostitutiva ridotta (8% o 10,5%), invece della tassazione ordinaria. Inoltre prevede imposte ipocatastali fisse (200€ cadauna) sui trasferimenti ai soci. L’agevolazione mira a favorire la chiusura di società immobiliari o non operative, trasferendo ai soci i beni residui. Potrebbe teoricamente essere usata anche in contesti di crisi per far uscire beni ai soci prima di liquidare la società, ma attenzione: ciò non protegge dai creditori. Un’assegnazione di beni ai soci di una società indebitata, ancorché paghi l’8% di imposta sostitutiva, resta suscettibile di essere revocata in caso di successivo fallimento (come atto a titolo gratuito o prefenziale se fatto a soci) e potrebbe configurare reato di bancarotta. Quindi questa leva fiscale è utile solo se i debiti sociali sono stati saldati o se i creditori acconsentono (ad esempio, nell’ambito di un accordo di ristrutturazione omologato). In mancanza, i soci di una società in crisi non possono semplicemente assegnarsi gli immobili con lo sconto fiscale e poi chiudere, sperando di non pagare i debiti: i creditori potrebbero comunque agire contro di loro ex art. 2495 c.c. o chiedere il fallimento entro l’anno. Pertanto, l’assegnazione agevolata 2025 è uno strumento da valutare con cautela nei casi di crisi: utile se la società ha un solo bene e pochi debiti (che si possono soddisfare col pagamento dell’imposta sostitutiva), altrimenti rischioso.
Profili patrimoniali e finanziari: implicazioni economiche della cessione
Dal lato patrimoniale, la cessione di una società in crisi comporta considerazioni delicate:
- Valutazione dell’azienda e prezzo di cessione: in condizioni normali, la vendita di un’azienda o di partecipazioni prevede una due diligence e una valutazione economica per determinare il prezzo equo. Nel caso di aziende in crisi profonda, la valutazione spesso dà esito zero o negativo (debiti > attivi). Un’azienda con patrimonio netto negativo non avrebbe un prezzo positivo in un mercato ideale (bisognerebbe pagare chi la prende). Pertanto, la maggior parte delle cessioni avviene per prezzi simbolici (1 euro) oppure con strutture “onerose” per il venditore (ad es., il venditore si accolla spese legali o paga una commissione al mediatore). Ciò non viola alcuna norma – come visto, vendere a 1 euro può essere del tutto legittimo se riflette il valore effettivo. È però importante che le parti formalizzino bene il perimetro dell’operazione: se i soci vendono per 1 euro ma la società possiede ancora beni di valore, quell’1 euro sarebbe chiaramente incongruo e potrebbe essere indice di simulazione (magari il compratore paga un extra in nero?). La congruità va quindi valutata sullo stato patrimoniale reale: molte aziende in crisi, al netto di passività potenziali, cause legali, ecc., valgono realmente zero o meno. Anche eventuali asset (immobili, marchi) potrebbero essere ipotecati o privi di mercato. In tali casi, un prezzo simbolico documentato è accettabile. Se invece l’azienda ha ancora valore (es.: un ramo funzionante), i soci dovrebbero pretendere un prezzo e fare in modo che questo affluisca alla società per soddisfare i creditori, altrimenti la cessione appare in frode.
- Accolli di debiti e accordi con creditori: spesso, per convincere un acquirente serio a intervenire, i soci e l’acquirente negoziano con i principali creditori. Ad esempio, la banca potrebbe concordare con il nuovo acquirente una moratoria o una rinuncia parziale al credito, magari richiedendo nuove garanzie. I fornitori strategici potrebbero accettare uno stralcio (pagamento di una percentuale del dovuto) se vedono continuità con il nuovo imprenditore. Questi accordi rientrano nel profilo finanziario dell’operazione: la cessione non è un evento isolato, ma può inserirsi in un piano di salvataggio più ampio. Nel migliore dei casi, i debiti vengono ristrutturati all’atto della cessione (ad es., l’acquirente porta denaro fresco per transare posizioni chiave). In altri casi, invece, non c’è alcun accordo: l’acquirente semplicemente spera di poter pagare i debiti col tempo, oppure non intende pagarli affatto e confida di non essere aggredito subito.
- Situazione patrimoniale della società al momento della cessione: per la tutela dei cedenti, è prudente redigere una situazione patrimoniale aggiornata al giorno della vendita, che fotografi attivi, passivi e patrimonio netto. Questo non è obbligatorio per legge oltre gli adempimenti ordinari (bilancio annuale), ma è utile perché: (a) fornisce alle parti un quadro condiviso; (b) tutela il venditore dall’essere accusato di aver nascosto qualcosa; (c) può servire a dimostrare l’eventuale insolvenza pregressa. Quest’ultimo punto è un’arma a doppio taglio: se la società era già insolvente (patrimonio < debiti scaduti, inadempimenti diffusi) prima della cessione, sarebbe stato dovere degli amministratori valutare il ricorso a procedura concorsuale. D’altro canto, evidenziare l’insolvenza in una situazione consegnata al nuovo acquirente sposta su di lui la responsabilità di decidere come procedere (es.: chiedere concordato, o prepararsi al fallimento). Da notare: se la società appare palesemente insolvente alla data del trasferimento, un creditore potrebbe sostenere che i vecchi amministratori avrebbero dovuto presentare istanza di fallimento invece di cedere la società. Come visto, la Cassazione (521/2020) ha mitigato l’obbligo di autofallimento dicendo che l’istanza è dovuta solo se la mancata attivazione aggrava il dissesto. Se i vecchi soci trovano subito un acquirente e consegnano a lui la società insolvente, potrebbero argomentare di non aver aggravato nulla, avendo passato il testimone. Resta però un terreno scivoloso: se poi i creditori hanno recuperato meno per via di quel passaggio di mano, i vecchi amministratori potranno essere chiamati a risponderne.
- Patrimonio negativo e ricapitalizzazione: quando la società ha patrimonio netto negativo (perdite superiori al capitale), si ha come detto una causa di scioglimento ex art. 2484 n.4 c.c. che obbligherebbe a liquidare, salvo ricapitalizzazione o riduzione e contemporaneo aumento del capitale. Un acquirente serio in questi casi spesso effettua un’operazione contestuale: azzeramento del capitale precedente e ricapitalizzazione immediata, magari con ingresso di nuovi soci o risorse. Questo ripiana formalmente il patrimonio (portandolo a zero o positivo). Se ciò non avviene, la società resta in uno stato “zombie”, in cui gli amministratori avrebbero comunque l’onere di non aggravare le perdite. L’attuale normativa emergenziale (che, come accennato, consente di soprassedere fino al 2025 al ripianamento delle perdite 2020) ha temporaneamente alleviato questa pressione: così alcune società con capitale azzerato hanno potuto essere cedute senza la contestuale messa in liquidazione. A fine 2025, salvo proroghe, tale scudo viene meno. Dunque, chi acquisisce nel 2025 una società con perdite pregresse dovrà tenere conto che dall’anno successivo non potrà più evitare di decidere: o la risana o la liquida formalmente.
In sintesi, la cessione dell’azienda in crisi è un’operazione potenzialmente utile (perché evita ai vecchi soci il coinvolgimento in lunghe procedure concorsuali e, se ben eseguita, può dare all’impresa una seconda chance con nuovi mezzi) ma anche rischiosa.
Ecco una panoramica schematica dei principali pro e contro per il debitore:
- Vantaggi potenziali della cessione:
- I vecchi soci e amministratori escono dall’impresa, evitando di essere parte di un eventuale fallimento successivo (quantomeno formalmente, non essendo più legali rappresentanti né soci falliti, salvo azioni specifiche).
- L’azienda ha una possibilità di sopravvivenza se l’acquirente è competente e disposto a investire. Può salvarsi l’avviamento, i posti di lavoro e il know-how produttivo se il piano di rilancio riesce.
- I soci cedenti limitano le perdite future: cessano di dover finanziare l’azienda, di esporsi con garanzie (se non già date in passato) e possono dedicarsi ad altro, magari aprendo una nuova attività “pulita” (purché non portino via indebitamente clienti e asset, come visto).
- Svantaggi e criticità della cessione:
- Non c’è garanzia di esonero da responsabilità: se emergono illeciti gestionali anteriori (es. mancati versamenti di IVA, distrazioni, false comunicazioni sociali), i vecchi amministratori risponderanno comunque, anche anni dopo, indipendentemente dalla cessione.
- Se la cessione avviene in modo opaco (a soggetti inattendibili, per prezzi incongrui, con trasferimenti di beni senza pagamento), i rischi penali sono significativi: bancarotta fraudolenta, sottrazione al pagamento imposte, concorso in reati del nuovo amministratore.
- I creditori possono comunque reagire: la società ceduta può essere dichiarata fallita su istanza dei creditori entro 1 anno dalla cancellazione dal Registro Imprese (se venisse nel frattempo liquidata), oppure anche senza aspettare la cancellazione, con coinvolgimento eventuale del periodo precedente alla cessione. Ciò potrebbe vanificare l’obiettivo di evitare procedure: i vecchi soci potrebbero essere chiamati in un’azione di responsabilità nel fallimento o essere escussi per garanzie personali.
- I dipendenti e altri stakeholder potrebbero subire ripercussioni: se l’acquirente non è serio, l’azienda finirà comunque per chiudere magari senza tutele (ad esempio, se non si passa dal fallimento, i dipendenti licenziati non hanno accesso al Fondo di Garanzia INPS per il TFR e stipendi arretrati, a differenza di quanto accadrebbe in un fallimento; approfondiremo questa differenza nel prossimo capitolo).
- Da ultimo, il passaggio stesso può essere complesso da gestire burocraticamente: occorre aggiornare libri sociali, depositare atti, comunicare alle controparti il cambio (spesso i fornitori quando lo scoprono reagiscono negativamente). La reputazione dell’impresa crolla se il mercato percepisce che è stata venduta “per debiti”: quindi occorre spesso riservatezza e poi un piano di comunicazione rassicurante da parte del nuovo proprietario.
Riassumendo, la cessione è un’arma a doppio taglio: efficace se orchestrata con trasparenza e se il buyer è affidabile; pericolosa se utilizzata come escamotage per sottrarsi agli obblighi.
Nella prossima sezione esamineremo l’altra grande opzione di ritiro volontario, la liquidazione volontaria della società, confrontandola anche con il fallimento e approfondendo le responsabilità e tutele per i vari soggetti coinvolti.
Liquidazione volontaria della società in crisi
La liquidazione volontaria è il procedimento con cui i soci di una società, rilevata la situazione di crisi o comunque venuta meno la volontà/possibilità di proseguire l’attività, decidono di sciogliere la società e di liquidarne il patrimonio per soddisfare per quanto possibile i creditori e poi chiudere definitivamente l’ente. Si parla di liquidazione “volontaria” per distinguerla dalla liquidazione “giudiziale” (il fallimento) che è invece attivata e gestita dall’autorità giudiziaria. In liquidazione volontaria, sono i privati (soci, amministratori, liquidatori) a condurre l’operazione secondo le regole civilistiche, con un margine di autonomia – seppur vigilato da potenziali azioni dei creditori.
Procedura di scioglimento e liquidazione: fasi e adempimenti
La procedura si articola nelle seguenti fasi principali:
- Delibera (o accertamento) di scioglimento: come visto nel quadro normativo, occorre anzitutto che sia insorta una causa di scioglimento. Nel contesto del ritiro volontario, di solito la causa è la deliberazione dell’assemblea dei soci di scioglimento anticipato (art. 2484 n.6 c.c.). I soci, quindi, convocano un’assemblea straordinaria (davanti a un notaio, per le società di capitali) e votano lo scioglimento. Per le S.r.l., salvo diversa previsione statutaria, è sufficiente la maggioranza dei voti che rappresentano oltre la metà del capitale sociale (art. 2479-bis c.c. per decisioni straordinarie). Nelle S.p.A., serve il quorum costitutivo e deliberativo previsto per le modifiche statutarie (generalmente almeno il 50% del capitale in prima convocazione, e 2/3 dei presenti per approvare). Nelle società di persone, serve il consenso di tutti i soci salvo patto contrario (scioglimento anticipato di S.n.c. e S.a.s.). – Nota: se la causa di scioglimento è di diritto (es. perdita capitale sotto minimo, impossibilità di funzionamento, ecc.), l’assemblea può limitarsi a prenderne atto, senza votazione deliberativa, e gli amministratori redigono un verbale di accertamento (questo, come visto, può essere depositato anche senza notaio nelle S.r.l. in alcuni casi oggettivi).
- Iscrizione dello scioglimento e nomina dei liquidatori: gli amministratori depositano la delibera (o la dichiarazione di accertamento) al Registro delle Imprese, che pubblica l’annotazione dello scioglimento (la decorrenza degli effetti è dalla data di iscrizione). Da questo momento la società aggiunge la dicitura “in liquidazione” alla propria ragione sociale. L’assemblea contestualmente (o con atto separato immediatamente successivo) nomina uno o più liquidatori, definendone i poteri e i criteri della liquidazione (art. 2487 c.c.). Nelle S.r.l. spesso si nomina liquidatore il medesimo amministratore o una persona di fiducia dei soci. Nelle S.p.A., se l’assemblea non provvede, ci pensa il tribunale su ricorso di qualunque interessato. Per le società di persone, i liquidatori sono di regola tutti i soci amministratori, salvo patto diverso (art. 2275 c.c.). La nomina dei liquidatori va iscritta al Registro imprese.
- Gestione della liquidazione: una volta insediato, il liquidatore prende in mano le redini della società. I suoi compiti principali sono:
- Redigere l’inventario iniziale (stato patrimoniale alla data di inizio liquidazione) e farlo approvare ai soci (specie se la liquidazione si prospetta lunga).
- Concludere gli affari pendenti e convertire in denaro l’attivo: il liquidatore può vendere beni sociali (ad esempio, cedere rimanenze, macchinari, riscuotere crediti) e, se necessario, può anche iniziare o proseguire cause per recuperare crediti della società. Egli può compiere “tutti gli atti utili per la liquidazione” (art. 2489 c.c.), anche alienando beni sociali, purché finalizzati a pagare i debiti o distribuire l’attivo. Non può invece intraprendere nuove operazioni di impresa estranee alla liquidazione (violerebbe il divieto di nuove operazioni).
- Pagare i debiti sociali secondo la disponibilità di cassa man mano ottenuta: su questo punto occorre grande attenzione per rispettare la par condicio. Il liquidatore non è tenuto per legge a pagare tutti i creditori proporzionalmente, ma di fatto la giurisprudenza gli impone di rispettare le cause legittime di prelazione (privilegi, pegni, ipoteche) e di evitare preferenze indebite tra chirografari. Se, ad esempio, ha liquidità per pagare solo alcuni fornitori chirografi, dovrebbe distribuirla in misura proporzionale tra tutti, oppure adottare un criterio oggettivo (ad es. pagare chi deve poco per ridurre il numero dei creditori). Pagare integralmente alcuni creditori lasciandone altri del tutto insoddisfatti può esporre il liquidatore a responsabilità personale: Cassazione ha confermato che se un liquidatore paga un credito di grado inferiore prima di uno di grado superiore, dovrà risarcire al creditore pretermesso l’importo che questi avrebbe preso rispettando i gradi. Ancor di più, se paga arbitrariamente alcuni chirografari e altri no, si può configurare mala gestio con obbligo risarcitorio verso gli esclusi.
- Rimborsare i soci di eventuali versamenti ancora dovuti (nel caso in cui i soci non avessero interamente liberato le quote sottoscritte): il liquidatore può richiamare i decimi residui sulle azioni/quote se servono a pagare i debiti (i soci devono versare il capitale non ancora versato).
- Redigere il bilancio finale di liquidazione e il piano di riparto: quando tutto l’attivo è stato realizzato (o quando si decide di chiudere perché non c’è più nulla da fare), il liquidatore prepara il bilancio finale di liquidazione, con indicazione dell’eventuale residuo attivo da distribuire ai soci oppure del passivo non soddisfatto rimasto. Questo bilancio finale va comunicato ai soci (depositandolo al Registro Imprese). Se entro 90 giorni non ci sono contestazioni, si intende approvato dai soci (art. 2493 c.c.). Contestualmente, il liquidatore predispone il piano di riparto dell’attivo finale tra i soci secondo le quote sociali (dopo aver pagato tutti i creditori ammessi al pagamento).
- Cancellazione della società: una volta definito il bilancio finale e fatte le eventuali distribuzioni ai soci (spesso nelle crisi non c’è nulla da distribuire, quindi i soci non ricevono nulla), il liquidatore richiede la cancellazione della società dal Registro delle Imprese (depositando l’istanza di cancellazione). La società si estingue alla data di cancellazione (art. 2495 c.c.).
Durante la liquidazione, la società mantiene la propria soggettività giuridica (fino alla cancellazione finale). I contratti in essere continuano se funzionali alla liquidazione – ad esempio, il liquidatore potrebbe continuare un contratto di affitto se serve per vendere i beni siti in quel capannone. I rapporti di lavoro normalmente vengono risolti: l’apertura della liquidazione in sé non scioglie automaticamente i contratti di lavoro, ma costituisce certamente giustificato motivo di licenziamento collettivo se l’azienda cessa l’attività. Di solito il liquidatore licenzia tutti i dipendenti non indispensabili alla fase liquidatoria, calcolando il TFR e le indennità dovute come crediti privilegiati ex art. 2751-bis c.c. e cercando di pagarli con precedenza (i crediti di lavoro hanno privilegio generale mobiliare). Se le risorse non bastano a pagare TFR e stipendi arretrati, i dipendenti rimangono creditori insoddisfatti – e qui emerge una differenza con il fallimento: in assenza di fallimento, i lavoratori non possono accedere al Fondo di Garanzia INPS per TFR e ultime 3 mensilità. Quel Fondo infatti interviene solo a seguito di fallimento, liquidazione coatta o procedura concorsuale equiparata. Pertanto, un effetto collaterale della liquidazione volontaria non seguita da fallimento è che i lavoratori rischiano di perdere definitivamente il TFR se la società non aveva fondi per corrisponderlo. Questo è un elemento di valutazione etico-pratico per i soci: a volte, inoltrare istanza di fallimento volontario può risultare preferibile per tutelare i dipendenti (il curatore attiverà il Fondo di Garanzia). Nella liquidazione volontaria pura, quella tutela salta – a meno che i dipendenti non sollecitino essi stessi il fallimento entro l’anno dalla cancellazione.
La durata della liquidazione volontaria dipende dalla complessità: può concludersi in pochi mesi (se non ci sono beni da vendere e pochi creditori) oppure durare anni (se vi sono immobili da alienare, contenziosi in corso, etc.). Non c’è un limite legale massimo nel Codice Civile; tuttavia, il CCII ha introdotto incentivi a non protrarre oltre misura l’indecisione, ad esempio con obblighi di segnalazione degli organi di controllo se la liquidazione si rivela incapiente. Inoltre, una liquidazione troppo lunga può far perdere i benefici della non fallibilità: come vedremo, la società può essere dichiarata fallita entro 1 anno dalla cancellazione; ma se il liquidatore non chiude mai, in teoria i creditori possono chiedere il fallimento anche a distanza di tempo (purché la società sia ancora iscritta e attiva sia pure in liquidazione).
Doveri e responsabilità del liquidatore e dei soci nella liquidazione
Abbiamo già accennato ad alcuni obblighi del liquidatore (ad esempio par condicio, rendicontazione). Vale la pena rimarcare i profili di responsabilità:
- Il liquidatore risponde personalmente verso i creditori se, per sua colpa, questi non sono stati soddisfatti, entro il limite del pregiudizio arrecato. Ciò deriva dall’art. 2495 c.c. e significa in sostanza: se il liquidatore distribuisce attivo ai soci o fa scelte che riducono l’attivo a disposizione indebitamente, i creditori esclusi possono fargli causa. Un tipico caso è il pagamento preferenziale: come detto, se paga un creditore postergando un altro di grado superiore, il secondo può chiedergli i danni pari a quanto avrebbe preso. Oppure, se il liquidatore omette di incassare un credito importante o di agire contro un debitore della società (magari per negligenza), riducendo così l’attivo disponibile, i creditori sociali possono rivalersi su di lui per quell’inadempienza. La responsabilità del liquidatore è illimitata e personale: non essendoci più la società dopo la cancellazione, è lui il bersaglio principale delle azioni dei creditori insoddisfatti. Nota: se il liquidatore è un professionista (es. un commercialista nominato tale), il suo compenso in sede volontaria non gode di privilegio speciale sul patrimonio sociale (non è prededucibile come sarebbe il compenso di un curatore fallimentare), salvo che la prestazione rientri in attività professionali esenti – Cass. 5489/2018 ha escluso privilegio al compenso liquidatore. Questo implica che il liquidatore viene pagato come un qualunque creditore chirografario dal residuo attivo, e se si paga per intero se stesso a discapito di altri creditori, incappa in responsabilità.
- I soci nella liquidazione volontaria hanno un ruolo ridotto, ma conservano alcuni poteri: ad esempio, possono revocare i liquidatori o dare direttive (purché nell’interesse della liquidazione). Verso i creditori, i soci non rispondono dei debiti sociali (nelle società di capitali), a meno che abbiano percepito somme dal bilancio finale. Se una società in liquidazione paga ai soci un residuo (caso raro in aziende in crisi), i soci ne rispondono verso i creditori rimasti insoddisfatti fino a concorrenza di quanto incassato. Se non hanno ricevuto nulla (come di solito avviene nelle crisi), i soci di S.r.l./S.p.A. non possono essere perseguiti dai creditori sociali, perché vige l’autonomia patrimoniale perfetta. Fanno eccezione i casi di finanziamenti postergati dei soci non rimborsati: il socio che, ad esempio, aveva concesso finanziamenti e li avesse prelevati indietro prima della fine (violando l’art. 2467 c.c. sulla postergazione) potrebbe essere chiamato a restituirli per soddisfare creditori superiori. Inoltre, se emergono illeciti degli amministratori (anche soci) precedenti, la liquidazione volontaria non li fa scomparire: i soci-amministratori potrebbero vedersi intentare un’azione di responsabilità dal liquidatore stesso (se nominato esterno) o dal curatore in caso di successivo fallimento.
Una questione dibattuta è: il liquidatore deve chiedere il fallimento se si accorge che non riuscirà a pagare tutti i debiti? In passato, la dottrina prevalente (anche il principio contabile OIC 5) riteneva di sì, per evitare discriminazioni tra creditori. Ma la giurisprudenza attuale, come già evidenziato, ha una posizione più sfumata: non è obbligatorio chiedere il fallimento in automatico. Il liquidatore può continuare nella liquidazione volontaria anche se l’attivo non copre il passivo, purché la sua condotta non aggravi il dissesto. Il dovere di depositare istanza di autofallimento insorge solo se la mancata attivazione della procedura concorsuale ha peggiorato la situazione dei creditori. Questo orientamento (Cass. 521/2020) fa leva sul fatto che spesso il fallimento non aumenta l’attivo disponibile, anzi lo riduce per i costi procedurali. In molte liquidazioni volontarie, infatti, non aprire il fallimento e chiudere l’azienda “amicvolmente” può far risparmiare spese e consentire pagamenti parziali maggiori ai creditori. Se così è, il liquidatore non è sanzionabile per non aver chiesto il fallimento. Egli deve però stare attento a non favorire alcuni creditori a scapito di altri durante la liquidazione: se la mancanza di procedura concorsuale porta a pagare qualcuno e lasciare altri a zero senza un criterio, i creditori esclusi potrebbero sostenere che il fallimento avrebbe garantito la par condicio e qualche attivo in più (ad es. tramite azioni revocatorie). In tal caso, potrebbero configurarsi profili di colpa.
Va poi ricordato che, se la società viene cancellata dal Registro Imprese con debiti non pagati, i creditori hanno la possibilità di chiederne il fallimento entro un anno dalla cancellazione, purché l’insolvenza preesistesse alla cancellazione. Questa norma (già art. 10 L. Fall., ora recepita nell’art. 33 CCII) pone un limite temporale stringente per evitare incertezze: passato un anno dalla cancellazione, non si può più aprire un fallimento. L’idea è dare certezza ai soci liquidatori e ai terzi che la vicenda si chiude definitivamente dopo un anno. Entro quell’anno, però, i creditori insoddisfatti possono ancora far valere i loro diritti in sede concorsuale. Se il fallimento viene dichiarato in questo periodo, la data di decorrenza del termine è la cancellazione stessa (o la cessazione attività equiparata). Questo significa che i soci e il liquidatore non dovrebbero affrettare la cancellazione prima di aver valutato bene il rischio di fallimento: se proprio vogliono evitare procedure, potrebbero mantenere la società in vita (in liquidazione) finché la situazione non si stabilizza o i creditori si prescrivono. Ma questa strategia cozza con il dovere di chiudere in tempi ragionevoli. In ogni caso, dopo la cancellazione, i creditori insoddisfatti possono: (a) agire verso soci e liquidatore ex art. 2495 c.c., e/o (b) chiedere fallimento entro 12 mesi.
Tutto ciò traccia un equilibrio: la liquidazione volontaria è lecita e praticabile anche in insolvenza, ma non deve diventare un espediente per far sparire la società lasciando i creditori al buio. Se i creditori ritengono di aver più chance col fallimento (ad es. per fare azioni revocatorie o far scattare il Fondo INPS per i dipendenti), probabilmente chiederanno essi stessi il fallimento entro l’anno dalla fine.
Esiti della liquidazione: cancellazione e post-estinzione
Una volta completata la liquidazione, il risultato finale è la cancellazione della società e la sua estinzione. Come appena detto, la cancellazione non richiede che tutti i debiti siano pagati: è legittimo ottenere la cancellazione anche con passività non estinte. Il Registro Imprese di Milano già dal 2015 adotta prassi favorevole, e la giurisprudenza (decreto Trib. Catania 9/4/2009 confermato) ha sancito che la presenza di debiti non pagati non è motivo per rifiutare la cancellazione. L’ordinamento, come visto, tutela i creditori residuali con l’art. 2495 c.c.: essi possono far valere i loro crediti contro soci e liquidatori senza bisogno di revocare la cancellazione. Dunque, la “morte” della società non uccide immediatamente i crediti: semplicemente ne sposta la responsabilità su altri soggetti (nei limiti detti). Questa soluzione è di compromesso: si evita di tenere artificiosamente in vita società vuote solo perché hanno debiti non pagati.
Dopo l’estinzione, gli ex soci possono tirare un sospiro di sollievo solo se:
- non hanno ricevuto nulla in liquidazione (così non sono attaccabili ex art. 2495 c.c.),
- nessun creditore ha agito entro l’anno per far riaprire un fallimento,
- e non emergono in seguito nuovi beni attivi che riaprano i giochi (tema questo un po’ controverso: teoricamente scoperta di asset post-estinzione potrebbe portare a riapertura straordinaria della liquidazione, ma la Cassazione è restrittiva su reviviscenza della società dopo estinzione).
Gli ex amministratori e il liquidatore rimangono però esposti più a lungo: i termini di prescrizione per azioni di responsabilità (5 anni dal bilancio finale per liquidatore, 5 anni dalla cancellazione per amministratori per danni ai creditori) correranno, e se la società viene dichiarata fallita entro l’anno, un curatore potrà avviare azioni di massa contro di loro. Si ricordi anche il profilo penale: la chiusura volontaria non blocca eventuali procedure penali per reati commessi durante la vita della società. Ad esempio, se dagli ultimi bilanci emergono false comunicazioni o dall’analisi dei movimenti risultano distrazioni, la magistratura può procedere per bancarotta fraudolenta anche se la società è stata liquidata e cancellata. In tal senso, la scelta di liquidare volontariamente deve essere accompagnata da una gestione cristallina della fase di liquidazione per non incorrere in sospetti di malafede.
Liquidazione volontaria vs fallimento (liquidazione giudiziale): un confronto
Per contestualizzare la scelta del debitore, è utile confrontare sinteticamente la liquidazione volontaria con l’alternativa giudiziale (fallimentare). La seguente tabella ne riassume le differenze chiave:
In conclusione su questo confronto, dal punto di vista del debitore (soci/amministratori) la liquidazione volontaria è preferibile quando si ritiene di poter soddisfare almeno in parte i creditori senza ricorrere al tribunale e senza incorrere in conflitti gravi con essi. Permette di gestire “in casa” la cessazione dell’impresa e magari di concludere dignitosamente i rapporti (pagando magari i fornitori più piccoli, trovando accordi bonari). Dal punto di vista dei creditori, il fallimento offre maggiori garanzie di imparzialità e strumenti di recupero (revocatorie, etc.), sebbene possa di fatto non portare vantaggi economici maggiori. Spesso, se i creditori vedono che la liquidazione volontaria non pagherà nulla o quasi, preferiscono il fallimento per almeno esplorare possibili azioni attive e per accedere ai meccanismi di compensazione fiscale (il Fisco ad esempio in fallimento può insinuarsi e recuperare IVA a credito in compensazione).
Va anche detto che esiste un’opzione intermedia: il concordato preventivo liquidatorio. In esso, l’imprenditore volontariamente propone ai creditori un piano di liquidazione dei beni, con garanzia del tribunale e con alcune esenzioni (ad esempio, evita azioni revocatorie e responsabilità personali). Potrebbe essere visto come una “liquidazione volontaria sotto controllo giudiziario”. Tuttavia il concordato richiede il voto favorevole dei creditori (maggioranze) e ha costi e formalità non trascurabili. Se i soci vogliono semplicemente cessare e non hanno risorse da offrire ai creditori, difficilmente un concordato liquidatorio verrebbe approvato (a meno di percentuali minime garantite, oggi serve almeno il 20% ai chirografari salvo deroga). Dunque, nella gran parte dei casi di società senza patrimonio, il concordato preventivo non è praticabile, e la scelta reale è tra liquidazione volontaria silenziosa o fallimento. La recente introduzione del “concordato semplificato” (D.L. 118/2021 convertito), utilizzabile se fallisce la composizione negoziata, consente di liquidare beni senza voto dei creditori ma è riservata a chi ha tentato la via negoziata. È uno strumento nuovo, da considerare se applicabile (non richiede il voto dei creditori ma comunque è una procedura concorsuale con nomina di liquidatore da parte del tribunale).
Considerazioni specifiche per S.r.l., S.p.A., cooperative e società di persone
Le regole generali esposte finora si applicano con alcune differenze a seconda della forma giuridica della società:
- S.r.l. (Società a responsabilità limitata): è la forma più comune per le PMI italiane e spesso protagonista di cessioni o liquidazioni in crisi. In S.r.l., i soci non rispondono dei debiti sociali e questo spiega perché molti imprenditori preferiscono liquidare una S.r.l. lasciando debiti, anziché versare patrimonio personale per appianarli. Durante la liquidazione, il ruolo decisionale spetta ai soci (che nominano il liquidatore e approvano il bilancio finale se c’è riparto). Le S.r.l. godono di flessibilità: ad esempio, la normativa consente la già menzionata procedura semplificata di scioglimento senza atto notarile per cause oggettive (es. perdita capitale), snellendo i costi. In caso di insolvenza, le S.r.l. possono essere assoggettate a liquidazione giudiziale se superano i parametri dell’“impresa minore”, altrimenti ricadono nelle procedure di sovraindebitamento come il concordato minore o la liquidazione controllata. Una peculiarità delle S.r.l. è la postergazione dei finanziamenti soci (art. 2467 c.c.): se i soci hanno prestato finanziamenti quando la società era sottocapitalizzata o in crisi, tali crediti sono subordinati al soddisfo degli altri creditori. In liquidazione, il liquidatore deve rispettare ciò: i soci-finanziatori saranno gli ultimi a essere pagati (in genere non percepiranno nulla). Questo disincentiva i soci dal ritirare i propri finanziamenti prima della fine, perché se li riprendono anticipatamente e la società poi fallisce, il curatore glieli può chiedere indietro come atto di preferenza abusiva.
- S.p.A. (Società per azioni): nelle grandi linee, il regime di S.p.A. in liquidazione è simile a quello delle S.r.l. Una differenza operativa è che nelle S.p.A. spesso ci sono organi di controllo (collegio sindacale) che permangono in carica anche durante la liquidazione con funzioni di vigilanza sull’operato dei liquidatori. Quindi i sindaci potrebbero segnalare eventuali irregolarità. Inoltre, se il capitale è diffuso (o addirittura quotata, ma in quel caso raramente si parla di “ritiro volontario” senza passare da procedure di concordato), bisognerà informare un gran numero di azionisti. Le S.p.A. hanno obblighi informativi più stringenti: ad esempio, devono depositare il bilancio finale di liquidazione presso il Registro Imprese e darne comunicazione ai soci (ma in società chiuse questo è simile a S.r.l.). Per il resto, stessi concetti: soci non responsabili oltre conferimenti, possibili azioni di responsabilità verso amministratori e liquidatori. Un caso particolare è la S.a.p.A. (società in accomandita per azioni): ha soci accomandatari illimitatamente responsabili, quindi per questi valgono considerazioni analoghe a quelle delle società di persone (vedi oltre), ma questo tipo societario è raro.
- Società di persone (S.n.c. e S.a.s.): qui la situazione cambia notevolmente perché almeno un socio (tutti nella S.n.c., i soli accomandatari nella S.a.s.) ha responsabilità illimitata per i debiti sociali. Ciò implica che ritirarsi volontariamente senza pagare i debiti è praticamente impossibile senza coinvolgere il patrimonio personale dei soci. Infatti, se i soci di una S.n.c. sciolgono e liquidano la società lasciando debiti, i creditori potranno aggredire direttamente i soci illimitatamente responsabili, durante e dopo la liquidazione, senza necessità di andare in fallimento (la responsabilità illimitata sussiste anche post estinzione, salvo limitatamente ai 5 anni successivi per debiti pregressi, ex art. 2312 c.c.). Pertanto il ritiro volontario di una S.n.c./S.a.s. in crisi comporta quasi sempre per i soci l’esigenza di trovare un accordo coi creditori o pagarli in parte col patrimonio personale. Alternative come la cessione delle quote sono poco efficaci: se i soci trasferiscono l’azienda (o l’intera società) a terzi, i soci uscenti non vengono liberati dai debiti pregressi a meno che i creditori espressamente li liberino (art. 2500-quinquies c.c. in tema di trasformazione, analogia per cessione soci). In caso di trasformazione da società di persone a S.r.l., i soci illimitatamente responsabili restano obbligati per i debiti anteriori alla trasformazione, salvo consenso dei creditori. Ciò significa che un socio di S.n.c. non può semplicemente convertirla in S.r.l. e dire “ora ho la responsabilità limitata”: i creditori precedenti potranno per 5 anni rivalersi su di lui personalmente. Quindi, per società di persone in crisi, le opzioni sono:
- Pagare/accordarsi coi creditori e poi liquidare: il socio mette mano al portafoglio per chiudere le esposizioni (spesso succede nelle piccole imprese familiari, dove il titolare paga i debiti residui e chiude la ditta).
- Fallire: le società di persone sono soggette a fallimento se superano i parametri di fallibilità. In tal caso, con la dichiarazione di fallimento della società, falliscono di diritto anche i soci illimitatamente responsabili (art. 147 L.F., ora CCII). Ciò comporta che i soci persone fisiche potranno poi chiedere l’esdebitazione personale. Questo a volte è preferibile per liberare il socio dai debiti, specie se sono ingenti e il suo patrimonio è insufficiente: con l’esdebitazione, dopo il fallimento chiuso, può ripartire pulito (mentre se la S.n.c. fosse liquidata volontariamente lasciando debiti, i soci resterebbero per sempre debitori verso i creditori per somme eventualmente non coperte).
- Cessione dell’azienda a terzi e successiva liquidazione: qui i creditori potrebbero comunque inseguire i soci per i debiti non pagati, ma se il terzo acquirente paga un prezzo sufficiente a saldarli (o se si accolla i debiti liberando i soci, il che però richiede il consenso di ciascun creditore perché l’accollo liberatorio non è automatico), i soci riescono a uscirne. Spesso però, chi rileva aziende di persone pretende che i debiti siano azzerati o quasi prima, sapendo che altrimenti i creditori preferiscono aggredire i vecchi soci che sono noti e solventi piuttosto che trattare col nuovo venuto.
- In sintesi, per i soci di S.n.c./S.a.s. il ritiro volontario è più complicato da un punto di vista di uscita dei debiti. Alcuni scelgono di mettere la società in liquidazione volontaria e non pagare i creditori, sperando che questi non li perseguitino: può capitare se i debiti sono verso fornitori piccoli e i soci confidano che non convenga loro agire. Tuttavia, legalmente il creditore può benissimo notificare un decreto ingiuntivo al socio anche dopo la liquidazione e colpirne i beni. L’estinzione della società non estingue affatto i debiti: li trasla sulle spalle personali dei soci, illimitatamente e solidalmente. Da notare che, per espressa previsione (art. 2312 c.c.), dopo cancellazione di S.n.c./S.a.s., i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti verso ciascun socio senza limiti, ma non oltre i 5 anni dalla cancellazione (trascorso quinquennio, scatta estinzione del debito per decorso del termine di cui sopra combinato con prescrizione eventualmente, a seconda dei casi). Quindi c’è un termine di decadenza per agire contro ex soci di persone – diverso dalla S.r.l. in cui soci non rispondono affatto se non hanno avuto riparti.
- Le società di persone in crisi non soggette a fallimento (sotto soglia) possono accedere alle procedure di composizione negoziata o liquidazione controllata dei sovraindebitati. Ad esempio, una piccola S.n.c. potrebbe chiedere la liquidazione controllata ex CCII (ex legge 3/2012). In tal caso, si tratta di una procedura simile a un fallimento semplificato, ma i soci restano responsabili del residuo (possono anch’essi poi chiedere esdebitazione del sovraindebitato). È un tema di dettaglio che segnaliamo ma non approfondiamo qui.
- Cooperative: Le cooperative seguono, in tema di scioglimento e liquidazione volontaria, la disciplina delle società di capitali (art. 2545-septiesdecies rinvia alle norme su S.p.A. per quanto compatibili). Quindi, i soci cooperatori non rispondono dei debiti (sono come azionisti), e si può deliberare lo scioglimento anticipato e nominare liquidatori. Una peculiarità è data dalla destinazione del patrimonio finale: nelle cooperative a mutualità prevalente (la maggior parte), per legge l’eventuale attivo residuo dopo la liquidazione non viene distribuito tra i soci ma devoluto ai Fondi Mutualistici per lo sviluppo della cooperazione (salvo diversa destinazione a enti di utilità sociale autorizzata dal Ministero). Questa “indivisibilità delle riserve” fa sì che i soci di coop non abbiano incentivo a liquidare per spartirsi beni – tanto non possono. In una cooperativa in crisi, spesso subentra la liquidazione coatta amministrativa (LCA): se c’è insolvenza, l’autorità governativa (di solito il Ministero dello Sviluppo Economico) ordina la LCA, nominando un commissario liquidatore pubblico e revocando gli organi sociali. La LCA è un fallimento amministrativo: i creditori fan domande al commissario, c’è uno stato passivo etc. I soci cooperatori non perdono nulla (hanno già responsabilità limitata e comunque il patrimonio residuo andrebbe a terzi). Il ritiro volontario di una cooperativa dunque avviene se la coop non è insolvente ma semplicemente in difficoltà: i soci possono deliberare lo scioglimento. In tal caso, il MISE vigila (tramite il Revisore cooperative e tramite poteri di ispezione): se fiuta insolvenza, può trasformare la volontaria in coatta. Se invece la coop liquida e paga tutti, bene. Se liquida e lascia debiti, i creditori potrebbero anche qui sollecitare nei 12 mesi una LCA (analogo al fallimento). Altra particolarità: i soci cooperatori sovente hanno versato prestiti sociali (forme di raccolta risparmio dai soci). Questi prestiti sono chirografari ma godono del privilegio ex art. 2751-bis c.c. n. 5 come crediti di lavoro in certa misura, se il regolamento lo prevede. In liquidazione, prima andranno rimborsati i prestiti dei soci (fino a 3/4 del loro ammontare privilegiati) e poi altri crediti. Ciò per legge speciale. Infine, la devoluzione finale ai fondi mutualistici: se resta attivo, il liquidatore lo trasferisce al fondo di settore (es. Coopfond di Legacoop, etc.).
Riassumendo le differenze in tabella:
In sintesi, dal punto di vista del debitore in crisi, la liquidazione volontaria è più agevole e diffusa nelle società di capitali (dove il “fallimento personale” non esiste e i soci non rischiano la rovina personale per i debiti sociali). Nelle società di persone, spesso si preferisce ricorrere a procedure formali (concordati, fallimento) proprio per gestire la liberazione dei soci dai debiti, oppure i soci provvedono a pagare per evitare quelle procedure. Le cooperative hanno la particolarità di passare quasi sempre per LCA se c’è un dissesto rilevante, quindi il ritiro volontario è meno comune a meno che la coop non sia ancora solvibile.
Dopo questa disamina tecnica, possiamo passare a una sezione più discorsiva per rispondere ad alcune domande frequenti sul tema e presentare poi casi pratici che illustrano l’applicazione concreta delle opzioni di ritiro volontario in differenti scenari societari.
Domande frequenti (FAQ)
D: “Se la mia società ha troppi debiti, posso chiuderla e liberarmi dei debiti?”
R: In parte. Chiudere la società (liquidazione volontaria) non cancella automaticamente i debiti: semplicemente, dopo la cancellazione, i creditori potranno rivalersi su liquidatore e soci nei limiti di legge. Se è una S.r.l./S.p.A., i soci saranno al sicuro se non hanno ricevuto nulla in liquidazione e se non hanno garanzie personali, mentre il liquidatore potrebbe essere chiamato a rispondere per pagamenti errati. Se è una società di persone, i soci restano illimitatamente obbligati. Dunque la società sparisce, ma i debiti possono “inseguire” altre persone (soci o liquidatori). In assenza di beni aggredibili, però, i creditori possono di fatto dover rinunciare al recupero: di qui l’idea, diffusa ma non giuridicamente precisa, che “chiudere la società cancella i debiti”. In realtà i debiti restano, semplicemente non c’è più un soggetto giuridico con patrimonio da aggredire. Se nessuno risponde (es. soci non responsabili e liquidatore irreperibile), il creditore subisce il danno. Chi “si libera” dei debiti è quindi il socio di S.r.l. che non aveva dato garanzie: egli chiude la società e i creditori non possono attaccarlo personalmente. Ma attenzione: se ci sono state irregolarità, potrebbe risponderne in altre sedi (azioni di responsabilità, penali, ecc.).
D: “Meglio tentare un concordato preventivo o liquidare subito volontariamente?”
R: Dipende dalle prospettive di recupero dell’azienda. Un concordato preventivo ha senso se l’impresa ha ancora valore e si vuole evitare la cessazione totale, oppure se si vuol fare una liquidazione in ambito protetto offrendo una percentuale minima ai creditori. Ma è un percorso costoso e complesso, giustificabile per aziende medio-grandi o con beni significativi da distribuire. Per una piccola società senza attivo rilevante, la liquidazione volontaria è spesso più rapida e meno onerosa. Si può dire: concordato se c’è un piano di risanamento o liquidazione con ritorno almeno parziale ai creditori, liquidazione volontaria se si tratta principalmente di chiudere bottega e non ci sono prospettive di soddisfo apprezzabile per i creditori (i quali purtroppo resteranno insoddisfatti o quasi). Inoltre, in concordato i creditori votano: se la maggioranza non approva la proposta, si rischia il fallimento. In liquidazione volontaria i creditori non possono “votare”, ma possono far fallire l’azienda se non vengono pagati. Quindi spesso gli imprenditori valutano: ho risorse da offrire ≥20% ai chirografari? Se no, il concordato non passerebbe, tanto vale liquidare.
D: “Vendere la società a 1 euro è legale? Non sembra un pro forma?”
R: È legale se riflette il reale valore dell’azienda al momento. Come spiegato, la Cassazione ha confermato che vendere quote per un corrispettivo simbolico è legittimo quando il valore effettivo è crollato (caso crisi). L’importante è che non sia una simulazione per nascondere un passaggio di denaro altrove. Quindi se un perito indipendente stima la società zero o negativa, un euro va bene. Il notaio che trasferisce le quote per 1 euro di solito chiede una dichiarazione sullo stato passivo, ma non impedisce l’atto. Chi acquista a 1 euro, dal canto suo, accetta i debiti: nulla lo vieta. Certo, operazioni a 1 euro destano sospetti di prassi e vengono scrutate in caso di fallimento successivo, per vedere se c’erano accordi occulti. Ma di per sé, prezzo basso ≠ illecito. Diverso sarebbe vendere un immobile del valore 1 milione per 1 euro: quello sì, sarebbe anomalo e quasi certamente revocabile/fraudolento.
D: “Se vendo la mia S.r.l. con debiti, i debiti li paga il nuovo acquirente o rimangono a me?”
R: I debiti rimangono in capo alla società – che però è ora di proprietà dell’acquirente. In sostanza, il nuovo acquirente “eredita” i debiti perché ha preso la società debitrice. Tu come venditore non sei più legalmente debitore verso quei creditori (a meno di aver garantito personalmente). Quindi sì, i debiti “li paga” il nuovo socio, se decide di pagarli, altrimenti i creditori agiranno contro la società (che però controlla lui). Tu ex socio potresti rimanere co-obbligato solo se avevi firme di garanzia (es. fideiussione in banca) o in caso di reati/frodi. In pratica: cedi la società, questa continua a dover 100 ai fornitori; i fornitori faranno causa alla società ora di Tizio e non a te. Se però scoprono che prima della vendita hai fatto sparire soldi, potrebbero coinvolgerti per quella condotta.
D: “Ci sono aziende che si offrono di comprare società in crisi: posso fidarmi? Come operano?”
R: Esistono società e consulenti specializzati (alcuni seri, altri improvvisati) che propongono ai titolari di aziende in crisi di rilevare la società indebitata, talvolta dietro compenso. Bisogna essere prudenti:
- Se sono seri, vorranno analizzare i conti e probabilmente cercheranno un utile: o hanno un investitore che vede prospettive di rilancio, o vogliono incorporare l’azienda in un loro gruppo, o utilizzarne le perdite fiscali (lecitamente). In tal caso l’operazione può andare a buon fine: il tuo ruolo finisce e loro provano a risanare l’impresa (magari tagliando debiti con accordi).
- Se non sono seri, potrebbe trattarsi di prestanome che rilevano la società senza reali mezzi, giusto per liberare te nel breve, ma poi lasciano fallire la società peggiorando la situazione per creditori e dipendenti. In taluni casi queste figure sono state collegate a frodi (ad esempio riciclaggio di società, spostamento di beni a altre entità controllate, ecc.). Per capire se sono affidabili, chiedi: qual è il loro piano concreto per la società? Investiranno del denaro? Hanno competenze nel settore? Chiedono a te un pagamento per rilevarla? – Diffida se ti chiedono soldi elevati “per prendersi il problema”: a volte è una spesa inutile perché se poi falliscono la società, tu potresti anche avere noie legali se appare che li hai usati per “scaricare” i debiti. Insomma, ci si può fidare solo facendo le dovute verifiche e magari facendosi assistere da un proprio legale nella cessione. Se l’acquirente è solido e trasparente (es. un competitor del tuo settore, o un investitore noto), meglio; se è una s.r.l. sconosciuta aperta da pochi mesi con capitale 1 euro, un po’ meno affidabile… In caso di dubbi, è preferibile allora liquidare direttamente l’azienda o fare un concordato, piuttosto che consegnarla a persone di dubbia serietà che potrebbero causare conseguenze peggiori.
D: “Quali sono i rischi penali per l’amministratore che chiude un’azienda indebitata?”
R: I possibili rilievi penali riguardano soprattutto la bancarotta fraudolenta (patrimoniale o documentale) se poi la società fallisce, oppure reati tributari se c’erano evasione o mancati versamenti oltre soglie. In liquidazione volontaria senza fallimento, formalmente il reato di bancarotta non si configura (perché non c’è fallito). Tuttavia, attenzione:
- Se la società viene dichiarata fallita entro l’anno dalla chiusura, tutti gli atti compiuti prima possono essere scrutinati. Quindi se avevi tenuto contabilità irregolare o hai fatto pagamenti preferenziali o distratto beni, potresti essere imputato di bancarotta fraudolenta documentale o patrimoniale. Ad esempio, vendere sottocosto un macchinario prima di chiudere può essere visto come distrazione. Non pagare volontariamente certi creditori privilegiati può essere bancarotta preferenziale. Non consegnare i libri al curatore è reato.
- Anche senza fallimento, potresti incorrere in reati fiscali: il più tipico è la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000), contestato se l’amministratore compie atti per rendere inefficace la riscossione coattiva. Ad esempio, sciogliere la società e cancellarla quando sai che c’è una cartella esattoriale in arrivo potrebbe, in casi estremi, essere visto come atto fraudolento (soprattutto se hai trasferito altrove beni o attività). In genere però la mera liquidazione non è di per sé reato, a meno che non sia usata per occultare asset.
- C’è poi l’omesso versamento di IVA o ritenute: se hai debiti con l’erario per IVA > €250k o ritenute > €150k, la chiusura della società non ti salva dalla responsabilità penale come amministratore per il reato di omesso versamento (perché è riferito all’anno d’imposta: se non hai versato entro la scadenza prevista, il reato si è consumato sotto la tua gestione).
- Un altro rischio è la bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto (art. 217 L.F. vecchio, ora art. 324 CCII). Se hai tardato troppo a fermare l’attività aggravando i debiti, un curatore potrebbe imputartela. Anche vendere sottocosto scorte o fare operazioni avventate negli ultimi tempi prima di chiudere può configurarla.
- Infine, c’è il reato di mala gestione patrimoniale: se durante la liquidazione paghi alcuni creditori a discapito di altri consciamente, e poi fallisci, può essere bancarotta preferenziale.
In pratica: chi chiude un’azienda indebitata deve operare con assoluta trasparenza e correttezza, non spostare soldi a sé, non distrarre asset e conservare le scritture. Meglio pagare i creditori privilegiati nell’ordine giusto (stipendi, Fisco se con privilegio) e non fare “furbate”. Così riduci moltissimo il rischio penale. E se vedi che comunque la situazione è molto compromessa, valuta se non sia il caso tu stesso di chiedere un fallimento (autodenuncia) per svolgere tutto sotto controllo del tribunale – questo spesso è un’attenuante comportamentale.
D: “In liquidazione volontaria devo pagare tutti i creditori in proporzione? Posso sceglierne alcuni?”
R: Devi rispettare la par condicio creditorum, che in pratica significa:
- rispetta l’ordine dei privilegi: prima i creditori con privilegio generale o speciale (per l’importo garantito), poi gli eventuali chirografari.
- tra creditori dello stesso grado, la legge non impone un riparto proporzionale come nel fallimento, ma la giurisprudenza, come detto, richiede di non fare preferenze ingiustificate. Quindi, per prudenza, conviene fare pagamenti proporzionali almeno tra i chirografari se l’attivo non basta per tutti. In pratica molti liquidatori fanno così: se ho €10.000 e devo a 4 fornitori €40.000 totali, do il 25% a ciascuno. Se uno è molto piccolo (deve €500) magari lo saldo per intero per semplificare e perché non altera gli equilibri, e riduco un po’ agli altri proporzionalmente – piccole differenze tollerabili.
- Puoi pagare integralmente alcuni creditori chirografari solo a rischio di dover risarcire gli altri esclusi in seguito. Ad esempio, pagare l’unico fornitore locale per motivi di amicizia e lasciare non pagate aziende lontane: questi ultimi potrebbero farti causa per discriminazione.
- Ovviamente, se un creditore rinuncia formalmente a parte del credito, puoi pagarlo meno senza colpa (è un accordo transattivo). In liquidazione volontaria sei libero di negoziare: nulla vieta di fare accordi stragiudiziali con singoli creditori (cosa che in fallimento è più complicata). Ma assicurati di non ledere altri. Ad esempio, puoi dire a due creditori: “accontentatevi del 30% ora, così forse riesco a dare qualcosa anche agli altri” – se accettano, bene. Ma se prendi accordi nascosti con qualcuno (es. paghi sottobanco un creditore per evitare che chieda fallimento), e gli altri poi lo scoprono nel fallimento, potresti risponderne.
D: “Ho una piccola S.r.l.: posso evitarne il fallimento se la liquido prima che i creditori lo chiedano?”
R: Puoi provarci. Molte piccole S.r.l. con debiti chiudono spontaneamente prima che qualcuno agisca. Se nessun creditore presenta istanza di fallimento durante la liquidazione o entro l’anno dalla fine, eviti il fallimento del tutto. Però devi essere fortunato: anche un solo creditore può rompere le uova nel paniere presentando istanza. Diciamo che se i debiti sono frammentati e di modesto importo, è possibile che nessuno si attivi per fallimento (per costi e tempi). In tal caso la S.r.l. viene cancellata e nessuno apre procedure – fine della storia. Viceversa, se hai debiti con l’Erario elevati, con banche o con tanti lavoratori, è più probabile un’iniziativa. Comunque, nulla ti vieta di anticipare la liquidazione: a volte i giudici apprezzano che la società si sia già liquidata, perché riduce le attività da gestire in fallimento. Ma se i creditori insistono, il fallimento verrà dichiarato lo stesso (ricordiamo: entro 1 anno dalla cancellazione è possibile). Se oltrepassi quell’anno senza colpi di scena, il fallimento è scongiurato definitivamente.
D: “Ho dato fideiussioni per la mia società: se la vendo o liquido, queste si estinguono?”
R: No, purtroppo la fideiussione o garanzia personale segue la sua sorte: sei impegnato personalmente verso la banca/creditore per quel debito. Finché il debito esiste e il creditore non ti libera espressamente, la garanzia rimane valida anche se la società cambia proprietà o viene liquidata. Quindi, se vendi la società e questa poi non paga il mutuo, la banca verrà da te, fideiussore. Idem se liquidi la società e quella non paga, la banca potrà chiedere a te il dovuto (la liquidazione non è evento esimente per la fideiussione). L’unico modo per scioglierti è ottenere dal creditore una liberatoria (spesso concessa solo se l’obbligazione principale è estinta o se c’è un altro garante solido che subentra). Quindi, quando ragioni sul ritiro, considera sempre le garanzie personali: quelle ti rimangono “appiccicate”. Molti imprenditori, pur avendo S.r.l., sono garanti di leasing, mutui, linee di fido; chiusa la S.r.l., i debiti verso banca in capo alla società diventano inesigibili verso questa, ma la banca si rifarà sul garante (te). E continuerà anche oltre l’anno. La stessa esdebitazione post-fallimento non copre i garanti: se la tua società fallisce, tu come fideiussore rimani obbligato (l’esdebitazione libera il debitore fallito, non il terzo garante).
D: “Che succede ai fornitori e clienti quando liquidiamo l’azienda?”
R: Devi comunicare formalmente ai contratti in corso l’avvenuto scioglimento. I fornitori creditori dovranno presentare il conto al liquidatore, che li pagherà se possibile. Se avevate contratti di fornitura continuativi, il liquidatore può risolverli per eccessiva onerosità se l’attività cessa. I clienti: se avete ordini in corso, il liquidatore deciderà se completarli (ad esempio, se è nell’interesse liquidare scorte completando quei lavori) oppure no. I clienti che hanno pagato anticipi e non riceveranno la merce/servizio diventeranno creditori anch’essi (magari con privilegio se trattasi di acconti su beni mobili ex art. 2762 c.c.). In sostanza, la liquidazione anticipa la fine dei rapporti: in genere si manda una lettera: “la società è in liquidazione, non accettiamo nuovi ordini, per crediti vantati rivolgersi al liquidatore”. I contratti di affitto, leasing, etc., se non più utili, il liquidatore li risolve (spesso pagando penali come credito verso la liquidazione). Per i clienti debitori (che vi devono soldi): il liquidatore cercherà di incassare quei crediti normalmente.
D: “Posso riaprire un’altra società e continuare l’attività senza i debiti della vecchia? È legale?”
R: Questa pratica (nota anche come “phoenix company”) è comune ma insidiosa. In teoria, puoi costituire una nuova società (Newco) pulita e trasferirvi l’attività sana (clienti, dipendenti, asset) lasciando i debiti nella vecchia che poi liquidi. Tuttavia ciò è legale solo se avviene a valori di mercato e senza pregiudizio ai creditori. Per esempio, la newco dovrebbe acquistare dalla oldco gli asset (marchio, magazzino, ecc.) pagando un prezzo congruo che serva a pagare i creditori della oldco. Se invece trasferisci di fatto l’attività (porti via i clienti, assorbi i dipendenti) senza corrispettivo, i creditori potrebbero sostenere che c’è stata una cessione d’azienda di fatto e chiedere di dichiararla nulla o di far dichiarare la responsabilità solidale della newco per i debiti ex art. 2560 c.c. Ci sono stati casi in cui i giudici hanno riconosciuto la continuità economica tra old e newco e condannato la seconda a pagare i debiti, specie se stessi amministratori, stessi locali, solo nome cambiato – una simulazione insomma. Quindi sì, puoi aprire una nuova società e rifare il business, la legge non ti impedisce di tornare sul mercato (salvo ti abbiano interdetto per fallimento fraudolento, ipotesi grave). Ma non puoi traslocare l’attività senza pagare nulla ai creditori della vecchia: rischieresti azioni revocatorie (se hai venduto sottoprezzo asset) o addirittura denunce per bancarotta fraudolenta per distrazione (perché hai tolto opportunità di realizzo ai creditori portandoti via l’avviamento). Un approccio legale sarebbe: chiudi la vecchia società dopo aver venduto gli asset alla newco per un prezzo equo (magari quel prezzo l’hai racimolato con un investitore) e impieghi quel prezzo per soddisfare i creditori per quanto possibile. In tal modo, avrai creato la continuità in modo pulito. Se invece fai sparire la vecchia e la nuova rinasce identica, i creditori della vecchia potrebbero citare la nuova come succursale e reclamare il dovuto.
D: “Se la mia società viene liquidata o fallisce, posso essere amministratore di un’altra società in futuro?”
R: In generale sì, la legge non ti preclude di aprire o amministrare altre società se ne liquidi una (volontariamente). Nel fallimento, c’è l’interdizione: per 5 anni dagli organi di società (art. 345 CCII) se sei dichiarato fallito come persona (vale per soci falliti illimitati o imprenditori individuali). Ma se eri amministratore di una srl fallita, non sei interdetto automaticamente (lo saresti solo se condannato per bancarotta poi). Se la liquidi volontariamente con debiti, potresti incorrere in protesti o pregiudizievoli che sporcano la tua reputazione finanziaria, ma nulla di formale ti vieta di rifare l’imprenditore. In caso di reati, se condannato per bancarotta fraudolenta, il tribunale penale può disporre l’interdizione dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi di imprese per 10 anni, quello sì (pena accessoria). Dunque evita i reati e potrai tranquillamente gestire altre società. Considera però la reputazione creditizia: banche e fornitori potrebbero essere diffidenti se vedono che hai alle spalle società chiuse indebitate. Ma legalmente, con una fedina pulita, puoi sempre riprovarci imprenditorialmente.
Queste sono alcune tra le domande più comuni. Naturalmente ogni caso ha le sue specificità e va valutato con un professionista (commercialista o avvocato) per prendere la decisione migliore.
Simulazioni pratiche e casi esemplificativi
Per illustrare come le nozioni fin qui esposte si applicano nella pratica, presentiamo di seguito quattro scenari simulati relativi a diverse tipologie di società in crisi. Si tratta di esempi ipotetici, ma verosimili, che mettono in luce problematiche e soluzioni concrete dal punto di vista del debitore (soci/amministratori).
Caso 1: S.r.l. Alfa – liquidazione volontaria con debiti residuali
S.r.l. Alfa opera nel commercio all’ingrosso. A causa della perdita di un importante cliente e di investimenti errati, accumula €500.000 di debiti (banche €200k garantiti da pegno su magazzino, fornitori €250k, debiti vari €50k) a fronte di un attivo di magazzino €150k e crediti €50k; c’è anche un leasing su automezzi. Il patrimonio netto è negativo (€-300k). I soci (una famiglia) non intendono/soprattutto non possono ripianare la voragine. Decidono per il ritiro volontario: in gennaio 2025 deliberano lo scioglimento e nominano un liquidatore (il commercialista di famiglia). La società entra in liquidazione con questo scenario: attivo stimato €200k, passivo €500k. Il liquidatore comincia a operare: vende il magazzino stock a €120k a un concorrente (valore di realizzo, non ottimo ma rapido), incassa i €50k di crediti (pagando magari un legale per solleciti), e restituisce al leasing gli automezzi (che valgono poco più del debito residuo, quindi si chiude senza attivo). Si ritrova con circa €170k in cassa (detratte spese). Come li distribuisce? Per prima cosa, paga la banca detentrice del pegno sul magazzino: poiché aveva pegno su quei beni, deve soddisfarla – il debito verso banca era €180k, ma concorda di pagarle €150k per saldo (la banca prende così l’80% ed evita causa). Rimangono €20k scarsi. I dipendenti erano stati licenziati prima e tutti TFR pagati con ultime risorse liquide pre-liquidazione (avevano privilegio). Restano i fornitori (€250k): con €20k disponibili, il liquidatore opta per un pagamento pro-quota: offre circa l’8% a ciascun fornitore. Contatta i 30 fornitori proporzionalmente: alcuni ringraziano dell’obolo (meglio di niente), altri non rispondono. Dopo aver effettuato questi pagamenti, la cassa va a zero. La liquidazione di fatto è finita: il liquidatore predispone un bilancio finale dove risultano €0 di attivo e €230k di debiti chirografari non pagati. Lo comunica ai soci e deposita per la cancellazione nell’ottobre 2025. La società Alfa è cancellata. Conseguenze: i creditori fornitori insoddisfatti non possono più colpire la società (che non esiste); alcuni valutano di fare istanza di fallimento, ma passati già 10 mesi dalla chiusura e visti i costi, rinunciano. Uno, più ostinato, entro l’anno presenta istanza: tuttavia il tribunale la rigetta ritenendo “mancanza di attivo recuperabile e spese eccessive rispetto ai benefici”. Quindi niente fallimento. I creditori restano con le perdite. Possono fare causa al liquidatore? Egli però ha rispettato proporzioni e privilegi, quindi difficilmente avrebbero successo. Possono agire verso i soci? Soci non hanno avuto nulla indietro, anzi hanno perso il capitale, dunque no. Dunque di fatto quei creditori devono portare a perdita i loro crediti. I soci Alfa hanno evitato un fallimento pubblico, anche se ovviamente il danno reputazionale nel settore c’è stato. Per loro, non avendo garanzie personali, la faccenda è chiusa (resta l’amarezza e l’accesso al credito compromesso per un po’). Questo caso mostra una liquidazione volontaria tipica: i creditori chirografari subiscono un sacrificio. Dal lato legale, il liquidatore non ha incorsi problemi: ha pagato la banca col pegno (dovuto), gli altri pro-rata (il fatto che alcuni non abbiano ricevuto nulla perché sotto soglie minime può essere trascurabile). Nessun creditore ha elementi per far causa (avrebbe dovuto provare che vendendo diversamente i beni avrebbero preso di più, ma sembra difficile). Non c’è stato fallimento, quindi niente bancarotta, niente curatore. I dipendenti magari avrebbero preferito il fallimento per il fondo INPS, ma in questo caso erano stati tutti saldati dal datore prima di chiudere (con sforzo finale dei soci che avevano messo €20k personali per chiudere buste paga). Dunque scenario concluso “bonariamente”.
Caso 2: S.r.l. Beta – cessione a terzi e continuazione attività
S.r.l. Beta è una piccola azienda manifatturiera (15 dipendenti) con prodotti innovativi, ma travolta da difficoltà finanziarie. Ha debiti totali €800k (banche €300k con garanzie personali dei soci su metà, fornitori €200k, fisco €100k, leasing macchinari €100k, altro €100k), attivo stimato €600k (macchinari €200k, brevetti €50k, magazzino €100k, crediti €150k, cassa quasi zero). I soci sono ingegneri senza altre risorse. Credono però nel prodotto e vorrebbero salvare l’attività, anche a costo di perdere la società. Arriva un investitore industriale (Gamma S.p.A.) interessato al know-how e al mercato di Beta. Gamma propone: “Vi rilevo l’intera società Beta, metto soldi per risanarla, però vi chiedo di fare pulizia di alcuni debiti”. Dopo trattative, si trova l’accordo:
- Gamma S.p.A. acquista dalle persone fisiche socie il 100% delle quote di Beta per il prezzo simbolico di 1 € (Beta vale zero, è insolvente).
- Prima del closing, i soci attuali convincono alcuni creditori a stralciare: la banca acconsente a rinunciare alle garanzie personali dei soci in cambio del pagamento immediato di €150k (che Gamma fornirà a Beta subito dopo l’acquisizione); alcuni fornitori strategici accettano 50% dei loro crediti se Gamma li mantiene come fornitori futuri (fidandosi perché Gamma è grosso); il Fisco è invitato a una rateazione (che sarà poi curata dal nuovo management).
- Gamma si impegna a versare in Beta €300k freschi dopo l’acquisizione, di cui €150k per pagare la banca come detto e il resto per liquidità di esercizio e pagamento stipendi arretrati.
- I soci originari escono e restano come consulenti per 1 anno per passaggio consegne, ma non più amministratori.
Si formalizza nel marzo 2025: atto notarile di cessione quote a 1 €, nuovo amministratore nominato da Gamma, soci vecchi escono. Gamma versa subito €300k in Beta (aumentando capitale). Beta paga €150k alla banca (che esce soddisfatta a metà ma col nuovo debitore solido preferisce perdere metà e chiudere pratica). I fornitori strategici ricevono il 50% come pattuito (Gamma li pagherà regolarmente d’ora in poi sulle nuove forniture). I dipendenti, rassicurati, restano in organico (nessun licenziamento). Dopo 1 anno, Beta S.r.l. è risanata: Gamma l’ha fusa in sé stessa e ha assorbito il ramo produttivo. I debiti residui (qualche fornitore minore, un pezzo di debito fiscale) li ha gradualmente saldati. Conseguenze per i soci originari: hanno perso la società (non sono più proprietari), ma hanno evitato fallimento e responsabilità: le loro garanzie personali sono state liberate come promesso (anche se una banca più piccola dove avevano un altro affidamento non ha liberato le fideiussioni, ma Gamma ha comunque ripagato quei debiti entro pochi mesi). Non hanno guadagnato nulla (1 €), però la loro creatura imprenditoriale continua all’interno di Gamma. Nessuna azione contro di loro: i creditori sono stati soddisfatti in buona parte e la società non è fallita. Questo scenario mostra una cessione positiva: un acquirente solvibile e competente rileva l’azienda e la risana. I creditori di Beta hanno accettato sacrifici, ma confidando nella serietà di Gamma li hanno formalizzati (accordi transattivi scritti). L’operazione si configura come concordato stragiudiziale: di fatto, con l’intervento di Gamma, Beta ha evitato il fallimento. Dal punto di vista giuridico, nessuno ha trasgredito norme: l’azienda è stata venduta al suo valore (zero) ma accompagnata da iniezione di capitali. Non c’è materia per bancarotta (non c’è fallimento e non c’è distrazione di beni, semmai ingresso di risorse). I soci originari hanno visto la loro partecipazione azzerarsi, ma hanno salvato la propria reputazione: infatti Beta non lasciando debiti in giro, loro potranno anche in futuro fare impresa (magari come divisione di Gamma o altrove) senza stigma. Spesso casi del genere avvengono tramite la procedura di composizione negoziata: un esperto trova un investitore e costruisce l’accordo; qui l’abbiamo mostrato extragiudiziale, ma il concetto è simile.
Caso 3: SNC Delta – soci illimitatamente responsabili in difficoltà personale
Delta SNC è un’impresa edile di due fratelli. Un grosso cantiere è andato male e Delta ha insolvenze per €400k (fornitori materiali e subappalti) oltre a debiti bancari €100k (fidi e mutuo) garantiti dai fratelli, e debiti verso dipendenti €50k (TFR e ultime mensilità). L’attivo è modesto: attrezzature valore €50k e crediti difficili €80k. I due fratelli hanno immobili personali su cui gravano ipoteche di banche e alcuni decreti ingiuntivi di fornitori. La società è di fatto ferma e priva di liquidità. In questo scenario, liquidare volontariamente la SNC non porterebbe alcun beneficio ai soci: i creditori continuerebbero a inseguirli personalmente anche dopo. E un fallimento porterebbe al fallimento personale di entrambi, con possibile liquidazione delle loro case. Decidono di cercare un accordo di ristrutturazione del debito personale: con l’aiuto di un advisor, propongono ai creditori un piano di saldo al 30% utilizzando un mutuo ipotecario di consolidamento sui loro immobili (per €150k). Purtroppo alcuni creditori rifiutano. Allora percorrono la via giudiziale: i fratelli presentano istanza di liquidazione controllata del sovraindebitato (procedura prevista dal CCII per piccoli imprenditori non fallibili). Il tribunale apre la procedura nel 2025, nominando un liquidatore giudiziale. La SNC Delta viene messa in liquidazione nell’ambito di questa procedura: il liquidatore raccoglie le attrezzature, vende tutto all’asta (ricava €40k), e i patrimoni personali dei soci vengono aggrediti ordinatamente (vendute due auto, iscritta ipoteca sulle case per eventualmente venderle se necessario). Alla fine, grazie anche al ricavato di alcuni crediti incassati, i creditori ottengono circa il 35% dei loro crediti. I due ex soci, dopo 3 anni di procedura e avendo cooperato lealmente, ottengono dal giudice l’esdebitazione: vengono liberati dai debiti residui. Ciò consente loro di ripartire da zero (anche se hanno perso alcuni beni). In questo caso, un ritiro volontario classico (chiudere la SNC senza fallo) non avrebbe funzionato perché i soci sarebbero rimasti vincolati. La scelta giusta è stata una procedura che, pur concorsuale, è volontariamente attivata dai debitori per regolare l’insolvenza con effetti anche personali. Nel 2025 queste procedure (ex legge 3/2012) sono entrate nel CCII e rappresentano l’alternativa per chi non può “scaricare” i debiti su una società di capitali. I fratelli Delta hanno sì perso l’impresa (estinta) e pagato una parte di debiti, ma hanno evitato guai peggiori come il pignoramento immediato delle case da parte di fornitori (il liquidatore ha potuto gestire con più calma vendite e magari evitare di vendere le case se non necessario, grazie a ipoteche nuove). Inoltre, dopo esdebitazione, potranno avviare in futuro magari una S.r.l. edile senza i macigni del passato. Per i creditori, il risultato in percentuale non differisce molto dalla liquidazione volontaria che avrebbero potuto fare, ma qui hanno almeno avuto una procedura ordinata e trasparente.
Caso 4: Cooperativa Gamma – ritiro volontario bloccato da autorità
Cooperativa Gamma è una cooperativa di produzione lavoro (30 soci-lavoratori) nel settore pulizie. Ha perso appalti e accumulato perdite per 3 anni. Arriva al 2025 insolvente: debiti €200k (prevalentemente verso banche e fisco), attivo quasi zero (nessun immobile, solo attrezzature obsolete). I soci-lavoratori, rimasti in 10 perché molti hanno lasciato, decidono di sciogliere volontariamente la cooperativa a luglio 2025: l’assemblea delibera lo scioglimento anticipato per impossibilità di proseguire l’oggetto. Nominano un liquidatore interno. Tuttavia, la cooperativa è aderente a Legacoop e vigilata dal Ministero dello Sviluppo Economico: quando depositano il verbale, la Camera di Commercio informa il MiSE. Gli ispettori del Ministero rilevano lo stato di insolvenza grave e, invece di lasciare che proceda la liquidazione volontaria, attivano l’iter di liquidazione coatta amministrativa: con decreto ministeriale, ad ottobre 2025 la cooperativa è posta in LCA, il liquidatore volontario decade e viene nominato un commissario liquidatore ministeriale. Questo commissario forma lo stato passivo, ecc. I soci cooperativa non riceveranno nulla (nessun rimborso quote, e le riserve indivisibili andranno comunque a un Fondo mutualistico, ma qui non c’è attivo da devolvere). I creditori forse recupereranno qualcosa perché il commissario accerterà che alcuni ex-amministratori avevano pagato indebitamente rimborsi spese a soci quando la coop era già in crisi: li citerà per responsabilità. Questo scenario mostra che nelle cooperative spesso l’autonomia decisionale dei soci è limitata in caso di crisi: l’autorità può intervenire per tutelare interessi generali (in coop spesso ci sono soci prestatori di denaro, o fornitori particolari). In sostanza, i soci volevano ritirarsi volontariamente, ma l’ordinamento li ha commissariati. Dal loro punto di vista, essere in LCA o in liquidazione volontaria cambia poco in termini di esiti economici (comunque perdevano tutto), ma evita possibili favoritismi (ad es., i soci avrebbero potuto magari “dimenticare” di insinuare qualche credito di un socio parente per fargli avere un privilegio – con LCA c’è controllo pubblico). I soci lavoratori troveranno impiego altrove. I debiti fiscali e bancari seguiranno la LCA (banche probabilmente incasseranno nulla e dedurranno la perdita). Conclusione: per cooperative rilevanti, l’uscita non è mai totalmente volontaria: c’è un occhio pubblico.
Questi esempi evidenziano come in pratica le scelte di ritiro volontario vanno calibrate sul tipo di società e sulla situazione concreta di attivo/passivo. L’esito può essere più o meno indolore per il debitore: dalla “pulizia” ottenuta nel caso Beta, al sacrificio personale inevitabile nel caso Delta. In ogni caso, la pianificazione e il rispetto delle regole (priorità creditori, trasparenza con autorità, atti equilibrati) sono fondamentali per minimizzare i rischi e chiudere la crisi nel modo più dignitoso e definitivo possibile.
Fonti normative e giurisprudenziali citate
- Codice Civile, art. 2484 – Cause di scioglimento delle società di capitali (incluse modifiche D.Lgs. 14/2019, introduzione causa 7-bis liquidazione giudiziale).
- Codice Civile, art. 2495 – Effetti della cancellazione: responsabilità di soci e liquidatori per debiti residui.
- D.Lgs. 14/2019 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza), art. 121 – Soglie d’impresa minore non assoggettabile a liquidazione giudiziale.
- Cassazione Civile, ordinanza n. 521/2020 – Obbligo di istanza di fallimento per liquidatore solo se mancata attivazione ha aggravato il dissesto.
- Cassazione Civile, sentenza n. 12156/2024 – Momento di valutazione dell’insolvenza per società in liquidazione (insolvenza = incapienza attivo per creditori, vista finalità liquidatoria).
- Cassazione Penale, sentenza n. 44663/2021 – Cessione di partecipazioni sociali al valore effettivo non configura bancarotta distrattiva (principio di diritto).
- Cassazione Penale, sentenza n. 42856/2023 – Vendita fittizia di quote sociali intestate al socio non è bancarotta fraudolenta distrattiva (quote non sono beni della società).
- Cassazione Penale, sentenza n. 17807/2025 – Trasferimento di beni aziendali senza corrispettivo integra bancarotta fraudolenta per distrazione; dolo generico sufficiente.
- Tribunale di Roma, sentenza n. 2258/2019 – Omessa istanza di fallimento non è di per sé colposa se non avrebbe migliorato soddisfacimento creditori.
- Legge 178/2020, art. 1, comma 266 – Sospensione fino al 2025 delle norme su perdite di capitale (consente prosecuzione attività nonostante patrimonio netto negativo).
- Legge 208/2015 e L. 197/2022 – Assegnazione agevolata ai soci (richiamata da L. 207/2024 commi 31-36) con imposta sostitutiva 8%.
- R.D. 267/1942, art. 10 (vecchia L.F.) / CCII art. 33 – Fallibilità dell’imprenditore entro 1 anno da cessazione attività/cancellazione.
- Cass. Civ. Sez.I n.8932/2013 – Termine annuale di cui all’art.10 L.F. è limite oggettivo insuperabile per dichiarare fallimento oltre un anno da cancellazione.
- Codice Civile, art. 2500-quinquies – Trasformazione società di persone in capitale: responsabilità illimitata dei soci per obbligazioni antecedenti (salvo liberazione).
- Codice Civile, art. 2312 – Effetti cancellazione società di persone: escussione soci illimitati entro 5 anni.
- Codice Civile, art. 2467 – Postergazione dei finanziamenti dei soci (S.r.l.): rimborso posticipato ai crediti di terzi.
- Codice Civile, artt. 2545-septiesdecies e 2545-terdecies – Scioglimento e insolvenza nelle cooperative: devoluzione patrimonio finale a fondi mutualistici; LCA disposta da autorità di vigilanza.
- D.Lgs. 112/2017, art.14 – Imprese sociali soggette solo a LCA in caso di insolvenza.
- Cassazione Civile, sez. un. n.22474/2016 – Su dolo generico bancarotta fraudolenta patrimoniale (richiamata).
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Conclusione
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